Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

CULTUROPOLI

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

SECONDA PARTE

 

L’ITALIA DELLA DISCULTURA

 

"L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie.

Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

di Antonio Giangrande

CULTUROPOLI

L'ITALIA DELLA DISCULTURA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

 

«Ecco perchè ci sono tanti "coglioni" in giro, se poveretti non hanno nulla da imparare!»

Dr Antonio Giangrande

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA NUOVA IDEOLOGIA.

CERVELLI IN FUGA.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

LA SCUOLA AL FRONTE.

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

ADDIO AL CONGIUNTIVO.

POPULISMO. KITSCH, TRASH E CATTIVO GUSTO.

I NOBEL D’ITALIA.

PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.

ELOGIO DEL PLAGIO. CHI, COME, E PERCHÉ IL “COPIA E INCOLLA” È LA BASE – NASCOSTA – DELLA LETTERATURA.

GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.

BIBLIOGRAFIA ED OSSESSIONE.

LE ULTIME PAROLE FAMOSE: GLI ADDII DEL SUICIDIO. 

ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.

GLI ITALIANI: TRA I POPOLI PIU’ IGNORANTI.

IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

L'ANTIPOLITICA E L'ASTENSIONISMO.

L’ANTIPOLITICA E LE SUE VITTIME. IL PACIFISMO.

IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.

LA LIBERTA'.

LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?

CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!

OWENS: ROOSEVELT PIU’ RAZZISTA DI HITLER.

A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?

RISCRIVERE PER DOMINARE. LA STORIA COME ARMA DEI REGIMI.

BELLA CIAO….UN′ENNESIMO FALSO STORICO.

FEMMINISMO COME DERIVA CULTURALE.

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?

LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.

E’ STATO LA MAFIA!

LEZIONE DI MAFIA.

GLI ANTIFASCISTI MILITANTI? SONO FASCISTI.

SVEGLIATI ITALIA E LAVORA CON IL TURISMO.

IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.

TITOLATI SI’, TITOLATI NO!

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL MONDO DIVISO TRA COLTI ED IGNORANTI.

L’IGNORANZA DELLE PERSONE COLTE.

BENEDETTO SIA ZALONE.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

A PROPOSITO DELLE FIERE-MOSTRE DEL LIBRO E LE BIBLIODIVERSITA’. LA LOBBY ROSSA DELLA CULTURA.

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

GLI INFLUENCER.

GLI INTELLETTUALI ITALIANI. NON SOLO CULTURAME.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

CLAUDIO BAGLIONI E LE SOLITE CANZONETTE.

MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

A COSA SERVONO...

LE FAKE NEWS CHE GIRANO IN RETE.

L’HA DETTO LA TELEVISIONE! LE FAKE NEWS DI STATO.

LA VERITA' E' FALSA.

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

GLI ESTREMISTI DELLE NOSTRE VITE.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

ESSERE LIBERALI OD ESSERE DI SINISTRA?

25 APRILE 2015. 70 ANNI DALLA LIBERAZIONE. L'ALTRA RESISTENZA CONTRO IL RITO DELL'ANTIFASCISMO UN PO’ FASCISTA.

NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!

LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

VA TUTTO BEN MADAMA LA MARCHESA. INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO E LAVAGGIO DEL CERVELLO.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

LIBERTA'. TERMINE VACUO. PATRIA, ORDINE E LEGGE: SLOGAN CHE UNISCE DESTRA E SINISTRA.

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM NON SI TOCCA.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

LE CROCIATE: ORGOGLIO CRISTIANO!

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

IL NATALE COME TRADIZIONE E CULTURA: GENESI ED EVOLUZIONE.

IL TERRORISMO ISLAMICO CHE VIENE DA LONTANO. QUANDO NEW YORK E PARIGI ERAVAMO NOI. 

LA DIFFERENZA TRA RELIGIONI.

INTELLETTUALI A SCARTAMENTO RIDOTTO.

COSA NON VORREMMO PIU' VEDERE IN TV.

COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.

FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.

NEOREALISMO E MODA.

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

PREMIO STREGA ED AUTOCITAZIONI. LO SCRITTORE NON E’ MAI AUTORE.

ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

LA SOTTOCULTURA IDIOTA DELL'ANTIFASCISMO MILITANTE. L'OSTRACISMO ARTISTICO A DANNO DEI MUSSOLINI.

SESSO E CIVILTA’. IL COMUNE SENSO DEL PUDORE: QUANTO E’ COMUNE E QUANTO E’ IMPOSTO?

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

CULTURA, INFORMAZIONE E SOCIETA’. A PROPOSITO DI WIKIPEDIA. L’ENCICLOPEDIA CENSORIA.

SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI.

PROMOZIONE DELL'ITALIA? NO GRAZIE!

PARLIAMO DI PRODOTTI EDITORIALI E LORO DISTRIBUZIONE.

LA CASTA DEGLI EDITORI: LA CENSURA OCCULTA.

PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.

LA TRUFFA DELLE CLASSIFICHE DEI LIBRI.

UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.

SIAE: LA STORIA.

 

 

 

SECONDA PARTE

 

A PROPOSITO DELLE FIERE-MOSTRE DEL LIBRO E LE BIBLIODIVERSITA’. LA LOBBY ROSSA DELLA CULTURA.

Se la lobby rossa della cultura non rappresenta più nessuno, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 11/05/2018, su "Il Giornale". L' incipit è folgorante, con quelle lunghe code ai cancelli, appesantite da controlli lentissimi. Che sarà un successo - quanti saranno alla fine della settimana: 150mila come l'anno scorso, di più? - si capiva già ieri mattina, primo di cinque affollatissimi giorni di carta e di kermesse, tutti a respirare l'aria buona, quella che sa di inchiostro, di cellulosa, di cellulari, tablet, libri, stand, lectio (magistrale quella di apertura, sull'Europa, di Javier Cercas), reading e presentazioni. Signori lettori, vi presentiamo: la 31ª edizione del Salone del libro di Torino, la prima dopo la pace scoppiata fra Lingotto e grandi editori. Alla fine sono tutti qui: mega-gruppi, piccoli, minuscoli. Quest'anno hanno aperto un mini-padiglione supplementare, là in fondo, per non lasciare fuori nessuno. E non mancava nessuno, ieri mattina nella Sala gialla, cerimonia d'apertura del Salone, sempre così impeccabile, organizzato, ricchissimo di appuntamenti, sempre così uguale a se stesso mentre tutto fuori cambia. Dentro, ecco i protagonisti della passerella istituzionale. Inizia Massimiliano Bray, presidente del Salone, e sembra una beffa che il ministro del governo più odiato della seconda Repubblica sia il volto della manifestazione più amata d'Italia. Parla, parla, parla... Nel passaggio più provocatorio evoca il Salone come una «narrazione inclusiva, non divisiva». Cita la Fiera del libro di Teheran, appena conclusa, ma tace che là erano esposti persino i libri anti islam della Fallaci, in nome della non divisione. Qui a Torino, programma alla mano, non esiste un evento/presentazione/ospite che non ricada sotto la cupola dell'unica area politica, senza più voti, che continua a governare la cultura. Leggete (provate, vi prego) i cinque Percorsi giornalieri del Salone. Invitati: Mario Calabresi, Carlo Petrini, Zagrebelsky, Littizzetto, Concita De Gregorio, Augias, Floris, Calabresi (ancora), Odifreddi, Vecchioni, Erri De Luca, Andrea Scanzi (?!), Oscar Farinetti, Ilvo Diamanti, Walter Siti, Gramellini, Calabresi (ancora), Travaglio, Laura Morante, Volo, Saviano, Serena Dandini, Michela Murgia, Michele Serra... Qualcosa fra il colophon di Repubblica, i palinsesti di Raitre e la lista degli ospiti di Otto e mezzo. La linea editoriale del network unico del pensiero: Repubblica-Espresso-Feltrinelli, La7. Un giorno, tutto questo farà parlare. Silenzio, parla Roberto Fico, presidente della Camera a 5 Stelle ma senza cravatta, atto di vera cafoneria. E ben ci sta. Ridevamo delle canottiere di Bossi. La stoffa, sciatta e populista, è la stessa. Viene voglia di alzarsi. Ma lo ascoltiamo: parla di bibliodiversità. Che sarebbe un valore, se vi corrispondesse una pluralità di idee. Il Salone è un'orchestra di cento elementi. Ma suona un'unica nota. Ecco, sul palco, il direttore: Nicola Lagioia, primus fra dieci amici che formano la squadra dei consulenti. Nomi sinistramente noti: Parrella, Culicchia, Carmignani, Bajani, Lipperini... Il pluralismo declinato sull'asse ideologico Fahrenheit-minimum fax- salotti romani-Einaudi Stile libero. Lagioia riedita in pubblico il discorso pubblicato al mattino in forma semi-privata sulla Stampa. Si loda, e imbroda un po'. Presenta un'edizione stellare del Salone, e ha ragione, ma glissa sul fatto che il liquidatore stia mettendo all'asta il marchio del Salone per provare a ripianare il debito della Fondazione del libro, che ammonta, al netto delle code di visitatori, a qualche milione di euro. Dice che l'appuntamento di Torino è il luogo per un «ragionamento comune» per la cultura italiana, il posto giusto per coloro che hanno «il coraggio del non conformismo». La realtà è che il Salone, bellissima fiera, anche del conformismo, va sempre accuratamente a sinistra. Che andrebbe benissimo, se - come è stato fino alle passate edizioni dei dioscuri Picchioni-Ferrero - anche il Paese andasse lì. Ma l'Italia, per politica, voti e costume, va un po' a destra, un po' a Nord, un po' a Sud. Nessuno vede più Raitre, la Bignardi ha fallito, Einaudi vendicchia, Fazio non fa neppure più ascolti record, minimum fax è scavalcata da Sur, e quelli che sfogliano Robinson sono meno dei lettori dei giornali di destra messi insieme. Eppure, il Salone, la più grande manifestazione culturale del Paese (e pubblica: non come il festival di Mantova, che coi finanziamenti degli sponsor privati fa quello che meglio crede) vive in una prorogatio eterna di quel ristretto ceto colto, espressione residuale delle professoresse con le scarpe basse e gli alti ideali democratici. Un gruppo di intellettuali, col lapsus di Pasolini, che non rappresenta più l'Italia, un Paese che è tutto fuorché di sinistra, e che non rappresenta più neppure la sinistra, mai stata così in crisi d'identità. Ma che si (autorap)presenta benissimo. Per il resto, buon Salone a tutti (e da domani, promessa, parliamo solo di libri).

Il libro sul Forteto escluso dal Salone del libro di Torino. La casa editrice del libro "Setta di Stato - Il caso Forteto" non ha ricevuto l'autorizzazione della Regione Toscana a partecipare al Salone del libro di Torino, scrive Francesco Curridori, Domenica 02/04/2017 su "Il Giornale". "La Regione Toscana rimedi alla gaffe e ripensi alla decisione di negare all'editore "AB" la richiesta di portare e presentare al salone del libro di Torino "Setta di Stato - Il caso Forteto" dei giornalisti Francesco Pini e Duccio Tronci. Una scelta grave che ci lascia sconcertati: chiediamo spiegazioni su quale sia il motivo del diniego ricevuto". A chiederlo sono i membri della Commissione d'inchiesta regionale sul Forteto, i consiglieri toscani: Paolo Bambagioni del Pd, Giovanni Donzelli di FdI, il pentastellato Andrea Quartini, il leghista Jacopo Alberti, il forzista Stefano Mugnai e Paolo Sarti di "Sì - Toscana a Sinistra". "Non potremmo in alcun modo accettare ancora una volta una censura su una vicenda che ha così pesantemente scosso la nostra regione", attaccano i consiglieri regionali dopo che la Regione ha negato agli organizzatori di Toscanalibri, l'associazione che avrà un suo spazio al Salone del libro di Torino, che il libro sul caso Forteto sia presentato all'importante manifestazione editoriale. "Dopo la costituzione di parte civile da parte della Regione Toscana, dopo il prezioso lavoro portato avanti dalle due commissioni regionali d'inchiesta e dal Consiglio regionale, non può esserci un solo motivo valido per chiudere le porte ad un libro che aiuta a capire, raccontando fatti e pubblicando documenti ufficiali, cos'è stato Il Forteto: il compito della Regione non può che essere quello di far conoscere a tutti cos'è successo in quella realtà. Non possiamo più accettare alcuna ambiguità - concludono i consiglieri - metteremo in campo tutte le azioni necessarie alla diffusione questa terribile vicenda e far proliferare gli anticorpi per scongiurare che casi del genere possano accadere di nuovo".

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

Per affermare la propria opinione, o essere strumento inconsapevole della volontà del leader, si arriva ad annientare il nemico, nel suo modo di pensare e di essere.

Quanti di noi hanno assistito agli atteggiamenti di prevaricazione di esagitati guastatori durante le fasi delle elezioni, sia durante la campagna elettorale Porta a Porta o nei comizi elettorali dei candidati avversi, sia nei seggi delle votazioni, invasi da rappresentanti di lista a fare propaganda ed a impedire la convalida delle schede opposte.

Quanti di noi hanno assistito alla demonizzazione mediatica degli avversari politici attraverso la stampa partigiana e quanti di noi hanno subito inconsciamente il lavaggio del cervello di un pseudo cultura fatta passare per arte nella saggistica, nel teatro, nel cinema e nei programmi e spettacoli di intrattenimento.

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

Le parole degli agit- prop, scrive Piero Sansonetti il 2 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Molti di voi non sapranno neanche che vuol dire quella parolina che ho scritto nel titolo: «agitprop». Era il modo nel quale, nel partito comunista, si chiamavano gli attivisti che si occupavano delle campagne elettorali e in genere dell’attività di propaganda del partito. Agit- prop era l’abbreviazione di “agitazione e propaganda”, e “agitazione e propaganda” era la denominazione di un dipartimento, molto importante, che aveva una sua struttura nazionale e poi nelle singole regioni, nei Comuni, e in tutte le sezioni di partito. Il dirigente che aveva il compito di coordinare questo dipartimento era uno dei personaggi che più contavano nel partito. I capi nazionali degli agit- prop sono stati nomi molto famosi nel Pci, a partire da Amendola e Pajetta e in tempi più recenti il giovanissimo Veltroni. Mi è venuto in mente questo termine perché mi sembra che torni attuale. Questa campagna elettorale ricorda un po’ le origini, gli anni 40 e 50. Molta agitazione e molta propaganda. E non nel senso migliore di questi due termini. Tutta la campagna elettorale si è sviluppata su due direttrici: la prima è stata quella del fango sugli avversari, azione condotta con la partecipazione attiva, o addirittura sotto la guida di alcuni giornali. La seconda, quella della presentazione di programmi, o addirittura di risultati, del tutto improbabili o forse anche impossibili. Proviamo a dare un’occhiata alle parole chiave di questa campagna elettorale.

Cinque Stelle. Il partito nuovo, o se volete il movimento, non ha dato grande importanza al suo programma elettorale. Che in buona parte, peraltro, ha copiato un po’ dal Pd, un po’ da Wikipedia, un po’ dai giornali. L’unica proposta comprensibile è stata il reddito minimo garantito, ma i 5 Stelle non hanno spiegato come renderlo possibile, anche perché il reddito minimo è immaginabile solo aumentando la pressione fiscale, e questa è una cosa che – salvo la Bonino – nessuno osa prospettare. I Cinque Stelle hanno puntato tutto sulla squadra di governo. Che hanno presentato ieri, cioè quasi alla fine della battaglia, ed è composta interamente da nomi assolutamente sconosciuti all’elettorato (e non solo) tranne un nuotatore un po’ più famoso degli altri. Il problema però non è la qualità della squadra (che nessuno, nemmeno Di Maio, è in grado di valutare) ma la assoluta certezza che nessuno, o quasi nessuno, di quei nomi farà parte del futuro governo. Per la semplice ragione che il futuro governo sarà di coalizione e dunque andrà negoziato da vari partiti e i nomi dei ministri dovranno rappresentare diversi partiti. Compresi, eventualmente, i 5 Stelle. Diciamo pure che anche questa trovata della squadra di governo è un po’ una presa in giro. La squadra di governo la si può presentare in un sistema politico presidenziale, come quello americano. Non certo in un paese dove Costituzione e legge elettorale prevedono che sia il Presidente della Repubblica a scegliere il premier e a concordare con lui una coalizione in grado di sostenerlo.

Inciucio. La seconda grande bugia. Che accomuna tutti. Tutti dicono: l’inciucio mai. Inciucio – lo abbiamo scritto qualche settimana fa – è un modo dispregiativo per indicare un’intesa politica tra forze distinte. Cioè è la base della democrazia parlamentare italiana. L’inciucio fu inaugurato nel 1943, dopo l’armistizio, da democristiani, socialisti, comunisti e liberali, e poi è proseguito senza soluzione di continuità, escluso il breve periodo del bipolarismo, nel quale un sistema elettorale maggioritario, o a premio di maggioranza, permise il governo di uno solo dei due schieramenti. La fine del sistema a premio di maggioranza, la sconfitta di Renzi al referendum, e la nascita del tripolarismo, hanno reso di nuovo indispensabile una intesa tra forze diverse, cioè l’inciucio. Tutti i partiti ne sono consapevoli, e tutti fingono di essere fieramente contrari.

Immigrazione. È stato il tema chiave della battaglia politica. I partiti del fronte populista (in particolare la Lega e Fdi, un po’ meno i 5Stelle), ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Il centrodestra moderato è stato costretto, almeno in parte, a inseguire o ad adattarsi. Il centrosinistra ha trattato il tema con più prudenza, ma comunque senza denunciare la falsità del problema. Tanto che, alla vigilia delle elezioni, si è rifiutato di approvare lo Ius Soli, e ancora in questi giorni (per le stesse ragioni, e cioè il timore della propaganda populista) ha rinviato la riforma dell’ordinamento carcerario. Il ritornello dei populisti è stato: «È in corso un’invasione, la quantità di immigrati sta aumentando in modo esponenziale, l’immigrazione porta delinquenza e questo è il motivo dell’aumento continuo della criminalità. Fermiamo l’immigrazione, cacciamo i clandestini, riprendiamoci l’Italia, impediamo la “sostituzione etnica”». Non è vero che è in corso un’invasione, visto che gli immigrati sono ancora largamente al di sotto del 10 per cento della popolazione. L’immigrazione è in aumento ma è assolutamente sotto controllo. Non è vero che la delinquenza è in aumento, anzi da quindici anni è in continua e progressiva diminuzione. Tanto che gli omicidi sono scesi, dalla fine degli anni novanta, dalla cifra di quasi 2000 a meno di 400 all’anno. E non è vero neanche che l’aumento dell’immigrazione aumenta la criminalità. I detenuti stranieri nel 2007 erano il 32 per cento della popolazione carceraria. Oggi sono ancora il 32 per cento, sebbene il numero degli immigrati sia quasi raddoppiato. L’uso della paura dell’immigrato come strumento di campagna elettorale ha prodotto una gigantesca disinformazione di massa. Giornali e Tv si sono sottomessi. Sarà difficilissimo correggere questa disinformazione.

Economia. Di economia si è parlato pochissimo. I partiti di opposizione non ne hanno voluto parlare soprattutto perché i dati ultimi sono positivi per l’economia italiana. Il partito di governo ne ha parlato di sfuggita, forse perché non ha molte proposte concrete per intervenire. Forza Italia è l’unica che si è occupata della questione, ma con la proposta della Flat Tax e cioè di una soluzione che nessun grande paese occidentale ha mai adottato, e che anzi, tutti, hanno considerato irrealizzabile.

La Giustizia. È stata la grande assente. Nessuno osa parlare di giustizia. Lega e 5Stelle hanno in serbo un programma di stretta e di riduzione drastica dello Stato di diritto. Non hanno mai nascosto di considerare lo Stato di diritto un orpello ottocentesco. Però in campagna elettorale hanno evitato di parlarne troppo. Persino Il Fatto ha messo la sordina. Forza Italia e Pd, partiti più garantisti, non hanno trovato il coraggio di porre seriamente la questione sul tappeto, perché temono di perdere voti. Mi fermo qui. Credo di avere spiegato perché questa campagna elettorale mi porta al tempo degli agit-prop. Con una differenza: allora i partiti avevano anche dei programmi politici, ed erano programmi politici alternativi e chiari. Oggi no.

La faida Renzi-D'Alema è l'omicidio-suicidio che ha ucciso gli ex Pci. La sinistra italiana è la più debole d'Europa dopo quella francese: è la vendetta di Baffino, scrive Roberto Scafuri, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Parlandone da vivi, i due s'assomigliavano come gocce d'acqua. Correva la primavera 2009 e in un'accaldata sala di militanti il presidente della Provincia fiorentina, Matteo Renzi, ancora si rivolgeva al «caro Massimo, punto di riferimento del passato, del presente e del futuro». Il caro Massimo, lì da presso, mani giunte a mo' di preghiera, era assorto come inseguendo sfuggenti presagi. Renzi è uno di quei giovani - ebbe a dire benedicendone l'approdo a Palazzo Vecchio - «dei quali ci si può chiedere solo se batterà il record della pista oppure no». Sorrisi, applausi. Ma anche cordialità pelosa: diffidenza a pelle, senza motivo, tra animali che fiutano il pericolo. Il partito (ancora) c'era, la sinistra italiana non era, come oggi, la seconda più debole d'Europa dopo quella francese (studio Cise-Luiss). Che cosa inquietava D'Alema? Gli avevano già parlato di Matteo, il fiorentino. In particolare Lapo Pistelli, che l'aveva portato a Roma come portaborse nel '99, fatto promuovere segretario provinciale e, tre anni dopo, accompagnato nella scalata alla presidenza della Provincia. Qui il capo della segreteria di Matteo sarà Marco Carrai; i suoi cugini Paolo e Leonardo pezzi grossi della ciellina Compagnia delle opere. Ce n'è quanto basta e avanza per alimentare la diffidenza di chiunque, figurarsi D'Alema. Alle primarie per sindaco, nel febbraio '09, il giovanotto ha surclassato Pistelli (40% contro 26), poi ha infierito con un foglio di sfottò lasciatogli sulla porta di casa. L'ambizione sbandierata di Matteo è ciò che stuzzica il vecchio, la mancanza di buon gusto ciò che lo repelle. L'omicidio perfetto di Renzi giungerà a maturazione qualche anno dopo; dopo gli anni buoni da sindaco, quando l'ambizione incontrollabile (più sponsor influenti) suggeriscono che il partito erede della tradizione catto-com può essere scalato. Occorre un «simbolo», il gesto eclatante e dimostrativo, il parricidio che renda dirompente il cambio di stagione. È la nascita della «rottamazione»: D'Alema si vede tirato in ballo a ogni pie' sospinto, sempre più attonito di fronte a quella rottura imprevista delle vigenti regole di bon ton. L'attacco alla classe dirigente berlingueriana è scientifico, ma si concentra molto sul togliattiano D'Alema per salvare il prodiano Veltroni («il più comunista di tutti noi», ha detto di recente Bettini). D'Alema reagisce come elefante ferito. Quando Renzi gli farà lo sgarbo definitivo, facendogli credere prima di poterlo sostenere come commissario alla politica estera Ue per poi umiliarlo nominando l'inesperta Mogherini, l'ex leader è pugnalato al cuore. La vendetta è pietanza fredda, però. Di fronte alle pulsioni suicide di Renzi, plateali durante la roulette russa del referendum, D'Alema torna ad annusare il buon sapore della vendetta. La minoranza bersaniana, dopo anni di derisioni e umiliazioni, è ormai cotta a puntino. Gianni Cuperlo, che ben conosce l'insidiosa persuasività di quel Grillo parlante che li convince uno a uno, non riesce a trattenere la diga. Ultimo dei sedotti Bersani, per il quale l'uscita dalla ditta di una vita è un evento tragico. La sgangherata parabola di Mdp e Leu è sotto i nostri occhi, quella del Pd storia che finalmente s'azzera. Ma Berlusconi dovrebbe ripartirne i meriti dando a Cesare ciò che è di Cesare. Se Renzi ha fatto fuori i comunisti, l'ultimo martire dell'orgoglio comunista non ha esitato a sacrificarsi nel vecchio bunker di Nardò pur di vedere l'usurpatore schiacciato dal macigno del 18% dei voti. Per poi cadere a sua volta trafitto da 10.552 schede pietose: il 3,9 per cento. Più che una percentuale, un epitaffio.

La sinistra cadavere, scrive il 5 marzo 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Seguire la maratona Elezioni 2018 di Enrico Mentana a volume alzato è stato superfluo. Si sarebbe rivelato sufficiente osservare i volti del ricco parterre per comprendere con vividezza l’andamento degli exit poll. Già torvi e un po’ scrofolosi per natura, si facevano tesi, poi allarmati, quindi sconsolati, infine sepolcrali. Il pensiero levogiro, antiorario al senno, testimone in diretta della propria morte. Che macabra pagina di televisione verità! E via via che i dati si facevano indiscutibili, i malcapitati sono stati chiamati a riconoscerne il cadavere. Gente che ha sempre capito nulla, per lustri e fino a pochi minuti prima dei risultati elettorali, come Annunziata, Giannini, Sorgi, Cerasa, in diretta a commentare il trapasso delle proprie stesse sentenze. Ma se il piglio di Mentana – in grandissima forma per tutta la nottata, fino a dragare la venustà della Dragotto con aria da stracciamutande emerito – si è mantenuto friccicarello malgrado il cordoglio in studio, il volume è servito per intercettare i flebili aliti dei traumatizzati ospiti. La chiacchiera tremolante di Giannini, fino a ieri sprezzante verso i populismi, intraprende l’operazione di riabilitazione dell’insulto, affrancandolo in «popolarismi»; Marco Damilano, aggrappato a una conversione pro-sistema dei 5Stelle, si dichiara sorpreso dall’avanzare della Lega nelle periferie metropolitane; Sorgi scompare inghiottito dal suo tablet, per poi riemergere con il titolo «Vince Di Maio, Italia ingovernabile». Cazzullo, dall’inflessione sua, ci ricorda dell’esistenza dei mercati, della grande Europa, mentre gli elettori italiani hanno appena risposto con meno Europa e un eloquente sticazzi! dei mercati. Per il bene della stabilità, gli scambisti non vorrebbero si votasse; malauguratamente per loro, una volta ogni tanto anche da noi si va alle urne… e può succedere che un pernacchione elettorale li destabilizzi. Irriverente Benedetto Della Vedova, intervenuto a commentare la sciagura della Bonino, che si vende come coraggioso ambasciatore anti-mainstream. Irresistibile osservare l’Annunziata che prende appunti con il lapis sull’agendina di una disfatta scolpita nella pietra con una verga di boro, e imperterrita commenta con il tono di chi la spiega. Lucia bacchetta addirittura Marine Le Pen, festante su Twitter per una consultazione italiana aculeo nel culo flaccido di Bruxelles, suggerendole di star buona perché trombata a casa propria e aggiungendo: «Ci vorrebbe un po’ di sale in zucca sulle previsioni e chi le fa». Se l’inclemente conduttrice applicasse a se stessa i parametri che riserva agli altri, oggi venderebbe carciofi e zucchine a Osci e Sanniti. Per fortuna arriva Alessandra Sardoni, in diretta dalla sede del Partito Democratico, che sembra balbettare in un regime di quarantena, coraggiosa inviata sulla scena di una terrificante pandemia. «Siamo un grande partito», «A Renzi e alla classe dirigente del PD non c’è alternativa credibile per gli italiani», erano soliti tuonare da quelle stanze e dalle testate assoldatine. Mecojoni! Il Bomba, futuro senatore del Senato che voleva abolire, dopo aver accusato gli avversari di scappare dal confronto, assorbe con il medesimo ardimento il tracollo, arrivando per commentare a caldo la sconfitta con la baldanza di un coniglio palomino. L’indispensabile, la necessaria classe dirigente – dei Gentiloni, dei Minniti, dei Gori, dei Franceschini, dei Rosato, dei Martina, dei Poletti, delle Fedeli – è stata trattata dai votanti come pattume pronto per l’inceneritore. L’eredità culturale dell’assemblea costituente ha uno scatto d’orgoglio solo nel padre nobile del partito, nell’immarcescibile campione della sinistra di governo, Pier Ferdinando Casini, che trionfa disdegnoso nella sua Bologna. Nel frattempo, la marea nera che doveva investire l’Italia, gli inquietanti rigurgiti neofascisti pronti a deflagrare, i temibilissimi blitz di Forza Nuova e Casa Pound raccontati sulla stampa dai GEDI, via radio da Vittorio Zucconi e in tv da Corrado Formigli, stanno sotto l’1%: perché “la realtà è la loro passione”. Di Stefano si vede per la prima volta in un salotto di Mentana, benché in collegamento, e si lamenta di essere stato trascurato dai media durante tutta la campagna elettorale. Risposte piccate in studio, specie da una Lucia molto indispettita. I sobillatori di mestiere che hanno tirato la volata ai propri campioncini di triciclo fino a un traguardo di paracarri, oracoleggiano ora sui futuri scenari, sugli equilibri di domani, sulla temperie a venire, smarcandosi dalla putrefazione con guizzi alla Margheritoni. E sempre indietro come la coda del maiale. In chiusura, un minuto di silenzio per Morti e uguali, come anticipato l’11 febbraio in questi quaderni. Boldrini, Bersani, D’Alema, Grasso… dal regno della pace e della serenità veglieranno sui propri cari.

D’Alema è la causa della crisi Pd. Il Dio della politica lo ha punito, scrive Sergio Carli il 5 marzo 2018 su "Blitz Quotidiano”. D’Alema è la causa principale della crisi del Pd. Il Dio della Politica, o il Dio che atterra e suscita di Manzoni, insomma proprio quel Dio là, l’ha severamente e giustamente punito. La punizione divina si è manifestata con la clamorosa sconfitta nel suo collegio di casa, in Puglia, dove non ha raccolto nemmeno il 4 per cento dei voti e è arrivato ultimo in graduatoria. Così cade chi peccò di superbia. E dire che motivò la sua candidatura come la risposta a un imperativo categorico, una richiesta che saliva dalla piazza italiana che lo voleva ancora in politica, impegnato a salvare l’Italia. Quella bella Italia di pseudo sinistra che pensa ai poveri invece che alla crescita, a ridistribuire quello che non è stato accumulato, a proteggere i privilegi della casta, di cui lui e i suoi compagni di partito sono colonna. Come nella Unione Sovietica, che lui frequentò da ragazzo come pioniere. Giusto che questa sinistra, un po’ salottiera e un po’ saccente, sia finita come è finita, sotto il 4 per cento, altro che il 10. Come l’Unione Sovietica, appunto. Fu Massimo D’Alema a fermare Matteo Renzi sulla strada delle riforme. Fu lui il grande vecchio che orchestrò la campana contro il referendum costituzionale, scatenando i suoi agit prop. È stato lui la mente della scissione a sinistra del Pd che è finita come è finita ma che, nel processo, ha trascinato quasi nel baratro il Pd stesso. Il Pd è una forma di miracolo italiana. L’unico caso al mondo di un partito comunista che, attraverso successive mutazioni nonché lo sterminio di avversari a catena (Psi, Dc, Forza Italia e Craxi e Berlusconi), è riuscito a sopravvivere alla caduto del muro di Berlino e ottenere, quasi 30 anni dopo, un bel quasi 20 per cento dei voti. Ma quel vizietto tutto comunista che consentì la vittoria di Franco grazie alla strage operata nella sinistra non comunista, alla fine ha prevalso. Così D’Alema e il suo gregario Pierluigi Bersani non hanno resistito e hanno portato al disastro. C’è una forma di perversità crudele nel Destino dell’ex Pci, manifestazione tangibile della volontà divina. Nella sua prima mutazione, il Pds guidato prima da Achille Occhetto e poi soprattutto da Massimo D’Alema, guidò la lotta a Bettino Craxi e al Psi e alla Dc. Il risultato fu che all’Italia fu riservato il regalo di essere guidata da Silvio Berlusconi. Poi il Pd, nuova mutazione, guidò la guerra senza quartiere a Berlusconi. Il risultato fu Beppe Grillo. In questi 20 anni che tanti hanno definito età Berlusconiana, in realtà l’Italia è diventata sempre più un paese di Socialismo reale. Metà di noi non pagano tasse, non perché evasori ma perché esonerati dalla legge. La propaganda pauperistica del Pd, accompagnata dai disastrosi errori di Mario Monti e l’inefficacia delle sue poche iniziative positive (pensate al ritardo biblico dei pagamenti della PA) hanno fornito argomenti e brodo di cultura alla protesta grillina. Se non sarà ripescato per qualche miracolosa procedura. D’Alema finalmente uscirà di scena. Finalmente, ma forse troppo tardi.

Agit-Prop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Agitprop è l'acronimo di отдел агитации и пропаганды (otdel agitatsii i propagandy), ossia Dipartimento per l'agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale e regionale del Partito comunista dell'Unione sovietica il quale fu in seguito rinominato «Dipartimento ideologico». Nella lingua russa il termine «propaganda» non presentava nessuna connotazione negativa, come in francese o inglese, significava «diffusione, disseminazione, d'idee ». Attività e obbiettivi dell'Agitprop erano diffondere idee del marxismo-leninismo, e spiegazioni della politica attuata dal partito unico, oltre che in differenti contesti diffondere tutti i tipi di saperi utili, come per esempio le metodologie agronome. L'«agitazione» consisteva invece nello spingere le persone ad agire conformemente alle progettualità d'azione dei dirigenti sovietici.

Forme. Durante la Guerra civile russa l'Agitprop ha assunto diverse forme:

La censura della stampa: la strategia bolscevica fin dall'inizio è stata quella di introdurre la censura nel primo mezzo di comunicazione per importanza, ovvero il giornale. Il governo provvisorio, nato dalla rivoluzione di marzo contro il regime zarista, abolì la pratica secolare della censura della stampa. Questo creò dei giornali gratuiti, che sono sopravvissuti con il loro proprio reddito.

La rete di agitazione orale: la leadership bolscevica capì che per costruire un regime che sarebbe durato, avrebbero avuto bisogno di ottenere il sostegno della popolazione russa contadina. Per farlo, Lenin organizzò una festa comunista che attirò i soldati smobilitati (tra gli altri) ad assumere un'ideologia e un comportamento bolscevico. Questa forma si sviluppò soprattutto nelle zone rurali e isolate della Russia.

L'agitazione di treni e navi: per espandere la portata della rete di agitazione orale, i bolscevichi usarono i mezzi moderni per raggiungere più in profondità la Russia. I treni e le navi effettuarono agitazioni armate di volantini, manifesti e altre varie forme di agitprop. I treni ampliarono la portata di agitazione in Europa orientale, e permisero la creazione di stazioni di agitprop, composte da librerie di materiale di propaganda. I treni furono inoltre dotati di radio e di una propria macchina da stampa, in modo da poter riferire a Mosca il clima politico di una determinata regione, e di ricevere istruzioni su come sfruttare al meglio ogni giorno la propaganda.

Campagna di alfabetizzazione: Lenin capì che, al fine di aumentare l'efficacia della sua propaganda, avrebbe dovuto aumentare il livello culturale del popolo russo, facendo scendere il tasso di analfabetismo.

L'AGIT-PROP. Questa pagina è tratta da: La Turbopolitica, sessant'anni di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia: 1945/2005 (riassunto) di Anna Carla Russo. L’agit-prop (Agitazione e Propaganda). I militanti costituiscono l’esercito dei partiti di massa e le caratteristiche del militante sono la spinta ideologica, dedizione alla causa, rispetto della disciplina interna, ampia disponibilità e proprio su questo si fonda l’organizzazione e la sua presenza sul territorio, vivacità e visibilità. L’attività del militante è molto preziosa, ma non ha un prezzo il militante infatti dedica la sua esistenza alla causa politica ed è sempre attivo in qualsiasi luogo, è l’anima dell’organizzazione e delle associazioni, circoli, polisportive, dopolavori, insomma tutto ciò che coinvolge la vita dell’iscritto. La campagna elettorale per le elezioni del 1948 trasforma i partiti in giganti macchine propagandistiche che coinvolgono migliaia di militanti; la Dc mobilita tutte le province giungendo a 90.  Attivisti; più estesa è la macchina propagandista dei Comitati civici che coinvolgono anche i fedeli arrivando a 300.000 volontari, anche Pci e Psi uniti nel Fronte democratico popolare nel 1948 hanno oltre due milioni di iscritti al partito di Togliatti organizzati in 10.000 sezioni che sovrintendono oltre 52.000 cellule; anche i numeri del Psi sono notevoli, il partito infatti si afferma nel 1946 con oltre quattro milioni e mezzo di voti come secondo partito italiano e primo nel Nord-Italia. Secondo il Pci la crescita politica deve procedere di pari passo con la crescita dell’individuo e con il raggiungimento di un suo maggior livello di istruzione e quindi lo sforzo educativo- organizzativo del partito richiede modalità diverse, tra il 1945 e il 1950 coinvolgono 52.713 partecipanti. Anche per i socialisti e le organizzazioni cattoliche i militanti devono crescere sia nel numero che nella preparazione; nel 1948 i Comitati civici improvvisano un corso per migliaia di volontari e dieci anni dopo nasce l’Unione Nazionale degli Attivisti Civici ossia una rete ben organizzata che nel 1958 raduna a Roma 1500 responsabili di una capillare attività di formazione svolta mediante corsi zonali e rurali. I corsi sono tenuti da Dirigenti della URA Campania che sviluppano argomenti quali: l’antimarxismo; al dottrina sociale della Chiesa: gli enti di Previdenza e Assistenza in Italia e la struttura e l’inserimento nella vita italiana del Comitato Civico. La stessa Azione cattolica intensifica l’opera di apostolato e formazione dando vita in tutta Italia a missioni religioso-sociali i cui responsabili vengono preparati in tre corsi nazionale di aggiornamento. Anche la Dc si occupa di formare i militanti organizzando 31 corsi provinciali; secondo Fanfani i contatti instaurati tramite le sezioni non erano efficaci quanto il colloquio personale, la riunione familiare o il dibattito amichevole al circolo e quindi il contatto personale e l’azione assidua dei militanti ricopriva un ruolo centrale. Alla metà degli anni ’60 i militanti dei due fronti sono coloro che dedicano tempo ed energie all’animazione del partito e aderiscono a un ideale politico applicandosi per la sua realizzazione. Le basi militanti cattolica e comunista differiscono per il significato che attribuiscono alla militanza e nel loro gradi di politicizzazione. Per gli attivisti del Pci la partecipazione militante coinvolge l’intera sfera degli interessi e delle attività individuali; per gli attivisti democristiani l’integrazione con il partito coinvolge solo in parte la vita privata del singolo; il militante comunista basa la sua azione sulla fedeltà al partito e non esistono al di fuori del partito altre autorità se non sovranazionali, mentre l’azione del militante democristiano è sostenuta dalla convinzione di essere l’unico depositario di una verità a cui gli altri si devono convertire e oltre al partito esistono altre sorgenti autoritarie a cui fare riferimento. Ci sono differenze profonde che vedono un Pci più attivo. Anna Carla Russo

Agit-Prop. Scrive Massimo Lizzi il 24 ottobre 2015. Agit-prop: Dipartimento per l’agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale del partito comunista dell’Urss. In russo, dice Wikipedia, propaganda, significa diffusione di idee e di saperi utili, senza la connotazione negativa che ha in francese, inglese e in italiano; una connotazione che credo influenzi molto la percezione di sé dei nostri propagandisti. Agit-prop definisce bene un certo modo di fare opinione e informazione al servizio di un leader, un partito, uno stato, una chiesa, una causa. Fabrizio Rondolino, nel confronto con Marco Travaglio, da Lilli Gruber, ha definito agit-prop il Fatto Quotidiano, giornale allarmista per una democrazia sempre messa in pericolo e per una politica sempre corrotta e impunita. Ha ragione. I toni del Fatto erano, secondo me, adeguati contro Silvio Berlusconi, non solo capo, ma padrone del centrodestra, non solo leader e premier, ma padrone della TV commerciale, disposto a commettere reati, ad usare la politica per tutelarsi da inchieste e processi, a delegittimare la magistratura e la stampa. Oltre e dopo Berlusconi, il Fatto si è rivelato monocorde. Stessi toni nei confronti dei leader del centrosinistra e dei successori al governo del cavaliere. Toni che consistono nel rappresentare i politici avversari come dei disonesti o degli imbecilli, o entrambi. Più la simpatia per Beppe Grillo. Agit-prop definisce bene anche il giornalismo di Fabrizio Rondolino. Poco importa che abbia cambiato riferimenti nel corso della sua carriera professionale, da D’Alema, a Mediaset, al Giornale, ad Europa e ora all’Unità a sostegno di Renzi, perché si può cambiare idea o mantenere la stessa idea e vederla di volta in volta incarnata in soggetti diversi. Conta lo stile che si mantiene uguale: l’enfasi con cui sostiene il suo leader, la violenza con cui contrasta gli avversari del suo leader. Tweet oltre il limite della provocazione contro i meridionali, perché il rapporto Svimez mette in difficoltà il governo, o contro le insegnanti, per le proteste contro la riforma della scuola; un blogper bastonare la minoranza PD; una rubrica sull’Unità per dileggiare il Fatto tutti i giorni. Anche Rondolino in fondo dice dei suoi avversari che sono dei disonesti o degli imbecilli. A me piace il conflitto, lo scontro, la polemica, però resto perplesso di fronte ad un modo di confliggere che nega alla controparte rispetto, autorevolezza, valore, e conduce una dissacrazione totale e permanente nei confronti di chiunque sia fuori linea: politici, giornalisti, magistrati, costituzionalisti, intellettuali. Lilli Gruber ha chiesto conto a Marco Travaglio di una didascalia molto evidente a lato di una foto di Maria Elena Boschi, pubblicata sul Fatto. “La scollatura di Maria Elena Boschi è sempre tollerata. Magari non il giorno della legge che porta il suo nome e stravolge la Costituzione”. Travaglio non ha saputo darne una giustificazione sensata e ha riproposto il solito ritornello, per cui non si può criticare una donna senza essere accusati di misoginia, per poi aggiungere che se una donna si veste in un certo modo, non deve lamentarsi dei commenti che riceve. Come se la critica ad una scollatura sia pertinente con la critica all’attività di una donna in politica e come se l’abbigliamento di una donna sia di certo concepito per compiacere lo sguardo maschile, sempre autorizzato a commentare, anche a sproposito. Rondolino ha paragonato Travaglio ai personaggi di Lino Banfi, che guardano nelle scollature, come a dargli dello sfigato, ma quella didascalia per la quale Lillì Gruber ha manifestato il suo fastidio, non è solo sfigata, è anche molesta e viene pubblicata su un giornale che ha nel sessismo il suo più importante punto debole.

ItaliaOggi. Numero 231 pag. 6 del 29/09/2009. Diego Gabutti: Non è il pluralismo che riesce a garantire l'obiettività. L'opinione pubblica, cara a tutti, è stata liquidata col colpo alla nuca della propaganda. Non è libertà di stampa e d'opinione, e non è neppure disinformazione (ci mancherebbe) ma pura e semplice indifferenza per la realtà, quella che ha corso da noi, nell'Italia delle risse da pollaio tra direttori di giornale, del conflitto d'interesse e di Michele Santoro che, credendosi un santo, si porta in processione da solo (i ceri li paga Pantalone). È una libertà di stampa in stile agit-prop: votata, in via esclusiva, all'agitazione e alla propaganda. Apposta è stata coniata l'espressione «pluralismo»: voce da dizionario neolinguistico se ce n'è mai stata una. Con «pluralismo», parola rotonda, non s'intende l'obiettività famosa (sempre che esista e c'è da dubitarne). Il «pluralismo dell'informazione» non garantisce l'informazione ma soltanto il «pluralismo». Vale a dire unicamente il diritto, assicurato a tutte le parti politiche, d'esprimersi liberamente e senza rete attraverso stampa e tivù. Non è in questione, col «pluralismo», la qualità dell'informazione, se cioè l'informazione sia attendibile e non manipolata, ovvero falsa o vera, ma soltanto la sua spartizione, affinché a tutte i racket politici sia riconosciuto il privilegio di lanciare messaggi a proprio vantaggio. Come in una satira illuminista, la libertà di stampa s'identifica con la libertà di dedicarsi anima e corpo alla propaganda: una specie d'otto per mille da pagare a tutte le chiese, sia a Bruno Vespa che a Marco Travaglio. È un concetto stravagante, ma più ancora grottesco e deforme: il «pluralismo» complicato e trapezistico sta alla libertà di stampa propriamente detta come la donna barbuta e l'uomo con due teste del luna park stanno a Naomi Campbell e a Brad Pitt. Non allarga il raggio delle opinioni ma è un guinzaglio corto che lascia campo libero soltanto alle idee fisse. Attraverso il «pluralismo» si stabilisce inoltre il principio dadaista che la sola informazione che conta è quella politica. Tutto il resto è pattume e tempo sprecato: l'occhio del giornalista, sempre più addomesticato e deferente, s'illumina soltanto quando il discorso finalmente cade sulle dichiarazioni del capopartito o sulle paturnie dell'opinion maker, cioè sul niente. È in onore del niente che da noi si esaltano le virtù del «pluralismo». Se ne vantano i meriti, lo si loda, e presto forse lo si canterà negli stadi sulle note dell'Inno di Mameli, o di Va' pensiero, come se davvero l'opinione pubblica fosse la somma di due o più opinioni private, utili a questo o quel potentato economico, a questa o quella segreteria di partito. Ascoltate con pazienza tutte le campane, ci dicono i maestri di «pluralismo», quindi fatevi un'opinione vostra, scegliendo l'una o l'altra tra quelle che vi abbiamo suonato tra capo e collo, nella presunzione che non ci sia altra opinione oltre a quelle scampanate per lungo e per largo dai signori della politica e dell'economia. Suprema virtù dell'informazione è diventata così l'equidistanza: l'idea, cioè, che il buon giornalismo illustri senza prendere partito tutte le opinioni lecite, e che non ne abbia mai una propria, diversa da quelle angelicate. In ciò consisterebbe, secondo chi se ne vanta interprete e campione, l'opinione pubblica famosa, il cui fantasma viene evocato ogni giorno (esclusivamente per amore della frase a effetto) proprio da chi l'ha liquidata col colpo alla nuca della propaganda e dell'agitazione di parte e di partito: gl'intellettuali snob che celebrano messa nelle diverse parrocchie ideologiche, le star miliardarie dei talk show, i fogli di destra e di sinistra che hanno preso a modello la «Pravda» (e, per non farsi mancare niente, anche la stampa scandalistica inglese).

Il falso allarme antifascismo: l'onda nera è una pozzanghera, scrive Francesco Maria Del Vigo, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Più che un'onda alla fine si è capito che era una pozzanghera. Quella nera. Vi ricordate la campagna ossessiva che per quasi un anno ci ha tambureggiato nelle orecchie? «All'armi tornano i fascisti!». Giornali e media di sinistra avevano scoperto un filone sempreverde, garanzia di perenne polemica: cioè terrorizzare l'opinione pubblica convincendola del ritorno delle squadracce di Benito Mussolini. Ora, per smontare questa fake news, sarebbe bastato un po' di buon senso. Non sembra che negli ultimi anni si siano impennate le vendite di orbace, fez, manganelli e olio di ricino. Certo, come coraggiosamente svelato da Repubblica, in Veneto c'era un bagnino che aveva tappezzato il suo stabilimento di cimeli (di pessimo gusto) del Ventennio. Ma anche in questo caso il buonsenso non è stato reperito. Fino a quando un giudice ha derubricato l'episodio all'innocua categoria del folclore. E poi, decine e decine di accorati articoli sull'irresistibile ascesa delle tartarughe di Casapound e sui camerati di Forza Nuova. Sociologi e psicologi in campo per spiegare questo ritorno al passato: disagio sociale, periferie, mancata scolarizzazione, emarginazione. Persino la stampa estera - abbindolata da quella nostrana - si era interessata allo strano morbo passatista che sembrava aver infettato lo Stivale, nella memoria del celeberrimo portatore di stivali rigorosamente neri. Ecco, ora possiamo dire che dove non è arrivato il buonsenso sono arrivate le urne. Perché se ci fosse stata una proporzione tra lo spazio mediatico concesso al «pericolo fascista» e il successo elettorale dello stesso, Casapound sarebbe dovuta essere almeno il terzo partito in Parlamento e Simone Di Stefano avrebbe dovuto stappare bottiglie di autarchico prosecco. E invece, la maiuscola deriva mussoliniana si è scoperta soffrire di nanismo. Con il suo 0,9 per cento di preferenze raccolte, Casa Pound smonta la più grande balla della campagna elettorale. Una manciata di mani tese si sono abbassate per infilare la loro scheda nell'urna. Si sgonfia e precipita l'aerostato, pompato ad arte, della marea nera. Il ritorno del fascismo era solo un maldestro tentativo di tenere insieme una sinistra fratturata e scomposta. Il babau non esiste. O, quanto meno, esiste ma non è certo una marea. Si è trattato solo di un procurato allarme. Il paradosso è che a questo giro non solo non sono entrati in Parlamento i nipotini del Duce, ma non è entrato nemmeno un partito che porti la parola sinistra nel nome e nella ragione sociale. Uno scherzo della storia. Un bello scherzo.

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

Dr. Facebook e Mr. Hide, scrive il 24 marzo 2018 Roberto Sommella (Direttore Relazioni Esterne Autorità Antitrust, fondatore de La Nuova Europa) su "Il Corriere del Giorno". Le relazioni digitali sarebbero quindi “legate a una minore depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione alla propria vita”. Quando su Facebook si ricordano i 50 milioni di morti della seconda guerra mondiale e qualcuno grida alla propaganda invece di ripassare la storia, emerge con nettezza qual è il vero problema dell’abuso dei social network: la perdita della memoria collettiva e l’avvento di un nuovo senso delle cose.  C’entra poco per chi si vota e come si può essere influenzati dall’uso distorto dei dati personali che si regalano ogni secondo alla rete. È stato ormai dimostrato come il web amplifichi i propri pregiudizi, piuttosto che sfatarli. Se uno nasce trumpiano difficilmente diventa democratico a colpi di “like”. Forse va più volentieri alle urne, ma non cambia idea. Piuttosto le ultimissime ricerche in questo campo del mondo di mezzo, tra il reale e il virtuale, si sono concentrate sulla modifica della percezione di se stessi, un aspetto molto più importante perché costituisce la base della società in tutte le manifestazioni della vita quotidiana. Per questo, fatte le dovute verifiche sul reale utilizzo dei 50 milioni di profili effettuato dalla Cambridge Analytica, che avrebbe influenzato le elezioni americane, la Brexit, forse anche le consultazioni italiane, e incassate le previste scuse del patron del gigante blu, Mark Zuckerberg, terrorizzato di veder sgonfiare il suo mondo dorato a colpi di ”delete”, occorre spostare il tema su almeno tre piani, relativi alla riservatezza dei propri profili, agli aspetti psicanalitici e a quelli economici.

Dal punto di vista della privacy, come ha sottolineato un esperto del settore quale Claudio Giua, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, il nodo da affrontare e sciogliere è la mancata applicazione da parte di Facebook di adeguate misure di sicurezza emersa dalla vicenda, “che nulla ha a che fare con la completezza finanche eccessiva dei dati personali raccolti”. C’è da chiedersi se a ribaltare la situazione basterà l’applicazione, prevista per il 25 maggio, della GDPR, la General Data Protection Regulation, il complesso di norme messe a punto dall’Unione Europea al fine di garantire un quadro entro il quale i dati degli utenti siano immagazzinati in modalità corrette e trattati nel rispetto della volontà delle parti coinvolte. Il regolamento comunitario rafforza le informative per la raccolta dei consensi, limita il trattamento automatizzato dei dati personali, stabilisce nuovi criteri sul loro trasferimento fuori dell’Unione e, soprattutto, colpisce le violazioni. In sostanza pone le basi per il riconoscimento di una sorta di diritto d’autore sui Big Data. Sarebbe un passo decisivo, perché risulta difficile accusare qualcuno di aver utilizzato la propria auto come un taxi, intascando i profitti, senza poter dimostrare la proprietà del mezzo. È proprio quello che sta accadendo con il “caso Datagate”, che potrebbe risolversi in un nulla di fatto e solo qualche scossone in borsa. Se davvero passerà una simile interpretazione, per la prima volta, queste norme sulla tutela dei dati personali nell’Unione Europea, che ha progettato anche una web tax sul fatturato, saranno pienamente valide anche per chi ha sede extracomunitaria, come Facebook, Google, Twitter, Amazon, Apple, cui risulterà più difficile eludere le responsabilità finora solo formalmente assunte nei confronti degli utenti.

Per quanto riguarda il secondo punto di vista che si deve affrontare, viene in aiuto una recentissima pubblicazione di una neuro scienziata, ricercatrice al Lincoln College dell’Università di Oxford, Susan Grenfield. In “Cambiamento mentale” appena tradotto in italiano, questa baronessa premiata con la bellezza di 31 lauree honoris causa in mezzo mondo, esamina come le tecnologie digitali stiano modificando il cervello. E a proposito dei social network, Grenfield scrive: ‘‘gli utilizzatori di Facebook sono più soddisfatti delle proprie vite quando pensano che i propri amici di Facebook siano un pubblico personale a cui trasmettere unilateralmente informazioni, rispetto a quando hanno scambi reciproci o più relazioni offline con contatti ottenuti online”.

Le relazioni digitali sarebbero quindi “legate a una minore depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione alla propria vita”. Esattamente quello che intendeva Zuckerberg quando stilò il suo Manifesto, dove parlava della possibilità di governare gli effetti nefasti della globalizzazione attraverso la rete, esaltando le relazioni personalivirtuali: “Tutte le soluzioni non arriveranno solo da Facebook ma noi credo che potremo giocare un ruolo”. Un po’ quello che temeva George Orwell in 1984. Il problema è capire che ruolo ha la rete nei disturbi della personalità.

Nel campo della salute mentale, secondo lo psichiatra Massimo Ammaniti, si tende a valorizzare l’uso dei Big Data in quanto offrono nuove opportunità per la ricerca data, l’ampiezza sconfinata dei campioni, ma allo stesso tempo vengono sollevate perplessità sulla “veracity” e sulla “unreliability” delle informazioni provenienti da varie fonti. Riguardo alla “veracity”, la “veridicità”, ci si chiede se i dati raccolti senza una prospettiva di ricerca possano essere utilizzabili. Avere un valore in quanto fonte di informazioni rilevanti come pesa sull’immagine di sé e sulla propria autostima?

Non ci si valuta come persona, ma come “informant” che serve al mercato, non ci si valuta per quello che si è ma per quello che ognuno vale. Quando si entra in un data base fornendo le proprie informazioni personali – per esempio come quello di Cambridge Analytica – si accede a un universo di categorie che verranno definite. Forse ci si potrà chiedere che uso verrà fatto delle informazioni che ci riguardano e chi saranno coloro che utilizzeranno questi dati per pianificare le nostre vite. Può prendere corpo uno scenario appunto orwelliano, un mondo distopico, in cui si è costretti a vivere dove viene meno il senso agente di sé perché qualcun altro decide del nostro futuro senza che ne abbiamo consapevolezza. In campo psichiatrico per descrivere l’esperienza di spersonalizzazione vissuta dai malati mentali si è fatto riferimento al concetto di “pseudo comunità paranoide”, nella quale ci si sente preda di cospirazioni e raggiri senza sapere chi siano gli attori e i protagonisti, per cui è impossibile riuscire ad orientarsi e difendersi. Un articolo dell’American Journal of Epidemiology, citato in un’inchiesta della London Review of Books, ha sostenuto che a un aumento dell’1% dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti corrisponde un peggioramento dal 5 all’8% della salute mentale. Difficile pensare che tutte queste informazioni possano servire a sovvertire i regimi democratici, magari si vende più pubblicità.

La domanda più pragmatica da porsi è perciò un’altra. Se cambia la personalità usando internet, cambiano anche le scelte commerciali?

Questa è la terza frontiera che si deve analizzare. Oggi si conosce cosa accade in sessanta secondi sul web. In un giro di lancette, si effettuano 900.000 login su Facebook, si inviano 452.000 “cinguettii” su Twitter, si vedono 4,1 milioni di video su YouTube, si effettuano 3,5 milioni di ricerche su Google, si postano 1,8 milioni di foto su Snapchat, si inviano 16 milioni di messaggi.

I calcoli del World Economic Forum fanno riflettere ma non dicono quanto di se stessi si lascia nel momento in cui si riversano nell’agorà digitale inclinazioni, paure, desideri. Una risposta l’ha fornita proprio l’ex socio di Mark Zuckerberg, Sean Parker, ben prima che scoppiasse il Datagate: Facebook sarebbe un loop di “validazione sociale basato su una vulnerabilità psicologica umana che cambia letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli altri’‘. Proprio quello che sostengono luminari come Grenfield e Ammaniti. È del tutto evidente che non esiste quindi soltanto il problema di come trattare e proteggere i dati personali ma anche di valutarne a questo punto l’affidabilità e la veridicità in tutti i gesti quotidiani. Quando si acquista un bene e si viene profilati, quando si esprime un parere e ci si sottopone al giudizio del pubblico virtuale, quando si esercita la massima espressione delle libertà personali in democrazia, il voto. Se dietro a tutte queste manifestazioni c’è ormai una sagoma sbiadita di un’identità, qualcosa la cui verosimiglianza è a rischio, il lavoro controverso e criticato di Cambridge Analytica e di chissà quante altre società, diventa solido come un castello di carte. La fake news saremo noi.

Ma Cambridge Analytica e Facebook non hanno eletto Trump. Le manipolazioni e l'uso dei dati del social non è detto siano così efficaci politicamente. E non dovrebbero diventare un alibi per le difficoltà elettorali del liberalismo e dei difensori delle società aperte, scrive Luigi Gavazzi il 21 marzo 2018 su "Panorama". È il caso di ribadirlo. Donald Trump e la Brexit non dovrebbero essere spiegati solo con la manipolazione dei dati sottratti a Facebookda Cambridge Analytica (CA). L'azione di quest'ultima, sicuramente preoccupante per la democrazia e le libertà individuali, compreso l'incubo per l'abuso dei dati conferiti a Facebook dagli utenti, difficilmente è stata davvero efficace come sostengono sia i dirigenti di CA, sia Christopher Wylie, il whistleblower che ha rivelato all'Observer e al New York Times il lavoro fatto per Steve Bannon - stratega della campagna elettorale 2016 di Donald Trump - e per il Leave in Gran Bretagna. Indagare e scoprire violazioni di legge e pericoli politici di questa attività è doveroso. Sarebbe meglio però non venisse usata da partiti, gruppi sociali e culturali sconfitti da Trump e dalla Brexit come alibi per ignorare le proprie debolezze e l'inefficacia degli argomentiusati a favore della società aperta e del liberalismo. Insomma, evitiamo di rispondere alle minacce e alle sfide del populismo parlando solo di social network.

Se Cambridge Analytica fosse inefficiente e avesse venduto fumo. I signori di CA da anni - come ricorda David Graham su The Atlantic - cercavano di piazzare i propri servizi, dicendo che avrebbero fatto cose miracolose. Nel 2015 Sasha Issenberg di Bloomberg scrisse di CA e delle promesse della loro profilazione “psicografica”, oggi alla ribalta, con una certo scetticismo, per esempio perché il profilo ricavato dal test sullo stesso Issenberg era risultato molto diverso da quello prodotto dal Psychometrics Centre dell’Università di Cambridge (il test originale sul quale si basava l'app di usata da Aleksandr Kogan per raccogliere i dati per Ca). Del resto, Cambridge Analytica, era stata ingaggiata nel 2015 sia da Ted Cruz che da Ben Carson, due candidati repubblicani alla nomination per le elezioni presidenziali. Ebbene, il contributo di CA è risultato nullo, e le campagne hanno avuto esiti disastrosi. Le persone che dirigevano quella di Cruz hanno ben presto deciso di lasciar perdere il contributo di CA, perché irrilevante. Nel comunicare la decisione si lamentarono del fatto che stessero pagando un servizio che non esisteva neppure. C’è poi il fatto che dietro CA ci fosse, come investitore, Robert Mercer e la sua famiglia, fra i principali sostenitori e finanziatori dei repubblicani. Per Cruz era importante avere i soldi di Mercer, a costo di ingaggiare la creatura CA che Mercer finanziava.  

Mercer, come noto, passò poi a Trump, convinto anche da Bannon e da Breitbart. La cosa interessante è che, d’altra parte, la stessa campagna di Trump, dopo aver abbracciato CA, l’ha successivamente abbandonata. A sostegno della tesi di Cambridge Analytica come un bluff che ha venduto più che altro fumo, ci sarebbe anche il video registrato dai reporter di Channel 4, presentati sotto la falsa identità di politici dello Sri Lanka interessati a comprare i servizi dell'azienda. Ebbene, se questi servizi fossero così efficaci come i manager di CA sostengono, che bisogno ci sarebbe stato, per venderli ai politici interessati, di proporre anche manovre per intrappolare gli avversari di questi ultimi, screditandoli con possibili scandali sessuali, sospetti di corruzione e cose del genere? Più in generale, gli osservatori citati da Graham sono da tempo assai dubbiosi dell’efficacia di queste tecniche “psicometriche”, fino a qualche anno fa chiamate di “microtargeting”.

La democrazia liberale deve comunicare meglio i pregi della società aperta. Detto questo, i democratici negli Stati Uniti, chi voleva che il Regno Unito restasse nell'Unione Europea, i partiti sconfitti dall'onda populista in Italia, chi teme l'autoritarismo sovranista e illiberale di Ungheria e Polonia, dunque, tutti coloro ai quali sta a cuore la democrazia liberale e la società aperta dovrebbero concentrarsi più sugli argomenti politici, i linguaggi, le proposte, la comunicazione per convincere gli elettori. In questo modo sarebbe più facile e probabile rendere innocuo chi cerca di manipolare le opinioni pubbliche in questi paesi, siano manovratori nell'ombra, gli hacker di Putin o di chi altro (che, vale la pena ricordarlo, sono comunque preoccupanti per la democrazia).

Facebook, ecco come Obama violò la privacy degli americani, scrive il 22 marzo 2018 Giampaolo Rossi su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". Carol Davidsen è stata il capo Dipartimento “Media Targeting” dello staff di Obama nelle elezioni del 2012 ed è considerata un’esperta di campagne elettorali online in America. In una conferenza pubblica, tre anni dopo l’elezione di Obama, rivelò qualcosa che allora passò sotto silenzio ma che oggi è dirompente alla luce dello scandalo Cambridge Analityca: “Noi siamo stati capaci di ingerire l’intero social network degli Stati Uniti su Facebook”. Nello stesso intervento affermò che i democratici acquisirono arbitrariamente i dati dei cittadini americani a cui i Repubblicani non avevano accesso; e questo avvenne con la complicità dell’azienda americana che lo consentì tanto che la Davidsen è costretta ad ammettere che “ci fu uno squilibrio di acquisizione informazioni ingiusto” (nel video dal minuto 19:48). Nei giorni scorsi su Twitter, la Davidsen è tornata sulla questione confermando che a Facebook furono sorpresi quando si accorsero che lo staff di Obama aveva “succhiato l’intero social graph” (vale a dire il sistema di connessioni tra gli utenti) “ma non ce lo impedirono una volta capito cosa stavamo facendo”. In altre parole Facebook consentì ad Obama di rubare i dati dei cittadini americani e di utilizzarli per la sua campagna presidenziale, in quanto azienda schierata dalla parte dei democratici. D’altro canto già nel 2012, sul Time, un lungo articolo di Michael Scherer spiegava come Obama si era impossessato dei dati degli americani su Facebook con lo scopo d’intercettare l’elettorato giovanile. Esattamente nello stesso modo in cui lo ha fatto Cambrdige Analytica per la campagna di Trump: attraverso un app che carpì i dati non solo di chi aveva autorizzato, ma anche della rete di amicizie su Facebook ignare di avere la propria privacy violata. Solo che allora la cosa fu salutata come uno dei nuovi orizzonti delle politica online e descritta da Teddy Goff, il capo digital della campagna di Obama, “il più innovativo strumento tecnologico” della nuove campagne elettorali.

Zuckerberg e democratici. La stretta connessione tra Facebook e il Partito Democratico Usa è continuata anche nelle ultime elezioni come rivelano in maniera implacabile le mail di John Podesta, il potente capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, pubblicate da Wikileaks. È il 2 gennaio del 2016, quando Sheryl Sandberg, Direttore esecutivo di Facebook e di fatto numero due dell’Azienda, scrive a Podesta una mail di augurio di Buon Anno, affermando: “Sono elettrizzata dai progressi che sta facendo Hillary”. È il periodo in cui si stanno completando i preparativi per la designazione alla primarie del Partito democratico che partiranno a febbraio; e la risposta del Capo Staff di Hillary non lascia adito a dubbi: “Non vedo l’ora di lavorare con te per eleggere la prima donna presidente degli Stati Uniti”.

Sheryl Sandberg (oggi una delle dirigenti Facebook al centro dello scandalo) è la donna che Zuckerberg volle fortemente nella sua azienda strappandola nel 2008 al diretto concorrente Google. La manager, da sempre democratica, aveva lavorato nell’amministrazione di Bill Clinton come capo staff di Larry Summers il Segretario del Tesoro, voluto proprio dal marito di Hillary. Il rapporto tra Podesta e la Sandberg è di vecchia data. Nell’agosto del 2015 lei scrive a lui per chiedergli se fosse disposto ad incontrare direttamente Mark Zuckerberg. Il grande capo di Facebook è interessato ad incontrare persone che “lo aiutino a capire come fare la differenza sulle questioni di politica a cui lui tiene maggiormente” e “comprendere le operazioni politiche efficaci per far avanzare gli obiettivi” tematici a cui lui tiene, come “immigrazione, istruzione e ricerca scientifica”. E chi avrebbe potuto farlo meglio del guru della campagna elettorale di colei che erano tutti convinti, sarebbe diventata il successivo presidente degli Stati Uniti?

Conclusione. Lo scandalo Cambridge Analytica che doveva essere l’ennesimo attacco contro Trump e la sua elezione si sta trasformando in un boomerang per Democratici e sopratutto per Facebook; l’azienda è oggi al centro del mirino delle polemiche per un modello di business che si fonda proprio sull’accaparramento e la cessione dei nostri dati di privacy che possiede nel momento in cui noi inseriamo la nostra vita, le nostre immagini, le amicizie e la nostra identità all’interno del social media. Ma la questione è sopratutto politica: quello che oggi è scandalo perché fatto per la campagna elettorale di Trump, fu ritenuta una grande innovazione quando lo fece Obama. Con in più un particolare di non poco conto: che nel caso di Obama, Facebook ne era a conoscenza e consentì la depredazione dei dati degli americani. Forse, all’interno del suo “mea culpa”, è di questo che Zuckerberg e i vertici di Facebook dovrebbero rispondere all’opinione pubblica.

Cambridge Analytica gate: il dito e la luna, scrive Guido Scorza il 21 marzo 2018 su "L'Espresso". Se esisteva ancora qualcuno al mondo che non conosceva Facebook ora lo conosce certamente. Lo scandalo che ha travolto il più popolare social network della storia dell’umanità è, da giorni, sulle prime pagine dei media di tutto il mondo. Il “diavolo” è nudo. Se non è già avvenuto, presto qualcuno titolerà così uno dei tanti feroci j’accuse all’indirizzo di Zuckerberg. Ma si commetterebbe uno dei tanti errori dei quali la narrazione mediatica globale – in alcuni Paesi tra i quali il nostro più che in altri – è piena zeppa. Vale la pena, quindi, di mettere nero su bianco qualche punto fermo in questa vicenda e provare anche a trarne qualche insegnamento senza rischiare di perder tempo a fissare il dito, lasciando correre via la luna. La prima necessaria considerazione è che nessuno ha rubato né a Facebook, né a nessun altro i dati personali dei famosi 50 milioni di utenti. Non in questa vicenda. Quei dati – stando a quanto sin qui noto – sono stati acquisiti direttamente da 270 mila utenti che hanno deliberatamente – per quanto, naturalmente, si possa discutere del livello di reale consapevolezza – scelto di renderli disponibile al produttore di una delle centinaia di migliaia di app che ciclicamente ci offrono la possibilità di velocizzare il processo di attivazione e autenticazione a fronte del nostro “ok” a che utilizzino a tal fine i dati da noi caricati su Facebook e a che – già che ci sono – si “aspirino” una quantità più o meno importante di altri dati dalla nostra vita su Facebook. Basta andare su Facebook, cliccare su “impostazioni” – in alto a destra – e, quindi, su “app” per rendersi conto di quanto ampio, variegato e affollato sia il club dei gestori di app ai quali, dalle origini del nostro ingresso sul social network a oggi abbiamo dato un permesso, probabilmente, in tutto e per tutto analogo se non identico a quello che i 270 mila ignari protagonisti della vicenda hanno, a suo tempo, dato al gestore dell’app “This is Your Digital Life”. E basta cliccare sull’icona di una qualsiasi delle app in questione per avere un elenco, più o meno lungo, delle categorie di dati che, a suo tempo, abbiamo accettato di condividere con il suo fornitore. E’ tutto li, a portata di click, anche se per aver voglia di arrivare a sfogliare le pagine in questione, forse, è stato necessario che scoppiasse uno scandalo planetario perché, altrimenti, nel quotidiano la nostra navigazione su Facebook sarebbe proseguita si altri lidi, come accaduto sino a ieri e, probabilmente, come succederà nelle prossime settimane. La seconda considerazione – direttamente correlata alla prima – è che Facebook non è stata vittima di nessun breach, nessuna violazione dell’apparato di sicurezza che protegge i propri sistemi, nessun attacco informatico di nessun genere. Non in questa vicenda, almeno. Sin qui, quindi, tanto per correggere il tiro rispetto a quello che si legge sulle prime di centinaia di giornali, nessun furto, nessuno scasso, nessun furto con scasso.

E allora? Come ci è finito Facebook sul banco degli imputati del maxi processo più imponente e severo della sua storia?

La risposta è di disarmante semplicità anche se difficile da conciliare con quanto letto e sentito sin qui decine di volte. Facebook viene portato alla sbarra proprio perché non ha subito nessun furto scasso e questa vicenda ha semplicemente confermato – non certo per la prima volta – che la sua attività – che è la stessa di milioni di altre imprese di minor successo in tutto il mondo – è pericolosa ed espone ad un naturale e ineliminabile rischio alcuni tra i diritti più fondamentali degli uomini e dei cittadini. Attenzione, però: espone a un rischio tali diritti ma non li viola. Al massimo, come accaduto nel Cambridge Analytica gate, facilita l’azione di chi tali diritti voglia consapevolmente violare. Ed è esattamente questo che accaduto nella vicenda in questione: una banda di sicari delle libertà – perché ogni definizione diversa non renderebbe giustizia al profilo dei veri protagonisti negativi della vicenda – assoldati da mandanti nemici dell’A,B,C della democrazia ha furbescamente approfittato della debolezza del sistema Facebook a proprio profitto e in danno della privacy e, forse, della libertà di coscienza di milioni di persone.

E’ la debolezza del suo ecosistema la principale colpa di Facebook. L’aver reso possibile una tragedia democratica che – ammesso che le ipotesi possano trovare una conferma scientifica – ha condizionato l’esito delle elezioni negli Stati Uniti d’America e il referendum che ha portata l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea. E guai a dimenticare che sono queste ipotetiche conseguenze ad aver reso una vicenda che in realtà non fa altro che confermare che un uovo sodo ammaccato a una delle due estremità può stare in piedi da solo. Il famoso uovo di Colombo. Perché se la stessa tecnica – egualmente fraudolenta ed egualmente figlia dell’intrinseca debolezza dell’ecosistema Facebook – fosse stata utilizzata, come sarà stata utilizzata milioni di volte, per vendere qualche milione di aspirapolveri, oggi, evidentemente, non saremmo qui a parlarne e non sarebbe accaduto che le Autorità di mezzo mondo si siano messe in fila davanti alla porta di Menlo Park, bussando per chiedere audizioni e ispezioni, rappresentando possibili sanzioni e conseguenze salate. Guai a dire tanto rumore per nulla. E guai anche a suggerire l’assoluzione di Facebook che, tra le sue colpe, ha – ed è forse la più grave – quella di esser stato a conoscenza da anni dei rischi che 50 milioni di propri utenti stavano correndo ma di aver scelto di non informarli. Ma, ad un tempo, se si vuole evitare di lasciarsi trascinare e travolgere dall’onda lunga della sassaiola mediatica val la pena di trovare il coraggio di fissare in mente questa manciata di considerazioni di buon senso prima che di diritto. Anche perché, a condizione di trovare la necessaria serenità di giudizio e una buona dose di obiettività, da questa vicenda c’è, comunque, molto da imparare. Bisogna, però, esser pronti a non far sconti a nessuno, a mettersi in discussione in prima persona e resistere alla tentazione di dare addosso a Facebook con l’approssimazione emotiva che connota la più parte degli attacchi che si leggono in queste ore. In questa prospettiva sul banco degli imputati, accanto a Facebook, dovrebbe salirci un sistema di regole che, evidentemente, ha fallito, ha mancato l’obiettivo e si è rivelato inefficace: è quello a tutela dei consumatori, degli interessati, degli utenti basato sugli obblighi di informazione e sulle dozzine di flag, checkbox e tasti negoziali. Le lenzuolate di informazioni che Facebook – e naturalmente non solo Facebook – da, per legge, ai suoi miliardi di utenti non servono a nulla o, almeno, non sono abbastanza perché questa vicenda dimostra plasticamente che gli utenti cliccano “ok” e tappano flag senza acquisire alcuna consapevolezza sulla portata e sulle conseguenze delle loro scelte. Anzi, a volercela dire tutta, questo arcaico e primitivo sistema regolamentare produce un risultato diametralmente opposto a quello che vorrebbe produrre: anziché tutelare la parte debole del rapporto finisce con il garantire alla parte forte una prova forte e inoppugnabile di aver agito dopo aver informato a norma di legge la parte debole ed aver raccolto il suo consenso.

Così non funziona. E’ urgente cambiare rotta. Basta obblighi di informativa chilometrici e doppi, tripli e quadrupli flag su improbabili check box apposti quasi alla cieca, su schermi sempre più piccoli e mossi, esclusivamente, dalla ferma di volontà di iniziare a usare il prima possibile il servizio di turno. Servono soluzioni più di sostanza. Servono meno parole e più disegni. Servono meno codici e più codice ovvero informazioni capaci di esser lette direttamente dai nostri smartphone e magari tradotte visivamente in indici di rischiosità, attenzione e cautela.

La vicenda in questione è una storia di hackeraggio negoziale. Se si vuole per davvero evitare il rischio che si ripeta è in questa prospettiva che occorre leggerla. E sul banco degli imputati assieme a Facebook dovrebbe, egualmente, salire chi, sin qui, ha sistematicamente e scientificamente ridimensionato il diritto alla privacy fino a bollarlo come un inutile adempimento formale, un ostacolo al business o un freno al progresso. Perché non ci si può ricordare che la privacy è pietra angolare delle nostre democrazie solo quando, violandola, qualcuno – a prescindere dal fatto che riesca o fallisca nell’impresa – si mette in testa di condizionare delle consultazioni elettorali o referendarie. In caso contrario le conseguenze sono quelle che oggi sono sotto gli occhi di tutti: utenti che considerano la loro privacy tanto poco da fare il permesso a chicchessia di fare carne da macello dei propri dati personali, disponendone con una leggerezza con la quale non disporrebbero delle chiavi del loro motorino, della loro auto o del loro portafogli e Autorità di protezione dei dati personali con le armi spuntate e costrette a registrare episodi di questo genere leggendo i giornali quando non i buoi ma i dati personali di decine di milioni di utenti sono ormai lontani dai recinti.

Anche qui bisogna cambiare strada e cambiarla in fretta. E’ urgente tracciare una linea di confine netta, profonda invalicabile tra una porzione del diritto alla protezione dei dati personali che è giusto e indispensabile che resti appannaggio del mercato e una porzione che, invece, meriterebbe di entrare a far parte dei diritti indisponibili dell’uomo come lo sono le parti del corpo umano, sottratta, per legge, al commercio, agli scambi e al mercato a prescindere dalla volontà dei singoli utenti. Ed è urgente investire sulle nostre Autorità di protezione dei dati personali perché non si può, al tempo stesso, scandalizzarsi di episodi come quello della Cambridge Analytica e pretendere che un’Autorità di poche decine di professionisti e finanziata con una percentuale infinitesimale del bilancio dei nostri Stati garantisca protezione, regolamentazione e vigilanza su quello che è ormai diventato il più grande, proficuo e per questo attaccabile mercato globale. Facciamo tesoro di quello che è accaduto. Leggiamo i fatti con obiettività e, soprattutto, facciamo quanto possibile per cambiare rotta perché il problema non è Facebook e, in assenza di correttivi importanti, se anche domani la borsa condannasse Facebook all’estinzione, non avremmo affatto risolto il problema.

Dal Lago: «La disinformazione è diventata un’arma per vincere in politica», scrive Giulia Merlo il 22 Marzo 2018 su "Il Dubbio". «I social ci condizionano come facevano i manifesti della Dc nel 1948 e per questo sono diventati uno strumento decisivo sul piano della propaganda politica». «I social ci condizionano come facevano i manifesti della Dc nel 1948 e per questo sono diventati uno strumento decisivo sul piano della propaganda politica». Per Alessandro Dal Lago, sociologo e studioso dei fenomeni del web, lo scandalo che ha investito Facebook ha fatto venire alla luce lo sfruttamento illegale di informazioni che, però, già da tempo sono diventate uno strumento politico.

L’inchiesta contro Cambridge Analytica ha aperto il vaso di Pandora del lato oscuro dei social?

«Ha rivelato che i nostri dati, sia pubblici che privati come le reti di amicizia su Facebook, possono essere usate per campagne di profilazione e per la creazione di modelli di utenza. In seguito, questa mole di informazioni può essere usata per campagne di marketing e di propaganda politica. Così, il cittadino della lower class americana esasperato dalla mancanza di lavoro e che odia i vicini di casa neri diventa personaggio medio, utilizzabile come modello per studiare una propaganda mirata. Considerando che i dati analizzati hanno permesso alla Cambridge Analytica di profilare 50 milioni di utenti, si capisce la portata del fenomeno».

E questo quali problemi solleva?

«Da una parte c’è il tema della tutela della privacy e le ipotesi sono due: o Facebook sapeva dell’indebita profilazione e dunque è connivente, oppure non sapeva e questo significa che il sistema è penetrabile. Tutto sommato, questa seconda prospettiva mi sembra la più grave».

I dati sono stati usati per fare campagne politiche.

«Il rilievo politico della vicenda porta in primo piano l’esistenza di società di big data, che puntano a controllare l’opinione pubblica e che fanno parte di un mondo pressochè sconosciuto alla collettività. Basti pensare che, prima di qualche giorno fa, nessuno conosceva Cambridge Analytica, e come questa esistono altre centinaia di società analoghe. Senza complottismi, è evidente come esistano ambienti che, attraverso la consulenza strategica, sono interessati a orientale la politica globale. Altro dato, la presenza nell’inchiesta di Steve Bannon – noto suprematista bianco e stratega di Trump – mostra come la capacità di influenzare l’opinione pubblica attraverso la manipolazione dei dati sul web è più forte nella destra globale che non nella sinistra».

Davvero un post pubblicitario su Facebook è in grado di condizionare l’elettorato fino a questo punto?

«E’ più che normale che sia in grado di farlo. La comunicazione si è evoluta: partiamo dal manifesto elettorale, e penso alla geniale trovata di propaganda anticomunista della Dc del 1948, con il manifesto dei cosacchi che si abbeverano a una fontana davanti a una chiesa. Poi sono arrivati i media generalisti come la televisione e la stampa, in cui la propaganda si faceva attraverso i modelli culturali. Penso alla Rai, in cui si propagandava un modello familiare che indirettamente finiva per legittimare la Dc. Oggi la propaganda è molto cambiata: il web e i social creano un pubblico universale, che accede alla stessa sfera comunicativa. Questo permette ai manipolatori intelligenti di arrivare istantaneamente a un pubblico enorme, influenzandoli a un livello impensabile solo fino a qualche anno fa».

In Italia esistono fenomeni simili di sfruttamento del web?

«La Casaleggio Associati è un esempio di questo. La società gestisce un’enorme rete di pagine Facebook e siti collegati al blog delle Stelle e indirettamente a quello di Beppe Grillo».

E come funziona, praticamente, il meccanismo?

«Le faccio un esempio. Esiste una pagina appartenente a questa galassia che si chiama “Alessandro Di Battista presidente del consiglio”, che contiene messaggi di propaganda in stile mussoliniano del tenore di: «Ringraziamo il guerriero Di Battista, eroe nazionale». Ora, si puo dire che queste parole suonino ridicole, ma bisogna leggerle in chiave social e in base al target degli elettori che si vogliono calamitare: giovani elettori del sud Italia, con una scolarità medio bassa. A questi soggetti si propone una propaganda che da una parte martella sull’odio per la casta e dall’altra propone un eroe nazionale. Considerando che pagine come queste hanno centinaia di migliaia di follower, è facile immaginare gli effetti».

Nulla di tutto questo, però, è illegale.

«Certo che no, però esiste un problema di profonda manipolazione della realtà contro la quale non esistono strumenti di difesa adeguati. Le fake news, infatti, non sono solo le notizie inventate ma per la maggior parte si tratta di manipolazioni di notizie verosimili, che vengono caricate di retorica per diventare virali e, nello stesso tempo, nessuno verifica che si tratta di falsi».

Si può parlare di un modello politico?

«E’ certamente un modello. Politicamente, io credo sia inquietante che i parlamentari del Movimento 5 Stelle abbiano sottoscritto un contratto ridicolo nel quale tuttavia si impegnano a versare 300 euro al mese alla Casaleggio Associati, che non è un partito ma un’azienda privata di comunicazione».

Si può dire che, oggi, vince le elezioni chi sa usare meglio questi strumenti del web?

«Diciamo che i social non sono lo strumento esclusivo, ma sono diventati quello decisivo. Difficile dire quanti milioni di voti abbia spostato la campagna di Cambridge Analytica però, se si pensa alle elezioni americane, anche un milione di voti in più o in meno può garantire l’elezione alla Casa Bianca. Insomma, la propaganda sul web è in grado di spostare le decisioni».

Il web, quindi, condiziona la realtà?

«Il web ne condiziona la percezione, e questo è decisivo. La realtà e i conflitti continuano ad esistere, ma il modo in cui vengono percepiti e il luogo in cui si propongono le soluzioni è deciso dalla propaganda sul web. In questo modo la sfera di comunicazione virtuale decide l’orientamento dei settori critici dell’elettorato. Tornando ai 5 Stelle: il loro sistema di comunicazione prevede di generare un cortocircuito tra l’abile uso delle news sul web e la sistematica disinformazione».

L'errore di lasciare il web a Casaleggio, scrive Renato Mannheimer, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". L'articolo di Davide Casaleggio sul Washington Post (e poi su Il Dubbio) riporta con chiarezza il pensiero e, forse, la stessa ideologia dello stratega del Movimento Cinque Stelle. Ma contiene, al tempo stesso, tematiche di grande importanza. Occorre dire con franchezza che Casaleggio pone una questione sulla quale è cruciale riflettere con attenzione. È vero, infatti, come lui sostiene, che il Web ha cambiato radicalmente la nostra vita per moltissimi aspetti. È mutato il modo di interagire con gli altri, il modo di lavorare, si sono modificate perfino certe abitudini nei rapporti sentimentali. Tenuto conto di tutto ciò, non si capisce perché la rete non dovrebbe cambiare anche i connotati della politica e, in particolare, dei modi con cui ci relazioniamo con essa. Non solo per quanto riguarda le modalità di comunicazione o di propaganda, ma anche, specialmente, le logiche con cui il cittadino si raffronta con il potere costituito e con i suoi esponenti. Le modalità e i processi con cui si formano le credenze, i dubbi, le stesse opzioni elettorali. In altre parole, con l'avvento del Web muta non solo il modo di comunicare, ma anche quello di pensare e di rispondere agli stimoli che ci vengono dagli attori politici. Più in generale, come diversi analisti hanno osservato, siamo di fronte a un profondo cambiamento delle logiche della stessa democrazia. Questo vero e proprio sovvertimento portato dal Web mi era stato prospettato più di trent'anni fa da Casaleggio senior. Io ero a suo tempo incredulo, ma devo riconoscere che aveva in gran parte ragione nel preconizzarmi già allora gli effetti della rete sulle relazioni sociali e sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei cittadini. Certo, Davide Casaleggio ha torto quando afferma che il Movimento Cinque Stelle è il vero alfiere di questo mutamento. Che attraverso di esso «i cittadini hanno avuto accesso al potere». In realtà il «pubblico» del M5s è limitato alla porzione di italiani peraltro fortemente caratterizzata nei suoi connotati demografici e sociali - che accede alla piattaforma Rousseau. Per di più con modalità non trasparenti e controllate dalla stessa Casaleggio e Associati. Anche le cosiddette «parlamentarie», che Casaleggio descrive come l'esercizio genuino della volontà popolare nello scegliere i candidati alle elezioni, sono state caratterizzate, come si sa, da scarsi livelli di partecipazione e da notevoli e sistematiche interferenze e condizionamenti da parte dei vertici della Casaleggio e Associati. Insomma, la pratica condotta sin qui dal M5s è assai lontana dall'avere realizzato quegli stessi ideali di partecipazione e di «vera» democrazia che Casaleggio evoca nel suo articolo. Ma questa considerazione non ci deve portare a sottovalutare il punto centrale delle sue argomentazioni. Vale a dire che, come si è detto, la Rete e in particolare i «social media» hanno radicalmente cambiato i modi di agire, di pensare e gli stessi meccanismi di formazione delle opinioni e delle scelte da parte dei cittadini. Con tutti i pericoli (il caso della Cambridge Analyitica lo dimostra) e i problemi che questi fenomeni comportano. Larga parte delle formazioni politiche operanti nel nostro paese ha affrontato solo in parte e talvolta solo in modo approssimativo questa tematica. È un limite che va superato: trascurare questa rivoluzione in atto costituisce un formidabile errore e dà spazio proprio al Movimento di Grillo.

Che ipocrisia indignarsi se le nostre vite sono in vendita, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale". Ma siamo sicuri che quello di Cambridge Analytica sia uno scandalo con la esse maiuscola? È davvero una notizia sconvolgente o è una notizia di dieci anni fa? Ricapitoliamo: molti di noi, dal 2007, quotidianamente passano ore a caricare foto, scrivere post, fare giochi, installare app e seminare like su Facebook. Cosa stiamo facendo in quel determinato momento? Stiamo perdendo tempo, dice qualcuno. Ci stiamo divertendo e stiamo socializzando, dice qualcun altro. Stiamo cedendo una mole incredibile di dati sulla nostra vita, dice Mark Zuckerberg. E lo dice chiaramente. Perché vendere, ovviamente in modo anonimo, le nostre informazioni - che poi sono i nostri gusti, i nostri hobby, i luoghi che amiamo o la marca del nostro dentifricio preferito - è la ragione sociale di Facebook. È il suo business, il suo mestiere. Cadere dalle nuvole è surreale, è come stupirsi che un calzolaio lustri le scarpe. Vi siete mai chiesti come ha fatto una matricola di Harvard a racimolare un patrimonio da 70 miliardi di euro? Coi vostri status, le foto dei vostri gatti e i vostri «mi piace». E noi tutti, iscrivendoci al social network, abbiamo accettato, più o meno consapevolmente, questo mercimonio. Ti diamo un po' di noi in cambio di quindici like di notorietà, abbiamo barattato la nostra privacy con una vetrina dalla quale poterci esporre al mondo virtuale. Dunque qual è il problema? Il problema è che in questo caso un'azienda terza ha utilizzato le «nostre» informazioni all'insaputa di Facebook. Grave, certo. Ma nulla di particolarmente sconvolgente. Un traffico che, abbiamo ragione di immaginare, accade molto spesso per scopi commerciali. Il problema è che l'opinione pubblica è disposta ad accettare di vedere comparire sulla propria bacheca la pubblicità della propria maionese preferita, ma se entra in ballo la politica la questione cambia. Se poi, come in questo caso, entrano in ballo la Brexit e gli impresentabili Trump e Bannon allora la faccenda precipita. Possibile che le anime belle della Silicon valley, quelli che per mesi ci hanno detto che Trump era un pazzo scatenato, lo abbiano lasciato giocherellare coi nostri dati? Sì, perché pecunia non olet. Nemmeno per i nerd di San Francisco. E, per loro, la nostra opinione politica è un dato come un altro, masticato e sputato dagli algoritmi per poi essere rivenduto. È l'era dei big data e della data economy. Che prima piacevano tanto agli intelligentoni à la page, ma che ora, sembra andargli di traverso. Ma è anche l'era della data politics. E, al netto delle ripercussioni giudiziarie che ci saranno su questo caso, le campagne elettorali si sposteranno sempre di più sulla profilazione degli utenti del web e sulla psicometria. Così sui nostri social, accanto alla pubblicità delle nostre cravatte preferite, compariranno anche informazioni e annunci politici. È manipolazione? No, è solo un'altra forma di marketing. Elettore avvisato...

Come si manipola l’informazione: il libro che ti farà capire tutto, scrive Marcello Foa il 17 marzo 2018 su "Il Giornale". Ci siamo: il mio saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”, pubblicato da Guerini e Associati, è in libreria da quattro giorni e i riscontri sono davvero incoraggianti, sia sui media (ne hanno parlato con ampio risalto il Corriere del Ticino, La Verità, il Giornale, Libero, Dagospia), sia da parte dei lettori. Alcuni mi hanno scritto: ma cosa c’è di nuovo rispetto alla prima edizione del 2006? C’è molto: le tecniche usate dai governi per orientare e manipolare i media, che descrissi 12 anni fa, sono valide ancora oggi e vengono applicate ancor più intensamente, per questo le ripropongo anche in questo secondo atto ma attualizzate, ampliate e, nella seconda parte del libro, arricchite da capitoli completamente nuovi, che permetteranno al lettore di entrare in una nuova dimensione: quella, sofisticatissima ma indispensabile per capire le dinamiche odierne, dell’informazione quale strumento essenziale delle cosiddette guerre asimmetriche, che vengono combattute senza il ricorso agli eserciti ma i cui effetti sono altrettanto poderosi e che raramente vengono spiegate dai media. Attenzione: non riguardano solo il Vicino Oriente o l’Ucraina, ma anche le nostre democrazie, molto più esposte di quanto si immagini. Non mi dilungo, ovviamente.   Sappiate che in questo saggio approfondisco l’uso (e l’abuso) del concetto di frame dimostrando come sia stato impiegato per “vendere” al popolo l’euro e impedire per anni un dibattito oggettivo sugli effetti della moneta unica o per costruire il mito del salvataggio della Grecia e quello dell’autorazzismo nei confronti della Germania. Ne “Gli stregoni della notizia. Atto secondo” riprendo alcuni documenti governativi, noti solo agli specialisti, sull’impressionante influenza del Pentagono su film e produzioni di  Hollywood, spiego il ruolo opaco degli spin doctor e delle società di PR negli allarmi sanitari (dalla Mucca Pazza all’influenza suina, da Ebola a Zika) e quale ruolo hanno avuto le Ong e le loro sorelle maggiori (le quango ovvero le Ong quasi autonome, sconosciute ai più) nelle rivoluzioni colorate e nelle operazioni di destabilizzazione di Paesi, che un tempo erano opera  esclusiva dei servizi segreti. Accendo un faro sugli aspetti poco noti dell’ascesa di Macron, sull’altro volto di Obama, dedico molte pagine all’Italia, in particolare spiegando le tecniche di spin che sono state decisive nell’ascesa e nella caduta di Matteo Renzi e denuncio le ipocrisie sulle fake news, dimostrando come servano a rendere l’informazione non più trasparente ma più docile e, possibilmente, sottoposte a censura. E’ un libro che ho scritto a cuore aperto, documentatissimo, rivolto a lettori che hanno voglia di capire e di scavare oltre le apparenze, come Giorgio Gandola, che lo ha recensito su La verità, ha capito perfettamente. Spero, di cuore, che vi piaccia. Ne parlo anche nella bella intervista che mi ha fatto Claudio Messora per Byoblu e che trovate qui sotto. Vi lascio ricordandovi la presentazione che si svolgerà lunedì 19 a Milano, alla libreria Hoepli, ore 17.30 con Nicola Porro e lo stesso Gandola. Altre seguiranno in diverse città italiane. Grazie a tutti voi e, naturalmente, buona lettura!

Ecco come lavorano i persuasori (non) occulti al servizio dei governi. Gli spin doctor sfruttano le convinzioni diffuse fra il pubblico. E agitano lo spettro complottista, scrive Marcello Foa, Giovedì 15/03/2018, su "Il Giornale". Le insidie che avevo individuato nel 2006, preconizzandone le derive si sono, purtroppo, puntualmente verificate. Allora scrivevo che il fatto che i giornalisti non conoscessero le tecniche per orientare e all'occorrenza manipolare i media, avrebbe non solo reso molto più fragili le nostre democrazie, generando un sentimento di crescente sfiducia verso la classe politica, ma anche danneggiato la credibilità dell'informazione. È il mondo in cui viviamo oggi. Quelle tecniche, come allora, restano ampiamente sconosciute ai media e, naturalmente, al grande pubblico. Eppure comprenderle è indispensabile se si vuole cercare di decodificare l'attualità senza limitarsi all'apparenza, come dovrebbe fare ogni giornalista e come dovrebbe esigere ogni lettore. Certo, il mondo mediatico nel frattempo è cambiato. Un tempo la cosiddetta grande stampa aveva il monopolio dell'informazione, oggi non più e subisce la concorrenza, a mio giudizio salutare, dei siti e dei blog di informazione alternativi. Oggi il mass media è sostituito dal personal media che ognuno si costruisce attraverso la propria rete sui social. Oggi si guarda meno la tv e si passa molto più tempo a «chattare» su Whatsapp, a pubblicare foto e a tessere relazioni su Instagram. Oggi, naturalmente, la diffusione di notizie false è ancora più facile benché, come vedremo, non sia affatto una prerogativa della nostra epoca. Ma gli spin doctor sono ancora tra noi, più influenti, più informati, più pervasivi che mai. E non hanno modificato il loro obiettivo, che resta quello di condizionare noi giornalisti e, in fondo, te, caro lettore; con la decisiva complicità del mondo politico. Lo spin doctor non ha bisogno di contare sul controllo dei media, perché sa che per orientare i giornalisti è sufficiente conoscere le loro logiche. E da buon persuasore è convinto che la propaganda sia davvero efficace solo quando non è facilmente riconoscibile. Infatti opera avvalendosi di:

- una comprensione perfetta dei meccanismi che regolano il ciclo delle informazioni;

- il ricorso a sofisticate tecniche psicologiche, che gli consentono di condizionare le masse.

Tra queste ultime il concetto più importante in assoluto è quello del frame, che è stato elaborato dal linguista americano George Lakoff, il quale sostiene che ognuno di noi ragiona per cornici di riferimento costituite da una serie di immagini o di giudizi o di conoscenze di altro tipo (culturali, identitarie). Ogni giorno noi elaboriamo continuamente, senza esserne consapevoli, dei frame valoriali, che possono essere effimeri o profondi se associati, su temi importanti, a una forte emozione e ai nostri valori più radicati. La nostra visione della realtà e il nostro modo di pensare ne risultano condizionati, perché una volta impressa una larga, solida cornice, il nostro cervello tenderà a giudicare la realtà attraverso questi parametri. Tutte le notizie coerenti con il frame saranno recepite ed enfatizzate facilmente dalla nostra mente, rinforzando la nostra convinzione. Al contrario, tutte quelle distoniche tenderanno a essere relativizzate o scartate come assurde e, nei casi più estremi, irrazionali, folli o stupide. Alla nostra mente non piacciono le contraddizioni e questo spiega perché per un militante di destra gli scandali che colpiscono politici di sinistra sono percepiti come gravissimi e veritieri, mentre quelli che colpiscono la propria parte derubricati come delegittimati, irrisori o faziosi. E naturalmente viceversa. Un abile spin doctor riesce, calibrando le parole, a indirizzare l'opinione pubblica nella direzione voluta. La tecnica del frame viene usata non solo per forgiare un giudizio su notizie contingenti, ma anche per stabilire nell'opinione pubblica dei valori di fondo e dunque il confine tra politicamente corretto e politicamente scorretto; tra ciò che è conveniente o non conveniente dire su un argomento; tra ciò che l'opinione pubblica «moderata» deve considerare ragionevole o deve respingere come scandaloso, ponendo di fatto le premesse per screditare le opinioni che travalicano quel confine invisibile e che possono pertanto, all'occorrenza, essere etichettate come estremiste, complottiste o fasciste.

A proposito di cospirazionismo, sapevate che il termine fu inventato dalla Cia ai tempi dell'omicidio Kennedy per screditare le tesi di coloro che contestavano la versione ufficiale stabilita dalla Commissione Warren? Lo spiega il professor Lance Dehaven-Smith, osservando come gli effetti di quell'operazione, circostanziati nel dispaccio 1035-960, sorpresero persino i vertici di Langley. Da allora è diventato un metodo: quando vuoi screditare qualcuno lo accusi di essere complottista. Facendo così ottieni due scopi: screditi le sue tesi agli occhi della massa e lo costringi ad assumere un atteggiamento difensivo, ovvero a dimostrare di non essere cospirazionista e dunque, sovente, a moderare i toni delle sue denunce, pena l'autoghettizzazione. Che poi le sue accuse siano plausibili o fondate diventa inevitabilmente secondario; anzi, colpendo l'autorevolezza di chi critica, delegittimi in toto le sue idee. E se costui persiste lo fai apparire sacrilego. Impedisci che anche sulle critiche fondate si apra una vera riflessione pubblica. Una volta stabilito, il frame resiste nel tempo e può essere scacciato solo da un altro equivalente che abbia pari o superiore legittimità. Un esempio? La fine politica di Antonio Di Pietro. Come ricorderete a screditarlo fu un'inchiesta di «Report» sul suo (presunto) impero immobiliare, accumulato approfittando anche dei fondi del partito. Quelle accuse non erano nuove, poiché erano già state formulate da alcuni giornali come il Giornale e Libero, ma non avevano scalfito l'immagine dell'ex pm rispetto al suo elettorato, perché ritenute faziose e dunque almeno parzialmente false. Quando però sono state avanzate da Milena Gabanelli, dunque da una fonte autorevole e super partes, il leader dell'Italia dei Valori è stato travolto. Ovvero il frame Gabanelli ha scacciato il frame Di Pietro sul terreno su cui entrambi si erano costruiti la reputazione, quello dell'onestà.

GLI INFLUENCER.

“Influencer”: chi sono e cosa fanno, scrive Stefano Gallon il 15 Settembre 2014 su social-media-expert.net. Figure talmente importanti da poter ormai parlare di “Influencer Marketing”, ma esattamente chi sono? E cosa fanno? Un influencer è un utente con migliaia (se non milioni) di seguaci sparsi sui vari social network; può essere uno YouTuber, un Instagramer, un blogger o avere semplicemente una pagina su Facebook dove condivide foto, video e contenuti vari. Fin qui è come un qualsiasi utente nella rete, ma a differenza degli altri, l’Influencer è in grado letteralmente di influenzare i suoi followers.

Il ritratto di un influencer. Su “chi è” l’influencer e “cosa fa” c’è al momento molta confusione, sia da parte delle azienda che li cercano, che da parte di chi vede tutto questo come un lavoro (è noto infatti che gli influencer guadagnano molto). Riassumendo:

L’influencer può essere YouTuber, un Instagramer, un blogger (o simili);

Deve avere moltissimi followers;

Crea contenuti in grado di generare moltissime interazioni;

Viene considerato “Credibile” e “Affidabile”;

L’elemento più importante e quasi consequenziale di tutto questo è che l’Influencer è letteralmente in grado di influenzare chi solo segue, grazie non solo alla sua notorietà, ma anche alla sua “Neutralità” e “affidabilità”. In poche parole, se un grande YouTuber che seguite vi consiglia di vedere un film e voi lo fate, vi ha influenzato, ma se lo stesso YouTuber lo ha fatto perché pagato dalla casa di produzione, allora non è più un influencer, diventando di fatto un Ambassador.

Esperti, giornalisti, VIP e non… Gli Influencer non sono solamente personaggi nati sul web, spesso possono essere anche giornalisti o esperti di settore che, con i loro post, sono in grado di offrire enorme visibilità a notizie, video, prodotti o servizi, determinandone anche il successo o un fallimento. Ma c’è un’altra categoria che pur non avendo alcuna competenza specifica, può rivelarsi incredibilmente utile per promuovere qualsiasi business: i VIP. Alcuni personaggi dello spettacolo infatti, come cantanti, attori, attrici, speaker e presentatori, hanno un enorme numero di persone che legge qualsiasi cosa scrivano sui social network, come per esempio accade per lo Zoo di 105 (che seguo da sempre). Se vai a visitare la loro pagina Facebook, Instagram o Twitter vedrai come ricevano commenti, like e condivisioni per qualsiasi cosa. Adesso prova a pensare se gli speaker dello Zoo di 105 parlassero di te sui loro social network, quanta pubblicità avresti? Naturalmente questo è solamente un esempio ma spero che il senso sia chiaro.

Perché investire nell’Influencer Marketing. Coinvolgere gli influencers significa avere una pubblicità enorme ad un costo bassissimo, soprattutto se restiamo in un target specifico. Gli influencers hanno un rapporto reale con i propri seguaci che seguono i consigli dei propri beniamini e sono molto interessati a quello che condividono sui proprio social.

Dal Passa-Parola al “Click to Click”. Il buon vecchio metodo del passa-parola non è mai finito, si è solo evoluto nel “Click to Click”. Adesso infatti quando un argomento va di moda, ne parlano su Facebook, Twitter, Instagram, realizzano parodie su YouTube, scrivono articoli su blog e creano ovviamente hashtag tematiche.

Un Influencer è come un amico. Facciamo un esempio. Quando devi fare un viaggio in un altro paese, chiami i tuoi amici per avere consigli sul posto che visiterai, li chiami perché ti fidi. L’influencer per l’utente medio diventa proprio questo, una persona di fiducia, perché col tempo ha saputo guadagnarsi il rispetto dei suoi followers. Adesso hai capito perché è importante il loro parere? Allora adesso quando progetterai la tua nuova campagna pubblicitaria, non tralasciare l’influencer marketing.

Come Star Nel Web. Lunedì 9 ottobre 2017 sono stato ospite in diretta della trasmissione FUORI Tg su Rai 3, per la puntata intitolata “Come star nel web”. Durante la trasmissione ho avuto modo di trattare il delicato argomento degli influencer, affrontato anche dal Sociologo dei Media – Università Carlo Bo di Urbino – Professor Boccia Artieri. Durante la trasmissione (che dura poco più di 20 minuti) troverete importanti spunti di riflessione sul tema.

Quando gli influencer danno i numeri: statistiche e guadagni, scrive Stefano Gallon l'11 Ottobre 2017 su social-media-expert.net. Sapere quanto guadagnano gli influencer e quanto sia veramente efficace la loro comunicazione non è semplice. Youtubers, Blogger e Instagramers infatti sono (giustamente) molto riservati sul proprio lavoro e sui loro guadagni, anche anche perché il loro mestiere è complesso e molto competitivo.

Il lavoro di influencer: facciamo chiarezza. Scrivo questo paragrafo perché mi hanno spesso richiesto consulenze per “Diventare influencer” o per “Guadagnare come influencer”. Quello che rispondo a tali richieste è che a mio parere, sono sbagliate in partenza. Gli influencer sono Youtubers, Bloggers e Instagramers con un enorme numero di followers, con i quali sono realmente in grado di interagire e di influenzarne le opinioni o gli acquisti. L’influenza di questi personaggi è dovuta a diversi fattori, tra cui c’è sicuramente la loro affidabilità e credibilità. Per fare un esempio pratico, se un famoso YouTuber consiglia di vedere un film, saranno in molti i suoi seguaci che lo andranno sicuramente a vedere. Se si venisse a sapere che lo YouTuber in questione è stato pagato dalla casa di produzione per consigliare il film, ecco che la sua “imparzialità” potrebbe venir meno.

Le aziende non devono pagare gli Influencer. Riassumendo in poche righe il paragrafo precedente si può semplicemente dire che un vero influencer non deve essere pagato dalle aziende, altrimenti perderebbe la sua ragion d’essere. Quando uno YouTuber o un blogger, in grado di “influenzare”, vengono pagati e coinvolti in una campagna web marketing, devono essere definiti “Ambassador” e non “influencer”.

Quanto guadagnano le “Web Star”. Abbiamo parlato di influencer, ambassador, youtuber e quant’altro, ma in generale, queste figure in grado di vantare un enorme numero di Followers (e non solo), vengono definite anche “Web Star”, e un loro post può valere diverse migliaia di euro. Non è facile avere dati precisi sui loro guadagni, ma personalmente ritengo questa ricerca dell’Economist abbastanza attendibile.

Questa è una stima di quanto prendono per singolo post i base alla loro popolarità:

Youtube: guadagno medio per video in base al numero dei followers

100k-500k: 12,500 dollari

500k-1m: 25.000 dollari

1m-3m: 125.000 dollari

3m-7m: 187.000 dollari

Oltre 7m: 300.000 dollari

Facebook: guadagno medio per post in base al numero dei followers

100k-500k: 6.250 dollari

500k-1m: 12.500 dollari

1m-3m: 62.500 dollari

3m-7m: 93.750 dollari

Oltre 7m: 187.500 dollari

Instagram: guadagno medio per post in base al numero dei followers

100k-500k: 5.000 dollari

500k-1m: 10.000 dollari

1m-3m: 50.000 dollari

3m-7m: 75.000 dollari

Oltre 7m: 150.000 dollari

Twitter: guadagno medio per singolo post in base al numero dei followers

100k-500k: 2000 dollari

500k-1m: 4000 dollari

1m-3m: 20.000 dollari

3m-7m: 30.000 dollari

Oltre 7m: 60.000 dollari

Gli Influencer più seguiti sui social media in Italia

fonte audisocial.it

Di seguito riporto le classifiche riguardanti gli influencer più seguiti in Italia.

Classifica generale: Gianluca Vacchi, Chiara Ferragni, Mariano di Vaio.

Youtube:Favij, Ipantellas, Ghali, St3pny.

Facebook: Mariano di Vaio, Frank Matano, Fatto in casa da Benedetta, ludovia Comello, Veronica Ferraro.

Twitter: Ludovica Comello, Selvaggia Lucarelli, Sofia Viscardi, Greta Menchi, Leonardo Decarli.

Instagram: Gianluca Vacchi, Chiara Ferragni, Mariano di Vaio, Giorgia Gabriele, Favij,

Fashion: Chiara Ferragni, Mariano di Vaio, Veronica Ferraro, Martina Corradetti, Valentina Vignali.

Come indicato sul sito di Audisocial, le classifiche generate dal loro sistema non tengono conto dei personaggi che, per così dire, non sono “nati” su internet (ma provengono da altri settori come il mondo dello spettacolo), o che non utilizzano la lingua italiana come principale.

Quanto guadagno i Top influencer italiani. Dopo aver raccolto diverse informazioni a riguardo ho deciso di non trascriverle, neanche citando le fonti, per i seguenti motivi:

Non esistono mezzi per sapere con precisione quanto guadagna un influencer;

Diffondere dati a riguardo potrebbe lasciare il tempo che trova;

Basta fare una ricerca su Google per trovare centinaia di pagine sull’argomento.

Le cifre che girano sull’argomento sono diverse, come i 10 milioni di utili dichiarati nel 2015 da Chiara Ferragni o come i classici “20mila” euro al mese usati come punto di riferimento per le web star “Più ricche”. Un top influencer può guadagnare molto, su questo non c’è dubbio e non lo negano neanche loro, ma è anche vero che tutta la loro fama, e le loro entrate possono svanire molto rapidamente. Bloggers, Youtubers (etc) più intelligenti e lungimiranti infatti, non appena raggiunta una certa stabilità, iniziano a diversificare la propria attività, proponendo contenuti diversi ma anche lavorando in ambienti diversi. Non per niente oggi si vedono personaggi nati sul web fare tv, radio, cinema o musical.

Come Guadagno i Top Influencer. Anche su questo punto, per ovvi motivi, non c’è molta trasparenza, ma sicuramente possiamo dire che i Top Influencer, quando non lavorano come Ambassador, guadagnano soprattutto da sistemi come Google Adsense. Alcuni di loro (anche se qui la situazione non è chiara) possono essere pagati anche per presenziare a determinati eventi a tema.

Diventare Influencer. Ovviamente leggendo cifre come 20mila euro al mese, sono sempre di più le aspiranti web star che sognano di diventare ricche e famose. La realtà dei fatti però è che lavorare su internet e guadagnare creando contenuti (foto, video, etc) è veramente complesso. Se il vostro obiettivo è questo, per prima cosa dovete aver ben chiaro che essere (per esempio) uno Youtuber è un vero e proprio lavoro, e che pertanto non bastano 2 ore al giorno. Una volta compreso l’impegno che necessita questo lavoro, dovete iniziare a studiare argomenti come la comunicazione digitale, il web design, SEO, programmazione, fotografia, montaggio video e qualsiasi altra materia che pensate possa esservi utile per iniziare questa nuova professione.

Un Consiglio… puntate una nicchia. Come scritto in precedenza, per diventare influencer bisogna impegnarsi e studiare molto, come se si volesse avere successo in qualsiasi altro settore. Un consiglio però che mi sento di dare a tutti (e che riguarda anche le aziende) è di non iniziare puntando troppo in alto. Portando un esempio pratico, se volete diventare un travel blogger di successo, di quelli che parlano di tutto il mondo, dovete faticare moltissimo e sarà molto difficile raggiungere il vostro obiettivo. Se invece abbassate il tiro, cercando di diventare (per esempio) un travel blogger specializzato sulla Tanzania, puntando ad una nicchia specifica, avrete più possibilità di successo.

Perché le aziende amano gli influencer. Le aziende sono sempre più alla ricerca di influencer in grado di aumentare la visibilità e le vendite. Gli influencer (o almeno alcuni di loro) hanno possono raggiungere anche milioni di persone sul web, proprio nel settore dove oggi si concentrano gli utenti. Inoltre…Secondo i dati Audiweb aggiornati a luglio 2017:

In Italia in 32 milioni (dai 2 anni in su) hanno navigato su internet (desktop + mobile) quasi 56 ore;

Più del 65% degli italiani ha navigato da mobile.

Inoltre Audiweb certifica che i contenuti web, in Italia, vengono sempre più visionati da smartphone o tablet. Ogni giorno le persone si collegano mediamente circa 2 ore e mezza. In un mese la digital audience conta circa 32 milioni di utenti. Con questi numeri è semplice capire perché le aziende sono sempre più alla ricerca di figure influenti.

Perché le aziende odiano gli influencer. “Odio” è sicuramente una parola forte, che uso per evidenziare una sorta di antipatia che spesso viene manifestata nei confronti di bloggers, youtubers, etc. Non si parla molto di questo argomento ma nel “Sottobosco” della rete, si sente spesso parlare di come le aziende non abbiano fatto i salti giogia quando hanno capito che il successo di un capo di abbigliamento o di un brand poteva essere deciso un un personaggio “Nato all’improvviso sul web”. Sinceramente credo che il problema sia che in molti si rifiutano di riconoscere la grande professionalità dell web star, e l’enorme fatica che ci vuole per essere seguiti da milioni di persone.

L’importanza di YouTube. YouTube è sicuramente la piattaforma social più efficace e potente per il web marketing, molto più di Instagram e anche più di Facebook. YouTube al momento conta 24 milioni di utenti attivi mensilmente contro I 30 milioni di Facebook, in Italia, mentre nel mondo ne conta un miliardo contro I 2 del social di Zuckerberg, ma sono altri I numeri di YouTube che fanno venire le vertigini. Nel 2016, la piattaforma di video più frequentata del mondo, ha potuto vantare circa un miliardo di ore al giorno di visualizzazioni video, ma sono oltre 400 le ore di video che vengono caricate ogni giorno, e gli YouTuber più seguiti hanno dai 20 ai 60 milioni di iscritti ai propri canali. Non a caso uno degli influencer più pagati al mondo, PewDiePie, ha fatto la sua fortuna proprio su YouTube.

Conclusioni. Dopo aver letto questo articolo ne saprete sicuramente di più sui numeri degli influencer, dei social network e di internet in generali. Un ultimo consiglio che vi voglio però dare riguarda proprio questo: i numeri, un aspetto al quale non dovete dare troppa importanza. Ricordate che su internet ci sono persone reali, e se volete diventare dei veri influencer, dovete instaurare delle vere interazioni con loro. Quindi non pensate solo ad aumentare il numero dei vostri followers, pensate anche ai like, ai commenti e alle interazioni in generale che ricevete.

Gli influencer? Studio rivela: sono «virali» come le epidemie. Una ricerca spiega come si propagano i messaggi diffusi da figure-chiave della rete e aiuta a prevedere chi potrebbe essere il prossimo «untore». Ma una volta avviata la comunicazione «virale», l’influencer non ha più il controllo della sua propagazione, scrive Antonella De Gregorio il 30 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Blogger, youtuber, instagrammer: sono loro gli idoli della rete. Incisivi, comprensibili dalle masse, capaci di veicolare messaggi che diventano universali attraverso una foto, un pensiero (spesso minimo), un brano musicale. In comune non hanno solo la capacità di entrare in contatto con milioni di utenti: sono anche una particolare, efficacissima categoria di «untori». Così (all’incirca) li classificano alcuni ricercatori dell’Università delle Isole Baleari, che sullo European Physical Journal hanno pubblicato uno studio che dimostra come i messaggi diffusi da alcuni influencer si propaghino esattamente come un’epidemia. Come nelle epidemie - sostengono i ricercatori del gruppo guidato da Byungjoon Min - anche le informazioni iniziano a diffondersi partendo da singoli individui. Ecco perché, per individuare una Chiara Ferragni, stella di Instagram, un Fvij, star di Youtube, un Mariano Vaio (modello e fashion blogger) - influencer di successo sulla rete e i social network - si possono usare i modelli matematici con cui si analizza la diffusione dei virus in un’epidemia.

Il modello. Gli studi fatti per classificare l’impatto di ogni «influencer», non hanno avuto sinora grande successo perché - spiegano i ricercatori - non hanno preso in considerazione le dinamiche di diffusione. Ora invece si è scoperto che è possibile trovare gli influencer o «diffusori» di virus più importanti in modo analogo a quanto si riscontra in una rete dalla struttura ramificata, in cui è possibile calcolare la dimensione probabile di un’epidemia partendo da un singolo diffusore. È bastato - spiegano gli studiosi - esaminare il problema dalla prospettiva della trasmissione del messaggio e affidarsi al modello «Sir» (che sta per Suscettibili, infetti e rimossi), usato per spiegare la crescita e decrescita del numero di persone colpite dal virus durante un’epidemia. Seguendo questa proceduta, i ricercatori hanno ottenuto una mappa precisa di come viene trasmesso il singolo messaggio tra i membri della rete, scoprendo che la probabilità che scoppi un’epidemia è strettamente legata al punto di partenza in cui si trova il «diffusore», o influencer. Una volta che la comunicazione «virale» è iniziata, l’influencer non invece ha più alcun impatto nel controllare le dimensioni che l’epidemia potrà assumere.

Gli influencer più efficaci. Le applicazioni di questa teoria, che può essere usata anche su reti più ramificate, vanno dal marketing virale a strategie efficienti di immunizzazione, oltre all’identificazione degli influencer più efficaci. Quelli più utili, per esempio, per instaurare un forte legame tra il personaggio e un brand che viene «raccontato» attraverso le immagini e i pensieri postati.

Signori (& signore) della critica in Rete. Ecco chi sono, come lavorano e quanto fanno vendere i nuovi recensori digitali, scrive Stefania Vitulli, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale".  «All'evento in diretta su Facebook per l'uscita di Bacio feroce di Saviano ci hanno chiamati in 25. Quattro o cinque che si occupano solo di libri, gli altri erano webstar, gente da uno o due milioni di follower, come Sofia Viscardi o Michele Bravi. Era pieno di questi sedicenni superattrezzati con le telecamerine: mi sono sentita vecchia». Giulia Ciarapica, book blogger, ma anche «giornalista analogica», ha 28 anni e di social se ne intende, ma la rete va così rapida che supera persino quelle come lei. Per fermare alcuni concetti chiave ha deciso allora di scrivere un saggio, manuale e mappa aggiornata per orientarsi nel mondo della critica letteraria 2.0: Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché (Franco Cesati, pagg. 144, euro 12). Dentro ci sono prima di tutto i nomi. Dei pionieri del blog letterario, come Carmilla, Lipperatura, Vibrisse, Minima&Moralia. Delle nuove leve, come Doppiozero, Libreriamo, Piego di Libri, Flanerì. Dei grandi spazi social di promozione come Anobii, Bookcrossing o Goodreads, degli account twitter come Twletteratura, Lucia Libri, Modusvivendi, delle pagine Instagram come Petunia Ollister o Vicolostretto o dei profili Facebook come Letteratitudine, Pausa Caffè, Nuvole d'inchiostro. «In rete c'è concorrenza, anche se ci aiutiamo e ci promuoviamo tra noi. Però prima di tutto vorrei dire che cosa non siamo: non siamo influencer - spiega la Ciarapica - Non scriviamo Che bello questo libro per avere un milione di like. I like ci servono, ma per promuovere la lettura, non per fare tendenza. Scriviamo recensioni non prezzolate per promuovere titoli in modo indipendente». I recensori digitali sono cani sciolti che sanno fare tutto da soli: scrivere, tagliare, titolare, calibrarsi il tono di voce a seconda di tema e target, valutare editori e autori e saperci tenere rapporti equilibrati, fare video e foto professionali, condividere all'ora giusta della giornata (a pranzo e dopo le 18.30) e scegliere chi taggare, «per non sembrare un poveraccio che cerca la visibilità a tutti i costi». I più bravi sanno fare i numeri e i numeri sono una delle grandi novità: per la prima volta gli editori sanno chi e perché smuove copie in libreria o porta gente alle presentazioni. «Il mio blog, Chez Giulia, non è supportato da pubblicità e ha una media di 40mila lettori - commenta la Ciarapica - Ma ci sono blog quotati che fanno anche duemila visualizzazioni all'ora ogni giorno per articolo e scrivono quattro articoli a settimana, con una piccola redazione interna». Alcuni fanno vendere davvero: Modus Legendi, ad esempio, nato dall'unione di lettori forti, chiede ai follower di comprare entro un certo tempo il libro preferito in una cinquina proposta sul sito e due anni fa portò in classifica Neve, cane, piede (Exorma) di Claudio Morandini. Mentre i big come Rizzoli e Mondadori fanno ancora fatica a entrare nella logica, gli editori indipendenti e medi danno ai blogger la stessa credibilità dei media tradizionali. «Creano un contenuto che noi usiamo nei lanci, nelle presentazioni, sui nostri siti. Sembra paradossale, ma i contenuti digitali restano, non svaniscono come la carta stampata, e innescano un circolo virtuoso - ci conferma Alice di Stefano di Fazi - I lettori si affezionano alle blogger la maggior parte sono donne e si affidano ai loro giudizi: Anna Giurickovic Dato è stata adottata dalle blogger e ha fatto il botto. Ora vanno molto i blog tour: al lancio di un libro, i blog si mettono insieme e si dividono gli argomenti da trattare, uno parla solo dei personaggi, un altro della trama. Su Twitter si riportano frasi dai libri e si fanno andare in tendenza: La manutenzione dei sensi di Franco Faggiani è stato in lettura condivisa per una settimana. L'autore? Noi suggeriamo che interagisca, ma non possiamo forzarlo. L'età? Non conta: Faggiani ha 69 anni e in rete è bravissimo». Gli autori più bravi on line sono social perché a loro piace, non perché sono scrittori: «Uso la rete come gruppo di lettura condiviso: chi vive nei paesini reconditi d'Italia si collega, posta le frasi di un libro amato e si sente meno solo, meno fuori moda, meno marginale» chiarisce Nadia Terranova, autrice Einaudi e Mondadori, blogger, quasi 9mila follower su Twitter.

Attenti però: la nuova critica letteraria ci tiene alla propria indipendenza e non va costretta né condizionata. La relazione che le blogger o le youtuber creano coi propri seguaci si basa su libertà e spontaneità nella condivisione: «I miei video funzionano perché uso Youtube come motore conversazionale - ci spiega Ilenia Zodiaco, 25 anni, quasi 42mila iscritti al suo canale e oltre 5 milioni di visualizzazioni totalizzate dal 2011 - Le persone hanno l'impressione di parlare con un conoscente, instaurare un rapporto diretto e cancellare il mezzo grazie a un'informalità di fondo. La libreria è un luogo deputato che - specie a chi non legge e ha già un complesso di inferiorità - fa paura. Nei social invece è come se la lettura venisse normalizzata. Valuto il mio successo anche attraverso l'affiliazione con Ibs e Amazon, in base ai libri che vendo dal link diretto alle mie recensioni. Il massimo l'ho raggiunto con 4321 di Paul Auster: trecento copie. Ai critici tradizionali consiglio umilmente di provare a risultare più comprensibili e meno autoreferenziali». Ma chi sono i critici tradizionali? Massimo Onofri, saggista e professore ordinario di Letteratura italiana, collaboratore dell'Indice, Avvenire, La Stampa, consulente editoriale, sembra corrispondere al profilo. Eppure anche lui riserva sorprese digitali: «Ho scritto i miei ultimi due libri per La nave di Teseo Benedetti Toscani e Isolitudini, di prossima uscita interamente su Facebook. Mi affascina la conferma del lettore e il suo contributo alla documentazione, come in un seminario. Ferma restando la compiutezza formale: sul web scrivo al massimo delle mie possibilità stilistiche. In rete ho scoperto autori, come Carmen Pellegrino, che ho stanato quando scriveva di paesi abbandonati. La rete è implicitamente democratica: intavolare discussioni letterarie sul web è un atto inclusivo che potenzia l'intelligenza. Ciò non toglie che le gerarchie del mondo reale si ristabiliscono presto: se uno ha autorevolezza lo commentano, se un coglione fa la sua defecazione non se lo fila nessuno». Ma fare il critico on line è o non è un vero lavoro? «Eccome. Può portarti via anche otto ore al giorno, se lo fai seriamente - chiude la Ciarapica - Ai commenti devi rispondere subito, per cui spesso non puoi seguire altro. Devi essere competente sulle logiche del confronto, perché lo spessore di una persona si vede anche da un cinguettìo. E devi avere una formazione critica di base, se no alla lunga fatichi a distinguerti. Però ne vale la pena: sul Messaggero non posso mettermi a fare la critica all'Arbasino, invece sul mio blog certe libertà me le posso concedere».

Il Paese che non ama, scrive Mauro Munafò il 14 febbraio 2018 su "L'Espresso". Questo post di Di Maio dimostra il dominio del Movimento 5 Stelle su Facebook (gli altri partiti prendano nota). La foto che c'è all'inizio di questo post vi è familiare? Dovrebbe perché, da quanto mi risulta, è il contenuto politico più visto almeno dell'ultimo anno sul Facebook italiano. Un record i cui numeri ancora sono in crescita e che, al momento di scrittura di questo post, significa 115mila condivisioni e più di 137mila azioni tra like e faccine e circa 20mila commenti. Si tratta del post con cui Luigi Di Maio, capo politico e candidato premier del Movimento 5 Stelle, spiega a Filippo Roma come il movimento che guida intende affrontare il caso dei rimborsi che gli eletti pentastellati hanno bonificato e poi annullato. Un caso scoperchiato dal programma di Italia 1 Le Iene che sta occupando prime pagine e Tg e rappresenta un importante banco di prova per Di Maio stesso per dimostrare la sua capacità di direzione. Quante persone hanno visto questa foto? Non posso dirlo con certezza (solo l'amministratore della pagina di Luigi Di Maio lo sa). Ma incrociando i dati su post simili condivisi da altre pagine politiche, possiamo stimare una cifra di persone raggiunte non inferiore a 4-5 milioni. (Edit: l'ufficio stampa di Di Maio mi comunica che hanno superato le 10 milioni di persone raggiunte). Sì, circa 10 milioni di persone sono state raggiunte direttamente e senza intermediazione alcuna dal messaggio di Luigi Di Maio. Ora, non è questo il luogo per discutere sulla questione in sè: non importa cosa ne pensiate del caso rimborsi del M5S. Quello su cui voglio concentrarmi in questo articolo è la potenza mostrata dai 5 Stelle nell'uso dei social network: una potenza che nessun'altra forza politica italiana è in grado di schierare. La forza dei 5 Stelle infatti si fonda sulla presenza di decine di pagine legate ai diversi eletti con decine di migliaia di fan ciascuna, a cui si aggiunge un nutrito sottobosco di pagine e gruppi più o meno ufficiali. Dal mio personale monitoraggio che tengo per l'Espresso, risulta che sulle 20 pagine politiche con più fan, 8 risultano legate a esponenti del Movimento. Sulle prime 5, ben 4 sono dell'universo pentastellato. Perché questo è importante? Semplice. La pagina con più fan e maggiore portata politica in Italia è quella di Matteo Salvini, che ha da poco superato Beppe Grillo oltre la quota dei due milioni di like. Ma il vantaggio di Di Maio e soci è legato all'effetto rete: il post con la Iena di cui parliamo, infatti, mi risulta essere stato condiviso da almeno 40 importanti pagine della galassia 5 Stelle: da Grillo ad Alessandro Di Battista fino a quelle degli esponenti meno noti ma con un loro seguito comunque importante. L'algoritmo di Facebook che determina cosa vedete sulla vostra pagina tende a privilegiare i contenuti che sono stati condivisi da più pagine e contatti che seguite. Quindi se Di Maio scrive una cosa e Beppe Grillo la condivide, e se voi avete i like a entrambe le pagine (cosa piuttosto probabile se siete fan del Movimento), la probabilità che voi vediate quel contenuto si moltiplica. Quando Di Maio parla di "effetto boomerang" per i partiti che stanno cercando di cavalcare il caso dei rimborsi dei 5 Stelle per screditarli si riferisce quindi anche a questo: non conta quanti tg, siti o giornali tratteranno la notizia. Lui oggi è in grado di raggiungere direttamente milioni di potenziali elettori a cui fornirà la sua versione dei fatti senza filtri e senza dubbi. Un potere, legittimo sia chiaro, che in questa campagna elettorale è diventato quanto mai rilevante. E che forse anche dalle parti del Pd dovrebbero iniziare a prendere in seria considerazione.

GLI INTELLETTUALI ITALIANI. NON SOLO CULTURAME.

Vuoi una frase da duro? Leggi Plutarco. Nei suoi "Detti memorabili" trionfa l'etica militare degli spartani, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Gli antichi greci li chiamavano apoftegmi, li consideravano il sale della politica e della retorica e amavano raccoglierli. Cosa sono? La parola viene dal verbo apophtheggomai, «enunciare una cosa in forma definitiva», e indica una massima, spesso pronunciata da un personaggio importante e ritenuta così brillante da meritare di essere tramandata e riutilizzata alla bisogna. Erano davvero così efficaci? Winston Churchill ha modellato molti dei suoi discorsi più noti pescando dai repertori della letteratura classica greca e latina. Ora arriva in libreria il meglio del frasario raccolto dal più grande biografo dell'antichità, Plutarco (48 - 127 d.C.). L'autore delle Vite parallele nella sua opera principale aveva sciolto molti di questi memorabilia linguistici nella narrazione delle esistenze dei grandi, da Licurgo ad Antonio. Ma già allora si era accorto che il suo pubblico ne era troppo ghiotto e decise di raccoglierle. Ecco allora spiegata la genesi del volume che ora arriva in libreria, a cura di Carlo Carena: Detti memorabili. Di re e generali, di spartani, di spartane (Einaudi, pagg. 234, euro 28). Mancava sino ad ora un'edizione italiana che separasse e rendesse comodamente fruibili e confrontabili queste schegge raccolte o inventate da Plutarco (del resto solo dall'anno scorso esiste una valida edizione dell'insieme dei Moralia fatta da Bompiani). La prima delle tre raccolte lo storico greco la dedicò direttamente all'imperatore Traiano, in modo che potesse farsi consigliare dai suoi pari, i monarchi precedenti. Ma che si tratti di questa o delle altre due, ciò che aleggia attraverso tutti i testi è il mito di Sparta. I lacedemoni, maschi e femmine, titolati e non, la fanno da padroni. Con accenti e toni non lontanissimi, se ci consentite un paragone molto pop, da quelli di un fumetto fantastorico come 300 (o dell'omonimo film). Plutarco fa della durezza spartana (che pur sapeva eccessiva) strumento didattico, la parte di cultura greca più facilmente cucinabile in salsa romana. Del resto a quale centurione non starebbe simpatico lo spartano Agide? «Gli spartani non vogliono sapere quanti sono i nemici, ma dove sono». E Cleomene? A chi voleva vendergli dei galli pronti a morire combattendo: «No davvero, dammi di quelli che combattono e uccidono». Ad Agesilao (444 - 360 a.C.) poi vengono attribuite frasi che farebbero la fortuna di ogni sceneggiatore hollywoodiano del genere Swords and sandals. Alla domanda fino a dove si estendevano i confini della Laconia rispode, brandendo la lancia: «Fino a dove giunge questa». Il consiglio a uno spartano zoppo che vuole un cavallo per la battaglia? «Non capisci che in guerra non serve chi fugge ma chi resiste». Ma se Plutarco è l'inventore della Sparta che piace al cinema, leggendolo vi accorgerete che molte delle metafore care agli umanisti, compreso il celebre binomio «Golpe et lione» di machiavelliana memoria, sono in realtà farina degli apoftegmi dello storico greco.

Così Verdi l'"arcitaliano" svelò l'anima di un Paese. "Stiffelio" racconta la famiglia, "Rigoletto" l'amore, "Falstaff" gli anziani: le sue opere sono analisi sociali, scrive Mattia Rossi, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". Il Maestro era morto ormai da un mese. Aveva chiesto funerali «modestissimi, senza canti e suoni. Due candele e una croce». Eppure, il 27 febbraio del 1901, tutta Milano scese in piazza per una sorta di secondo funerale: trecentomila persone, Arturo Toscanini alla testa di 900 coristi e 120 orchestrali. Fu quello il saluto che l'Italia volle dare a uno dei suoi «padri»: Giuseppe Verdi. Quella folla immensa non si accontentò di un sobrio e dimesso addio per onorare colui nel quale, per oltre cinquant'anni, si era riconosciuta. È proprio questo lato di Verdi, la sua «arcitalianità», il suo essere stato acuto e incisivo osservatore e cantore del popolo italico, che va a sondare il nuovo libro di Alberto Mattioli, critico della Stampa nonché melomane da record (al momento ma il dato è del tutto provvisorio conta 1.600 recite d'opera viste). E siccome dell'ennesimo solito libro su Verdi non v'era urgenza, Meno grigi più Verdi (Garzanti, pagg. 150, euro 16), guarda al compositore di Busseto da un'altra angolatura, «quella dell'italiano», ovvero come «uno dei pochi intellettuali che hanno raccontato gli italiani per come sono, e non per come si credono di essere o vorrebbero essere». S'affaccia un nuovo volto di Verdi che, come sintetizza la spassosissima penna di Mattioli, diventa un «Lévi-Strauss padano» che ha saputo tratteggiare con sguardo sincero e disilluso i propri compatrioti. Meno grigi più Verdi è, dunque, un libro più sociologico e di costume che musicologico, una sorta di manualetto d'antropologia italica filtrata dai melodrammi del padre del melodramma. Sotto le maschere dei personaggi verdiani, infatti, si scorge «tutta una serie di tipi e situazioni e ambienti ricorrenti nella nostra storia e nei nostri costumi». Prima di vedere, però, quanto sono intrise di italianità le sue opere, occorre vedere quanto è stato italiano lui, Verdi. Illuminanti, in questo, sono i capitoli iniziali sulla viscerale italianità dell'operista bussetano. Il Verdi uomo: non veniva da una famiglia di scarriolanti («un borghese orgoglioso di esserlo»), era severo, severissimo («se per qualsiasi ragione, vera o presunta, finivi sulla sua lista nera, non ne uscivi più»); e il Verdi politico: repubblicano, cavouriano, deputato svogliato (lo racconta egli stesso: «I 450 non sono realmente che 449 perché Verdi, come deputato non esiste»), liberale di destra e anticomunista («I Sinistri distruggeranno l'Italia»), senatore del Regno (sempre svogliatissimo: «Da senatore, Verdi brillerà solo per la sua assenza». Italianissimo). La profonda identità italica di Verdi si tradusse, così, nelle sue opere. Ecco alcuni apici dell'italianità verdiana: Stiffelio «svela i meccanismi della famiglia italiana più tradizionale e omertosa»; Rigoletto «è l'opera che racconta il rapporto del maschio italiano con le donne», «oggetto sessuale per il Duca; oggetto di amore esclusivo ma soffocante per Rigoletto»; Violetta della Traviata è «figura classica dell'immaginario nazionale, legato a un'idea della donna che è sempre o santa o puttana»; Riccardo del Ballo in maschera è il «vitellone di provincia»; ne La forza del destino, «il grand opéra dell'Italia contadina», Verdi racconta il tempo che fu, «un'Italia provinciale, cattolica, tradizionalista, legata ai suoi riti sociali e religiosi»; in Don Carlos si trova l'eterno dibattito dei rapporti tra Stato e Chiesa, ovvero il coraggio di «rappresentare in maniera così plastica la sconfitta del trono davanti all'altare»; dall'Aida parte «una forma mentis nazionale che alla fecondità delle terre da conquistare associa quella delle donne indigene»; l'anziano omonimo protagonista del Falstaff è «presuntuoso, disonesto, gaglioffo, malizioso ma alla fine tenero». Insomma, tra gli italiani ottocenteschi e quelli d'oggi non c'è molta differenza. È per questo che Verdi deve tornare a essere a noi contemporaneo: se ciò avverrà, tornerà ad essere quello che è, colui che «ci racconta con spietatezza e con pietà, che ci mette a nudo, che non ci accarezza nel senso del pelo, che ci fa le domande che tentiamo di eludere, che ci svela le ipocrisie e le insufficienze, ma anche le generosità e le grandezze».

Quando Scelba disse: «Gli intellettuali? È solo culturame», scrive Daniele Zaccaria il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Le parole della rappresentante 5 Stelle contro i ragazzi del Cinema America sono una variazione farsesca di un odio antico e viscerale contro scrittori e artisti. In principio fu Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo reich, con quelle mani implacabili che mettevamo «mano alla pistola» ogni qualvolta sentiva vibrare nella stanza la parola «cultura». Quasi sicuramente una citazione apocrifa visto che la celebre invettiva appartiene al commediografo tedesco Hanns Johst che l’infilò nell’opera Schlageter messa in scena per la prima volta nell’aprile 1933, in onore del compleanno di Adolf Hitler. La sostanza in ogni caso non cambia: l’odio viscerale per gli intellettuali “esangui” e “manipolatori” è un tratto distintivo di ogni regime, ma anche un (ri) sentimento che ha radici profonde, che trascende il populismo e incombe persino sulle democrazie più moderne e collaudate come dimostrano le parole della consigliera pentastellata Gemma Guerrini che ripropone, in forma di farsa, l’ennesima variazione sul tema. Come non pensare al «culturame» del democristiano Mario Scelba che nel 1949 commentò così la vittoria dell’anno precedente contro il Fronte popolare: «La Dc non avrebbe trionfato se non avesse avuto in sé una forza morale, un’idea motrice, che vale molto di più di tutto il culturame di certuni». Chi sarebbero i «certuni»? I pensatori oziosi e «vanitosi» naturalmente, creature prive di fibra e senso pratico, pifferai magici che incantano e «distraggono» le masse con tutti i loro libri, il loro cinema, la loro musica, la loro inutile e stucchevole attività. L’ “arte degenerata” del nazionalsocialismo, «l’eclettismo decadente» denunciato da Stalin, ogni epoca ha avuto i suoi pretoriani che andavano a caccia di scrittori e artisti colpevoli di traviare il popolo. E, anche se aiuta, non c’è necessariamente bisogno di mettere in piedi una dittatura per colpire il bersaglio grosso. Scelba, che provò senza troppa convinzione a correggere il tiro, difendeva a suo modo gli angusti orizzonti del piccolo borghese “poujadista” descritto mirabilmente da Roland Barthes nelle Mythologies, una figura «che possiede il buon senso alla maniera di un’appendice fisica gloriosa, di un organo particolare di percezione, che stabilisce uguaglianze semplici tra quello che si vede e quello che è: il buon senso è come il cane da guardia delle equazioni piccoloborghesi, definisce un mondo omogeneo, al riparo da disordini e dalle fughe del sogno, un linguaggio che implica il rifiuto dell’alterità, la negazione del diverso». La prima descrizione dell’anti- intellettualismo nella cultura occidentale probabilmente risale a Platone nel celebre passaggio del Teeteto dedicato al filosofo naturalista Talete: «Mentre stava osservando le stelle Talete guardava in alto e cadde in un fosso. Una servetta tracia si burlò di lui, domandandogli come potesse pretendere di osservare quel che accade in cielo se non sapeva nemmeno ciò che aveva davanti ai piedi». Ecco, l’irridente servetta tracia, con la “testa sulle spalle” e i “piedi per terra” nel corso della Storia ha avuto innumerevoli incarnazioni, che si tratti della santa alleanza che voleva giustiziare l’ebreo Dreyfuss, della caccia alle streghe nell’America maccartista o degli scrittori (Pasternak, Nabokov) fatti a pezzi dalla censura sovietica, lo spartito da suonare non cambia. E non cambia nemmeno la carica di violenza con cui i mazzieri si scagliano contro gli odiati intellettuali. Rispondendo a Scelba, il critico letterario e poi deputato nonché suo compagno di partito Luigi Russo colse proprio questo elemento di prevaricazione: «Ha parlato di culturame, il suo linguaggio ricorda quello dei corsari neri con il loro “scatolame” e “budellame” e dei campieri siciliani al soldo dei latifondisti che frustavano i contadini e i braccianti chini sul lavoro».

1972, alle urne con la paura addosso. Così vinse di nuovo la Dc. Storia delle grandi campagne elettorali, il 1972 e le prime elezioni anticipate, scrive Paolo Delgado il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio".  Furono le prime elezioni anticipate nella storia della Repubblica, anche se l’eccezione sarebbe di lì in poi diventata norma. Quando gli elettori si recarono alle urne, il 7 maggio 1972, erano passati solo quattro anni dalle ultime elezioni politiche, ma sembrava che fossero invece 40 e passa. La Repubblica era cambiata più di quanto fosse mai successo in precedenza e a un ritmo tanto accelerato da seminare panico e paura. La prima prova elettorale politica dopo il ‘ 69 operaio e un ciclo di lotte e movimenti sociali dilagato in ogni anfratto della società era segnata dalla reazione di chi quella trasformazione la aveva subìta in silenzio ma pieno di rancore per chi seminava disordine. L’anno precedente, in una tornata parziale di elezioni amministrative, il Msi di Giorgio Almirante (cioè il partito post- fascista) aveva raggiunto risultati superiori a quelli che avrebbe toccato, oltre vent’anni dopo, Gianfranco Fini con la sua ripulita Alleanza nazionale. Era prevedibile e ampiamente previsto che avrebbe bissato il successone il 7 maggio. Anche per questo, del resto, la Dc aveva brigato, cercando di non farlo vedere troppo, per il voto anticipato. I cervelloni di piazza del Gesù, non troppo diversi da quelli di oggi, avevano calcolato che con un anno difficile davanti l’emorragia a favore dei nostalgici sarebbe stata ancora più probabile e corposa. Ma le elezioni anticipate, per la verità, le avevano volute in molti e il Pci forse più di ogni altro. In parte minima per bruciare i dissidenti del manifesto, che miravano a portare una loro lista e, dopo le sorprese a ripetizione degli anni precedenti nelle fabbriche nelle università e nelle piazze, nessuno poteva dire se sarebbero stati temibili o insignificanti. Ma soprattutto i comunisti volevano cogliere la preziosa occasione per dribblare quel referendum sul divorzio che temevano e che avrebbero cercato di evitare, anche a costo di svendere la sostanza della legge, sino all’ultimo. Nelle precedenti elezioni, 1968, nonostante la rivolta degli studenti e nonostante i primi segnali di conflittualità operaia, l’Italia era ancora un Paese tranquillo. Passata la congiuntura di metà decennio, l’economia aveva ripeso a tirare, le fabbriche del nord assumevano a valanga giovani meridionali, le occupazioni e gli scontri tra studenti e polizia turbavano, già, ma nemmeno troppo. L’Italia del ‘72 era quella della bomba di piazza Fontana e della montatura anarchica contro Pietro Valpreda, il ballerino anarchico che stava in galera da oltre due anni mentre il castello di accuse contro di lui si sgretolava travolgendo anche la credibilità dello Stato. Era un paese dove i morti in piazza erano tornati a essere frequenti. Era il paese del tentato golpe- Borghese e della più lunga rivolta metropolitana nella storia italiana e probabilmente europea, quella di Reggio Calabria, gestita dai neofascisti anche per l’assenza della sinistra storica. In quattro anni la sicurezza aveva scalato la classifica dei problemi più avvertiti dagli elettori e il Msi ci lucrava sopra con perizia. I neofascisti facevano il possibile per fomentare gli scontri di piazza. Il partito d’ordine da cui gli stessi neofascisti provenivano si offriva come cura. E il gioco sembrava funzionare. I democristiani puntavano invece sulla parola d’ordine degli “opposti estremismi”, giusto per riproporre in chiave adeguata ai tempi selvaggi il proprio eterno ruolo di centro e perno non solo del sistema politico ma dell’intero assetto sociale. Ma ad alimentare paure che poi si concentravano sul tema facile della legge e dell’ordine non c’era solo la violenza di piazza. L’economia segnava pesantemente il passo. La sonnolenta e immobile stabilità politica degli anni ‘ 60 era un lontano ricordo. Esaurita di fatto la formula del vecchio centro- sinistra, tanto più dopo la scissione del Partito socialista unificato che aveva per qualche anno tenuto insieme i socialisti e i socialdemocratici, la Dc non riusciva né a resuscitare un nuovo centrosinistra né poteva allargare a destra con il Pli. Il Pci era appena uscito da un lungo interregno, nel quale Enrico Berlinguer, segretario in pectore, aveva guidato il partito al posto del malato Luigi Longo ma senza la legittimazione della segreteria ufficiale. Nominato meno di due mesi prima del voto, non era pronto per lanciare una campagna politica in grande stile. Il suo “compromesso storico” sarebbe piombato sul Paese solo l’anno seguente. Quell’anno la vera campagna elettorale non la fecero i leader politici ma le piazze, esaltando qualcuno, spaventando molti. L’ 11 marzo a Milano un corteo della sinistra extraparlamentare finì con scontri violenti, un attacco alla redazione del Corriere della Sera e un passante, il pensionato Giuseppe Tavecchio ammazzato da un candelotto lacrimogeno sparatogli sul collo. Capolista del manifesto era il nome che quasi tutta l’Italia aveva associato prima al mostro per antonomasia e poi sempre più all’emblema del perseguitato: Pietro Valpreda, accusato a bomba ancora calda della strage di piazza Fontana, era uscito di galera dopo oltre due anni in gennaio, per problemi di salute e soprattutto grazie a una legge, quella che portava il suo nome, che per la prima volta limitava la custodia cautelare anche per i reati gravi. Però rischiava di rientrare in galera e per questo il manifesto cercò di fargli scudo con l’immunità parlamentare. Il 14 marzo, a camere già sciolte, uno sconosciuto venne trovato morto sotto un traliccio che si apprestava a far saltare, ucciso dalla sua stessa bomba. Era uno degli uomini più famosi d’Italia, l’editore miliardario e rivoluzionario comunista Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dei Gap. Lo shock fu enorme e colpì a destra e a manca, anche perché molti, sbagliando, ci videro dietro lo zampino omicida dei servizi segreti. C’era chi si spaventava per i bombaroli rossi e chi per gli spioni di Stato neri. Quella del 1972 è stata la campagna elettorale più cupa, persino più di quella di sette anni dopo, nel pieno dell’offensiva terrorista. Gli elettori moderati e conservatori, che magari non sfilavano sotto le bandiere della neocostituita “maggioranza silenziosa”, un omaggio a Nixon che quello stesso anno stravinse in America, ma ne facevano parte erano da poco approdati in un continente nuovo e inospitale, quello della paura e dello smarrimento. La conclusione fu tragica. Il 5 maggio a Pisa, durante gli scontri tra polizia e sinistra extraparlamentare che cercava di impedire un comizio del Msi, un giovanissimo anarchico, Franco Serantini, fu pestato dalla Celere. Morì due giorni dopo mentre il 93% degli elettori affollava le urne. La Dc tenne alla grande, perdendo meno di mezzo punto. Il Msi raddoppiò i consensi, ma fu un successo effimero. Il Pci restò fermo. Il manifesto invece rimase fuori del parlamento, insieme al Psiup e a un’altra lista cattolica di sinistra guidata dall’ex presidente delle Acli.

Quarant’anni fa, il 16 maggio 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera uno dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario continuando a farci interrogare sul cuore del "caso italiano", scrive Luciano Lanna su "Le cronache del garantista". Il tema era oggettivamente pasoliniano: "Il fascismo degli antifascisti". E il ragionamento che il poeta vi svolgeva era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale "Gli italiani non sono più quelli", del 10 giugno, a quello su "Il potere senza volto", del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione antropologica e l’omologazione in Italia, dell’il luglio. Si tratta di alcuni degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti corsari. In tutti quegli articoli l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di comprendere quanto stava realmente accadendo: «Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista». In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere: «L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è or- mai la stessa…». Sino al passaggio più importante: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E anche guardando ai giovani che in quel 1974 si chiamavano e venivano definiti "fascisti", Pasolini spiegava che si trattava di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: «È inutile e retorico – concludeva fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo, - nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Il problema, semmai, era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre». E la strategia della tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra faccia della medaglia…Pasolini insomma, in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo. «E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni». Perché infatti, si domandava il poeta, rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società democratica e di massa, «il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante: «In realtà – confessava ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…». Chissà quanto si sarebbe scongiurato di quanto è avvenuto dopo in termini di messa in moto dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a Pasolini? Ma la storia non si fa con i "se" e quanto lui scriveva oggi vale soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare storiograficamente. Importante, inoltre, il fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il "silenzio" mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio, Marco Pan- nella e i radicali. Di fronte all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. «Nessuno dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobale il suo scandalo». Il Partito Radicale e il suo leader Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno. Ma, «anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera». Antifascismo pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza radicale, dall‘altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo, di continuità con quella logica del potere?

Pasolini e quella profezia sugli antifascisti, scrive Giuseppe Papalia il 13 settembre 2017. «Nulla di peggio del fascismo degli antifascisti» scriveva Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera, nell’ormai lontano 16 luglio 1974, in Scritti Corsari. 

Pasolini al «Corriere della Sera», scrive Valerio Valentini su "Quattrocentoquattro.com" il 26 febbraio 2014. Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Gli Scritti corsari e le Lettere luterane sono la testimonianza di un dialogo che Pasolini intessé con l’intera società a lui contemporanea: ascoltare un solo protagonista di quel colloquio, costringerlo ad una monologante ripetitività, rischia di svilire lo spessore di un intellettuale che, solo se studiato tenendo conto della pluralità delle voci che con lui dibatterono, può essere adeguatamente compreso. Non solo. Rileggere gli interventi di Pasolini nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, rivela un altro importante elemento. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.

PASOLINI AVEVA RAGIONE.

16 giugno 1968. La poesia dell’autore delle “ceneri di Gramsci”: Il Pci ai giovani di Pier Paolo Pasolini.

Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari. 

Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: peggio per voi. 

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari.  

Avete facce di figli di papà. 

Vi odio come odio i vostri papà. 

Buona razza non mente. 

Avete lo stesso occhio cattivo. 

Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. 

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. 

Perché i poliziotti sono figli di poveri. 

Vengono da subtopaie, contadine o urbane che siano. 

Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. 

La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. 

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare). 

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. 

Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. 

Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! 

I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale.

A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri.

Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, cari.

Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde vi leccano il culo.

Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi! Se mai, si tratta di una lotta intestina. 

Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese.

Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani. 

Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma, ma devo dire: il movimento studentesco (?) non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici; una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, il teppismo conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine anche se già lontane. 

Questo, cari figli, sapete. 

E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere. 

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre sulla presa di potere. 

Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) 

Riformisti! 

Reificatori! 

Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai.

Quando Pasolini si faceva raccomandare da fascisti e Dc, scrive di Giuseppe Pollicelli il 2 novembre 2016 su “Libero Quotidiano”. Occupandomi da anni dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, sono profondamente convinto che la verità giudiziaria - l’allora diciassettenne Pino Pelosi unico artefice dell’uccisione del poeta - non coincida con ciò che davvero accadde a Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975. Sono però profondamente convinto anche di un’altra cosa: in troppi rendono da tempo a Pasolini un cattivo servizio adulterando una verità non meno importante, quella sulla sua persona. Costoro, per una forma perniciosa d’amore, misconoscono uno dei tratti fondanti della personalità pasoliniana: quella contraddittorietà che Pasolini stesso tante volte ebbe a rivendicare. L’ultimo esempio di «mistificazione a fin di bene» lo si è avuto sabato scorso con l’uscita all’interno di “Alias”, l’inserto culturale del “Manifesto”, di un articolo intitolato “Quando Pasolini era precario”. Ne è autore Giovanni Giovannetti, fotografo (suoi sono alcuni tardi ritratti, peraltro bellissimi, proprio di Pasolini), saggista e anche editore tramite l’agenzia Effigie. Il pezzo si occupa dei primi anni romani di Pasolini, il 1950 e il 1951, nei quali lo scrittore, vivendo una situazione di precarietà economica, cerca comprensibilmente di trovare qualcuno che lo raccomandi per fargli ottenere un impiego di tipo intellettuale. Questi tentativi del giovane Pier Paolo erano già noti, ma avendo avuto accesso ad alcune missive inedite conservate presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, Giovannetti menziona nel suo articolo un individuo di cui finora non era emerso il ruolo decisivo nel procurare a Pasolini un posto di insegnante presso la scuola media “Francesco Petrarca” di Ciampino. Questa persona, di cui parleremo fra poco, si chiama Casimiro Fabbri. Vale intanto la pena far notare come Giovannetti, nel suo articolo, tenda a ribaltare l’essenza dei fatti soprattutto quando ricostruisce le richieste di raccomandazione rivolte da Pasolini ad alcuni esponenti della Democrazia cristiana, e i tentativi di questi ultimi di esaudirle. Nel 1950, per esempio, Pasolini contatta Giovan Battista Carron, un deputato democristiano nativo del Veneto ma residente a Udine, il quale prova a raccomandarlo al friulano Cristiano Ridomi, all’epoca presidente della Rai. Sarà poi la volta di Tiziano Tessitori, anch’egli friulano, senatore della Dc e futuro ministro. Questi cerca dapprima di raccomandare nuovamente Pier Paolo in Rai, poi prova a sistemarlo alla Treccani, sempre informando il poeta dei suoi tentativi. I quali si riveleranno vani, ma indubbiamente ci sono stati. Il fatto che non siano andati a buon fine, però, è ciò a cui si appiglia Giovannetti per lasciar intendere che, se c’è qualcuno da deplorare, non è Pasolini bensì i suoi interlocutori democristiani, inattendibili e inconcludenti. «Se è vero che furono i democristiani a muoversi in orbita clientelare per Pasolini», scrive Giovannetti, «è altrettanto vero che nulla di concreto Pasolini ne ricavò». Come si è accennato, c’è però qualcuno da cui Pasolini ottenne un aiuto concreto, e questo qualcuno ha nome Casimiro Fabbri. Cosa ha fatto Fabbri per Pasolini? È proprio Giovannetti ad averlo meritoriamente scoperto. Scrive ancora il fotografo: «Lo stipendio fisso verrà lo stesso, grazie, si direbbe, al ferrarese Casimiro Fabbri, funzionario del ministero della Pubblica Istruzione nonché poeta, che a Pasolini sembra lanciare l’agognato salvagente». E se Pasolini, in alcune righe autobiografiche, scriverà che la sua assunzione alla scuola di Ciampino è merito del poeta e ispettore scolastico abruzzese Vittorio Clemente, ciò si spiega con il fatto (lo ricostruisce ancora Giovannetti) che Fabbri e Clemente erano molto amici. Resta da capire chi fosse Casimiro Fabbri. Sul suo conto le notizie sono scarse: uomo di lettere e poeta, era nato a Ferrara nel 1907 ed è morto a Roma nel 1964. Quel che è certo è che Fabbri era stato un intellettuale organico al regime fascista. Lo comprovano alcuni suoi interventi recuperabili nella rivista “Il Libro Italiano”, edita dal Ministero dell’Educazione Nazionale e dal Ministero della Cultura Popolare. Sul n. 10 dell’ottobre 1940 c’è persino un suo scritto dedicato alla discussa figura di Cornelio Di Marzio, esponente di spicco del fascismo e tra i firmatari delle cosiddette leggi razziali. Dal momento che una non piccola parte della classe dirigente fascista approdò indenne alla Repubblica, i trascorsi di Fabbri non devono stupire. Né, a nostro avviso, deve suscitare troppo scandalo che Pasolini si sia giovato, in un frangente di particolare necessità, dei buoni uffici di costui. Ma essendo passati, nel 1951, solo pochi anni dal crollo del fascismo, non è francamente credibile che un uomo come Pasolini non fosse al corrente della parabola professionale ed esistenziale di Casimiro Fabbri. Il quale, per di più, aderì nel dopoguerra al Movimento Sociale, sostenendo la corrente che faceva capo a Giorgio Almirante (segretario della Fiamma dal giugno del 1947 al gennaio del 1950). Eppure Pasolini non ne rifiutò il supporto. Così come, nel 1960, non si tirò indietro di fronte alla possibilità di scrivere sulla rivista “Il Reporter”, finanziata dal Msi. Tutte condotte che possono benissimo essere riferite a quella spiazzante mancanza di linearità che Pasolini per primo reputava un elemento decisivo di sé. Il problema, appunto, è che troppi «pasoliniani» sembrano voler privare Pasolini dei suoi dati di umanità, come se non di un uomo si trattasse ma di un dio. Umanità che, nel bene e nel male, era invece in Pasolini debordante. Ed è infatti riemersa anche in un articolo che, come quello di Giovannetti, ha provato a negarla. 

La «rivoluzione antropologica in Italia». Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropologica degli italiani. Ed è anche lo scritto che, più d’ogni altro, riesce a calamitare attenzioni e polemiche, aprendo un dibattito che si trascinerà per mesi. Questo grazie ad una scelta consapevole di Pasolini, il quale propone una lettura di due eventi che hanno entusiasmato e scioccato l’opinione pubblica – la vittoria del “no” nel referendum del 12 maggio e la strage di Piazza della Loggia del 28 dello stesso mese – che si distacca radicalmente da quella fornita dal resto degli intellettuali, soprattutto da quelli di sinistra. Per quanto riguarda il referendum – il cui esito è stato salutato con toni trionfalistici dagli osservatori marxisti – Pasolini critica innanzitutto il Pci, che pur risultando formalmente vincitore nella campagna contro l’abrogazione della legge sul divorzio, ha dimostrato – coi suoi iniziali tatticismi e con i suoi tentativi di mediazione per non inimicarsi il Vaticano – “di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi vent’anni”. Pasolini, che aveva tra l’altro pronosticato in due precedenti occasioni la vittoria del fronte divorzista, è senza dubbio felice dell’esito del referendum: lui stesso lo definisce “una vittoria, indubitabilmente”, e nella Lettera luterana a Italo Calvino, scritta pochi giorni prima di morire, si ricorderà di questo successo e lo inserirà tra i meriti che rendono la borghesia di allora migliore rispetto a quella di dieci anni prima. Tuttavia, in Gli italiani non sono più quelli, Pasolini si chiede polemicamente se questa vittoria, oltre ad essere un affermazione del progressismo laico, non stia anche a dimostrare la perdita, da parte del popolo italiano, di tutti quei valori che lo mantenevano puro nella sua fedeltà ad una cultura millenaria, la quale non concepiva modelli a cui aderire che non fossero quelli ormai radicati nella coscienza comune. A soppiantare un certo bigottismo e una certa arretratezza culturale delle masse italiane – che Pasolini ha ben presenti, ma in questo momento tace – non sarebbe stato, in verità, un reale progresso delle coscienze, o quantomeno non in misura preponderante: a sconsacrare quei valori arcaici sarebbe intervenuto piuttosto un nuovo “Potere” transnazionale, dai connotati non ancora molto chiari, e rispondente alle logiche del capitale. E se questo è lo stato dei fatti, almeno per Pasolini, allora non si tratta per nulla di un trionfo: gli Italiani dimostrano di essersi affrancati da un vecchio potere clericale e antidemocratico per obbedire ad un altro potere ancor più repressivo. In un contesto simile le varie categorie sociali canoniche a cui gli Italiani sentono di appartenere perdono qualsiasi valore. E questo, a livello politico, provoca pericolose incomprensioni e anomalie profonde, che Pasolini ritiene indispensabile investigare per comprendere la nuova realtà che si sta generando: L’omologazione «culturale» […] riguarda tutti […]. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. È così che Pasolini passa ad analizzare l’altro avvenimento preso in considerazione nell’incipit del suo articolo. Per lo scrittore è troppo sbrigativo derubricare quanto è accaduto a Piazza della Loggia soltanto ad atto terroristico ascrivibile ad una precisa minoranza politica di estrema destra. La responsabilità fattuale della strage ricade, è vero, su un manipolo di terroristi, ma la cultura di questi criminali è in realtà, al di là di differenze puramente nominali, il prodotto della stessa mutazione antropologica che ha portato gli Italiani a sbarazzarsi dei valori clericali e a votare “no” al referendum.

Le reazioni ad analisi così deliberatamente provocatorie sono altrettanto veementi. Il settimanale «L’Espresso» organizza subito una tavola rotonda, alla quale prendono parte Sciascia, Moravia, Fortini, Colletti e Fachinelli, per discutere dell’effettivo significato della vittoria dei “no” al referendum e delle osservazioni espresse al riguardo da Pasolini. Il resoconto della discussione, pubblicato il 23 giugno, è introdotto da un fondo redazionale dai toni mordaci, e dal titolo beffardo: È nato un bimbo: c’è un fascista in più, sotto l’occhiello Gli italiani secondo Pasolini. Nelle poche righe d’apertura viene rimproverata a Pasolini una vaga solidarietà morale con gli attentatori di Piazza della Loggia, e si arriva addirittura a supporre che Almirante e Rauti abbiano trovato, nello scrittore bolognese, “un nuovo Plebe”, facendo riferimento al responsabile culturale del Msi di quegli anni.

Alberto Moravia, nel suo intervento intitolato Lascia che ti spieghi la differenza tra noi due e…, si affianca ai molti intellettuali che ritengono sterile l’analisi di Pasolini a livello politico. Essa “ha senz’altro”, secondo Moravia, “un suo valore di verità”, ma soltanto “sul piano esistenziale cioè premorale e preideologico”. Moravia isola un passo, in particolare, di Gli italiani non sono più quelli: il passo in cui Pasolini ha inteso mostrare come l’opposizione ideologica tra fascisti e antifascisti sia ormai priva di un reale significato, chiedendosi ironicamente se Giancarlo Esposti, “nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia”, ovvero a rinunciare a tutte le “conquiste dello «sviluppo»”, le quali vanificano, soltanto attraverso la loro presenza, “ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale”. Moravia ribatte che, indipendentemente dall’omologazione culturale in atto, Esposti era a tutti gli effetti un fascista. E se pure, non lasciandosi corrompere da un’ipotetica mutazione antropologica, avesse obbedito con più rigore all’ideologia cui si dichiarava fedele, non avrebbe mutato in alcun modo, “neppure un poco”, il corso della storia. Anzi, in quel caso avrebbe contribuito a mantenere lo status quo, dal momento che, come il passato dimostra, “fascismo e conservazione sono sinonimi”. Eppure Pasolini non sta affatto, come in quei giorni molti ipotizzano, e come Moravia sembra adombrare, ricercando nei fascisti degli alleati per attuare una sorta di reazione anticapitalista e anticonsumista. Per Pasolini, piuttosto – ed è lui stesso a chiarirlo, proprio a Moravia, in un’intervista concessa a «Il Mondo» l’11 luglio – è preoccupante pensare che il nuovo Potere ha del tutto stravolto la grammatica ideologica preesistente, così che ormai le scelte politiche, “innestandosi in questo nuovo humus culturale”, hanno un significato totalmente diverso rispetto a quello che avevano fino a qualche anno prima. “Sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, «ormai comune a tutti gli italiani»: la quale ultima non può che deformare le prime”. Ma smettila di dire che la storia non c’è più è il titolo del contributo alla tavola rotonda di Franco Fortini. Il quale, a più riprese e in molti suoi saggi, continuerà per tutta la sua carriera a sostenere che, nel ruolo di osservatore e teorico politico, Pasolini abbia espresso il peggio di sé e che infatti “una delle operazioni di bonifica intellettuale e politica in Italia debba cominciare con la demolizione rappresentata da Pasolini politico”. Tuttavia, nella circostanza attuale, non si mostra affatto in totale disaccordo con le osservazioni del collega; ritiene anzi del tutto plausibile che la vittoria del fronte progressista al referendum possa in realtà costituire un’ingannevole concessione di quello che Pasolini addita come il “nuovo Potere”. “La tolleranza repressiva e «progressista» è solo una delle armi del capitalismo moderno”, argomenta Fortini, ribadendo che “ad una condizione socioeconomica di sviluppo […] può corrispondere benissimo la peggiore repressione sanfedista”. La critica che però egli muove a Pasolini, anche alla luce dei loro pregressi attriti, verte sulla convinzione, espressa in Gli italiani non sono più quelli, secondo la quale nella nuova fase storica che si sta inaugurando sia necessario vedere una catastrofe. “Sulle ceneri gramsciane”, ironizza Fortini, già vent’anni fa si diceva che la nostra storia era finita. Credo invece finita la mia, non la nostra”. Laddove Pasolini constata un collasso, Fortini è convinto invece di vedere nient’altro che un nuovo modo di declinare la dialettica politica, che è in perenne e costante mutazione per adeguarsi ai nuovi rapporti di forza dettati dal capitalismo. Si tratta quindi di due approcci per certi versi analoghi alla medesima realtà: semplicemente, Fortini sembra poter con più tranquillità fare i conti col nuovo, Pasolini no. E lo spiega nella lunga intervista a «Il Mondo» dell’11 luglio. Penso che il breve intervento di Fortini potrebbe essere da me utilizzato a mio favore […]. Solo che l’accanimento di Fortini a voler stare sempre sul punto più avanzato di ciò che si chiama storia – facendo ciò molto pesare sugli altri – mi dà un istintivo senso di noia e prevaricazione. Io smetterò di «dire che la storia non c’è più» quando Fortini la smetterà di parlare col dito alzato.

L’unico partecipante alla tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» che si dichiara sostanzialmente d’accordo con l’analisi di Pasolini è Leonardo Sciascia. Entrerei in contraddizione con me stesso se dicessi di non essere d’accordo con l’articolo di Pasolini […]. Forse la mia visione delle cose […] è meno radicale della sua, nel senso che mi pare di non dover perdere di vista il fascismo come fenomeno di classe, di una classe; ma la paura più profonda è tanto vicina alla sua. E riferendosi a organizzazioni terroristiche di segno opposto rispetto a quelle ritenute responsabili della strage di Brescia, Sciascia offre un’ulteriore dimostrazione della validità della tesi di Pasolini. L’azione delle “Brigate rosse” è stata intesa e spiegata in tanti modi, tranne che in quello più ovvio: e cioè come il modo di preparare o di cominciare a fare una rivoluzione. […]. È possibile parlare ancora di rivoluzione se il gesto rivoluzionario è temuto nell’ambito stesso delle forze che dovrebbero generarlo non solo per la risposta del gesto controrivoluzionario, che potrebbe facilmente e sproporzionatamente arrivare, ma anche perché in sé, intrinsecamente, rivoluzione? Non c’è dunque da pensare, e da riflettere? E mi pare sia, appunto, quel che fa Pasolini. Può anche sbagliare, può anche contraddirsi: ma sa pensare con quella libertà che pochi oggi riescono ad avere e ad affermare.

1. Le antologie che raccolgono la quasi totalità degli articoli che Pasolini scrisse, sul «Corriere» e su altri quotidiani, tra il gennaio del 1973 e l’ottobre del 1975.

2. Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 39-40.

3. Si tratta di un articolo pubblicato su «Il Mondo» il 28 marzo, e di un intervento – rimasto inedito fino al suo inserimento negli Scritti corsari – richiesto a Pasolini del settimanale comunista «Nuova Generazione», che però si rifiuterà di pubblicarlo.

4. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 41.

5. Ibidem.

6. È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso», 23 giugno 1974

7. Ibidem.

8. Giovane militante di Ordine Nero rimasto ucciso durante uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine sull’altopiano di Rascino il 30 maggio 1975.

9. Pasolini, Scritti corsari, p. 42.

10. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.

11. Pasolini, Scritti corsari, pp. 57-58.

12. Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, p. 205.

13. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.

14. Ibidem.

15. Sul concetto di “fine della storia” e sulle polemiche al riguardo trascinatesi per quasi due decenni tra Pasolini e Fortini, cfr. Fortini, Attraverso Pasolini (in particolare Introduzione, pp. XII-XIII), e Scotti, “Una polemica in versi”: Fortini, Pasolini e la crisi del ’56«Studi Storici», LXV (2004), n.4, passim

16. Pasolini, Scritti corsari, p. 58.

17. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.

18. Ibidem.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

Luigi Tenco, Pier Paolo Pasolini: quando la tragedia sveglia le coscienze. Il suicidio di Luigi Tenco (1967) e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (1975): la gravità di questi due eventi scosse tante persone, ma soprattutto colpì anche parte di quel blocco conservatore indicato come “maggioranza silenziosa”, scrive Gianni Martini il 3 dicembre 2012. Si è parlato di “torpore coscienziale”, condizione politico-culturale che caratterizzava, negli anni ’60 e ’70, larghi strati della popolazione. “Maggioranza silenziosa”, così veniva definito questo “blocco sociale” trasversale che dalla piccola e media borghesia arrivava a toccare anche i ceti popolari. Ritengo importante soffermarmi su questo “muro sociale” conservatore perché la sua presenza impalpabile e, appunto, silenziosa, giocò un ruolo significativo. Più che di arretratezza politica penso si trattasse di una ben più grave arretratezza culturale che si esprimeva in una mentalità chiusa e refrattaria alle novità. Sarebbe quindi sbrigativo ed erroneo liquidare come “di destra”, compattamente, quest’area sociale. Infatti, anche una parte della sinistra popolare, allora legata al P.C.I, condivideva nei fatti le stesse posizioni conservatrici che non esitarono a condannare l’arte d’avanguardia, i capelloni dei primi anni ’60, gli omosessuali. Eppure, in quegli anni ci furono almeno due fatti che, sul piano del costume, scossero la società civile, arrivando forse a smuovere un po’ anche le “maggioranze silenziose”: 1967 suicidio di L. Tenco e 1975 omicidio di P. Pasolini. La sociologia ci insegna che quando nella società civile si verifica un “evento traumatico” si possono determinare cambiamenti nei comportamenti sociali più o meno diffusi, in relazione all’entità dell’evento stesso. L. Tenco si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, mentre era in corso il festival di Sanremo. Nel drammatico messaggio che lasciò scritto sulla carta intestata dell’albergo si leggeva un’attestazione d’amore per il pubblico italiano, ma al tempo stesso una profonda delusione per il passaggio in finale di una canzonetta insulsa come “Io tu e le rose” e una finta canzone di protesta come “La rivoluzione”. L’opinione pubblica fu scossa soprattutto perché non ci si aspettava che il Festival di Sanremo potesse essere sconvolto da una tragedia simile. La morte di L. Tenco fece irrompere nella spensieratezza del tempio della canzonetta disimpegnata e leggera, del bel canto popolare, un’altra realtà: il fatto che si potessero scrivere canzoni frutto di un’ispirazione più autentica, canzoni che parlassero della vita concreta, non idealizzata e mistificata. Che le cose stessero iniziando a cambiare – con grida di scandalo di ben pensanti e reazionari di ogni risma – lo si era in realtà già capito da qualche anno, visto che il Festival di Sanremo aveva ospitato alcuni complessi di “capelloni” e canzoni di protesta. Comunque quasi tutta la stampa batté la strada del “cantante solo, incompreso, forse depresso e inacidito per il mancato successo”. Certamente il mondo della canzone, dopo quel tragico fatto, non fu più lo stesso. Nel 1972 nacque a Sanremo il Club Tenco e nel 1974 vi si tenne la prima “Rassegna della canzone d’autore”. Il Club Tenco (presieduto e fondato da A. Rambaldi), per statuto, si impegna a promuovere e diffondere un nuovo tipo di canzone, fuori dalle strategie delle case discografiche e della musica di consumo. Una canzone rivolta alla parte più sensibile e impegnata della società civile, già frutto di una vitalità socio- culturale, segno attuale dei tempi. E veniamo alla drammatica vicenda di P. Pasolini, ucciso barbaramente nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Gli occulti mandanti e le circostanze dell’omicidio non furono mai del tutto chiarite. Anche in questo caso l’impatto fu notevole soprattutto sulle componenti della società civile più sensibili e culturalmente attive. Buona parte della stampa, dopo aver riconosciuto o semplicemente riportato con distacco il valore dell’impegno artistico e intellettuale di Pasolini, si soffermò soprattutto sugli aspetti da “cronaca nera”. La stampa più retriva e moralista trattò il caso come “maturato negli ambienti omosessuali”. Per il resto ci si limitò con poche eccezioni a descrivere le scelte di vita di Pasolini. Si perse così (volutamente, sia chiaro), l’occasione per una discussione non solo sulla statura artistica di Pasolini ma su ciò che, come giornalista, scriveva su quotidiani e riviste importanti come “Il corriere della sera”, “Il tempo”, “Panorama”, “Rinascita”, “Il mondo” ecc, oltre a dichiarazioni rilasciate in interviste, anche televisive.

Quella rivoluzione chiamata Luigi Tenco. Fascinoso, anticonformista, ombroso. Ma anche ironico e traboccante di creatività, capace di sfidare la morale con canzoni che facevano pensare. Cinquant'anni fa, il 27 gennaio 1967, il cantautore pose fine alla sua vita con un colpo di pistola. Lasciando però una grande eredità alla nostra canzone, scrive Alberto Dentice il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Se non fosse mai andato al festival di Sanremo, oggi Luigi Tenco avrebbe 78 anni, la stessa età di Celentano e chissà, forse sarebbe anche lui un insopportabile gigione. Invece, il 27 gennaio del 1967, 50 anni fa, con un colpo di pistola Tenco pose fine alla sua vita tormentata assicurandosi un posto nel paradiso dei “forever young”, accanto a Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e altre leggende del rock morte giovani e preservate perciò dagli acciacchi del tempo e dell’età. Che si sia trattato di suicido, di un fatale incidente come capitò a Johnny Ace (leggenda del R&B fulminato nel 1954 da un colpo partito per sbaglio mentre giocava con la sua pistola) o di omicidio eseguito su commissione di oscuri mandanti come quello di Pier Paolo Pasolini, il dibattito è ancora aperto. Una mole impressionante di libri e di inchieste giornalistiche ne hanno evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato. Dell’eredità spirituale e artistica di Tenco, nel frattempo ha continuato a occuparsi, nel segno dell’indipendenza e di una mission creativa scevra da compromessi con il famigerato “mercato”, la Rassegna a lui dedicata, fondata proprio a Sanremo da Amilcare Rambaldi, gran signore e appassionato conoscitore di musica popolare. Il Premio Tenco aprì le porte nel 1974, nel pieno della stagione d’oro della canzone d’autore. Poi nel ’95 Rambaldi ci ha lasciato e la manifestazione ha cominciato a perdere un po’ dell’allegria e dello spirito dilettantesco, nel senso migliore del termine, che ne avevano caratterizzato gli esordi. Le mitiche serate post festival trascorse all’osteria assistendo alle sfide in ottava rima tra Guccini e Benigni sono un ricordo. Anche il Tenco ha aperto le porte al nuovo e ha esteso il concetto di canzone d’autore fino ad abbracciare l’hip hop, la canzone dialettale, la world music e il pop all’insegna di quella contaminazione tra i generi che siamo portati a considerare il suggello della contemporaneità. L’orgoglio della diversità artistica è rimasto un punto fermo anche per Enrico De Angelis, il direttore artistico che ne ha guidato le sorti fino a poche settimane fa, coadiuvato da un ristretto comitato di esperti e appassionati. Per celebrare i 50 anni dalla scomparsa, l’edizione 2016, la quarantesima, ha previsto un gran finale tutto dedicato a Luigi Tenco. Titolo: “Come mi vedono gli altri… quelli nati dopo”. Sul palco fra gli altri anche l’istrionico Morgan che per Tenco ha una vera adorazione. Gli ha dedicato il prossimo album e una canzone: «Luigi Tenco / scappato eternamente / oltre lo spazio, le luci e il tempo / perché lui si sente /vivo / fatalmente/ solo nel momento in cui non è». Ma quanti lo ascoltano, quanti fra i giovani musicisti e i cantanti oggi conoscono Tenco? La risposta forse arriverà il 28 gennaio ad Aosta, quando sul palco del Teatro Splendor in ricordo del cantautore saliranno altri giovani protagonisti della canzone d’autore. Fra gli altri proprio il toscano Motta, cui è stato assegnato il recente premio Tenco. E che mentre si appresta a cantare il suo “Una brava ragazza”, ammette di conoscerlo poco. Ma appunto, chi era Luigi Tenco? Certo è che quel gesto estremo, notava anni fa Lietta Tornabuoni su La Stampa, «lo aveva confermato per quel che Tenco era sempre apparso all’euforico, quattrinaio e prepolitico mondo della musica leggera dei primi anni Sessanta: un guastafeste». E chissà se Carlo Conti e Maria De Filippi decideranno di commemorare l’anniversario al prossimo Sanremone. Perché la sua ombra continua a dividere come quella di un angelo sterminatore. Le cronache del tempo tramandano il ritratto di un anticonformista dal carattere ombroso e introverso ma assai consapevole del proprio fascino, jeans e maglione nero d’ordinanza, lo sguardo sprezzante del giovane arrabbiato a mascherare una profonda fragilità. Insomma, è uno che se la tira. Oltretutto il Nostro è un lettore accanito, adora Pavese e in una canzone, “Quasi sera”, cita addirittura versi di Bertolt Brecht. Quanto basta perché alla fama di intellettuale si sommi quella più sospetta di comunista. Oggi non ci farebbe caso nessuno, ma nell’Italia pre-sessantotto che vuole essere ricca, spregiudicata e ottimista basta questo per essere guardato con diffidenza, specie nell’ambiente ridanciano e superficialotto della discografia. All’immagine del pessimista introverso da sempre fa da contraltare quella del Tenco amante della vita, traboccante creatività e perfino spiritoso, bravissimo a raccontare barzellette, con un debole per le zingarate. Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, insomma, Tenco risulta essere stato tutto e il contrario di tutto. Ma sulla sua missione ha idee chiarissime: «Anche la canzone può servire a far pensare». Convinto che si debba cantare l’amore con un linguaggio nuovo, fare a pezzi i luoghi comuni, la rima baciata, il verso tronco, la retorica imperante. Sì: «Mi sono innamorato di te», ma solo «perché non avevo niente da fare». Nei primi anni Sessanta, ovviamente, non è il solo artista impegnato a rinnovare il linguaggio della canzone. Tenco è meno musicista di Bindi, meno romantico di Paoli, non ha l’aplomb aristo-maledetto di De André, ma proprio lui, genovese d’adozione (è nato a Cassine in provincia di Alessandria) è il più politico del gruppo. Nel 1962, “Cara maestra”, il “j’accuse” contro l’ipocrisia di certi precetti morali impartiti a scuola e in chiesa, gli era valso due anni di esilio dalla tv. Intanto, nella musica e non solo in quella, sta cambiando tutto. L’avvento di Bob Dylan, dei Beatles, dei Rolling Stones ha impresso al mondo un’accelerazione bestiale. Tenco, appena sbarcato alla Rca, la sua nuova casa discografica, scopre il Piper Club, il tempio romano del beat e dei capelloni, dove oltre ai Rokes, all’Equipe 84, a Patty Pravo si possono ascoltare i Primitives, i Bad Boys e molti altri gruppi rock blues inglesi sconosciuti ma bravissimi. E perfino divinità del Rhythm’ n’Blues come Otis Redding, Wilson Pickett, Sam & Dave. Tenco a differenza di Bindi, di Paoli, di Endrigo, di Lauzi, che hanno la bussola puntata verso la Francia di Brassens, guarda più all’America. Nasce come sassofonista, viene dal jazz e ha trovato in Paul Desmond il suo modello. Come se non bastasse, sussurra «Quando il mio amore tornerà da me…» con lo stesso timbro vellutato di Nat King Cole e in questo come in altri suoi lenti da mattonella farciti con overdose di violini - pensiamo a “Lontano, lontano” o a “Ti ricorderai” - riesce a toccare come pochi le corde della malinconia. Proprio al Piper, però, il Nostro deve rendersi conto che il conflitto, ormai, non è più fra destra e sinistra, quanto piuttosto una questione generazionale. Da una parte i giovani, dalla parte opposta tutti gli altri. Lui a 25 anni si sente già vecchio, e quando nel 1966 scoppia la polemica contro i capelloni, è tra i primi a schierarsi: «Gli argomenti preferiti di certa gente sono che i capelloni non lavorano, che non si lavano, che sono ignoranti; bene, a questo punto io mi proclamo un capellone, mi sento uno di loro». L’ondata dei beat, delle canzoni di protesta lo vedrà in prima linea, anche se, a onor del vero, il contributo di Tenco alla causa, “Ognuno è libero”, non si distingue per originalità. Chissà cosa pensano davvero di lui i giovani che oggi nei dischi infilano cover delle sue canzoni per accattivarsi la giuria del premio Tenco. I cinquant’anni dalla morte cadono mentre De Angelis si dimette dal Club denunciando che l’iniziale «professionalità» si sta trasformando in «professionismo», e gli eredi litigano con i gestori del museo-omaggio di Ricaldone, rei di aver esposto una gigantografia del cantante. E intorno a Tenco tira aria di maretta.

«Ecco perché Tenco fu ucciso» Il libro-inchiesta riapre il caso, scrive Monica Bottino, Sabato 23/02/2013, su "Il Giornale". «Quando molti giornalisti mi chiedono se esiste il delitto perfetto, io gli rispondo di sì: è l'omicidio Tenco». Il criminologo Francesco Bruno ne è convinto. Nella notte del 27 gennaio 1967, durante il Festival di Sanremo, avvenne quello che a 46 anni di distanza resta ancora uno dei grandi misteri italiani. Mistero, sì. Nonostante due sentenze della magistratura dicano che Luigi Tenco si è suicidato, sono tanti e insoluti i dubbi su quella notte. E non solo. A tentare di far luce su quello che è per molti un «cold case» sono due giornalisti d'inchiesta: Nicola Guarnieri e Pasquale Ragone che hanno pubblicato il libro «Le ombre del silenzio. Suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di Luigi Tenco» (edizioni Castelvecchi), proprio con la prefazione del professor Bruno. Un lavoro ponderoso che è il risultato di quattro anni di ricerche nei faldoni giudiziari, alla riscoperta di interviste dell'epoca con le persone che a vario titolo furono coinvolte nella vicenda. E nuove testimonianze. A rendere straordinario il libro non c'è solo la capacità degli autori di raccontare una storia vera come fosse un noir, ritmandola di colpi di scena e rivelazioni clamorose, ma anche e soprattutto la pubblicazione di testimonianze e materiali inediti rinvenuti nell'aula bunker della corte di Assise di Sanremo. Un lungo lavoro di ricerca che gli autori hanno portato avanti scavando tra archivi e faldoni, fino a scovare per la prima volta il foglio matricolare e alcune lettere di Luigi Tenco, documenti finora mai pubblicati. Il lettore viene assalito da molti dubbi di fronte a un quadro inquietante e alle troppe incongruenze che emergono dalle carte stesse. Alla fine emergono anche altre domande: perché Tenco doveva morire? Quali segreti custodiva? E la richiesta degli autori alla magistratura, sulla base delle nuove prove emerse, è quella di aprire nuovamente il caso. Intanto è bene sapere che Luigi Tenco in quei giorni aveva paura. Di più. Temeva per la sua vita, dopo che poco tempo prima del festival, nei pressi di Santa Margherita due auto lo avevano stretto e avevano tentato di mandare la sua fuoristrada. Era stata la terza volta che attentavano alla sua vita, confidò a un amico. Fu a quel punto che decise di acquistare una pistola Walther Ppk7.65, abbastanza piccola da tenerla nel cruscotto della macchina. Secondo gli autori non fu questa la pistola che uccise Tenco perché non uscì mai dalla macchina. Nella stanza 219 del Savoy la polizia dirà di aver rinvenuto una Bernardelli, molto simile alla precedente, ma naturalmente non quella. Inoltre nel primo verbale stilato dalla polizia «alle ore tre» (e pubblicato nel libro) si parla di proiettili, di medicinali, ma non di arma. La pistola non fu repertata. Perché? Forse perché non c'era? Ma andiamo avanti. È assodato che il cadavere fu condotto all'obitorio subito dopo il ritrovamento dai necrofori, che poi furono richiamati e costretti a riportarlo nella stanza dove fu rimesso nella posizione che aveva al momento del ritrovamento, per consentire alla polizia di scattare le fotografie e di eseguire i rilievi non fatti prima. Non fu eseguita l'autopsia. Il cadavere di Tenco non fu svestito né lavato, ad eccezione del viso. Non fu nemmeno fatto lo «stub», ovvero il test che prova se una mano ha tenuto la pistola che ha sparato. Nulla. Perché? A distanza di molti anni, a fronte di molti dubbi, nel 2006 la salma di Tenco fu riesumata. Gli esami furono - secondo gli autori - incompleti anche in questo caso. Ma ci furono esperti che si dissero convinti che la pistola che aveva ucciso Tenco avesse un silenziatore, poiché la ferita sul cranio non era a stella, ma rotonda. Ma il silenziatore non fu mai trovato. Inoltre nel 2006 non furono fatti accertamenti sui vestiti, gli stessi che l'uomo indossava al momento della morte e che avrebbero almeno dovuto avere le tracce dello sparo. Il lettore verrà condotto attraverso uno dei misteri irrisolti con dovizia di particolari e una documentazione ricca, sebbene un piccolo appunto (magari in vista di una ristampa) va fatto per la poca chiarezza delle immagini fotografiche stampate sulla carta ruvida, e in bianco e nero anche nella ricostruzione. Resta il fatto che il libro-inchiesta non solo pone questioni, ma fornisce al lettore anche una possibile chiave di lettura degli avvenimenti che culminarono in quella notte maledetta. C'è la pista argentina, per dirne una, ma si parla anche di mafia marsigliese, e di eversione di estrema destra. E anche del potere delle case discografiche a Sanremo. Non possiamo svelare di più, per non togliere il piacere di una lettura coinvolgente che attraversa fatti e personaggi della nostra storia. «Gli esami svolti nel 2006 dall'Ert non chiariscono tutti i punti oscuri e la tesi del suicidio non combacia con diversi elementi», scrive ancora Bruno nella prefazione. La soluzione al mistero è ancora lontana. Ma questo libro è un passo avanti.

Con la morte di Pino Pelosi, addio alla verità sul delitto Pasolini. Condannato come unico autore dell'assassinio, malato di cancro, con lui se ne va la speranza di conoscere come andarono davvero i fatti nel 1975, scrive il 21 luglio 2017 Chiara Degl'Innocenti su "Panorama". Con la morte Pino Pelosi se ne va l'unica possibilità di scoprire tutta la verità sul delitto di Pier Paolo Pasolini. Chiamato dalla malavita romana Pino la rana, Giuseppe Pelosi aveva appena 17 anni quando la notte del 2 novembre 1975, venne fermato alla guida dell'auto di Pasolini che era stato brutalmente ucciso all’Idroscalo di Ostia. In quell'auto furono trovate tracce del sangue del poeta ed altri indizi che portarono direttamente a Pelosi che, fermato, si assunse la responsabilità del omicidio. Il racconto fu conciso, ma non privo di buchi neri, lacune e aspetti oscuri. Il giovane infatti disse di aver opposto resistenza alle avances di Pasolini reagendo con violenza picchiando fino a uccidere. Ma la bestiale aggressione apparve inverosimile consumata da parte di un ragazzino mingherlino come Pino. Fermato dalla polizia il giovane, inoltre, era stato trovato privo di tracce di sangue e fango, mentre il corpo di Pasolini appariva massacrato da una furia disumana. Nonostante tutto questo Pino Pelosi venne condannato, in un primo momento per omicidio "in concorso con ignoti" e nel 1979, in via definitiva, a 9 anni e 7 mesi di carcere come "unico autore" del delitto Pasolini. Nel 2005 Pino Pelosi ritrattò la sua versione. Dal nulla spuntarono fuori che sarebbero state tre persone ad uccidere il poeta. Ma poiché una vera e propria ricostruzione definitiva dei fatti di quella notte non vi fu mai, ora con la morte di Pelosi questo vuoto resterà incolmabile.

«Se volete la verità su Pasolini, chiedete a Johnny lo zingaro», scrive Simona Musco il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni. «Se volete la verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini dovete trovare Johnny lo zingaro e chiederla a lui». Non ci sono vie alternative: chiunque ipotizzi l’esistenza di una storia segreta, custodita chissà dove, è solo alla ricerca «di pubblicità». A dirlo è Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna definitiva di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni, dopo una lunga malattia, unico a pagare per la morte dello scrittore, ammazzato nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Non che si sappia tutto su quel delitto: mancano gli altri esecutori e senza quelli, dice Marazzita, non si conosceranno neanche i mandanti. Ma l’altro possibile custode di quel segreto è scappato a giugno scorso. Giuseppe “Johnny” Mastini, condannato all’ergastolo per omicidi e rapine, «aveva un legame con Pelosi che nessuno ha mai voluto approfondire». Perché, dice l’avvocato, «la procura non voleva la verità». Marazzita parte da qui, dalla cassetta di sicurezza di cui parla Alessandro Olivieri, difensore di Pelosi. «Sono totalmente convinto dell’innocenza di Pelosi – aveva dichiarato -. Una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. La verità non è morta con Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità». Parole che Marazzita etichetta come «balle»: Pelosi è morto e solo Mastini può raccontare qualcosa. Ma gli indizi che portavano a lui non sono mai stati considerati. E lo stesso Pelosi manifestava l’ansia febbrile di nascondere ogni collegamento. «Due elementi portano a Johnny. Quando Pelosi viene arrestato non si dà pace per aver perso l’anello con la croce militare regalatogli da Mastini, perché capisce che può collegarlo a lui. È vero che aveva 17 anni – spiega – ma aveva un’astuzia incredibile. Era capace di vanificare immediatamente una domanda capziosa e il collegamento ossessivo che aveva fatto con quell’anello poi ritrovato sul luogo dell’omicidio la diceva lunga. Mastini era claudicante, per una ferita ad una gamba dopo aver ucciso un poliziotto. Nella macchina di Pier Paolo fu trovato un plantare, che poteva appartenere ad una sola persona, ma la mia richiesta di fare un esperimento giudiziale per vedere se fosse suo non fu mai accolta». Non c’è però «alcun dubbio» che sia stato Pelosi ad uccidere Pasolini. L’allora 17enne fu fermato la notte stessa a Ostia, alla guida dell’auto del poeta, un’Alfa Gt 2000 grigia metallizzata. Accusato di furto, confessò di avere rubato l’auto, raccontando, durante l’interrogatorio, di essere stato abbordato da Pasolini e di averlo investito involontariamente dopo una colluttazione a colpi di bastone per aver prima accettato e poi rifiutato una prestazione sessuale. E, inizialmente, disse di aver fatto tutto da solo. Il primo processo davanti al tribunale dei minori, presieduto dal fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo Moro, lo vide condannato per omicidio in concorso con ignoti. «Quella sentenza fu un capolavoro giudiziario – spiega Marazzita – Dice che non fece tutto da solo e non è vero che la sentenza d’Appello negasse la presenza di complici. I giudici di secondo grado non se la sentirono di dire con certezza che ci fosse qualcun altro, ma non lo esclusero. E anche Pelosi ammise che c’erano dei complici durante l’intervista con la Leosini, seppur ampiamente pagato». Secondo il legale, la procura generale, nel condurre le indagini, «dimostrò chiaramente l’intento di non approfondire ma di voler bloccare l’inchiesta. Quando il giudice Moro, che aveva capito che non funzionava niente in quelle piccole indagini fatte in 45 giorni, disse che era certa la presenza di altri, la procura generale impugnò subito la sentenza, senza nemmeno attendere le motivazioni – ha aggiunto -. Questo è stato il segnale che non volevano indagare, perché se si fosse risalito agli esecutori materiali allora si sarebbe potuto arrivare ai mandanti, che potrebbero essere anche uomini delle istituzioni. Negli anni ho chiesto la riapertura del caso cinque volte, perché le indagini vere non sono mai state fatte». Tra i nomi poi attribuiti ai complici di Pelosi furono fatti anche quelli dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, alias Braciola e Bracioletta, trafficanti di droga e militanti nell’Msi. Un poliziotto infiltrato li aveva anche sentiti vantarsi di quel delitto ma uscirono dalle indagini dopo aver dichiarato ai magistrati di essersi inventati tutto per fare i duri. «Di loro parla solo dopo la loro morte (negli anni 90, ndr) – dice il legale – Erano ormai innocui, mentre Johnny era ed è ancora pericoloso e rimane l’unico a poter entrare nelle indagini sulla morte di Pier Paolo». Marazzita non la esclude. «Potrebbe capitare l’occasione, con magistrati seri, capaci di approfondire. In quel caso, con l’autorizzazione di Graziella Chiarcossi (la nipote, ndr), la chiederei. E vorrei approfondire i rapporti tra Pelosi e Mastini, perché e quanto si vedevano, se avevano commesso reati insieme», ha aggiunto. E la cassetta di sicurezza? «Non esiste. Perché non è uscita fuori prima?». L’ultimo cenno è al suo rapporto con Pelosi. «Mi vedeva come un nemico. Aveva paura delle mie domande. Poi, con gli anni, incontrandomi spesso ha finito per considerarmi uno di famiglia». Ma non abbastanza da spiegare perché Pasolini è morto. «Quello non lo sapremo mai».

Pier Paolo Pasolini e il mistero di Petrolio nel film La macchinazione di David Grieco. Arriva in sala il 24 marzo la pellicola che racconta la stesura del libro e la morte misteriosa dello scrittore. Nel ruolo del protagonista, Massimo Ranieri. Mentre il regista fu assistente alla regia di PPP, scrive il 14 marzo 2016 "L'Espresso". «A un certo punto avrò bisogno del tuo aiuto, Alberto», parla così al telefono con Moravia il Pasolini di David Grieco, nella clip in anteprima del film La macchinazione, dal 24 marzo nelle sale: «Non so neanche io cosa sto scrivendo, vado avanti come posseduto da un demonio, ho già superato le 400 pagine e forse arriverò a 2000». «Per ora posso dirti il titolo: Petrolio», continua la conversazione tra Moravia e Pasolini, cioè Massimo Ranieri, a cui è toccato il delicato compito di raccontare gli ultimi giorni di vita dell’intellettuale, impegnato nel montaggio di Salò e le 120 giornate di Sodoma e nella stesura del romanzo uscito postumo, atto di accusa che riprende il libro Questo è Cefis, uscito nel 1972 ma subito scomparso dagli scaffali, in cui un informato autore sotto pseudonimo ricostruisce «l’altra faccia dell’onorato presidente», l'altra faccia di Eugenio Cefis, presidente dell’Eni dopo la morte di Mattei e poi della Montedison, indicato come «il vero capo della P2». Salò, Petrolio, la relazione con Pino Pelosi, giovane sottoproletario romano che ha legami con il mondo criminale della capitale. Il 2 novembre 1975, Pasolini morirà a Ostia. E Grieco, già assistente del cineasta e poeta, con il suo film si pone la domanda: «Chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini?»

Il vero mistero su Pasolini è capire come il film di David Grieco abbia trovato posto in un cinema. Quanto volete per smettere? Per lasciare in pace Pier Paolo Pasolini? Tutto questo tempo sprecato per farlo diventare uno dei misteri d’Italia non sarebbe meglio adoperato per leggersi qualche poesia, magari sul vincitore dello Strega che nessuno ricorda l’anno dopo, peggio del vincitore al Festival di Cannes? Scrive Mariarosa Mancuso il 25 Marzo 2016 su "Il Foglio". Tanto tempo sprecato per farlo diventare un mistero d’Italia, ripetiamo volentieri, perché le cose sono andate al contrario: a furia di fare inchieste per stanare scomode verità, il caso si è ingigantito e l’intrigo si è complicato invece di sbrogliarsi. Fino al paradosso: il cugino Nico Naldini, di anni 87, uno che non ha mai voluto sentire parlare di congiure o di complotti (“incidente di percorso in una vita sregolata”, ha detto più volte) non viene invitato né agli anniversari né alle celebrazioni. Tutti hanno detto la loro, incluso Walter Veltroni. Massimo Ranieri ha la parte del poeta nel film di David Grieco “La macchinazione”, ora nelle sale: è bastato per aggiungersi alla lista dei deliranti. Dopo aver indossato un giubbotto scamosciato e girato la scena di una partita a calcio in borgata ha preso anche lui il numeretto e a gran voce ha chiesto la verità su Pasolini. Uno che si faceva tingere i capelli di nero dalla mamma, racconta il film, e non si capisce se lo scandalo sta nel nerofumo, o nella tintura casalinga con la boccetta comprata sugli scaffali del supermercato. Il complotto, o la congiura, o il grande mistero pasoliniano si estende nel film di David Grieco fino a comprendere la banda della Magliana (da “Romanzo Criminale” in poi si porta con tutto). Il mistero più grosso – su cui mancano le indagini – è sapere come mai un film come questo sia stato scritto, girato, distribuito in sala, senza che nessuno facesse la minima obiezione. Cinematografica, almeno, se non di sostanza fanta-criminale. Interessanti anche i retroscena: David Grieco avrebbe dovuto collaborare con Abel Ferrara, per il suo “Pasolini” presentato alla Mostra di Venezia nel 2014 (lo stesso anno del ripassino su Giacomo Leopardi inflitto da Mario Martone). Qualcosa andò storto, e per il gusto della scissione che caratterizza i cultori di Pier Paolo Pasolini - oltre che la sinistra italiana – ora si è fatto un film tutto suo (fa coppia con il volume – sempre firmato David Grieco – uscito da Rizzoli con il titolo “La macchinazione. Pasolini. La verità sulla morte”). La macchinazione è tanto arzigogolata che abbiamo vergogna perfino a raccontarla, tra Eugenio Cefis (“lo considero il demonio dell’Italia d’oggi”, testuale nel film), una sala da biliardo in periferia, il furto con richiesta di riscatto delle bobine di “Salò - Le 120 giornate di Sodoma”, pagine di “Petrolio” che correggono “bomba alla stazione Termini” in “bomba alla stazione di Bologna”. Però garantiamo che a vederlo è peggio.

Pier Paolo Pasolini, la storia e il mistero irrisolto della morte, scrive il 29 Ottobre 2015 Emilia Abbo. Pier Paolo Pasolini avvolto in un mistero. Andiamo a ripercorrere la storia del poeta e nello specifico il caso irrisolto della morte. Pasolini venne brutalmente ucciso all’idroscalo di Ostia la notte fra il primo ed il 2 novembre 1975, e pertanto in questi giorni si celebra il quarantesimo anniversario da quel tragico evento. La mattina del 31 ottobre, ad esempio, il ministro della cultura Dario Franceschini sarà a Pietralata, un quartiere che era molto caro allo scrittore. Significative personalità, anche vicine affettivamente allo scrittore (come ad esempio il suo biografo e cugino Nico Naldini, il suo vecchio amico Giancarlo Vigorelli, nonché l’italianista Guido Santato, che ne fu il più attento studioso) partono dalla convinzione che Pasolini divenne, in un certo senso, regista della sua stessa morte, a causa della vita sregolata e rischiosa che conduceva, e che includeva la frequentazione dei cosiddetti ‘ragazzi di vita’ delle periferie romane.

Il movente biografico: i “ragazzi di vita”. Attraverso la pubblicazione di un diario giovanile, uscito col titolo Il romanzo di Narciso (1946-7), Pasolini rivela ai lettori la propria omosessualità.  Quando scriveva queste pagine lo scrittore bolognese viveva in Friuli, nei pressi di Casarsa (la località di cui sua madre era originaria) dove si era rifugiato all’indomani dell’otto settembre 1943, quando aveva rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi. Il 1945 era stato un anno molto difficile per Pasolini, per via della perdita del fratello Guido (che era entrato nelle file del partigianato). Dopo la laurea, conseguita quello stesso anno con una tesi sul Pascoli, Pasolini trova un posto come insegnante nella scuola media di Valvassone, ma il 15 ottobre del 1949 verrà denunciato per corruzione di minorenni, perdendo la cattedra. Anche i dirigenti regionali del PCI, per i quali Pasolini collaborava dal 1947 sulle pagine del settimanale Lotta e lavoro, lo espelleranno dal partito. Per sfuggire allo scandalo, Pasolini si rifugia con la madre a Roma, dove giunge nel gennaio 1950. Il distacco dal mondo contadino friulano, che verrà da lui sempre mitizzato (non a caso, Pasolini compose poesie in dialetto casarsese), si accompagnerà ad una nuova presa di consapevolezza. Alla sua amica Silvana Mauri Ottieri confiderà infatti di sentire ormai sulla pelle il segno di Rimbaud o di Campana o di Wilde, e quindi di essere destinato ad un senso di emarginazione e condanna da parte della società. Giunto nella capitale, la madre prende servizio presso una famiglia come domestica, e Pasolini si adatta a fare il correttore di bozze ed a vendere i suoi libri nelle bancarelle rionali. Grazie al poeta Vittorio Clemente, nel dicembre 1951 trova un altro impiego come insegnante a Ciampino. Tuttavia, lo scrittore non riesce a fare a meno di frequentare l’ambiente periferico ed adolescenziale delle borgate, che divenne fonte di ispirazione per il suo romanzo Ragazzi di Vita (1955). Per questo libro Pasolini (accanto alla casa editrice Garzanti) venne processato, e solo grazie all’intervento di eminenti letterati come Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo (che evidenziarono un senso di umana pietà misto a crudo realismo) lo scrittore venne assolto.  Analoga sorte ebbe il romanzo Una vita violenta (1955) che intendeva essere una continuazione del suo progetto ‘sottoproletario’, portato avanti anche nei film Accattone (presentato al festival di Venezia del 1961) e Mamma Roma (interpretato nel 1962 da Anna Magnani).  Anche in questi capolavori cinematografici i ragazzi delle borgate romane non hanno alcuna speranza di affrancamento o redenzione, e la morte diviene l’unica via d’uscita ad un destino di corruttiva miseria e disperazione. La frequentazione di piccoli malavitosi causerà a Pasolini altri problemi giudiziari. Nel giugno 1960, ad esempio, Lo scrittore verrà accusato di aver favoreggiato due ragazzi coinvolti in una rissa, e nel novembre dell’anno seguente vedrà il suo appartamento perquisito, poiché sospettato di una rapina a mano armata in un bar di San Felice Circeo. Il responsabile dell’omicidio Pasolini fu subito ritenuto il diciassettenne reo confesso Giuseppe Pelosi (soprannominato ‘Pino la rana’), già noto alle forze dell’ordine per vari furtarelli, e che venne dichiarato colpevole di omicidio doloso nella sentenza di primo grado. Alla sua versione dei fatti venne aggiunto il ‘concorso con ignoti’, poi inspiegabilmente smentito dalla corte d’appello il 4 dicembre 1976. Tuttavia, questa sentenza non é mai stata ritenuta davvero definitiva, anche perché nel corso del tempo si sono innalzate molte voci (fra cui quella della scrittrice Oriana Fallaci e del regista Marco Tullio Giordana) a sostegno dell’omicidio di gruppo, che lasciava spazio ad altri moventi oltre a quello di un diverbio fra un ‘ragazzo di vita’ ed il suo esigente cliente. Il fatto che il poeta, quella notte, fosse stato vittima anche (o soltanto) di terzi venne validato da vari indizi, come ad esempio l’esile corporatura di Pelosi, che al momento dell’arresto (avvenuto subito dopo il delitto) non aveva significative ferite o segni di colluttazione sugli abiti. La leggerezza e friabilità dell’arma del delitto (che fu identificata con una tavola di legno che serviva ad indicare il numero civico di un’abitazione) sarebbe stata incompatibile con le ferite che vennero selvaggiamente inferte, e che si addicevano ad un oggetto assai più pesante e contundente. Nel caso Pasolini, del resto, vi sono state, e fin dall’inizio, delle gravi negligenze, ed un articolo sull’Europeo del 21 novembre 1975 illustra chiaramente come la scena criminis venne inquinata. La polizia, accorsa sul posto verso le sette di mattina, non disperse la folla di curiosi, e non vennero nemmeno indicati i punti esatti dei vari ritrovamenti. La macchina di Pasolini rimase esposta ad una pioggia insistente, e dopo aver svolto le prime indagini venne rottamata. Sul luogo del delitto non giunse nemmeno un medico legale, e sull’adiacente campetto di calcio, che poteva offrire segni di plantari e pneumatici, venne giocata una partita. Alcuni oggetti (come ad esempio la camicia e gli occhiali che quella sera Pasolini indossava) vennero esposti al museo di criminologia di Valle Giulia, ed anche se in seguito sono stati analizzati con tecniche più moderne e sofisticate (lo stesso comandante del Ris di Parma, Nicola Garofalo, ha coordinato le perizie) i risultati rimangono comunque secretati, e non pienamente attendibili a causa delle negligenze che si verificarono nelle quarantotto ore che seguirono il delitto. Anche le più fresche testimonianze non ebbero il credito che meritavano. Assai emblematica rimane quella di un pescatore (immortalata in un prezioso film-documentario di Mario Martone) che sostenne di avere visto, quella tragica notte, una seconda auto accanto all’Alfa Romeo di Pasolini, ed udito voci di diverse persone, oltre al grido disperato dello scrittore che invocava sua madre. Presente agli atti è la versione della cugina del regista, Graziella Chiarcossi, secondo la quale il maglione che venne ritrovato sul sedile posteriore dell’auto non apparteneva a Pasolini.  Ma non solo.  Il proprietario della trattoria ‘Biondo Tevere’ ritenne che, quella sera, il poeta era in compagnia di un giovane che non aveva le stesse caratteristiche fisiche del diciassettenne di Guidonia. Inoltre, un ex-appuntato dei carabinieri, che indagava in borghese, mise in evidenza il coinvolgimento di due ragazzini siciliani (soprannominati ‘fratelli braciola’), che frequentavano lo stesso circolo ricreativo di Pelosi, e che morirono di malattia negli anni Novanta. Come se non bastasse, nel maggio 2008 lo stesso Pelosi decise di ritrattare, e sostenne, durante una trasmissione televisiva, che la sua unica responsabilità fu quella di avere investito accidentalmente il corpo già inerte di Pasolini, laddove il delitto vero e proprio venne materialmente eseguito da tre individui adulti.  Aggiunse di aver taciuto fino a quel momento per non esporre i suoi ormai defunti genitori a ritorsioni. Nonostante questo, la vicenda non prese una vera e propria svolta, tanto che l’avvocato Nino Marazzita parla ancora oggi di ‘inerzia colpevole’ da parte degli inquirenti (Tusciaweb.it, 26 aprile 2014) e l’avvocato Guido Calvi (anch’egli incaricato dalla famiglia Pasolini all’epoca del delitto) ritiene che si sia voluta spegnere la voce del poeta con l’arma della diffidenza e con ‘risposte sconcertanti’ (Corriere.it, 4 maggio 2010).

Il movente cinematografico: le bobine di Salò. Fra le varie teorie sulla morte di Pasolini merita attenzione anche quella che si profilò grazie alla testimonianza del regista Sergio Citti, il quale asserì che, poche settimane prima dell’omicidio, Pasolini subì la sparizione di due bobine cinematografiche (quelle che in gergo sono chiamate ‘pizze’), ovvero di due copie del suo ultimo film, intitolato Salò. Citti sostenne che quella fatidica sera del primo novembre Pasolini doveva vedere dei loschi individui, ovvero i probabili autori del furto, e seppur questo incontro richiedesse un notevole coraggio, Pasolini era disposto ad affrontarlo lo stesso poiché ci teneva a recuperare l’insostituibile lavoro di montaggio, che era stato effettuato con la tecnica del ‘doppio’, ovvero girando le stesse scene anche da un’inquadratura diversa. Le bobine di questo film, furono probabilmente sottratte per il loro contenuto scabroso. Pasolini stesso sapeva che questa pellicola avrebbe suscitato reazioni anche per il suo significato sottilmente ideologico, poiché si creava una correlazione fra le tematiche dei romanzi di Sade e la dominazione di massa capitalistica (identificata al kantiano ‘male radicale’).  Mentre girava questo suo ultimo film, forse Pasolini avvertiva l’avvicinarsi della sua morte. Non a caso, volle accanto a sé figure amiche, come l’attrice Laura Betti (nel ruolo di doppiatrice) e poi anche l’affezionato Ninetto Davoli e lo stesso Sergio Citti, per il quale fu questo film a rendere reali quelle paure che il regista aveva già allontanato con stoico distacco: La morte compie un fulmineo montaggio nella nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi <…>  e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile ed incerto, un passato chiaro, stabile, certo e dunque linguisticamente ben descrivibile (Pier Paolo Pasolini, Empirismo Eretico).

Il movente letterario: “Lampi su Eni”. Un’interessante teoria è quella legata alla cosiddetta ‘questione Eni‘, poiché direttamente riconducibile al lavoro letterario che l’autore, al momento della sua morte, stava svolgendo con la casa editrice Einaudi. Nel romanzo-inchiesta (rimasto incompiuto) Petrolio, che venne pubblicato postumo nel 1992 (e del quale restano 522 pagine) si delinea una lotta di potere che avviene nel settore petrol-chimico. La finzione del romanzo è riconducibile ad un reale fatto di cronaca, ovvero alla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, che avvenne nel 1967, quando l’aereo su cui si trovava a bordo perse quota sulla campagna pavese. Pasolini giunse, con trent’anni di anticipo, alle stesse conclusioni del magistrato Vincenzo Calia, che chiese l’archiviazione del caso nel 2003.  Per Pasolini la morte di Mattei non fu causata da un fatale incidente, ma semmai da un sabotaggio, da ricondursi agli intrighi dell’ambizioso personaggio che nel suo romanzo rappresenta Eugenio Cefis, il quale divenne presidente della Montedison nel 1971, dopo aver co-fondato l’Eni assieme allo stesso Mattei.  Anche la scomparsa del giornalista Mauro de Mauro, che stava preparando un dossier per il regista Francesco Rosi (il quale decise di girare un film sul caso Mattei) potrebbe essere legata a qualche scottante notizia non dissimile dalla teoria portata avanti in Petrolio. Pasolini ebbe come sua fonte il libro Questo é Cefis, l’altra faccia dell’onorato Presidente, pubblicato nel 1972 sotto lo pseudonimo Giorgio Steimez, e che venne subito ritirato dalla circolazione, ma del quale Pasolini aveva una versione in fotocopia grazie al suo amico Elvio Facchinelli. Per Pasolini Mattei non era un un anacronistico utopista-statalista, ma piuttosto un lungimirante imprenditore, pieno di entusiasmo e di positive risorse, che aveva già evitato la vendita dell’Agip negli anni Quaranta. Mattei proponeva ai paesi arabi ed africani (principali produttori di greggio) condizioni più vantaggiose rispetto a quelle proposte dai trust anglo-americani del petrolio, mettendosi quindi in aperta competizione con le cosiddette ‘sette sorelle’, ovvero con le potenti multinazionali nella cui orbita atlantica Cefis voleva invece ricondurre l’economia della nostra nazione. Tuttavia, fu un capitolo in particolare, intitolato ‘Lampi su Eni’, che venne indicato come probabile movente della morte dello scrittore. Il 2 marzo 2010 il senatore Marcello Dell’Utri (all’epoca ancora in attesa di sentenza definitiva) sostenne, durante una conferenza stampa, di aver visto coi suoi occhi le pagine in questione, che si riteneva non fossero mai state scritte, e nelle quali sarebbero state fornite informazioni più specifiche sull’omicidio Mattei. Aggiunse che questo capitolo, altrimenti detto ‘appunto 21’, sarebbe stato sottratto dallo studio di Pasolini, ed avrebbe fatto la sua comparsa, nei giorni a venire, alla XXI fiera milanese del libro antico. Anche se questo in realtà non avvenne, su iniziativa dell’onorevole Walter Veltroni (il quale scrisse una lettera aperta all’allora ministro della giustizia Angelino Alfano) un nuovo fascicolo venne aperto sul caso Pasolini. Tuttavia, nulla di nuovo emerse a riguardo, anche se i legami di Cefis con la loggia massonica della P2 (che era implicata in quella ‘strategia della tensione’ della quale Pasolini parlava senza remore) davano adito ad altri nuovi ed inquietanti scenari.

Il movente giornalistico: il coraggio “corsaro”. Comprendere il delitto Pasolini é quindi impossibile se si prescinde dall’ideologia dello scrittore, che viene apertamente espressa nei suoi Scritti corsari (1972) dove, senza troppa arte diplomatica, vengono compiute dissacratorie incursioni nel mondo politico-istituzionale, ed anche nella società nel suo complesso. In questi scritti (che raccolgono soprattutto gli articoli giornalistici che Pasolini scrisse per il Corriere della Sera ed Il Tempo) la marxista critica al capitalismo (ed il conseguente rimpianto per la civiltà pre-industriale) vengono espressi in modo unico ed originale, sia per lo stile (assolutamente chiaro, lineare, coerente, inequivocabile) e sia per i costanti riferimenti alla propria esperienza. Pasolini traspone in schietti pensieri teorici (ed anche in polemici commenti) le sue personali e soggettive impressioni, i dettagli e le situazioni che vede e vive intorno a sé. Questi scritti sono quindi corsari sia per la coraggiosa genuinità dell’autore e sia perché evocano, seppur indirettamente, un mondo romanzesco ed avventuroso, creato per appassionare le giovani generazioni. Pasolini evidenzia come, negli anni Settanta, i giovani abbiano invece perso ogni vitale entusiasmo, ogni segno particolare, e si siano borghesemente omologati.  Nella sua tendenza a contrapporre i tempi, Pasolini rievoca i capelloni degli anni Sessanta, che nulla avevano a che fare con quelli del decennio seguente, che hanno ormai perso la potenzialità semantica dei loro gesti ed atteggiamenti, ed anche ogni espressività e coloritura gergale. Secondo l’autore, si é dunque verificata una ‘mutazione antropologica’, poiché i giovani, nella loro ‘ansiosa volontà di uniformarsi’, non solo sono diventati simili nella loro ‘sottocultura’ esteriore, ma anche nel modo di parlare e di pensare (dal centro alla periferia, dal nord al sud, dallo studente all’operaio), cosicché anche le ideologie si confondono, ‘secondo un codice interclassista’. Pasolini ritiene che il maggior errore delle nuove generazioni sia stato quello di non aver mantenuto un dialogo coi loro padri, e quindi di non aver potuto (dialetticamente e non solo) superare i loro limiti, le loro colpe. Lo spirito di ribellione ha spinto i giovani a mettersi nelle mani di un ‘nuovo fascismo’ (definito consumistico-edonistico) assai peggiore del precedente, poiché deforma sottilmente le coscienze e mercifica i corpi. Per Pasolini, il fascismo mussoliniano dei padri era un fenomeno soprattutto ‘pagliaccesco’, poiché una volta tolte le uniformi e le divise tutti tornavano identici a prima, coi loro stessi valori e le loro stesse idee. Questo tipo di fascismo diventa per lui anche archeologico, poiché gli obsoleti comizi in piazza nulla avevano a che fare coi messaggi pubblicitari del nuovo bombardamento ideologico televisivo, che si instilla nell’anima in modo subdolo, imponendosi nel profondo: E’ in Carosello onnipotente che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’ vivere (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, ed. Garzanti, 2015, p. 59). Pasolini riteneva che la manipolazione pubblicitaria rappresentasse la fine del linguaggio umanistico, e quindi che un nuovo modo di esprimersi (tecnico, pragmatico, standard) stesse prendendo piede. Lo slogan Jeans Jesus. Non avrai altri jeans all’infuori di me esemplifica il modo in cui la nuova civiltà ‘consumistica-edonistica’ ha strumentalizzato quella dimensione spirituale che prima apparteneva alla Chiesa. Seppur per Pasolini quest’ultima non sia incolpevole nella sua opulenza e nella sua lunga storia di potere, non merita comunque di venire spodestata da una tirannia che non ha alcun rispetto per quel messaggio che egli stesso volle rappresentare, in tutta la sua sublime semplicità, nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964). Per Pasolini i giovani stanno dunque vivendo il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto, poiché l’apparente libertà democratica che si respira non è stata ottenuta attraverso una rivoluzione popolare (come è avvenuto, ad esempio, nella Russia del 1917) ma è stata imposta dall’alto coi suoi modelli da seguire: Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo (idem, p.60). Se il mondo contadino pre-industriale si basava su necessità primarie (come il pane che era già una benedizione ad averlo) la nuova società dei consumi, nel suo bisogno di perseguire il superfluo, non solo ha immiserito il paesaggio circostante (nel quale sono ormai scomparse le lucciole) ma anche la capacità di recepire, di sentire. Se quest’ultima fosse rimasta intatta, anche ‘una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end ad Ostia’ potrebbero essere interpretati con poesia e passione, nello stesso modo in cui Leopardi interiorizzava ‘la natura e l’umanità nella loro purezza ideale’. Pasolini amava profondamente quel senso di ingenua spensieratezza che caratterizzava i non acculturati, e che ora vede soltanto umiliati. Simbolo di questa antica felicità dei ragazzi del popolo diviene il garzoncello del fornaio: Una volta il fornarino, o cascherino-come lo chiamiamo qui a Roma-era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicia uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta questa persona, questo ragazzo, era allegro. (idem, p.61). Secondo Pasolini, anche lo stragismo di quegli anni (fra cui l’attentato di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969) è espressione della nevrosi che deriva dal conformismo. Per Pasolini i veri responsabili degli atti terroristici non erano dei giovani sbandati e senza validi punti di riferimento, ma semmai il sistema governativo nel suo complesso, poiché il fatto stesso di far parte del tessuto politico implica il corrompersi, il divenire conniventi. Pasolini, nel famoso articolo del 1974 Che cos’è questo golpe? afferma di conoscere i nomi dei veri responsabili delle stragi, ma di non poterli rivelare poiché (in quanto personalità estranea ai giochi di potere) non ha ‘né prove né indizi’, ma solo la certezza del suo intuito di uomo intellettuale, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un intero quadro politico (idem, p.89). Pasolini riconduceva il termine stragismo anche alla pratica dell’aborto, che ritiene una tragedia demografica ecologica, ovvero uno minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. Pasolini evidenzia che nell’ambito del ‘nuovo fascismo’ un figlio che nasce non è più considerato un dono di Dio, ma soltanto un fastidio, poiché prevale il timore dell’essere in troppi nella spartizione dei beni di consumo. Piuttosto che rinunciare ai propri capricci, si preferisce eliminare chi è più debole ed indifeso. Per Pasolini l’aborto è una colpa morale, un qualcosa che riguarda non la politica ma la coscienza individuale. La logica dell’eugenetica non ha nulla a che fare con la democraticità dello stato prenatale, con la sua piena ed incondizionata aderenza alla vita: Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un altrettanto furibonda, totale essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha un qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e gioioso. (idem, p.111).  Sono parecchi gli articoli in cui Pasolini permalosamente se la prende coi suoi critici o detrattori, e che sono, a loro volta, intellettuali (spesso di sinistra come lui) e anche di tutto rispetto, come ad esempio Umberto Eco, Giorgio Bocca, Italo Calvino, Giuseppe Prezzolini, Franco Rodano, Maurizio Ferrara. Secondo Pasolini, anche il mondo intellettuale era chiuso nel suo ristretto snobismo: Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale.  Lo so perché in parte è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente per bene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio (idem, p.52). Per Pasolini l’unico suo vero impegno diviene quello preso col lettore, che ritiene all’altezza di accettarlo nel bene e nel male, di accompagnarlo nelle sue più smodate ed indomite incursioni: Io non  ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla mai voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello di un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca (idem, p.83).

Alberto Moravia, durante la celebre orazione funebre in onore di Pasolini, mise in evidenza che era stato innanzi tutto perso un poeta, ovvero un qualcuno che nasce di rado nel corso dei secoli.

"<…> Piange ciò che ha

fine e ricomincia. Ciò che era

area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,

chiuso in un decoro ch’é rancore;

ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,

e si fa nuovo isolato, brulicante

in un ordine ch’é spento dolore.

Piange ciò che muta, anche

per farsi migliore. La luce

del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: é qui, che brucia

in ogni nostro atto quotidiano,

angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell’impeto gobettiano

verso questi operai, che muti innalzano,

nel rione dell’altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza."

(Pier Paolo Pasolini Il pianto della scavatrice, 1956) 

Ninetto Davoli: "Il mio Totò segreto". I ricordi dell'attore che recitò negli ultimi film del Principe girati da Pasolini: "Pier Paolo mi disse che avrebbe potuto superare Chaplin", scrive Ilaria Urbani il 14 aprile 2017 su “La Repubblica”. "Totò senta...". "Dite Pasolini...". "Antonio si sciolga, faccia una "totolata"". Gli sembra ancora di averli davanti agli occhi sul set di "Uccellacci e uccellini". Ninetto Davoli, dopo mezzo secolo, ha ancora vivido il ricordo del confronto tra la più grande maschera del '900 e il regista corsaro. E nel racconto dell'ex ragazzo di borgata della baraccopoli Borghetto Prenestino, scoperto da Ppp, sembra di rivedere anche padre e figlio Innocenti in quell'infinito cammino in bianco e nero sul set di una pellicola considerata dallo stesso Pasolini "disarmata, fragile". E di ritrovare pure frate Ciccillo e frate Ninetto. Davoli, dalle borgate al set del capolavoro poetico e picaresco, svolta colta nella carriera del Principe. Un incontro epifanico con quell'attore che Ninetto fino ad allora vedeva al cinema con gli amici. Un sodalizio che proseguì ne "La terra vista dalla luna" da "Le streghe" e in "Che cosa sono le nuvole?", dal film ""Capriccio all'italiana", l'ultimo girato da Totò prima di morire il 15 aprile 1967.

Davoli, cosa ha significato per lei Totò?

"Avevo 16 anni, Totò è stato fondamentale per iniziare quest'avventura, mi ha incoraggiato davanti alla cinepresa, ha alleggerito questa esperienza. Successe tutto all'improvviso, era così surreale trovarmi a recitare con il grande Totò, uno che andavo a vedere al cinema come Stanlio e Ollio. Ma questa volta non dovevo pagare per vederlo, era lì con me, ed ero pagato per recitare con lui. Mi davano 100mila lire, a uno povero come me. Facevo il falegname, a casa eravamo in sei in una sola stanza, vivevamo con 5mila lire alla settimana".

Totò come si rapportava sul set con questo giovane esordiente?

"Come me veniva dalla povertà, lui dai quartieri scalcinati di Napoli, io dalle borgate romane, ideologicamente la pensavamo uguale. Il nostro fu uno scambio di semplicità, una vera complicità. Secondo Pier Paolo ci somigliavamo. Considerava Totò uno di strada come me, un non -intellettuale, anche se lo rispettava molto, gli dava del lei: "Totò senta", "Antonio ascolti"... ".

E Totò nei confronti di Pasolini?

"Anche Totò gli dava del voi: era intimorito da Pier Paolo, non improvvisava come faceva in genere, ma rispettava la sceneggiatura. Pier Paolo gli diceva: Antonio si sciolga, faccia una "totolata". C'era grande stima".

Pasolini racconta di aver scelto Totò per quella perfetta armonia tra l'assurdità clownesca tipica delle favole e l'immensamente umano...

"A Pier Paolo piacevano i film di Totò e diceva che avrebbe potuto superare Charlie Chaplin se l'avessero saputo "usare meglio", nel senso se avesse fatto più film d'autore".

Nel '66 Pasolini scrisse un film sull'utopia, "Le avventure del Re magio randagio", che lei doveva interpretare con Totò, ma poi non si fece in tempo e che poi ha ispirato un film di Sergio Citti...

 "Sì, ma quella di Pier Paolo era una storia diversa, non c'entra con quella di Citti. Totò doveva essere il Re magio e io il suo aiutante. Con un dono partivamo da Napoli alla ricerca di Cristo che stava per nascere. Attraversavamo Roma, Milano, Parigi, New York e poi arrivavamo a Betlemme, ma trovavamo Cristo già morto. Dopo la scomparsa di Totò, Pasolini voleva Eduardo (il titolo diventò "Porno-Teo-Kolossal", ndr), ma poi è successo quello che è successo...".

Oggi chi è in grado di raccogliere l'eredità di Totò e Pasolini?

"Non esiste nessuno con quella potenza e quel coraggio. Totò e Pier Paolo vengono celebrati soprattutto da morti, ricordiamo che Totò veniva massacrato dai critici. Sono accomunati da un destino simile. Trovo giusto celebrare Totò a 50 anni dalla morte, ma mi chiedo perché non prima? Totò andrebbe studiato di più nelle scuole, così come Pier Paolo ed Eduardo".

Totò. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però per venire riconosciuti in qualcosa, bisogna morire.» (Franca Faldini, citando le parole del compagno Totò). «Ma mi faccia il piacere!», « ... bazzecole, quisquilie, pinzellacchere!» (Modi di dire di Totò).

Antonio De Curtis, in arte Totò. Totò, pseudonimo di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro-genito Gagliardi de Curtis di Bisanzio (brevemente Antonio de Curtis) (Napoli, 15 febbraio 1898 – Roma, 15 aprile 1967), è stato un artista italiano. Attore simbolo dello spettacolo comico in Italia, soprannominato «il principe della risata», è considerato, anche in virtù di alcuni ruoli drammatici, uno dei maggiori interpreti nella storia del teatro e del cinema italiani. Si distinse anche al di fuori della recitazione, lasciando contributi come drammaturgo, poeta, paroliere, cantante. Nato Antonio Vincenzo Stefano Clemente da Anna Clemente (Palermo, 2 gennaio 1881 - Napoli, 23 ottobre 1947) e dal marchese Giuseppe De Curtis (Napoli, 12 agosto 1873 - Roma, 29 settembre 1944), fu adottato nel 1933 dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri. Maschera nel solco della tradizione della commedia dell'arte, accostato a comici come Buster Keaton e Charlie Chaplin, ma anche ai fratelli Marx e a Ettore Petrolini. In quasi cinquant'anni di carriera spaziò dal teatro (con oltre 50 titoli) al cinema (con 97 pellicole) e alla televisione (con 9 telefilm e vari sketch pubblicitari), lavorando con molti tra i più noti protagonisti dello spettacolo italiano e arrivando a sovrastare con numerosi suoi film i record d'incassi. Adoperò una propria unicità interpretativa, che risaltava sia in copioni puramente brillanti sia in parti più impegnate, sulle quali si orientò soprattutto verso l'ultima fase della sua vita, che concluse in condizioni di quasi cecità a causa di una grave forma di corioretinite, probabilmente aggravata dalla lunga esposizione ai fari di scena. Spesso stroncato dalla maggior parte dei critici cinematografici, fu ampiamente rivalutato dopo la morte, tanto da risultare ancor oggi il comico italiano più popolare di sempre. Franca Faldini, sua compagna, diventata giornalista e scrittrice dopo la morte dell'attore, scrisse nel 1977 il libro Totò: l'uomo e la maschera, realizzato insieme a Goffredo Fofi, in cui raccontò sia il profilo artistico sia la vita dell'attore fuori dal set, con l'intento principale di smentire alcune false affermazioni riportate da scrittori e giornalisti riguardo alla sua personalità.

Totò nacque il 15 febbraio 1898 nel rione Sanità (un quartiere considerato il centro della “guapperia” napoletana), in via Santa Maria Antesaecula al secondo piano del civico 109, da una relazione clandestina di Anna Clemente con Giuseppe De Curtis che, in principio, per tenere segreto il legame, non lo riconobbe, risultando dunque per l'anagrafe "Antonio Clemente, figlio di Anna Clemente e di N.N." Nato Antonio Clemente, ma conosciuto nel suo quartiere con il nomignolo di "Totò", che gli fu attribuito dalla madre. 

Il marchese Giuseppe De Curtis, il padre di Totò che, inizialmente, non lo riconobbe come figlio naturale.

Anna Clemente, la madre, che tentò di introdurlo come sacerdote. «Meglio ‘nu figlio prevete ca ‘nu figlio artista», affermava.

Solitario e di indole malinconica, crebbe in condizioni estremamente disagiate e fin da bambino dimostrò una forte vocazione artistica che gli impediva di dedicarsi allo studio, cosicché dalla quarta elementare fu retrocesso in terza. Ciò non creò in lui molto imbarazzo, anzi intratteneva spesso i suoi compagni di classe con piccole recite, esibendosi con smorfie e battute. Il bambino riempiva spesso le sue giornate osservando di nascosto le persone, in particolare quelle che gli apparivano più eccentriche, cercando di imitarne i movimenti, e facendosi attribuire così il nomignolo di «'o spione». Questo suo curioso metodo di "studio" lo aiutò molto per la caratterizzazione di alcuni personaggi interpretati durante la sua carriera.

Terminate le elementari, venne iscritto al collegio Cimino, dove per un banale incidente con uno dei precettori, che lo colpì involontariamente con un pugno, il suo viso subì una particolare conformazione del naso e del mento; un episodio che caratterizzò in parte la sua "maschera". Nel collegio non fece progressi, decise di abbandonare prematuramente gli studi senza ottenere perciò la licenza ginnasiale. La madre lo voleva sacerdote, in un primo tempo dovette quindi frequentare la parrocchia come chierichetto, ma incoraggiato dai primi piccoli successi nelle recite in famiglia (chiamate a Napoli «periodiche») e attratto dagli spettacoli di varietà, nel 1913, ancora in età giovanissima, iniziò a frequentare i teatrini periferici esibendosi – con lo pseudonimo di "Clerment" – in macchiette e imitazioni del repertorio di Gustavo De Marco, un interprete napoletano dalla grande mimica e dalle movenze snodate, simili a quelle d'un burattino. Proprio su quei palcoscenici di periferia incontrò attori come Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo e i musicisti Cesare Andrea Bixio e Armando Fragna.

Durante gli anni della prima guerra mondiale si arruolò volontario nel Regio Esercito venendo assegnato al 22º Reggimento fanteria, rimanendo di stanza dapprima a Pisa e poi a Pescia. Venne quindi trasferito al CLXXXII Battaglione di milizia territoriale, unità di stanza in Piemonte, ma destinate a partire per il fronte francese. Alla stazione di Alessandria, il comandante del suo battaglione lo armò di coltello e lo avvertì che avrebbe dovuto condividere i propri alloggiamenti in treno con un reparto di soldati marocchini dalle strane e temute abitudini sessuali. Totò a quel punto, terrorizzato, fu colto da malore (secondo alcune voci improvvisò un attacco epilettico) e venne ricoverato nel locale ospedale militare, evitando così di partire per la Francia. Rimasto in osservazione per breve tempo, quando fu dimesso dalle cure ospedaliere venne inserito nell'88º Reggimento fanteria "Friuli" di stanza a Livorno; proprio in quel periodo subì continui soprusi e umiliazioni da parte di un graduato; da quell'esperienza nacque il celebre motto dell'attore: «Siamo uomini o caporali?».

Dopo il servizio militare avrebbe dovuto fare l'ufficiale di marina, ma, non digerendo la disciplina, scappò di casa per esibirsi ancora come macchiettista; venne scritturato dall'impresario Eduardo D'Acierno (diventò poi celebre la macchietta de Il bel Ciccillo, riproposta nel 1949 nel film Yvonne la nuit) e ottenne un primo successo alla Sala Napoli, locale minore del capoluogo campano, con una parodia della canzone di E. A. Mario Vipera, intitolata Vicolo, che aveva sentito recitare al Teatro Orfeo dall'attore Nino Taranto, al quale chiese se poteva "rubargliela".

All'inizio degli anni Venti il marchese Giuseppe De Curtis riconobbe Totò come figlio e regolarizzò la situazione familiare sposandone la madre. Riunita, la famiglia si trasferì a Roma, ove Totò, con la disapprovazione totale dei genitori, fu scritturato come "straordinario" - cioè un elemento da utilizzare occasionalmente e senza nessun compenso - nella compagnia dell'impresario Umberto Capece, un reparto composto da attori scadenti e negligenti. Si affacciò così alla commedia dell'arte e guadagnò un particolare apprezzamento del pubblico impersonando sul palco l'antagonista di Pulcinella. Tuttavia, il giovane si sacrificava non poco per raggiungere il teatro: dal momento che non aveva i soldi neanche per un biglietto del tram, doveva partire da Piazza Indipendenza per arrivare a Piazza Risorgimento, che si trovava dall'altra parte della città; a tal proposito, nella stagione invernale, chiese qualche moneta all'impresario Capece che, in modo esageratamente brusco e inaspettato, lo esonerò e lo sostituì all'istante con un altro "straordinario". L'episodio fu un duro colpo per Totò, che rimase esterrefatto e dopo aver raccolto i suoi effetti si allontanò a malincuore dal teatro.

In quel breve periodo di disoccupazione Totò piombò nello sconforto totale ed il suo morale si alzava solo quando riusciva a racimolare qualche soldo esibendosi in piccoli locali; nel corso di quelle esperienze, decise di puntare al genere teatrale a lui più congeniale: il varietà (variété, nella declinazione francese). Progettò di presentarsi al capocomico napoletano Francesco De Marco (famoso per delle stravaganti esibizioni teatrali), ma all'ultimo minuto ebbe un ripensamento, probabilmente a causa dell'insicurezza. L'attore iniziò a ponderare l'idea di esibirsi da solo e dunque decise di mantenere come modello d'ispirazione Gustavo De Marco (omonimo, ma non parente del capocomico Francesco), che Totò, esercitandosi davanti allo specchio, riusciva ad imitare senza particolari sforzi. Appena sentitosi pronto, decise di tentare al Teatro Ambra Jovinelli, che al tempo era la massima rappresentazione dello spettacolo di varietà, dove erano passati artisti come Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, Armando Gill, Gennaro Pasquariello, Alfredo Bambi e lo stesso De Marco. Emotivamente teso, si presentò al titolare del teatro, Giuseppe Jovinelli, un uomo rude conosciuto e rispettato per un suo passato scontro con un piccolo boss della malavita locale. Il breve colloquio andò inaspettatamente bene e Totò, per sua gioia e incredulità, venne preso. Debuttò con tre macchiette di De Marco: Il bel Ciccillo, Vipera e Il Paraguay, che ebbero un buon successo di pubblico e un impensabile entusiasmo da parte di Jovinelli. Il comico firmò un contratto prolungato col titolare, che lo usò spesso in varie parti dello spettacolo e che organizzò addirittura un finto match tra lui e il pugile Oddo Ferretti. Il consenso del pubblico ottenuto al teatro non compensava però lo stile di vita dell'artista: la paga era molto bassa e non poteva neanche permettersi abiti eleganti e accessori raffinati (ai quali lui teneva molto) o un taglio di capelli caratteristico, con le basette come quelle di Rodolfo Valentino. In quell'arco di tempo fece appunto amicizia con un barbiere, Pasqualino, il quale, avendo conoscenze in campo teatrale e impietosito dalle ristrettezze economiche del giovane, riuscì a farlo scritturare da Salvatore Cataldi e Wolfango Cavaniglia, i proprietari del Teatro Sala Umberto I. Totò rinnovò il suo corredo teatrale (che fino a quel momento era composto da un singolo abito di scena sempre più consumato): una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa con il colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni corti e larghi a zompafosso, calze colorate e comuni scarpe basse e nere. La sera dell'esordio l'attore diede il meglio di sé, lasciandosi andare in mimiche facciali, piroette, doppi sensi e le immancabili macchiette di Gustavo De Marco. Tra grida di bis ed applausi, l'esperienza al salone Umberto I segnò per Totò l'affermazione definitiva nello spettacolo di varietà.

Tra il 1923 e il 1927 si esibì nei principali caffè-concerto italiani, facendosi conoscere anche a livello nazionale. Grazie ai maggiori guadagni, poté finalmente permettersi di vestire abiti eleganti e di curare maggiormente il suo aspetto fisico, con i capelli impomatati e le desiderate basette alla Rodolfo Valentino; fu un periodo roseo soprattutto per quanto riguarda le donne, con le quali ebbe una serie di avventure (per lo più con sciantose e ballerine), tanto che acquisì presto la fama di vero «sciupafemmene». Prima di iniziare un suo spettacolo, sbirciava sempre tra il pubblico alla ricerca della "bella di turno" alla quale dedicare la sua esibizione, che il più delle volte, dopo varie serate, lo raggiungeva nel suo camerino durante l'intervallo o al termine dello spettacolo.

Nel 1927 fu scritturato da Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie; Totò entrò a far parte prima della compagnia di cui era primadonna Isa Bluette, una delle soubrette più in voga del periodo, e poi, dal 1928 di quella di Angela Ippaviz; gli autori erano "Ripp" (Luigi Miaglia) e "Bel Ami" (Anacleto Francini). Nella prima compagnia conobbe Mario Castellani, destinato a diventare in seguito una delle sue "spalle" più fedeli ed apprezzate. Nel 1929, mentre si trovava a La Spezia con la compagnia di Achille Maresca, venne contattato dal barone Vincenzo Scala, il titolare del botteghino del teatro Nuovo di Napoli, che fu mandato dall'impresario Eugenio Aulicio per scritturarlo come "vedette" in alcun spettacoli di Mario Mangini e di Eduardo Scarpetta, tra cui Miseria e nobiltà, Messalina e I tre moschettieri (dove impersonò d'Artagnan), accanto a Titina De Filippo. Messalina rimase particolarmente impresso negli occhi del pubblico, in quanto Totò improvvisò una scenetta in cui si arrampicò su per il sipario e fece smorfie e sberleffi agli spettatori, i quali andarono totalmente in visibilio.

Le soddisfazioni professionali dell'attore non andavano però di pari passo con quelle sentimentali. Nonostante il suo successo con le donne e le numerose avventure, si sentiva inappagato. Fino a quando non irruppe nella sua vita Liliana Castagnola, che Totò vide su alcune fotografie in un provocante abito di scena, rimanendone subito colpito. La sciantosa, fino a quel momento, era stata costante oggetto delle cronache mondane: fu espulsa dalla Francia con l'accusa di aver indotto due marinai al duello, e un suo amante geloso si tolse la vita dopo averle sparato due colpi di pistola, uno dei quali l'aveva ferita al viso lasciandole un frammento di proiettile che le causava forti dolori e per i quali assumeva tranquillanti. A causa della cicatrice, sebbene lieve, ella adottò la pettinatura "a caschetto" che le copriva guance e fronte. La donna giunse a Napoli nel dicembre 1929, scritturata dal Teatro Nuovo, e incuriosita dal veder recitare l'artista napoletano si presentò una sera ad un suo spettacolo. Totò non si lasciò sfuggire l'occasione e iniziò a corteggiarla mandandole, alla pensione degli artisti dove lei abitava, mazzi di rose con un biglietto d'ammirazione, al quale lei rispose con una lettera d'invito. Furono questi gli inizi di un'intensa (seppur breve e tormentata) storia d'amore. Sebbene fosse una donna fatale sia sul palcoscenico sia nella vita reale, la Castagnola aveva per l'artista napoletano un sentimento sincero e passionale, cercando una relazione stabile e sicura. Dopo il primo periodo iniziarono i problemi legati alla gelosia: Totò non sopportava l'idea che Liliana, durante le sue tournée, fosse corteggiata dagli ammiratori e questo lo portò a temere eventuali tradimenti, situazione che diede origine a continui litigi. Entrambi furono poi vittime di malelingue e pettegolezzi, la donna entrò in un profondo stato di depressione e la loro relazione si deteriorò. Liliana, accrescendo un senso di attaccamento morboso al suo uomo, pur di restargli accanto propose di farsi scritturare nella sua stessa compagnia; ma Totò, sentendosi oppresso dal comportamento della donna, fu più volte sull'orlo di lasciarla, fino a quando decise di accettare un contratto con la compagnia della soubrette "Cabiria", che lo avrebbe portato a Padova.

L'epilogo fu che Liliana, sentitasi abbandonata dall'amato, si suicidò ingerendo un intero tubetto di sonniferi. Fu trovata morta nella sua stanza d'albergo, con al suo fianco una lettera d'addio a Totò: «Antonio, potrai dare a mia sorella Gina tutta la roba che lascio in questa pensione. Meglio che se la goda lei, anziché chi mai mi ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi per l'ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so. In questo momento mi trema la mano... Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero? Antonio, sono calma come non mai. Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno. Te l'ho giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinnanzi. E, ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù per la strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?... Addio. Lilia tua»

Totò, che ritrovò il corpo esanime della donna il mattino seguente, ne rimase sconvolto: il peso della responsabilità, il non aver capito l'intensità dei sentimenti di lei e i rimorsi per aver pensato «ha avuto molti uomini, posso averla senza assumermi alcuna responsabilità», lo accompagnarono per tutta la vita, tanto che decise di seppellirla nella cappella dei De Curtis a Napoli, nella tomba sopra la sua, e decretò che, qualora avesse avuto una figlia, invece di battezzarla col nome della nonna paterna Anna (secondo l'uso napoletano), le avrebbe dato il nome di Liliana, cosa che poi effettivamente fece con la figlia Liliana De Curtis. Totò volle inoltre conservare un fazzoletto intriso di rimmel che raccolse la mattina del ritrovamento del corpo di Liliana, con il quale probabilmente ella si asciugò le lacrime in attesa della morte. In merito all'impegno già preso, la sera stessa partì per la tournée con la compagnia a Padova. Era il marzo del 1930. Tornato a Roma il mese successivo, si esibì nuovamente in numerosi spettacoli alla Sala Umberto I, dove ripropose il suo repertorio di macchiette e nuove creazioni, impersonando anche Charlot, come umile omaggio a Chaplin. Tornò poi a lavorare con l'impresario Maresca, dove iniziò una nuova tournée riproponendo i successi degli anni precedenti. Sempre nel 1930, anno dell'avvento del sonoro, Stefano Pittaluga, che produsse con la Cines La canzone dell'amore (il primo film italiano sonoro), era alla ricerca di nuovi volti da portare sul grande schermo. Le doti comiche di Totò non gli sfuggirono e dato che era in procinto di produrre un film, chiamato Il ladro disgraziato, gli fece fare un provino. La pellicola non vide mai la luce, anche per il fatto che il regista avrebbe voluto che Totò imitasse Buster Keaton, idea che all'attore non garbava. Momentaneamente accantonata l'eventualità di entrare nel cinema, nel 1932 diventò capocomico di una propria formazione, proponendosi nell'avanspettacolo, un genere teatrale che continuò a diffondersi in Italia fino al 1940. In tournée a Firenze conobbe l'allora sedicenne Diana Rogliani (la giovane età della ragazza suscitò inizialmente qualche riluttanza da parte di Totò, dalla quale ebbe una figlia che, in onore della compianta Castagnola, battezzò Liliana. Gli anni Trenta furono un periodo di grandi successi per il comico che, malgrado il guadagno non molto alto, si sentiva affermato: portò in scena, insieme alla sua prima spalla Guglielmo Inglese (più avanti fu Eduardo Passarelli), numerosi spettacoli in tutta Italia. Sulla traccia di copioni spesso approssimativi, Totò ebbe modo di dare sfogo alle risorse creative della sua comicità surreale, con mimiche grottesche e deformazioni/invenzioni linguistiche, interpretando anche Don Chisciotte e travestendosi addirittura da soubrette; imparò così l'arte dei guitti, ossia quegli attori che recitavano senza un copione ben impostato (molte macchiette le ripropose poi nel suo repertorio cinematografico: "Il pazzo", "Il chirurgo", "Il manichino”), arte alla quale Totò aggiunse caratteristiche tutte sue, pronto a sbeffeggiare i potenti quanto a esaltare i bisogni e gli istinti umani primari: la fame, la sessualità, la salute mentale. Naturalmente, come si confà allo stile di Totò, tutto espresso con distinti doppi sensi senza mai trascendere nella volgarità. A plasmare questa sua forma d'espressione, fu il fatto di aver vissuto per anni in povertà, difatti lui stesso era del pensiero che "la miseria è il copione della vera comicità..." che "non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita". Acquisì quindi una sua originale personalità recitativa, diventando uno dei maggiori protagonisti della stagione dell'avanspettacolo.

Nel 1933 si fece adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, per ereditarne così la lunga serie di titoli nobiliari. L'anno successivo mise su casa a Roma insieme alla figlia Liliana e alla compagna Diana Rogliani (per la quale nutriva un'ossessiva gelosia), che sposò nell'aprile del 1935. Fu in quel periodo che alcune personalità importanti tentarono di imporlo nel cinema: tra di loro Umberto Barbaro e Cesare Zavattini, che cercò infatti di inserirlo nella parte di “Blim" nel film Darò un milione di Mario Camerini - ruolo andato poi a Luigi Almirante. Non realizzandosi questi progetti, il vero debutto avvenne nel 1937 con Fermo con le mani!: il produttore Gustavo Lombardo, fondatore della Titanus, scritturò Totò dopo averlo notato mentre era a pranzo in un ristorante di Roma. La direzione fu affidata al regista Gero Zambuto. Il film però non ebbe gran successo; concepito con mezzi molto scarsi, l'intenzione primaria era proporre al pubblico italiano un'alternativa del personaggio di Charlot, di Chaplin. Nel 1938 Totò fu vittima di un infortunio: ebbe un distacco di retina traumatico e perse la vista dell'occhio sinistro, cosa di cui erano al corrente soltanto i familiari stretti e l'amico Mario Castellani. Nonostante l'incidente, trovò la forza di riaffacciarsi per un breve periodo al teatro d'avanspettacolo, la cui epoca, per lui gloriosa, giunse purtroppo al termine. In quel frattempo, causa il fatto che si sentiva come soffocato dal matrimonio e causa anche la sua opprimente gelosia nei confronti della giovane consorte (si dice che la tenesse perfino chiusa nel camerino mentre lui si esibiva, la sua vita coniugale entrò in crisi. Decise dunque di ritornare scapolo e si accordò con Diana per la separazione. In Italia non c'era la possibilità di divorzio, così dovettero chiedere lo scioglimento all'estero, in Ungheria, per far sì che fosse poi annullato in Italia. Dopo l'annullamento, i due continuarono comunque a vivere insieme, trasferendosi in Viale dei Parioli, insieme alla figlia e ai genitori di lui.

Dopo Fermo con le mani!, del quale Totò non si ritenne molto soddisfatto, ci fu, nel 1939, un secondo tentativo, che ebbe inizialmente problemi per i costi di produzione: Animali pazzi di Carlo Ludovico Bragaglia, dove Totò interpretò un doppio ruolo. Pure questo suo secondo film non fu del tutto riuscito, sebbene l'attore sfruttò al massimo le sue potenzialità "marionettistiche". Alla fine del 1939, andò in tournée a Massaua e Addis Abeba, in Etiopia, accompagnato da Diana Rogliani, Eduardo Passarelli e la soubrette Clely Fiamma, presentando lo spettacolo 50 milioni... c'è da impazzire!, scritto insieme a Guglielmo Inglese e già mostrato al pubblico italiano anni prima. Una volta rientrato in patria interpretò la sua terza pellicola, San Giovanni decollato, che fu sceneggiata, tra gli altri, da Cesare Zavattini, al quale venne affidata la regia dal produttore Liborio Capitani. Zavattini però non se la sentì e il compito passò ad Amleto Palermi. Il film fu un successo di critica: alcuni commenti sulla rivista Cinema e su L'Espresso elogiarono proprio la recitazione di Totò, la sua capacità espressiva, i suoi giochi di parole e i suoi movimenti snodati. Zavattini, che nutriva ammirazione artistica verso l'attore, scrisse per lui il soggetto Totò il buono, che non diventò mai un film ma servì allo sceneggiatore per la realizzazione del film Miracolo a Milano (1951), di Vittorio De Sica, con il quale instaurò uno dei sodalizi più celebri del neorealismo cinematografico italiano. Il quarto film fu L'allegro fantasma sempre di Amleto Palermi, dove a Totò vennero affidati tre ruoli differenti. Girato nell'autunno del 1940 (uscito poi a ottobre del '41), fu l'ultimo film che interpretò prima del suo ritorno a teatro.

Questi primi esperimenti cinematografici surreali non ottennero il successo di pubblico che Totò aveva invece sul palcoscenico. Quando tornò a teatro, alla fine del 1940, l'avanspettacolo era già tramontato, sostituito dalla "rivista", un genere teatrale sorto a Parigi e dal carattere (almeno nel primo periodo) esclusivamente satirico - per quanto concesso dal regime fascista - presentato sotto forma di azioni sceniche ricche di allusioni e di accenni piccanti. In quel periodo l'Italia era da poco entrata in guerra e la ferrea censura del fascismo era attentissima a qualsiasi battuta ambigua o accenno negativo sul Governo di Mussolini. Totò debuttò al teatro Quattro Fontane di Roma insieme a Mario Castellani (da quel momento la sua "spalla" ideale) ed Anna Magnani (primadonna), con i quali instaurò un solido rapporto artistico e umano. La rivista era Quando meno te l'aspetti di Michele Galdieri, uno tra i grandi scrittori di riviste teatrali degli anni Quaranta. Totò strinse con Galdieri un sodalizio durato nove anni, con spettacoli scritti anche dall'attore stesso e messi in scena dagli impresari Elio Gigante e Remigio Paone; tra le riviste più note: Quando meno te l'aspetti, Volumineide, Orlando Curioso, Che ti sei messo in testa? e Con un palmo di naso. Causa la guerra, furono tempi difficoltosi anche per il teatro, per la mancanza di mezzi di trasporto, il divieto di circolazione delle auto private e soprattutto per i bombardamenti, in particolare a Milano, dove gli spettacoli venivano spesso interrotti e gli attori erano costretti ad allontanarsi verso il rifugio più vicino, senza avere il tempo di togliersi gli abiti di scena. Fu il periodo in cui Totò venne scritturato dalla Bossoli Film per riaprire una fessura nel cinema e prendere parte ad una nuova pellicola che comprendeva nel cast anche il pugile Primo Carnera, Due cuori fra le belve (ridistribuito dopo la guerra col titolo Totò nella fossa dei leoni), del regista Giorgio Simonelli, che venne girato con animali autentici. Nel maggio del '44, la rivista Che ti sei messo in testa (che avrebbe dovuto chiamarsi Che si son messi in testa?, un chiaro accenno ai tedeschi occupanti) creò problemi al comico napoletano, che dopo le prime rappresentazioni al teatro Valle di Roma, venne dapprima intimorito con una bomba all'entrata dal teatro, poi denunciato dalla polizia, insieme ai fratelli De Filippo, con un telegramma dal Comando Tedesco indirizzato al teatro Principe, che Totò non lesse mai; venne avvertito però da una telefonata anonima. Per evitare l'arresto, Totò, dopo aver allertato i fratelli De Filippo, si rifugiò con la ex moglie Diana e la figlia a casa di un amico in via del Gelsomino nei pressi della via Aurelia, all'estrema periferia ovest di Roma, mentre i De Filippo si nascosero in via Giosuè Borsi. Passati alcuni giorni Totò dovette comunque lasciare l'abitazione, per il fatto che molti suoi ammiratori lo avevano riconosciuto e quindi il nascondiglio non era più sicuro. Tornò a Roma, dove erano rimasti i genitori, e si segregò in casa fino al 4 giugno, il giorno della liberazione della capitale (secondo varie testimonianze avrebbe anche notevolmente contribuito ai finanziamenti della Resistenza romana).

Il 26 giugno riprese a recitare: tornò al teatro Valle con la Magnani nella nuova rivista Con un palmo di naso, in cui diede libero sfogo alla sua satira impersonando il Duce (sotto i panni di Pinocchio), e Hitler, che dissacrò ulteriormente dopo l'attentato del 20 luglio 1944, rappresentandolo in un atteggiamento ridicolo, con un braccio ingessato e i baffetti che gli facevano il solletico, e mandando l'intera platea in estasi. «Io odio i capi, odio le dittature... Durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una feroce parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l'unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito.»

Nel 1945, dopo alcune esibizioni nella capitale, a Siena e a Firenze, portando in scena la rivista Imputati, alziamoci! (in cui faceva la caricatura di Napoleone), Totò fu avvicinato al termine dello spettacolo da un partigiano che, indispettito da una sua battuta di risposta che accomunava ironicamente fascisti e partigiani, lo colpì al viso con un pugno. Totò, corso immediatamente al commissariato per denunciare il fatto, decise poi di lasciar correre senza sporgere querela. In quel periodo il sodalizio artistico con Anna Magnani si interruppe, quando l'attrice si rivelò al grande pubblico internazionale interpretando il ruolo della popolana Pina nel film Roma città aperta, diretto dal suo compagno Roberto Rossellini. Totò invece proseguì per la sua strada continuando col cinema e con il teatro e incidendo anche il suo unico disco 78 giri come cantante, interpretando canzoni non sue: Marcello il bello nel lato A e Nel paese dei balocchi - dove venne coadiuvato da Mario Castellani - nel lato B.

Totò fu membro della Loggia massonica "Fulgor" di Napoli dal luglio 1945 e, in seguito, della Loggia "Fulgor Artis" di Roma, da lui stesso fondata. Entrambe le Logge appartenevano alla "Serenissima Gran Loggia Nazionale Italiana" di Piazza del Gesù. Dopo la morte del padre (avvenuta nel settembre del '44), Giuseppe De Curtis, tra il 1945 e gli anni successivi Totò alternò teatro e cinematografia, dedicandosi anche alla creazione di canzoni e poesie, ma anche ad una buona lettura, diligendo in particolar modo Luigi Pirandello. Interpretò la sua sesta pellicola, Il ratto delle Sabine, con il regista Mario Bonnard, film che venne accolto da alcune critiche avverse, come quella di Vincenzo Talarico, che stroncò l'attore "augurandosi che rientrasse al più presto nei ranghi del teatro di rivista." Poi ci fu I due orfanelli, scritto da Steno e Agenore Incrocci e diretto da Mario Mattoli, con il quale Totò interpretò altri tre film tra il '47 al '49: Fifa e arena, Totò al giro d'Italia (il primo film in cui compariva il suo nome nel titolo) e I pompieri di Viggiù (tutti di buon successo e incasso); inoltre, era il tempo della rivista C'era una volta il mondo di Galdieri, composta da sketch rimasti famosi, come quello del Vagone letto, con Totò al fianco di Isa Barzizza, la soubrette che debuttò nel film I due orfanelli e che proprio lui volle nella rivista, e Mario Castellani, la fedele "spalla" teatrale che lo accompagnò anche nel cinema, prendendo parte a quasi tutte le sue pellicole proprio per volere di Totò che, quando non c'erano ruoli disponibili, lo imponeva come aiuto-regista. La rivista C'era una volta il mondo ebbe tanto successo che venne presentata anche a Zurigo, recitata in italiano ma acclamata ugualmente dal pubblico svizzero per la genialità comica degli sketch. Spesso gli spettacoli di rivista di Totò si concludevano con la classica "passerella", col comico che correva tra il pubblico con una piuma sulla bombetta, al ritmo della fanfara dei Bersaglieri (scenetta riproposta nel film I pompieri di Viggiù). Nell'ottobre 1947, durante le repliche della rivista, la madre di Totò morì. Malgrado il grande dolore per la perdita di entrambi i genitori, l'attore non mischiò il lavoro con la vita privata, continuando ad essere il comico Totò nello spettacolo e il malinconico Antonio De Curtis al di fuori. Aprì anche una piccola parentesi come doppiatore, prestando la voce al cammello Gobbone nel film La vergine di Tripoli. Prima di riaffacciarsi al cinema, partì per alcune tournée a Barcellona, Madrid e altre città spagnole, dove recitò in spagnolo (senza avere padronanza della lingua) con Mario Castellani nella rivista Entre dos luces (Tra due luci), improvvisando una canzone non-sense a metà tra spagnolo e napoletano. Tornato in Italia, ebbe anche una piccola esperienza nel campo pubblicitario, facendosi fotografare a pagamento sulla rivista Sette che promuoveva i profumi Arbell.

Da quando entrò nel mondo del cinema, gli furono proposti moltissimi film, molti dei quali non venivano nemmeno realizzati, spesso per problemi di produzione o per sua rinuncia. Alcuni venivano girati contemporaneamente, in tempi ristrettissimi (la maggior parte in due o tre settimane) e su set spesso improvvisati, tanto che a volte era proprio la troupe che raggiungeva Totò nelle città in cui recitava a teatro. L'attore, complice la pigrizia, era sempre molto precipitoso quando gli venivano proposti dei progetti, ed essendo profondamente istintivo spesso non voleva conoscere nulla della pellicola che andava ad interpretare, affidandosi quindi alle sue qualità creative. Così, come sul palcoscenico, dava libero sfogo all'improvvisazione: il copione rappresentava solo un timido canovaccio per l'attore, che concepiva sul momento le gag e le battute; così tuttavia nacquero anche alcune delle sue scene cinematografiche più famose. «Era imprevedibile [...] recitava a braccio», testimoniò Nino Taranto; «Certe sue folli improvvisazioni durante la recitazione erano geniali e insostituibili» espresse invece Vittorio De Sica. Secondo alcuni commenti, invece - come quelli di Carlo Croccolo, Giacomo Furia e Steno - Totò si rinchiudeva nel suo camerino a provare e riprovare le sue battute prima dello spettacolo o delle riprese, rileggeva il copione e modificava i passaggi che non lo convincevano, insieme all'amico Mario Castellani e agli attori coinvolti.

Le differenze tra teatro e cinema crearono inizialmente non pochi disordini per l'attore, che, essendosi formato con lo stile teatrale e quindi con un'unica esecuzione dal vivo, dopo i primi ciak tendeva a perdere la concentrazione. Doveva perciò essere colto "al volo" per poter recitare al massimo; quindi la troupe doveva prima preoccuparsi di sistemare le luci e di preparare la scena con una controfigura, facendo anche qualche prova. Quando tutto era pronto, si poteva far intervenire Totò. Un'altra delle differenze tra le due forme d'arte, di cui il comico risentì molto inizialmente, fu il fatto di non riuscire a comunicare direttamente con il pubblico, uno dei particolari che più amava del teatro. Proprio per questo, di solito, i registi (in particolare Bragaglia, con il quale instaurò un solido rapporto artistico) e i membri della troupe lo spronavano dopo lo stop con un applauso, in modo da dargli maggiore carica ed entusiasmo. Un altro inconveniente furono gli orari: Totò, abituato agli orari teatrali, non si alzava mai prima di mezzogiorno, essendo poi un assertore della teoria che l'attore "al mattino non può far ridere”, girava nel cosiddetto orario francese, dalle 13 alle 21. Si stancava poi per le lunghe pause e attese che il cinema comporta, e inoltre, essendo molto superstizioso, si rinchiudeva in casa e non lavorava mai di martedì e di venerdì, 13 o 17. Fattori che creavano non pochi problemi per le riprese. Complicazioni particolari ci furono per Totò al giro d'Italia, dove erano coinvolti molti ciclisti famosi dell'epoca come Bartali, Coppi, Bobet, Magni; l'attore, non arrivando in orario, creava difficoltà. Nella stagione 1949/1950 ottenne l'ultimo successo a teatro con la rivista Bada che ti mangio!, costata ben cinquanta milioni, che debuttò al teatro Nuovo di Milano nel marzo del '49, dopodiché Totò si allontanò dal palcoscenico per dedicarsi esclusivamente al cinema. Dopo I pompieri di Viggiù, lavorò anche con Eduardo De Filippo nel suo film Napoli milionaria, che accettò di interpretare senza compenso, in segno dell'affettuosa amicizia che lo legava ad Eduardo. I due attori, sebbene avessero progettato di realizzare insieme altri film, non ebbero più modo di incontrarsi sul set, apparendo solo in episodi diversi de L'oro di Napoli di Vittorio De Sica ed in un breve cameo ne Il giorno più corto.

Nel 1950 Totò rinunciò alla proposta di avere un ruolo, insieme al francese Fernandel, nel film di produzione italo-francese Atollo K, dove avrebbe avuto l'opportunità di recitare insieme a Stan Laurel e Oliver Hardy, la famosa coppia comica conosciuta in Italia come Stanlio e Ollio.

Tra il 1949 e il 1950, oltre a Napoli milionaria, interpretò ben altri nove film, tra i quali alcune parodie: Totò le Mokò, Totò cerca moglie, Figaro qua, Figaro là, Le sei mogli di Barbablù, 47 morto che parla, tutti diretti da Carlo Ludovico Bragaglia, poi L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, Tototarzan e Totò sceicco (dove s'invaghì dell'attrice Tamara Lees) di Mario Mattoli, Yvonne la nuit di Giuseppe Amato, Totò cerca casa di Steno e Mario Monicelli, un'efficace parodia del neorealismo sulla crisi degli alloggi, che suscitò un po' d'indignazione da parte della censura. Questi film, in misura diversa, ebbero un buon successo di pubblico, ma non di critica, che già dalle pellicole precedenti cominciò a non gradire lo stile surreale di Totò. Commentando in modo ironico queste avversità da parte dei critici, il principe osservò che probabilmente si era "guastato col crescere".

La morte dei genitori fu l'avvio di uno squilibrio familiare: nel 1951 Diana Rogliani, in seguito a un violento litigio, se ne andò di casa e si sposò; altrettanto fece, appena maggiorenne, e contro la volontà di Totò, la figlia Liliana, unendosi in matrimonio con Gianni Buffardi, figliastro del regista Carlo Ludovico Bragaglia. Totò restò solo, e in quel breve lasso di tempo scrisse la nota canzone Malafemmena, che concepì durante una pausa di lavorazione del suo nuovo film Totò terzo uomo, a cui seguirà Sette ore di guai. La canzone fu apparentemente scritta per la ex moglie Diana, alla quale era ancora molto legato, ma i giornali dell'epoca affermarono che Totò l'avesse dedicata a Silvana Pampanini, l'attrice con la quale recitò in 47 morto che parla e che, in quel periodo, corteggiava mandandole mazzi di rose e scatole di cioccolatini. Arrivò perfino a chiederle di sposarlo, uno dei motivi per la brusca separazione con la Rogliani), ma l'attrice lo respinse.

Nonostante le oscurità e le delusioni, il 1951 fu un anno importante per la carriera cinematografica dell'attore. Dopo il successo di Totò cerca casa, venne richiamato da Steno e Mario Monicelli per interpretare il ruolo del ladro Ferdinando Esposito in Guardie e ladri, al fianco di quell'attore che fu uno dei suoi amici più affezionati e una delle sue migliori "spalle", capace di rispondere colpo su colpo alle improvvise e "aggressive" battute di Totò, Aldo Fabrizi. Per Guardie e ladri Totò era all'inizio riluttante, il ruolo offertogli era finalmente reale, diverso dai suoi precedenti personaggi e inserito in un contesto decisamente più drammatico. Il film ebbe inizialmente problemi con la censura, ma appena uscito nelle sale fu un successo unanime: alti incassi, grande apprezzamento di pubblico e plauso inatteso da parte della critica. Nello stesso anno interpretò, sempre per la regia di Monicelli e Steno, Totò e i re di Roma, l'unico film che lo vide recitare con Alberto Sordi. L'anno seguente fu premiato con un nastro d’argento per la sua interpretazione in Guardie e ladri, e l'opera venne presentata al Festival di Cannes 1952, dove si aggiudicò il premio per la migliore sceneggiatura, l'anno in cui l'attore collaborò a Siamo uomini o caporali?, la sua biografia (che si ferma nel 1930 - dopo il suicidio di Liliana Castagnola) curata da Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli.

Proprio nel 1952 Totò rimase colpito da una giovane sulla copertina del settimanale "Oggi", Franca Faldini. Le mandò subito un mazzo di rose con un biglietto: «Guardandola sulla copertina di “Oggi” mi sono sentito sbottare in cuore la primavera», poi le telefonò per invitarla a cena, la ragazza accettò solo quando Totò ebbe modo di farsi presentare. La Faldini, appena ventunenne, era da poco tornata dagli Stati Uniti, dove aveva preso parte al film Attente ai marinai! con Dean Martin e Jerry Lewis. Dopo essersi frequentati per circa un mese annunciarono il loro fidanzamento. Sebbene restassero insieme fino alla morte dell'artista, la loro relazione, che non arrivò mai al matrimonio, fu più volte sull'orlo di essere troncata, per il fatto di essere due persone caratterialmente molto diverse; un motivo, tra l'altro, fu la differenza di età di trentatré anni. La situazione di convivenza senza un legame matrimoniale creò scandalo all'epoca, tanto che, pochi anni più avanti, i due, stanchi di essere tormentati dai paparazzi e dai giornalisti (che li definivano "pubblici concubini"), furono costretti a fingere di essersi uniti in matrimonio all'estero, un espediente che comunque non funzionò sino in fondo.

Franca Faldini comparve anche nel cast di alcuni film del compagno. Il primo a cui partecipò fu Dov'è la libertà?, di Roberto Rossellini, che avendo apprezzato Totò in Guardie e ladri, lo scritturò per il suo film. La lavorazione non ebbe il percorso previsto. Venne girato nel 1952 e uscì nelle sale due anni dopo, per il fatto che nel corso delle riprese Rossellini si disinteressò della pellicola e si allontanò spesso dal set. Molte sequenze furono quindi girate dal regista Lucio Fulci e sembra che ci fossero state anche delle collaborazioni con Mario Monicelli e Federico Fellini. Insieme alla Faldini, girò poi Totò e le donne, nuovamente diretto da Steno e Monicelli, dove Totò recitò per la prima volta con Peppino De Filippo, con il quale formò in seguito una delle coppie più popolari del cinema italiano. Dopo che Steno e Monicelli si divisero, entrambi realizzarono, ciascuno per proprio conto, altri film con Totò. Il primo sfruttò la sua comicità surreale, il secondo proseguì sull'umanizzazione del personaggio (cominciata proprio con Guardie e ladri). Il primo grande risultato raggiunto da Steno fu Totò a colori - gran successo e incassi altissimi - uno dei primi film italiani a colori, girato col sistema "Ferraniacolor", in cui vennero riproposti alcuni dei suoi sketch teatrali, come quello di Pinocchio o del Vagone letto con Castellani e Isa Barzizza. Durante le riprese del film Totò iniziò ad avere diversi problemi, a causa delle potenti luci usate sul set, che gli causarono problemi alla sua vista già precaria e addirittura una lieve infiammazione ai capelli, finendo per svenire a causa dei forti dolori accusati all'occhio destro, il solo da cui vedeva dopo il distacco di retina del 1938 all'altro occhio. Continuò comunque a lavorare. Nel 1953, in seguito ad alcune illustrazioni di Totò il buono disegnate dallo sceneggiatore Ruggero Maccari su Tempo illustrato, furono (con l'ovvio consenso dell'attore) stampati e distribuiti degli albi a fumetti di Totò, rappresentato naturalmente in forma caricaturale, raccolti in una collana chiamata semplicemente Totò a fumetti, che illustrava storie liberamente ispirate ad alcune sue esibizioni teatrali. La collana venne pubblicata dalle Edizioni Diana di Roma.

Nel 1954, un suo brano musicale, Con te, dedicato a Franca Faldini, fu presentato al Festival di Sanremo, classificandosi al 9º posto nella graduatoria finale. La canzone venne interpretata da Achille Togliani, Natalino Otto e Flo Sandon's. Nello stesso anno, i giornali annunciarono che Totò avrebbe interpretato un film muto scritto da Age e Scarpelli, purtroppo il progetto fu presto annullato per il rifiuto dei produttori. Girare un film del genere sarebbe stata una grande soddisfazione per il comico, che affermò: «Il mio sogno è girare un film muto, perché il vero attore, come il vero innamorato, per esprimersi non ha bisogno di parole»; e fu proprio durante una vacanza sulla Costa Azzurra, in un periodo imprecisato degli anni cinquanta, che ebbe un'occasione unica di conoscere nientedimeno che il maestro del muto Charlie Chaplin, quando il suo yacht si ritrovò per caso accanto all'imbarcazione dell'artista inglese. Ma Totò, da sempre bloccato dall'insicurezza e dai complessi d'inferiorità, e pensando poi che l'altro non lo avrebbe riconosciuto per la sua poca popolarità all'estero, rinunciò a salutarlo.

Tra il 1953 e il 1955 interpretò diciassette film, lavorò nuovamente con Steno in L’uomo, la bestia e la virtù (dall'omonima commedia di Luigi Pirandello), dove nel cast era presente anche Orson Welles, poi con Mattòli ne Il più comico spettacolo del mondo (uno dei primi film italiani tridimensionali), e nella trilogia scarpettiana: Un turco napoletano, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi. Fu anche chiamato dall'amico Aldo Fabrizi che lo volle per il film Una di quelle, al fianco di Peppino De Filippo, Lea Padovani e lo stesso Fabrizi; la pellicola (ridistribuita successivamente col titolo di Totò, Peppino e… una di quelle), dal tono drammatico e sentimentale, non ottenne il successo sperato. Si incontrò nuovamente anche con Monicelli, con il quale girò Totò e Carolina, film uscito nelle sale dopo un anno e mezzo dal termine della lavorazione perché massacrato dai tagli della censura, che era infastidita principalmente dai palesi riferimenti comunisti e dal fatto che Totò interpretasse un poliziotto, e per di più in un atteggiamento che tendeva a ridicolizzarsi.

Totò, di spirito caritatevole, per tutta la sua vita compì molteplici gesti d'altruismo, che includevano sostegno e offerte di viveri ai più bisognosi. Con l’avanzare dell’età si dedicò sempre più spesso a numerose opere di beneficenza: la vita privata dell’attore, negli ultimi anni, si limitava a sporadiche apparizioni in pubblico ma anche (seppur non avendo guadagni eccelsi per il fatto che pretendeva sempre poco dai produttori a un’intensa attività di benefattore, aiutando ospizi e brefotrofi, donando grandi somme alle associazioni che si occupavano degli ex carcerati e delle famiglie degli stessi. Avendo poi una particolare predilezione per i bambini, dopo la morte del figlio Massenzio Totò andava spesso a trovare, insieme a Franca Faldini, gli orfanelli dell'asilo Nido Federico Traverso, di Volta Mantovana, portando con sé regali e giocattoli. Inoltre, in merito al suo amore per gli animali, per raccogliere cani randagi acquistò e modernizzò un vecchio canile, L'ospizio dei trovatelli, che lui stesso visitava regolarmente per accertarsi che i numerosi ospiti a quattro zampe (si parla di più di 200 cani) avessero le cure necessarie. Le spese totali per l'assistenza e il mantenimento del canile arrivarono a costargli circa cinquanta milioni.

Fondò poi la società di produzione D.D.L., con sede legale al suo domicilio, collegata a Dino De Laurentiis e all'amministratore di Totò, Renato Libassi. Ebbe l'opportunità di lavorare con Alessandro Blasetti e anche Camillo Mastrocinque, con il quale girò molte pellicole di successo. La sua vita privata però, non scorreva tranquilla come quella di spettacolo: Franca Faldini, in seguito ad un parto drammatico, diede alla luce il figlio di Totò, Massenzio; il bambino, nato di otto mesi, morì dopo alcune ore.

Superato il dolore della perdita del figlio, al quale Totò reagì malissimo rinchiudendosi in casa per settimane, nel 1956 ritornò sul set interpretando a catena quattro film di Camillo Mastrocinque, che raggiunse il punto più alto del suo sodalizio con l'attore dirigendolo in Totò, Peppino e la... malafemmina (in cui si colloca la nota scena della “lettera”) e ne La banda degli onesti, scritto da Age e Scarpelli e interpretato insieme a Peppino e Giacomo Furia. Ma la tentazione di ritornare a teatro lo vinse, e, spronato anche dall'impresario Remigio Paone, recitò nella rivista A prescindere (che prendeva il nome da un suo modo di dire), che debuttò al teatro Sistina di Roma alla fine del '56, e che venne portata in tournée in tutta Italia. Nel mese di febbraio del 1957, a Milano, Totò venne colpito da una broncopolmonite virale, e nonostante i pareri dei medici che gli dissero di riposare, tornò sul palco dopo alcuni giorni, ciò gli causò uno svenimento appena prima di entrare in scena. I medici gli prescrissero almeno due settimane di assoluto riposo, ma Totò ritornò ugualmente a recitare esibendosi a Biella, Bergamo e Sanremo, dove cominciò ad avvertire i primi sintomi dell'imminente malattia alla vista. Il 3 maggio la situazione precipitò: mentre recitava al Teatro Politeama Garibaldi di Palermo si avvicinò alla Faldini (che aveva sostituito l'attrice Franca May e recitava sul palco insieme a lui) sussurrandole che non vedeva più; contando perciò solo sulle sue abilità e sull'appoggio degli altri attori, fece in modo di accelerare la conclusione dello spettacolo. Nonostante lo sconforto e la totale cecità, cercò di resistere e, per non deludere il pubblico ritornò sul palcoscenico - con un paio di spessi occhiali da sole - la sera del 4 maggio e, in due spettacoli, del 5. L'interruzione della rivista fu comunque inevitabile. Inizialmente i medici attribuirono la cecità a un problema derivato dai denti, ma alla fine gli fu diagnosticata una corioretinite emorragica all'occhio destro. L'impresario della compagnia, Remigio Paone, non credendogli, richiese una visita fiscale e avrebbe preteso anche che Totò tornasse a recitare. Totò in un primo tempo fu completamente cieco, e anche dopo dei lievi miglioramenti e una volta riassorbita l'emorragia non riuscì più a riacquisire integralmente la vista. Dovette abbandonare definitivamente il teatro, continuando però con il cinema: in quell'anno restò quasi inattivo e interpretò solo un film, Totò, Vittorio e la dottoressa di Mastrocinque, ma le sue capacità recitative, malgrado la malattia, non si affievolirono mai. L'unico problema era il doppiaggio, quando alcune scene dei film non venivano girate in presa diretta, non poteva doppiarsi poiché non era in grado di vedersi sullo schermo e non poteva sincronizzare le battute con il movimento labiale; in tali occasioni, veniva doppiato da Carlo Croccolo. Per problemi economici fu costretto a vendere alcune proprietà, e successivamente decise di soggiornare per qualche giorno a Lugano, pensando di trasferirvisi definitivamente per motivi fiscali, ma ritornò a Roma e si spostò in un appartamento in affitto in Viale dei Parioli con Franca Faldini, che gli rimase sempre vicino, insieme a suo cugino Eduardo Clemente, che gli faceva da segretario e factotum, e al suo autista Carlo Cafiero, che di solito lo accompagnava sul set.

Sebbene non si conosca con certezza il pensiero politico di Totò, si sa da fonti accertate che era fermamente contrario a qualsiasi forma di dittatura e supremazia (anche per le sue esperienze personali e per i suoi sbeffeggiamenti del potere), e sembra che, a detta di Franca Faldini, fosse di idee fondamentalmente anarchiche. A smentire ciò, è una fotografia del tedesco Eugenio Haas risalente al 1943, scattata sul set di Due cuori fra le belve e pubblicata sulla rivista "Film", e che raffigurava l'attore con la "cimice", ossia il distintivo del Partito nazionale fascista. Si suppone che Totò sia stato in qualche modo costretto a posare per quella foto, la cui intenzione sarebbe stata quella di "punire l'audacia del comico", poiché scherniva e derideva il regime fascista nei suoi spettacoli teatrali, che difatti gli causarono molte complicazioni durante la guerra. Pur tenendo molto al suo titolo nobiliare, pur conducendo uno stile di vita sfarzoso, e pur essendo stato definito più volte un monarchico, Totò, secondo la Faldini, non pretendeva da nessuno di essere chiamato "principe", la sua mania per la nobiltà rappresentava per lui una sorta di riscatto dalla sua difficile vita giovanile. Ma il suo «Viva Lauro!», esclamato durante Il Musichiere, venne naturalmente mal interpretato. Essendo un periodo delicato, in prossimità delle elezioni politiche, non era tollerabile che un personaggio conosciuto come Totò osannasse il capo di un partito politico, ma l’unico motivo della sua esclamazione era dovuto al fatto che Lauro avesse provvisto di case e alimenti gli abitanti dei "bassi" (le dimore più povere) di Napoli. Totò apprezzò solamente il gesto, essendo fortemente attaccato alla sua città natale. Pur non coltivando molto interesse per l'ambito televisivo, nel '58 accettò l'invito come ospite d'onore nel programma Il Musichiere condotto da Mario Riva, con il quale aveva lavorato anni prima in alcuni film e riviste teatrali. Durante la trasmissione Totò si lasciò scappare un «Viva Lauro!», riferendosi ad Achille Lauro, l'allora capo del Partito Monarchico Popolare; questa sua sgradita, seppur scherzosa, considerazione politica, gli costò un allontanamento dal piccolo schermo (salvando alcune interviste in privato) sino al 1965, quando duettò con Mina a Studio Uno.

Dopo il forzato distacco dalla televisione, riprese a lavorare nel cinema. Sempre nel '58 recitò con l'attore francese Fernandel in La legge è legge e, tra le altre pellicole, prese parte al celebre film I soliti ignoti di Mario Monicelli, interpretando lo scassinatore in pensione Dante Cruciani e recitando, tra gli altri, con Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. In quel periodo gli venne assegnato il Microfono d'argento e in seguito una Targa d'Oro dall'ANICA, per il suo contributo al cinema italiano e per la sua lunga carriera artistica.

Nel '59 la sua salute peggiorò, durante la lavorazione del film La cambiale ebbe una ricaduta e non lavorò per due settimane, prima di concludere le riprese. Seguendo i consigli medici si concesse alcuni mesi di riposo, e dopo essersi ripreso inviò una sua canzone, Piccerella Napulitana, al Festival di Sanremo 1959, che però fu scartata, insieme ad un'altra di Peppino De Filippo. Totò accettò comunque di occupare il posto come presidente della giuria al Festival, in seguito alle insistenze di Ezio Radaelli, rifiutando tra l'altro un cospicuo pagamento giornaliero; però, in seguito a un disaccordo col resto della commissione, abbandonò prestissimo l'incarico.

Proprio all'apice del successo, l'agenzia artistica statunitense Ronald A. Wilford Associates di New York (agenzia di quel Ronald Wilford che avrebbe poi fondato e diretto la Columbia Artists Management International, considerata una delle agenzie più potenti del mondo) desiderava scritturarlo per uno spettacolo da rappresentare in America, insieme a Maurice Chevalier, Marcel Marceau e anche Fernandel. Naturalmente Totò non se la sentì e preferì rimanere in Italia a continuare in modo più "rilassante" con la cinematografia, rifiutando così, anche se malvolentieri, un'offerta importante e un altissimo compenso.

Nel 1961 gli venne comunicato che era vincitore della Grolla d'oro alla carriera, con la motivazione: «Al merito del cinema, per aver da lunghi anni onorato l'estro e il genio del Teatro dell'Arte». Ma la sua salute e i suoi impegni non gli permisero di partecipare alla premiazione a Saint-Vincent e la Grolla fu assegnata ad un altro attore.

Nonostante la malattia, Totò (da sempre fumatore) continuava a fumare fino a novanta sigarette al giorno. Cercò comunque di non rallentare troppo la sua già allora consistente produzione di film; e per il timore di perdere il lavoro e l'affetto del suo pubblico, cominciò ad accettare qualsiasi copione: aprì una parentesi con il regista Lucio Fulci ne I ladri e tornò con Steno nel film I tartassati, nuovamente al fianco di Aldo Fabrizi, a cui si aggiunse in un ruolo secondario l'attore francese Louis de Funès. Sebbene fosse quasi completamente cieco (vedeva solo dai lati degli occhi), tanto da dover indossare un pesante paio di occhiali scuri che toglieva soltanto per le riprese, si muoveva sul set con assoluta disinvoltura ed era come se tornasse, solo per un attimo, a vedere; cosa che proprio lui affermò: «Appena sento il ciak, vedo tutto. È un effetto nervoso».

Tra i tanti film interpretati negli anni Sessanta, oltre ai numerosi con Peppino e alcuni con Fabrizi, di buon successo furono Totòtruffa 62 di Camillo Mastrocinque, Gli onorevoli e la commedia amara I due marescialli di Sergio Corbucci, poi I due colonnelli di Steno (ricordato per la scena della “carta bianca”) e Risate di gioia di Monicelli, che segnò una tappa importante per Totò, dato che fu l'unica volta che recitò sul set insieme all'amica e compagna storica di teatro Anna Magnani. Non mancarono poi le parodie, come Totò contro Maciste, Totò e Cleopatra e Totò contro il pirata nero di Fernando Cerchio, che altro non furono che delle comiche rivisitazioni mitologiche dei film Peplum, a cui si aggiunsero Che fine ha fatto Totò Baby? (esplicita parodia di Che fine ha fatto Baby Jane?) di Ottavio Alessi e Totò diabolicus di Steno, quest'ultimo una parodia del genere giallo-poliziesco dove Totò concepì una delle sue prove recitative più complesse e riuscite, dando volto e fattezze a ben sei personaggi differenti.

In aggiunta, la fama che Totò vantava tra il pubblico, da sempre sfruttata dai produttori, venne usata come una sorta di veicolo pubblicitario o di lancio per cantanti quali Johnny Dorelli, Fred Buscaglione, Rita Pavone, Adriano Celentano, e per piccoli attori come Pablito Calvo che, già interprete di Marcellino pane e vino, recitò poi in Totò e Marcellino. Esplorò anche il filone notturno-sexy insieme a Erminio Macario in Totò di notte n. 1 e Totò sexy, due tra i film più fiacchi della sua carriera.

Nel gennaio del 1964 venne pubblicizzata la notizia dell'uscita del suo centesimo film, annunciato come il suo primo interamente drammatico, Il comandante. Diretto da Paolo Heusch e scritto da Rodolfo Sonego (sceneggiatore di fiducia di Alberto Sordi), richiese complessivamente otto settimane di lavoro, più del doppio rispetto alla media dei film di Totò. La notizia diede luogo a festeggiamenti e riconoscimenti, Totò ricevette perfino la "Sirena d'oro" e agli incontri internazionali del cinema venne accolto da un applauso interminabile, poche settimane dopo fu intervistato da Lello Bersani, per Tv7, e da Oriana Fallaci, per L'Europeo. Ma nonostante tutto, il film, che in realtà era l'ottantaseiesimo, si rivelò un insuccesso. Poi, presso l'editore Fausto Fiorentino di Napoli, pubblicò il famoso libro di poesie 'A livella, che in origine si chiamava Il due novembre, per la quale vinse anche un premio.

Nel 1965 conobbe un giovane Pasquale Zagaria che, interprete d'avanspettacolo, era stato consigliato dal titolare del teatro Jovinelli di rivolgersi a Totò al fine di trovare lavoro nel cinema. In quell'occasione Totò gli suggerì di cambiare il suo nome d'arte, che era Lino Zaga, spiegando che i diminutivi dei nomi portassero bene e quelli dei cognomi portassero male. Da allora il giovane attore si conferì lo pseudonimo di Lino Banfi.

«Ho girato diversi film mediocri, altri che erano veramente brutti, ma, dopo tutta la miseria patita in gioventù, non potevo permettermi il lusso di rifiutare le proposte scadenti e restarmene inattivo... » Al culmine della sua carriera, anche se poco prima della morte, arrivarono proposte importanti da cineasti come Alberto Lattuada, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Col primo girò, nel 1965, il film La mandragola, nel ruolo di Fra' Timoteo, che interpretò in modo brillante. Il secondo lo avrebbe voluto per il film Il viaggio di G. Mastorna, dove erano previsti nel cast anche Mina, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Lavorare con Fellini era sempre stata una delle maggiori ambizioni di Totò, ma la pellicola purtroppo non fu mai realizzata. L'incontro con Pasolini, invece, fu uno dei più importanti e inaspettati dell'intera carriera cinematografica di Totò. La prima opera realizzata insieme fu Uccellacci e uccellini, che Totò accettò senza condividere appieno il suo personaggio e la poetica del regista; ormai il suo intento principale era produrre opere di qualità, per la ricorrente paura d'essere dimenticato dal pubblico. Pasolini lo scelse perché rimase affascinato dalla sua "maschera", che riuniva perfettamente "l'assurdità e il clownesco con l'immensamente umano". Per la prima volta Totò, durante la lavorazione di un film, si sentì in qualche modo smorzato, per volere di Pasolini che lasciava poco spazio ai suoi lazzi e alle sue improvvisazioni, rispetto a come era solitamente abituato con gli altri registi. Uccellacci e uccellini, opera di grande forza poetica, fin dall'inizio fu oggetto di discussioni e controversie, anche se fu quasi unanime il riconoscimento della grande interpretazione di Totò, che, lodato dalla critica, conseguì una menzione speciale al Festival di Cannes e il suo secondo nastro d’argento, e, per esprimere la sua soddisfazione, ringraziò la giuria dei critici cinematografici italiani attraverso una breve dichiarazione scritta. Prima di ritornare con Pasolini, ottenne un ruolo in Operazione San Gennaro di Dino Risi, accanto a Nino Manfredi. Nel 1967 girò con Pasolini il cortometraggio La terra vista dalla luna, episodio del film collettivo Le streghe, tratto dal racconto di Pasolini mai pubblicato Il buro e la bura; poi Che cosa sono le nuvole?, un episodio del film Capriccio all'italiana, dove l'attore prese parte anche a un altro corto di Steno: Il mostro della domenica.

Furono le sue ultime pellicole. Venne chiamato anche da Nanni Loy per Il padre di famiglia, di nuovo con Manfredi, in un ruolo di un anziano anarchico che vive vendendo calzini e mutande ai compagni della sinistra; film destinato a collocarsi fra i tanti progetti non realizzati da Totò, poiché girò la prima scena (per ironica casualità, quella d'un funerale) e morì due giorni dopo.

Totò incontrò la televisione già nel 1958, insieme a Mario Riva nel programma Il Musichiere. Fece ritorno solo nel 1965, invitato da Mina nella trasmissione Studio Uno, partecipando a due puntate: nella prima, subito accolto da un lunghissimo applauso, presentò la sua canzone Baciami, lasciando cantare Mina mentre lui interveniva facendo da contrappunto alle parole della canzone con qualche sua classica battuta. Nella seconda puntata, nel 1966, ripropose invece un vecchio sketch (Pasquale) con Mario Castellani. La scenetta venne poi incisa, insieme alla poesia 'A livella, in un disco 33 giri dell'attore. Nel suo ultimo periodo di vita, mise in lavorazione alcuni caroselli e una serie per la tv chiamata TuttoTotò, comprendente nove telefilm a cura di Bruno Corbucci e diretti da Daniele D'Anza. La serie, nata da un'idea di Mario Castellani, doveva essere inizialmente diretta da Michele Galdieri (l'autore di molte riviste di Totò), ma morì prima che iniziasse la lavorazione. La maggior parte dei copioni di questi telefilm apparivano troppo deboli, e soltanto alcuni di questi, con testi discreti, diedero modo a Totò di esibirsi in alcuni suoi numeri, riproponendo alcuni dei suoi famosi sketch teatrali. L'attore appariva però provato e lavorava non più di quattro ore nel pomeriggio, ma nonostante tutto era ancora in grado di padroneggiare la scena. Il ciclo andò in onda dopo la sua morte, dal maggio al luglio del '67, per poi essere replicato dieci anni più tardi. Positiva fu l'accoglienza del pubblico, più fredda quella della critica, che sottolineava come la comicità di Totò non apparisse al meglio a causa della realizzazione frettolosa e approssimativa.

Alcuni giorni prima della sua morte, Totò disse di chiudere in fallimento e che nessuno lo avrebbe ricordato, dichiarò di non essere stato all'altezza delle infinite possibilità che il palcoscenico offre (riferendosi chiaramente alla sua vera e unica passione, il teatro) e si rimproverò del fatto che avrebbe potuto fare molto di più. Morì nella sua casa di Via dei Monti Parioli, 4; alle 3:25 del mattino (l'ora in cui era solito coricarsi era le 3:30 circa) del 15 aprile 1967, all'età di 69 anni: venne stroncato da un infarto dopo una lunga agonia, tanto sofferta che lui stesso pregò i familiari e il medico curante di lasciarlo morire. Proprio la sera del 13 aprile confessò al suo autista Carlo Cafiero: «Cafiè, non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza». Secondo la figlia Liliana, le sue ultime parole furono: «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano», mentre a Franca Faldini disse: «T'aggio voluto bene Franca, proprio assai.»

Nonostante l'attore avesse sempre espresso il desiderio di avere un funerale semplice, ne ebbe addirittura tre. Il primo nella capitale, dove morì. La sua salma fu vegliata per due giorni dalle principali personalità dello spettacolo e non, giunte da tutta Italia per commemorarlo e rimpiangerlo. Fu accompagnata da più di duemila persone nella chiesa Sant'Eugenio, sul Tevere, dove si svolse la cerimonia funebre. Tra le personalità dello spettacolo presenti, all'interno della chiesa si notarono Alberto Sordi, Elsa Martinelli, Olga Villi, Luigi Zampa e Luciano Salce; parteciparono anche i registi che lo avevano sempre ignorato, e i critici che lo avevano avversato e considerato un artista inconsistente e volgare. Sulla sua bara furono poggiati la famosa bombetta con cui aveva esordito e un garofano rosso, la cerimonia si limitò a una semplice benedizione a causa delle difficoltà create dalle autorità religiose, perché con Franca Faldini l'attore non era sposato, addirittura fu fatta uscire di casa mentre il prete benediceva la salma di Totò.

Il secondo si svolse a Napoli, la sua città natale alla quale era particolarmente legato e la sua gioia più grande sarebbe stata proprio ritornare lì, così fu: Il 17 aprile di pomeriggio il feretro partì verso la città, scortato da circa trenta vetture. La città sospese dalle 16 alle 18,30 ogni attività, fu interrotto il traffico, i muri delle strade furono riempiti di manifesti di cordoglio, le serrande dei negozi vennero abbassate e socchiusi i portoni degli edifici in segno di lutto. Tra gli altri personaggi dello spettacolo ed amici stretti, ad attendere il feretro, c'erano i fratelli Nino e Carlo Taranto, Ugo D'Alessio, Luisa Conte, Dolores Palumbo. A causa della grande affluenza, il furgone che trasportava la salma impiegò due ore per raggiungere la chiesa di Sant'Eligio, dove si svolsero i funerali di fronte alla folla traboccante, valutata in circa 250 000 persone, tra bandiere, stendardi e corone.

L'orazione funebre venne tenuta da Nino Taranto: «Amico mio, questo non è un monologo, ma un dialogo perché sono certo che mi senti e mi rispondi, la tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli, che è venuta a salutarti, a dirti grazie perché l'hai onorata. Perché non l'hai dimenticata mai, perché sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l'avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l'allegria di un'ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico è qui, ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l'ultimo "esaurito" della sua carriera, e tu, tu maestro del buonumore questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Totò, addio amico mio, Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori, e che non ti scorderà mai, addio amico mio, addio Totò.»

Dopo il rito funebre, le autorità furono costrette a far uscire la salma da una porta secondaria, all'interno della basilica si susseguirono scene di panico e anche svenimenti; ci furono quattro feriti, due donne e due agenti, in seguito all'enorme scompiglio causato. Il corpo di Totò venne così scortato da motociclisti della polizia al Cimitero del Pianto, ove ad attendere c'erano Franca Faldini, la figlia Liliana con il marito, Eduardo Clemente e Mario Castellani, che per via della straripante folla decisero di non assistere alla funzione religiosa e raggiunsero direttamente in auto il cimitero. Totò fu sepolto nella tomba di famiglia accanto ai genitori, al piccolo Massenzio e all'amata Liliana Castagnola.

Il terzo funerale lo volle organizzare un capoguappo del Rione Sanità, nel suo quartiere, che si tenne il 22 maggio, cioè pochi giorni dopo il trigesimo; ad esso aderì un numero altrettanto vasto di persone, nonostante la bara dell'attore fosse ovviamente vuota. Eduardo De Filippo, con un partecipato articolo, lo ricordò dalle pagine del quotidiano Paese Sera nel giorno della sua scomparsa.

«Non è una cosa facile fare il comico, è la cosa più difficile che esiste, il drammatico è più facile, il comico no; difatti nel mondo gli attori comici si contano sulle dita, mentre di attori drammatici ce ne sono un'infinità. Molta gente sottovaluta il film comico, ma è più difficile far ridere che far piangere.»

Secondo un sondaggio del 2009, condotto dal giornale online quinews.it con mille intervistati equamente distribuiti per fasce d'età, sesso e collocazione geografica (Nord, Centro, Sud e Isole), Totò risultava essere il comico italiano più conosciuto ed amato, seguìto rispettivamente da Alberto Sordi e Massimo Troisi. I suoi film, visti all'epoca da oltre 270 milioni di spettatori (un primato nella storia del cinema italiano), molti dei quali rimasti attuali per satira e ironia, sono stati raccolti in collane di VHS e DVD in svariate occasioni e vengono ancora oggi costantemente trasmessi dalla tv italiana, riscuotendo successo anche tra il pubblico più giovane. Inoltre talune sue celebri battute, espressioni-mimiche e gag sono divenute perifrasi entrate nel linguaggio comune.

Umberto Eco ha espresso così l'importanza di Totò nella cultura italiana: «In questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistono ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli [cioè cinesi e italiani] di cui uno ignora Totò?»

Liliana De Curtis, la figlia del comico, è tuttora attiva per mantenere vivo il ricordo del padre. Molti italiani, ancor oggi, si rivolgono a Totò inviando lettere e biglietti alla sua tomba, per confidarsi, chiedere favori e addirittura grazie, come fosse un santo. La notorietà di cui Totò gode in Italia è andata anche oltre i confini nazionali: ad esempio in America, dove il comico Jim Belushi lo ha definito un «clown meraviglioso». L'attore George Clooney, intervistato in Italia in occasione del remake de I soliti ignoti, Welcome to Collinwood (2002), in cui lui interpretava il corrispettivo ruolo di Totò, ha altresì dichiarato: «Era un vero poeta popolare, un fantasista espertissimo nell'arte di arrangiarsi e di arrangiare ogni gesto ed espressione» precisando inoltre che, secondo il suo parere, tutti i comici più celebri come Jerry Lewis, Woody Allen o Jim Carrey devono qualcosa all'attore italiano. «Non era certo solo un comico, proprio come Buster Keaton. I suoi film potrebbero essere anche muti: riesce sempre a trasmettere il senso della storia. Grazie ai vostri sceneggiatori e alla sua mimica, dai suoi film traspare un personaggio a tutto tondo: astuto, ingenuo e anche vessato dalle circostanze della vita. Per questo continuerà a essere imitato, senza speranza di eguagliarlo. C'è sempre suspense nella sua recitazione: si aspetta una sua nuova battuta, una strizzatina d'occhi, ma resta imprevedibile il suo modo di sviluppare una storia.»

«Tengo molto al mio titolo nobiliare perché è una cosa che appartiene soltanto a me... A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l'altezza Imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. Mentre con Totò ci mangio dall'età di vent'anni. Mi spiego?» Dopo l'adozione nel 1933 da parte del marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, cavaliere del Sacro Romano Impero (D. M. di riconoscimento 6 maggio 1941), Totò intraprese lunghe e costose battaglie legali, portate avanti con determinazione, per il riconoscimento di nobiltà, anche grazie all'aiuto di esperti avvocati e araldisti. Totò riteneva di appartenere a un ramo decaduto dei nobili de Curtis, quello dei conti di Ferrazzano, sebbene tale discendenza non sia mai stata dimostrata. Il 18 luglio 1945 e il 7 agosto 1946 il Tribunale di Napoli, IV sez., emanò sentenze che gli riconobbero diversi titoli gentilizi, che vennero registrati a pag. 42 vol. 28 del Libro d'Oro della Nobiltà Italiana, tenuto presso l'archivio della Consulta Araldica (Roma, Archivio Centrale dello Stato): Principe, Conte Palatino, Nobile, trattamento di Altezza Imperiale. Con sentenza 1º marzo 1950 del Tribunale civile di Napoli, il cognome di Totò venne rettificato in "Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio", anche se sul pronao della cappella della sua tomba, nel Cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli, l'incisione recita solo Focas Flavio Comneno De Curtis di Bisanzio - Clemente. Di fatto, dalla sentenza del 1946, Totò acquisì i titoli e i nomi di: Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. In seguito al riconoscimento nobiliare, Totò fece coniare delle medaglie d'oro dal peso di 50 grammi l'una ritraenti il suo profilo, come fosse un imperatore romano, e che amava regalare ai suoi amici più intimi. Sembra che ben cinque denunce siano state sporte contro l'attore (anche da privati cittadini) per "abuso di titoli nobiliari".

Immortale Totò, principe della risata e imperatore solitario. Morì 50 anni fa, ebbe 3 funerali, vita furibonda e grandi amori, scrive Giorgio Gosetti il 15 aprile 2017 su l' "Ansa". Cosa si può dire ancora di Totò, per gli amici Antonio De Curtis ma per l'anagrafe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, scomparso il 15 aprile di 50 anni fa nella sua casa romana di Viale Parioli a soli 69 anni di una vita furibonda e frenetica? Tanto fu applaudito ed esecrato in vita, specie dalla critica, tanto suscitò passioni ed amori nel pubblico e nelle donne, tanto fu un'anima solitaria come solo i grandi comici sanno essere e tanto visse sempre nell'angoscia di non essere ricordato se non per la sua maschera farsesca. Dopo una consacrazione postuma che lo ha innalzato ai vertici della popolarità e dell'arte, dopo le mille e mille righe a lui dedicate da studiosi (Umberto Eco) e artisti (Pasolini scrisse che la "sua maschera riuniva perfettamente l'assurdità e il clownesco con l'immensamente umano") cosa resta da dire? 

Figlio illegittimo del Barone Giuseppe De Curtis e di Anna Clemente, Antonio "N.N." Clemente detto Totò nasce il 15 febbraio 1898 nel cuore della "guapperia" napoletana al Rione Sanità in quella casa modesta che oggi sarebbe il suo museo ed è invece lasciata nell'incuria a rischio di crollo. Malinconico e solitario, poco versato per gli studi e complessato per il suo stato di "figlio di nessuno" (il padre lo riconobbe dopo i 20 anni), Totò si rifugia fin da bambino dietro la maschera del comico e dell'istrione, le sole armi con cui si fa amare da compagni e grandi. Esordisce sui palcoscenici periferici di Napoli già nel 1913, ma è solo dopo la Grande Guerra (sotto le armi ma lontano dal fronte) che abbraccia il suo destino sul palcoscenico della Sala Napoli scritturato da Eduardo D'Acierno.

Il padre riunisce la famiglia a Roma e qui Totò, nella totale disapprovazione dei genitori, comincia la sua vera gavetta da "straordinario" di compagnia, aggregato a diverse formazioni, spesso lasciato senza lavoro e senza soldi, solo a fatica in grado di farsi largo nel mondo della commedia dell'arte e dell'avanspettacolo. Il fortuito incontro con Giuseppe Iovinelli, l'impresario dell'Ambra Iovinelli di Roma e l'inaspettato successo delle sue macchiette ne fanno rapidamente un divo della scena comica. Non scorderà mai però la fatica degli esordi: "La miseria - diceva - è il copione della vera comicità... Non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita". Simile in questo a Charlot, che spesso additò a modello, desolato come Buster Keaton a cui fin troppo spesso veniva accostato per la gestualità straniata, Totò fu però soprattutto un formidabile autodidatta, capace di cogliere nei tic della gente comune i tratti che poi elevava a gesti comici (da bambino lo chiamavano 'o spione per la sua attenzione al lato buffo degli altri), anarchico nel lavoro quanto meticoloso nella costruzione di sé e delle sue maschere. Nel pantheon dei grandi interpreti "del corpo" assomma i tratti di Eduardo e Tati, Chaplin e Keaton, ma non viene mai meno a una originalità senza limiti che, lo faceva applaudire anche dagli stranieri (dalla Svizzera alla Spagna), mentre solo la pigrizia e la timidezza provinciale gli preclusero i palcoscenici più grandi, compreso quello americano dove venne invano invitato. La sua eredità non viene ben descritta dai numeri, comunque impressionanti: 97 lungometraggi interpretati a passo di carica dopo l'esordio nel 1937 con "Fermo con le mani", voluto da Goffredo Lombardo che cercava volti nuovi per il cinema; oltre 50 spettacoli tra commedia, rivista, avaspettacolo nell'arco di tempo che va dal 1928 al 1957 quando l'aggravarsi di una acuta malattia agli occhi lo rese praticamente cieco. In parallelo ci sono poi le prove da cantante (con un successo speciale per "Malafemmena"), le apparizioni televisive (memorabile "Studio Uno" con Mina), le poesie (la raccolta di "A' livella"), i fumetti, le pubblicità, le apparizioni a sorpresa. Ma il cuore di un successo che ancora oggi lo fa primeggiare su ogni altro protagonista della scena italiana (a grande distanza da Alberto Sordi e Massimo Troisi) viene da una genialità interpretativa che sempre lo fece autore di se stesso, in una dimensione sospesa tra osservazione del reale e astrazione surrealista, satira e farsa, intuizione verbale (celeberrimi i modi dire che sono entrati nel lessico comune) e costruzione fisica (la maschera-automa, il guitto e il poeta, il pulcinella e il nobile).

Benché abbia avuto al cinema pigmalioni come Cesare Zavattini e De Sica, poi grandi sodali come Carlo Ludovico Bragaglia, Steno e Monicelli o perfetti complici del suo genio (da Corbucci a Mattoli a Mastrocinque), solo a fine carriera ebbe l'onore dei maggiori autori italiani: lo voleva Fellini per mai realizzato "Viaggio di G. Mastorna", lo scelse Pasolini (da "Uccellacci e uccellini" a "Che cosa sono le nuvole"), lo chiamarono Risi, Bolognini, Lattuada. Eppure nell'immaginario popolare vive soprattutto per i film interamente modellati su di lui, da "Miseria e nobiltà" a " Totò le mokò", da "I pompieri di Viggiù" a "47 morto che parla" fino ai vari episodi di " Totò e Peppino" in coppia con l'amico De Filippo. Fece scalpore anche nella vita privata, segnata da grandi passioni e dolori: dal suicidio della prima moglie, la sciantosa Liliana Castagnola, fino alla tormentata e appassionata storia con Franca Faldini. Si fece adottare, nel 1933, dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, in rincorsa a quel prestigio aristocratico che gli sembrava riscattare le sue origini; si sentiva davvero erede del sacro romano impero e della corona di Costantinopoli, anche se le battaglie legali gli fruttarono spesso denunce e delusioni. Come in una pièce di Pirandello ebbe l'onore di 3 funerali: il primo a Roma, vegliato per due giorni dai più grandi di cinema e teatro; il secondo a Napoli in un bagno di folla con 250.000 anime straziate dietro al feretro; il terzo nel cuore di Spaccanapoli dove un guappo locale organizzò la cerimonia intorno a una bara vuota. Ma a quel punto la sua arte volava ormai da giorni nel firmamento dei geni.

Totò, 50 anni senza il Principe della risata: 5 film da vedere su YouTube. Antonio De Curtis moriva il 15 aprile del 1967, scrive il 14 aprile 2017 su Panorama. "Sono un osso duro, io! Sono tutt'ossa!", diceva Totò alias Felice Sciosciammocca nel film Un turco napoletano. Antonio De Curtis, in arte Totò, era infatti tutto nervi e ossa, viso scavato e un'espressività prepotente e trascinante. Un osso duro della risata. Morto il 15 aprile 1967 a 69 anni, attore, cantante, poeta e tanto altro, Totò è stato il "Principe della Risata" ma anche drammaturgo dal fulgente animo tragico. Coi suoi lazzi, i doppi sensi e la mimica incalzante conquistava. Ma sapeva anche far increspare il cuore. Nel cinquantesimo anniversario della sua morte, Napoli festeggia la sua icona con la mostra Totò Genio, un grande mosaico che rappresenta l'arte di De Curtis in tre luoghi diversi (fino al 9 luglio): il Museo Civico di Castel Nuovo (Maschio Angioino), Palazzo Reale e il Convento di San Domenico Maggiore.

Per rivederlo nella sua verve irresistibile, ecco cinque film da vedere completi su YouTube. 

1) Totò, Peppino e la... malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque. Totò in grande forma in questa commedia, accanto a Peppino De Filippo. Indimenticabile la scena cult della lettera dettata da Totò e scritta da Peppino, ripresa da Roberto Benigni e Massimo Troisi in Non ci resta che piangere.

2) Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Anche film d'autore per Totò, che accettò il ruolo pur con qualche riserva sul suo personaggio proprio per ascrivere il suo nome ai film di qualità. Un grande intellettuale come Pasolini "sdogana" il Principe della Risata facendogli conseguire una menzione speciale al Festival di Cannes. Per l'attore è il suo ultimo film da protagonista. 

3) I due marescialli (1961) di Sergio Corbucci. Commedia all'italiana che unisce Totò e Vittoria De Sica nell'Italia in guerra del 1943. Il primo è un ladruncolo, vestito da prete, l'altro un maresciallo, che si scambiano vestiti e ruoli.

4) Miseria e nobiltà (1954) Mario Mattoli. La celebre scena di Totò che mangia gli spaghetti con le mani appartiene a questa commedia. Il comico napoletano ancora una volta Felice Sciosciammocca, il personaggio immaginario del teatro partenopeo creato da Eduardo Scarpetta. Nel cast anche Sophia Loren e Valeria Moriconi.

5) Totò contro Maciste (1962) di Fernando Cerchio. Parodia dei film peplum, fa parte di una serie di rivisitazioni mitologiche in chiave comica di cui Totò fu protagonista. 

Qualunquista, anarchico, gotico: a ognuno il suo Totò. All'epoca i critici non amavano i suoi film. Apprezzati invece da certi scrittori, da Zavattini a Soldati. La rivalutazione ripartì in pieno post-68, con un volume di Goffredo Fofi. Che rende merito al più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, scrive Emiliano Morreale il 14 aprile 2017 su "L'Espresso". Totò fa ormai parte dell’arredamento domestico degli italiani: le sue foto nei ristoranti del centro Sud, la sua immagine nei canali televisivi a riempire le fasce orarie più bisognose. Eppure a rivedere e ristudiare i suoi film possono arrivare sorprese: basti pensare ai volumi che gli ha dedicato, alcuni anni fa, Alberto Anile, ritrovando un Totò inedito, alle prese con la cultura del suo tempo, con la politica, con la censura. I critici, si è detto, all’epoca non amavano i suoi film. Che erano spesso modesti, ma non sempre: non solo quelli di Steno e Monicelli, che lo declinavano in versione più “neorealista” (“Guardie e ladri”, “Totò cerca casa”), ma anche certi che più direttamente assecondavano il suo genuino versante farsesco: Mattoli, Corbucci, Mastrocinque. In compenso, Totò era amato da certi scrittori: quelli di derivazione futurista o surreale, che in lui vedevano la marionetta umana (il giovane Zavattini, Campanile, Palazzeschi), ma anche acuti osservatori come Soldati o Flaiano. I fortunati, all’epoca, dicevano che il vero Totò era quello teatrale, che dal vivo potevano apprezzarsi al meglio le sue qualità. Probabilmente è vero; forse per questo uno dei suoi film più memorabili è “Totò a colori” (1952), centone di suoi numeri di varietà, lievitati e portati a perfezione da anni di improvvisazioni. E non a caso hanno avuto fortuna negli anni varie antologie dei “numeri” più famosi, che sono in fondo una forma legittima di mostrare i suoi film. Cerimonia al cimitero di Poggioreale dove il sindaco ha deposto una corona di fiori sulla tomba di Totò. Presente anche Elena de Curtis, nipote dell'artista, che ha detto: "E' qui con noi, si starà facendo una marea di risate". "Sono davvero entusiasta per la qualità delle iniziative, la partecipazione, la grande emotività" ha aggiunto de Magistris accompagnato dall'assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele, dal presidente della II Municipalità, Ivo Poggiani, dal Comandante della Polizia Municipale, Ciro Esposito, dal Questore di Napoli, Antonio De Iesu."Sono passati 50 anni ma Totò è qui, nella città, tra i napoletani", conclude de Magistris.

La sua rivalutazione ripartì in pieno post-’68, con un volume di Goffredo Fofi. Ma alla fine della carriera c’era stato, come è noto, l’incontro con Pasolini. Il quale, forse più ancora che in “Uccellacci e uccellini”, fece risplendere il suo genio negli episodi a colori, “La terra vista dalla luna” e “Che cosa sono le nuvole” (in cui, Iago tinto di verde, recita una delle morti più strazianti viste al cinema, depositato in una discarica da Domenico Modugno). Rimane infine il rimpianto di non averlo potuto vedere nei panni di San Giuseppe da Copertino, il “santo cretino” che volava, in “C’era una volta” di Francesco Rosi (il produttore Ponti bocciò l’idea). Ognuno, ovviamente, ha il suo Totò preferito. Personalmente, mi piace ricordare il versante nero, gotico, di “Totò Diabolicus” o “Che fine ha fatto Totò Baby?”. Del resto, Mario Monicelli sosteneva che Totò gli faceva un po’ paura: la sua faccia era un teschio, come la maschera di Pulcinella; anche la critica americana Pauline Kael scriveva dei «suoi occhi stanchi, che hanno visto tutto». Un aspetto colto magnificamente da Alberto Lattuada, che nella “Mandragola” (1965) lo fa monologare nelle catacombe. "Ma mi faccia il piacere", "Cà nisciuno è fesso". I napoletani parlano con le battute di Totò, usate quasi senza accorgersene nel quotidiano per descrivere una situazione o una persona.

Qualunquista e anarcoide, aristocratico e plebeo distruttore delle convenzioni, Totò è senza dubbio il più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, ed è l’ultimo “comico primario” di un’Italia povera, mosso dal bisogno di cibo e di sesso. È forse difficile, per chi è nato dopo la sua morte, cinquant’anni fa, inserirlo nel mondo da cui proveniva, forse perfino capirlo. Mi viene quasi il timore, per un attimo, che un giovane oggi possa apprezzare Totò, ma non ridere davvero con lui.

Totò, 50 anni dopo i critici continuano a stroncarlo: “Il suo è stato brutto cinema con brutti film”. "All’interno di questi film che sono oggettivamente brutti, esclusi pochi costruiti con più abilità, ci sono pero dei momenti, parlo di cinque minuti, dove Totò dimostra la sua genialità”, spiega al FQMagazine Paolo Mereghetti. "Lui ha sofferto tantissimo il fatto che non gli offrissero film di alta qualità, ma quando li ha fatti è stato molto bravo perché ad esempio con Pasolini, che lo ha persino fatto diventare buono", afferma Roberto Escobar, critico del Sole 24Ore, scrive Davide Turrini il 13 aprile 2017 su “Il Fatto Quotidiano. “Totò genio artistico senza pari, ma i film che interpretava erano (e rimangono) brutti”. Il rapporto non riconciliato tra la critica cinematografica e i quasi cento film del “principe della risata” – di cui il 15 aprile 2017 ricorrono i 50 anni dalla morte – continua. E senza troppe novità. Nell’infinita giaculatoria di mea culpa, dove tutti hanno rivalutato il comico, la maschera, l’uomo De Curtis, ecco che per titoli come Totò sexy, Totò e i re di Roma, 47 morto che parla, Totò Vittorio e la dottoressa, alcune opere a caso su almeno tre quarti dei titoli da lui interpretati, stellette, pallini, voti in pagella, schede di rivalutazione non sono mai riapparse, anzi. “Alcuni film di Totò sono francamente brutti, fatti in fretta, talvolta ne girava sei all’anno come un matto. E all’interno di questi film che sono oggettivamente brutti, esclusi pochi costruiti con più abilità, ci sono pero dei momenti, parlo di cinque minuti, dove Totò dimostra la sua genialità”, spiega al FQMagazine Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della sera ma soprattutto autore del Dizionario dei film (Baldini&Castoldi) dove appena una ventina di titoli su novantasette interpretati dal comico napoletano raggiungono la sufficienza (Totò, Peppino e la malafemmina e Totò a colori sono gli unici con 4 stellette ndr). “E’ lo stesso discorso che si può fare per Gary Cooper e Humphrey Bogart: non tutti i film con Bogie sono capolavori, ma lui era un grande attore anche nei film brutti. Non c’è nulla di che stupirsi, sul dizionario si cerca di giudicare un film nella sua complessità e i risultati sono questi. Ultimamente c’è stata una specie di vulgata critica che per una battuta comica di livello si è messa a salvare l’intero film. Parlo in generale di commedie italiane squinternate. Chiaro, si può ridere a una battuta di Franchi e Ingrassia anche se i loro film venivano fatti oggettivamente coi piedi. Identico discorso che si può applicare ai lavori interpretati da Totò”. “Insisto: come cinema in senso stretto quello fatto da Totò è stato un brutto cinema”, spiega Roberto Escobar, critico del Sole 24Ore e autore di una ricca monografia su Antonio De Curtis (Totò – Il Mulino). “E dirò di più. È un paradosso, ma i più bei film interpretati da Totò in realtà tradiscono Totò. Lui ha sofferto tantissimo il fatto che non gli offrissero film di alta qualità, ma quando li ha fatti è stato molto bravo perché ad esempio con Pasolini, che lo ha persino fatto diventare buono, non era più e solo una maschera, ma un grande attore”. “E comunque lo scrivo da sempre: per fortuna i film che ha interpretato sono brutti, perché Totò è più dei suoi film” – continua Escobar, “Come diceva Goffredo Fofi: il film ideale di Totò è un’antologia, non un superfilm con montate le parti migliori delle sue decine di film, ma la persistenza nella memoria di un continuum di immagini e emozioni. Quando i miei colleghi critici di un tempo, come Guido Aristarco, lo stroncavano, potevano sì stroncare i film ma non si rendevano conto di avere di fronte agli occhi un diamante”. “Pensare che le intenzioni fossero quelle di girare dei grandi film, equivarrebbe a dare ai produttori dell’epoca intenzioni che non hanno avuto. Totò, il più grande comico italiano veniva utilizzato soltanto per fare soldi al botteghino e veniva usato bene solo in rari casi, cito L’oro di Napoli o Uccellacci e uccellini”, afferma Alberto Anile, autore del libro fresco di stampa Totalmente Totò. Vita e opere di un comico assoluto (edizioni Cineteca di Bologna). “Totò non ha potuto essere come Chaplin, autore totale dei suoi film dalla recitazione alla musica, è stato autore e regista dei suoi spettacoli. Copioni, personaggi sketch interi, non solo battute, che poi portò nei film interpretati. Infine, come racconto nel libro grazie alle dichiarazioni di Vincenzo Talarico e Franca Faldini, negli anni sessanta, quando Totò era già stanco e disilluso del mondo del cinema, sbucò un testo per un film muto da lui scritto che Ponti e De Laurentiis bocciarono. Avrebbe potuto portare al cinema storie scritte e ideate da lui, ma non avvenne per via dell’insipienza dei produttori”.

Totò, un mito con Napoli sempre nel cuore, scrive Franco Insardà i 16 Aprile 2017 su "Il Dubbio". L’antropologo Marino Niola ci spiega il legame speciale tra Totò e Napoli: «Il mito è un alimento dell’immaginario in cui ci si riconosce subito». Napoli e Totò, un rapporto ancestrale, passionale, sincero che ha legato il Principe De Curtis alla città in modo indissolubile quando era in vita, fino a fargli dire «sto morendo, portatemi a Napoli» e oggi, a cinquant’anni dalla morte ne ha fatto un mito partenopeo come San Gennaro e Pulcinella. Il suo essere fisico e metafisico, in perenne bilico tra l’allegria e la tristezza ne hanno fatto un’icona nella quale si riconoscono tutti: il sottoproletario, l’aristocratico, il borghese. Marino Niola, professore di Antropologia dei simboli all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, collaboratore di Repubblica (ha una rubrica settimanale sul Venerdì), del Nouvel Observateur e di altre testate straniere, da studioso e da napoletano ha analizzato a fondo il rapporto tra Totò e i napoletani.

Professor Niola, ci spiega questo legame così profondo?

«Totò è stata una grande maschera di Napoli. Una maschera interclassista nella quale ognuno poteva e può riconoscersi. Ciascuno ci trova una parte di se, e spesso è quella parte che non quadra troppo. Il suo personaggio era sghembo come il suo corpo. La sua faccia era un “qui pro quo”, esattamente come il suo “qui pro quo” linguistico. Questo spiega la facile riconoscibilità per cui ciascuno trova qualcosa che lo riconduce al proprio intimo e in cui si identifica. Anche questo è tipico di Napoli, perché è una città di “qui pro quo”, di segni a forte definizione in cui ci si riconosce subito, ma che è difficile conoscere».

Quanto ha dato Napoli a Totò e quanto Totò a Napoli?

«La città gli ha dato sicuramente l’humus culturale, umano, affettivo, sentimentale da cui poi nasce la sua comicità. E lui ha restituito alla città sempre, in un modo o nell’altro, nei suoi film, nelle sue poesie, nelle canzoni questo affetto per Napoli. C’era un feedback continuo. Nel suo rapporto con Napoli non c’era quella rabbia di Eduardo che lo rendeva antipatico a molti napoletani. Parliamo di due icone, ma tra loro c’è questa enorme differenza: Eduardo era più una icona borghese, mentre Totò era interclassista. Totò non voleva insegnare niente a nessuno, Eduardo dava continue lezioni».

La folla immensa di piazza del Carmine per l’ultimo saluto a Totò in questi cinquant’anni è aumentata ed è un amore che si alimenta quotidianamente.

«Perché di Totò, come per tutte le grandi icone dello spettacolo moderno, è rimasto il suo corpo immateriale. I suoi film passano continuamente in tantissime tv in tutt’Italia. Questo fa sì che anche le persone giovani, le quali quando Totò è morto non erano neanche in mente dei, ricordino le sue battute. Senza contare il merito incredibile di essere riuscito a rendere famoso nel mondo un posto, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, come Cuneo».

L’arte di arrangiarsi, spesso geniale, è una delle caratteristiche dei personaggi di Totò che ritroviamo da sempre a Napoli.

«Anche in questo c’è un rispecchiamento: Totò nasce povero e si arrangia continuamente nella vita e nei suoi film torna questo personaggio che non ha mai dimenticato la fame. Tante è vero che l’elemento dell’indigenza è presente in molte scene, nelle quali sogna in modo semplice, da persona del popolo, un alimento per nulla sofisticato: lo sfilatino. L’aspetto, quindi, dell’arrangiarsi, del sotterfugio, del piccolo imbroglio è presente, ma i suoi personaggi non sono mai delle carogne. Utilizza degli espedienti perché gli servono per sopravvivere, per pagare la scuola alla figlia ad esempio. Si tratta di motivi nobili che ne fanno un povero cristo, mai il delinquente. Ha rappresentato in pieno il tipo umano che usciva dalla guerra: povero, pieno di voglia di vita, irriverente e disincantato quanto basta, che dava alle cose il giusto valore. E infatti da questo atteggiamento ne deriva una continua lezione di saggezza».

Totò e il cibo è un altro dei connubi della sua maschera. La scena degli spaghetti di Miseria e nobiltà è diventata un’icona di moltissime trattorie in ogni parte del mondo. Come lo spiega?

«È la fame atavica del popolo. Totò diventa il paradigma, il simbolo del rapporto tra il popolo e la fame. E il cibo è proprio questo e lui è una grande maschera, proprio come Pulcinella che tradizionalmente non fa altro che sognare montagne di maccheroni. Consideriamo anche che molti dei film sono stati girati tra la fine della guerra e il ’ 57-’ 58, anni decisivi in cui l’Italia comincia a voltare pagina, si lascia alle spalle la fame ed entra nel miracolo economico, ma il ricordo della fame è ben presente».

Pulcinella, Totò, Troisi, Maradona, Pino Daniele: perché Napoli ha bisogno di avere delle figure di riferimento, direi quasi dei miti?

«Intanto direi che tutti avrebbero bisogno di queste figure, ma non lo sanno, Napoli è una città che non ha dimenticato come il mito sia un alimento dell’immaginario che aiuta a ricostruire continuamente l’identità. Basti pensare che i napoletani si chiamano ancora con il nome della fondatrice mitica: la sirena Partenope. Il che vuol dire che il mito è nel cuore e negli occhi e queste figure rappresentano la collettività. Dopo la sirena Partenope è arrivato San Gennaro, poi Masaniello, fino a Maradona che incarnava l’uno e l’altro: un po’ Masaniello e un po’ San Gennaro, un difensore della città e un simbolo della Napoli che vince e che può fare miracoli. Non a caso nel film “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo il poeta paragona una finta di Maradona allo scioglimento del sangue di San Gennaro».

L’arte di Totò è paragonabile a quella di Chaplin, Groucho Marx o è assoluta e inimitabile?

«Ciascuno di loro ha una cifra inimitabile, però ce li ricordiamo tutti. Sul piano dell’arte Totò è grande quanto gli altri e se avesse avuto alle spalle lo star system americano si parlerebbe di lui allo stesso livello di Chaplin, di Buster Keaton e degli altri grandi comici Usa. Il fatto che sia partito da una cinematografia come quella italiana, soprattutto da una cinematografia minore, e sia arrivato a essere il simbolo vuol dire che parliamo di un campione assoluto».

Come mai il suo linguaggio, i suoi modi di dire sono entrati nel parlare comune e spesso risolvono con una battuta imbarazzi, sentimenti e stati d’animo?

«Totò non chiedeva troppo per essere capito, la sua battuta faceva capire che lui ti aveva capito, c’era una perfetta sintonia. Ci si può calare in quella battuta come in un vestito che veste alla perfezione e diventa della persona, interpretandone il sentimento. Non a caso alcune battute come “siamo uomini o caporali”, “ma mi faccia il piacere”, “ogni limite ha una pazienza” sono diventati modi di dire comuni della lingua italiana».

Il titolo del suo ultimo libro Il presente in poche parole rimanda a un modo di dire alla Totò… “Ho detto tutto”, ripetuto ossessivamente con Peppino De Filippo in Totò, Peppino e la malafemmina…Lei, nei suoi libri, analizza la credulità popolari, le manie, le perversioni legate al cibo e alla cucina: sarebbe stata un’occasione ghiottissima per la comicità di Totò?

«Assolutamente sì. Sulle diete, ad esempio, cominciava già a giocarci. Faceva spesso battute sulla linea, sul dimagrimento. Anche se lui esalta sempre la donna in carne, la maggiorata, la donna che a Napoli si chiama “ciaciona”, come nel film “Signori si nasce” quando bacia il seno di una procace e giovane Angela Luce, o quando chiede a Sophia Loren in “Miseria e nobiltà” di essere accolto nel suo seno. In lui persino le donne sono quasi da mangiare. Anche in questo è come Pulcinella: il cibo e il sesso sono due facce dello stesso desiderio».

Totò e le donne: un altro rapporto molto stretto.

«Strettissimo. La sua vita è punteggiata da donne decisive. E Napoli è assolutamente donna».

I personaggi di Totò sono spesso irriverenti, non politically correct, forse è per questo che arrivano alla gente. Affronta anche temi scomodi: le case chiuse, il regime nazifascista, la morte e interpreta ancora una volta il sentimento popolare e risolve con uno sberleffo o una battuta che rimarrà per sempre nella mente. È questa la sua forza?

«Arrivano alla gente perché Totò in alcune cose non è stato costretto a censurarsi, mentre gli argomenti scomodi li ha affrontati con garbo. Quando non poteva affrontarli esplicitamente li risolveva, come in “Totò e i re di Roma”, con un “poi dice che uno si butta a sinistra…”. Si è salvato dall’onda del politicamente corretto e da questa forma di stupidità profonda che si annida nel politicamente corretto, risolvendo con uno sberleffo situazione pesanti e complicate. Dimostrando che non c’è bisogno di esasperare certe situazioni, ma che in certi momenti una battuta dà a tutti una via di uscita».

In occasione dei cinquant’anni della sua morte il mondo del cinema lo sta ricordando adeguatamente?

«Gli sta in parte restituendo, in ritardo, quello che gli ha tolto quando era vivo. Non dimentichiamo che molti dei lodatori attuali di Totò, come campione della comicità popolare, sono gli stessi che in quegli anni dicevano delle baggianate spaventose suoi sui film, figlie di una critica occhiuta e ideologica».

C’è qualche erede di Totò?

«No. No. No. Una sarebbe potuto essere Massimo Troisi che fondeva in se qualche aspetto di Totò e qualche altro di Eduardo. Più di Totò che di Eduardo, ma era un Totò generazionale che ne aveva quindi una parte. Oggi non vedo eredi».

“A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” Napoli celebra Totò al Rione Sanità, scrive Imma Pepino il 29/04/2017 su “I Siciliani”. “Mi scusi, mi sa dire dov’è che hanno messo la statua di Totò?”. “Signurì è facile, deve andare diritto. Non il primo cortile, il secondo”. Il secondo cortile è l’interno di un palazzo antico: il palazzo dello Spagnuolo, come recita la targa in legno sul corrimano della scala. La statua di Totò – realizzata da Giuseppe Desiato, in collaborazione con la Fondazione San Gennaro – non si trova qui però. L’indicazione che però mi è stata fornita dal pescivendolo all’ingresso del Borgo Vergini non è del tutto sbagliata, o meglio ha una sua logica: proprio a palazzo dello Spagnuolo dovrebbe essere realizzato il museo dedicato alla memoria di Antonio De Curtis – come deliberato nel 1996 dalla Giunta regionale. Il progetto, voluto anche dai cittadini del quartiere che diede i natali all’artista, è però fermo da vent’anni – come denunciato il 15 Aprile scorso, all’inaugurazione delle celebrazioni, dai rappresentanti della Terza municipalità (di cui il Rione Sanità fa parte) e in particolare da Francesco Ruotolo, consulente alla memoria della Municipalità stessa, che ha affisso in alcuni luoghi simbolo del rione dei manifesti di denuncia rivolti a sindaco e presidente della regione affinché “Totò non muoia una seconda volta”. Un signore di mezz’età, anche lui deluso visitatore del museo fantasma, si sofferma a descrivermi il degrado in cui versa anche la casa in cui nacque l’artista. Mi dirigo verso Piazza San Vincenzo, il cuore del quartiere. Dopo aver percorso qualche metro giungo in Largo Vita: qui campeggia il monolite raffigurante la sagoma di De Curtis. La statua è molto bella, moderna nelle forme. Si trova poco distante dal viale di ingresso dell’ospedale San Gennaro, chiuso dalla giunta regionale De Luca. Il presidente, contestato proprio in occasione dell’inaugurazione della statua, aveva avvalorato la sua decisione pronunciando un solenne e istituzionale: “Signo’ ma l’avete fatta la pastiera?”. Potrei percorrere Calata delle fontanelle e ritornare a Materdei, ma decido di dare un’occhiata anche alla casa di Totò. La strada per arrivare è lastricata di opere dedicate all’artista, come il busto posto all’angolo di Salita Capodimonte. Il vecchio appartamento, in Via Santa Maria Antesaecula, è stato acquistato da un privato e si trova in condizioni di totale abbandono. “La proprietaria ha levato pure gli infissi alle finestre, però se entrate ci sta ancora la finestra del suo bagno che si vede dal cortile” mi dice, invitandomi a entrare, un vicino dell’appartamento accanto a quello di Totò. Un pezzo di memoria storica privatizzato e sottratto alla collettività. Tra il museo fantasma di palazzo dello Spagnuolo e la casa saccheggiata. Un patrimonio che potrebbe portare al riscatto di questo quartiere, e che invece rimane incastrato da anni tra il disinteresse delle istituzioni e il marchio impresso dalla camorra. Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Totò sarebbe una buona occasione per spostare l’attenzione dal centro città “vetrina” a un quartiere popolare in cui l’impegno delle istituzioni arriva solo quando c’è da fare una passerella o raccattare un applauso, un voto. Il Rione Sanità non può ripartire solo dall’illustre concittadino ma da tutti i cittadini, da tutte le pance, da tutte le coscienze. Perché è “la somma che fa il totale!”. 

È morto Gianni Boncompagni, il rivoluzionario della tv italiana, scrive "la Repubblica il 16 aprile 2017. Il conduttore radiofonico, paroliere, autore televisivo e regista aveva 84 anni. In una carriera di oltre mezzo secolo, con i suoi programmi ha cambiato la faccia del piccolo schermo.È morto a Roma Gianni Boncompagni. Aveva 84 anni. Conduttore e autore radiofonico e televisivo, regista, nel corso di una carriera lunga circa mezzo secolo è stato l'ideatore di numerosi programmi che hanno segnato la storia della televisione italiana. Tra i grandi innovatori dello spettacolo insieme a Renzo Arbore, ha dato vita a show rivoluzionari come Alto gradimento, Bandiera gialla, Pronto, Raffaella?, Domenica In, Non è la Rai, Carramba. Boncompagni era nato ad Arezzo il 13 maggio del 1932. A dare la notizia della morte sono state le figlie Claudia, Paola e Barbara: "Dopo una lunga vita fortunata, circondato dalla famiglia e dagli amici se n'è andato papà, uomo dai molti talenti e padre indimenticabile". La camera ardente sarà allestita martedì 18 aprile a Roma, alle 12, nella sede Rai di via Asiago 10. "A tutti i maggiori degli anni 18, a tutti i maggiori degli anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi". Poi la sigla con la voce di Rocky Roberts. Boncompagni e Renzo Arbore aprono così Bandiera Gialla, è il 1965, la Rai è quella di Ettore Bernabei che solo quattro anni prima aveva fatto indossare i collant neri coprenti alle gemelle Kessler. Bandiera Gialla per primo, nella storia della radio italiana, porta una ventata beat, apre le porte a Patty Pravo, Lucio Battisti e alla swingin' London, all'umorismo e alla goliardia. La liturgia radiofonica va a gambe all'aria, i giovani scoprono di essere giovani e soprattutto scoprono che c'è spazio anche per loro, per divertirsi. Un trend che la coppia svilupperà e amplificherà con Alto gradimento (1970), fucina dell'improvvisazione e del sommo cazzeggio nonsense. "La nostra amicizia è nata quando avevamo all'incirca 25 anni - ricorda Arbore - un'amicizia non conclusa ora che eravamo più vicini agli Ottanta che ai Settanta, come diceva sempre lui con il suo straordinario spirito toscano. Per me è stata un'amicizia provvidenziale, spero lo sia stato anche per lui. Ci conoscemmo ai tempi di quando frequentavamo il corso di maestro programmatore, eravamo compagni di banco. Aveva una visione moderna della vita, un senso d'umorismo all'avanguardia. Una visione che lo ha portato a rivoluzionare la radio e la tv. Spero di essergli stato utile con il mio atteggiamento più riflessivo e romantico, ma altrettanto teso a rivoluzionare la radio e la tv". Nel 1977 Boncompagni debutta in tv con Discoring. Poi arriva Pronto, Raffaella? (1984), condotto da Raffaella Carrà, di cui è stato pigmalione e con la quale ha avuto una lunga relazione sentimentale. Tocca poi a Pronto, chi gioca? (1985) condotto da Enrica Bonaccorti e a tre edizioni di Domenica in. Nel 1991 il passaggio a Mediaset, con Primadonna condotto da Eva Robin's e soprattutto Non è la Rai, il programma che ha per protagoniste decine di ragazze adolescenti, alcune destinate ad continuare la carriera nella tv e nel cinema, come Claudia Gerini, Alessia Merz, Antonella Elia, Laura Freddi, Lucia Ocone, Romina Mondello, Sabrina Impacciatore e soprattutto la "primadonna" Ambra Angiolini che diventa l'idolo dei teenager. E che oggi lo ricorda con questo messaggio: "Se n'è andato il giorno di Pasqua ....è stato un genio anche nel salutarci. Grazie da una ragazzina normale che tu hai fatto in modo che crescesse con il coraggio di essere diversa da tutto, nel bene e nel male. Sei ovunque". Torna alla Rai, nel 1996-97 firma due edizioni di Macao (la prima con Alba Parietti, poi esclusa), la cui seconda edizione chiude per bassi ascolti. Ugualmente sfortunata l'esperienza di Crociera. Nel 2002 il rilancio con il Chiambretti c'è di Piero Chiambretti, tra informazione e varietà, poi tra il 2007 e il 2008 dirige e conduce Bombay su La7. Padre della tv leggera e imprevedibile, Boncompagni firma anche delle hit musicali: Ragazzo triste, portata in classifica da Patty Pravo e Il mondo, successo mondiale lanciato nel 1965 da Jimmy Fontana, nonché tutte le hit di Raffaella Carrà, da Tuca tuca a Tanti auguri e ancora A far l'amore comincia tu. "Bandiera gialla", ricordava, " segnò un cambiamento culturale. Abbiamo lanciato i Beatles contro i Rolling Stones, i complessi li abbiamo battezzati tutti. Approfittando della scarsa conoscenza dell'inglese mettevamo anche canzoni con doppi sensi, allora inconcepibili per la radio, tipo Got My Mojo Working di Jimmy Smith, che voleva dire 'porto il mio cosino a lavorare'". Ma poi, con un po' di malinconia, aggiungeva: "Oggi non s'inventa più niente. Gli stadi si riempiono con nomi orrendi, non ci sono mica i Beatles e loro, i giovani del cavolo, cantano canzoni senza senso. Quelli degli anni Sessanta erano spaventosi ma l'Italia era molto indietro. Quando dico che per certi cantanti ci vogliono gli arresti domiciliari così non fanno danni non deve ridere. Deve darmi retta". Interrogato, pochi anni fa, su quale fosse lo stato della tv, aveva detto: "Oggi guardo molto Sky, Maurizio Crozza su La7, History Channel o i film. Sulla Rai solo L'eredità, forse perché mi sento molto bravo nel dare le risposte. Ma la tv in generale verrà vista sempre meno, anzi nei prossimi dieci anni scadrà. A guardarla ormai sono solo donne anziane semianalfabete, quelle che votano Berlusconi. I ragazzi non sanno neanche cosa sia. La tv di oggi è Internet, con tutto quello che comporta. Sopravviverà per lo sport, che ci sarà sempre".

Non è la Rai, Gianni Boncompagni: "Detestavo Bonolis, lo sostituii con Ambra", scrive Lara Gusatto il 26 marzo 2015 su "Tvzap". Intervistato in occasione della prima puntata della serie tv 1992 l’autore e regista racconta i retroscena dello storico programma Mediaset. “Ricordo solo che da Mediaset all’inizio mi ammollarono Bonolis che aveva già il contratto, ma io lo detestavo allora come lo detesto oggi. Non gli feci fare niente e dopo un anno misi Ambra al posto suo”. A parlare e raccontare i retroscena dello storico programma Non è la Rai è il suo creatore Gianni Boncompagni dalle pagine de “Il fatto quotidiano”. Complice la serie tv Sky 1992 dove compaiono diverse scene dello show cult di Mediaset che all’epoca rappresentò un vero caso nella storia della televisione, il quotidiano ha intervistato il Deus ex machina di Non è la Rai, il suo primo programma realizzato per il Biscione. E Boncompagni oltre a esprimere il suo parere nei confronti di Paolo Bonolis, che condusse la seconda edizione dello show dopo Enrica Bonaccorti, racconta di come nacque il programma: “Berlusconi voleva farmi fare a tutti i costi Pronto Raffaella? e io gli dicevo che era impossibile perché era un programma basato sulle telefonate e Mediaset non aveva ancora la diretta”. E su Ambra e il famoso auricolare rivela “Tutti credevano che io suggerissi le battute, invece le dicevo delle cose tremende, irriferibili, e lei doveva fare finta di nulla”.

Boncompagni, il grado zero della tv. Era interamente e intimamente votato allo spettacolo e alla leggerezza, scrive su l'"Ansa" Massimo Sebastiani il 16 aprile 201719. Nel giorno in cui il mondo cristiano celebra la resurrezione di Cristo, Gianni Boncompagni è morto. Se si fosse trattato di un gesto volontario, potremmo pensare all’ennesimo sberleffo dissacrante di un uomo che detestava la vecchiaia, il dolore, la sofferenza ed era interamente e intimamente votato allo spettacolo e alla leggerezza. Aretino come il più celebre Pietro, e come lui maestro di satira e pasquinate fin dai tempi della radio - letteralmente decostruita con programmi come Bandiera Gialla e soprattutto Alto gradimento - Boncompagni, autore e regista più che conduttore, è stato un protagonista della tv molto lontano sia dal professionismo impeccabile dei ‘bravi presentatori’ come Mike, Baudo o Corrado, sia da una concezione ‘biologica’ della televisione come quella di Costanzo, in cui il corpo del conduttore è tutt’uno con lo schermo e il programma. Al contrario, secondo un’intuizione confermata anche dal discorso critico dei suoi detrattori più feroci, è sempre stato il vuoto il vero centro di gravità permanente della tv di Boncompagni. Un vuoto rivendicato dal teorico (involontario) della tv di puro intrattenimento, ripetitiva e insensata, realizzata, come certi B-movie poi diventati di culto, presto e male. Un vuoto attraverso il quale, a saper vedere, non sarebbe stato difficile scorgere il ‘pieno’ di una rivelazione sociologica sulla società ‘affluente’ (le file delle mamme a Cinecittà per promuovere la carriera delle figlie, l’esibizionismo, il gusto per l’azzardo e la ricchezza facile con i celeberrimi fagioli di Raffaella Carrà). L’unico, ancora fino ad oggi, a poter passare indifferentemente (per lui e per il broadcaster) da Mediaset alla Rai mantenendo quasi inalterati successo, caratteristiche e perfino flop. L’unico a poter fare una tv di successo senza star e senza format. Per chi crede nella società dello spettacolo, cioè per chi non trova alcuna accezione negativa nell’espressione coniata da Guy Debord per mettere in guardia dal trionfo dell’immagine sulla realtà nella società capitalistica, l’intrattenimento è uno solo e non c’è alcuna differenza tra tv commerciale e servizio pubblico. Non c’è dunque alcuna ragione per soffrire il passaggio da una all’altra. A chi lo ha etichettato come inventore del nulla dovrebbero tremare i polsi al pensiero dell’immane e vertiginosa opera creativa che in questo modo gli viene attribuita. D’altra parte, il successo definitivo dell’artigiano del vuoto sugli intellettuali più occhiuti e infastiditi viene certificato da Umberto Eco che, all’apice del proprio successo popolare, si scomoda per affrontare il ‘caso Ambra’, reginetta con auricolare delle giovani fanciulle in fiore di ‘Non è la Rai’, che da quel momento chiamerà il semiologo di Alessandria ‘collega’. E ad ospitarlo nuovamente in Rai, con un’altra versione di vuoto televisivo, ‘Macao’, sarà, ironia delle cose, proprio un intellettuale cresciuto alla scuola situazionista di Debord, l’allora direttore di Raidue Carlo Freccero, oggi membro del cda di viale Mazzini. 

Non è la RAI, un programma-spazzatura forse irripetibile…, scrive il 24 aprile 2009 Luigi Ruffolo. Uno dei momenti più alzabandierofili e significativi partoriti dall’incontro tra la televisione padana e quella romana è stato sicuramente rappresentato da Non è la RAI. Col suo leggendario studio popolato da cento adolescenti anseriformi tutt’indaffarate a esporsi al pubblico ludibrio con i soliti pseudoballetti da osteria, o starnazzando giochi telefonici palesemente truccati e canzoni ultradeficienti. In sostanza, patetici pretesti per mostrare alle non ancora internettizzate genti un po’ di sana selvaggina, di quella barely legal, primo pelo vero o presunto. Ci sono state indubbiamente tante altre trasmissioni all’insegna del tettaculismo più indefesso in grado di scarcerare nell’aere kitsch, edonismo, tamarraggine e insignificanza in dosi altrettanto elefantesche. Ma forse nessuna è stata così sfacciatamente studiata e costruita attorno a un unico, primigenio elemento. Ovvero l’ego-pisello del suo triste demiurgo. Un omuncolo di mezza età-mezza calzetta che per fare lo sbruffone decide di esagerare vistosamente, arrivando là dove nessuno aveva osato. A infrangere con spigliatezza tabù secolari, mietendo nel silenzio assenso delle italiche abitazioni fiumi di consensi e di spermatozoi innocenti. Non è la RAI ha probabilmente rappresentato l’espressione più sublime e genuina di un certo trash televisivo dell’era postcaroselliana, un picco difficilmente ripetibile nell’epoca del reality a tutti i costi. Sfruttando forse l’ultimo spiraglio spazio-temporale a disposizione, prima dell’avvento della pedoparanoia di massa. Prima che il Moige e i suoi astrusi proclami attecchissero e aderissero quatti quatti alle pareti mentali della popolazione in modo apparentemente inscrostabile, costringendo eserciti di regazzini innocenti a passare le loro esistenze murati vivi nelle scuole con la scusa del mostro impermeabilizzato e dotato di fallo bionico sempre in agguato. Come dimenticare le inguardabili magliette, l’orripilante merchandising, le inascoltabili compilation contenenti veri e propri inni generazionali paragonabili per certi versi a quelli sfornati dal duo Pezzali-Repetto. Come scordare il moto ipnotico delle acerbe tette rimbalzanti, i teneri visini indifesi perennemente macerati dalle finte lagrime, la castità quasi irreale della Trevisan (che infatti, dopo essere stata protagonista del meno svestito dei calendari dopo quello delle Orsoline, ripudiata da un Piersilvio in cerca di più fresche prede, non fece carriera). Quella soffusa, quasi sognante atmosfera ai confini del softporno che avrebbe trovato piena realizzazione solo anni dopo nel cult movie “Vacanze da spiare” (protagoniste della complessa trama Francesca Gollini, Ilaria Galassi e Marzia Di Maio). E poi la processione delle fan-cazziste affamate di provini e proposte indecenti, accompagnate al macello da genitori ben più esaltati di loro. E gli inquietanti striscioni “Ambra c’è” delirati da folle di piccoli aspiranti falegnami scatenati all’uscita degli studi sul Palatino; i cori inneggianti all’aria fritta mista al vuoto cerebrale impersonificati dall’arrivista teleguidata per antonomasia; e dalle altre, sciattissime e scimunitissime lolite di quinta categoria servite di contorno.

Morto Gianni Boncompagni. Un grande, che si vantava di fare «la tv del vuoto pneumatico». Di sé, con coraggio e cinismo, diceva di essere il rappresentante, il venditore, il piazzista della tv commerciale. Una condizione tanto rischiosa quanto onesta, scrive Aldo Grasso il 16 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Se in radio sono stati la coppia più innovativa della storia della Rai, in tv Gianni Boncompagni e Renzo Arbore erano il diavolo e l’acqua santa. Insieme, in via del Babuino, avevano partecipato al concorso per «maestro programmatore di musica leggera». È lì che si erano conosciuti, due giovani provinciali (uno veniva da Foggia, l’altro da Arezzo) con tanta voglia di sfondare: insieme hanno fatto «Bandiera gialla», «Per voi giovani» e «Alto gradimento»…In tv erano molto diversi, lo sapevano e ci scherzavano sopra. Boncompagni era pur sempre l’autore di programmi come «Pronto, Raffaella?» (1983) e «Pronto, chi gioca?» (1985), «Non è la Rai» (1991), «Casa Castagna» (1995-96), «Macao» (1996)…A onor del vero, abbiamo faticato non poco prima di convincerci che anche Gianni era un grande: grande perché diverso dal nostro modo di intendere la tv, perché era «l’altra faccia» della tv generalista, perché, nonostante le critiche, faceva una tv coraggiosa, così spavalda da non meritarsi la ricompensa di un elogio, di una ricerca o il coronamento di un’inquietudine. Di fronte alla retorica della tv di qualità, della tv per pochi, della tv educativa (la tv perbene esiste solo in presenza della tv permale), solo Boncompagni ha avuto il coraggio di rappresentare la realtà in cui viviamo, nella sua banalità, nella sua vacuità. Di sé, con coraggio e cinismo non comune, diceva di essere il rappresentante, il venditore, il piazzista della tv commerciale. Una condizione tanto rischiosa quanto onesta. Diceva di essere un mercenario che non credeva in niente. Nemmeno nei soldi, dato che non ne aveva più bisogno. La sua frase che più mi ha colpito è questa: «La tv, tranne casi specialissimi, è tutta spazzatura». Scherzava, mica tanto, sostenendo di fare la televisione del vuoto pneumatico, la televisione del nulla. Una tv vacua, ruffiana e opportunista soprattutto nei confronti dello sponsor: «La tv difficile da fare è quella vuota, non quella intelligente. Per fare il vuoto ci vuole fantasia, creatività». Per molto tempo la sua immagine è stata associata a «Non è la Rai», a tutte quelle ragazzine in mezzo alle quali troneggiava come un satiro danzante della mitologia greca. «Le belle fanciulle – ripeteva con un sorriso malizioso - sono la mia vita. Accanto ai giovani, ai giovanissimi mi sento invaso da un senso di benessere, di fresco benessere che null’altro e nessun’altra cosa mi dà. E allora vivo con loro, parlo la loro lingua, ho i loro desideri, ne so interpretare gli umori e le fantasie…». Una trasmissione come «Non è la Rai» non aveva nessun contenuto se non un’innocua vena estetica del tipo «All’Ambra delle fanciulle in fiore». Una tendenza un po’ voyeuristica, certo, ma innocente, molto innocente. «Dei miei programmi – ha detto in un’intervista – salvo soprattutto “Macao”, molto moderno per l’epoca. E poi “Pronto Raffaella?”, che aprì le trasmissioni del mezzogiorno e dopo una settimana raggiunse i 14 milioni di spettatori. Un boom oggi incredibile. Fu merito anche del gioco del barattolo con i fagioli: lo copiai da una di queste terribili tv private. Capii subito che avrebbe funzionato e Raffaella si fidò». In Boncompagni spesso prevaleva un disincanto e una mancanza di fede nella tv che generava un salutare e divertito avvicinamento al mezzo; a volte invece era un po’ sopraffatto dalla goliardia e allora si lasciava sedurre dalla velleità narcisistica di comportarsi come un bambino discolo che dice le parolacce per stupire gli adulti. Riposi in pace.

Gianni Boncompagni. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giandomenico Boncompagni, meglio conosciuto come Gianni (Arezzo, 13 maggio 1932 – Roma, 16 aprile 2017), è stato un conduttore radiofonico, paroliere, autore televisivo e regista televisivo italiano. Nato in Toscana da padre militare dei ruoli amministrativi e madre casalinga, a 18 anni si trasferì in Svezia, dove visse dieci anni svolgendo vari lavori, diplomandosi all'Accademia svedese di grafica e fotografia, e iniziando l'attività di conduttore radiofonico per la radio svedese. Durante questa esperienza, ottenne un'intervista dal sociologo Danilo Dolci che riscosse molto successo. In Svezia si sposa con un'aristocratica e ha da lei tre figlie, tra cui l'autrice televisiva Barbara. La moglie lo lascerà di lì a breve, e lui chiederà e otterrà la patria potestà, crescendo le figlie da ragazzo padre in Italia. Tornato in Italia, vinse nel 1964 il concorso RAI per programmatore di musica leggera, ed iniziò a lavorare nella radiofonia RAI dove ebbe un grandissimo successo assieme a Renzo Arbore, nei programmi culto a cavallo tra gli anni sessanta e settanta come Bandiera Gialla e Alto gradimento, determinanti per la diffusione della musica beat in Italia. La coppia creò un nuovo modo di fare intrattenimento, basato sul non-sense, sulla creazione di tormentoni, sull'improvvisazione e l'imprevedibilità. Nel 1965 debuttò anche come cantante, con il nome d'arte di Paolo Paolo, incidendo per la RCA Italiana. Sua è anche la voce nella sigla della Guapa. Sempre nel 1965 scrive insieme a Gianni Meccia il testo per Il mondo, successo mondiale di Jimmy Fontana, che gli frutta solo nel primo anno dieci milioni, con cui si compra la prima casa; tra le altre canzoni scritte da Boncompagni ricordiamo anche Ragazzo triste per Patty Pravo. Fa parte della prima serie del programma quotidiano del mattino Chiamate Roma 3131 insieme a Franco Moccagatta e Federica Taddei, 1969. Nel 1977 Boncompagni approda sugli schermi tv della RAI, dove conduce il programma musicale Discoring, anche questo di straordinario successo: fu uno dei primi programmi musicali destinato a un pubblico esclusivamente giovanile, con un proprio gergo, e con le ultime tendenze del momento sia musicali sia nell'abbigliamento. Da allora le esperienze televisive si susseguirono continuamente: Superstar e Drim nel 1980 e poi, per quasi 10 anni in coppia con Giancarlo Magalli come autore, Sotto le stelle e Che Patatrac nel 1981, Illusione, musica, balletto e altro nel 1982 e Galassia 2 nel 1983. Oggi è conosciuto soprattutto come autore e regista di trasmissioni di grande successo popolare: Pronto, Raffaella? che consacrò la sua ex compagna Raffaella Carrà (1983/1985) che vinse nel 1984 il titolo di Personaggio televisivo femminile a livello europeo consegnato dalla European TV Magazines Association e per la quale scrisse spesso i testi di alcune delle sue più famose canzoni. Proseguì con Pronto, chi gioca? che lanciò la carriera televisiva di Enrica Bonaccorti (1985/1987). Dal 1987 al 1990 curò l'ideazione e la realizzazione di Domenica In, dove sdoganò Edwige Fenech, già famosa come icona sexy grazie ai film scollacciati degli anni '70, e Marisa Laurito che grazie a lui consolidò la sua fama televisiva. Fu proprio a Domenica In che nacque l'idea a basso costo del cruciverbone e del pubblico di ragazzine figuranti, dotate di talento o semplicemente carine e petulanti, che preludevano quelle che saranno poi protagoniste di Non è la RAI. Risale infatti al 1991 il passaggio alle reti Fininvest (oggi Mediaset) con Non è la RAI: l'ennesimo programma di culto con Enrica Bonaccorti, in onda da quell'anno fino al 1995. In quelle quattro edizioni Boncompagni è stato sempre al centro delle attenzioni dei media a causa degli scandali legati al programma condotto dalla ancora minorenne Ambra Angiolini. Lo stesso anno realizzò anche Primadonna con Eva Robin's, Bulli & pupe (estate 1992) e poi Rock 'n' Roll (1993), praticamente degli spin-off nati dal successo della trasmissione pomeridiana. Il suo alter ego in quel periodo era Irene Ghergo, coautrice dei suoi programmi. A Non è la RAI lanciò appunto il personaggio di Ambra, che all'epoca fu un vero e proprio fenomeno di costume, ma dalla fucina del programma pomeridiano furono moltissime le personalità del mondo dello spettacolo che ebbero il loro debutto e che in seguito si distinsero in vari campi dello spettacolo: da Claudia Gerini a Laura Freddi, da Sabrina Impacciatore a Nicole Grimaudo, da Antonella Elia a Miriana Trevisan e Francesca Gollini. Nella stagione 1995/1996 collaborò ad un ultimo programma in Mediaset con il programma pomeridiano Casa Castagna, presentato da Alberto Castagna. Tornato in RAI, nel 1996 e 1997 diresse Macao, con Alba Parietti nella prima edizione e nella seconda con "PI" (personaggio creato graficamente per sopperire all'abbandono della Parietti), tutto sommato una variante del modulo di Non è la Rai, con comici, canzoni, ritornelli e un pubblico di figuranti-protagonisti, dove per la prima volta usò anche personaggi maschili. Nel 1998 realizza per Rai 2 il programma di prima serata Crociera condotto da Nancy Brilli; gli ascolti sono molto bassi e la trasmissione viene soppressa dopo una sola puntata. Ha inoltre fatto parte della Commissione Artistica del Festival di Sanremo 1998 ed ha collaborato con Piero Chiambretti per Chiambretti c'è. Nell'estate 2003 ha curato la trasmissione dell'access prime time di Rai 1 Telefonate al buio, condotta da Mara Venier. Il 9 giugno 2004 firma la regia televisiva per Rai 2 e Rai International del concerto di Elton John allo Stadio di Reggio Calabria, in Omaggio a Gianni Versace. Nella stagione 2005/2006 avrebbe dovuto curare Domenica In, abbandonando tuttavia la trasmissione dopo la prima puntata. Nell'autunno 2008 è tornato a lavorare come autore per Raffaella Carrà nella nuova edizione di Carràmba che fortuna. Il 23 ottobre 2006 Gianni Boncompagni è tornato in TV con un nuovo programma, dal titolo Bombay, trasmesso dall'emittente La7. Esattamente come nei suoi precedenti programmi, Bombay presentava scenografia minimale e pubblico composto da ragazze cantanti e vocianti; lo studio era diviso in due parti: una, molto grande, ospitava la sala regia, affollata di ragazze, ed un'altra, molto piccola, completamente tappezzata di rose gialle, rappresentava il vero set televisivo, al cui interno venivano ospitati personaggi bizzarri che discutevano su temi d'attualità sprofondando in dialoghi dell'assurdo. Ha partecipato dal 25 maggio 2011 come giurato di Lasciami cantare!, talent show canoro di Rai 1. Dal 2012 ha curato una rubrica fissa su Il Fatto Quotidiano dal titolo "Complimenti". Gianni Boncompagni era ateo: nell'intervista a Claudio Sabelli Fioretti, pubblicata su Io Donna, supplemento al Corriere della Sera del 4 maggio 2012, ha dichiarato: "Io sono sempre stato ateo e morirò ateo". Muore il 16 aprile 2017 a Roma all'età di 84 anni e 11 mesi.

Boncompagni fu tra quelli che misero in circolazione la voce che Mia Martini portasse sfortuna, determinandone un lungo periodo di lontananza dalla musica. In un'intervista a Epoca del 5 marzo 1989 la stessa Mia Martini ricordava: «La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l’appunto. Una volta fui ospite a Discoring, lui era il presentatore. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi, attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out». In un'altra intervista con Enzo Tortora la Martini definì Boncompagni "detestabile".

VI SCONGIURO. Lo strano caso di Mia Martini cantante «portasfortuna». Epoca 05/03/1989. Mia Martini. La cantante che è la sorella di Loredana Berté, è stata a lungo perseguitata dalla fama di jettatrice una diceria che l’ha costretta a interrompere la carriera per sei anni. E’ tornata alla ribalta a Sanremo con la canzone “Almeno tu nell’Universo”. "Jettatrice", Menagramo”, “portajella”. Il pregiudizio, l'ignoranza e la malafede hanno schiacciato per anni la vita Domenica Berté, in arte Mia Martini. Nel mondo scaramantico e superficiale della canzone, quella fama significa isolamento, difficoltà di ogni genere. Ma adesso, prendendo tutti in contropiede, la cantante è tornata alla ribalta, partecipando al Festival di Sanremo con un brano, “ALMENO TU NELL’UNIVERSO”, composto per lei da Maurizio Fabrizio e Bruno Lauzi. Tutto come se niente fosse? Non proprio. Anche se Mia Martini, quarantadue anni di Bagnara Calabra, non lo ammette apertamente, il suo calvario è stato lungo e sofferto. «Tutto è cominciato nel 1970», racconta. «Allora cominciavo ad avere i miei primi successi. Fausto Taddeu, un impresario soprannominato “Ciccio Piper” perché frequentava il famoso locale romano, mi propose una esclusiva a vita. Era un tipo assolutamente inaffidabile e rifiutai. E dopo qualche giorno, di ritorno da un concerto in Sicilia, il pulmino su cui viaggiavo con il mio gruppo fu coinvolto in un incidente. Due ragazzi persero la vita. “Ciccio Piper” ne approfittò subito per appiccicarmi l’etichetta di “porta jella”» Da allora l’aneddotica si fece sterminata. Mostra della Canzone, 1973. All’Hotel De Bains di Venezia, dove alloggia Mia Martini, scoppia un incendio. I colleghi e gli addetti ai lavori non lo dicono, ma tutti pensano che la colpa sia dell’effetto Martini. A dieci anni di distanza, un altro incidente stradale. Sull’autostrada MilanoBrescia, la vettura su cui viaggia la cantante è coinvolta in un tamponamento a catena. Muore l’impresario Pierluigi Premoli, Mia Martini rimane ferita. «All’inizio ridevo di questa fama», afferma la cantante. “Poi mi accorsi che non soltanto i nemici e gli invidiosi, ma anche le persone che amavo si lasciavano condizionare da questa mia “fama”. La delusione più cocente me la diede Gianni Boncompagni, un amico per l’appunto. Una volta fui ospite a DISCORING, lui era il regista. Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out. Chiesi ai responsabili della mia casa discografica di allora, di intervenire. Se ne guardarono bene, giustificandosi col fatto di dovere mantenere buoni rapporti con la Rai». Il fardello si fece via via sempre più pesante. «Finché ero una cantante di successo», racconta Mia Martini, «mi sembrava soltanto un gioco fastidioso. Ci scherzavo su. Se capitavo in un casinò e c’era qualcuno che mi stava antipatico, mi mettevo dietro a lui per farlo innervosire. Così vince il tuo avversario, gli dicevo. Poi la cosa divenne sempre più seria». Fatalità? Complotto? «Forse tutte e due», risponde Mia Martini. «Ho riflettuto a lungo su queste vicende e sono arrivata alla conclusione che fatalmente ci fu un complotto». Ma non basta. Anche la vita si accanì con Mia Martini. Il rapporto quasi decennale con il cantautore Ivano Fossati andò in pezzi. La rescissione del contratto con la Ricordi le costò 200 milioni. E ancora pettegolezzi, ancora polemiche. Mia Martini non resse. Sei anni fa il ritiro dalle scena. Pur essendo considerata una delle migliori interpreti della musica leggera italiana, con alle spalle successi come “Piccolo uomo” e riconoscimenti internazionali, la sorella di Loredana Berté si trasferì in campagna, a Calvi dell’Umbria dove vive tutt’oggi. Cosa l’ha spinta, adesso a rituffarsi nella mischia? «E’ cambiato il mondo della canzone e sono cambiata anch’io», spiega. «Oggi tutto è più veloce ha il ritmo di uno spot pubblicitario. Spero che non ci sia più tempo per certe bassezze. Poi mi ero stancata di cantare per pochi amici. E Sanremo era il palcoscenico ideale per dire sono tornata». Un nuovo album quasi pronto titolo “Martini Mia”, canzoni scritte per lei da Dario Baldan Bembo, Enzo Gragnaniello, Maurizio Fabrizio. Una composta da lei stessa con un titolo più che allusivo “Spegni la testa”, Una nuova casa discografica, la Fonit Cetra. E ancora la sigla della serie “Amori”, fra poco in onda su Canale 5. Mia Martini ricomincia sul serio. Qualche timore? «Ho adoperato questi anni per crescere», commenta serena la cantante «spero che gli altri abbiano fatto altrettanto». Sopra Mia Martini oggi. In alto come era nel 1975 a 27 anni. La cantante che è la sorella di Loredana Berté, è stata a lungo perseguitata dalla fama di jettatrice una diceria che l’ha costretta a interrompere la carriera per sei anni. E’ tornata alla ribalta a Sanremo con la canzone “Almeno tu nell’Universo”.

Chiambretti intercetta l’auricolare di Ambra e sente la voce di Boncompagni, scrive il 16/04/2017 "La Stampa”. Una delle leggende più celebri della televisione italiana è senza dubbio quella dell’auricolare che Ambra Angiolini indossava durante la conduzione del programma di Canale 5 Non è la Rai. Il mito vuole che l’autore Gianni Boncompagni utilizzasse un collegamento radio per suggerire ogni parola ad Ambra, così un giovane Piero Chiambretti ha provato a svelare l’arcano.

“Le dicevo cose tremende”: Boncompagni e Ambra, gli auricolari che fecero la storia. Era l’inizio degli anni 90 quando Gianni Boncompagni decise di mettere al timone di Non è la Rai una giovanissima Ambra Angiolini, preferendola a Paolo Bonolis. Il legame tra i due scorreva sul filo invisibile di un paio di auricolari, che hanno poi fatto la storia della tv, scrive il 17 aprile 2017 Eleonora D'Amore su "Fanpage". Nel 2015, in occasione della messa in onda della prima puntata della fiction "1992" di Stefano Accorsi (nella quale viene più volte citato), il Fatto Quotidiano ha intervistato Gianni Boncompagni, storico autore e regista di "Non è la Rai". A poche ore dalla sua morte, è impossibile non fare un tuffo nel passando, ripercorrendo gli albori di quella tv teen, che in poco tempo divenne il punto di riferimento di milioni di adolescenti. È vero che c'era un'emulazione pazzesca. Le ragazze erano tutte vestite uguali, e naturalmente gli sponsor facevano a gara per darci i vestiti. Però nessuna ragazzina poteva dire una cosa del genere, manco sapevano cosa volesse dire lo spirito critico. E non avevano nemmeno sensi di colpa: si divertivano e basta. E fu proprio negli studi del Palatino in Roma che nacque il mito dell'auricolare. Di fatto, Boncompagni decise di affidare l'intero programma ad una giovanissima Ambra Angiolini, alla quale si legò indissolubilmente tramite un paio di auricolari. La leggenda della prima conduzione a distanza prese vita a poco a poco, sebbene entrambi smentissero ciclicamente. Poi l'ammissione. Ed è così che il noto regista ne spiegò la genesi, appena due anni fa: "Non ricordo bene come andò. Ricordo solo che da Mediaset all'inizio mi ammollarono Bonolis che aveva già il contratto, ma io lo detestavo allora come lo detesto oggi. Non gli feci fare niente e dopo un anno misi Ambra al posto suo, con gli auricolari. Tutti credevano che io suggerissi le battute, invece le dicevo delle cose tremende, irriferibili, e lei doveva fare finta di nulla". Già allora, però, fu verificabile quanto le parole di Boncompagni non fossero solo un elemento di disturbo per la ‘radiocomandata' Ambra. Piero Chiambretti si prese la briga di intercettarli, dimostrando quanto il collegamento continuo contaminasse al conduzione stessa.

Barbara Carfagna shock: "Isabella Ferrari in Rai a 16 anni perchè amante di Boncompagni. Giovedì 20 Aprile 2017. Barbara Carfagna, volto del Tg1, al veleno su Facebook contro Isabella Ferrari e Marco Travaglio, con un lungo e polemico post su Gianni Boncompagni, che fa il paragone con la vicenda delle famose "cene eleganti" di Berlusconi e al caso Ruby. Coinvolta anche Claudia Gerini. Così inizia la Carfagna: "Quanto cambia chi è la persona che lo compie nel racconto di un comportamento? Tutti amavamo e piangiamo la morte di Boncompagni. Io me lo ricordo a qualche festa da D'Agostino in cui si parlava di Berlusconi. Anche lui aveva avuto amanti minorenni e le aveva piazzate con successo, anche nella TV di Stato". "Una di queste amate e piazzate in Rai a 16 anni, era lei. Isabella Ferrari. Qui Insieme a uno dei più grandi accusatori di Berlusconi per le vicende Ruby e Noemi. Però Boncompagni lo abbiamo sempre visto tutti solo come un creativo Pigmalione. Lei e la Gerini come due miracolate per averlo avuto accanto, brave belle e intelligenti; una oggi pure sofisticata intellettuale, in Teatro con Travaglio".  Per la Carfagna quello di Boncompagni è stato, in chiusura: "un comportamento oggi condannato, ma negli anni '80 accolto e finanziato pure con i soldi pubblici". 

Barbara Carfagna: Isabella Ferrari in Rai a 16 anni? Era amante di Boncompagni. Barbara Carfagna: da Isabella Ferrari al botta-risposta con Marco Travaglio, scrive "Affari italiani" il 21 aprile 2017. "Quanto cambia chi è la persona che lo compie nel racconto di un comportamento? Tutti amavamo e piangiamo la morte di Boncompagni. Io me lo ricordo a qualche festa da D'Agostino in cui si parlava di Berlusconi. Anche lui aveva avuto amanti minorenni e le aveva piazzate con successo, anche nella TV di Stato. C'era anche Freccero che chiosava: "la vita è come il film 'La Società degli uomini'". E, come spesso accade, aveva ragione. Una di queste amate e piazzate in Rai a 16 anni, era lei. Isabella Ferrari. Qui Insieme a uno dei più grandi accusatori di Berlusconi per le vicende Ruby e Noemi. Però Boncompagni lo abbiamo sempre visto tutti solo come un creativo Pigmalione. Lei e la Gerini come due miracolate per averlo avuto accanto, brave belle e intelligenti; una oggi pure sofisticata intellettuale, in Teatro con Travaglio. Una parte la fecero fare pure a lui, Bonco sul palco con Ingroia Ruotolo e Di Pietro. Perché alla fine questo è stato l'esito di un comportamento oggi condannato, ma negli anni '80 accolto e finanziato pure con i soldi pubblici. Lui vedeva chiaramente questi paradossi, anzi li sottolineava in interviste ficcanti e ne rideva".

"Vedo che una valorosa "collega" della Rai ha approfittato della morte di Bonco per farsi un po' di pubblicità gratuita, nel solco della lunga tradizione esibizionistica della mosca cocchiera che salta sul carro funebre credendo di guidarlo, quella per cui ai matrimoni c'è sempre qualcuno che vuol essere la sposa e ai funerali qualcuno che vuol essere il morto", scrive Marco Travaglio a Dagospia. "Ricordo alla "collega" smemorata e male informata che le polemiche (almeno le mie) e il processo a Berlusconi per le sue frequentazioni con minorenni non hanno mai riguardato il suo sacrosanto diritto di fare quel che gli pareva nella sua vita privata: ma (per le polemiche) la sua possibile ricattabilità di uomo di governo e di Stato e (per i processi) l'accusa - poi caduta - di avere indotto una minorenne a prostituirsi, cioè a fare sesso a pagamento (reato che il suo stesso governo aveva deciso di punire con pene più severe di prima)".

"Ho già detto di essere d'accordo con Travaglio sui differenti ruoli tra Berlusconi e Boncompagni, infatti la considerazione nel mio post (che, ricordo, non è mia ma dello stesso Boncompagni a una festa) era sul paradosso, per lui, di trovarsi sul palco con gli accusatori di Berlusconi per la frequentazione di 16/17enni e per aver dato inizio alla tv delle veline (il libro Papi di Travaglio -come sottolineato da Facci- precede il caso Ruby); innovazione sociale a cui non negava di aver partecipato attivamente e nelle cui varie evoluzioni, anni dopo Non è la Rai, era finito per un breve periodo indagato insieme a Sabani (poi prosciolto prima del processo ma mai riabilitato: morì isolato tra mille sofferenze morali, aiutato solo da Maurizio Costanzo e dal suo avvocato Antonio De Vita). Vicenda giudiziaria che seguii raccogliendo anche gli sfoghi di Sabani, abbandonato da tutta la comunità dello spettacolo e privato del consenso del pubblico, che lo additava anche dopo il proscioglimento. Da parte mia, figuriamoci, nessun giudizio. Ho avuto una vita piena, libera e amo chi fa altrettanto. Non so neanche se a 16/17 anni i giovani debbano essere considerati come bambini di 8. Per quanto riguarda la Volpe e l'Uva, se l'Uva è "Non è la Rai" nel post precedente quello che cita Travaglio raccontavo di aver passato direttamente le selezioni senza averle fatte (cantavo nel coro di Nora Orlandi e serviva una ragazza dai capelli rossi). Non mi presentai e scelsi un esame universitario. Così come non colsi altre opportunità di ventenne forse più allettanti nel settore dello spettacolo e della moda. Come dico nel post, precedente la polemica, non credo per questo di essere migliore né di aver fatto le scelte giuste. Anzi, rifletto che oggi si potrebbe fare tutto senza il rigore forse eccessivo di un tempo. Le consiglierei, per correttezza, di aprire ai commenti la sua bacheca quando accusa qualcuno senza conoscerne la storia. Preciso per il Corriere che non sono entrata al tg1 nel 2004 (il 2008 fu l'anno dell'assunzione definitiva voluta da Mimun ma giunta con Riotta dopo 12 anni di precariato) ma nel 1998 sotto la direzione di Giulio Borrelli e dal 1995 in Rai dopo varie collaborazioni come cantante nei cori di Nora Orlandi e violinista. Il mio non era un attacco, tantomeno alla Ferrari che, da donna intelligente, mai ha negato l'apporto di un uomo così creativo e anticonformista incontrato nella prima parte della sua vita.

Le (giovani) amanti di Boncompagni favorite in tv, Claudia Gerini replica: «Nessuno mi ha mai piazzata». L’attrice risponde all’attacco della giornalista del Tg1 Barbara Carfagna che aveva definito lei e Isabella Ferrari «miracolate» per averlo avuto accanto: «Parole superficiali e parallelismo illogico con Berlusconi, io non ho mai ricevuto bonifici», scrive Chiara Maffioletti il 21 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Claudia Gerini nemmeno sapeva di essere stata chiamata in causa dal volto del Tg1 Barbara Carfagna. Ma, dopo aver letto quanto scritto dalla giornalista (che ha definito «miracolate» lei e Isabella Ferrari per aver avuto accanto il regista e autore tv), assicura: «Non mi sento toccata per niente da queste parole. In primo luogo perché non sono vere. Mi pare una riflessione molto superficiale oltre che un parallelismo che non ha senso». Il riferimento è a Berlusconi, dal momento che la giornalista nel suo post ha scritto: «Quanto cambia chi è la persona che lo compie nel racconto di un comportamento? Tutti amavamo e piangiamo la morte di Boncompagni. Io me lo ricordo a qualche festa da D’Agostino in cui si parlava di Berlusconi. Anche lui aveva avuto amanti minorenni e le aveva piazzate con successo, anche nella Tv di Stato».

Ma l’attrice, con grande serenità, commenta: «Sono due vicende che non hanno niente a che vedere. E’ vero che Gianni ha avuto compagne anche molto più giovani, ma non si è mai trattato di prostituzione o altro. Io non sono stata piazzata da nessuna parte e quello che ho ottenuto l’ho ottenuto con le mie forze. Non ho mai dovuto fare nessuna parcella perché stessi zitta, non ho mai ricevuto bonifici. Mi pare davvero un paragone senza nessun senso».

Botta e risposta al veleno tra la Lucarelli e la Mosetti: "Hai fatto carriera grazie ai festini". Una battuta di Selvaggia Lucarelli ha scatenato una vera e propria "guerra" a colpi di social con Antonella Mosetti. Le due, dopo essersi accusate a vicenda, hanno chiesto l'intervento dei loro legali, scrive Anna Rossi, Venerdì 21/04/2017 su "Il Giornale". Si sa che tra Selvaggia Lucarelli e Antonella Mosetti non è mai stato tutto rose e fiori, ora un post della giornalista ha riaperto la faida tra le due. Tutto è iniziato ieri, quando a quattro giorni dalla morte di Gianni Boncompagni, Selvaggia Lucarelli ha scritto sul suo profilo Facebook una battuta provocatoria: "Tutti a dire 'Che bravo Boncompagni' (ed era bravo), ma ricordatevi che la Mosetti è colpa sua". Nel messaggio la blogger alludeva chiaramente alla partecipazione di Antonella a Non è la Rai. Il messaggio e l'ironica allusione non è passata inosservata e immediatamente ha scatenato la reazione della Mosetti. "Na sfigata senza uguali... falla sparlare, solo quello sa fare", ha risposto indispettita Antonella. Ma le offese non si sono fermate e tra i commenti, la Mosetti si lascia scappare "invece la nullità (riferita alla giornalista, ndr) è il prodotto delle raccomandazioni politiche e non solo". Ma a questa sottile insinuazione Selvaggia Lucarelli non ci sta e parte il botta e risposta al veleno. "Mortacci oh, tutte 'ste raccomandazioni e solo il giudice a Ballando? Manco la giuria di qualità a Sanremo al posto di Greta Menchi? E che cazzo". E ancora la Mosetti risponde: "Mi ha vista a Matrix e ha rosicato. Aspetto di trovarmela davanti, sto leone da tastiera. I festini la Lucarelli li ha sempre fatti in privato e lo sanno in molti nel settore spettacolo. Io brutto cesso, i festini non li ho mai fatti altrimenti a quest'ora sarei stata da altre parti, tipo le tue. Ci vediamo presto e ai tuoi sostenitori di immondizia, ci penseranno i miei legali". E poi, riferendosi al suo amico-imprenditore Daniele Pulcini (coinvolto nello scandalo Mafia Capitale, ndr) e ai presunti festini, la Mosetti rincara la dose: "Aggiungo cara cessone Lucarelli che te e la tua amica avete fatto di tutto per mettermi in cattiva luce ma non ci siete riuscite proprio perché non sono una che fa schifezze a differenza vostra e l'essere amica da 20 anni di una persona che passa un momento molto difficile, mi fa solo che onore e non solo a me ma a tutti i suoi storici amici. Sono una delle poche che non ha nulla da nascondere anzi... Mi dispiace per voi ma è solo amicizia. Baci cari e di cuore vero. A presto". La discussione tra le due è ancora molto lunga, tra offese, rimpalli di colpa, insinuazioni e interventi di avvocati le due donne se ne sono dette di cotte di crude sui social. Il tutto davanti a centinaia di utenti che tenevano le parti un po' di una e un po' dell'altra.

E POI C’E’ ALDO BISCARDI.

È morto Aldo Biscardi, l’inventore del “Processo del lunedì”, scrive l'8 ottobre 2017 "Il Dubbio". Aldo Biscardi avrebbe compiuto 87 anni il prossimo novembre. Fu caporedattore di Paese Sera prima della Rai, dove nel 1980, lanciò la famosa trasmissione. È morto questa mattina a Roma Aldo Biscardi, giornalista e conduttore televisivo noto per l’ideazione e la conduzione del programma televisivo «Il processo del Lunedì». Nato a Larino (Campobasso), Biscardi avrebbe compiuto 87 anni tra poco più di un mese. Era ricoverato da qualche settimana al Policlinico Gemelli, assistito dai figli, Antonella e Maurizio. Da tempo aveva lasciato il video, dove aveva debuttato nel 1979, alla Rai. È del 1980 l’ideazione del programma «Il processo del lunedì», primo talk show sul mondo del pallone di cui divenne anche conduttore nel 1983, moltiplicandone il successo. Nella sua trasmissione record, 33 edizioni consecutive con lo stesso conduttore, iniziò una battaglia per la moviola in campo e proprio quest’anno nel campionato italiano è stato introdotto il Var. Aldo Biscardi, dopo la laurea in giurisprudenza all’Università Federico II di Napoli con Giovanni Leone, fu collaboratore del Mattino e giornalista di Paese Sera, dove divenne caporedattore succedendo ad Antonio Ghirelli nella direzione delle pagine sportive. Da caporedattore, entrò in Rai nel 1979 raggiungendo la carica di vicedirettore del TG3. Nel 1980 lanciò, su Rai 3, Il Processo del Lunedì. Famoso una polemica in diretta con Silvio Berlusconi, che intervenne in collegamento telefonico per protestare contro il modo di presentare notizie che lo riguardavano, nel 1993 Biscardi lasciò la Rai per Tele+, di cui fu direttore responsabile fino al 1996. Biscardi propose la stessa formula della sua nota trasmissione, ma cambiandone il nome, che divenne “Il processo di Biscardi”. Nel 1996 Biscardi trasferì Il processo su Telemontecarlo, che nel 2001 si trasformò in LA7. Nel 2005 Biscardi fu direttore della testata giornalistica sportiva di LA7 e direttore del canale sportivo La7 Sport. Fu coinvolto nello scandalo di calciopoli in seguito ad alcune intercettazioni di telefonate tra lui e Luciano Moggi, all’epoca dg della Juventus e principale inquisito nel processo, nel maggio 2006 lasciò LA7 passando su 7 Gold prima, su T9 e su Sport 1 poi. Biscardi fu sospeso per sei mesi da parte dell’Ordine dei Giornalisti e lui, in polemica con l’Ordine, decise di non confermare più la sua iscrizione all’Albo.

Calciopoli. Damascelli sospeso dall'Odg della Lombardia, scrive Martedì 10 ottobre 2006 "Affari Italiani". E quattro. Tony Damascelli si aggiunge a Lamberto Sposini, Franco Melli e Aldo Biscardi nella poco gratificante lista degli amici di Luciano Moggi. Una cerchia che fin qui ha riservato più dolori che gioie alle prestigiose firme del giornalismo italiano. Il dolore in questione significa la sospensione dall'ordine di appartenenza, Roma per Sposini, Melli e Biscardi, Milano per Damascelli. Proprio nella seduta di ieri il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha deciso di sospendere per 4 mesi il professionista Damascelli per il capitolo "Il rapporto di Moggi con Tony Damascelli" nel "Libro nero del calcio" (989 pagine di intercettazioni relative allo scandalo calcio) pubblicato da L'Espresso dopo il rapporto del 19 aprile 2005 della II sezione del Nucleo operativo del Comando provinciale Carabinieri di Roma. "Le risultanze acquisite - come recita la nota dell'Ordine -  hanno messo in luce un particolare rapporto di amicizia esistente tra Damascelli e Moggi come affiora dalle conversazioni tra i due intercettate dai militari dell'Arma Benemerita". La vicenda Damascelli ci permette così di fare il punto della situazione sugli altri opinionisti di Rai, Mediaset e emittenze private. Un focus sugli sviluppi del dopo Calciopoli. In Rai - dopo l'esperienza mondiale di Giuseppe Signori commentatore per "Notti Mondiali" - la Nazionale (così come in Germania d'altra parte) è seguita da Marco Civoli e Sandro Mazzola. Niente più Mazzocchi (conduttore della Domenica Sportiva, al suo posto c’è Jacopo Volpi) passato - sempre su Rai 2 - a un ruolo di inviato nel reality di Alba Parietti.

È morto Aldo Biscardi, l’inventore de «Il processo del Lunedì». Il conduttore televisivo noto per il programma di commento alle partite del weekend si è spento questa mattina. Avrebbe compiuto 87 anni tra un mese. Domani i funerali, scrive l'8 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera". Un appuntamento fisso del lunedì per oltre trent’anni. Una trasmissione dove si analizzavano e commentavano i risultati sportivi del weekend: i momenti più belli, i gol, falli, i rigori. Lui ne è stato l’ideatore e il conduttore per un decennio. Aldo Biscardi è morto questa mattina a Roma. Era ricoverato da qualche settimana al Policlinico Gemelli. Il giornalista, nato a Larino (in provincia di Campobasso) avrebbe compiuto 87 anni tra poco più di un mese. A darne la notizia è stata la famiglia. I funerali domani a Roma, nella chiesa di San Pio X. Biscardi si spegne nell’anno dell’introduzione della Var. Lui, che della moviola in campo è sempre stato un grande sostenitore. La invocava da oltre trent’anni e ne è diventato in qualche modo il paladino. Sosteneva fosse uno strumento necessario per aiutare gli arbitri e all’interno del suo programma c’era sempre uno spazio riservato alla «moviola», per rivedere gli episodi dubbi e contestati. Aveva anche fatto una petizione online su change.org, raccogliendo quasi 10mila firme.

La carriera. Nato il 26 novembre 1930, è appassionato di sport — a 360 gradi — sin da giovanissimo. Sogna di poterne fare la sua professione e si trasferisce a Napoli. La sua lunga carriera inizia al quotidiano napoletano «Il Mattino». Poi, nel 1965, arriva nella redazione di «Paese Sera», dove diventa caporedattore. Ma il suo grande progetto lo realizza più tardi, alla Rai. Vuole creare un programma che sia contenitore di discussione e commento sulle partite di campionato di Serie A. Una continuazione degli appuntamenti sportivi del weekend. Ed ecco che, nel 1980 nasce su Rai3 «Il processo del Lunedì», che conduce lo stesso Biscardi dal 1983 al 1993. Le edizioni continuano fino al 2016, anche se con diversi momenti di pausa. Ma lui intanto passa a Tele+, dove ripropone la trasmissione con un nuovo nome, «Il processo di Biscardi». Stessa formula, stesso frontman: il giornalista lo conduce dal 1993 al 2016 (dal 1996 su TMC e poi dal 2003 su La7). «Con la puntata di ieri sera del Processo ed il clamoroso risultato di ascolto che è stato raggiunto del 6,50 % di share, tra i più alti mai totalizzati dall’emittente, si è conclusa trionfalmente la mia stagione televisiva e, con essa il mio rapporto di collaborazione con La 7». Così Biscardi dice addio al canale nel 2006, dopo lo scandalo di Calciopoli in cui il giornalista viene coinvolto. È accusato di aver ricevuto pressioni dal direttore generale della Juventus, Luciano Moggi. I commenti alle partite continuano su emittenti più piccole e locali. L’ultima edizione, quella del 2017, è condotta da Giorgia Palmas su 7Gold.

I ricordi. «Un giornalista che ha segnato un’epoca. Ero molto affezionato a lui». Così ricorda Aldo Biscardi il nipote, l’avvocato Giuseppe Biscardi. «Ero andato a trovarlo recentemente, non stava molto bene, sono contento di averlo rivisto». Poi, alcuni ricordi del passato. «Quando poteva, andava a Larino, dove le gente lo fermava per strada per parlare di calcio. Qualche volta ha seguito le partite del Campobasso, ai tempi della serie B e spesso lo accompagnavo allo stadio. Sono molto addolorato, al di là del rapporto di parentela che ci legava». Anche le squadre stanno ricordando il conduttore che ha inventato il calcio «parlato». Dal Milan, che su Twitter scrive «Condoglianze sincere alla famiglia. Grande rispetto per un grande giornalista», alla Fiorentina fino al Palermo, che gli dedica una nota sul sito ufficiale. La Rai pubblica una nota — «Con Aldo Biscardi scompare oggi un grande giornalista, ideatore e conduttore di trasmissioni sportive che hanno cambiato il modo di raccontare il calcio in tv» — e anche il sindaco di Larino, il Paese dove è nato, esprime le sue condoglianze: «Sono sinceramente colpito e profondamente toccato per la scomparsa del nostro concittadino — ha detto Vincenzo Notarangelo — maestro di giornalismo e di vita. Caro Aldo, ricorderemo sempre la tua competenza, la tua professionalità, ma soprattutto l'amore incondizionato per Larino. Da oggi questa comunità è un po' più sola».

Morto Aldo Biscardi, inventore del "Processo del Lunedì". Rivoluzionò i programmi tv sul calcio. Il popolare giornalista, originario di Larino, avrebbe compiuto 87 anni a novembre. Aveva cominciato la carriera al Mattino, poi sbarcò alla Rai dove inventò la sua trasmissione cult, scrive l'8 ottobre 2017 "La Repubblica". E' morto stamane a Roma Aldo Biscardi, giornalista e conduttore televisivo noto per l'ideazione e la conduzione del programma televisivo "Il processo del Lunedì". Ne dà notizia la famiglia all'Ansa. Nato a Larino, in provincia di Campobasso, Biscardi avrebbe compiuto 87 anni tra poco più di un mese. Il 'Processo del Lunedì', lanciato nel 1980, è stata una delle trasmissioni calcistiche più popolari della televisione italiana, una formula inedita che ebbe un successo straordinario puntando sull'uso processuale della moviola. Biscardi ne assunse anche la conduzione dal 1983, sostituendo al timone Marino Bartoletti. "Con Aldo Biscardi scompare oggi un grande giornalista - si legge in una nota dell'ufficio stampa della Rai -, ideatore e conduttore di trasmissioni sportive che hanno cambiato il modo di raccontare il calcio in tv. La Rai esprime la propria vicinanza alla famiglia di Biscardi ricordandone la carriera e i successi, dall'esordio in video nel 1979, al "Processo del lunedì", al ritorno, in tempi più recenti, come ospite nei programmi sportivi e di informazione". Nel corso degli anni il programma cambiò fino a trasformarsi alla fine in una sorta di show (divenne 'Il processo di Biscardi') dove i commentatori diventavano spesso personaggi e quasi macchiette. La lenta metamorfosi del programma portò negli anni a un aumento esponenziale dei toni delle polemiche in studio, che contribuì alla fine del rapporto con la Rai. Nel 1993, con uno strascico legale di liti sulla titolarità dei diritti sul programma, Biscardi cambiò rete, passando a Tele+ e poi a Telemontecarlo e La7 Gold. Aldo Biscardi aveva iniziato la carriera di giornalista al Mattino e lavorò anche per Radio Montecarlo, ma il suo nome resta legato alla trasmissione lanciata sulla Rai, che in qualche modo rivoluzionò il modo di parlare di calcio in televisione. Dopo i vari passaggi di rete, al declino finale della credibilità del programma contribuirono le rivelazioni uscite dall'inchiesta su Calciopoli sui condizionamenti subìti dal conduttore da parte di Luciano Moggi. Nel 2015 Biscardi aveva lasciato la sua creatura - un programma da record di longevità, 33 anni di fila con lo stesso conduttore - ai figli, che hanno ereditato il marchio. Biscardi viene a mancare nell'anno dell'esordio nel campionato di serie A del Var, quella moviola in campo che lui aveva sempre sostenuto come sistema necessario per aiutare gli arbitri. I funerali del giornalista si terranno a Roma domani, lunedì, alle ore 15, nella Chiesa di San Pio X nel quartiere Balduina. Nella stessa chiesa sarà aperta dalle 12 la camera ardente.

È morto Aldo Biscardi, inventò un modo di far tv: il "biscardismo", scrive Antonio Dipollina l'8 ottobre 2017 su "La Repubblica". Aveva 86 anni. Nella sua lunga carriera ha creato una format, Il Processo, che gli sopravvive. Ha visto la vittoria di una delle sue battaglie, la moviola in campo. Non sono molti quelli che possono raccontare di aver inventato un genere tv incancellabile. Aldo Biscardi, morto oggi a Roma a 86 anni, poteva. Il calcio parlato in tv per come lo conosciamo, in centinaia di trasmissioni, lo ha inventato lui ed era il 1980. Quando tre anni dopo prese direttamente in mano la conduzione del Processo impose anche la maschera di se stesso, caotico, disattento&felice nell'esposizione in lingua italiana, la dizione irripetibile, la voglia mostruosa di giocare al calcio parlato, appunto. Il Processo, in quel decennio, fu clamoroso, forse il momento più importante di tutta la settimana calcistica, partite comprese: aveva gli ospiti top, collaboratori fissi da leggenda (Gianni Brera, per dire), più personaggi pittoreschi e che davano linfa assoluta al programma – Costantino Rozzi, per esempio – ma poi passava anche Giulio Andreotti e decideva in trasmissione i destini futuri di Falcao. Biscardi intanto lanciava alla grandissima il suo personaggio, in pratica assimilava le decine di imitazioni di cui era vittima e se ne rafforzava, finché un giorno girò quello spot del corso di lingua inglese (“Denghiù”) parodiando se stesso e in parecchi iniziarono a dargli del genio. E da lì a un passo, la trasformazione in categoria, il biscardismo, la biscardata, a forza di sguub e di “eccipuo” (copyright Michele Serra, ma chi può escludere che il rosso l’abbia detto davvero per primo?). Dentro un’aneddotica sterminata, una sorta di Blob vivente di se stesso, Biscardi è stato per decenni l’autobiografia visibile del calcio italiano e dei suoi tifosi. Con tecniche televisive da urlo (magari gli scappò e fu un infortunio, ma cosa c’era di più perfetto del suo “Non parlate tutti insieme, massimo due o tre per volta”?), tutto rigorosamente live e in qualche modo sorvegliato passo dopo passo. Dovette cedere solo quella volta, era il 2000, in cui il terzo giorno gli arbitri si arrabbiarono davvero e decisero una denuncia pesante, lui si presentò col suo avvocato e tentando di farlo alla chetichella piazzò una memoria difensiva il cui succo era “Guardate che qui in trasmissione non facciamo sul serio, è uno show tutto inventato per divertire e quindi non c’è niente di penalmente rilevante”. Fino alla fine, oggettiva, di tutto che coincise con Calciopoli e alcune intercettazioni in cui dava corda, sempre alla sua maniera, a Luciano Moggi che dispensava consigli stringenti sul programma e sulla moviola. Da lì un declino fatto di peregrinazioni per piccole tv private con l’obiettivo di salvare il marchio Processo di Biscardi (va ancora in onda, si chiama così e lo curano i suoi figli) e con la battaglia a testa bassa sulla moviola in campo come centro di gravità permanente. Se n'è andato con la moviola effettivamente in campo, ha fatto in tempo a definire il Var “Un inno alla democrazia” e non c’è sintesi migliore di tutto quanto.

Morto Aldo Biscardi, il suo Processo un rito diventato storia. Il programma che lo ha reso famoso, un'evoluzione populista della Domenica Sportiva, portò nelle case degli italiani volti che divennero popolarissimi, scrive Fabrizio Bocca l'8 ottobre 2017 su "La Repubblica". Se esiste qualcosa, un posto nell'immaginario che possa essere una via di mezzo tra una santa messa e una corrida, ebbene quello è il posto del "Processo del Lunedì", il più grande e strabiliante rito che la tv del calcio abbia mai inventato. In una tv seriosa in cui tutto deve essere equilibrato e controbilanciato, in cui non si può pestare i piedi a nessuno, in cui i grandi club - dalla Juve al Milan all'Inter - vanno solo che ossequiati e anche un po' leccati, Aldo Biscardi porta in tv una ribellione abbastanza sbracata, la pulsazione della pancia, la passione tifosa. Un meccanismo comunque efficacissimo e strabiliante, se negli anni 80 vuoi sapere qual è il polso e la febbre del pallone sulla seconda serata di Rai 3 ti devi sintonizzare. Di conseguenza finisce in tv, direi in scena, tutto ciò che è "anti". E quindi la Roma di Falcao e il Napoli di Maradona come contrapposizione al potere consolidato. Nord contro Sud, Roma contro Juve, Napoli contro Milan e così via. Il calcio "anti qualcosa" nasce e prospera proprio sulla Rai 3 dell'inizio degli anni 80, dove Aldo Biscardi, ex firma di Paese Sera, che viene quindi dalla sinistra - sulla rete creativa e innovativa di Angelo Guglielmi - mette in scena questa Corrida. Che praticamente altro non è che un'evoluzione populista della Domenica Sportiva, la Santa Messa del giorno prima. Il Processo è provocatorio per principio, organizzato inizialmente con un'accusa e una difesa, fino a perdere poi nel tempo questa caratteristica procedurale e penale e accentuare sempre di più quella ring da wrestling. La cosa stupefacente è che tutto il calcio si sottoponeva ben volentieri a queste due ore di rissa tv. Era l'esatto opposto di oggi, forse perché Falcao o Platini sapevano benissimo che la tv avrebbe dato la vera e grande svolta alla loro carriera. Il primo a capirlo fu ovviamente Silvio Berlusconi le cui comparsate al Processo erano immancabili, proprio perché questo accresceva la popolarità e soprattutto il consenso.

Al Processo di Biscardi sono passate la Juve di Platini, la Roma di Falcao, il Milan di Sacchi, il Napoli di Maradona. Loro, proprio loro fisicamente, impensabile oggi. Biscardi era un gran cerimoniere capace di catalizzare il calcio e anche il giornalismo italiano. Gianni Brera, pur non convintissimo, si fece attrarre da quel circo. Anche perché la polemica era sempre stato il suo pane, e non voleva lasciarne l'esclusiva ad altri. E poi Brera era consapevole che comunque quella tv e quel tipo di trasmissione erano ormai delle "forche caudine" da cui dovevi passare. Biscardi aveva creato un circo mediatico che ben presto portò nelle case degli italiani volti che divennero popolarissimi: Mosca, De Cesari, Cazzaniga, Pacileo, Ameri, Bartoletti. Sono loro che animano la scena teatrale, la contrapposizione animosa spesso sincera, ma qualche volta anche eccitata e montata dallo stesso Biscardi. Maurizio Mosca, quello dei pronostici col pendolino e del berretto e della toga da magistrato, addirittura lo tradì per inventarsi "L'Appello del Martedì" su Canale 5. In certe occasioni, e non solo in Rai - il "Processo del Lunedì" evoluto in "Processo di Biscardi" è durato 33 anni - ha decisamente esagerato. E la ricerca dello "sgub" ossessionante, se non imbarazzante. Luciano Moggi fu una presenza decisamente troppo ingombrante e negativa ai tempi di Calciopoli. Fino a nuocergli notevolmente. Padre del talk show sportivo, teorizzatore della polemica a tutti i costi, gran divoratore di arbitri, il "Gol di Turone" con lui divenne la terza guerra mondiale. La battaglia della moviola in campo, il famoso Telebim (praticamente una moviola al 200%) l'obbiettivo di una vita professionale. Oggi, solo oggi è diventato realtà. Al Processo del Lunedì passavano tutti da Falcao a Krol, da Boniek, a Prohaska ma anche Bearzot, Maradona, Zico. Quando la Roma vinse lo scudetto Biscardi aveva in studio Viola, Falcao e Andreotti seduti uno accanto all'altro. Lo juventino e adoratore di Platini Mughini con i suoi occhiali colorati e il suo "aborro!" diventerà personaggio popolarissimo, il romanista e adoratore di Falcao Carmelo Bene inveirà al Processo contro tutto e tutti. Ci sono passati talmente tutti, che Biscardi - unico al mondo - può vantare interventi persino del Presidente Pertini e di Papa Woytila. Molti si rifiutavano snobisticamente di partecipare al Processo del Lunedi, ma nessuno si poteva permettere di non vederlo. Il Tifone, popolarissimo settimanale satirico romano, inventò addirittura una rubrica su di lui. Se volevi essere qualcuno, se ne calcio volevi scalare rapidamente posizioni senza essere aristocratico, Biscardi ti forniva uno straordinario trampolino di lancio. Tutti potevano o dovevano passare dalle "Forche Caudine". Aldo Biscardi, come Fred Buongusto e Antonio Di Pietro, veniva da Campobasso, e portò sempre l'inflessione molisana nella sua parlata. Fino a farne un timbro riconosciuto, unico. "Sgub" e "Denghiu" sono diventati lessico comune. "Mi raccomando, parlate solo due o tre alla volta!" mette ormai parecchia tenerezza. E anche un sacco di nostalgia.

Aldo Biscardi, quella battaglia per Roby Baggio che proprio non vinse, scrive l'8 ottobre 2017 Simone Vacatello per Crampi Sportivi su "Il Fatto Quotidiano". Se ne va Biscardi e i più attenti notano il tempismo con cui il cosmo gli ha prima concesso di assistere alla vittoria della sua battaglia più nota, quella la cui realizzazione sembrava più improbabile: l’introduzione della Var, la benedetta moviola in gambo che riuscì ad assurgere allo status di tormentone principale di una carriera televisiva ultratrentennale. Da un punto di vista squisitamente extra-sportivo, un’altra vittoria che nel bene e nel male gli si può – e gli si deve – riconoscere è la spettacolarizzazione del dibattito sportivo in Tv, al quale ha saputo concedere una dimensione da commedia dell’arte di cui la cronaca era priva. Con canovacci che cambiavano a seconda della polemica settimanale, su cui interpreti da commedia plautesca improvvisavano siparietti che, pur rivelandosi raramente edificanti dal punto di vista del progresso culturale del Paese, si sono saputi confermare, nel tempo, come fin troppo onesta fotografia di un’Italia cialtronesca e vivace, che si prendeva sul serio quando non ce ne sarebbe mai stato motivo, ma sapeva anche sdrammatizzare all’occorrenza quando le questioni si facevano più spinose dal punto di vista dialettico. Un ribaltamento continuo della prospettiva di approfondimento e, di conseguenza, un inno all’intrattenimento fine a sé stesso col pretesto del pallone. Da Biscardi si incontravano Alberto Bevilacqua, Sandro Curzi, Tiziano Crudeli e Carlo Taormina, era una specie di conciliabolo universale del disimpegno, in cui politica, giornalismo e cultura si toglievano la pancera. I risultati erano imprevedibili: memorabile, ad esempio, il menage-a-trois tra Maurizio Mosca, il regista Pasquale Squitieri e Vittorio Sgarbi, in cui l’ultimo gioca il ruolo dello smascheratore di populismi e il secondo si fa beccare in flagrante tuffo retorico carpiato sulla distanza tra gli stipendi dei calciatori e quelli dei poliziotti. Tuttavia, tra una fiera in maschera e l’altra, emergevano spesso tematiche che al giornalista Biscardi stavano seriamente a cuore, come la moviola in campo appunto, che 15 anni fa sembrava solo la più donchisciottesca delle boutade, e la cui attuazione avrebbe paradossalmente nuociuto al suo lavoro, riducendo la possibilità di polemica domenicale. Una battaglia che Biscardi non vinse, però, fu quella a favore della convocazione in Nazionale di Roberto Baggio ai mondiali del 2002. Fare il tifo per Baggio ai Mondiali all’epoca significava davvero valicare il confine tra romanticismo e utopia: il Divin Codino aveva compiuto 35 anni, giocava nel Brescia ed era appena guarito da un infortunio al legamento crociato del ginocchio sinistro.  Era la Nazionale dei Vieri, degli Inzaghi, dei Del Piero e dei Totti, e alla guida c’era Giovanni Trapattoni, uno dei tanti tecnici col pallino del gruppo, del collettivo, con cui lo stesso Baggio, quintessenza della monade istintiva, refrattaria alle rigidità tattiche, faticava a dialogare. Nella genuina campagna mediatica c’era tutto il Biscardi Nazional Popolare, quello in cerca dell’uomo simbolo a cui affidare il ruolo di frontman e idolo sacro, a dispetto dei tempi che cambiano e che usurano le strutture fisiche, e con buona pace delle aspirazioni degli altri protagonisti. Baggio al Mondiale non ci andò, Trapattoni scelse il gruppo, e quell’Italia (forse sulla carta anche più forte di quella che avrebbe vinto nel 2006) fu eliminata in una controversa gara contro la Corea del Sud padrona di casa. Col senno di poi si può dire che all’idolo sacro fu risparmiata una mazzata storica, ma ai posteri rimane l’idea di un romanticismo indefesso, un lusso che ci si può concedere solo quando nella sconfitta si impara qualcosa su di sé che prima non si riusciva ad accettare. L’Italia di quegli anni, a guardarla oggi, faticava ad ammettere quali fossero i propri limiti e soprattutto dove questi limiti l’avrebbero portata. Ma di questo certo non si può incolpare Biscardi, anzi. In fondo, tutto si può dire sul respiro della sua televisione, meno che non fosse pluralista.

Morto Aldo Biscardi: il Processo e la nascita del «calcio parlato», a metà tra genio e trash. Il suo programma consacrò le chiacchiere da bar in uno spazio istituzionale, scrive Aldo Grasso l'8 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". È morto Aldo Biscardi, onore ad Aldo Biscardi. Anche se negli anni ho scritto su di lui giudizi poco lusinghieri, anche se una sua bugia, o cialtronata, mi ha fatto passare momenti poco simpatici. In fondo è anche stato premiato dalla vita: ha fatto in tempo a vedere la svolta tecnologica nel calcio e i primi passi della VAR, lui che della moviola in campo aveva fatto negli ultimi anni un vero e proprio tormentone. Biscardi è Il processo del lunedì,1980. A poco più di un anno dalla sua nascita, Raitre (allora Terza rete), ancora in cerca di una precisa caratterizzazione e di una propria audience, scoprì una dimensione dello sport ancora inesplorata: il “calcio parlato”. Il Processo consacrò in uno spazio istituzionale le polemiche e le discussioni da bar, trasferendole in una fittizia aula di tribunale in cui le diverse parti accusavano, arringavano, difendevano e finivano immancabilmente per litigare, fomentate e manovrate dall’enfasi verbale dell’inappellabile giudice Biscardi. Era nato il trash quando questa parola non era ancora di moda. Protagonisti del dibattito (che in breve tempo abbandonò i toni forensi per quelli più sanguigni della lite da stadio) erano personaggi sportivi, del giornalismo, dello spettacolo, della cultura. Da Carmelo Bene ad Alba Parietti, da giornalisti tromboni a magistrati calciofili. L’importante è durare. Non come, ma quanto. Il Processo del lunedì di Biscardi è durato più trent’anni (Raitre, poi Tele+, poi TMC, poi 7 Gold, più varie tv locali) ed è stato persino celebrato con articoli che, fingendo di prenderne le distanze, hanno finito per sancirne l’ominosa grandezza. In questo senso, Biscardi è stato un eroe del nostro tempo. Anni fa, quando eravamo più giovani e ingenui, eravamo portati a credere che il Processo fosse un modo plebeo e sgangherato di raccontare il calcio. Forse era così, forse. Ma perché ci sia un sopra e un sotto, bisogna davvero che ci sia separatezza, che qualcuno si mostri migliore di un altro. E invece, per molti anni, il Processo è apparso ai più come una trasmissione guida, il solo modo per raccontare il calcio. Nel 2004 è intervenuto anche il tribunale di Roma per sancire la natura vera della trasmissione. Archiviando una querela presentata dall’Associazione Arbitri nei confronti del Processo, il Pubblico Ministero sostenne che nel programma «la credibilità obbiettiva delle notizie riportate e fatte oggetto di dibattito è riconosciuta assai bassa… Ne deriva che la credibilità dell’informazione offerta e la conseguente attitudine di questa ad essere, in ipotesi, idonea a ledere l’altrui reputazione sono oltremodo inconsistenti». Traduzione: siccome si sparano delle fanfaluche è inutile prendersela tanto. Da allora molti programmi sportivi si sono sentiti autorizzati a seguire questo modello. Biscardi è stato molto bravo a inscenare psicodrammi nazionali, un formidabile attore. È stato comunista ma anche grande amico di Berlusconi; è stato moggiano ma anche sodale degli accusatori di Moggi; è stato uno che stenta a capire le cose ma anche uno che ha capito tutto. La sua forza? È stato l’ultimo erede dell’istrione itinerante, il comico dell’arte che recita “a soggetto” lasciando a sé a e a suoi comprimari ampi spazi d’improvvisazione, pur nella fissità di fondo. L’importante è durare, come suggeriva Ennio Flaiano: seguendo le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell'adulazione, impassibili davanti a ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Un vero italiano. E la bugia che mi riguarda? Nel 2003, Biscardi inaugurò una rubrica di critica televisiva: “Il comandante Stopardi” (alla romana: sto par di…). Per darle forza, mise in giro la voce che “un grande critico” redigeva per lui opinioni sui programmi sportivi e perché l’allusione fosse chiara arrivò persino a mostrare un mio libro per un'intera trasmissione o a citare un pezzo scritto per il “Corriere” spacciandolo come una cosa scritta apposta per il Processo. Smentii pubblicamente la notizia e la cosa parve finire lì, in una bolla di sapone. Così non fu. Ai tempi di Calciopoli, in un’intercettazione, Moggi si rivolse in toni perentori a Biscardi perché mi togliesse la rubrica e quello rispose subito di sì. Altra smentita, altra minaccia di querele, ma finire come “intercettato” sui giornali per una notizia inventata (una fake news) non è cosa piacevole. È sempre stato difficile muovere delle critiche a Biscardi, con le buone o con le cattive: il suo genio da finto tonto sapeva sempre volgere a suo favore ogni rimprovero. Ci abbiamo provato con le citazioni colte, con l’ironia, con il fioretto: niente da fare, ha sempre vinto lui. Scrivo da soccombente, scrivo come può scrivere uno che ha detto tutto il male possibile del Processo. Il fatto è che al Processo abbiamo tutti sacrificato qualcosa, sovente la parte di noi che stimiamo temerariamente la più nobile, l'intelligenza. Ho perso, il Processo è più vivo che mai (nel frattempo è trasmigrato in altri programmi) e a me non resta che il privilegio del punto di vista dello sconfitto. Riconosco però che Biscardi è stato l’inventore del calcio parlato. Non importa se a spese della grammatica.

Biscardi e il Processo: cambiò il racconto del calcio fra "sgub" e teatro popolare. Gli studi che "si sovrapponevano", ma anche gli interventi di Andreotti o Agnelli, il moviolone e le polemiche. Varriale: "Ha creato un genere, coi commenti caldi di tifosi alti e bassi", scrivono Clari-Nardi su La Gazzetta dello sport l'8 ottobre 2017. Ha fatto in tempo a vedere la Var, realizzazione moderna di quel "Vogliamo la moviola in campo" che è stato vero motto e sorta di sottotitolo del suo "Processo del lunedì". Aldo Biscardi, ideatore nel 1979 di una trasmissione che avrebbe condotto in prima persona del 1983, col "Processo" non creò solo un format fra i più longevi della storia della televisione, ma cambiò il modo di raccontare lo sport. O meglio il calcio, protagonista quasi egemone.

IL TEATRO E I "GRANDI" — Al racconto distaccato, rigoroso, imparziale che lo aveva preceduto sostituì una sorta di teatro popolare, un circo di leoni di cui lui era il domatore, all'urlo di "Non sovrapponetevi". Il Processo era programmaticamente "dalla parte della gente", ma la sua agorà ospitava tutti, miscelando alto e basso in modo sorprendente: ai congiuntivi martoriati, alle gaffe e alle sparate ("Sono arrivate 100mila telefonate"), facevano da contraltare gli interventi di personaggi come Franco Zeffirelli e Gianni Brera. Al Processo andavano tutti, dai campioni, come Maradona, ai presidenti (alcuni erano presenza fissa, come Zamparini). Gianni Agnelli fu in studio, nonostante il "boicottaggio" juventino deciso da Boniperti. E poi c'erano i politici: Andreotti partecipò per la "sua" Roma e annunciò la conferma di Falcao, D'Alema superò lì il suo tipico distacco, parecchi anni dopo Berlusconi intervenne per dare la lieta novella: "Kakà resta". Ma il leader del centrodestra era quasi un habitué, specie quando la politica si mescolava alla narrazione sportiva.

SGUB E SCANDALI — Negli anni d'oro una buona fetta d'Italia si fermava per il suo "moviolone" e per gli scontri fra gli studi contrapposti, quelli di Torino contro quelli di Roma contro quelli di Milano. Una trasposizione televisiva di scontri da bar, elevati da interventi di avvocati e politici, che alternavano funzioni istituzionali a slanci da tifosi, facendo "fioccare polemiche come nespole". A corredo di una discussione che faceva ascolti, anche per veri o presunti "sgub", c'era la imitatissima parlata del suo rosso conduttore, quel marchio di fabbrica che faceva camminare sempre Biscardi sulla sottile linea che divide il personaggio dalla maschera teatrale, quasi felliniana. In questo, Biscardi era la versione "sportiva" di un altro grande personaggio della nostra televisione, Mike Bongiorno. Nel 2006 il suo coinvolgimento (non penale) nel processo Calciopoli, con telefonate e pressioni di Luciano Moggi alla trasmissione, da un parte portarono a una sospensione dall'Ordine, dall'altra furono testimonianza del peso che quel "bar sport" aveva assunto per l'opinione pubblica sportiva.

L'INTUIZIONE — Un'idea geniale a suo modo, confermata anche dal noto critico televisivo Aldo Grasso a Gazzetta.it: "Biscardi ha inventato il calcio parlato. Ha avuto l'intuizione, agli inizi di Rai 3, di spostare dai bar in televisione la disputa sportiva del lunedì. All'inizio era proprio un processo di nome e di fatto, con difesa, accusa e lui giudice assoluto ma i toni forensi sono stati sostituiti rapidamente da quelli da lite da stadio. Quando poi se ne è andato dalla Rai il programma ha perso forza innovativa, ma lui è stato molto bravo a durare ancora a lungo, inventando il 'trash' televisivo prima che questa parola prendesse la ribalta".

IL RICORDO DI VARRIALE — Il Processo è stato anche palestra per talenti del giornalismo sportivo. Fra questi anche Enrico Varriale, che ha condotto recentemente i il Processo del lunedì sulla Rai. Biscardi aveva traslocato da tempo prima a Tele+, poi a Telemontecarlo: “Sono molto addolorato, - dice Varriale a Gazzetta.it - è stato lui a permettermi di affacciarmi alla ribalta nazionale. Credeva nei giovani e li lanciava, mi affidò la Nazionale nel '90. Come giornalista ha creato un genere, che vanta più tentativi di imitazione della settimana enigmistica. Quando arrivai a Roma in Rai le trasmissioni sportive erano molto impostate. Lui ebbe la grande intuizione di portare i commenti caldi di tifosi alti e bassi abbinandoli a un fiuto per la notizia che ne faceva un giornalista di razza. Finché è stato in Rai è stato straordinario, i suoi Processi ai Mondiali nel 1990 facevano più share della partita stessa. Poi è diventato più personaggio e ha dovuto mantenere livello di ascolti: per questo ha dovuto esagerare con scoop e quant’altro. Ma resta uno che ha creato un genere vero e proprio. Aveva un grande senso dell’ironia, soprattutto su di sé. Sapeva scherzare sui suoi difetti".

Biscardi? Grande cronista Questo sì che è uno «sgub». In un libro della figlia la storia del conduttore del «Processo» intervistatore di Pasolini e primo biografo di Papa Wojtyla, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/07/2012, su "Il Giornale". Il primo «sgub» di Aldo Biscardi risale al 1956 quando, avendo preso da poco il posto di Antonio Ghirelli a Paese Sera, era a Mosca per seguire il Festival Mondiale della Gioventù insieme con Enrico Viarisio, Federico Zardi e Vittorio Gassman. Durante il ricevimento al Cremlino, quando fu il turno della delegazione italiana, il giornalista dai capelli rossi prese coraggio e, non si sa come, avvicinò Kruscev che gli mise in mano un panino dicendogli: «Mangia, mangia». La conversazione sfiorò temi politici ed economici fra champagne e caviale e uscì in prima pagina con un titolo in prima persona: «Ho brindato con Nikita Kruscev nei giardini del Cremlino». Il futuro ideatore, regista e conduttore - insomma, mattatore assoluto - del Processo del Lunedì poi diventato Processo di Biscardi aveva già capito che doveva diventare egli stesso un personaggio da raccontare. E che personaggio. Lo fa, non senza qualche comprensibile indulgenza, la figlia Antonella nel libro Tutto (o quasi) su mio padre ora uscito da Limina (pagg. 133, euro 16) e arricchito dai contributi in prima persona dall’Aldo del Guinness dal momento che la «creatura» di Aldo Biscardi ha avuto il riconoscimento dal Guinness World Record come «il programma tv sportivo più longevo con lo stesso presentatore»: meglio del David Letterman Show , che nacque proprio nel 1980 ma subì interruzioni, e del nostrano Maurizio Costanzo show. Tutto ebbe inizio l’1 settembre 1980 alle ore 22,45. Erano presenti nei vari studi di Roma, Milano, Torino e Napoli i calciatori stranieri più famosi: da Falcao a Krol, da Boniek a Prohaska. Naturalmente, alla prima «partita» fu subito polemica. Un telespettatore chiese a Falcao di rispondere a Nantas Salvalaggio che aveva scritto che il brasiliano era l’unico giocatore straniero che amava marcare a uomo e leggere Oscar Wilde. L’ottavo re di Roma non si tirò indietro: «Mi sono informato, so che Salvalaggio ha una bella figlia. Mandi lei a intervistarmi, la preferisco a lui e potrà riferirgli notizie più sicure sui miei gusti e sulla mia personalità». Era nato ufficialmente Il Processo del Lunedì. Il giorno dopo Biagio Agnes scrisse a Biscardi una lettera di congratulazioni, Gianni Arpino vi riconobbe il «bar dello sport» in tv, Alberto Bevilacqua sul Corriere della Sera ne scrisse come il primo e coraggioso tentativo di analisi del fenomeno calcistico. Aldo Biscardi aveva inventato il processo alle partite come anni addietro Sergio Zavoli inventò il Processo alla tappa del Giro d’Italia. Proprio Zavoli consigliò Biscardi di sviluppare il gioco soprattutto sul piano del­la conversazione salottiera. Cosa che, in verità, tra «movioloni», «sgub», «bombe» e furiose litigate non sempre è riuscita ma è indubbio che Aldo Biscardi, che ama raccontare di discendere da Roberto il Guiscardo - «guerriero vichingo che aveva i capelli rossi come me» ma che non sapeva che avrebbe avuto discendenti in quel di Larino in Molise - abbia inventato un genere giornalistico popolare tanto criticato quanto invidiato e copiato. Eppure, quel mattatore di Aldo Biscardi - amico di Gassman, intervistatore di Pier Paolo Paso­lini e di Anita Ekberg, primo bio­grafo di Papa Wojtyla, autore di testi sulla storia del giornalismo sportivo e inchieste sulla Rai ­ non andò subito in onda: le prime due edizioni del Processo furono condotte da Enrico Ameri ­ sì, proprio quello di «scusa Ameri» - e la terza da Marino Bartoletti, mentre Biscardi faceva tutto il resto, dal tema agli ospiti alla regia. Ma è quando Aldo va in video, anche grazie alla vittoria del Mondiale in Spagna nel 1982 e allo scudetto della Roma nel 1983 che il fenomeno del Processo, con tanto di accusa, difesa e verdetto, si afferma. In particolare, Biscardi si rivelerà bravo in due cose: dando notizie e facendo di se stesso, anche con le sue gaffes che lo avvicinano a Mike Bongiorno, un personaggio e ­ come si usa dire oggi - un brand di successo. Al fascino popolare della sarabanda di Aldo Biscardi e alla sua naturale simpatia hanno ceduto in molti: Silvio Berlusconi nel 1990, quindi ben al di qua di Forza Italia, entrò in studio per un saluto e vi restò per un’ora e mezza, ma ben prima di lui c’erano stati un capo del governo come Andreotti e un capo dello Stato come  Pertini in uno storico collegamento dalla Val Gardena a 10 gradi sotto zero, mentre un altro presidente della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi non esitò a utilizzare la trasmissione di Aldo Biscardi per rilanciare l’inno di Mameli e invitare gli «azzurri» a non fare scena muta sulle note dell’inno nazionale.

UN BELL’ABBLAUSO, scrive l'8/10/2017 Mario Schiani su "Altro Pensiero". Non c’è da stupirsi se, alla morte di un personaggio famoso – come di chiunque, peraltro – i ricordi pubblici sono sempre positivi, in qualche caso generosi. Non è una prova di ipocrisia, quanto di civiltà: poiché sappiamo di essere tutti imperfetti, al congedo vogliamo che chi lascia porti con sé solo ciò che di buono è riuscito a trasmettere. Il resto, francamente, è superfluo: ce n’è già troppo nell’aldiquà per voler contaminare l’aldilà. Detto ciò, non mi sento di contraddire il principio di cui sopra, se al dolente ricordo di Aldo Biscardi proposto da tanti (e da me condiviso: se ne va un personaggio del mio passato che ricordo con divertimento e perfino affetto) oso aggiungere che, magari, non è il caso di estenderlo fino a nascondere che il famoso “Processo” non era in tutti i suoi aspetti un esempio di comunicazione di altissimo profilo. Non sempre, almeno. Non suonerà del tutto irrispettoso, spero, sostenere che mettere due o più faziosi uno contro l’altro – la struttura essenziale dello show di Biscardi – non garantiva precisamente obiettività, e magari non sarà superfluo ricordare che le telefonate in diretta di presidenti e altri potenti del calcio, quelli che davano ad Aldo “notizie in esclusiva” e favolosi “sgoob”, erano sempre accompagnate, in studio, da un silenzio ossequioso, quasi servile. Là dove poco prima scoppiettava il sarcasmo e la critica più inaudita improvvisamente si sentiva il tonfo delle ginocchia sul pavimento. Insomma, il “Processo del lunedì” era soprattutto tanto divertimento. Fatti gli appunti di cui sopra, forse non è il caso di processarlo proprio ora. Ma neanche di assolverlo un tanto alla lacrima. Come spesso accade, la cosa migliore è mettere i fatti nel giusto contesto. I meriti – indiscutibili – del “Processo” risaltano evidenti soprattutto se si pensa a come era trattato, prima della sua istituzione, il calcio sulla Rai tv. C’era la Domenica Sportiva, ovviamente, e anche Dribbling e Novantesimo Minuto. E poi “la sintesi del secondo tempo” all’ora di cena (per me bambino l’accostamento tra minestra e Picchio De Sisti piuttosto che tra robiola e Pierluigi Cera rimarrà eterno): poco altro. La polemica ben di rado si inoltrava tra resoconti e commenti che, evidentemente, si volevano pacati al punto d’essere reticenti. Ma gli italiani non erano un popolo di lettori del Times e la Rai, come già avevano scoperto Arbore e Boncompagni, non assomigliava affatto alla Bbc. Biscardi ce lo ricordò nel modo più clamoroso: portando il Bar Sport in tv, con la sua felliniana varietà di caratteristi. Il calciatore in pensione non andava più all’osteria del paese a commentare Milan e Juventus: eccolo, “microfonato” e incravattato, tentare una sapiente analisi tecnica combattendo nel contempo contro logica e congiuntivi. E il giornalista sportivo, quello della carta stampata? C’era gloria anche per lui, naturalmente: poteva far vedere la sua faccia e concedere sfogo al poco o tanto di vanità che accompagna la carriera di ogni giornalista. Addirittura, gli era concesso di arrivare alla voluttà del denudamento più audace e di rivelare al mondo i colori calcistici cari al suo cuore. Perfino l’arbitro, un tempo inavvicinabile come membro di una casta superiore, finì per partecipare alla mischia, offrendo in superficie competenza intorno a rigori e fuorigioco, in realtà alimentando a sua volta recriminazioni, proteste e, naturalmente, sospetti di succosissimi “gomblotti”. Tutto questo divertiva in passato e diverte ancora oggi (le tv regionali sono piene di “Processini” che prosperano applicando la formula biscardiana), ma non ha fatto dell’Italia una nazione di sportivi: ci vorrebbe un’impossibile rivoluzione per questo. Ha però messo a fuoco una fotografia più realistica del Paese: quel posto curioso in cui i campanili svettano anche nel bel mezzo dei campi di calcio.

Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia - articolo pubblicato il 3 ottobre 2015. Ho voglia di abbracciarlo e baciarlo ma temo di sgretolarlo. A 84 anni gli umani sono di carta velina. Non resisto. Lo abbraccio e lo bacio. Non si sgretola. Aldo Biscardi è una roccia, sotto la zazzera al carotene prodigiosamente uguale a se stessa. Il che conferma quanto già sapevo. Come tutti gli ergastolani del video, Biscardi ha poco di umano, e questo me lo rende fisicamente attraente, oltre che intimo. Esposto da quasi quattro decenni ai raggi catodici, il suo è diventato un corpo spettrale, un cartonato di lusso, dentro cui resistono frammenti di un inconscio quasi azzerato dall’abuso di telecamera. Se ancora oggi dici “processo”, da noi pensano più a Biscardi che a Kafka. Insomma, tecnicamente, una leggenda vivente. Accudita da Puccia, la governante filippina. Lui non la chiama, la invoca come un Zeus tonante. “Puccia!”. Sì, qualche smemoratezza, il minimo storico, da metterci la firma, l’occhio lustro tra la commozione e il tempo, la voce che manca e qualche volta raschia e rantola, ma sembrano i soffiati dell’attore ottocentesco quando esagera nel vezzo di simulare il privato essendo pubblico. Ricordi o allucinazioni? Qualcosa resiste e altro svanisce. “Quella volta che andai come inviato di “Paese Sera” a Mosca con Pasolini per la festa della gioventù e lui abbracciò un ragazzo uscito mezzo nudo da casa”. Ogni tanto, gli parte, credo a sua insaputa, un sorriso di una dolcezza enorme dove ci vedo la conferma quantica che il tempo è un infinito presente. Il vegliardo che perde colpi convive con il bambino che bussa la sua innocenza sotto la ruvida, presunta cazzata della clessidra che si svuota. Il mondo dei sociale dei global non lo sa e forse non lo conosce neppure, ma Mister Sgub non molla. La notizia vera è che il suo Processo, l’originale, esiste ancora, vive e sbotta con noi, più che mai nazionale e inimitabile. Canale 61 del telecomando. “Vieni, ti faccio vedere una cosa”. Mi mostra alla parete, con un orgoglio che non potete nemmeno immaginare, la targa del Guinness.  Da allora sono passati altri quattro anni. “36 edizioni consecutive”. Record assoluto di durata televisiva.

Non ti prende più nessuno. Sei come Fidel Castro. Eterno.

“L’unico che temevo era l’americano, David Letterman, ma lui ha smesso e, comunque, anche fosse, non poteva battere il mio record perché è stato un anno fermo”.

Sei come Eduardo. Lui non ha mai dato l’addio al teatro perché il teatro era la sua pelle.

“No, lui è un’altra cosa e merita tanto rispetto. Come lo meritava Carmelo Bene. L’ho avuto almeno dodici volte al Processo”.

Nemmeno tu dai l’addio al Processo.

“Anche i Pooh hanno dato l’addio, hai visto?”.

E tu?

“Andare avanti per me è naturale. Ieri ho finito la trasmissione a mezzanotte e oggi sono qui con te”.

Non senti il peso?

“Onestamente no. Lo sentirei se non lo facessi. Finché ce la faccio, vado avanti. E una bella abitudine”.

Sei come Moliere e Franco Scoglio, aspiri alla morte in scena.

“Io mi ritengo un giornalista che ha lavorato con onestà. Non ho fatto niente di speciale per fare questo record. Quando lasciai la Rai dopo tredici anni, mi chiamarono subito quelli di Tele+, e così via”.

Adesso stai in un circuito nazionale di televisioni private.

“Ieri ho fatto 2 milioni e 800 mila, quasi 3. Non ci credevo. Mi ha fatto piacere sapere che adesso si vede anche a Larino, il mio paese. Me l’ha detto mio cognato”.

Il tuo è l’unico processo amato da Berlusconi.

“Ci ho parlato anche ieri. Lo sento spesso Silvio”.

Che vi siete detti?

“Lui dice che il Milan si riprende”.

Ci crede in Mihajlovic?

“L’hanno preso, ma non è l’allenatore suo”.

Come sta l’amico Silvio?

“E’ in gran forma. Ha fatto pure la dieta…Sta aspettando questa sentenza. Lui è fiducioso e comunque si ripresenta in politica. Non si vuole arrendere”.

Sta perdendo i pezzi.

“C’è un tale casino in politica, pure questo Papa…”.

Che c’entra il Papa?

“Secondo me è un Papa comunista. La mamma della mia valletta, Giorgia, fu sua segretaria in Argentina. So tutto di lui. Però, pure questo Marino che va a dire: “Mi ha invitato il Papa”…”.

Hai scritto un libro su Wojtyla.

“Col quale me so’ fatto la casa in campagna. Diciotto edizioni. Tutte le prime pagine dei giornali del mondo. Ho fatto con Gianni Dego anche un disco su Bergoglio distribuito in tutto il mondo, “Francesco d’Argentina”, testo di Aldo Biscardi”.

Tu e Maurizio Costanzo, gli irriducibili.

“Lui, però, sta sempre un po’ così così, io invece sto benissimo. Non mi sentirei bene se non lo facessi il Processo”.

I due figli fedelissimi al fianco.

“Maurizio è un combattente come me, anche se a volte mi fa arrabbiare. Ieri sera ha fatto una difesa eroica di Mancini”.

L’hai trascinato nella tua storia.

“E’ venuto naturale. Da bambino tifava Inter. Pensa che una volta intervistai Boninsegna a San Siro, lo presi in braccio e lui guardava Boninsegna invece che la telecamera”.

Tua figlia?

“Antonella è la vera donna della mia vita. E’ laureata in architettura, ma sta con me da sempre. Per sua scelta”.

Un fratello senatore.

“Faceva il preside a Campobasso. Ha bocciato Fred Bongusto e anche Antonio Di Pietro. Bongusto l’ha sempre ringraziato. Senza quella bocciatura, non faceva la carriera che ha fatto”.

L’ha ringraziato anche Di Pietro?

“Lui vorrebbe sempre stare in trasmissione da me, anche adesso, ma l’ho fatto venire solo due volte”.

Non è abbastanza telegenico?

“Non mi va. Non è uno sportivo vero. E poi partirebbe subito la storiella: ecco i due paesani che fanno comunella… Adesso, poi, ho l’assalto”.

Chi ti assale?

“Tutti gli attori che vogliono venire da me. Li vedo all’Hilton dove vado spesso. Ce l’ho di fronte casa. Uno alla volta li farò venire”.

Fedelissimo in studio anche l’avvocato Taormina.

“Adesso ha comprato anche una squadra di calcio, l’Arcinazzo, così per divertirsi. Ho anche Vingolo, il più grande oculista del mondo, ospite fisso. Ha operato tre Nobel, tra cui la Montalcini”.

Lo paghi Taormina?

“Macché, viene per puro piacere. Pure Vìngolo. Mi raccomando, l’accento sulla i, sennò s’incazza”.

Capezzone?

“Viene ancora”.

Sta sempre con Berlusconi?

“No, ma cerca di rientrare. Ha capito che fuori non ha combinato nulla”.

Il tuo telecronista preferito.

“Sarà antiquato, ma dico Carosio.  Gran voce, improvvisava e ti dava il senso della partita. Oggi non te la fanno vivere la partita. Commentano troppo e non raccontano…te ne dico una bella su Carosio”.

Dimmela.

“Finale mondiale Brasile-Svezia del 58. A cinque minuti dalla fine Carosio se l’è fatta sotto”.

Si è urinato addosso?

“No, quale pipì, si cagò sotto…Chiuse bruscamente la diretta a cinque minuti dalla fine. Un attacco di diarrea. Se la fece sotto in diretta. Questa non l’ho mai raccontata a nessuno”.

Telecronisti di oggi?

“Sandro Piccinini è il più bravo”.

Alla Rai c’è il Processo di Enrico Varriale.

“Varriale è un mio prescelto. L’ho fatto assumere io in Rai quando lavorava al Canale 21 di Napoli. C’era Manca presidente socialista. Gli ho detto che il padre di Varriale era socialista. “Prendiamolo!”, mi fa”.

Il tuo prescelto ti ha “scippato” il Processo del lunedì.

“M’ha chiesto il permesso, la testata del programma è mia”.

E tu?

“Gliel’ho dato. “Fallo, tanto non ti temo”. E infatti non lo vede nessuno il suo Processo”.

Nemmeno tu?

“Sono in onda a quell’ora, ma non lo vedrei comunque. Mi fa senso. E’ una mia creatura cui hanno dato un nome posticcio”.

Che cosa vedi della tua Rai?

“Vedo sempre “Novantesimo minuto” con la Ferrari e Mazzocchi”.

Bravi?

“Si vede che lo fanno come una professione forzata. Non sono nati con l’istinto per quella cosa. Mazzocchi l’ho portato io in Rai. Poverina la Ferrari…”.

Perché?

“La incontravo all’Hilton che non si dava pace. “Non capisco perché mi hanno tolto lo sport. Tutte invidie, gelosie, cattiverie”. Ora la Monica Maggioni l’ha ripresa. Non ci ho mai parlato con la Maggioni, ma a orecchio mi piace molto”.

Ne hai avute di vallette.

“Mariella Scirea non solo una valletta. La sentivo più mia. Vedova di un calciatore famoso e tifosa. Si poteva permettere di entrare in collisione con il giornalista. La morte del marito ne ha ingrandita la personalità del triplo”.

Tante belle ragazze. Mai avuto uno sbandamento?

“Diciamo di no. Tu sei un giornalista di razza, anche fosse stato credi che te lo direi? Mia moglie sta in clinica e torna domani. Se mi muore, poi la responsabilità è tua”.

Vabbè, mi liquidi così?

“Ti do uno scoop su Michela Rocco di Torrepadula, l’ex moglie di Mentana. Bedi Moratti mi telefonò perché le serviva come attrice in suo film. “Mi basta per una puntata”, mi disse. Non l’ho mai più rivista”.

Il segreto del Processo?

“Sono passati tutti da me. Dalla vita politica a quella artistica. Ho avuto Pertini collegato in diretta. Andreotti e D’Alema. Berlusconi l’ho avuto in diretta sei, sette volte. Ho avuto in studio anche Gianni Agnelli, contro la volontà di Boniperti”.

Perché non voleva Boniperti?

“Era convinto che fossi contro la Juve”.

Non ne conosco tanti che hanno avuto empatia con Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi allo stesso tempo.

“Berlusconi non ha coperto molto la vita privata, Agnelli sì. Ha avuto una cura certosina in questo”.

Si sono mai invaghiti delle tue vallette?

“Meglio non dirlo. A Berlusconi piacevano tante, almeno sei o sette in particolare. Ad Agnelli un paio. Paola Perissi, in particolare”.

Si sono incontrati?

“La prima volta alla presentazione della Panda. “È la cosa più bella della tua trasmissione”, mi disse Agnelli della Perissi. “Te la cedo”, feci io. “Magari” ha detto lui e si sono abbracciati”.

Altri passaggi scabrosi?

“Quella volta ai mondiali ’90 che m’hanno lanciato Schillaci. Doveva essere il colpo a sorpresa. Lui era ancora nudo nella stanzetta degli ospiti. Mi buttai su di lui, lo abbracciai e lo ricacciai dentro”.

Quella volta della pornostar allo stadio.

“Dissi che gli operatori ancora la stavano montando. Questo succede perché io vado a braccio...”.

Hai avuto Maradona opinionista.

“Ospite fisso. Avevo questa attricetta in trasmissione con me. Una volta ero già in studio che partiva la diretta e Diego non arrivava. “Dove cazzo sta?”, urlavo. Se ne stava chiuso in camerino con l’attricetta”.

Si risposa con l’ultima fidanzata.

“Ti do una bella notizia. L’ho incontrato la settimana scorsa all’Hilton. “Diego, perché non ti prendi il figlio?”, gli ho detto. “Ci sto pensando”, mi ha risposto. Quasi sicuramente lo riconoscerà. Il nipotino è tale e uguale a lui”.

Questa sì è una notiziona.

“Maradona e il figlio s’incontrano spesso all’Hilton. Diego sta sempre là. Ogni tanto chiede una massaggiatrice in camera. Lui è il più grande personaggio della storia del calcio. Non c’è paragone con Messi o Pelè”.

Migliaia di ospiti. Con quali hai avuto più feeling?

“Con i calciatori non ho mai legato. Nessun calciatore è venuto in casa mia, al contrario dei dirigenti e delle vallette”.

La tua idea dei calciatori di oggi?

“Sono televisivi. Si controllano. Fai fatica a scoprire cosa pensano. Quelli dei miei tempi non gliene fregava niente. Vale anche per gli allenatori”.

Il più telegenico?

“Herrera era un talento naturale. Il suo erede è Mourinho. I calciatori opinionisti sono tutti uguali nel vestire e nelle pose. Non mi piacciono. Lo puoi scrivere, non me ne frega niente”.

Ti piace Ilaria D’Amico?

“È la migliore. Buffon mi era più simpatico prima. Capendo che la carriera va a finire, parla da manager, da giornalista, assegna i voti”.

Si sta apparecchiando il futuro.

“Non era così prima. Lasciando la moglie e mettendosi con questa, una giornalista famosa, è cambiato”.  

Il Biscardi romanista.

“Mi piace Rudi Garcia. Lo conosco. Ma quando la Roma passa all’Hilton, mi allontano, non voglio dare fastidio. Dino Viola è stato il più grande come presidente. Di Sensi non parlo, è morto”.

James Pallotta ti piace?

“L’ho conosciuto. Pensavo non fosse la persona giusta, ma ho cambiato idea. Lui è originario di Rieti, dove io ho la casa di campagna. Mi piace che è venuto a trovare i suoi parenti sepolti”.

Parliamo di dirigenti.

“Sono cambiati anche loro. Non che prima fossero più puri. Avevano i loro contatti. Oggi conta solo il business. È centrale. Il discorso calcistico scema”.

Il tuo amico Luciano Moggi.

“Mi hanno detto che a Torino abita nel piano sotto quello di Agnelli, il presidente. Se è vero, è una bomba”.

Raccontami il tuo Moggi.

“Era la copia leggermente sbiadita di Italo Allodi. Italo è stato il primo general manager alla Moggi. Aveva carta bianca. Poteva fare tutto. Comprare i giocatori, parlare con gli arbitri, con gli allenatori e i giornalisti. Moggi è una creatura di Allodi”.

Con Luciano vi sentite?

“Ogni tanto. Lui vuole venire in trasmissione”.

E tu?

“Vediamo. Qualche volta lo inviterò”.

A proposito di Moggi. La recente sentenza della Cassazione parla di “associazione per delinquere” e “frode sportiva”. Dice anche che la sua influenza si estendeva sui media e anche sul tuo Processo.

“Sentenza equa. Moggi era uno che non nascondeva di fare tutto per la sua società. Quale giornalista non baro può negare questo? Quelli come Moggi dettavano le regole del calcio. Come faceva Allodi ai suoi tempi. Luciano aveva il potere che hanno tutti i manager, solo che lo ostentava”.

Ti chiamava per condizionare il tuo Processo?

“Come no, lo faceva con tutti”.

Hai cominciato nel 1980.

“Ti do un’esclusiva. Il Processo nacque nell’appartamento di Biagio Agnes, allora direttore generale della Rai e tifoso Napoli. Lo considero il padre putativo del processo. Ti dico una bella cosa di Biagio”.

Dimmela.

“Berlusconi voleva rompere il contratto con Raffaella Carrà. Non funzionava. Io misi insieme Agnes, la Carrà e Berlusconi per risolvere la cosa. Raffaella tornò in Rai. Mi fece vedere un anello favoloso. Glielo regalò Berlusconi”.

Gli arbitri.

“Sanno di avere una grande responsabilità e se la giocano in base al carattere.  C’è chi impone i suoi diktat. Chi lo fa perché è tifoso di una squadra. In Italia non si può dire, ma è così. Gli arbitri hanno le loro simpatie e a volte possono anche non resistere”.

Molti sono tifosi della Juventus?

“Non posso fare il nome, se no mi querela, anche perché la figlia fa la giornalista. Uno di loro mi disse: “Due anni che arbitro in serie A e ho dovuto acquistare due cantine per tutti i regali che mi facevano”. Mica roba da poco. Molte automobili”.

Il più grande arbitro italiano secondo Biscardi.

“Lo Bello padre. In trasmissione ho il figlio Rosario collegato da casa sua in Sicilia. Fa la moviola”.

Il miglior allenatore.

“Helenio Herrera. Carisma unico”.

Quello italiano?

“Ho una preferenza da sempre per Fabio Capello. Lo stimavo già da giocatore e poi da allenatore. Come uomo è eccezionale”.

A 40 anni di Processo ci arriviamo?

“Ho una salute di ferro grazie a Dio. Non ho bisogno di medici. Speriamo bene”.

La tv allunga la vita.

“Si dice, ma non è vero. Più di qualcuno è morto”.

Addio al grande Aldo Biscardi: ecco le sue 10 citazioni più famose! Scrive la redazione di Cittaceleste l'8/10/2017. Il suo addio ha lasciato senza parole il mondo del calcio, di cui è stato protagonista assoluto, senza se e senza ma. Con il suo “Processo del Lunedì”, Aldo Biscardi, ha colorato di simpatia e professionalità l’inizio di ogni settimana della nostra vita calcistica. Per questo, oggi, noi abbiamo deciso di omaggiarlo, regalandovi e regalandoci le 10 citazioni più famose dell’Aldone Nazionale, destinate – come lui – a rimanere nella storia:

“Abbiamo uno sgoop clamoroso!” 

“Io sono come Joyce, Pascoli, Leopardi e Pasolini. È il destino dei grandi poeti essere dileggiati”.

“Le polemiche fioccano come nespole”.

“La sequenza filmata della pornostar che si è esibita nuda allo stadio di Piacenza non è pronta. Gli operatori la stanno ancora montando”.

Non parlate in più di tre o quattro per volta che sennò non si capisce niente”.

“E’ una notizia importante, per radio la possono vedere tutti”.

“Non ci accavalliamo!”.

“Dobbiamo andare con il piede per terra”.

“Denghiù”. (dalla pubblicità di un corso d’inglese).

“Dove giocherà Baggio l’anno scorso?”

 Morto Aldo Biscardi: «Parlate non più di due per volta»: antologia delle sue frasi mitiche. Frasi iperboliche, strafalcioni, inciampi lessicali: antologia delle frasi che hanno reso celebri il «Processo del lunedì» e il suo ideatore, scrive Luca Bottura (ha collaborato Francesco Carabelli) su "Il Corriere della Sera” l'8 ottobre 2017.

Ciao Aldo, che lo Zingarelli ti sia lieve. Anche se per salutarti aspettiamo la conferma della Var.

Viva il «Che»?

“Per lei il pluralismo è un opzional” (a Silvio Berlusconi, maggio 1993)

Oriano Fallaci. “Stiamo dimostrando la fallacità degli arbitri” (aprile 2013)

Ce l’ho muro. “Spalletti non lo vediamo più, è andato ad allenare in Unione Sovietica” (marzo 2013)

Brigate rozze. “Del Piero è rinato, cosa incredibile se si pensa che è uno che c’ha mi pare quasi 33 anni! Corno, che era uno dei suoi EVERSORI, si è dovuto ricredere” (febbraio 2008)

Il secolo breve. “Allora, questa è l’ultima puntata del 1907 noi ci rivediamo il 14 gennaio del prossimo anno... ” (dicembre 2007)

Nesti a carico. “L’inevitabile scheda di Carlo Nesti” (marzo 1988)

Magic bis. “Parlate non più di due per volta se no non si capisce” (aprile 2011)

Condoni. “La ringrazio a nome del Presidente della Repubblica e del Consiglio, abusivamente, ovviamente” (dicembre 2001)

Zazza grande. “Do la parola a Zaccheroni”. “A Zazzaroni”. “A Zazzaroni, è uguale” (maggio 2001)

Dirittura d’Arrigo. “Dovete finirla! Qui si va sempre nel cul de sac (pausa) Ahahahaha” (dicembre 2000)

Bum!. “Leggiamo qualche mail che riassuma il bombardamento che c’è su questo tema” (marzo 2000)

La valletta dell’Eden. “Una valletta straordinaria… io ne ho avute trentotto, ma una con gli occhi così profondi, che non si vedono tanto e con le labbra così carnali mai…” (marzo 2009)

Sonno felice. “Ciao a tutti i miei amici, Rampulla primo piano, che non vedo e sento da parecchio tempo, ora è al telefono con noi, ciao Felice!” (dicembre 2010, Rampulla si chiama Michelangelo)

Dite, dite. “Incrocio le dite” (dicembre 1994)

Sedere è potere. “Il nostro regista inquadrava sempre i glutei della Cacciatori, che tra l’altro è una gran bella ragazza” (dicembre 1999)

Santi in paradiso. “Il moviolone me l’ha chiesto pure il Vaticano per l’attentato al Papa” (giugno 2007)

Iu Uelcom. “Denghiu” (pubblicità per corso d’inglese De Agostini, gennaio 2001)

CLAUDIO BAGLIONI E LE SOLITE CANZONETTE.

Quando la sinistra odiava Baglioni, scrive Daniele Zaccaria il 6 Febbraio 2018, su "Il Dubbio". Dalla “maglietta fina” alla direzione artistica del festival di Sanremo. La luminosa carriera di un autore snobbato dalla critica, adorato dal grande pubblico e oggi celebrato da (quasi) tutti. Gli altri parlavano di rivoluzioni, di liberazioni, di pace e di locomotive, di giustizia e di libertà, e lui cantava soave «passerotto non andare via». Non ci mise molto a finire nella lista nera: vacuo, commerciale, inconsistente come una “maglietta fina”, quasi certamente di destra, magari anche fascista, di sicuro sospetto. Comunque impresentabile nelle consorterie della canzone d’autore: erano gli anni 70 e bastava poco per diventare un nemico del popolo. Non aveva la gravità di De André, l’istrionismo surreale di Dalla, l’impegno sociale di Guccini, ma neanche l’ermetismo poetizzante di De Gregori o la vena erudita di Battiato. Persino Battisti, con quall’aura nera da “cantante missino” e il suo individualismo anarchico suscitava più rispetto. Lui, Baglioni Claudio, classe ‘51 romano di Montesacro non aveva nulla di tutto questo, ma più di tutti gli altri ha incarnato il destino della canzone italiana, unendo almeno tre generazioni di fan. In oltre quarant’anni di carriera ha venduto milioni di dischi e non si è mai curato del malanimo degli altri, della critica snob; l’unica scornata con i suoi avversari è avvenuta fuori tempo massimo, nel 1988 quando viene fischiato al concerto di Torino per Amnesty International, ma fu una contestazione patetica, animata da reduci spaesati e residuali ( più triste e fuori tempo di loro solo Antonio Ricci, il creatore di Striscia la notizia che appena pochi giorni fa ha definito Baglioni «un cantante insopportabile, amato dai fascisti con il cervello intoppato dal botulino» ). Nel frattempo le sue melodie si erano già insinuate negli anfratti della memoria collettiva, cantate a squarciagola da orde di ragazzine sui pulman delle gite scolastiche, sputate dai juke box sulle spiagge, sussurrate dagli innamorati: E tu come stai, Sabato pomeriggio, Amore Bello, Lampada Osram e soprattutto Questo piccolo grande amore, il singolo più venduto nella storia della musica italiana e proclamato nel 1985 “canzone del secolo” proprio sul palco del festival di Sanremo, lo stesso che da stasera lo vedrà come gran cerimoniere. Con quella poetica da storie di vita quotidiana, fatta di avventure estive, di amori non corrisposti di muretti e motorini, Baglioni continuava a irritare i puristi, talmente accecati dal pregiudizio da non accorgersi che i testi del cantautore romano erano molto meno sciatti e banali di quanto loro andavano scrivendo con il pilota automatico. Il passaggio tra gli anni 70 e 80 intanto è trionfale, con la tournée Ale-oo porta centinaia di migliaia di giovani ai suoi concerti e con l’album La vita è adesso straccia tutti i record di vendite. Dopo quel successo, come spesso accade, arriva la crisi, creativa e personale, che lo porta a un silenzio di cinque anni. Baglioni è finito, Baglioni è depresso Baglioni non ha più niente da dire, giubilano i detrattori. E invece Baglioni ripresenta nel 1990 con Oltre, un album bellissimo, il migliore della sua carriera, con un suono internazionale e la partecipazione di artisti come Paco De Lucia, Didier Lockwood, Youssou N’Dour, Pino Daniele. Un disco che “suona benissimo” e spiazza la critica costretta rimangiarsi la bile con cui aveva celebrato il suo prematuro funerale artistico. Anche l’album successivo Io sono qui è un successo di pubblico e di critica. I tempi sono maturi perché Baglioni rompa il suo soffitto di cristallo. Ci pensa Fabio Fazio, che nel 1997 lo porta in Tv a condurre con lui Anima mia, la trasmissione cult di Rai3 che rivisita in chiave ironica la musica pop degli anni 70. Quel pubblico “di sinistra” che fino a qualche anno prima ne parlava facendo la fine bouche lo rivaluta improvvisamente, quei cenacoli che storcevano il naso ogni volta che le radio sbrodolavano le sue melodie ora scoprono uno splendido 45enne, colto, spiritoso, e, incredibile ma vero, anche progressista e sensibile ai diritti sociali e civili. Per loro dev’essere stato un vero cortocircuito sentirlo gorgheggiare El pueblo unido jamas sera vencido assieme agli Intillimani. Ma come, Baglioni non era di destra? No, non lo è mai stato. E chi lo conosce non si è certo stupito del concerto che nel 2006 ha tenuto a Lampedusa per sostenere l’accoglienza ai migranti per i quali ha scritto il brano Noi qui, evento che ha replicato più volte nel corso degli anni. Nell’ultima parte della sua produzione c’è stato un sobrio ritorno al classico con canzoni meno sperimentali e ritornelli più orecchiabili, lavori più che dignitosi con alcuni pezzi capaci ancora di lasciare il segno e arrangiamenti sempre di livello. La consacrazione del festival è in fondo l’approdo naturale di una carriera fantastica, trascorsa a pensare, scrivere e suonare canzoni, con lui Sanremo torna nel suo elemento naturale, la musica. Con buona pace di quello squadrista di Antonio Ricci.

MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.

16 giugno 1968. La poesia dell'autore da "Le ceneri di Gramsci.

Il Pci ai giovani. Di Pier Paolo Pasolini.

I versi sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti.

Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari. 

Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: peggio per voi.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà. 

Vi odio come odio i vostri papà. 

Buona razza non mente. 

Avete lo stesso occhio cattivo. 

Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. 

Perché i poliziotti sono figli di poveri. 

Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano. 

Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino; 

i tanti fratelli;

la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati);

i bassi sulle cloache;

o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc.

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);

umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. 

Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. 

Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! 

I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. 

A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde vi leccano il culo.

Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi!

Se mai, si tratta di una lotta intestina.

Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese.

Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani. 

Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma, ma devo dire: il movimento studentesco (?) non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici; 

una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, il teppismo conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine anche se già lontane.

Questo, cari figli, sapete. 

E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere.

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre sulla presa di potere. 

Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) 

Riformisti! Reificatori! 

Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai.

E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde avranno tanta sollecitudine nel cercar di comprendere i loro problemi? 

La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata? 

Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi un giovane operaio di occupare una fabbrica senza morire di fame dopo tre giorni? 

e andate a occupare le università, cari figli, ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi a dei giovani operai perché possano occupare, insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.

È un suggerimento banale; 

e ricattatorio. Ma soprattutto inutile: perché voi siete borghesi e quindi anticomunisti.

Gli operai, loro, sono rimasti al 1950 e più indietro. 

Un’idea archeologica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, e peggio per voi se non eravate ancora nati) alligna ancora nei petti popolari, in periferia. 

Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese, e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula, si è dato da fare per imparare un po’ di russo. 

Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere.

Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, a bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. 

Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud): quindi, i Maestri - che sapranno sempre di essere Maestri - non saranno mai Maestri: né Gui né voi riuscirete mai a fare dei Maestri.

I Maestri si fanno occupando le Fabbriche non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti) non vi dicono la banale verità: che siete una nuova specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri, come i vostri padri, ancora, cari! Ecco, gli Americani, vostri odorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario! 

Se lo inventano giorno per giorno! 

Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno: potreste ignorarlo? 

Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del Times e del Tempo). 

Lo ignorate andando, con moralismo provinciale, “più a sinistra”.

Strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale Partito Comunista, ne avete adottato una variante ereticale ma sulla base del più basso idioma referenziale dei sociologi senza ideologia.

Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme l’applicazione di nuovi metodi pedagogici e il rinnovamento di un organismo statale.

I Bravi! Santi sentimenti! 

Che la buona stella della borghesia vi assista! 

Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà a essere servi, e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica borghese (con cui voi vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante ricco) mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri: ossia il comunismo.

Spero che l’abbiate capito che fare del puritanesimo è un modo per impedirsi la noia di un’azione rivoluzionaria vera. 

Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni! 

Andate a invadere Cellule! 

andate ad occupare gli usci del Comitato Centrale: Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure! 

Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere di un Partito che è tuttavia all’opposizione (anche se malconcio, per la presenza di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, borghesi coetanei dei vostri schifosi papà) ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere. 

Che esso si decide a distruggere, intanto, ciò che un borghese ha in sé, dubito molto, anche col vostro apporto, se, come dicevo, buona razza non mente...

Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!

Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo? 

Mi pento, mi pento! 

Ho perso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemi. 

Ahi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso. 

Ma, mi son fermato in tempo, salvando insieme, il dualismo fanatico e l’ambiguità... 

Ma son giunto sull’orlo della vergogna.

Oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

Paolo Pietrangeli ricorda la battaglia di 50 anni fa: «Valle Giulia, i sogni, le mattonate». Cantautore-regista, il 1° marzo del ‘68 era lì a fare a botte. I suoi ricordi, il suo bilancio amaro. Giuliano Ferrara era nel Pci e nel Movimento. Scalzone in Svezia per rimorchiare, scrive Fabrizio Paladini l'1 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera".

«Il primo marzo/ sì me lo rammento/ saremo stati/ mille e cinquecento». 

Chi se lo rammenta è Paolo Pietrangeli, 73 anni, storico regista televisivo del Maurizio Costanzo Show, di Amici, di C’è posta per te. Oggi è anche candidato alle elezioni con Potere al popolo. Suo papà Antonio fu acclamato sceneggiatore e regista di film come Lo scapolo, Io la conoscevo bene. Ma soprattutto Paolo Pietrangeli è conosciuto per le sue canzoni di lotta e di protesta. Contessa, Il vestito di Rossini, Valle Giulia sono pezzi che tra il 1968 e il 1977 hanno cantato tutti quelli che volevano cambiare il mondo. Valle Giulia prende spunto proprio dalla battaglia tra studenti e polizia che esattamente 50 anni fa si scatenò a Villa Borghese, sotto la facoltà di Architettura. «Noi studenti dei licei ci radunammo a piazza di Spagna. L’idea era quella di raggiungere gli universitari per poi occupare Architettura. Feci tutto quel pezzo del corteo con Luciana, che allora era la moglie di Bruno Trentin. Arrivati a Valle Giulia lei sentenziò: Ma cosa vuoi che succeda, sarà tutto tranquillo, ci sono i socialisti al governo. Appena pronunciata quella frase, iniziarono i disordini. C’erano poliziotti e carabinieri dappertutto. Ma all’inizio le cariche erano abbastanza blande».

E poi? 

«È accaduto che per la prima volta gli studenti, i figli di papà, non hanno avuto paura e non sono fuggiti. Anzi, hanno reagito». 

Eravate armati? 

«Sassi presi nelle aiuole e rami spezzati per fare bastoni. Questa fu una cosa nuova che alla Polizia non piacque per nulla. Ci diedero insomma un sacco di botte e moltissimi dei fermati vennero portati nella caserma di via Guido Reni e in Questura dove arrivò la seconda razione». 

Lei venne picchiato? 

«Io no ma, adesso lo posso confessare tanto dopo 50 anni sarà prescritto: tirai un mattone dall’alto e colpii in testa un agente, uno dei pochi che non aveva l’elmetto. Si sparse la voce che alcuni poliziotti erano gravemente feriti e io mi sentivo un po’ in colpa, mi chiedevo: vuoi vedere che ho fatto male a qualcuno? Pensa un po’ che rivoluzionario irriducibile ero». 

E dopo la mattonata che ha fatto? 

«Ero lì con la mia fidanzata Grazia, che poi sarebbe diventata la mia prima moglie e madre di mio figlio, che si slogò la caviglia alla prima carica. Non poteva camminare e quindi la misi sulle spalle come un sacco di patate e giù a scappare verso Villa Borghese. Arrivai a casa mezzo morto. Aprii l’acqua bollente e mi feci un bagno caldo». 

Al calduccio come i figli di papà che Pier Paolo Pasolini attaccò difendendo i poliziotti figli del popolo? 

«Quella poesia mi fece incazzare. Conoscevo Pasolini perché veniva spesso a casa nostra, al quartiere Trieste, per parlare con mio padre di progetti comuni. Ma a differenza di tanti attori e registi che mi salutavano per educazione, affetto o convenienza, lui niente, non diceva nemmeno Ciao. Io aprivo la porta e lui: Dov’è tuo padre? Allora andai da mia madre e le dissi: Mamma, ma chi è quel frocio? Lei mi assestò un salutare sganassone e io imparai la lezione». 

Lei già cantava? 

«La prima chitarra me la regalò mio padre, alla fine degli anni Cinquanta. Fu Dario Fo che veniva sempre ospite da noi a dire a papà: Paolo ha una bella voce, compragli una chitarra. Iniziai con le filastrocche. In verità non ho mai scritto canzoni, ma solo raccontato fatti con un po’ di musica». 

I leader del movimento studentesco li conosceva? 

«Con Giuliano Ferrara stavamo tutti e due nel Pci e, un po’ di nascosto, nel Movimento che il partito non vedeva di buon occhio. Oreste Scalzone era da poco tornato dalla Svezia dove - secondo me - era andato per rimorchiare. Franco Piperno era più grande e faceva il capetto. Poi c’erano gli Uccelli e io li detestavo. Una volta andarono a casa dello sceneggiatore Franco Solinas e gli riempirono la casa di escrementi perché lui era ricco e comunista». 

Fantasia al potere? 

«Durante le occupazioni si organizzavano corsi alternativi. Io proponevo cose tipo Studiare meglio il latino o I nuovi percorsi di filologia romanza e non partecipava nessuno, mentre c’erano quelli sul sesso libero che erano sempre pieni. Del resto, questo è il mio destino: ogni volta che mi piace qualcosa state sicuri che sarà un clamoroso insuccesso». 

Di questo ‘68 che è rimasto? 

«Eravamo sicuri, che fosse l’alba, che poi sarebbe tutto cambiato. Invece non era l’alba ma il tramonto. Lo spiraglio che avevamo visto non si stava aprendo ma chiudendo. L’industria culturale, per prima, sigillò tutto. Il peso fu opprimente, poi arrivò la violenza degli anni 70». 

Il sogno ha lasciato qualche segno? 

«Qualche segno e molte sconfitte. Non si è realizzato nessun sogno né personalmente né collettivamente. Ma ha lasciato molte amicizie e un modo di sentire comune. Ma se ancora oggi, 50 anni dopo, stiamo a discutere di colore della pelle, mi viene da piangere». 

 1968, Valle Giulia non è che il debutto, scrive Paolo Delgado l'1 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Ogni movimento ha bisogno di una sua mitologia. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968: “la battaglia di valle Giulia”. Ogni movimento ha bisogno di una sua mitologia, deve attrezzare il suo proprio calendario, celebrare ricorrenze, allestire liturgie. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni e passa mezzo secolo fa il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968, il battesimo del fuoco fu “la battaglia di valle Giulia”. La chiamarono così i giornali del Pci, L’Unità, uscito in edizione straordinaria quando per le strade di Roma ancora risuonavano le sirene della polizia e le celle di San Vitale erano ancora piene di studenti fermato negli scontro della mattinata, di fronte alla facoltà di Architettura, e Paese Sera, che usciva di norma tre volte al giorno e non ebbe quindi bisogno di forzare le rotative con un’edizione speciale. Anni dopo, ripercorrendo i fatti, Oreste Scalzone, all’epoca uno dei principali leader del movimento studentesco nella capitale, avrebbe adoperati toni dissacranti, segnalando che in fondo la battaglia era stata poca cosa, soprattutto se paragonata a quel che sarebbe poi esploso nelle strade di tutta Italia: «Un’ora scarsa di lanci di sassi e qualche carica contro la polizia. Cosa anche questa modesta ma che ebbe grande impatto». La narrazione epica in voga negli anni ‘ 70, costruita sulle note della celebre canzone dedicata alla “battaglia” da Paolo Pietrangeli era probabilmente esagerata. La minimizzazione di Scalzone lo è altrettanto. In quella assolata mattina di tardo inverno romano si produsse davvero una lacerazione, quegli scontri durati un paio d’ore nei prati intorno a Valle Giulia segnarono davvero uno scarto, un passaggio d fase, un salto di qualità. In un certo senso non è esagerato dire che il ‘ 68 cominciò quel giorno. Nell’università di Roma, la più grande d’Italia, la mobilitazione studentesca iniziata nel novembre 1967 a Torino, nella sede delle facoltà umanistiche di Palazzo Campana, e poi dilagata quasi ovunque era arrivata tardi. Mentre le cronache degli sgombri delle facoltà occupate da parte della polizia e delle nuove occupazioni diventavano quotidiane alla Sapienza e nelle facoltà aldi fuori della città universitaria, tra le quali Architettura, non si muoveva una foglia. L’onda d’urto arrivò solo il 2 febbraio ‘ 68, con l’occupazione di Lettere e poi, una via l’altra di tutte le altre facoltà. L’occupazione si prolungò per un mese esatto, poi il rettore D’Avack si decise a chiedere l’intervento della polizia, o meglio a consentirlo perché una circolare ministeriale diramata dopo le prime occupazioni aveva chiarito che a decidere sarebbe stata la forza pubblica salvo esplicito parere contrario dei rettori. Anno bisestile: l’università fu sgombrata il 29 febbraio. Una manifestazione di protesta organizzata dagli ormai ex occupanti fu caricata nel pomeriggio. Gli studenti si riunirono in serata nella sede della Federazione del Pci, in via dei Frentani, e convocarono una nuova manifestazione per la mattina seguente, con partenza da piazza di Spagna. Non era la prima volta che i manganelli della celere si abbattevano sulla testa degli studenti. Ai tempi erano corti e tozzi e gli agenti non disponevano dell’armamentario che gli sarebbe stato assegnato in dotazione l’anno seguente, insieme ai nuovi manganelli lunghi: gli scudi in plexiglas, le visiere, l’incentivo ad adoperare senza parsimonia i candelotti lacrimogeni. Pur peggio armati, si erano dati da fare più volte. A Palazzo Campana lo sgombro seguito da immediata rioccupazione e nuova irruzione degli agenti, in una catena infinita, era diventato quasi un rituale. La carica sui cortei di protesta degli sloggiati era altrettanto puntuale, prevedibile, prevista. A Valle Giulia successe però l’imprevedibile. Gli studenti reagirono, contrattaccarono, scoprirono che strade e parati erano pieni di “armi improprie” e le usarono. Aveva cominciato Massimiliano Fuksas, un passato da giovane neofascista spostatosi a sinistra alle spalle, un futuro da archistar di fronte, ancora avvolto nelle Nuvole. Ben piazzato, provò a forzare il blocco della polizia sulla porta della facoltà da solo poco prima che il corteo in arrivo da piazza di Spagna, qualche migliaio di studenti tra cui molti medi, raggiungesse la scalinata della facoltà. A riguardare oggi le istantanee di quella non oceanica manifestazione sembra di assistere a un inedito reality: il corteo dei famosi. Immortalato Giuliano Ferrara, che si prese la sua dose di botte, poi sparsi qua e là per il grande piazzale di Valle Giulia, Enrica Bonaccorti, Paolo Liguori, o come si chiamava ai tempi “Straccio”, con i capelli lunghissimi, un paolo Mieli appena meno compassato, Ernesto Galli della Loggia, sì sì proprio il futuro editorialista del Corrierone, un Antonello Venditti in anticipo sui primi accordi, Renato Nicolini, già leader di un’associazione goliardica vicina al Pci, Paolo Flores d’Arcais. Già innervositi gli agenti ordinarono la carica quasi subito, al primo lancio di sassi e uova. Per quanto negato in seguito per anni, a reggere il primo l’urto furono i fascisti. Caravella, l’associazione studentesca di estrema destra a stretta egemonia Avanguardia nazionale c’era tutta: Stefano Delle Chiaie, Guido Paglia, Adriano Tilgher, Mario Merlino. Quanto a scontri frontali erano più addestrati dei rossi: tennero la linea. La loro presenza fu cancellata peggio che nelle fotografie sovietiche dei funerali di Lenin per decenni. Riconoscere che a valle Giulia i fascisti non solo c’erano, ma erano pure in prima fila nella battaglia sarebbe stato poco conciliabile con la liturgia del caso. Ma anche il Movimento, la sera prima, aveva deciso di non limitarsi alla fuga e alla resistenza passiva. Arretrati in un primo momento rispetto ai fascisti, si lanciarono poi in una carica contro i caricanti che lasciò davvero tutti sbigottiti. Quando mai si erano visti gli studenti, mica portuali come quelli del ‘ 60 a Genova, oppure operaiacci come quelli di piazza Statuto a Torino nel ‘ 62, caricare gli agenti, usare rami e bastoni contro i gipponi, tenere botta di fronte alle cariche? Ancora quella mattina gli striscioni del corteo in marcia verso valle Giulia esaltavano il “Potere studentesco”. Il Movimento bersagliava l’università, le baronie, l’autoritarismo accademico e poi, di conseguenza, la struttura complessiva del sistema. Da Valle Giulia in poi dall’altra parte della barricata ci fu direttamente lo Stato.

Il 68 ci ha rubato il futuro, scrive il 27 febbraio 2018 Francesco Giubilei su "Il Giornale". Il 1 marzo ricorrono i cinquant’anni dagli scontri di Valle Giulia a Roma, un evento che ha segnato simbolicamente l’avvento del Sessantotto nel nostro paese. Le proteste sessantottine demoliscono i valori su cui si è fondata l’Italia fino a quel momento compiendo un attacco ai due elementi cardine della società: la famiglia e la scuola. Come scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale” di domenica: “la rivolta del ’68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre […] ogni autorità perse autorevolezza e credibilità”. La delegittimazione del ruolo del padre si accompagna a un attacco tout court alla famiglia attraverso temi considerati un tabù (l’aborto, il divorzio, la liberazione sessuale). Le conseguenze più funeste del Sessantotto avvengono nel mondo della scuola e dell’università dove il concetto del sei politico diventa una prassi che si è tramandata fino ai nostri giorni con l’abbassamento complessivo sia della preparazione del corpo docenti che degli studenti. Il Sessantotto si fonda infatti sul grande equivoco dell’egualitarismo: tutti dobbiamo avere le stesse opportunità di partenza ma se una persona è più meritevole di un’altra va premiata. Più in generale è stata tutta la società ad essere sovvertita: il Sessantotto ci ha fatto scoprire i diritti ma dimenticare i doveri. Le regole vengono concepite come un qualcosa di cui si può fare a meno, una mentalità sintetizzata dallo slogan “vietato vietare”. Anche sul piano culturale le conseguenze del Sessantotto sono nefaste perché si crea un clima di conformismo dilagante: chi non la pensa come la maggioranza e non si omologa al pensiero dominante viene emarginato, escluso e ghettizzato suscitando un odio che sfocerà nei terribili anni di piombo. Un pensiero caratterizzato dal predominio del politicamente corretto di cui, non a caso, la nostra società è figlia ed è proprio negli anni successivi al Sessantotto che il concetto gramsciano di egemonia culturale si realizza a pieno titolo nel mondo della scuola, dell’università e della cultura portando l’ideologia nei libri di testo e orientando i programmi scolastici in senso progressista, in particolare nella filosofia, nella storia e letteratura. Ma soprattutto, e mi rivolgo in particolare ai miei coetanei, ai giovani nati e cresciuti nell’Italia postsessantottina, il Sessantotto ci ha rubato il futuro. La società in cui viviamo è figlia delle proteste studentesche, la classe dirigente che ci ha governato negli ultimi anni con risultati fallimentari si è formata nella scuola sessantottina. Nell’illusione di volere sempre più diritti ci siamo ritrovati a non averne più. Così, nell’Italia del 2018, il vero rivoluzionario è chi si oppone ai principi sessantottini e lotta per una società fondata sul merito, il rispetto delle regole e dell’autorità.

La battaglia di Valle Giulia 50 anni dopo, scrive Edoardo Frittoli il 28 febbraio 2018 su "Panorama". Tutto cominciò a causa dell'altissima tensione seguita allo sgombero della Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, a Valle Giulia. Il palazzo era rimasto occupato per quasi un mese dagli studenti in lotta e il 29 febbraio 1968 il Rettore Pietro Agostino D'Avack aveva deciso di richiedere l'intervento della forza pubblica per procedere allo sgombero. La decisione era giunta mentre le occupazioni degli Atenei italiani si erano moltiplicate, così come era cresciuta l'ostilità tra gli studenti in agitazione e quelli contrari all'occupazione. Durante quei giorni di massima tensione, il quadro della protesta universitaria aveva raggiunto l'apice di ben 25 Università occupate, da Trento a Palermo. Iniziamo dalle ore immediatamente precedenti la battaglia più famosa della storia della contestazione studentesca.

Università degli Studi di Milano, mattina del 29 febbraio 1968. Botte, sassi, vetri infranti, idranti antincendio in azione in Via Festa del Perdono di fronte ai portoni d'ingresso delle Facoltà di Lettere e Giurisprudenza. Niente polizia questa volta: lo scontro si consuma tra occupanti di Lettere e Filosofia e rappresentanti di destra giunti dalla Facoltà di Giurisprudenza contrari all'occupazione decisa il giorno prima nell'Aula Magna della Statale. Gli studenti di legge si presentano di fronte ai picchetti d'ingresso e comincia lo scontro fisico, dilagato anche nelle vie adiacenti l'Università tanto da indurre i negozianti ad abbassare le saracinesche. La guerriglia prosegue con gli occupanti che usano gli idranti antincendio per respingere i "fascisti", che inizialmente arretrano ma alla fine riescono a sfondare con blocchi di cemento un ingresso secondario. Si teme il peggio, ma in realtà il contatto non avviene e gli studenti di destra si rinchiudono in un'aula separati dai loro avversari.

Città Universitaria di Roma, 29 febbraio 1968. Molto diversa e sicuramente più drammatica la situazione a Roma: lo sgombero si era consumato come richiesto dal Rettore, ed aveva coinvolto un ingentissimo numero di agenti tra Polizia e Carabinieri in assetto da guerriglia. Guidati da ben 30 funzionari si presentarono 1.500 uomini alle porte delle Facoltà occupate, procedendo allo sgombero forzato delle Facoltà di Scienze Politiche, Lettere e Giurisprudenza, con il Vicequestore Prudenza che, a bordo di una camionetta, intimava con il megafono la resa agli occupanti. Assieme alle forze dell'ordine, quella mattina di 50 anni fa, erano presenti anche gli studenti di destra di "Primula Goliardica" e "La Caravella", armati di bastoni e catene. Verso la fine della giornata sono sgomberate anche le Facoltà di Lettere e Architettura, dove vengono posti in stato di fermo oltre 80 studenti. Con i portoni chiusi dai catenacci messi dalle forze dell'ordine, un corteo di studenti si dirige verso il centro della Capitale. Imboccata via Nazionale vengono a contatto con gli agenti che caricano e lanciano le jeep della Celere nei consueti caroselli. Uno studente rimane ferito dopo essere stato investito e alla fine della giornata si conteranno 10 persone in ospedale tra studenti, passanti e forze dell'ordine.

La battaglia di Valle Giulia: Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Roma: 1 marzo 1968. Il giorno dopo gli sgomberi voluti dal Rettore D'Avack, sulle scalinate di Architettura a Valle Giulia stazionano 150 agenti a protezione del portone d'ingresso. Come ricordato sopra, gli studenti (circa 3.000) arrivarono in corteo provenienti da Piazza di Spagna, dividendosi in due. Una parte dei manifestanti piegò verso la Città universitaria mentre il grosso del corteo si diresse dritto verso Architettura a Valle Giulia, la Facoltà più isolata. Con gli studenti di sinistra sfilarono quel giorno anche i rappresentanti dei movimenti di estrema destra Avanguardia Nazionale e La Caravella, in virtù di un accordo di non-provocazione tra le due fazioni studentesche. Tra i neofascisti decisi a combattere per cambiare l'Università "dei borghesi" nomi di primissimo piano della galassia nera come Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Mario Merlino, Giulio Caradonna. Tra i rappresentanti del movimento studentesco che diventeranno personaggi preminenti nella storia futura d'Italia Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Liguori, Aldo Brandirali, Oreste Scalzone. Davanti alle gradinate di Architettura la scintilla dello scontro alimentata dal lancio di uova, dagli slogan e dalle provocazione tra le due parti, scocca quasi subito. Partono le prime cariche della Polizia, ma gli studenti questa volta fanno sul serio. Inizia la fitta sassaiola sul piazzale antistante la Facoltà; due auto e un pullman della Celere vengono dati alle fiamme per impedire lo sfondamento da parte delle forze dell'ordine. Cadono i primi feriti e la superiorità numerica dagli studenti provoca l'arretramento dei cordoni di Polizia. Alcuni manifestanti riescono ad impadronirsi di 5 pistole sottratte ai funzionari, la situazione degenera. La Polizia carica anche con i cavalli cercando di rispondere alla forza degli studenti che dopo oltre 2 ore di violenti scontri riescono a penetrare all'interno di Architettura, proprio mentre arrivano i rinforzi di Polizia con gli idranti a schiuma e i lacrimogeni. Gli studenti di estrema destra riusciranno ad entrare nelle aule di Giurisprudenza. Sono rimasti sul campo 197 feriti, un bilancio da guerriglia urbana. Di questi ben 150 fanno parte delle forze dell'ordine, tra i quali figura anche il Vicequestore Provenza, colpito da una pietra scagliata dagli studenti.

Dalle fratture traumatiche alla frattura politica. Pasolini, Il PCI e il MSI dopo la battaglia. La Polizia riuscirà a riprendere il controllo della piazza solo con l'intervento degli idranti e con un fitto lancio di lacrimogeni, procedendo al fermo ed all'arresto dei manifestanti fino a tarda notte. La scarpata erbosa di fronte al palazzo rossiccio della Facoltà di Giurisprudenza mostrava i segni della lunga battaglia tra gli universitari e i poliziotti, che Pasolini difenderà all'indomani degli scontri identificando i figli di quei "contadini del mezzogiorno" come veri rappresentanti del proletariato, assaliti con violenza dai figli privilegiati dei borghesi. Valle Giulia rappresenterà una cesura definitiva tra gli studenti e i partiti politici di riferimento, sia a destra che a sinistra. Il Partito Comunista non intendeva assecondare lo spontaneismo e i miti stranieri (Mao e Che Guevara) fuori dai canoni interni e ai diktat della dirigenza, procedendo nei mesi seguenti a numerose espulsioni dalle proprie organizzazioni giovanili. Dall'altra parte la frattura è netta anche tra il Movimento Sociale Italiano e l'azione rivoluzionaria di giovani neofascisti dei primi movimenti extraparlamentari che caratterizzeranno il decennio successivo. Arturo Michelini, allora segretario missino, prese immediatamente le distanze di chi aveva combattuto a fianco dei "rossi", anche per il pericolo che queste azioni "di squadra" potessero influenzare negativamente il tentativo da parte della dirigenza del partito di rientrare gradualmente nell'arco costituzionale. Questa frattura sarà così profonda da spingere Michelini all'organizzazione di una "forza a difesa dell'ordine" che due settimane dopo gli scontri di Valle Giulia intervenne con la forza contro gli studenti che avevano di nuovo occupato, guidata da Giorgio Almirante.

L'impatto di Valle Giulia in Parlamento. Poco dopo la fine degli scontri parlò il Ministro dell'Interno, il democristiano Paolo Emilio Taviani. Rivolgendosi alla Camera dei Deputati il ministro difende a spada tratta l'operato della Polizia in difesa delle istituzioni dell'Italia democratica in senso ampio. Nel suo discorso rievoca la debolezza della forza pubblica ricordando la debolezza mostrata in occasione della Marcia su Roma e dall'opportunità lasciata al fascismo in quell'occasione. Fu interrotto dal deputato comunista Bronzuto, che apostrofò i membri del Governo come una "manica di fascisti" per la brutalità dell'intervento della forza pubblica. I missini si univano alle proteste in aula ed a riportare la calma toccherà ad uno dei protagonisti storici dell'antifascismo italiano, l'allora Vicepresidente della Camera Sandro Pertini. Chiamato in causa, il Ministro dell'Istruzione Luigi Gui metteva le mani avanti affermando che la riforma dell'Università (ancora da discutere e approvare) avrebbe certamente incluso una rappresentanza dei collettivi degli studenti. Mentre le urla e le accuse dei rappresentanti in Parlamento si spegnevano a fatica, i comitati studenteschi si davano appuntamento per una nuova manifestazione a Piazza del Popolo, che si svolgerà il giorno seguente gli scontri di Valle Giulia senza registrare particolari incidenti. Anche a Milano, al di là di qualche tafferuglio alla Statale tra studenti di destra e sinistra, sembrò tornare la calma alimentata dalla pausa del Carnevale ambrosiano. Tregua che naturalmente non durerà a lungo.

I dieci danni che ci lasciò il '68. Mezzo secolo fa l'arroganza del (presunto) contropotere generò la dittatura chiamata "politicamente corretto", scrive Marcello Veneziani, Domenica 25/02/2018, su "Il Giornale".  Sono passati cinquant'anni dal '68 ma gli effetti di quella nube tossica così mitizzata si vedono ancora. Li riassumo in dieci eredità che sono poi il referto del nostro oggi.

SFASCISTA. Per cominciare, il '68 lasciò una formidabile carica distruttiva: l'ebbrezza di demolire o cupio dissolvi, il pensiero negativo, il desiderio di decostruire, il Gran Rifiuto. Basta, No, fuori, via, anti, rabbia, contro, furono le parole chiave, esclamative dell'epoca. Il potere destituente. Non a caso si chiamò Contestazione globale perché fu la globalizzazione destruens, l'affermazione di sé tramite la negazione del contesto, del sistema, delle istituzioni, dell'arte e della storia. Lo sfascismo diventò poi il nuovo collante sociale in forma di protesta, imprecazione, invettiva, e infine di antipolitica. Viviamo tra le macerie dello sfascismo.

PARRICIDA. La rivolta del '68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre. Inteso come pater familias, come patriarcato, come patria, come Santo Padre, come Padrone, come docente, come autorità. Il '68 fu il movimento del parricidio gioioso, la festa per l'uccisione simbolica del padre e di chi ne fa le veci. Ogni autorità perse autorevolezza e credibilità, l'educazione fu rigettata come costrizione, la tradizione fu respinta come mistificazione, la vecchiaia fu ridicolizzata come rancida e retrò, il vecchio perse aura e rispetto e si fece ingombro, intralcio, ramo secco. Grottesca eredità se si considera che oggi viviamo in una società di vecchi. Il giovanilismo di allora era comprensibile, il giovanilismo in una società anziana è ridicolo e penoso nel suo autolesionismo e nei suoi camuffamenti.

INFANTILE. Di contro, il '68 scatenò la sindrome del Bambino Perenne, giocoso e irresponsabile. Che nel nome della sua creatività e del suo genio, decretato per autoacclamazione, rifiuta le responsabilità del futuro, oltre che quelle del passato. La società senza padre diventò società senza figli; ecco la generazione dei figli permanenti, autocreati e autogestiti che non abdicano alla loro adolescenza per far spazio ai bambini veri. Peter Pan si fa egocentrico e narcisista. Il collettivismo originario del '68 diventò soggettivismo puerile, emozionale con relativo culto dell'Io. La denatalità, l'aborto e l'oltraggio alla vecchiaia trovano qui il loro alibi.

ARROGANTE. Che fa rima con ignorante. Ognuno in virtù della sua età e del suo ruolo di Contestatore si sentiva in diritto di giudicare il mondo e il sapere, nel nome di un'ignoranza costituente, rivoluzionaria. Il '68 sciolse il nesso tra diritti e doveri, tra desideri e sacrifici, tra libertà e limiti, tra meriti e risultati, tra responsabilità e potere, oltre che tra giovani e vecchi, tra sesso e procreazione, tra storia e natura, tra l'ebbrezza effimera della rottura e la gioia delle cose durevoli.

ESTREMISTA. Dopo il '68 vennero gli anni di piombo, le violenze, il terrorismo. Non fu uno sbocco automatico e globale del '68 ma uno dei suoi esiti più significativi. L'arroganza di quel clima si cristallizzò in prevaricazione e aggressione verso chi non si conformava al nuovo conformismo radicale. Dal '68 derivò l'onda estremista che si abbeverò di modelli esotici: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Castro e Che Guevara, l'Africa e il Black power. Il '68 fu la scuola dell'obbligo della rivolta; poi i più decisi scelsero i licei della violenza, fino al master in terrorismo. Il '68 non lasciò eventi memorabili ma avvelenò il clima, non produsse rivoluzioni politiche o economiche ma mutazioni di costume e di mentalità.

TOSSICO. Un altro versante del '68 preferì alle canne fumanti delle P38 le canne fumate e anche peggio. Ai carnivori della violenza politica si affiancarono così gli erbivori della droga. Il filone hippy e la cultura radical, preesistenti al '68, si incontrarono con l'onda permissiva e trasgressiva del Movimento e prese fuoco con l'hashish, l'lsd e altri allucinogeni. Lasciò una lunga scia di disadattati, dipendenti, disperati. L'ideologia notturna del '68 fu dionisiaca, fondata sulla libertà sfrenata, sulla trasgressione illimitata, sul bere, fumare, bucarsi, far notte e sesso libero. Anche questo non fu l'esito principale del '68 ma una diramazione minore o uscita laterale.

CONFORMISTA. L'esito principale del '68, la sua eredità maggiore, fu l'affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il '68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario. Attaccarono la tradizione che non era alleata del potere capitalistico ma era l'ultimo argine al suo dilagare. Così i credenti, i connazionali, i cittadini furono ridotti a consumatori, gaudenti e single. Il '68 spostò la rivoluzione sul privato, nella sfera sessuale e famigliare, nei rapporti tra le generazioni, nel lessico e nei costumi.

RIDUTTIVO. Il '68 trascinò ogni storia, religione, scienza e pensiero nel tribunale del presente. Tutto venne ridotto all'attualità, perfino i classici venivano rigettati o accettati se attualizzabili, se parlavano al presente in modo adeguato. Era l'unico criterio di valore. Questa gigantesca riduzione all'attualità, alterata dalle lenti ideologiche, ha generato il presentismo, la rimozione della storia, la dimenticanza del passato; e poi la perdita del futuro, nel culto immediato dell'odierno, tribunale supremo per giudicare ogni tempo, ogni evento e ogni storia.

NEOBIGOTTO. Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il '68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il '68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto un altro punto di vista. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il p.c. è il rococò del '68.

SMISURATO. Cosa lascia infine il '68? L'apologia dello sconfinamento in ogni campo. Sconfinano i popoli, i sessi, i luoghi. Si rompono gli argini, si perdono i limiti e le frontiere, il senso della misura e della norma, unica garanzia che la libertà non sconfini nel caos, la mia sfera invade la tua. Lo sconfinamento, che i greci temevano come hybris, la passione per l'illimitato, per la mutazione incessante; la natura soggiace ai desideri, la realtà stuprata dall'utopia, il sogno e la fantasia che pretendono di cancellare la vita vera e le sue imperfezioni... Questi sono i danni (e altri ce ne sarebbero), ma non ci sono pregi, eredità positive del '68? Certo, le conquiste femminili, i diritti civili e del lavoro, la sensibilità ambientale, l'effervescenza del clima e altro... Ma i pregi ve li diranno in tanti. Io vi ho raccontato l'altra faccia in ombra del '68. Noi, per dirla con un autore che piaceva ai sessantottini, Bertolt Brecht, ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. Alla fine, i trasgressivi siamo noi.

Marcello Veneziani Editorialista del Tempo, sul '68 ha scritto Rovesciare il '68 (Mondadori, anche in Oscar, 2008)

«Così noi Uccelli occupammo la cupola del Borromini e iniziò il sessantotto», scrive Simona Musco il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Paolo Ramundo era il leader degli “Uccelli”, che organizzarono il blitz a Sant’Ivo alla Sapienza. Diciannove febbraio 1968: tre studenti di architettura occupano il campanile di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma. Sono gli “Uccelli” Paolo Ramundo, Gianfranco Moltedo e Martino Branca, all’epoca 26enni, coloro che portano gli studenti fuori dalle aule, liberandoli dalle discussioni fini a se stesse e dando di fatto via al ‘ 68. «Volevamo prenderci i luoghi guardando al presente. La nostra fu una rivoluzione culturale», racconta al Dubbio Ramundo.

Come nascono gli “Uccelli”?

«C’eravamo incontrati a capodanno, a una festa sulla Flaminia. Abbiamo continuato a frequentarci, vedendoci spesso in facoltà. Allora c’erano già delle presenze assembleari e la cosa ci coinvolgeva, ma avevamo una notevole autonomia rispetto a come venivano presentati nelle assemblee il movimento e la lotta degli studenti. Sentivamo che era un tema importante, però non ci piaceva che gli studenti stessero lì seduti ad ascoltare sempre le stesse persone, che facevano le loro riflessioni e rimandavano alla prossima assemblea. Era una cosa legata a un futuro ideologico e lontano. A noi interessava che questa agitazione spingesse gli studenti a prendersi i luoghi che in quel momento avevano vissuto in modo convenzionale e a saperli usare. Per noi si doveva fare già subito. Così, quando si parlava troppo, noi protestavamo fischiando e salendo sugli alberi. Così ci hanno dato questo soprannome. Ci chiamavano hippie: avevamo i capelli lunghissimi, mentre gli altri erano tutti più convenzionali, legati al ceto medio-alto».

Come nasce l’occupazione del campanile?

«Avevo seguito molto Paolo Portoghesi, grande studioso del Barocco, di Borromini e dell’architettura innovativa del 600. Conoscevamo quindi bene Sant’Ivo, prima sede universitaria della città. Quando ci fu un dissenso con alcuni leader del movimento, che ci fecero cacciare dalla facoltà, pensammo: siamo cacciati fuori, facciamo uscire anche gli altri studenti. Così andammo da Portoghesi, che in quel periodo faceva dei sopralluoghi con gli studenti a Sant’Ivo e accettò di portarci a visitare il luogo».

Senza sapere quale fosse la vostra intenzione.

«Esatto. Volevamo essere rilevanti, non semplicemente vederlo. Volevamo suscitasse attenzione da parte degli studenti e dei cittadini. Portoghesi ci fece salire fino alla guglia: il posto era straordinario. Appena arrivati disse: “allora, scendiamo?”. Ma noi dicemmo no, vogliamo che questo luogo, che era stato archiviato, venga completamente valorizzato, conosciuto e vissuto. Lui rimase sbalordito»

Come passaste quella notte?

«Faceva freddissimo. Rimanemmo fino al pomeriggio del 20. Gli studenti di tutte le facoltà vennero lì, in piazza Sant’Eustachio e corso Rinascimento, e si misero a cantare e ballare con le fiaccole. Era un momento di grande soddisfazione: per la prima volta giovani studenti fecero un’iniziativa nella città».

Quindi si può dire che avete dato inizio al ‘ 68?

«Sì. Iniziò così, con questa tensione verso l’importanza di essere presenti all’interno della società e conoscere le nostre aspettative, le condizioni che criticavamo e volevamo cambiare. Che poi sono tutte cambiate, perché il ‘ 68 ha generato un grande movimento di cambiamento. Noi dicevamo: non dobbiamo parlare di un futuro lontano, dobbiamo parlare subito di tutte le situazioni di cui ci vogliamo occupare, per far sì che ci sia subito un processo di cambiamento democratico dal basso».

Quali erano le questioni che vi stavano più a cuore?

«I processi relativi all’urbanistica, l’architettura, l’arte: dovevano essere super partecipati e democraticamente collegati alla società in cui ci trovavamo. Bisogna- va smettere di pensare alla divisione del lavoro e alle tendenze autoritarie. Tutto doveva diventare fortemente democratico. C’erano tanti temi sulle procedure con cui fare delle scelte, l’importanza della relazione tra le persone. L’architetto, ad esempio, non poteva stare da solo in dipendenza di un costruttore, ma doveva essere prima di tutto in relazione con le finalità di quello che veniva programmato. Se si doveva fare una scuola si doveva coinvolgere direttamente i cittadini su come farla, dove collocarla. Prima tutto veniva imposto dall’alto, quindi i processi democratici erano assolutamente da sviluppare. Le donne, ad esempio, che in università avevano un ruolo subalterno ai maschi, dovevano rivendicare la loro autonomia, tant’è vero che da quelle tensioni nacque il movimento femminista per affrontare i diritti che erano scritti sulle nostre normative costituzionali, ma non erano messi in pratica».

Qualche giorno dopo ci fu Valle Giulia. Quale fu il vostro contributo?

«Sicuramente abbiamo generato quella iniziativa. Siccome la facoltà di architettura era stata chiusa dal governo autoritario accademico, con la polizia a controllare l’accesso, gli studenti ti avevano organizzato un corteo da piazza di Spagna fino a via Gramsci, dove c’era la sede della facoltà. Non avevano programmato di fare guerriglia, si erano semplicemente dati appuntamento per marciare e reclamarne l’apertura. Ma all’interno del movimento c’erano dei provocatori. Qualcuno andò a bruciare una macchina della polizia e si creò uno stato di tensione che portò a corse lungo le discese di villa Valle Giulia, inseguimenti, spinte, botte, calci. Ma fu una cosa generata dall’autoritarismo del rettore».

E gli “Uccelli” cosa fecero?

«Stavamo in facoltà, avevamo delle pecore con noi, comprate con il contributo di alcuni intellettuali con lo scopo di sottolineare l’importanza del verde, degli spazi non costruiti, la cosiddetta agropoli. Quando cominciarono queste corse ci allontanammo e i carabinieri ci fecero passare. Il giorno dopo sacrificammo una pecora sull’altare della pace, un gesto simbolico per purificare da quella violenza, che era nata dall’autoritarismo. La strada, però, non era quella della violenza, ma era legata alla partecipazione, al coinvolgimento, alla relazione con le forze politiche, per fare sì che ci fossero dei cambiamenti, non per limitarci a fare qualche scazzottata».

Cosa accadde dopo?

«Abbiamo continuato ad essere presenti: facemmo un disegno sulla facoltà con Guttuso perché volevamo appropriarci dei luoghi in cui studiavamo. Non potevamo essere marginali e passivi, dovevamo metterci in relazione col mondo culturale e interessarlo al movimento dei giovani. Era la prima volta che a fare qualcosa non erano le categorie sociali ma i giovani. E questa è stata la nostra grande conquista».

Quando il Sessantotto finì nelle ideologie, risponde Aldo Cazzullo il 7 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Caro Aldo, già cominciano le rievocazioni. Ma ha ancora senso processare il ‘68? Filiberto Piccini, Pisa.

Caro Filiberto, La discussione sul ‘68 l’hanno sempre fatta i sessantottini: spesso celebrandosi, talora abiurando. Avrebbero diritto di parola anche le generazioni precedenti e successive. In Italia com’è noto il ‘68 è durato dieci anni, sino al caso Moro. I miei ricordi di bambino sono scanditi dagli scontri di piazza e dagli omicidi di terroristi rossi e neri. Certo la rivolta non è stata solo questo; ma negare che ci sia un nesso tra il ‘68 e gli anni di piombo mi pare arduo. Più tardi ho cercato, intervistando centinaia di protagonisti, in fabbrica e in questura, ai vertici Fininvest e in galera, di trovare un senso a quel che era accaduto. Mi sono fatto questa idea. A un’esplosione libertaria, che ha portato a un sano cambiamento dei costumi, dei rapporti tra le persone, del ruolo della donna, è seguito un irrigidimento dogmatico in una parte non trascurabile del movimento. Lo slancio dei giovani finì ingabbiato nelle due ideologie del Novecento, il comunismo e il fascismo, destinate a estinguersi da lì a pochi anni. I giovani di sinistra consideravano il Pci compromesso con la democrazia borghese, e si proponevano di proseguire il compito cui Togliatti e Berlinguer avevano rinunciato: la rivoluzione, come in Cina più che come in Russia. Qualche ex di Lotta continua ha il vezzo di dire di non essere mai stato comunista. Farebbe meglio a dire di essere sempre stato contro il Pci; ma i militanti di Lotta continua erano convinti di essere loro i veri comunisti. Qualcosa del genere, su scala più ridotta, accadde a destra nei confronti del Msi di Almirante, considerato filoatlantico, filoisraeliano, mercatista. Il risultato fu una mimesi della guerra civile, che lasciò sul terreno troppo odio e troppi morti. Di quella generazione salvo una cosa: l’idea, coltivata da molti, che si potesse essere felici soltanto tutti assieme, affidando la vita alla politica. La sconfitta è stata dura: qualcuno è finito nel terrorismo, qualcuno nella droga, qualcuno è rimasto in fabbrica negli anni della restaurazione. La generazione successiva, quella del riflusso (che è poi la mia), ha creduto che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto; e anche noi siamo andati incontro alla disillusione, con questo senso di solitudine esistenziale che ci portiamo dentro.

Il Sessantotto non è ancora finito. È stato un processo, non una serie circoscritta di eventi. Solo con la riflessione storica si esce dalla morsa tra nostalgia e rimozione, scrive Umberto Gentiloni il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Il Sessantotto tra i tanti anniversari a cifra tonda del 2018 sembra mantenere il suo carattere divisivo a partire dalle declinazioni semantiche che lo qualificano: fedeltà o rimozione, modernità o conservazione, soggettività o distanza. Difficile uscire da una morsa che ha accompagnato il corso del mezzo secolo che abbiamo alle spalle, riconducibile al paradigma opprimente del «passato che non passa» ripresentandosi sotto mentite spoglie di memorie contrapposte o in forme apertamente conflittuali. Da un lato la nostalgia del come eravamo, la cifra di una generazione che segnata dagli appuntamenti con la storia in un anno così ricco di novità cerca di mantenere saldi legami con un tempo che le appartiene. Un’ancora di certezze e rimpianti che mostra lo straordinario fascino di poter riavvolgere il nastro di un itinerario fatto di storie, biografie, luoghi e situazioni. Dall’altro la critica che punta a ridimensionare, rimuovere, demolire un patrimonio di memorie e riferimenti comuni che ha attraversato un tratto di storia dell’Occidente. In mezzo lo spazio stretto e difficile della storicizzazione: giudizi, interpretazioni, confronti a partire dalla complessità di un passaggio del dopoguerra che più che un evento isolabile o circoscrivibile prende le sembianze di un processo dal passo lungo che si manifesta con modalità e tempi diversi in tanti angoli del pianeta. Uno spazio di analisi e riflessioni ricco di fonti plurali qualificato da interrogativi che vanno ben al di là del perimetro degli eventi del 1968. Decisivo non smarrire i punti di partenza nella società di allora. Ne ha scritto Guido Crainz  nell’ultima puntata di questo confronto a più voci: cosa erano la scuola e l’università italiana? Da dove prende corpo l’anno delle rivolte? Quali contraddizioni si scaricano sul sistema formativo incapace di reggere l’urto della scolarizzazione di massa? Il ’68 degli studenti si lega all’autunno caldo dell’anno successivo, all’emergere di una conflittualità operaia che ha un’identità politica (salari e contratti) e generazionale (una nuova classe operaia entrata in fabbrica). Una specificità italiana il nesso e l’incontro tra studenti e operai, tra l’università e la fabbrica, tra il 1968 e il 1969.

La discontinuità più incisiva e duratura chiama in causa l’aspetto qualitativo dell’innovazione: consumi diffusi, benessere individuale, ricerca di nuove aperture verso mondi emergenti, scoperta di un tempo libero dal lavoro, cura di sé e del proprio corpo. Il conflitto da latente diventa manifesto, esplicito. Un crinale tra due mondi, al tramonto del vecchio non corrisponde una coerente e sinergica opera di rinnovamento. Molto rimane in vita, resiste e si conserva, altro muta parzialmente per poi trovare nuovi spazi, altro ancora viene travolto dal protagonismo di soggettività inedite. La frattura è trasversale, tra opportunità e chiusure, tra generazioni diverse, tra chi riesce a beneficiare delle trasformazioni e chi invece rimane emarginato, escluso e mortificato. Speranze e illusioni muovono uomini e donne verso la ricerca di nuove possibilità in grado di rompere gabbie e condizionamenti della stratificazione sociale di partenza. La disperata ricerca di una mobilità possibile. Una tensione costante che non si riassorbe trovando con il tempo nuovi interpreti non riconducibili alla indiscussa (fino ad allora) centralità del binomio amico - nemico imposta dal riflesso condizionato dell’ordine della guerra fredda. Il rapporto tra individuo e collettività entra in fibrillazione, le strutture tradizionali non soddisfano le aspirazioni di tanti: ha inizio una parabola discendente per partiti, organizzazioni collettive, sindacati o associazioni. Difficile trovare un punto di equilibrio tra la sfera della soggettività individuale che chiede sempre di più e meglio e le forme di espressione e organizzazione della collettività. Più si afferma la prima e più sembra irragionevole e irrealistico proporre l’articolazione di una società per gruppi o identità omogenee, figlie di un tempo che volge alla conclusione.

Per almeno due decenni sono mancate ricostruzioni storiche basate su documentazione non episodica o limitata. Uno studioso attento come Peppino Ortoleva si domandava - nel 1988 in occasione del ventennale - quali fossero i motivi dell’assenza di un quadro di riferimento in grado di rompere la morsa tra condanna senza appelli e revival nostalgici di chi voleva tornare alla meglio gioventù di allora (“I movimenti del ’68 in Europa e in America”, Editori Riuniti). Il Sessantotto nella sua lunga durata non può che coinvolgere direttamente una riflessione più generale sul dopoguerra italiano, sul ruolo dei movimenti, sul peso di una stagione segnata dal protagonismo di soggettività e culture inedite. Una riflessione pienamente inserita nelle dinamiche del sistema internazionale. Se sfumano i ricordi, se si affievolisce il rimpianto per un tempo lontano allora prendono corpo gli interrogativi e le ipotesi interpretative sulle grandi questioni che il Sessantotto solleva e proietta sull’Italia e, in un’ottica più ampia, sulle trasformazioni di un mondo inquieto. Il terremoto nel mondo comunista, la repressione violenta del riformismo cecoslovacco segna la fine di Mosca come guida indiscussa del movimento comunista internazionale. E sull’altro versante la sporca guerra in Vietnam indebolisce i presupposti del mito americano rendendolo vulnerabile e incerto. I modelli di riferimento perdono terreno, mostrano il volto contraddittorio del confronto bipolare. L’inizio della fine dei partiti si sovrappone e si accompagna ai primi i sintomi diffusi sulla inadeguatezza del confronto Est-Ovest.

La controversa questione dei lasciti di una stagione non è riconducibile alle dinamiche di un singolo contesto nazionale. Prevalgono i caratteri distintivi di un fenomeno globale quali «l’ampiezza geografica e la simultaneità temporale» (Marcello Flores, Alberto De Bernardi, “Il Sessantotto”, Mulino 1998.) In Italia il Sessantotto si lega a una crisi più generale del sistema politico, all’indebolimento inesorabile della capacità dei partiti di essere tramite e filtro tra cittadini e istituzioni. La fine della centralità di formazioni politiche che avevano percorso i decenni del dopoguerra con la consapevolezza di essere i soggetti principali di una dialettica capace di includere e coinvolgere settori diversi della società italiana. Gli stessi partiti di massa non sono in grado di comprendere la portata del fenomeno: alcuni ne raccoglieranno l’eredità altri, soprattutto nella sinistra storica, avranno i benefici dell’ingresso di nuovi quadri dirigenti, ma il movimento rimane ostile alla cultura e all’organizzazione dei partiti.

Aldo Moro aveva colto il segno di un tempo nuovo, scrive del Sessantotto più volte fino ai suoi ultimi giorni. Verso la fine dell’anno in un Consiglio nazionale della Dc (21 Novembre 1968) aveva pronunciato parole impegnative e per molti versi inascoltate: «Siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno ormai più le stesse».

Non date la colpa al ’68. Nella contestazione si confusero differenti umori e pulsioni. Ma non c’è alcun rapporto con gli anni Ottanta e con i disastri dell’oggi, scrive Guido Crainz l'1 febbraio 2018 su "L'Espresso". Dimensione nazionale e internazionale si intrecciano ma forse è bene prendere avvio da realtà concrete, evitando il rischio (sessantottino?) dell’ideologia. E per discutere realmente del nostro ’68, per comprenderne coralità e impatto, non dovremmo dimenticare mai come era la scuola italiana alla sua vigilia, nel vivo di una scolarizzazione di massa tumultuosa: gli studenti delle superiori erano il 10 per cento di quella fascia di età nel 1951, quasi il 40 per cento nel 1967; gli universitari erano 230 mila nel 1958, 550 mila dieci anni dopo. Una scolarizzazione di massa che avveniva in una fase di intensa circolazione internazionale di idee e suggestioni, in contrasto stridente con una arretrata “cultura docente” molto diffusa: si vedano le testimonianze di insegnanti raccolte allora da Marzio Barbagli e Marcello Dei (“Le vestali della classe media”, da leggere assieme alla “Lettera” di don Milani). «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall’alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: lo scriveva nel 1966 il giornale dei giovani di Azione cattolica, mentre provocava bufere e processi il giornalino del liceo Parini di Milano per un’inchiesta su «quel che pensano le ragazze d’oggi». E il giudice inquirente chiedeva di sottoporre i suoi autori a una umiliante visita medica in base ad una disposizione fascista sui reati dei minori. In quello stesso periodo iniziavano ad estendersi le occupazioni delle Facoltà, a partire da Architettura, e Camilla Cederna ne dava conto proprio su “L’Espresso”. «Sono stanchi di copiare il Partenone», titolava nel febbraio del 1965, e non era solo una coloritura giornalistica: gli studenti chiedevano l’introduzione di materie ancora ignorate dai piani di studio come Storia dell’architettura moderna e Urbanistica (in un’Italia ormai invasa dalla speculazione edilizia). In un manifesto-simbolo del ’68, quello degli studenti torinesi, vi è l’elenco dei “controcorsi” avviati nell’Università occupata, dedicati a temi ancora esclusi dall’insegnamento: Filosofia delle scienze, Scuola e società, Pedagogia del dissenso, Psicoanalisi e repressione sociale, Imperialismo e sviluppo sociale in America latina...La critica del ’68 all’Università fu certo impietosa ma non era molto diversa l’analisi di un commentatore come Alberto Ronchey, che pur chiedeva di «Offrire un’alternativa agli errori degli studenti». Ed enumerava le ragioni di una crisi partendo da Roma: «60.000 studenti, 300 professori» (si riferisce ai professori ordinari, detentori esclusivi di ogni potere: non era improprio definirli “baroni”). E poi: «La seconda crisi riguarda gli uomini. Prima il professore era il re, adesso il re è nudo. La terza crisi discende dall’insegnamento dispotico, elusivo o muto sui temi che interessano gli studenti»; e poi ancora «le comunicazioni di massa, che rendono vicino ogni evento del mondo», «la rottura di linguaggio tra le generazioni», la crisi dei «partiti, i rapporti fra Stato e società e civile (...). L’ultima generazione non vede un disegno del tipo di società verso cui vogliamo andare» (“La Stampa”, 18 febbraio 1968). Poco dopo Giorgio Bocca annotava: in pochi mesi «si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata», e che dall’Università «escono dei giovani incapaci di esercitare una professione». Nel rapido dilagare del movimento studentesco differenti umori e pulsioni convissero e parvero quasi fondersi (ha ragione Roberto Esposito): anticonformismo e impegno politico, laicizzazione e solidarismo sociale, insofferenza per arretratezze anacronistiche e aspirazioni a profondi rivolgimenti, mentre la realtà del Paese dava molti argomenti a chi vedeva in ogni ingiustizia una “ingiustizia di classe”. E bisognerebbe ricordare la realtà delle fabbriche di allora, nell’intrecciarsi di forme di sfruttamento talora brutali, discriminazioni inique, illibertà (solo nel 1970 lo Statuto dei lavoratori vi introdurrà la Costituzione, come si disse): vedere “imborghesimento” in quegli operai è una licenza filosofica che non condivido. Certo, la coralità dei primi mesi iniziò progressivamente ad incrinarsi e la radicalizzazione ideologica rapidamente prevalse. Ad essa contribuirono anche la balbettante ottusità del potere accademico, il succedersi di interventi repressivi sproporzionati e l’assenza di un’azione riformatrice (fu la politica a mancare in Italia, non il ’68 a distruggerla: in Francia fu varata in pochi mesi la riforma Faure, che avviò la modernizzazione degli atenei e pose rapidamente fine alle proteste studentesche). E vi contribuì poi una radicalizzazione più generale: il 1969 sarà segnato dall’ “autunno caldo” sindacale e dalla strage di Piazza Fontana, con l’avvio di una drammatica “strategia della tensione”. In quel clima declinò - colpevolmente - l’impegno del movimento a rinnovare l’Università, considerata sempre più area di reclutamento per i gruppi extraparlamentari in formazione. Con l’infittirsi degli interventi in fabbriche e quartieri, e con il dilagare di una vecchissima (e disastrosa) ideologia: abbandonata la fase innovativa degli inizi, ha scritto Vittorio Foa, «straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero». Fu lasciata così cadere la suggestiva idea, pur avanzata, di dar corpo a una “Università critica”: base d’avvio di una «lunga marcia attraverso le istituzioni» volta a innovare saperi e professioni; e a «ridefinire la politica», per usare l’espressione di Carlo Donolo. Non mancarono neppure disincanti e ripiegamenti ma non è riducibile a questi estremi la spallata data allora ad un’Italia arcaica: da quei fermenti venne un più generale impulso alla modernizzazione civile, ad una più ampia concezione dei diritti, ad una maggiore sensibilità sociale. Si incrinò anche così il tradizionale profilo del ceto medio italiano, profondamente segnato sin lì da apatie e conservatorismi. Naturalmente il passaggio dalla prima fase a quella successiva non può essere rimosso (e costringe a interrogare criticamente anche i mesi “aurorali”) ma non mi sembra fondato schiacciare gli anni Sessanta sugli anni Ottanta, e neppure sugli anni Settanta (la contrapposizione del “movimento del ’77” agli operai, sprezzati come “garantiti”, è l’esatto opposto del sessantottesco “operai e studenti uniti nella lotta”). Né mi sembra fondato il «rapporto stretto» che Orsina intravede fra il ’68 e tutti i disastri dell’oggi, in uno scenario nazionale e internazionale squassato da allora in ogni sua parte. E nella nostra lettura complessiva è possibile continuare a ignorare gli studenti della Cecoslovacchia e della Polonia (o della Jugoslavia, con le divaricanti tensioni che vi comparvero), giustamente ed efficacemente evocati su queste pagine da Wlodek Goldkorn e da Gigi Riva? Nel ’68 di Praga e di Varsavia si ebbe la conferma definitiva che il “socialismo realizzato” non era riformabile e presero avvio anche da lì alcuni degli esili ma straordinari fili che porteranno all’89. Continueremo a considerarla “un’altra storia”?

1968: tragica illusione o vera rivoluzione? E' stato l'anno della catastrofe o quello che ha fatto saltare per sempre tutti gli equilibri? Mezzo secolo dopo, le posizioni restano inconciliabili. Da Hoellebeq al Papa, tra critica e nostalgia, scrive Federico Marconi il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". Che cos’è stato il Sessantotto? Mezzo secolo dopo non si contano i giudizi su uno degli anni che più hanno influito sulla nostra storia. Libertà e creatività, immaginazione e fantasia, contestazione e ribellione sono gli elementi di una “rivoluzione” che ha trasformato la politica, la società e il costume. Ma quali risultati hanno raggiunto quei ragazzi coi capelli lunghi che occupavano le università e volevano farla finita con l’autorità, i valori tradizionali, il sapere borghese?

In molti si sono chiesti se il ’68 abbia avuto successo. E c’è chi è convinto di sì. Mario Perniola, il filosofo appena scomparso, ha visto gli ideali del ’68 realizzati da uno che sessantottino non è mai stato: Silvio Berlusconi. L’idea l’ha espressa nel 2011 in un pamphlet paradossale e provocatorio: “Berlusconi o il ’68 realizzato”: il berlusconismo avrebbe fatto propri gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, e il suo sfacciato neoliberismo non sarebbe altro che l’esito della rottura rappresentata da quell’anno. Una realizzazione del ’68 postuma che dà tutto il potere non all’immaginazione, ma all’intrattenimento. Rivincita di quell’allegria e di quella spinta creativa che, per Edmondo Berselli in “Adulti con riserva”, sono state sacrificate sull’altare della seriosità sessantottina. Ma c’è anche chi considera la contestazione studentesca non una svolta progressista ma reazionaria, con la riproposizione di modelli autoritari.

Lo storico tedesco Götz Aly in “Unser Kampf” ha scritto che la generazione del ’68 condivide moltissimi elementi con quella che nel 1933 ha portò al potere Hitler. La contestazione di fine anni ’60, secondo Aly, è stata solo un epifenomeno del totalitarismo, che non avrebbe nemmeno portato alla tanto decantata liberazione della morale e dei costumi, visto che quel processo era già cominciato negli anni ’50.

Sulla stessa linea Alessandro Bertante, che in “Contro il ’68” definisce quella ribellione come «una clamorosa e tragica illusione», spezzata dalla repressione poliziesca e dalle bombe fasciste. Alcuni ragazzi hanno preso poi la strada dell’eversione armata. Altri sono tornati nell’ambito sociale di provenienza, la tanto odiata borghesia, dando ragione a Eugène Ionesco, che gridava agli studenti del maggio francese: «Tornate a casa! Tanto diventerete tutti notai!».

“Notai” ignoranti, secondo Indro Montanelli: «Vidi nascere dal Sessantotto una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita italiana portando ovunque i segni della propria ignoranza». Ma, come tutti i “notai”, ricchi: i sessantottini hanno un reddito più alto delle altre generazioni, confermano gli studi della Banca d’Italia sul bilancio delle famiglie. L’economista Riccardo Puglisi lo ha evidenziato in un articolo nel 2013, che si chiudeva con la proposta di «rottamarli tutti». E tra coloro che gli hanno dato ragione c’è stato anche uno che nel 1968 era un maoista che finanziava il movimento smerciando libri rubati, e che oggi invece è conosciuto come il sondaggista di Porta a Porta. «Sì, rottamateci tutti» ha risposto Renato Mannheimer, pur difendendo le «innovazioni che il Sessantotto ha portato in Italia».

Uno che si sente ancora un sessantottino è Toni Negri, intellettuale, militante e ideologo della sinistra extra-parlamentare tra gli anni ’60 e ’80. In una recente intervista ha detto che «il Sessantotto ha fatto saltare tutti gli equilibri», e per questo gli si è risposto con una cultura reazionaria che ancora oggi lo odia e rifiuta. Ma non ci sono solo i nostalgici.

Critici e detrattori si rincorrono non solo in Italia, ma anche Oltralpe. Come Michel Houellebecq che, nel romanzo “Le particelle elementari”, descrive il ’68 come l’anno della catastrofe, che ha lasciato solo miseria, individualismo e violenza: un’uscita che non gli è ancora stata perdonata. E assai critica è stata anche la recente rilettura dell’anno da parte di Papa Francesco: parlando agli ambasciatori i cui Paesi hanno rappresentanza presso la Santa Sede, il pontefice ha detto che «in seguito ai sommovimenti sociali del Sessantotto, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di nuovi diritti, non di rado in contrapposizione tra loro». Col rischio di una «colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a danno dei più poveri e dei più deboli».

La provocazione: il 1968 è stato l'anno in cui è nato il rancore. La contestazione chiedeva più politica. Invece ha prodotto la crisi, più egoismo, la rabbia di oggi. Uno storico apre il dibattito, scrive Giovanni Orsina il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". Il Sessantotto compie mezzo secolo in un periodo nel quale la politica è in grande difficoltà. I segnali sono numerosi, e si presentano in quasi tutte le democrazie avanzate: dalla presidenza Trump alla Brexit, dalla scarsa partecipazione alle elezioni francesi al successo elettorale di Alternative für Deutschland e allo stallo politico in Germania, per arrivare all’infelice condizione della vita pubblica nostrana. Questi sono – appunto – segnali: non cause, ma sintomi d’una crisi storica. Il cinquantenario del Sessantotto ci dà l’occasione per chiederci quale sia il rapporto fra gli eventi di mezzo secolo fa e il travaglio politico dei nostri tempi. La risposta è che un rapporto non soltanto c’è, ma è stretto: il Sessantotto è uno snodo cruciale d’una vicenda pluridecennale che pare esser arrivata oggi alla sua piena maturazione. Ma come - si obietterà -, un anno stracolmo di politica come il 1968 diviene parte d’una storia che si conclude, sia pure cinque decenni dopo, con una crisi della politica? In effetti, nelle democrazie occidentali la contestazione sessantottina nasce anche dal desiderio di ribellarsi contro i limiti ch’erano stati imposti alla politica dopo il 1945. Il desiderio di ribellarsi contro il principio secondo cui alcuni àmbiti - a partire dalla vita famigliare - dovevano esser tenuti il più possibile separati dai conflitti pubblici. Al contrario: «il privato è politico!». Il desiderio di ribellarsi contro i limiti che le tecnocrazie e l’“oggettività” scientifica imponevano al pieno dispiegarsi della volontà umana di cambiamento. Al contrario: «vogliamo tutto!»; «siate realisti, chiedete l’impossibile!». Il Sessantotto, insomma, vuole più politica: la produzione d’uno sforzo di trasformazione collettiva profondo, radicale, impaziente d’ogni limite in estensione o intensità. Questo desiderio di azione collettiva, tuttavia, monta in un momento nel quale le grandi ideologie che avrebbero potuto orientare quell’azione sono ormai o del tutto defunte, o in profonda crisi. A cominciare dalla più rilevante fra di esse. Il marxismo, in una forma o nell’altra, è l’ideologia portante della contestazione sessantottina. Ma in quegli anni è già irrimediabilmente colpito dalla degenerazione del socialismo reale, e forse ancor di più dal successo delle economie capitalistiche occidentali, che ne falsifica una delle profezie cruciali: la proletarizzazione universale. Alla crisi dei grandi progetti di emancipazione collettiva fa da controcanto l’affermazione crescente del desiderio di emancipazione individuale: se non possiamo essere liberi insieme, almeno che lo sia io! Non per caso, uno dei pensatori più influenti del Sessantotto è Herbert Marcuse, intento a superare lo stallo del marxismo immaginando che il desiderio individuale possa fungere da leva rivoluzionaria. Se non che, il desiderio di liberazione individuale è destinato a entrare in conflitto col desiderio di liberazione collettiva - ossia con la politica. L’azione collettiva richiede organizzazione e disciplina: subordinazione delle aspirazioni personali agli scopi comuni. E tanto più ne richiede, quanto più ambiziosi sono i suoi obiettivi. Lo mette in evidenza già all’epoca uno dei critici più acuti del Sessantotto, Augusto Del Noce, parlando proprio di Marcuse: «una rivoluzione antipuritana è quel che egli sa proporre: un vero ferro di legno, per una ragione storica intrinseca … che il motivo puritano è essenziale a ogni posizione rivoluzionaria seria … Marcuse può perciò essere definito come il filosofo della decomposizione della rivoluzione». Là dove per “puritanesimo” bisogna intendere appunto la negazione di se stessi, dei propri desideri individuali, in vista d’un obiettivo rivoluzionario da raggiungere tutti insieme. Questa contraddizione è una delle ragioni, e non la minore, per le quali la contestazione sessantottina non riesce a dar vita a un movimento politico ampio e robusto, ma si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale. La contraddizione del resto era ben presente già ai protagonisti dell’epoca – a Rudi Dutschke, ad esempio, a Daniel Cohn-Bendit. Una delle organizzazioni più importanti del Sessantotto tedesco, la Lega degli studenti socialisti, si scioglie nel 1970 perché «se la liberazione della società non è possibile qui e ora», la Lega «dovrebbe almeno garantire democrazia ed emancipazione nel proprio ambito». Deve insomma emanciparsi da se stessa. Fra le due anime del movimento studentesco, quella marcusiana e quella stalinista, nel breve giro di qualche anno finisce così per prevalere largamente la prima, notava nel 1980 Nello Ajello in un libro dal titolo assai indicativo: “Il trionfo del privato”. È un Marcuse depoliticizzato, però: non la soddisfazione del desiderio individuale come strumento di rivoluzione politica - ma la soddisfazione del desiderio individuale punto e basta. La vicenda di «Lotta Continua», che Ajello analizza nelle pagine citate, mostra bene questo passaggio: intorno alla metà degli anni Settanta il giornale diventa «l’organo più rappresentativo di una mentalità giovanile di sinistra nella quale il conflitto fra “privato” e “politico” si sta concludendo con una larga vittoria del primo». Così scrive in quegli anni un lettore al giornale: «Siate realisti, domandate l’impossibile, dicevano i compagni del maggio francese. Bene, noi vogliamo essere felici». Nello stesso torno di tempo, secondo la studiosa americana Kristin Ross, si modifica la memoria del Sessantotto francese: del suo contenuto politico si perde il ricordo, mentre le sue componenti esistenziali e culturali si dilatano fino a occupare tutta la scena. La politicità del Sessantotto si scioglie quindi nel giro di pochi anni nell’affermarsi dell’individualismo? Piano: magari fosse così semplice. La spinta alla liberazione personale che cresce a partire dai tardi anni Sessanta - in forma come s’è detto prima politica e poi impolitica - ha comunque degli effetti politici di rilievo. Vediamo quali.

La politica “ufficiale” affronta quella spinta con «moderazione ragionevole» (l’espressione è dello storico britannico Arthur Marwick): ossia, dove possibile, cede alla pressione. Sia sul piano retorico: il socialdemocratico Willy Brandt, Cancelliere tedesco dal 1969, promette un «nuovo inizio», e di «osare più democrazia»; il liberale Valéry Giscard d’Estaing, Presidente francese dal 1974, dichiara di volere una «democrazia liberale avanzata». Sia - e soprattutto - sul piano pratico: gli anni Settanta, com’è ben noto, sono caratterizzati da un processo imponente di ampliamento dei diritti individuali, sia civili sia sociali, in tutte le democrazie avanzate.

Il desiderio diffuso di liberazione individuale e la scelta della politica “ufficiale” di soddisfarlo generano però dei contraccolpi. Tanto più che i diritti sociali costano, e che negli anni Settanta giunge al termine la straordinaria crescita economica postbellica. Politologi come Michel Crozier, Daniel Bell, Samuel Huntington cominciano a chiedersi quanto a lungo possa sostenersi una democrazia se l’elettorato chiede troppo. Al di là e al di qua dell’Atlantico studiosi e intellettuali come Christopher Lasch, Richard Sennett, Gilles Lipovetsky denunciano l’involuzione dell’“individuo desiderante” in un “narcisista” incapace di distinguere fra se stesso e la realtà; disconnesso da un passato e incapace d’immaginare un futuro; sovreccitato, autoreferenziale, e in definitiva profondamente infelice. Da grande scrittore e giornalista, nel 1976 Tom Wolfe fornisce un ritratto straordinario di questo narcisista in “The “Me” Decade”, Il decennio dell’Io. In Italia Augusto Del Noce, Nicola Matteucci, Gianni Baget Bozzo, fra gli altri, evidenziano i limiti e le contraddizioni della società «permissiva» o «radicale».

Di fronte al montare della “democrazia del narcisismo”, quella stessa politica “ufficiale” che ha ceduto alla pressione individualistica deve cominciare a tirare il freno. Non può però, o non vuole, affrontare direttamente gli elettori, prendendosi la responsabilità di dir loro con chiarezza che la festa è finita, e correndo magari il rischio di dover pagare il prezzo della propria sincerità. Fa allora in modo che i cittadini si trovino di fronte dei muri di altra natura, tecnica e non politica: le banche centrali, le autorità indipendenti, le istituzioni economiche internazionali, il sistema monetario europeo. E naturalmente - soprattutto a partire dal 1979-80, con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan - il mercato. Che è un Giano bifronte straordinario: da un lato, col moltiplicarsi dei consumi, soddisfa il narcisismo; dall’altro gli impone la dura disciplina della concorrenza. Reagan guarderà soprattutto alla faccia della gratificazione; Thatcher a quella del rigore: «l’economia è il metodo», dirà, «l’obiettivo è cambiare l’anima della nazione».

Sia quando cede alla richiesta di maggiore emancipazione individuale, sia quando demanda alle tecnocrazie o al mercato il compito di arginarla, tuttavia, la politica sega il ramo sul quale sta seduta. La politica infatti è azione collettiva: ma come potrà mai ricomporre la società individualistica che essa stessa contribuisce continuamente a frammentare? E la politica è esercizio del potere: ma quale potere potrà mai esercitare, se ha contribuito a trasferirne una buona parte a organismi non politici, nazionali e internazionali? A partire dai tardi anni Ottanta, poi, nelle democrazie avanzate la destra e la sinistra convergono in una sorta di “grande centro” ideologico fatto di diritti (il contributo della sinistra) e di mercato (il contributo della destra) - ma incardinato in tutti i casi sull’individuo. Anche il conflitto politico, così, deperisce. E gli elettori cominciano a chiedersi quali siano le loro reali possibilità di scelta.

Alcuni studiosi - Ronald Inglehart, Ulrich Beck, Anthony Giddens - già dalla metà degli anni Settanta hanno cominciato a immaginare la ricomposizione politica del caleidoscopio individualistico: individui “riflessivi”, ossia capaci di generare da se stessi la propria identità, avrebbero costruito liberamente e creativamente delle nuove aggregazioni collettive. Ora, è vero che da ultimo, nella nostra epoca, la politica si sta ricomponendo. Solo, lo sta facendo in una maniera ben diversa da come immaginavano quegli autori. Altro che individui riflessivi: cittadini convinti che la politica della liberazione individuale non li protegga più da un mondo sempre più complesso e incontrollabile si rifugiano nell’ultima ridotta identitaria possibile - l’identità del luogo di nascita -, aderendo a partiti sovranisti o localisti. Oppure costruiscono un’identità collettiva nuova, ma negativa, mescolando finalità e provenienze assai diverse in un calderone comune: il rancore contro quelli che a loro avviso dovrebbero proteggerli, e non lo fanno.

Il conflitto politico rinasce così fra Clinton - figlia del Sessantotto, per tanti versi - e Trump. Fra l’establishment politico che ha gradualmente preso forma negli ultimi cinquant’anni, il “grande centro” individualistico dei diritti e del mercato, e che non riesce a mantenere la promessa universale di emancipazione individuale dalla quale trae la propria legittimità. E quelli che, per ragioni economiche o culturali, denunciano il fallimento di quel grande centro e lo combattono.

Per parte loro, questi ultimi non sanno davvero quali alternative proporre - e quando ne propongono, sono o assai poco desiderabili o del tutto irrealistiche. Siamo sicuri però che questa mancanza di realismo sia un ostacolo sulla via del successo politico? Uno che delle contraddizioni della modernità qualcosa aveva pur capito, Fëdor Dostoevskij, già un secolo e mezzo fa scriveva: «“Abbiate pazienza, - vi grideranno, - rivoltarsi è impossibile; è come due per due fa quattro! La natura non vi consulta; non gliene importa nulla dei vostri desideri e se vi piacciano o non vi piacciano le sue leggi …”. Signore Iddio, ma che me ne importa delle leggi naturali e dell’aritmetica, quando per qualche ragione queste leggi e il due per due non mi piacciono? S’intende che questa muraglia non la sfonderò col capo, se davvero non avrò la forza di sfondarla, ma nemmeno l’accetterò, solamente perché ho una muraglia davanti e le forze non mi sono bastate». In fondo, è un altro modo per chiedere l’impossibile.

Sorpresa: il ’68 è stato liberale. Al di là degli slogan marxisti, le proteste giovanili hanno cambiato la società soprattutto nella cultura e nei costumi, scrive il 19 novembre 2017 Bernardo Valli su "L'Espresso”. Il 1968 è stato ricco di avvenimenti e nel 2018, ormai alle porte, le rievocazioni per il cinquantenario non mancheranno. Comincio in anticipo. L’occasione mi è offerta dalla discussione aperta a Parigi sull’opportunità di celebrare, come movimento liberale (non libertario) l’esecrato o mitico Maggio ’68 e dal trovarmi in questi giorni a Praga, dove mezzo secolo fa fui testimone dell’effimera “Primavera”. L’anno debuttò con la grande speranza emersa sulle rive della Moldava. Era il 5 gennaio, giorno della nomina a segretario del partito di Alexander Dubcek. In agosto arrivarono i carri armati sovietici. Il tentativo di introdurre la democrazia nel comunismo reale fallì, finì in tragedia, ma annunciò il funerale del repressore - vincitore del momento. Il funerale ufficiale avvenne soltanto una ventina d’anni dopo, con l’implosione dell’Urss, ma l’agonia senza ritorno iniziò nella meravigliosa cornice di questa città che riscopro invasa dai turisti e dalle pizzerie. Come nel ’38 la Cecoslovacchia era stata lasciata ai tedeschi di Hitler, trent’anni dopo fu lasciata ai sovietici. Un piccolo prezioso paese è una facile preda. L’America era impegnata altrove, in Estremo Oriente, dove subiva l’offensiva del Têt. I suoi soldati, mezzo milione di uomini del più potente esercito della Storia, scoprirono di avere i viet cong sotto il letto. Fu la sorpresa di fine gennaio ’68, in occasione del capodanno vietnamita. Gli americani riuscirono a neutralizzare l’attacco dei guerriglieri infiltratisi negli alti comandi e nelle caserme, ma capirono che dovevano andarsene. È quello che fecero quattro anni dopo. Il tempo per fare i bagagli. La grande armata, vittoriosa nella Seconda guerra mondiale, non sarebbe stata sconfitta militarmente, ma avrebbe dovuto presidiare per un tempo indeterminato il Sud Viet Nam con cinquecentomila uomini. Oltre ai guerriglieri sotto il letto a Saigon e a Hué, c’erano migliaia di manifestanti contro la guerra ogni giorno a Washington e a New York. Tutto questo equivaleva a una sconfitta. Nel marzo dello stesso anno, all’altra estremità del pianeta, nella Cuba di Fidel Castro, veniva promossa un’“offensiva rivoluzionaria”, vale a dire una più ampia collettivizzazione, tesa a colpire le attività della piccola borghesia urbana. Il comunismo caraibico accentuava l’impronta sovietica. Sempre nel ’68 erano ancora in piena attività le “guardie rosse” di Mao. La rivoluzione culturale, cominciata due anni prima, fu una lotta interna per il potere, ma allora appariva a molti giovani europei un fermento sociale che avrebbe condotto alla nascita di un “uomo nuovo”. Tutti questi avvenimenti suscitavano entusiasmi, illusioni, distorte visioni della realtà, e comunque alimentavano gli slogan scanditi sui boulevard parigini. Le sponde della Senna erano il teatro di una rivolta giovanile, poi seguita da scioperi operai, contro il potere, e in favore di tutti i movimenti, dai maoisti ai viet cong, ai cubani, visti come esempi di contropotere. Erano immagini lontane, quindi potevano essere idealizzate, in contraddizione con il carattere libertario del maggio ’68. Libertario e al tempo stesso liberale. Facevo allora la spola tra il Ponte Carlo sulla Moldava e il Quartiere Latino in riva alla Senna. Erano le due facce dell’Europa. I giovani cecoslovacchi non capivano l’opposizione a un regime democratico che era il loro obiettivo; i giovani francesi non capivano l’opposizione a un regime che si era liberato del capitalismo. Eppure gli uni e gli altri avevano in sostanza obiettivi liberali. Ed è proprio questo aspetto che potrebbe essere ricordato cinquant’ anni dopo. Lo slogan dominante sui boulevard era “proibito proibire”. Lo stesso poteva essere scandito sulla piazza Venceslav. Ma là arrivarono i carri armati. In vista del cinquantenario, a Parigi si discute appunto sull’opportunità di celebrare il Maggio ’68, visto, al di là della rivolta con tinte marxiste, come un movimento che ha favorito una nuova società più liberale, una trasformazione culturale e politica. Insomma allora il vecchio mondo fu ripulito da molte tradizioni e restrizioni. Rinnovò i costumi. Il carattere libertario è svanito mentre quello liberale, nel senso autentico della parola, ha lasciato le sue tracce.

SESSANTOTTO: quando invece del populismo dilagò la rivolta, scrive Piero Sansonetti il 7 gennaio 2018 su "Il Dubbio". È l’anno cruciale del secondo 900. Una forma di populismo ma che niente ha a che vedere con quello di oggi. Il 1968 è stato l’anno di svolta nella storia del dopoguerra, in tutto l’Occidente, ma anche ad Est. In questi giorni sono usciti diversi articoli su vari giornali (soprattutto sui giornali di destra) nei quali si chiede di rinunciare alle commemorazioni. Benissimo, rinunciamo alle commemorazioni, ma non vedo proprio perché non dovremmo cogliere l’occasione del cinquantesimo anniversario per tornare a ragionare su quell’anno cruciale, che con la sua intensità sociale e politica ha modificato il percorso della storia. È un anno che non ha eguali nella seconda metà del novecento. Non ho mai capito perché, almeno da un po’ di tempo, l’idea di parlare di storia, e soprattutto del nostro recente passato, viene vista come una noiosa strampalatezza di un pugno di nostalgici. Penso che sia esattamente il contrario: la voglia di dimenticare i fatti che hanno influito sulle nostre vite – che hanno cambiato cultura, abitudini, modo di pensare e di agire – è un desiderio un po’ da cretini. Ed è forse una delle ragioni di un certo decadimento della nostra intellettualità, che chiunque avverte. Il 1968 è stato un anno specialissimo per tre ragioni.

La prima è l’ampiezza della rivolta che si è sviluppata in quell’anno contro le classi dirigenti e il sistema. Il ‘ 68 travolse gli Stati Uniti d’America, squassò l’Europa occidentale democratica, ma ebbe delle ripercussioni eccezionali anche nel mondo comunista e persino nei paesi autoritari di destra, come la Spagna, il Portogallo e alcuni paesi dell’America Latina.

La seconda ragione è il carattere generazionale della rivolta, che non solo non fu un limite ma, al contrario, moltiplicò la potenza del fenomeno, proiettandolo nel futuro.

La terza ragione è lo “spirito” originario del ’68, che poi negli anni seguenti si frantumò, in parte si ribaltò, comunque si spezzettò in mille rivoli, che portarono su sponde anche molto lontane. Lo “spirito” originario del ’68 è stato la contestazione delle gerarchie, e dunque del meccanismo essenziale che aveva governato il mondo fino a quel momento, e che regolava il potere, la distribuzione della ricchezza, i rapporti tra uomini e donne, la religione, la famiglia, la scuola, il sapere. La forza del ‘68 non risiedeva tanto nella improvvisa violenza della sua azione, e della sua contestazione, ma nella potenza rivoluzionaria di quel messaggio, che era qualcosa di molto più complesso delle vecchie rivendicazioni anarchiche. Ci sono migliaia di slogan del ’68. Molto diversi tra loro. Alcuni truculenti. (Ne ricordo uno che gridavamo spesso ai cortei: “È ora di giocare col sangue dei borghesi…”). Ma il vero slogan che riassume l’anima di quella rivolta è lo slogan più famoso del maggio francese: «E vietato vietare». Il ‘68 inizia come grandioso fenomeno libertario. Poi si piega su se stesso, si aggroviglia, e in moltissime sue espressioni ha un rinculo stalinista e autoritario. Se però immaginiamo il ‘68 solo come fenomeno di violenza politica e come anticamera della lotta armata, capiamo pochissimo di quello che è successo e di perché il ‘68 ha dilagato in territori molto lontani dal gruppetto di studenti e di intellettuali che lo innescò. Fino a coinvolgere, ad appassionare, e talvolta a travolgere pezzi molto vasti di classe operaia ma anche di borghesia moderata. Gli effetti più clamorosi del ’68 furono lo spostamento molto sensibile del senso comune conservatore, che ruppe gli argini, perse i punti di riferimento e le paure.

Fu un fenomeno populista? Certamente lo fu, ma quello sessantottino è un tipo di populismo di segno opposto a quello che conosciamo oggi. Oggi il populismo è una declinazione del qualunquismo, dell’antipolitica, della paura, anche dell’ignoranza. Non possiede nessuno spessore ideale, è chiuso in se stesso è rancoroso. Allora fu un fenomeno opposto: impegnato, molto politico, colto, con una componente fortissima – qui in Italia – di tipo cattolico, influenzata dalle grandi novità del Concilio. In comune con il populismo di oggi ha solo la domanda di rottura. Le risposte a questa domanda, però, sono opposte. Così come, in politica, sono opposte le spinte rivoluzionarie e quelle reazionarie. Il 1968 nasce sicuramente in America. Dove la rivolta dei neri e degli hippy era iniziata diversi anni prima. Aveva incendiato le città, i ghetti, i campus universi- tari. Aveva spinto possentemente a sinistra il kennedismo, che era nato come proposta di leggero e moderatissimo cambiamento e invece, con Bob Kennedy, aveva finito per avvicinarsi moltissimo al punto della rivolta. E però, curiosamente, se andiamo a controllare le cronologie, ci accorgiamo che il primo atto storico del sessantotto avviene all’Est. Precisamente il 5 gennaio (giusto ieri era il cinquantenario) con l’elezione di Alexander Dubcek alla segreteria del partito comunista cecoslovacco. Dubcek, 46 anni, intellettuale raffinato ma con un lungo passato di funzionario di partito, aveva riunito intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali quarantenni ed era riuscito a scalzare dal potere il vecchio Antonio Novotny, uomo legatissimo a Mosca. Iniziò così, in pieno inverno, la Primavera di Praga, e cioè un periodo di riforme e di grande mobilitazione politica, con un vastissimo sostegno popolare, che fu il più robusto e organico tentativo di ristrutturazione del socialismo. Dubcek, spinto dal vento libertario del sessantotto, introdusse il concetto di libertà come valore fondante del progetto socialista. E questa non era una modifica, o un aggiustamento: era il ribaltamento del castello ideologico costruito da Lenin in poi. Dubcek si convinse che i valori di libertà ed eguaglianza non sono valori in competizione ma possono integrarsi perfettamente. E’ impossibile immaginare oggi cosa sarebbe successo se il tentativo di Dubcek non fosse stato represso in modo brutale, e in parte inaspettato, dalle forze armate sovietiche. Cosa avrebbe portato, all’umanità, una competizione equilibrata tra capitalismo rooseveltiano e socialismo democratico. Non lo sapremo mai.

Il tentativo durò meno di otto mesi. La notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe del patto di Varsavia entrarono a Praga. Dubcek, insieme a Ludvick Svoboda, che era il presidente della Repubblica, fu portato a Mosca per chiarimenti, e poi deposto. Lo mandarono a fare l’impiegato in un ufficio, e riemerse solo dopo la caduta del Muro di Berlino. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, nel 1990. Era in visita in Italia e volle venire a cena con noi giornalisti dell’Unità, che lo avevamo intervistato un paio d’anni prima, quando era ancora in semi- clandestinità. Serio, timido, ma anche molto spiritoso e persino autoironico. Mi ricordo che ci raccontò una barzelletta forse non spiritosissima in assoluto, ma devastante perché raccontata da lui. La sintetizzo molto, perché era lunghissima: C’è una coppia che dorme a Praga la notte del 20 agosto. A un certo punto lei si sveglia e chiama il marito. Gli dice: “Ehi, cos’è questo sferragliare di camionette qui sotto casa?”. “Niente”, risponde lui, “sarà il mercato, ora dormi!”. Dopo mezz’ora lei lo sveglia ancora: “Ehi, sento dei colpi di cannone…”. Lui di nuovo la tranquillizza: “Sono tuoni, amore, dormi…”. Alle quattro del mattino la signora si affaccia alla finestra e grida: “Ci sono i carrarmati qui sotto, ci hanno invaso! ”. Lui resta tranquillo: “non aver paura, poi verranno i sovietici e ci libererano…”. E già, l’invasione fu una sorpresa. Non solo Dubceck era convinto che nel nuovo clima del ’68 i sovietici non avrebbero osato. Anche perché, nonostante tutto, Dubceck considerava i sovietici degli amici. Invece l’invasione ci fu e gelò il mondo. E’ vero che il ’68 fu un fenomeno essenzialmente occidentale. Ma se dovessimo mettere due date al suo inizio e alla sua fine, e cioè alla parabola del sogno sessantottino, prima che il ’68 si trasformasse, si incattivisse e in parte degenerasse, le date sono quelle lì di Dubcek: 5 gennaio e 20 agosto. E’ lì, quella notte, che finisce il sogno. Non solo dei cecoslovacchi, ma di tutti. Cioè di tutti quelli – americani, russi, polacchi, europei…- che avevano sperato nella riformabilità del potere. L’impermeabilità del socialismo alle riforme era lì a dimostrare questo: il potere non accetta di essere messo in discussione, tantomeno di mettersi in discussione da solo.

In Italia il ’68 inizia invece con un fatto tragico e che non ha molto a vedere, almeno all’inizio, con la politica: il terremoto del Belice. Avvenne nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, provocò circa 300 morti e rase al suolo decine di paesi della provincia di Trapani e di Agrigento. Gibellina scomparve. Ma adesso procediamo con la cadenza della cronologia. In ordine sparso 31 gennaio. In Vietnam inizia l’offensiva del Tet. Il Tet è il capodanno vietnamita. I vietcong e l’esercito del Nord, guidato dal mitico generale Nguyen Giap (che 15 anni prima aveva sbaragliato i francesi a Dien Bien Phu) attaccano tutte le principali città del Sud Vietnam. Muovono 800 mila uomini armati. E’ un successo militare clamoroso. Americani e Sudvietnamiti, sgomenti, reagiscono con ferocia. Il primo marzo, a Saigon, un generale sudvietnamita giustizia per strada, davanti al fotografo, un guerrigliero vietcong. La foto diventa famosissima.

1 marzo. E’ la vera e propria data d’inizio del 68 italiano. La battaglia di valle Giulia. Gli studenti attaccano la polizia che presidia la facoltà di Architettura, a Roma. Inizia un pomeriggio di fuoco. La polizia non si aspetta l’iniziativa spregiudicata e per molte ore non riesce a contenere la furia degli studenti. Guidati da Oreste Scalzone, da Sergio Petruccioli, da Massimiliano Fuksas, da Franco Russo. E con tanti ragazzini che non hanno nemmeno 18 anni, tra i quali i fotografi immortalano Giuliano Ferrara, figlio di Maurizio, direttore dell’Unità.

16 marzo. Una pattuglia di militanti del Msi, guidati da Giorgio Almirante, tentano di attaccare la facoltà di lettere, occupata dai “rossi”. Vengono messi in fuga, si rifugiano a Giurisprudenza, si barricano e tirano dal quarto piano un banco sui ragazzi che assediano la facoltà. Il banco prende in pieno il leader degli studenti, Oreste Scalzone, che è ridotto in fin di vita (si salverà ma porterà i postumi della botta per tutta la vita). Lo stesso giorno gli americani compiono in Vietnam l’azione più orrenda di tutta la guerra. Un gruppetto di marines, guidati da un certo tenente Calley, rade al suolo un piccolo paese (My Lai) e inizia a torturare e ad uccidere, uno ad uno, tutti gli abitanti. Ne manda al creatore 450, poi, all’improvviso, irrompe sulla scena un elicottero guidato da un giovane sottufficiale americano molto coraggioso. Si chiama Hugh Thompson. Atterra, imbraccia un bazooka e si frappone tra i marines e i vietnamiti. Punta il tenente Calley e gli dice: o vi ritirate o ti ammazzo. La spunta. Salva un centinaio di superstiti. La strage però viene nascosta per due anni, poi la scopre un giornalista dell’Associated Press. C’è un processo. Calley si prende l’ergastolo ma Nixon lo grazia.

4 aprile. A Memphis, in Tennessee, dove era andato per tenere un comizio, viene abbattuto con una fucilata Martin Luther King, il capo della rivolta pacifica nera. Tre anni prima era stato ucciso, a New York, Malcolm X, il capo della rivolta nera violenta. La morte di King scatena un’ondata di violenza nei ghetti. Molte decine di morti.

11 aprile. Dopo King è un altro leader del ‘ 68 a prendersi una revolverata: Rudy Ducke. E’ il capo degli studenti tedeschi. E’ un agitatore, un combattente, ma anche un intellettuale molto sofisticato. Gli sparano alla testa. Si salva, ma resta molte settimane tra la vita e la morte. Non si riprenderà mai del tutto, e morirà dopo dieci anni, per i postumi delle ferite.

Il 10 maggio parte la Francia. E il sessantotto raggiunge l’apice. Occupata la Sorbona. Scontri fino a notte nel quartiere latino.

13 maggio: un corteo immenso di studenti invade Parigi. Ci sono pure gli operai. Il movimento è guidato da un ragazzetto franco- tedesco, di appena 20 anni, che si chiama Daniel Cohn Bendit. Il ragazzo, Dany il rosso, fa tremare De Gaulle, il gigantesco De Gaulle, e fa temere che la rivoluzione sia davvero alle porte.

Il 5 giugno a Los Angeles viene ucciso Bob Kennedy. Stava per festeggiare il successo alle primarie della California. Era difficile che ottenesse la nomination, perché era partito troppo tardi, ma qualche speranza c’era. Kennedy ormai era diventato uno dei leader mondiali del 68, se avesse vinto, e avesse poi battuto Nixon, chissà come sarebbe andata la storia del mondo. Invece fu ucciso da un ragazzetto arabo di 24 anni. Che sta ancora in galera. Si chiama Shiran Shiran.

Del 20 agosto abbiamo già parlato, con la mazzata di Breznev e la fine della primavera di Praga.

Il 2 ottobre a città del Messico ancora gli studenti in piazza. La polizia spara in piazza delle Tre Culture, ne uccide cento. Un massacro che scuote il mondo, che ha gli occhi puntati sul Messico perché lì stanno per iniziare le Olimpiadi. Negli scontri resta ferita gravemente la giornalista italiana Oriana Fallaci.

13 ottobre. A Città del Messico iniziano le Olimpiadi. In un clima cupo e di conflitto.

17 ottobre. Tommie Smith, atleta nero americano, vince la medaglia d’oro sui 200 metri piani. Terzo arriva John Carlos, anche lui afroamericano. I due salgono sul podio della premiazione e alzano al cielo il pugno con un guanto nero. E’ il saluto dei Black Panther. Tutte le televisioni del mondo trasmettono questa scena. Nei quartieri neri americani è il delirio di entusiasmo.

Il 5 Novembre Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti. Ha sconfitto Hubert Humphrey, vicepresidente uscente e rappresentate molto moderato del partito democratico. La Casa Bianca, dopo 8 anni, torna ai repubblicani. Simbolicamente è una vittoria della restaurazione. In realtà negli Usa non cambia molto. Nixon è un falco in politica estera e una colomba in politica interna. Come Lyndon Johnson, il suo predecessore che ha lasciato le penne in Vietnam. La vera svolta conservatrice, in America, avverrà solo 12 anni dopo, con Ronald Reagan.

2 dicembre. Ancora sangue in Italia, Stavolta ad Avola, Sicilia. La polizia spara sui contadini che occupano le campagne. Due morti, molti feriti, molta rabbia, molti arresti. Manifestazioni di protesta in tutt’Italia.

31 dicembre. Il ‘68 se ne va con un’altra sparatoria. Alla Bussola, night club di Viareggio, gli studenti attaccano lanciando uova e pomodori sulle pellicce di quelli che festeggiano (come era successo tre settimane prima alla Scala di Milano). La polizia interviene. Si scatena la guerriglia. Tra gli studenti c’è il leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, e c’è anche uno studentello diciottenne della Normale di Pisa, che si chiama Massimo D’Alema. La polizia spara di nuovo. Un ragazzo di 17 anni, Soriano Ceccanti, è colpito alla schiena. Ancora oggi, Soriano sta in carrozzella, è rimasto paralizzato.

Che c’entra il ‘68 con i prof che chattano con gli studenti? Scrive Luciano Lanna il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Delle due l’una: o ci si rapporta criticamente con gli insegnanti e i genitori oppure si fanno saltare i confini generazionali. Nel 1968 s’era diffusa una massima che venne spontaneamente assunta a slogan dello spirito di quell’anno di trasformazioni: «Non fidarti di nessuno che abbia più di trent’anni». Era un monito ironicamente offerto come consiglio da Charlton Heston ai giovani e ribelli scimpanzé nel grande successo hollywoodiano di quell’anno, Il pianeta delle scimmie. Uno slogan che si trasformò via via in una modalità esistenziale e in un rapporto nuovo rapporto, dialettico e critico, nelle relazioni tra generazioni. Anche per questo non capiamo come si possa sostenere – l’abbiamo letto sul Messaggero a firma Marina Valensise, una giornalista e studiosa peraltro documentata e sofisticata – l’esistenza di un nesso tra alcune recenti denunce di molestie e abusi a scuola, in particolare relativi a casi riguardanti sconfinamenti in questa direzione tra professori e allievi, e la cultura del ’ 68. La quale, filologicamente, si muoveva semmai verso un altro orizzonte: quello della diffidenza o della messa in discussione critica rispetto alla presunta autorevolezza delle generazioni precedenti. Cosa c’entra, insomma, il non fidarsi più a scatola chiusa e il cominciare a verificare criticamente i rapporti con gli adulti, fossero essi genitori, professori, politici, che è uno dei portati storicamente più importanti del ’ 68, con quella «deriva erotico- sentimentale che abolisce ogni barriera tra docenti e discenti, confonde i confini tra un professore e l’allievo, travolge ogni limite di sicurezza, scardinando gli argini del rispetto umano e professionale»? Delle due l’una: o ci si rapporta criticamente con gli insegnanti e i genitori oppure, è il caso opposto, si fanno saltare i confini generazionali e si ipotizza come normale che con un docente si possa chattare come se si trattasse di un coetaneo.

Come tanti altri, sia ben chiaro, Marina Valensise mostra di non avere dubbi: «Abolire – scrive – la cortina del rispetto, squarciare il velo un tempo invalicabile che dovrebbe separare maestri e allievi è l’ennesimo frutto marcio prodotto dal ’ 68 e dalla cultura del ’ 68». Mostrando così di seguire la vulgata ormai egemone, e diffusa da anni a destra, a sinistra e al centro, secondo cui il Sessantotto – anno che viene trasformato in un feticcio, in una entità ideologica – da anno cronologico si trasforma nell’origine di tutti i mali, sociali, antropologiche, culturali. Nient’altro che in un’utopia, «inservibile e obsoleta – leggiamo ancora sul Messaggero – che in nome dell’uguaglianza, del ripudio delle forme, della guerra alla gerarchia e alle differenze ha finito per logorare la vita pubblica, privando il corpo sociale dei suoi anticorpi e delle valvole di sicurezza necessarie al suo funzionamento».

Niente di nuovo, in realtà. È la solita e trita litania sulla rovina della scuola, sul tramonto del principio di autorità, sulla fine della famiglia borghese, sull’eclisse della meritocrazia. Quando invece, e la storia stessa lo attesa, il ’ 68 fu più che altro la messa in discussione e lo scoperchiamento di tutta l’ipocrisia che aleggiava nella percezione vissuta di queste dimensioni sociali.

Non ci stupiamo comunque del fatto che la pubblicistica sia ricaduta nella ripetizione di questa lettura. Sin dal primo decennale, nel 1978, e a proseguire nei tre seguenti anniversari tondi, non è mancato il profluvio di lamentazioni postume all’insegna della massima “da allora tutto non fu più come prima”. Con il sospetto che davanti alle solite esortazioni del tipo “finiamola col sessantottismo”, “è tempo di archiviare la cultura del ’ 68”, sia più che legittimo il dubbio che in realtà si voglia parlar d’altro senza averne il coraggio e senza lo sforza dell’elaborazione di nuove categorie adeguate a interpretare la complessità dei fenomeni a noi contemporanei. È la scorciatoia del pensiero pigro: è facile trovare una causa generale per tutto ciò che non comprendiamo e di fronte a cui ci troviamo spiazzati. È come il personaggio di Alberto Sordi che di fronte ai suoi fallimenti diceva “io c’ho avuto la malattia” o “io ho passato la guerra”. Sarebbe invece il caso, ora che siamo al cinquantenario, di “storicizzare” finalmente il ’ 68, di raccontare cioè quell’anno, con tutte le sue “rotture”, per quel che è stato veramente. E di smetterla di presentarlo come un feticcio ideologico da utilizzare come causa di tutti i nostri mali.

Oltretutto, da allora è passato mezzo secolo, un periodo così lungo e complesso, attraversato da altre faglie e altri sommovimenti globali, che è davvero impossibile quando non fuorviante individuare – come nel caso da cui siamo partiti – nei fatti del ’ 68 l’origine di fenomeni del tutto inediti e spiegabili solo con processi davvero molto lontani da quell’anno. Cosa avrebbe a che fare, insomma, il chattare in rete in una dimensione orizzonte e privata tra docenti e studenti e le eventuali conseguenze con le intuizioni dell’anno vissuto all’insegna dell’immaginazione al potere? Un anno denso di eventi rivoluzionari come il Vietnam e le proteste contro la guerra, gli studenti contro la polizia a Valle Giulia, il Maggio francese, la Primavera di Praga, gli assassini di Martin Luther King e Robert Kennedy, le convenzioni per le elezioni americane che videro la vittoria di Nixon, la nascita del femminismo… «Con stupore ed entusiasmo – annota Mark Kurlansky nel fondamentale ’ 68. L’anno che ha fatto saltare il mondo (Mondadori) – si scoprì che a Praga, a Parigi, a Roma, in Messico, a New York, si stavano facendo le stesse cose. Grazie a nuovi strumenti quali i satelliti per le telecomunicazioni e i videotape, la televisione stava rendendo ognuno consapevole di quanto stavano gli altri. E questo era elettrizzante perché, per la prima volta nell’esperienza umana, eventi importanti e remoti erano vissuti in diretta». Questo, non altro, fu il ’ 68. Il professore che non solo dà ai suoi allievi del tu, ma pretende che glielo diano anche a lui, insieme con l’e-mail, al numero di cellulare e all’amicizia su Facebook per poterli chiamare a tutte le ore del giorno e della notte non capiamo cosa avrebbe dello “spirito del ’ 68”. Uno spirito che, semmai, muovendoci sul piano dell’immaginario andrebbe storicamente visto nella presenza e nel ruolo di un premio Nobel come Bob Dylan e di un intellettuale come Francesco Guccini nello scenario odierno. Queste sì, due vere “lezioni” viventi del Sessantotto.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

Le date.

A Roma Luciano Lama, segretario della Cgil, va all’università La Sapienza per un comizio. Viene contestato dagli studenti e i giovani di Autonomia Operaia assaltano il palco e costringono Pci e Cgil alla fuga. 17 febbraio 1977

Scontri all’università di Bologna. Francesco Lorusso, venticinque anni, militante di Lotta Continua, viene ucciso da un carabiniere. Seguono giorni di guerriglia urbana, Francesco Cossiga, ministro degli Interni, invia i blindati per presidiare il centro della città. Viene chiusa Radio Alice. 11 marzo.

A Roma la polizia sgombera l’università occupata dall’Autonomia. Nella giornata scoppiano scontri nel quartiere San Lorenzo, con lancio di molotov e colpi di pistola da parte dei manifestanti contro la polizia. Viene ucciso l’agente Settimio Passamonti, ventitré anni. 21 aprile.

A Roma durante una manifestazione scoppiano scontri con la polizia nei quali resta uccisa Giorgiana Masi, diciotto anni, studentessa. 12 maggio.

A Milano durante una manifestazione di protesta per la morte di Giorgiana Masi scoppiano nuovi scontri tra polizia e movimento. L’agente Antonio Custra, venticinque anni, viene ammazzato da un colpo di pistola. 14 maggio

A Milano un gruppo di brigatisti tende un agguato a Indro Montanelli. Viene colpito alle gambe con otto colpi di pistola. 2 giugno.

A Bologna convegno contro la repressione. Le diverse anime della contestazione si scontrano. C’è chi inneggia alla lotta armata. Di fatto è la fine del movimento. 23-25 settembre.

A Torino agguato a Carlo Casalegno, giornalista e vicedirettore de La Stampa. La colonna torinese delle Brigate Rosse gli spara al volto: morirà il 29 novembre dopo tredici giorni di agonia. 16 novembre

Tano D’Amico: «Gli anni Settanta, la lotta, le pistole, l’invisibile». Intervista di Cecilia Ferrara del 29 giugno 2017 su "Il Dubbio". Non è facilissimo intervistare Tano D’Amico, il fotografo dei movimenti degli anni 70. Non che non sia generoso e non si conceda, al contrario, ma non è un intervistato docile, non risponde alle domande che vuoi tu e come vuoi tu, divaga, non ti fissa un appuntamento perché dice di non sapere mai dove sarà: «La gente pensa che io stia tutto il giorno a casa. Non è così». In questo caldo mese di giugno però è stato possibile intercettarlo per quattro lunedì (il 3 luglio sarà l’ultimo appuntamento) da Zazie nel Metro, un bar del Pigneto a Roma Est che ha organizzato “I lunedì dell’immagine”, quattro incontri con Tano D’Amico per parlare di periferie, del ‘77 e del movimento delle donne. L’abbiamo incontrato prima dell’appuntamento intitolato “E’ stato sconfitto il 77?” e da prassi gli abbiamo chiesto cosa c’è stato prima degli anni Settanta, come ha iniziato a fare il fotografo. Si è subito ribellato: «Via, smettiamola con queste cose… – risponde irritato – Ti spiego: io ho sempre amato le immagini, ma di qui a pensare di fare il fotografo come mestiere ce ne passa. Non l’ho mai pensato, neanche negli anni Settanta. Semplicemente era il modo più adatto per me per vivere e per vedere quello che stava davanti ai miei occhi perché si formavano davanti a me immagini che non si erano mai viste. Io conoscevo un po’ la storia delle immagini e in quegli anni vedevo cose che non c’erano mai state. Non solo, si iniziava a vedere un “ceto” che prima non c’era mai stato, per la prima volta si affacciavano alla soglia della storia quelle persone che la storia l’avevano sempre subita: le donne che erano sempre passate per minoranza, i disoccupati, i senza casa, i carcerati, i pazzi, i senza potere».

Ha detto che ha iniziato a vedere immagini che non aveva mai visto, che differenza c’è in questo tra il Sessantotto e il Settantasette?

«Io sorvolerei sul Sessantotto che è troppo celebrato. Quello che c’era prima e che c’è stato dopo secondo me è più importante. Parlando di immagini che non avevo mai visto: per prima cosa era come le persone scendevano in piazza. Sembrava che comparissero tutte insieme, come se fosse passato prima qualcuno con un pennello e una vernice magari bianca, avesse tracciato una linea e tutti si affacciavano su quella linea senza bisogno di capi, di condottieri, si compariva tutti quanti insieme. Quando scendevano tantissime persone in piazza, notavo che scendevano per conoscersi, per parlarsi, molto più che per ascoltare uno che parla. Ecco, persone che parlano insieme. Queste sono le mie prime immagini. C’è un momento in cui sembra che tutti compaiano sul palcoscenico, per questo le mie foto sono fortemente orizzontali, perché se è vero che ogni uomo e ogni donna è un segmento verticale è anche vero che molti segmenti verticali insieme compongono una linea orizzontale».

Un po’ come il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo insomma.

«Sì, un po’ come il Quarto Stato, ma se mi posso permettere più bello».

Lei è stato testimone di alcuni eventi fondamentali del ‘ 77…

«Come tutti… diciamo che io ho fatto caso ad avvenimenti persone e cose che erano sotto gli occhi di tutti, ma ognuno vede quello che vuole vedere nel modo in cui lo vuole vedere. Comunque non è che ho lavorato in strada da solo. Le mie immagini forse comparivano di più anche se pubblicate su giornali marginali, su poster, stampate male. Ma la domanda vera è dove sono le foto della grande stampa di 40 o 50 anni fa? Un grande giornale ha usato le mie immagini per parlare del ‘ 77 ma le ha usate oggi, non le ha usate 40 anni fa».

Che immagini usavano 40 anni fa?

«Le immagini che servivano a loro, immagini in cui chi scendeva in piazza compariva come un mostro che minacciava la quiete pubblica, qualcosa di minaccioso. Le mie immagini non trovavano spazio in nessun giornale, nemmeno il mio che era Lotta Continua. Questo perché mostrare l’umanità, la bellezza delle persone che scendevano in piazza era inviso a tutti. Tanto che venivo preso in giro dai miei compagni in strada, ero diventato una macchietta perché lavoravo tutti i giorni ma non si vedeva mai una mia immagine sul giornale. Allora c’era chi affettuosamente mi diceva: “Tano ma ti ricordi di mettere il rullo la mattina dentro la macchina? Ti sei accertato che i dentini abbiano agganciato il rullino?». Fu un momento anche di riflessione sul ruolo delle immagini per esorcizzare e quindi coprire la novità. Fotografare i movimenti è difficile, gli aspetti di novità arrivano come dei lampi, bisogna coglierlo nelle linee dei volti che cambiano, nei gesti, negli angoli delle membra. Chi fotografa i lampi fotografa la novità, ma lo può fare solo se li aspetta. Se non li aspetta si limita a fare foto di tenebra. La mia diversità si vide nei primi lavori sui nuovi giornali. Potere operaio del lunedì, sembrò che non aspettasse altro che il mio modo di vedere. Una mia immagine fu per un periodo la testata di Potere operaio del lunedì ed era l’immagine di operai sardi che parlavano insieme. Era su fondo bianco, sembrava quasi mi fossi portato dietro il fondale, perché gli operai erano sulla riva del mare, aspettavano gli autobus su una strada in riva al mare. Ecco anche in questo caso era come se fossero comparsi, tutti insieme, su un palcoscenico».

Cosa successe quando comparvero le pistole alle manifestazioni?

«Il mio modo di fotografare era diverso anche nelle foto di documentazione: cercavo che ci fosse di più. La cosa in più era il contesto, perché se uno mostra un giovane che tira un sasso quel giovane si prende 5 anni, 7 anni. Non dico di nascondere certe cose ma di imparare dai classici che hanno sempre mostrato quello che accadeva – nella pittura, nella fotografia, nel cinema e nel teatro – senza mandare nessuno in carcere. Serve studio e impegno. È necessario mostrare il contesto, la bellezza delle istanze. C’è una mia fotografia molto gettonata, quella della ragazza con il fazzoletto, che in quel fotogramma commette forse tre reati insieme: ha un fazzoletto che copre il volto, resiste alla forza pubblica ed è lei che mette la mano per “bloccare” la polizia. Ma nessuno si è mai sognato di cercarla e di portarla in tribunale perché avrebbero ampliato la bellezza delle sue istanze che erano quelle delle donne, in confronto a cui i reati che stava commettendo erano ben poca cosa. Nelle mie immagini si è visto di tutto, ma anche – m’illudo – tutto quell’invisibile che sono le motivazioni, i perché, l’affetto che le tiene insieme. Per decenni ho occultato una mia immagine, quella di Daddo e Paolo, perché pensavo di nuocere. Vent’anni dopo fu lo stesso Daddo a rimproverami: «Dovevi farla uscire subito», mi disse. È vero che da giovane dicevo sempre che una bella immagine non fa mai male, una cattiva immagine fa sempre uno o più danni. Ma non mi sentivo di farlo con la vita degli altri».

La foto in questione è quella della manifestazione in piazza Indipendenza del 2 febbraio 1977 in cui rimasero feriti due militanti di sinistra Leonardo “Daddo” Fortuna e Paolo Tomassini e un poliziotto, Domenico Arboletti. Nella foto si vede Daddo che solleva con un braccio il compagno già ferito come per portarlo via, con in mano una pistola. Che momento fu quello?

«È stata la nascita del ‘ 77. Per l’attacco che subirono. Quella di Paolo e Daddo fu una risposta all’attacco di due agenti che non si sapeva fossero della polizia: non avevano nessun contrassegno e di fatto volevano con la loro macchina spezzare il corteo in due. Quando il corteo si è compattato e non ha fatto passare l’automobile è sceso un signore con il mitra e un altro con una pistola. Era il giorno dopo in cui i fascisti erano entrati nell’università e avevano ferito uno studente, avere delle armi non era così strano. Quell’immagine mostra due giovani che non volevano perdere, a nome di tutti quanti, le conquiste passate che erano anche affettive, di solidarietà. Quando vent’anni dopo comparve quell’immagine in un blog di Repubblica che si chiama Fotocrazia fui attaccato duramente, però con citazioni di Omero (che aveva raccontato un fatto simile), Virgilio, Tasso e Ariosto, insomma non era male».

Un’altra manifestazione raccontata tantissimo per immagini è stato il G8 di Genova. Che paragone con il ‘ 77?

«Ecco Genova 2001 dimostra come le immagini possono seppellire un avvenimento. Il modo in cui si è visto l’omicidio, la morte in diretta di Carlo Giuliani. Quel modo da “macchina” – come le telecamere piazzate al porto di Napoli che di tanto in tanto riprendono un omicidio di camorra – ecco io penso che non faccia un buon servizio all’umanità. Rappresenta l’abdicazione dell’essere umano a vantaggio della tecnologia. Le immagini di Genova che cosa raccontano? Molte perpetuano il terrore che la polizia e i carabinieri volevano imporre. E venendo all’omicidio di Carlo Giuliani, dopo due anni che il video girava ovunque su internet, la magistratura ha detto che i carabinieri hanno fatto un uso corretto delle armi da fuoco. L’immagine che non è partecipata, l’immagine abdicata, l’immagine da macchina non da essere umano non è capace di raccontare il contesto. La verità non è mai nei verbali della polizia, nelle sentenze dei tribunali. La verità, quella vera, che rimane nella memoria, è nei romanzi. La verità bisogna farla. Non è qualcosa che esiste e che le macchine fedelmente riportano, troppo comodo, non è così. La verità è una creazione dell’uomo, la più bella forse, ma in natura non esiste, è l’uomo che la farà vedere mettendo insieme le cose, mostrando il contesto. Una macchina questo non lo potrà mai fare, la verità è un insieme di ricerche, una ricerca che non finisce mai che l’umanità può fare».

Sulle Onde di Radio Alice correva il ’77 ribelle, scrive Luciano Lanna l'8 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Quarant’anni fa l’emittente bolognese venne chiusa dalla polizia, arrestate le sue “voci”. La radio del movimento studentesco interpretò il cambiamento della società dell’informazione facendo saltare i vecchi schemi della militanza. Quarant’anni fa, il 12 marzo 1977, il giorno dopo l’uccisione a Bologna dello studente Francesco Lorusso, la polizia fa irruzione nei locali di Radio Alice, li sigilla e arresta tutti gli animatori. I media ufficiali avevano scatenato una vera e propria crociata contro l’emittente, con l’accusa di essere stata la diretta responsabile degli scontri violenti seguiti alla morte del giovane studente. Per dirla tutta, lo studente, un 25enne militante di Lotta Continua, era stato freddato da un colpo d’arma proveniente dalle forze dell’ordine dopo che una bottiglia molotov aveva raggiunto un autocarro. Ma la morte dello studente dette origine a ulteriori e pesanti scontri di piazza. Radio Alice aveva solo mandato in onda, come faceva per tutto quello che accadeva in città, la cronaca degli eventi. Del resto, è Umberto Eco, curiosamente attento ma spesso critico nei confronti dell’ala creativa del ’ 77, a difendere la redazione della radio dalla campagna denigratoria nei suoi confronti. Fatto sta che la chiusura determina la fine di un anno vissuto in prima persona da quella radio e che è stato decisivo per l’immaginario di una generazione. Tutti gli arrestati vengono portati in questura e successivamente trasferiti nelle carceri di San Giovanni in Monte. Ovviamente, in seguito vengono tutti prosciolti dalle accuse mosse nei loro confronti. Radio Alice riaprirà circa un mese dopo e continuerà le trasmissioni per ancora un paio d’anni, ma senza l’apporto degli originali fondatori e senza più la stessa vocazione, tanto che la frequenza della radio verrà ceduta a Radio Radicale. Quell’avventura era iniziata ai primi di gennaio del ’ 76, con le prime trasmissioni di prova dalla mansarda al civico 41 di via del Pratello, dall’idea di un gruppo di amici e studenti del Dams, il primo dipartimento universitario in Italia di “arte, musica e spettacolo”. «Quando Maurizio Torrealta venne a casa mia a propormi di fondare una radio – ha ricordato Franco Berardi Bifo, uno degli animatori – la trovai una idea bellissima. Pensai: sappiamo cantare, fare gli speaker, ballare, praticamente possiamo fare tutto: ma la macchina?». E così si aggregano quelli che avevano le competenze tecniche, come Torrealta o Andrea Zanobetti, ingegnere elettronico. Si decide di mandare in onda tutt’altro da quello che si ascoltava dalla Rai: brani di libri, comunicazioni sindacali, poesie e letteratura, lezioni di zen e di yoga, analisi politiche, dichiarazioni d’amore, commenti ai fatti del giorno, ricette non solo macrobiotiche, favole della buonanotte, liste della spesa, la musica dei Jefferson Airplane, degli Area o di Beethoven. E tutte le trasmissioni, sulla frequenza di 100.6 megahertz, si aprono e si chiudevano sempre col brano Lavorare con lentezza, del cantautore pugliese Enzo Del Re. È la versione bolognese, forse più creativa ed effervescente di altre per la presenza in città del Dams, di ciò che stava andando in onda in tutta Italia dopo la sentenza della Corte che aveva dichiarato anticostituzionale il monopolio statale sull’etere. S’era d’un tratto aperto un vero e proprio vuoto giuridico, nel quale in brevissimo tempo si inserì un circuito di piccole emittenti locali improvvisate, le cosiddette “radio libere”. Da questo punto di vista, osserva – in I sogni e gli spari. Il ’ 77 di chi non c’era (Azimut) – Emiliano Sbaraglia, «il 1977 produsse un esempio unico e irripetibile di comunicazione radiofonica: cambiano radicalmente le tecniche di informazione: si modificano, ampliandosi e migliorandosi, le possibilità di recupero di materiale informativo, i metodi di trattamento dello stesso, la pubblicazione e la diffusione di una notizia». D’un colpo irrompe in Italia l’epopea di Radio Popolare a Milano, di Radio Sherwood a Padova, di Radio Città Futura e Radio Onda Rossa a Roma ma non solo… Nascono infatti anche Radio University a Milano e Radio Alternativa nella Capitale e tante altre emittenti “di destra”. Interessante la recensione che L’uno, il supplemento “politico” di Linus, pubblica nel numero di marzo ’ 77: «C’è il solito coretto di scena post- brechtiano, tipo Dario Fo… Poi parlano alcuni giovanotti… Dicono che i servizi segreti sono infiltrati… Poi si mette su un altro disco, questa volta è una melopea dylaniana contro i grassi borghesi, le signore puttane che giocano a canasta… Poi si riprende il dibattito e si parla della strategia della tensione, della manovra della stampa borghese che mette in risalto gli elementi da fotoromanzo presenti negli atti di terrorismo e di equivoca criminalità comune. Altra musica, mitteleuropea ( Berlin, mein Berlin). Poi interviene un parlamentare che rincara la dose: le istituzioni sono in sfacelo, ma non da oggi; fin dai tempi di Salvatore Giuliano e della strage di Portella della Ginestra; ancora prima, dallo sbarco degli americani con i mafiosi». Quindi la sorprendente constatazione: «Tutto questo – si leggeva insomma agli inizi del ’ 77 sul supplemento di Linus – non viene trasmesso da una radio libera “democratica”, come si potrebbe pensare. Ma da Radio University, emittente milanese “fascista”…» ( che trasmetteva addirittura dalla sede della federazione provinciale del Msi). Non si notavano differenze, concludeva l’anonimo recensore, con le programmazioni, le parole e i suoni con le radio legate all’estrema sinistra. E tutto questo era vero, nella condivisione generazione di un immaginario e di una sensibilità esistenziale che accomunava il profondo dei giovani di allora, che alla notizia dei sigilli a Radio Alice, mentre Radio University trasmette in diretta le fasi drammatiche della chiusura dell’emittente bolognese, il conduttore Walter Jeder invitava i suoi ascoltatori a solidarizzare con i redattori bolognesi perché spiegava «potrebbe succedere anche a noi». Insomma, Radio Alice è il simbolo di tutto un più vasto fenomeno che stava trasformando la comunicazione e l’informazione nel nostro paese. Ma perché quel nome? La suggestione veniva dal nome del personaggio di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. Era accaduto che nel ’ 75 era uscito un saggio di Gilles Deleuze, autore caro ai giovani di quella fase, dal titolo La logica del senso e che analizzava proprio i luoghi e la mente della protagonista degli scritti di Carroll. Come se non bastasse, dal ’ 76 e fino al novembre ’ 77 Gianni Celati, docente di letteratura anglo-americana al Dams, tiene un seminario in forma di lavoro collettivo sulla figura di Alice nel paese delle meraviglie. Tra i suoi studenti, il futuro narratore Enrico Palandri, Andrea Pazienza in arte Paz e Roberto Freak Antoni, giovani creativi che rappresenteranno al meglio lo spirito del ’ 77. «Il nome di Alice era già stato messo in giro alla controcultura americana ed era diventato una parola d’ordine per riferirsi a quel tipo di aggregazione sparsa e senza gerarchie che è stato chiamato movimento», si legge in Alice disambientata, il libro che raccoglie i materiali del seminario e che verrà pubblicato l’anno successivo dalle edizioni “L’erba voglio” di Elvio Fachinelli. Fatto sta, che quel seminario tenuto nel ’ 77 finisce per definire la figura fiabesca di «Alice come emblema e, in qualche modo, nome del nuovo movimentismo giovanile, almeno a Bologna. La stessa Alice che, come ha ricordato Marco Belpoliti, suscitava contemporaneamente le reazioni polemiche dei «giovani barbuti con tascapani militari», gli ideologizzati e militanti che erano convinti che l’argomento fosse «futile e lontano dai problemi della società». Ecco, un personaggio fantastico, un simbolo dell’immaginario, si tramuta in elemento di discrimine: da una parte chi è in sintonia con i tempi nuovi, dall’altra chi resta attardato ai vecchi stilemi ideologici. D’altronde, i partecipanti al seminario ne erano consapevoli. Così scrivevano sulla scelta di una dimensione tutta “fantastica”: «Quando l’eroe parte per il fuori, va fuori dal villaggio dove non esistono più i rapporti di alleanza e parentela che gli forniscono i modelli culturali di comportamento. La fiaba insegna un modello di comportamento per zone dove l’individuo non è protetto dai rapporti sociali di alleanza e parentela, trasmette i modi per stabilire questi rapporti sociali anche fuori dal villaggio». Insomma, Alice diventa una figura che quell’anno compare un po’ dappertutto, metafora di un universo giovanile aperto, che sfugge – si legge nel libro – «all’elaborazione d’una linea e ad esportare verso l’esterno questa linea come proposta di discorso egemonico». Ancora: «Non parliamo di utopia. Anche l’utopia è un modo di ridurre le contraddizioni a uno schema fisso… La controcultura ha posto una questione minima: tutti i rapporti da stabilire sono affettivi, i rapporti politici sono quelli già esistenti nella nostra società e non piacciono a nessuno tranne ai politici». È la riscoperta generazionale del “personale”, dell’esistenziale, del comunitario, rispetto ai vecchi rapporti astratti, societari, istituzionali, politici: «L’ipotesi venuta dalla controcultura – leggiamo ancora in Alice disambientata – non è un’utopia, riguarda un problema di circolazione: un corrersi dietro tutti, cercando di darsi a vicenda dei rapporti d’identificazione affettiva». E in conclusione il seminario riconosce che i “mondi della vita” emergenti nella società in quel ’ 77, soprattutto tra le giovani generazioni, non sono più rappresentabili dalle istituzioni o dei partiti, quanto dalle reali comunità giovanili, un mondo fatto di pluralità e differenze: «Le tribù in movimento sono tante e molto differenziate, e con teorie di campo tanto dissimili». Ecco, quell’icona e Radio Alice rappresentavano al meglio la rottura con le vecchie forme della militanza e aprivano la strada a nuove forme di comunicazione. Tant’è vero che il quando il 9 febbraio ’ 76 iniziano le trasmissioni vere e proprie di Radio Alice, si aprono proprio con la musica di White Rabbit, un brano degli Jefferson Airplane che non poteva non ricordare il coniglio bianco compagno d’avventure dell’Alice ispiratrice. E, da subito il flusso quotidiano di informazione è continuo, senza alcuna interruzione, come invece accadeva con la Rai o con altre emittenti libere. Sarà proprio questa l’innovazione rappresentata dal prepotente ingresso di Radio Alice nel mondo della comunicazione. Un’innovazione che, nel 2004, verrà celebrata dal film Lavorare con lentezza, diretto da Guido Chiesa e sceneggiato insieme al collettivo Wu Ming. Qui le vicende di due ragazzi bolognesi si mescolano a quelle dei movimenti studenteschi del ’ 77 e delle trasformazioni antropologiche, politiche e nella comunicazione di quell’anno. E mentre queste cose accadono, sullo sfondo – a cominciare dal brano del titolo – si ascolta sempre, come una sorta di colonna sonora quotidiana, quanto va in onda sulle frequenze di Radio Alice.

Film d'epoca e documentari inediti: ecco la rivolta del '77. Per la prima volta in tv anche due documentari militanti come Pagherete caro, pagherete tutto del 1975 e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976), scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". Il 1977. Uno degli anni più complicati della storia italiana. Nasce un movimento universitario che scavalca a sinistra non solo il Pci ma anche i precedenti movimenti figli del '68, come Lotta Continua. La tensione politica sale alle stelle e per la prima volta una rivolta, fatta a colpi di cortei e radio libere. Il movimento però degenera rapidamente. Tra le idee dadaiste degli Indiani metropolitani e l'invito alla violenza di chi porta le P-38 nei cortei sono rapidamente le seconde a vincere. Eppure alcune cose dello spirito del '77 è arrivato sino a noi. Ecco perché a quarant'anni da quei fatti il canale Iris ha deciso di dedicare quindici film, in cinque serate consecutive proprio al '77 e dintorni. Protesta, politica, canzoni, terrorismo, amore libero: insomma tutto il mix di elementi contraddittori di quegli anni di piombo ma non solo è trattato nel ciclo Black Out (presentato ieri a Milano) che andrà in onda da sabato 11 a mercoledì 15 marzo. La data di partenza non è scelta a caso, l'11 marzo '77 a Bologna venne ucciso il militante Francesco Lorusso. Tra i film alcuni d'epoca che danno l'idea di come si sia creato il clima culturale che portò al '77: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), San Babila ore 20: un delitto inutile (1976) e La classe operaia va in paradiso (1971). Per la prima volta in tv anche due documentari militanti come Pagherete caro, pagherete tutto del 1975 e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976). L'unico limite dell'iniziativa che ha un bel supporto documentale è quello che, a parte un filmato introduttivo e uno speciale a cura di Tatti Sanguineti (forse ce ne sarà anche uno di Maurizio Costanzo), il pubblico è lasciato solo, in alcuni casi, con delle pellicole (molto ideologiche) che richiederebbero un po' di inquadramento per essere capite. Soprattutto dai giovani.

17 febbraio 1977, gli studenti demoliscono Lama, scrive Paolo Delgado il 17 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Quarant’anni fa il segretario della Cgil veniva contestato alla Sapienza dagli studenti della sinistra ex parlamentare che lo accolsero con fischi e bastoni. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, per qualcuno fu una frattura drammatica, per altri fu l’episodio più liberatorio del “decennio rosso”. La sola cosa che avevano in comune era la reciproca ostilità, una sensazione condivisa di estraneità totale, una punta di disgusto ricambiata senza alcuna cordialità. A quarant’anni di distanza ancora non si capisce bene chi prese la decisione sciagurata di spedire Luciano Lama, segretario della Cgil, in mezzo all’università di Roma occupata da un Movimento che il Pci considerava a un passo dal fascismo conclamato e che avrebbe visto il Pci e il sindacato come nemici assoluti anche senza le carinerie che l’Unità elargiva a getto quotidiano. Fu una decisione stupida ancor più provocatoria, e tanto inspiegabile che poi, per anni, Cgil, Federazione romana e Sezione universitaria del Pci si sono rimpallati la responsabilità della brillante trovata. Non poteva che finire malissimo: fu chiaro da subito. Il Movimento si preparò all’indesiderato appuntamento con una di quelle assemblee fluviali ed estenuanti che erano all’epoca merce comune. Ore e ore passate nell’aula I di Lettere, dal primo pomeriggio del 16 febbraio sino a notte inoltrata, accumulando proposte per poi confutarle, difendendo a spada tratta linee di condotte alternative ma che tutti, in fondo, sapevano destinate a essere comunque travolte dagli eventi. Quando uno dei principali leader dell’ala dura di Autonomia, esasperato, prese alla fine la parola per chiedere: «Tutto bene, ok. Ma i bastoni dove li mettiamo?» la sterzata fu accolta con sollievo generale. Finalmente la verità. Non significa che la scelta del Movimento fosse lo scontro fisico. Se nessuno riteneva che si dovesse accettare l’offerta degli organizzatori del comizio, disposti a far parlare dopo il super sindacalista anche un «esponente del movimento studentesco», la linea maggioritaria era favorevole a una contestazione morbida e ironica, a base di sberleffi, non di mazzate. Ma tutti, anche i più creativi tra gli indiani metropolitani, sapevano benissimo che il rischio che le cose prendessero un’altra piega c’era tutto. Chiedersi dove mettere i bastoni non era segno di estremismo e di propensione alla violenza. Era semplice realismo. Non poteva che andare male, ma andò anche peggio del previsto. Anche questo fu chiaro sin dal primissimo mattino, quando i militanti del servizio d’ordine del Pci e i funzionari del sindacato cominciarono ad affluire alla Sapienza, anticipando di un’oretta il segretario. Arrivavano con le facce tirate di chi marcia in territorio nemico e si aspetta l’agguato dietro ogni angolo. Sembrava l’avessero fatto apposta, e probabilmente era proprio così, a rimarcare nei particolari la distanza, anzi la contrapposizione antropologica, l’antagonismo anche estetico, rispetto ai “diciannovisti “che da 15 giorni occupavano l’università di Roma. Gli stessi che una decina di giorni prima avevano sottoposto il cronista del “quotidiano fondato da Antonio Gramsci” a un beffardo processo popolare. Capo d’accusa: “Affermazioni deliranti”. Sentenza, passibile di immediata esecuzione: “Espulsione a vita dall’università”. In quelle prime decine di minute, mentre il servizio d’ordine del Pci montava un palco improvvisato e la tensione s’impennava assai più del palchetto, il popolo del Pci e quello del Movimento si guardavano in silenzio, scoprendo quasi con sorpresa una differenza ormai totale, verificando la profondità di un abisso che non era più colmabile. Le scritte degli indiani, fatte nella notte, accoglievano i funzionari del partito che sosteneva con la sua astensione il governo Andreotti e quelli del sindacato che chiedeva agli operai di sacrificarsi in nome dell’ “interesse generale”. “Nessuno L’ama”, “I Lama stanno in Tibet”. I comunisti le degnavano appena di uno sguardo ma bruciavano d’indignazione: come ci si poteva permettere una simile mancanza di rispetto? Gli insolenti guardavano i sindacalisti con disprezzo anche maggiore, o forse con un’alterità che non permetteva più neppure il disprezzo. Quella gente, con le loro facce torve, la mascelle serrate, le divise d’ordinanza da burocrati così volutamente opposte a quelle altrettanto d’ordinanza ma variopinte e fantasiose del Movimento, non la si poteva più bollare, come si era fatto dal ‘ 68 in poi, come semplicemente “revisionista”, come compagni che miravano allo stesso obiettivo, una mondo diverso e più giusto, ma per una strada sbagliata, arrendevole, genuflessa, sconfitta in partenza. Quello ormai era direttamente il nemico in prima persona. Era, nel momento storico dato, il sostegno e il principale puntello dell’assetto di cui persino “i revisionisti” erano comunque stati considerati critici pur se non abbastanza severi. Gli slogan iniziarono ancora prima che Luciano Lama cominciasse a parlare. La derisione surreale e un po’ demenziale, “Fatti una pera, Luciano fatti una pera” sul tono di Guantanamera, bruciava forse anche più della critica politica, dell’accusa di tradimento: “Lama ti prego non andare via: vogliamo ancora tanta polizia”. Tra il palco, circondato dal servizio d’ordine del Partito, e la massa di minuto in minuto più folta dei ragazzi di Movimento, sotto la scalinata di Lettere, non c’erano che pochi metri. “Luciano” era terreo al momento dell’arrivo nella zona nemica, attorniato dall’immancabile codazzo di funzionari e dal servizio d’ordine, quasi una replica caricaturale delle immagini che dall’Urss raccontavano in ogni Tg la mesta fine dell’Ottobre rosso. Lo era ancora di più quando infine prese la parola, probabilmente già consapevole dello sbaglio commesso, per pronunciare un discorso che non sarebbe mai arrivato alla fine e del quale comunque si persero anche le prime parole, subissate dal fragore dei fischi, dagli slogan strillati a voce sempre più alta. A determinare una deflagrazione comunque inevitabile furono i palloncini. Tanti, colorati e innocui. L’arma scelta dagli indiani per marcare la distanza tra il grigiore plumbeo di chi chiedeva ai sacrificati di sacrificarsi sempre più e la festosità disperata del Movimento. Il quadrato intorno al palco rispose con i sassi, forse per esasperazione, forse perché costretti dalla loro stessa favola, che li voleva impegnati a fronteggiare una forma moderna e camuffata di fascismo. Nulla come quel discorso di Luciano Lama, segretario della Cgil, coperto dagli slogan ostili, pronunciato solo a uso delle persone che occupavano il palco mentre di fronte la sassaiola diventava sempre più fitta, racconta il ‘ 77. Più delle autoblindo spedite da Cossiga a Bologna meno di un mese dopo. Più delle istantanee che concentrano l’attenzione sulle armi in piazza, e così facendo falsano la storia. Più dei girotondi che trasmettono l’immagine di una gioiosità che era mimata e copriva invece un malessere profondissimo. Lama chiuse di corsa il suo discorso, troncandolo di netto, quando si rese conto che la situazione era definitivamente sfuggita di controllo. Fece in tempo ad abbandonare il palco e il campo un attimo prima che quei bastoni ai quali si era alluso la sera precedente entrassero in azione. Una sola carica, decisa e travolgente, non preordinata, forse neppure decisa da nessuno. Spontanea. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, e in un certo senso lo era davvero. Poche ore dopo la polizia arrivò in forze a sgombrare l’università. Giusto per confermare che nulla di quanto era stato rinfacciato a Lama e tramite lui all’intero Movimento operaio istituzionale poche ore prima era infondato. Non fu tanto il giudizio politico a tracciare allora nel Movimento una linea di demarcazione che resiste e ancora separa gli ormai incanutiti. Fu una questione di sentimenti prima che di analisi politica. Di emozioni, non di mozioni. Per qualcuno, soprattutto per chi militava o dirigeva gli ex gruppi impegnati nel tentativo votato a certo fallimento di trasformarsi in partitini, si trattò di una tragedia, di una lacerazione drammatica che avrebbe dovuto essere a ogni costo evitata e che andava adesso ricucita quanto prima. Ancora oggi ricordano il 17 febbraio 1977 come un giorno di lutto. Per molti altri fu il momento di massima gioia, il singolo episodio più liberatorio dell’intero decennio rosso, e tale è rimasto nei decenni. Nell’assalto al palco del sindacalista dei sacrifici non c’era solo il rifiuto della linea decisa da un Pci che abboccava all’amo teso dal potere democristiano, quello illustrato in anticipo da Moro e Andreotti al dubbioso ambasciatore americano Gardner. In sintesi: «Dobbiamo prendere misure che gli operai non accetterebbero ma che grazie al sostegno del Pci invece passeranno. Poi però proprio l’aver sostenuto quelle misure provocherà un crollo di consensi a favore del Pci». Strategia mirabile che avrebbe colto tutti i risultati previsti nel giro di due anni. Non c’era neppure soltanto il compimento di una divaricazione che dal 1968 in poi si era fatta sempre più profonda e che aveva in realtà già toccato il punto di non ritorno quando, nel 1970, una serie di articoli dell’Unità denunciò Adriano Sofri per essere entrato illegalmente alla Fiat comiziando, chiedendone di fatto un arresto che arrivò puntuale e chiuse il leader di Lotta continua in carcere per mesi. Tutto questo certamente pesava, ma ancor più a fondo s’agitava un rifiuto globale di quel che il movimento comunista era stato sino a quel momento. Della sua passione per l’ordine. Del suo culto della disciplina, sia pur ribattezzata “disciplina di partito”. Della sua ipocrisia tattica camuffata da ardimentose piroette strategiche. Del suo culto del partito e di chi nel partito comandava. Della sua religione dell’obbedienza. Della sua abitudine a colpire il popolo in nome del popolo. Della sua struttura plumbea. Del suo grigiore costitutivo. Nelle sue componenti più innovative e nei suoi momenti migliori, quello del ‘ 77 è stato soprattutto un Movimento contro il “comunismo reale”. Il primo e sinora l’unico che abbia provato ad aggredire non gli orpelli ma il cuore stesso degli errori commessi dal movimento comunista non in nome della sua revisione e neppure in quello di un ritorno alla sua purezza, ma in nome della capacità di evolversi e cambiare imparando dagli errori senza rinnegare le radici. Per questo la cacciata di Lama, che della mesta e gelida realtà del movimento comunista era emblema, è ancora oggi la data chiave di quell’anno distante. E forse per questo è così difficile consegnare il ‘77 alla nostalgia e alla storia.

Settantasette, parole ed immagini. Tano D'Amico è l'autore dietro le foto che hanno raccontato il Movimento del '77: le proteste, gli scontri, le speranze di una generazione entrata nella storia muovendo i primi passi dal cortile delle Sapienza. Intervista a Tano D'Amico di Michele Smargiassi su “Robinson” (La Repubblica) il 19 febbraio 2017.

Vide gli zingari felici. Ne salvò i volti per noi, con le sue fotografie. Tano D’Amico, 74 anni e un sorriso da Gavroche, “compagno fotografo”, fotografo dei nomadi, degli occupanti di case, una lunga storia che comincia prima e finisce dopo il ’77: ma quell’anno, anche per lui, fu unico. L’anno in cui l’universo si mosse.

Vorrei partire da una foto non tua. Il militante incappucciato che spara in via De Amicis. Temo che l’icona del ’77 sia quella.

“Vollero farla diventare così. Non è un’immagine, è uno scalpo. Era l’immagine che tutta una cultura politica aspettava. Non solo quella di destra. In quel periodo lavoravo a Lotta Continua, e il ’77 lo odiavano pure lì. Certo, ricordo cosa scrisse Umberto Eco, che quella fotografia seppellì il movimento, ma ricordo cosa pensai io quando la vidi sulle prime pagine dei giornali: che era una brutta immagine, e che le brutte immagine prima o poi scompaiono”.

Brutta ideologicamente?

“No no, anche in senso estetico. Se vedessi un’immagine così in un film direi che è brutta, non perché c’è uno che spara. Le immagini sparatorie nei film di Peckinpah sono bellissime. Quella che dici tu invece è un’immagine repellente. Al di là di quello che rappresenta (lo sai vero che quello che si vede non è quello che ammazzò l’agente di Polizia?), diede origine a cose disastrose, un gruppo di giovanissimi che si vendettero gli uni gli altri… penso che le immagini si giudichino anche dal loro futuro”.

Del ’77, tu cercasti solo belle immagini?

“Penso che le belle immagini abbiano un posto nell’universo. Quando l’universo vede una brutta immagine, s’arrabbia. Certe foto invece vengono accolte dall’universo: penso alle due Polaroid di Moro nel carcere delle Br. Appena le vidi pensai a due icone bizantine. Nell’ultima foto Moro non fa caso ai suoi assassini che ha davanti, si appella all’universo, a noi, è già al di là, tutti lo volevano morto. Quella foto mi ha commosso più delle sue lettere”.

Prima di quella foto tutto era ancora aperto. E tu eri il fotografo “del movimento”.

“Ma io non volevo fare il fotografo del movimento. Io volevo fare il movimento, stare nel movimento. Sapevo che invece il fotografo deve mettersi da parte per osservare. Però trovavo brutte le immagini del movimento. Cosa ci potevo fare: ero figlio di emigranti siciliani a Milano, da bambino m’infilavo nei musei, erano gratis e caldi d’inverno e c’erano guardiani gentilissimi. C’era un’immagine che mi ricordava il mio Sud, un gruppo di donne normanne. Il pittore, lo seppi dopo, si chiamava Van Gogh. Forse per questo vedevo subito quando un’immagine smuoveva o bloccava qualcosa e lo dicevo. E i compagni: allora domani al corteo le foto le fa Tano”.

Fotografo precettato dal proletariato.

“Nelle assemblee dicevano Tano, tutti fotografano i fatti, tu fotografi i nostri desideri. Ebbi grande affettuosa libertà”.

Il fotografo dei desideri...

“Be’, non potevo fare diversamente. Mi mandavano nei posti dove era successo qualcosa ma coi treni di allora e pochi soldi per il biglietto arrivavo tre giorni dopo, non mi restava che cercare gli avvenimenti nei volti delle persone. Imparai a leggere la storia negli occhi della gente”.

Cosa ci leggevi?

“Bellezza. Passavo ore nel cortile della Sapienza, tra i ragazzi che sonnecchiavano, leggevano libri, si baciavano. In un libro Chomsky ha scritto che in quel cortile maturava la storia. Poi seguivo quei ragazzi in strada, nei cortei, fotografavo la loro grazia. Ma quelle immagini non uscivano mai sui giornali. I compagni mi prendevano in giro: Tano, ma lo metti il rullino nella macchina? I giornali volevano immagini di scimmie assetate di sangue, di assassini reali o potenziali. Le mie immagini erano intrattabili. Ero diventato una macchietta, il fotografo che fa foto che nessuno vede. Allora venne a casa mia una vera e propria commissione politica, autonomi, femministe, gay, indiani metropolitani… Mostrai le foto. Alcuni si misero a piangere. Bisogna fare un libro, dissero. Fecero una colletta, i soldi dentro un sacco del pattume. Il libro uscì, la bellezza fu vista”.

Eppure hai scattato anche tu fotografie “di fatti”. Il giorno in cui ammazzarono Giorgiana Masi...

“Ho condiviso la buona e cattiva sorte dei movimenti, è una favola che evitassi il conflitto. Quel giorno feci una foto a un agente in borghese armato. Mi pareva un’immagine banale, tutti sanno che ci sono gli agenti in borghese. Non era neppure la foto dell’uomo che sparò a Giorgiana, era un altro posto. Però la sera al telegiornale sento il ministro degli Interni garantire che non c’erano agenti in borghese, allora mi vesto e faccio il giro dei giornali con quella foto. Il primo giorno tutti scrissero che il ministro avrebbe dovuto dimettersi, poi tornò la solidarietà fra potere e stampa”.

C’è una foto di “fatti” che invece tenesti per te. Perché? Era una brutta foto?

“Tu dici la foto di Paolo e Daddo, uno ferito l’altro che lo sorregge e tiene in mano due pistole, dopo gli scontri del 2 febbraio all’università di Roma. Vero, non la feci vedere a nessuno. Vent’anni dopo, quando incontrai Daddo nella redazione del Manifesto, proprio lui mi rimproverò: ma perché non l’hai pubblicata? E io: ma era la tua vita, c’era il tuo sangue… E lui: no, è tua, è il tuo lavoro”.

Il ’68 era stato spensierato nel concedersi agli obiettivi. Il ’77 vide in ogni fotografo un delatore.

“Non volevo essere carnefice. Sapevo per esperienza che tutta la cultura del mondo s’apparecchia per difendere quello che già c’è, e che avrebbe usato certe foto per criminalizzare quel che si oppone. La verità è che nessuno voleva guardare il faccia il movimento del ’77. A destra e a sinistra. Mi ricordava l’Orwell di Omaggio alla Catalogna: gli anarchici odiati da tutti. Un movimento di cui tutti avevano paura perché metteva in discussione i ruoli, anche quelli dei giornalisti e dei fotografi. Quella che dà fastidio al potere, quella che non doveva essere vista era l’umanità delle persone. Invece sono queste le immagini che rimangono vive, che oggi si fanno ancora interrogare. Una bella immagine quando è fatta è fatta. L’universo lo sa”.

Il Movimento del Settantasette, 40 anni fa. Malesseri e speranze in una stagione di crisi. Nelle rivendicazioni dei giovani di allora si leggono i segni premonitori di cambiamenti futuri: i ragazzi erano cresciuti con la scolarizzazione di massa ma le aspettative risultavano frustrate, scrive Maurizio Caprara il 4 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera".

1. Con la scuola di massa, più istruzione. Non sempre i lavori ambiti. Sono trascorsi quarant’anni. Il 1977 fu per una parte dei giovani italiani un gran frullatore: di malesseri, speranze, violenza, intuizioni, abbagli, rivendicazioni. Affioravano i segni premonitori di una crisi dei partiti tradizionali che si sarebbe aggravata più avanti. Cresciuti con la scolarizzazione di massa, i ragazzi di quarant’anni fa vivevano meglio di come avevano vissuto i rispettivi genitori durante o dopo la guerra. Le conquiste del 1968 erano date per scontate. Le aspettative di molti tuttavia risultavano frustrate: per tanti era difficile trovare posti di lavoro adeguati al grado di istruzione raggiunto. Nell’irradiarsi dall’università alle scuole, questa frustrazione si mescolò ad altro. Ne derivarono richieste di programmi di studio aggiornati, proteste inventive. L’ondata di assemblee e manifestazioni cominciò perché fascisti, a Roma, il 1° febbraio avevano sparato su uno studente di sinistra ferendolo gravemente. La fanatica brutalità dell’Autonomia operaia rese ancora più pericolosa una spirale di scontri di piazza. In cortei nei quali non erano rari barricate e lanci di bottiglie Molotov, si aggiunse il ricorso a pistole contro carabinieri e polizia. Presto, gli spazi di azione per le anime maggioritarie del Movimento si estinsero. Tra autonomi e altri studenti di sinistra si ebbero confronti duri, anche fisici. Il quarantesimo anniversario del Settantasette può essere un’occasione per riflettere su come i sistemi democratici debbano recepire, indirizzare e selezionare, depurandoli dall’intolleranza, istanze e disagi di settori della società che si sentono ai margini delle decisioni. Prima che sia tardi.

2. La ritirata di Lama tra ironia e violenza. «I Lama stanno nel Tibet» venne scritto su un muro de «La Sapienza» di Roma prima che, il 17 febbraio, arrivasse il segretario della Cgil Luciano Lama. Un suo comizio doveva servire al Pci per dimostrare che l’università occupata da studenti non poteva fare a meno del sindacato italiano con più tesserati, guidato da un comunista autorevole. Le anime del Movimento reagirono in maniere diverse. Soltanto con alcune critiche i gruppi della «nuova sinistra», tranne Lotta continua su posizioni aspre. Gli Indiani metropolitani, l’«ala creativa», contestando il comizio al grido di «Ti prego/ Lama/ non andare via/ vogliamo/ ancora/ tanta polizia». Quando gli «Indiani» lanciarono palloncini con liquido colorato contro i servizi d’ordine di Cgil e Pci, questi, non capendo di che si trattasse, risposero con una carica. Finì male. Gli autonomi assaltarono il palco con spranghe, bastoni e pezzi di asfalto (nella foto). La ritirata di Lama fu una sconfitta per il più grande Partito comunista dell’Occidente che dall’anno precedente, per la prima volta dal 1947, in Parlamento si era avvicinato alla maggioranza astenendosi sulla fiducia al governo del democristiano Giulio Andreotti. Fu giorno nero anche per la parte ampia del Movimento che preferiva verso il Pci le armi della critica alla «critica delle armi».

3. Sperimentazione, autogestioni: una scuola da cambiare. L’insegnamento nelle scuole italiane meritava aggiornamenti che tardavano. Nei programmi didattici lo studio era considerato in troppi casi slegato dal lavoro. A fare rumore furono le contestazioni intimidatorie dei settori più estremi del Movimento che pretendevano dai professori presi di mira il «6 politico» nelle secondarie o il «18 politico» nelle università. Ma quegli obiettivi non appartenevano né a tutti gli studenti né all’intero Movimento, una parte consistente del quale richiedeva «sperimentazione didattica»: corsi sugli argomenti più vari, dall’economia al cinema, dal teatro alla sessualità. Se ne organizzarono alcuni durante autogestioni e occupazioni di scuole.

4. L’autocoscienza, fermenti e idee del femminismo. «La vostra violenza/ è solo/ impotenza», gridavano i cortei femministi denunciando stupri e soprusi subiti da donne. Si deve anche a quei momenti se oggi è più alto nella nostra società il disprezzo per i troppi delitti che hanno vittime di sesso femminile. Nel 1977 in Italia soltanto 35 donne su cento lavoravano o erano in cerca di lavoro. Il femminismo ha contribuito a farne salire in seguito il numero, riducendo su questo aspetto la distanza del nostro Paese da altri Stati europei. Nel Movimento l’«emancipazione» era giudicata da molte ingannevole rispetto alla «liberazione» della donna. Sommarietà e fondamentalismi non furono assenti. Una delle attività dei collettivi femministi consisteva nell’«autocoscienza»: riunioni nelle quali ogni componente comunicava alle altre propri problemi e pensieri intimi. Occasione di crescita, in vari casi. Non per tutte fu, psicologicamente, una passeggiata. Per fidanzati e mariti — il comportamento privato dei quali, in contumacia, veniva esaminato con la lente di ingrandimento nei collettivi — la tutela della privacy fu un’utopia. Inconfessabile.

5. Volti coperti. E scoperti, con trucco. Le foto dei giornali spesso ricordano le manifestazioni del 1977 con volti di manifestanti coperti da fazzoletti o passamontagna. Immagini scattate durante cariche di polizia, quando candelotti lacrimogeni rendevano l’aria irrespirabile, o nel corso di assalti a sedi di partito e blocchi stradali. Eppure i visi, non soltanto scoperti, anche truccati, furono un elemento non marginale delle proteste del 1977. Mai prima di allora nell’Italia repubblicana il ricorso a ceroni, kajal e matite varie aveva avuto una diffusione così ostentata e vasta per dimostrazioni politiche. A usare il trucco con vistosità teatrali non erano esclusivamente ragazze. Tra gli Indiani metropolitani, per i maschi poteva essere di ordinanza. Lo scopo: mettere in evidenza una irregolarità, un’anomalia, una diversità ritenute ragioni di orgoglio.

6. Il sangue. Le morti. Fuoco sulle speranze. L’11 marzo a Bologna in scontri con i carabinieri venne ucciso Francesco Lorusso, 24 anni, di Lotta continua. Il giorno seguente a Roma una manifestazione nazionale del Movimento con decine di migliaia di persone venne sfibrata da autonomi con le P38 o con armi improprie che assaltarono negozi, gettarono bottiglie incendiarie contro una sede della Dc e bar, scatenarono guerriglia in più punti del centro della capitale d’Italia. Le violenze furono per il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, democristiano, motivo di porre divieto anche a una manifestazione indetta dai radicali per il 12 maggio, terzo anniversario del referendum sul divorzio, in piazza Navona. Ragazzi non organizzati si trovarono sbandati tra drappelli dei settori più estremi pronti allo scontro, agenti in borghese con armi in pugno. Cadde colpita da un proiettile Giorgiana Masi, studentessa di 19 anni. La speranza di cortei senza sangue si indebolì ancora di più.

7. Un altro lato della gioventù. Morire in servizio a 25 anni. A Milano il 14 maggio l’agente Antonio Custra fu ucciso in via De Amicis. Aveva 25 anni, il salario di un lavoratore. Le immagini di autonomi che sparavano segnarono un’epoca.

8. Il ministro Cossiga, gli infiltrati e la repressione. L’Autonomia operaia raccoglieva nel 1977 migliaia di persone e suoi spezzoni erano terreno di reclutamento per formazioni terroristiche. Per quanto non maggioritari, gli autonomi avevano beneficiato di ambiguità e indulgenze di una parte del Movimento e riuscirono a deviare il corso degli eventi in diversi cortei e assemblee. Ma una storia del 1977 non può essere scritta senza tener conto di quanto detto dal ministro dell’Interno di allora, Francesco Cossiga, in un libro del 2010, Fotti il potere: «La contestazione, la violenza politica e il terrorismo minacciavano l’autorità dello Stato e tutti i partiti a cominciare dal Pci mi chiedevano d riportare l’ordine con ogni mezzo. C’era solo un modo per farlo: usare la forza. Fu per questo che, dopo aver infiltrato nelle organizzazioni più estremiste alcuni agenti provocatori, diedi ordine di lasciare liberi i manifestanti di mettere a ferro e fuoco le città. Dopo due o tre settimane la gente non ne poteva più e così, forte del consenso popolare, potei scatenare la repressione».

1977, la rivoluzione che cancellò la rivoluzione, scrive Paolo Delgado il 3 gennaio 2017 su "Il Dubbio". I giovani manifestanti chiudono con la cultura della presa del potere, che dal 1917 russo arriva fino al ’68. Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘77 italiano e la grande rivoluzione che 60 anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘77 ridisegna. Il ‘77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione. Quello del ‘77 è stato un Movimento contro il ‘68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato. Il ‘68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente. I botti che nella notte del 31 dicembre congedarono il 1976, anno di elezioni politiche finite con una sostanziale parità tra Dc e Pci, anno che di conseguenza aveva per la prima volta visto il Pci non opporsi a un governo monocolore democristiano e anzi sostenerlo con l’astensione, salutarono il 1977 ma solo sul calendario. Politicamente e culturalmente quello che oggi definiamo “il 77” era cominciato già da un pezzo e sarebbe proseguito ancora a lungo. A differenza del ‘68, quanto l’esplosione era stata pressoché contemporanea in tutta la penisola come del resto in tutta Europa e in mezzo mondo, il cosiddetto ‘77 si presentò in momenti diversi di città in città. A Milano era iniziato nell’aprile del 1975, con la settimana di rivolta e scontri seguita alla morte di Claudio Varalli, ucciso da un fascista il 16 aprile, e di Giannino Zibecchi, investito da un gippone della polizia il giorno successivo. Era proseguito con la nascita dei Circoli del proletariato giovanile, la pratica degli espropri nei negozi e nei ristoranti più cari, la teorizzazione del diritto al lusso, sino agli scontri dell’8 dicembre ‘76 per l’inaugurazione della stagione alla Scala. L’anno seguente, nel ‘77 propriamente detto, gli epicentri del Movimento furono Roma e Bologna. L’onda raggiunse gli operai di Torino, i protagonisti principali del decennio rosso, solo nel ‘79, con l’ultima grande ciclo di conflittualità operaia alla Fiat. Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘ 77 italiano e la grande rivoluzione che sessant’anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘ 77 ridisegna, costringendo a depositare nei ripostigli della memoria quella precedente. Il ‘77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione. Quello del ‘ 77 è stato un Movimento contro il ‘ 68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato, della concezione sacrificale che rinviava la festa rivoluzionaria a dopo la conquista del palazzo d’Inverno di turno, di un’idea della rivoluzione intesa come presa del potere, dell’universalismo egualitario che il 1917 aveva ereditato dal 1789 e di lì era arrivato senza scosse al ‘68. La musica del ‘ 77 era diversa, tanto distante dai movimenti del passato recente quanto la rabbia punk di Anarchy in Uk lo era dalle utopie del rock impegnato della West Coast hippie. In quella lunghissima assemblea permanente che si svolse a Lettere dal 2 febbraio, giorno dell’occupazione della città universitaria, al 17 febbraio, data della cacciata di Lama dall’università e dello sgombro militare della stessa, si parlava davvero di tutto, senza ordine del giorno, senza presidenza, senza tentativi di strutturare il dibattito. Però il tema che appena pochi anni prima sarebbe stato dominante, l’interrogativo su come dare uno sbocco organizzativo a quel conflitto spontaneo, quasi non figurava nell’agenda. Il Movimento del ‘ 77 guardava al presente, sostituendo all’orizzonte lontano della rivoluzione a venire quello immediato del “qui e ora”. Puntava sulla spontaneità, sulla creatività e sull’autonomia senza inseguire la chimera bolscevica del “soggetto rivoluzionario”. Rompeva ogni barriera tra privato e pubblico, convinto che il “personale” fosse del tutto “politico”. Rifiutava l’universalismo per esaltare le differenze, instaurando il primato di una mitologia “differenzialista” opposta e forse non meno malintesa e pericolosa di quella egualitaria che aveva sin lì tenuto banco. Ma tutto il bagaglio che dal Movimento del ‘77 veniva negato e rinnegato, il ‘68 lo aveva ereditato dalla cultura dei movimenti rivoluzionari, per come si era definita a partire dall’Ottobre di Pietrogrado. La rottura del resto era anche più profonda. Gli studenti e i militanti del ‘68, anche in questo ereditando una cultura politica antecedente alla stessa rivoluzione russa, identificavano un soggetto sociale rivoluzionario, per alcuni l’operaio- massa, gli operai di linea e dequalificati delle grandi fabbriche, per altri i popoli del Terzo mondo destinati ad accerchiare le roccaforti imperialiste, al quale si rivolgevano pretendendo di mettersene al servizio e spesso mirando a guidarlo e indirizzarlo. Ma era sempre e comunque altro da sé. I ribelli del ‘ 77 sentivano e sapevano di essere loro stessi il soggetto sociale sfruttato e condannato a una vita grama. Erano la prima generazione che sperimentava sulla propria pelle la fine della società affluente e l’inizio dell’era del precariato e del neo- schiavismo, erano quindi loro stessi il soggetto rivoluzionario. Si spiegano così l’urgenza, la violenza e anche la sostanziale disperazione di un movimento che reagiva mimando la gioia, mascherando l’angoscia sotto le parvenze beffarde e dissacranti degli indiani metropolitani e del situazionismo riscoperto, ma alla fine inevitabilmente arrivando a uno scontro che era violentissimo perché la posta in gioco non lasciava spazio a possibili mediazioni. I ragazzi del ‘ 68 sapevano che, se sconfitti, sarebbero comunque tornati alle loro origini e avrebbero ripreso il loro posto nei ceti medi o medio- alti, come moltissimi hanno effettivamente fatto. Quelli del ‘ 77 erano senza rete e lo avvertivano a pelle. Come in ogni cesura storica, la nettezza del taglio si coglie meglio guardando a ritroso di quanto non si percepisse nel fuoco degli eventi. Gli elementi nuovi e inediti marciavano fianco a fianco con i bagliori estremi dell’epoca al tramonto, tra i quali nessuno era più abbacinante delle Brigate rosse, organizzazione comunista ancora del tutto interna alla logica rivoluzionaria inaugurata dal 1917 e dunque sospettosa e diffidente quasi quanto il Pci di fronte a quello “strano movimento di strani studenti”, come lo definì un fortunato pamphlet dell’epoca. Sul piano del fronteggiamento politico immediato, il nemico principale del Movimento del ‘77 fu il Pci, e lo fu da subito. Il primo febbraio, in piena città universitaria, viene ferito da una rivoltellata fascista lo studente Guido Bellachioma. Il giorno dopo, mentre in piazza della Minerva Walter Veltroni arringa a nome della Fgci alcune centinaia di studenti, migliaia di manifestanti assaltano e incendiano la sede del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna, dietro piazza Indipendenza, con l’immancabile scia di scontri con la polizia e con i gruppi fascisti usciti dalla sede in fiamme. Una macchina della polizia in borghese taglia all’improvviso il corteo e viene bersagliata di sassi. Uno dei poliziotti, Domenico Arboletti, esce e senza qualificarsi spara alcuni colpi. Dal corteo rispondono al fuoco, l’agente cade ferito gravemente. Il suo collega esce a sua volta col mitra spianato, ferisce prima Paolo Tommassini, poi Daddo Fortuna che tentava di portare via il compagno ferito trascinandolo con una mano e tenendo con l’altra sia la sua pistola che quella di Tommassini. Dopo la sparatoria il corteo rientra nella città universitaria e la occupa. Il giorno dopo Ugo Pecchioli, “ministro degli Interni” del Pci dichiara: «Collettivi autonomi e fascisti svolgono da tempo un’azione parallela e concomitante, ma non sono due realtà opposte. E’ la medesima logica che li muove, l’odio per le istituzioni democratiche». Per la prima volta l’estremismo rosso non è solo messo sullo stesso piano di quello nero secondo la logica degli “opposti estremismi” ma è direttamente identificato con una forma di fascismo. Nei giorni seguenti il cronista dell’Unità Duccio Trombadori viene “processato” dall’assemblea riunita a Lettere ed «espulso a vita per affermazioni deliranti» dalla città universitaria. Il bando si allarga in realtà anche ai partitini della sinistra radicale che si vogliono eredi del ‘68. E’ in questo clima che si arriva alla folle scelta di organizzare il comizio di Lama nell’università occupata, il 17 febbraio. L’esito di quella provocazione e il seguito renderanno la lacerazione più profonda e incolmabile: gli scontri, il palco abbattuto, il segretario della Cgil messo in fuga con il servizio d’ordine del sindacato mai così plumbeo e torvo, il successivo arrivo delle ruspe a sgombrare l’università e poi, meno di un mese dopo, l’esplosione della capitale rossa, Bologna, in seguito all’uccisione di Francesco Lorusso, i blindati di Cossiga spediti a ripristinare l’ordine dopo 4 giorni di rivolta, la manifestazione nazionale del 12 marzo a Roma, aperta dai bolognesi che scandiscono “Bologna è rossa del sangue di Francesco”, che assalta la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, saccheggia un’armeria sul lungotevere, apre a ripetizione il fuoco sulla polizia, incendia il commissariato di piazza del Popolo. Non che in precedenza tra Movimento e Pci corresse buon sangue. Ma la critica si era sempre limitata a bersagliare “il revisionismo” del partitone, la sua rinuncia alla via maestra rivoluzionaria. Nel ‘ 77 le cose cambiano: il Pci è individuato come parte integrante dello Stato, sponda politica eminente di quella trasformazione sociale complessiva di cui i ragazzi del ‘ 77 si sentivano, a ragione, vittime e nemici mortali. La deriva che porterà i partiti socialdemocratici a gestire in prima persona la gigantesca riorganizzazione degli assetti sociali che, a partire proprio dalla fine dei ‘ 70, cancellerà le conquiste di un secolo instaurando una sorta di neoschiavismo inizia in quell’anno, così come entra in scena allora, per la prima volta, il soggetto sociale prodotto da quel riassetto. Se a distanza di 40 anni non riusciamo a guardare al ‘ 77 con la stessa distaccata nostalgia che avvolge il ‘68 è perché in quell’anno si è presentato, da ogni punto di vista, il mondo in cui viviamo oggi. Il ‘ 68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente.

Sogni, errori, libertà. Il nostro ‘77 fu diverso, scrive Carlo Rovelli il 14 febbraio 2017, su "Il Corriere della Sera". L’idea che il mondo andava cambiato è stata sconfitta ma non fu inutile. Quei valori sono rimasti radicati in noi. Leggo in questi giorni diversi articoli sul movimento giovanile che è passato sull’Italia nel 1977, quarant’anni fa, breve e intenso come una folata di vento. Non mi riconosco in questi articoli. Mi sembra non parlino di quanto ci dicevamo, pensavamo e sentivamo io e i miei amici in quegli anni lontani. Io non so fare analisi storiche e sociologiche e non voglio confondere la mia esperienza personale, mia e di qualche amico, con un fatto storico. Ma allora erano molti gli amici intorno a me che sentivano come me, e da qualche parte ci sono ancora. Scrivo qualche riga per loro, i miei tanti amici di allora, e anche per chi magari è curioso di sentire un ricordo diverso. Alcuni di quegli amici hanno un ricordo magico e mitico di quegli anni. Un momento intensissimo di scambio, sogni, entusiasmo, voglia di cambiare, voglia di costruire insieme un mondo diverso e migliore; lo ricordano con nostalgia intensa, fino a rendere grigia l’immagine di quella che è stata la vita poi. Per me non è così. Avevamo vent’anni, e a vent’anni la vita è spesso splendida e rovente, almeno nel ricordo. Non è il profumo della storia, è il profumo della giovinezza. Per me quegli avvenimenti sono stati sì magici e bellissimi, ma perché sono stati l’inizio, perché ne ho tratto delle cose. Hanno aperto un percorso. Non hanno reso la vita successiva meno colorata: sono stati la scoperta collettiva di colori che sono rimasti con me. Certo, l’anno successivo al 1977 è stato vissuto da molti di noi come una disfatta. La voglia luminosa di cambiare il mondo, che ci era sembrata per un attimo aprire possibilità vere, si scontrava contro la realtà. Naufragava, prima colpita dalla reazione delle istituzioni, quella che allora chiamavamo la repressione; poi sconcertata per la violenza di quello che adesso chiamiamo terrorismo. Eravamo in tanti a dirci e sapere bene che la lotta armata in Italia non avrebbe portato a nulla di buono, che era solo una reazione estrema e sciocca, in realtà disperata, a sogni che si chiudevano. I «compagni che sbagliano», lo sapevamo in tanti, erano ragazze e ragazzi con un senso morale più assoluto degli altri, e, come purtroppo spesso accade, accecati da questo. Noi volevamo altro, e per un momento, insieme, in tanti, avevamo pensato fosse possibile. Che fosse possibile andare in quella direzione. Quale direzione? I grandi sogni hanno la caratteristica che quando svaniscono sembrano inconcepibili. Talvolta nella storia i sogni più inconcepibili si realizzano: contro ogni aspettativa dei realisti, la rivoluzione francese abbatte il predominio dell’aristocrazia, il cristianesimo conquista l’impero romano, un allievo di Aristotele conquista il mondo e i suoi amici fondano biblioteche e centri di ricerca, i seguaci di un predicatore arabo cambiano l’ordine del pensiero di centinaia di milioni di persone, eccetera eccetera. Più spesso, grandi sogni si scontrano contro la forza del quotidiano, durano pochissimo o poco, crollano, vengono dimenticati. Sono i tanti rivoli della storia che, bene o male, non portano da nessuna parte. I movimenti del Trecento per una chiesa povera, le comunità utopiche del XVIII secolo, o il sogno egualitario del comunismo sovietico; oppure le fantasie naziste che appassionavano tanto la gioventù, forse oggi il Califfato… Ma più spesso ancora quello che succede è più complesso, e la storia segue percorsi tortuosi. Il Direttorio elimina Robespierre, Wellington batte Napoleone, e il re di Francia torna sul trono: la rivoluzione ha perso… Ma ha perso davvero? Il movimento delle suffragette per il diritto di voto alle donne è sconfitto al tempo della prima guerra mondiale. Ma ha perso davvero? I movimenti storici sono fatti di idee, giudizi etici, passioni, modi di vedere il mondo. Spesso non vanno da nessuna parte. Talvolta però lasciano tracce che continuano ad agire in profondità sul tessuto mentale della civiltà, la cambiano. La nostra civiltà, l’insieme dei valori in cui crediamo, è il risultato di molti sogni, di molti che hanno saputo sognare intensamente al di là del presente. Il movimento del ‘77 italiano non è comprensibile da solo. È stato un’espressione tarda, non certo l’ultima, ma una delle ultime, consapevole di questo, e per questo intensa, di uno di questi grandi sogni che ha spazzato non l’Italia ma il mondo intero per un breve ventennio che va dagli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. Sono stati anni in cui una parte considerevole della gioventù del mondo intero ha sognato e sperato intensamente di poter cambiare la realtà sociale in modo molto radicale. Non è stato certo un movimento di pensiero strutturato e coerente, anzi, era disperso in mille rivoli. Ma nonostante le grandi diversità, tutti questi rivoli sentivano con assoluta chiarezza di appartenere allo stesso fiume, dalle piazze di Praga alle università di Città del Messico, dal campus di Berkeley a Piazza Verdi a Bologna, dalle comuni hippie rurali e urbane della California ai guerriglieri sudamericani, dalle marce cattoliche per il Terzo mondo agli esperimenti dell’anti-psichiatria inglese, da Taizé a Johannesburg, nella strepitosa differenza di atteggiamenti specifici, c’era un reciproco intenso riconoscimento di appartenere allo stesso grande fiume, di condividere uno stesso grande sogno. Di «lottare», come si diceva allora, per un mondo molto diverso. Era il sogno di costruire un mondo dove non ci fossero forti disparità sociali, non ci fosse dominio dell’uomo sulla donna, non ci fossero confini, non ci fossero eserciti, non ci fosse miseria. Era il sogno di sostituire la collaborazione alla lotta per il potere, di lasciarsi alle spalle i bigottismi, i fascismi, i nazionalismi, gli identitarismi, che avevano portato le generazioni precedenti a sterminare cento milioni di esseri umani durante le due guerre mondiali. I sogni si spingevano lontano: un mondo senza proprietà privata, senza gelosia, senza gerarchie, senza chiese, senza stati potenti, senza famiglie chiuse, senza dogmi, libero. Dove non avevamo bisogno degli eccessi del consumismo, e si lavorava per il piacere di fare, non per lo stipendio. Solo a nominare oggi queste idee sembra di parlare di delirî. Eppure eravamo in tanti a crederci, in tutto il mondo. In quegli anni ho viaggiato molto, in diversi continenti, e ovunque incontravo giovani con questi stessi sogni. Di questo parlavamo i miei amici ed io in quell’anno, il 1977. Non certo della paura del precariato. Se vogliamo ricordare qualcosa di quelli anni, è questo che io ricordo. Vivevamo in case aperte. Si dormiva un po’ qui e un po’ là. Sapevamo bene che l’eroina è pericolosissima e chiunque avesse un po’ di cervello se ne teneva lontano. Ma sapevano anche che marijuana e Lsd non lo sono, e si offriva uno spinello con la semplicità con cui si offre un bicchiere di vino. L’Lsd era tutt’altro: un’esperienza potente e importante, da trattare con attenzione e rispetto, ma che poteva insegnare molto. L’occupazione principale, come è d’uso per ogni gioventù, era innamorarsi e disperarsi per amore; ma il sesso era moneta quotidiana, un modo per incontrarsi e conoscerci con tutti, dell’altro sesso come del proprio. Era preso sul serio, come il centro della vita, quasi con religione. E come per ogni religione, di sesso e amore si voleva riempire la vita. E di amicizia, di musica, di inventarsi modi di essere insieme, diversi da quelli grigi e competitivi delle generazioni precedenti. Si provava a vivere in comune, si provava a non essere gelosi, si provava a condividere. Ci si azzuffava e ci si disperava come in ogni famiglia, ma il senso di essere una grandissima famiglia sparsa per il pianeta, era forte: un grandissima famiglia che si adoperava insieme, come esploratori delle stelle, a costruire un mondo nuovo, molto diverso… Io mi sono sempre immaginato che le comunità quacchere dei primi coloni europei in America, i compagni di Gesù in Palestina, i primi cristiani, i giovani italiani del Risorgimento, i compagni di Che Guevara in Bolivia o gli allievi di Platone nell’Academia… si sentissero un po’ così…Quel mondo non l’abbiamo costruito, non c’è ombra di dubbio. La disillusione è arrivata presto. Alcuni dei progetti li abbiamo abbandonati perché ci sono sembrati sbagliati. Molti altri semplicemente perché sono gli altri che hanno vinto. La plausibilità di quei sogni si è sciolta per la mia generazione come neve al sole. Ci siamo separati, ciascuno è andato nella vita seguendo una sua strada. È stato inutile sognare? Non credo. Per due motivi. Il primo è che per molti di noi quei sogni hanno rappresentato il nutrimento fertile su cui costruire la vita. Alcuni di quei valori sono rimasti radicati dentro di noi e ci hanno guidato. La libertà di pensiero estrema di quegli anni, in cui tutto sembrava possibile ed esplorabile e qualunque idea sembrava modificabile, è stata la sorgente per cui molti di noi hanno fatto quello che poi hanno fatto nella vita. Il secondo motivo non so se sia credibile o no. Ma esiste lo stesso. Spesso nella storia i sogni di costruire un mondo migliore sono stati sconfitti. Ma hanno continuato a lavorare sotterraneamente. E alla fine hanno contribuito a cambiare davvero. Io continuo a credere che questo mondo sempre più pieno di guerra, di violenza, di estreme disparità sociali, di bigottismo, di gruppi nazionali, razziali, locali, che si chiudono nella propria identità gli uni contro gli altri, continuo a credere che questo mondo non sia l’unico mondo possibile. E forse non sono il solo.

A COSA SERVONO...

A cosa servono davvero 29 dettagli di oggetti che usiamo tutti i giorni. Dalla fessura nel tappo delle penne Bic al secondo foro nelle linguette delle lattine, sono molte le cose apparentemente senza senso che invece sono state inventate con uno scopo preciso, scrive Andrea de Cesco il 15 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera".

1. Il mini taschino dei jeans. Molti oggetti di uso quotidiano sono contraddistinti da dettagli apparentemente inutili. In realtà spesso questi particolari non sono frutto del caso, ma rispondono a scopi precisi. Un esempio è il taschino rettangolare cucito all'interno della tasca destra dei jeans, troppo piccolo persino per metterci le chiavi di casa. A svelarne la funzione è stata la regina stessa dei jeans. Come ha spiegato in un post sul suo blog l'azienda californiana Levi’s, il taschino fu introdotto a fine Ottocento come «watch pocket»: i cowboy lo usavano per riporre gli orologi da tasca e le pepite d’oro. Negli anni il taschino ha perso la sua funzione originale per ospitare altri oggetti, dai preservativi (come suggeriva uno spot del 1995 per i jeans 501) ai bigliettini da cui copiare durante i compiti in classe.

2. I bottoni sul mini taschino dei jeans. A indossare i jeans 150 fa erano soprattutto operai e minatori, che lavorando sottoponevano la stoffa a uno sforzo tale da ritrovarsi puntualmente con i pantaloni scuciti o bucati. Nel 1971 la moglie di un lavoratore, decisa a porre rimedio alla situazione, andò da un sarto, Jacob Davis, e gli chiese di creare un paio di denim che non si disintegrassero così facilmente. Lui ebbe un'idea: fissare alcuni «chiodi» a forma di bottone (il loro nome tecnico è «rivetti») nelle aree più delicate, quelle che entravano maggiormente in contatto con le superfici o si danneggiavano a causa dei movimenti. Davis poi contattò l'imprenditore tedesco Levi Strauss e, insieme, iniziarono a disegnare i nuovi modelli di pantaloni dotati di rivetto. 

3. Il tessuto «extra» che vendono con i vestiti. Il pezzetto di stoffa che spesso viene venduto insieme ai vestiti tecnicamente è un campione di tessuto pensato per testare la reazione dei detersivi per bucato su quel tessuto particolare. Così, ad ogni lavaggio, possiamo controllare che il colore non si sbiadisca rispetto a quello originale.

4. La fessura sul manico delle pentole. La fessura sul manico delle pentole, in apparenza un banale vezzo di design, in realtà serve per riporre il mestolo o qualunque altro utensile con cui mescoliamo il cibo.

5. Il foro nel mestolo per gli spaghetti. Oltre che essere utile per fare passare l'acqua nel momento in cui assaggiamo la pasta per verificarne la cottura, il foro nel mestolo per gli spaghetti ha la funzione di dosatore. La quantità di spaghetti che ci entra corrisponde alla porzione standard per una persona. 

6. Il collo lungo delle bottiglie di birra. Il collo lungo e stretto, utile per impugnare più saldamente la bottiglia e per evitare di scaldare il liquido con il calore delle mani, è tipico delle birre chiare, carenti di schiuma e con una bassa data di scadenza. Le birre scure e maggiormente alcoliche si trovano invece in bottiglie scure dalla forma più larga e dal collo basso. Queste differenze favoriscono una diversa ossigenazione e una diversa fermentazione in base al tipo di birra. 

7. La rientranza sul fondo delle bottiglie di vino e di champagne. Questo tipo di bottiglia garantisce una maggiore resistenza meccanica alla pressione dei gas contenuti nello spumante e nel vino. Inventato nel IV secolo per lo champagne, grazie alla sua particolare conformazione il fondo «a campana» può essere realizzato anche con un vetro sottile. Ormai è comune a tutte le bottiglie di vino e spumante, con l'eccezione dello champagne francese Louis Roederer di tipo «Cristal», creato nel 1876 per lo zar Alessandro II. Lo zar chiese che la bottiglia avesse il fondo piatto e fosse trasparente (motivo per cui venne realizzata in cristallo) poiché temeva che qualcuno potesse usare il fondo a campana per nascondervi una bomba.

8. Il piccolo disco all'interno del tappo delle bottiglie di plastica. Il suo scopo è sigillare per bene la bottiglia ed è usato soprattutto per le bevande frizzanti, in modo da impedire la fuoriuscita del gas.

9. L'anellino sul retro delle camicie. Inventato negli Stati Uniti nel 1960, serviva per appendere le camicie - specialmente negli spogliatoi delle palestre, dove solitamente non c'erano armadietti e appendiabiti. Oggi ha più che altro una funzione decorativa.

10. Il piccolo buco nei finestrini degli aeroplani. Viene chiamato «foro di respirazione» e svolge un’importante funzione di sicurezza. Il tipico finestrino del passeggero è composto da tre pannelli. Quello più vicino al passeggero serve solo a proteggere il pannello di mezzo. I due pannelli più importanti sono quello esterno e quello di mezzo, che contiene il forellino. Quando un aereo prende quota, grazie ai sistemi di pressurizzazione la pressione all'esterno scende molto di più che dentro la cabina. Lo scopo del forellino del pannello di mezzo è riequilibrare la pressione fra la cabina e i due pannelli più interni, cosicché la differenza di pressione sia quasi tutta a carico del pannello più esterno, che è il più resistente. Nel caso il pannello esterno si rompa, quello in mezzo ne assume le funzioni. Il forellino serve anche a rilasciare l’umidità dell’aria compresa fra i pannelli e a impedire che si formino nuvolette o ghiaccio fuori dal finestrino, permettendo la vista. 

11. La parte blu della gomma per cancellare. A chiarire la funzione della parte blu delle gomme Pelikan è stata l'azienda stessa, che presentando il prodotto ha scritto che la porzione di gomma blu serve per cancellare «inchiostro/inchiostro colorato/penne a sfera e pastelli». Ma la spiegazione non ha convinto molti. L'idea più diffusa è che la famigerata parte blu funzioni solo sulle superfici particolarmente spesse.

12. Il buco sul tappo delle penne Bic. Oltre a prevenire la perdita di inchiostro, il foro evita che i bambini (o gli adulti) che abbiano inavvertitamente ingoiato il tappo della penna soffochino. È dal 1991 che le norme di sicurezza prevedono che le penne abbiano quel buchino sul cappuccio.

13. I buchini sui lati delle All Stars. Secondo i progettisti, la principale funzione dei due buchini è fare ventilare il piede, evitando che sudi troppo. Ma un tempo i fori venivano usati anche per infilarci un secondo paio di stringhe, in modo da permettere un'allacciatura della scarpa più aderente. La Converse iniziò a produrre le All Stars nel 1917 con l'obiettivo di entrare nel mercato delle scarpe per il basket.

14. La freccia vicino alla spia della benzina. Niente di più semplice, e di più utile (soprattutto quando si usa una macchina a noleggio in un Paese straniero): serve a indicare su quale lato dell'auto si trova il tappo della benzina.

15. Le lineette in rilievo sotto la F e la J della tastiera dei computer. Queste righe, oltre che ai non vedenti, servono anche a chi sa scrivere senza guardare la tastiera e fungono da punto di riferimento per disporre le dita correttamente. Il tatto percepisce il rilievo su questi tasti, riservati agli indici, e il cervello è guidato nel disporre le restanti otto dita sul tasto convenzionalmente loro assegnato.

16. Il buchino nel righello. Più semplice di qualsiasi spiegazione che ci si possa immaginare. Serve — banalmente — per appenderlo al muro.

17. Il buchino accanto alla fotocamera dell'iPhone. Il foro in questione è un microfono con la funzione di registrare l'audio durante i filmati e consentire la cancellazione attiva del rumore. Grazie a questo microfono l'iPhone è inoltre in grado di riconoscere la nostra voce in maniera più chiara, interpretando meglio i comandi vocali utilizzati con Siri.

18. La cavità nel coperchio della confezione di Tic Tac. Ha la funzione di raccogliere una singola caramellina alla volta, così da non doversene versare una quantità imprecisata nella mano.

19. Il foro sul fondo dei lucchetti. In genere i lucchetti vengono utilizzati per fissare o mettere in sicurezza oggetti che si trovano all’aperto. Il foro che si trova in prossimità della fessura per le chiavi serve a far drenare l’acqua piovana e i vari residui di sporcizia rimasti incastrati. Viene usato anche per lubrificare il lucchetto attraverso olio di vaselina introdotto con una siringa.

20. Il secondo foro sulla linguetta delle lattine. Per utilizzarlo bisogna girare la linguetta verso l'apertura. Serve per infilarci la cannuccia con cui bere.

21. La rigatura intorno al perimetro delle monete. Quando le monete erano fatte d’oro e d’argento alcuni raschiavano via dai bordi un po’ di materiale per rubarlo. Per evitare questo inconveniente (a causa del quale le monete, perdendo il loro peso corretto, diventavano inutilizzabili) si è iniziato a creare monete con un particolare zigrinatura sui bordi, così da poter vedere subito quali erano state contraffatte e quali no. Oggi il motivo della rigatura è aiutare le persone non vedenti a distinguere fra le varie monete. 

22. La forma esagonale delle matite. Lo scopo di questa particolare forma — tipica soprattutto delle matite utilizzate a scopi professionali — è garantire un’impugnatura perfetta. Così che la mano non scivoli durante la produzione del disegno.

23. I sacchettini di silicagel. Questa bustina piena di palline di silicio che troviamo spesso nelle scatole di scarpe, nelle borse e in molti altri oggetti serve per assorbire l’umidità che si potrebbe creare nella scatola stessa.

24. I disegni sulla carta igienica. Servono semplicemente per aderire meglio alla pelle e ottenere una maggiore pulizia.

25. La fessura e la staffa in metallo seghettata all'estremità del metro a nastro. La fessura serve per infilarci le unghie o una vite in modo che il metro non scivoli via, mentre la seghettatura è stata pensata per imprimere un segno sulla parete nel momento in cui dobbiamo prendere delle misure ma abbiamo entrambi le mani occupate.

26. Le «alette» che si aprono sul caricabatterie del MacBook. Si tratta di un comodo ed elegante avvolgicavo. 

27. La parte zigzagata della forcina. La parte zigzagata è la parte inferiore della forcina, quella che va rivolta verso il cuoio capelluto, in modo che la forcina stessa trattenga meglio i capelli.

28. I «cilindretti» presenti in molti cavi. Si tratta di cilindri di ferrite, utilizzati nei cavi molto lunghi o dove serve un'altissima precisione nel segnale elettrico al fine di eliminare i disturbi elettromagnetici dal segnale. In sostanza servono a isolare le frequenze che spesso si generano all’interno di apparecchiature elettroniche e che potrebbero disturbare altri dispositivi durante l’alimentazione. Per esempio, nel caso di cavi che collegano il monitor al PC evitano che le immagini su schermo appaiano disturbate. Nei cavi di ultima generazione non vengono più usati, in quanto le più recenti tecnologie li hanno resi presto inutili.

29. La fessura sul cappuccio del taglierino. L'utilizzo di questa fessura appare chiaro solo una volta che si è sfilato il cappuccio, che a questo punto possiamo usare per eliminare le lame usate. Basta inserire la punta nella fessura e muovere il cappuccio di lato, fino a quando la lama non si spezza. Assicuratevi di non aver tirato fuori gran parte della lama quando eseguite l'operazione, altrimenti spezzerete anche le punte nuove insieme a quella vecchia.

LE FAKE NEWS CHE GIRANO IN RETE.

Le (false) credenze che crescono in Rete: 47 fattoidi da sfatare. Napoleone era basso, la vitamina C fa passare il raffreddore e la muraglia cinese si vede dallo spazio. Tutte affermazioni non vere, ma a cui tutti un po’ crediamo. Ecco come stanno le cose, scrive Vincenzo Scagliarini il 16 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera".

Le gobbe dei cammelli contengono riserve d’acqua. Napoleone era basso. L’emisfero sinistro del cervello è quello razionale, il destro quello artistico. Lo zucchero, per i bambini, è come una droga. L’acqua bolle più in fretta, se salata. E i vaccini provocano l’autismo. Tutte bufale. Sono leggende popolari. E non tutte innocue. Ma, nonostante siano state smentite più volte, continuano a sopravvivere. Sono anche note come «fattoidi»: racconti spiegati con argomenti verosimili, ma non verificati. Persuadono perché sono curiosi e facili da ricordare, più di qualcosa fondato su prove scientifiche. Ecco quali sono i più comuni. E i più sbagliati.

Il primo falso popolare riguarda i cammelli e i dromedari. Al contrario di quello di comunemente si pensa, le gobbe non contengono le riserve d’acqua necessarie alle lunghe traversate nel deserto. Ma masse di grasso. Che però hanno lo stesso scopo. Assicurare l’alimentazione per lunghi periodi. Le protuberanze possono contenere sostanze che provvedono al nutrimento degli animali fino a tre settimane. E quindi come si idratano? Reni e intestino sono così efficienti che riescono a trattenere i fluidi molto di più rispetto agli organi di altre specie e il colon ha un’elevata capacità di riassorbimento dei liquidi. In generale, questi mammiferi possono sopportare la mancanza di cibo e acqua per circa 20 giorni.

I pipistrelli sono ciechi. Considerati ciechi, la maggior parte delle persone pensa che i pipistrelli abbiano a disposizione un sonar per orientarsi al buio. Vero, ma gli occhi li hanno anche loro. Funzionano perfettamente, anche se soffrono di una forte miopia. L’apparato visivo, infatti, si è evoluto nel tempo per migliorare le prestazioni da vicino — per cacciare gli insetti di cui si nutrono — a scapito di quelle da lontano. Anche se esistono specie, come i megachirotteri, che non hanno nessun difetto nella vista e, di notte o di giorno, pianificando il volo anche senza l’aiuto del sonar.

La cintura di castità nel Medioevo. Altro falso popolare riguarda la cintura di castità, che secondo la tradizione le donne nel Medioevo erano obbligate a indossare in attesa che il marito tornasse dalla guerra — le crociate perlopiù — così che il prode avventuriero potesse essere certo di essere accolto al suo ritorno da una moglie fedele. Innanzitutto le fasce metalliche avrebbero causato la morte in caso di una infezione o di una ferita. E ai tempi la cosa succedeva piuttosto spesso. Poi avrebbero reso vane le speranze di ritrovare — oltre che alla propria donna — anche un «piccolo erede» al rimpatrio. Come fa un bambino a crescere nella pancia della mamma se questa è racchiusa da una cinta bloccata con un lucchetto? Sembra invece che gli strumenti si siano diffusi più avanti, nell’800. A questo periodo risalgono reperti attualmente conservati in alcuni musei. Non sono di metallo, ma più morbide e sicuramente non venivano utilizzate per lunghi periodi. Soprattutto, il loro scopo era ben diverso. Ce n’erano sì per le donne, ma queste le indossavano di loro volontà (occasionalmente) per proteggersi dagli stupri. Ce n’erano anche per gli uomini, imposte ai giovani per evitare che si masturbassero. Ai tempi — puritani — questo tipo di atti veniva considerato dannoso per la salute e peccaminoso.

La muraglia cinese si vede dallo spazio. La Grande Muraglia cinese non si vede dallo spazio. Come confermato dagli astronauti delle missioni Apollo, è solo una diceria: tutto quello che si vede dalla Luna (e quindi dallo spazio) è una grande quantità di piccoli punti gialli: le città e le strade illuminate durante la notte.

Napoleone era basso. Napoleone non era basso. Era 1,69 m che, per l’epoca, significava essere alti sopra la media. È una che credenza viene dal suo nomignolo “Le Petit Caporal” (il piccolo caporale), con cui veniva chiamato dagli amici. Inoltre, le sue guardie personali erano selezionate in base all’altezza e, per questo motivo, nei quadri sembra sempre il più basso.

«Con Mussolini i treni arrivavano in orario». «Quando c'era Mussolini i treni arrivavano in orario». È un'altra bufala ormai ampiamente smentita. I lavori di ristrutturazione della rete ferroviaria italiana erano stati compiuti prima del fascismo. E, inoltre, i ritardi c'erano. Ma venivano nascosti, perché la puntualità diventò parte della propaganda fascista. Che, in questo caso, è sopravvissuta alla fine del regime.

I gladiatori dicevano «Ave Caesar». I gladiatori non pronunciavano «Ave Caesar, morituri te salutant» prima di combattere. Tanto meno era qualcosa che si sentiva al Colosseo. Gli storici hanno trovato una sola volta questa frase nella Roma antica. Nel 52 dopo Cristo, un gruppo di criminali si presentò così davanti all’imperatore Claudio prima dei giochi nei quali avrebbero combattuto a morte. Sembra che questo gesto colpì il princeps romano, che decise di risparmiarli.

I cani sudano dalla lingua. I cani sudano solo dalla lingua. È falso. Tutti i canidi regolano la temperatura corporea respirando, ma hanno comunque altre ghiandole sudoripare: si trovano per lo più sotto le zampe.

Il calabrone per la fisica non può volare. «Per la scienza il calabrone non può volare, ma non lo sa. Per questo continua a farlo». È una frase motivazionale che si sente spesso e significa: «Quando si crede in qualcosa, anche l’impossibile diventa possibile». In realtà non ci sono mai stati dubbi sul meccanismo aerodinamico che fa volare i calabroni. L’equivoco nacque negli anni Trenta, quando l’entomologo Antoine Magnan scrisse nel suo saggio «Le vol des insectes» che, in teoria, i calabroni non potrebbero volare. Ma si accorse subito dell’errore e si corresse. Nel frattempo, però, la frase riscosse tanto successo da entrare nel linguaggio popolare. Per rimanerci.

Scrocchiare le dita fa male. Scrocchiarsi le dita provoca l’artrite. Falso: non c’è alcuna prova scientifica. Gli unici test dimostrano che questa pratica non infiamma le articolazioni. È però stato rilevato che, se fatta con troppa energia, può danneggiare tendini e legamenti delle mani.

Le diete «purificanti». Non esiste nessuna «dieta purificante» né che «elimina le tossine». Quando incontriamo queste espressioni, ci stanno dando un consiglio sbagliato. Le tossine dell’organismo possono essere smaltite solo dal fegato e dai reni. Il cibo non ha alcuna capacità di rimuoverle.

Troppe uova fanno male. Il colesterolo delle uova fa male al cuore. Falso: è una credenza ritenuta vera fino agli anni Sessanta. Poi è stato dimostrato che, i veri nemici sono i grassi saturi (che non abbondano nelle uova).

Sushi vuole dire «pesce crudo». La parola “sushi” significa “pesce crudo”. La traduzione corretta è piuttosto “assaggio acido” e in Giappone il termine si riferisce ad una vasta gamma di cibi preparati con il riso.

Lo sciacquone va al contrario nell’emisfero sud. Il flusso dello sciacquone del water cambia direzione in base all’emisfero in cui ci troviamo. La vera causa del reflusso al rovescio sono in realtà i getti d’acqua che puntano nella direzione opposta.

Le unghie crescono anche da morti. Le unghie continuano a crescere anche dopo morti. E come può essere, visto che il meccanismo che favorisce la crescita dei tessuti si è spento con il decesso? Infatti, non è. Piuttosto, è la disidratazione del corpo che avviene in seguito alla morte che causa la ritrazione della pelle attorno ai capelli e alle unghie, dando quindi l’impressione che siano cresciuti.

I tori si arrabbiano con il rosso. I tori sono attirati dal colore rosso. È scientificamente dimostrato che i tori distinguono solo il giallo e il blu. La loro reazione al drappo rosso è scatenata esclusivamente dal movimento rotatorio.

Bisogna stare lontano dal microonde. Le radiazioni del microonde causano il cancro. Preconcetto assolutamente ingiustificato: stando infatti a numerose ricerche sull’argomento, i forni a microonde non producono energia sufficiente a danneggiare il Dna cellulare e quindi non possono causare un tumore.

Svegliare un sonnambulo è pericoloso. Svegliare un sonnambulo può essere pericoloso per la sua salute. In realtà, rischia solo di lasciarlo un po’ sorpreso e disorientato, senza però procurargli alcun danno fisico.

Gli antichi romani erano bulimici. Durante i banchetti, gli antichi romani vomitavano pur di continuare a mangiare. Falso, ma c'è chi si è spinto oltre: le case dei nobili avevano un «vomitorium» una stanza creata per questo scopo. Anche questa una bufala. Nessuna fonte documenta questa pratica. Certo, la parola può ingannare, ma i «vomitoria», erano gli ingressi laterali dei teatri. (da «vomere», espellere).

Buddha è grasso. Buddha in realtà non è grasso. L’asceta indiano Siddhārtha Gautama, che ha fondato questa filosofia è magro, come mostrato in questa statua del IV secolo dopo Cristo. Il personaggio calvo, sorridente e con il pancione rotondo viene dalla tradizione cinese. Il suo vero nome è Budai, un eroe popolare del X secolo venerato per essere l’incarnazione di Maitreya (il futuro Buddah).

Il 25 dicembre è il compleanno di Gesù. Gesù non è nato il 25 dicembre. Nei Vangeli non c’è mai questa data. È stata fissata da papa Giulio I nel 350 dopo Cristo. È stata scelta per due ragioni: la prima, perché si credeva che l’immacolata concezione fosse avvenuta il 25 marzo, la seconda per rimpiazzare la festa pagana del «Sol Invictus», che cadeva lo stesso giorno e concludeva il ciclo dei Saturnali, la celebrazione radicata a Roma.

I Magi sono dei Re. Nei Vangeli non ci sono i «tre magi». Né si fa riferimento a loro come re, tanto meno si parla di cammelli con i quali avrebbero viaggiato. Troviamo un generico «alcuni magi». Il numero è stato ricavato perché si parla di tre doni portati a Gesù che gli artisti, a partire dal III secolo, hanno messo in mano a tre personaggi diversi nelle scene della natività.

I vaccini provocano autismo. I vaccini possono provocare autismo. Questa è una delle bufale più pericolose. Non c'è alcun tipo di prova scientifica. Eppure tra le più difficili da sradicare. Perché viene agganciata a teorie complottiste e ad argomentazioni pseudo-scientifiche. Crederci, e rinunciare al vaccino esavalente, può mettere a rischio la vita di un bambino. È uno dei falsi miti da combattere.

I geni hanno l’emisfero destro più sviluppato. Non esiste alcuna divisione dei talenti tra emisfero destro e sinistro del cervello. Alcune funzioni, come quella del linguaggio, tendono attivare un'area specifica del cervello, ma niente di più. Inoltre, se questa zona è stata danneggiata durante l'infanzia, queste capacità si collocano altrove, senza che ci siano menomazioni. Tutto ciò è noto da sempre, eppure continuano a circolare test e mappe (come quella qui sopra) nelle quali vengono associate qualità personali alle zone del cervello. Che portano a conclusioni strambe come: «Sei creativo: vuol dire che nel tuo cervello prevale l'emisfero destro».

Il terzo mondo sono i Paesi più poveri. Terzo mondo non significa «Paesi sottosviluppati». È un termine che continua a essere usato, ma non ha più senso. È stato coniato negli anni Cinquanta dall'economista francese Alfred Sauvy per definire l'assetto geopolitico dopo la Seconda guerra mondiale. E cioè: primo mondo, dove c'era l'economia di mercato; secondo mondo, il blocco socialista; terzo mondo, i Paesi non allineati, e quindi quelli africani.

I fulmini non colpiscono mai lo stesso punto. I fulmini colpiscono lo stesso punto una sola volta. Anche questo è falso (e pericoloso). I fulmini si scaricano prima di tutto sugli oggetti alti o metallici. Se quindi un albero è già stato colpito, non diventa affatto un punto sicuro.

Prima di Copernico, nessuno sapeva che la terra era rotonda. Nel Medioevo non si pensava che la Terra fosse piatta, è sempre stata una leggenda popolare. Che fosse rotonda era già noto ai greci (Eratostene ne aveva già calcolato la circonferenza, anche se sovradimensionandola) e queste conoscenze non furono mai dimenticate. La verità è questa: Cristoforo Colombo incontrò difficoltà nel trovare finanziamenti al suo viaggio perché si pensava che non avrebbe mai avuto provviste sufficienti per la traversata oceanica fino alle Indie. E i consiglieri dei regnanti non avevano tutti i torti. Il navigatore genovese aveva a sua volta sbagliato a calcolare la circonferenza terrestre, ritenendo il pianeta molto più piccolo e, se non avesse incontrato il continente americano a metà tragitto, avrebbe finito i viveri prima di raggiungere l’Asia.

Jihad vuol dire «guerra santa». Jihad non significa «guerra santa». Può esser tradotto alla lettera come «sforzo» (per questo è più corretto usare il sostantivo al maschile) e indica la battaglia interiore che un musulmano deve compiere contro le tentazioni. Però è una parola malinterpretata tanto dai media quanto dai fondamentalisti islamici. E dalla propaganda di Daesh.

Il sole è giallo. Il vero colore del Sole è il bianco. Lo vediamo giallo solo quando è vicino all’orizzonte, per effetto della «diffusione ottica». Nonostante ciò nell’immaginario collettivo è sempre giallo. Il perché abbiamo tutti quest'immagine fissa, non è ancora stato chiarito dalla scienza.

L’Everest è la montagna più alta del mondo. L’Everest è la montagna più alta del mondo. Anche se lo riportano tutti i libri di geografia, tecnicamente potrebbe non essere così: la cima dell’Everest è ufficialmente la più alta al mondo sul livello del mare (8.848 metri), ma il vulcano hawaiano Mauna Kea (letteralmente, “montagna bianca”) è il monte più alto della Terra se misurato rispetto alla base, che si trova a quasi 5.761 metri sotto il livello del mare e che, uniti ai 4.205 metri di altezza, gli permettono di raggiungere i 9.966 metri complessivi.

Ogni anno di un uomo equivale a 7 anni di un cane. Un anno dell’uomo equivale a sette del cane. Se è vero in alcuni casi, questo però non significa che lo sia sempre, perché in realtà dipende dalla razza e dalla stazza del cane.

Ogni zona della lingua controlla un gusto. Le diverse zone della lingua rivelano gusti differenti. Credenza ufficialmente confutata da una ricerca che ha dimostrato che tutta la lingua è coinvolta nel processo gustativo, sebbene alcune parti di essa siano più recettive di altre a determinati gusti.

Gli esseri umani hanno 5 sensi. Gli esseri umani hanno cinque sensi. Vero, anche se in realtà i sensi sono almeno nove e per qualche ricercatore addirittura più di ventuno, ma udito, vista, tatto, olfatto e gusto sono quelli comunemente riconosciuti.

I biscotti della fortuna sono cinesi. I biscotti della fortuna sono una tradizione cinese. In realtà hanno un’origine nippo-americana e solo successivamente sono entrati nella cultura cinese.

I vichinghi avevano elmi con le corna. I Vichinghi indossavano elmi con le corna. Anche se in genere siamo abituati a vederli rappresentati in questo modo, non c’è in realtà alcuna prova che confermi la predilezione di copricapi con le corna da parte di questo antico popolo.

Il «frutto proibito» è una mela. Il frutto proibito di cui si parla nel Libro della Genesi è una mela. Spulciando le pagine della Bibbia, non si trova alcuna menzione della mela come frutto proibito.

La vitamina C cura il raffreddore. La vitamina C è efficace contro il raffreddore. Consiglio tramandato da generazioni ma non per questo vero: secondo gli studiosi non ci sarebbero infatti prove concrete che la vitamina C curi il raffreddore; casomai, può aiutare a rafforzare il sistema immunitario, così da proteggere l’organismo dagli attacchi del virus.

Marte è rosso. Marte è rosso. Il colore rosso del quarto pianeta del sistema solare è solo un effetto dovuto alla grande quantità di ossido di ferro presente nelle rocce superficiali.

I girasoli seguono il sole. Un preconcetto assai diffuso sostiene che le corolle dei girasoli seguano il sole nel cielo quando sono in piena fioritura. La verità è invece che l’allineamento uniforme dei fiori è il risultato di un fenomeno noto come “eliotropismo”, che tende ad orientare foglie e fiori nella direzione del sole grazie ad alcune cellule motrici poste al di sotto del bocciolo.

Non usiamo tutto il cervello. Le persone usano solo il 10% del cervello. Si tratta di un falso mito, spiegano i neurologi, perché l’essere umano usa virtualmente tutto il cervello e molte parti di esso sono attive quasi senza sosta.

Il sangue senza ossigeno è blu. Prima di essere ossigenato, il sangue è blu. Falso, il sangue è sempre rosso, sebbene la gradazione possa differire a seconda dei livelli di ossigeno.

Il pesce rosso ricorda solo gli ultimi 3 secondi. Il pesce rosso ha una memoria di tre secondi. Povero pesciolino! In realtà, ha un’ottima memoria per essere un pesce e può essere persino addestrato a reagire alla luce e a certi tipi di musica.

Fare il bagno dopo mangiato fa male. Bisogna aspettare almeno un’ora dopo che si è mangiato prima di poter fare un bagno in tutta sicurezza - Dopo mangiato il sangue viene attratto verso stomaco e intestino, che devono «lavorare» per digerire. Quindi ne rimane a disposizione meno per i muscoli e per il resto dell’organismo. Se si svolge un’attività fisica intensa dopo mangiato si verifica quindi una «competizione» fra apparato digerente e muscoli che «si contendono» il sangue. Questo può comportare una difficoltà a digerire o una particolare stanchezza, che può portare in qualche caso allo svenimento per «furto di sangue» al cervello. Se ciò accade in acqua è chiaro che ci sono dei rischi, perché si rischia l’annegamento. Ma un conto è fare una lunga nuotata in mare, soprattutto se l’acqua è fredda. Un altro conto è pucciarsi è «pucciarsi» in acqua calda o tiepida, magari in una piscina (o persino nel bagno di casa). È evidente che il rischio è diverso.

Quando siamo più vicini al Sole, è estate. Le stagioni sono legate alla vicinanza della Terra al sole. In verità il fenomeno delle stagioni è causato dall’inclinazione della Terra sul proprio asse di rotazione (lo ricorda anche Wikipedia): nel corso dei mesi muta l’angolo di incidenza dei raggi solari che raggiungono la superficie del nostro pianeta. Quindi, quando un emisfero si trova in inverno, i raggi solari colpiscono la superficie con una maggiore inclinazione rispetto all’orizzonte. Dunque si ha un minore grado di irraggiamento: l’atmosfera e la superficie assorbono meno calore e tutto l’emisfero risulta più freddo. Viceversa, quando in un emisfero è estate, i raggi tendono al perpendicolo rispetto all’orizzonte e sia l’atmosfera che la superficie assorbono maggior calore, con un conseguente aumento di temperatura.

Il cioccolato fa venire i brufoli. Mangiare tanto cioccolato fa venire i brufoli. Un luogo comune caro alle nostre nonne che però non sarebbe avallato da alcuna prova scientifica.

Gli struzzi impauriti mettono la testa sotto la sabbia. Gli struzzi nascondono la testa sotto la sabbia quando hanno paura. La verità è un tantino diversa. Gli struzzi ingoiano ciottoli per aiutarsi a digerire il cibo, ma per riuscire a trovarli sono costretti a mettere la testa sotto alla sabbia. Quindi la paura non c’entra proprio nulla.

Il pomodoro è un ortaggio. Il pomodoro è un ortaggio. Errore: è un frutto e appartiene alla famiglia delle solanacee, di cui fanno parte anche patata, peperone e melanzana. Non a caso, gli Aztechi lo chiamavano “tomaltl”, che significa appunto “frutto polposo”.

L’HA DETTO LA TELEVISIONE! LE FAKE NEWS DI STATO.

Disinformazia. La comunicazione al tempo dei social, libro di Francesco Nicodemo. Undici anni fa «Time» incoronò persona dell’anno «You»: «You control the Information Age. Welcome to your world» si leggeva in copertina. Ma è davvero così? Siamo noi a controllare l’informazione grazie alla rete? A ben vedere, il «rumore di fondo» ha preso il sopravvento, disorienta i cittadini e ne influenza le decisioni. Vaccinare i propri figli, iniziare una terapia medica, fidarsi della scienza o lasciare che si insinui il dubbio, mettendo in discussione certezze ormai acquisite? E come agire da elettori consapevoli? È possibile operare una scelta ponderata sottoposti come siamo al fuoco di fila di notizie inesatte, falsi allarmismi, parole di odio? Francesco Nicodemo prova a smascherare in questo libro le distorsioni che agiscono sulla nostra percezione della realtà. In ballo vi è la vittoria tra due visioni contrapposte: un mondo ripiegato su se stesso e sulle sue paure, che propone ricette anacronistiche a problemi sempre nuovi, e uno aperto, ottimista, orientato al progresso. Sullo sfondo, una profonda convinzione: la risposta più decisa deve arrivare dalla politica. In che modo? «Coinvolgendo, dialogando, usando in maniera costruttiva le potenzialità offerte dal digitale, facendo sentire ciascuno protagonista di un progetto comune».

Disinformazia, élite e bufale on line: un libro, scrive Alessandro Gilioli il 3 luglio 2017 su "L'Espresso". Non sono d'accordo con Francesco Nicodemo, e questa non è una gran notizia: da almeno quattro anni litighiamo pubblicamente e privatamente di politica, Renzi, Jobs Act, riforma costituzionale e altro. Del resto Nicodemo ha seguito Renzi dalle prime Leopolde, fino a diventare tra il 2013 e il 2014 il responsabile nazionale della comunicazione del Pd - insomma per il segretario Pd ha fatto a lungo "la propaganda" e credo che non ci sia stato suo post a cui io non abbia polemicamente risposto. Privatamente, tra uno scazzo e l'altro, gli dicevo tuttavia che era sprecato per quel lavoro; e la conferma che almeno in questo avevo ragione è arrivata in libreria con "Disinformazia - La comunicazione al tempo dei social media", appena edito da Marsilio. Libro su cui (appunto) ho note di disaccordo ma a cui non si può negare di volare alto nello sforzo di interpretare alcune delle questioni più dibattute del nostro tempo - almeno per quanto riguarda la comunicazione: fake news, post verità, "camere dell'eco" e filter bubble sui social, effetto degli algoritmi proprietari, pregiudizi di conferma ("bias"), clickbaiting, odio in Rete e trollismo. Il tutto connesso (secondo l'autore) con alcuni degli esiti politici più recenti, come Brexit e Trump ma più in generale l'affermarsi nel dibattito di controversie basate su bufale a proposito di vaccini, migrazioni e complotti vari. L'approccio con cui Nicodemo cerca di analizzare i temi di cui sopra si basa tanto sulla sua esperienza quotidiana di comunicatore quanto sulle risposte che provano a dare i maggiori studiosi della rete e sui dati delle ricerche più recenti e approfondite in merito. Quello che ne esce, secondo Nicodemo, è una "tempesta perfetta" a cui tante concause diverse hanno contribuito (marciando divise ma colpendo unite) fino a creare un caos informativo, un rumore di fondo talmente potente da coprire i dati di realtà, fino al riunirsi in tifoserie da curva sud contrapposte e spesso ugualmente malinformate. Tra queste concause, Nicodemo ipotizza che sia particolarmente significativa quella delle "solitudini globali" (evidente il riferimento a Bauman) proprie delle società in cui sono sparite le vecchie strutture aggregative e non si sono ancora create quelle nuove. Ma accanto a queste, l'autore cita possibili altre cause, a partire da quando è nato l'Internet 2.0 e da lì la comunicazione è diventata orizzontale e degerarchizzata, con tutte le potenzialità ma anche i rischi di questo passaggio, specie all'interno di piattaforme (i social) i cui algoritmi finiscono per stimolare tanto i "filter bubble" (la camere dell'eco, in cui ciascuno frequenta solo suoi simili) quanto i "bias" (quel meccanismo per cui ciascuno cerca solo chi conferma i suoi pregiudizi, evitando le contaminazioni coi diversi), mentre taluni approfittano di questi meccanismi per banali interessi economici (il clickbaiting e i profitti che ne derivano) o politici (cioè di propaganda di parte basata consapevolmente sui falsi). Solo accennata (e qui viene il mio primo grosso punto di disaccordo) è quella che secondo me è la principale causa del problema, cioè la crisi reputazionale delle élite, il crollo di autorevolezza e di credibilità dei vecchi gatekeeper della conoscenza, della comunicazione, dell'informazione: "esperti", "tecnici", giornalisti, analisti, economisti e via andare. Insomma di coloro che per missione dovrebbero fornire i dati e gli strumenti di interpretazione del reale e che invece hanno sbagliato quasi tutto, piegandosi per insipienza, cecità o malafede alla narrazione e alla egemonia culturale che poi ha portato al cupo presente dell'Occidente fatto di impoverimento, disuguaglianze, precarietà, individualismo, assenza di prospettive, guerre tra poveri, pulsioni di fuga o di rabbia. Pulsioni che poi - certo - hanno trovato espressione e declinazione nella rete 2.0 e nei social, e magari sono state distorte dai suoi algoritmi o strumentalizzate dai suoi pelosi "professionals", ma questa è appunto la declinazione, non la causa profonda. Altrettanti dubbi nutro sulla ricetta finale proposta da Nicodemo, cioè sull'affidamento alla politica in un'ottica di ri-razionalizzaziione della comunicazione, seppur non in termini di imposizione autocratica bensì di ricreazione di nuove forme di aggregazione sociale, insomma di "lotta riformista" contro le solitudini globali viste come cause di fondo degli effetti di cui sopra. Certo che la politica ha i suoi doveri; ma mi pare che quella dominante vada da tempo nella direzione opposta a quella indicata (compresa la parte a cui fa riferimento Nicodemo, cioè il Pd) sicché non ho moltissima fiducia che essa abbia interesse e/o capacità, al momento, di rovesciare la tendenza all'atomizzazione, all'individualismo, al tutti-contro-tutti, al ciascun per sé e alla guerriglia molecolare. È, semmai, il ribaltamento dell'egemonia culturale individualista e vincista che può forse ridurre le cause di questa disaggregazione, di questa atomizzazione violenta. E questo ribaltamento di egemonia è compito di ciascuno di noi - "alto" o "basso", politico o no, professionista o meno della comunicazione - così come è responsabilità esclusiva invece degli ex gatekeeper ("esperti", economisti, analisti, giornalisti etc) riconquistare sul campo giorno dopo giorno quella credibilità e quella autorevolezza che pensano di aver perso per colpa del web 2,0 e che invece hanno perso (soprattutto in Italia!) quasi esclusivamente per colpa loro, della loro pigrizia intellettuale o del loro accomodarsi accanto al più potente.

Facebook non è un tribunale. Ecco perché la legge tedesca è sbagliata. Ieri la Germania ha approvato una norma che dà 24 ore di tempo ai social network per rimuovere qualsiasi contenuto "manifestamente illecito", e sette giorni per quelli che lo sono ma non in maniera manifesta. Altrimenti sanzioni da 50 mila a 50 milioni di euro. Ma questo è un concetto che si evolve, e pure molto velocemente, scrive Guido Scorza il 2 luglio 2017 su "La Repubblica". Ventiquattrore per rimuovere qualsiasi contenuto "manifestamente illecito", sette giorni per per rimuovere i contenuti la cui illiceità non è manifesta. E in caso di inadempimento sanzioni da 50 mila a 50 milioni di euro. E' questa la ricetta tedesca, diventata legge ieri, per costringere i social network e, più in generale, i gestori delle piattaforme che consentono la pubblicazione di contenuti prodotti dagli utenti a contribuire più attivamente rispetto a quanto accaduto sin qui nella lotta ai contenuti illeciti online. Ma che significa "manifestamente illecito" quando si tratta di idee, opinioni, immagini o video pubblicate dall'utente di un social network? Certo, in talune ipotesi limite, rispondere può essere facile o, almeno, meno difficile ma nella più parte dei casi è un esercizio straordinariamente difficile per il più dotto e raffinato dei giuristi, figurarsi per un moderatore in batteria di quelli schierati dai gestori delle grandi piattaforme online nel tentativo di limitare la circolazione di taluni contenuti online. Il confine tra l'esercizio della libertà di parola nella più grande piazza pubblica della storia dell'umanità e l'abuso di tale libertà è labile, sottile, sfuggente, magmatico e in continuo divenire a un ritmo direttamente proporzionale a quello con il quale si trasformano la cultura, lo stile di vita, il modo di parlare o la il limite di tolleranza nei rapporti all'interno di qualsivoglia comunità da quella famigliare a quella globale. Immagini e parole che oggi affollano la nostra prima serata televisiva, solo una manciata di anni fa sarebbero state ritenute illecite, offensive, ingiuriose o diffamanti persino se mostrate o pronunciate in un circolo ristretto e protetto da solide mura. I tempi si evolvono e i costumi cambiano e, peraltro, tutto questo non avviene contemporaneamente in ogni angolo del mondo e neppure di un singolo Paese. Il rischio di considerare lecito ciò che meriterebbe di essere ritenuto illecito e quello ancora più elevato di ritenere illecito ciò che meriterebbe di essere considerato lecito è sempre in agguato e quando si stabilisce - come ha appena fatto il Parlamento tedesco -  che a valutare se un contenuto meriti di restare online o, al contrario di essere rimosso debba essere una società privata anziché un tribunale il rischio inesorabilmente aumenta sino a diventare democraticamente insostenibile. Facebook e con Facebook ogni altro gestore di piattaforme online non sono tribunali, nei loro dipartimenti che si occupano di moderazione non siedono giudici che rispondono solo alla legge ma dipendenti e dirigenti che, in ultima analisi, rispondono agli azionisti e al mercato. E le regole del mercato non sempre - anzi quasi mai - sono democratiche o, comunque, lo sono decisamente meno delle leggi di uno Stato che, ormai, salvo - per fortuna - poche eccezioni si ispirano a Carte costituzionali e convenzioni internazionali nelle quali è scolpito a chiare lettere un principio secondo il quale la libertà di parola di ogni uomo e di ogni cittadino è un diritto fondamentale. Ma non basta. La legge tedesca, infatti, non solo confonde una corporation con un tribunale e le regole del mercato con quelle della Costituzione ma introduce una perversa e pericolosa variabile nel giudizio affidato ai gestori delle grandi piattaforme online: multe multimilionarie se considerano lecito un contenuto che avrebbe dovuto essere ritenuto illecito e omettono di rimuoverlo in una manciata di ore ma nessuna conseguenza, di nessun tipo se, al contrario, considerano illecito e rimuovono un contenuto che viene poi accertato essere lecito e, dunque, mettono un cerotto sulla bocca ad un uomo che aveva semplicemente scelto Internet per manifestare liberamente la propria opinione. Ve lo immaginate un arbitro di una partita di pallone che rischiasse di perdere metà dello stipendio se non fischiasse un rigore che poi la moviola accertasse dover essere fischiato mentre non rischiasse alcunché laddove fischi un rigore che poi la moviola accertasse inesistente? Secondo voi quell'arbitro sarebbe sereno nel suo giudizio e indifferente nella scelta tra fischiare un calcio di rigore in ogni caso dubbio? Quella tedesca è una legge sbagliata, è una legge muscolare con la quale, con straordinaria miopia politica e giuridica, si immolano principi e diritti fondamentali di uomini e cittadini - oggi utenti del web - sull'altare di una guerra santa che non ha ragione di essere e che, peraltro, con questi strumenti non si può vincere. Esistono oggi - e naturalmente non sarà sfuggito al Parlamento tedesco - software che consentono con straordinaria semplicità e in maniera completamente automatizzata di ripubblicare online un contenuto ogni ora, minuto o secondo con l'ovvia conseguenza che se anche Facebook e soci adempissero, a tempo di record, ai nuovi obblighi loro imposti dal Parlamento tedesco, la quantità di contenuti illeciti presente online potrebbe non diminuire neppure di un bit. Svuotare Internet dai contenuti illeciti senza compromettere, in maniera importante, la libertà di manifestazione del pensiero è velleitario tanto quanto pensare di svuotare il mare con un secchiello. Non c'è esercito di moderatori e non c'è sanzione multimilionaria rivolta ai gestori di questa o quella piattaforma capace di ribaltare tale conclusione. Online come offline i contenuti illeciti si accompagnano a quelli leciti, la buona informazione a quella cattiva, i reati di opinione alla libertà di parola. Non esistono scorciatoie o filtri magici per fermare il male lasciando correre il bene. Si può - e, anzi, si deve - rendere sempre più efficiente e veloce - nel rispetto del diritto alla difesa - la giustizia dei Giudici e, in taluni limitati casi, quella delle autorità indipendenti ma guai a derogarvi specie quando in gioco c'è la libertà di parola.

Dietro le logiche del controllo di Facebook: ecco perché tutela gli uomini bianchi ma non i bambini neri. Un’inchiesta del giornale statunitense ProPublica fa luce sui controversi criteri in base ai quali il colosso di Menlo Park rimuoverebbe i post contenenti discorsi d’odio. Le regole sarebbero dovute valere anche per la campagna social sul Muslim Ban di Donald Trump, scrive Valentina Barresi il 30 giugno 2017 su "La Repubblica". Mentre Facebook è pronto ad assoldare una nuova schiera di sorveglianti per dare manforte agli esperti che ogni giorno si scagliano contro i disseminatori d'odio sulle sue bacheche, l'ultima inchiesta di ProPublica fa luce sui famigerati "algoritmi della censura" utilizzati dallo staff del social network per tutelare i destinatari di attacchi virtuali. Nel mirino dei controllori della piazza digitale più affollata del mondo ogni settimana finiscono circa 66 mila post bollati come "messaggi d'odio": la scure dell'azienda di Mark Zuckerberg si abbatte su imprecazioni, offese, incitazioni alla violenza. Messaggi d'odio caratterizzati, però, da una particolarità. A essere eliminati sono infatti quei post che attaccano determinate categorie protette, definite in base a criteri universali quali "sesso, razza, identità di genere, appartenenza religiosa, orientamento sessuale, nazionalità, etnia, disabilità o malattie gravi". Un meccanismo semplice, che però produce esiti paradossali quando gli hate speech sono rivolti a "sottoinsiemi" di tali categorie, contro i quali gli utenti dietro la tastiera hanno più ampio margine di manovra. Un esempio della giornalista Julie Angwin rende l'idea. Entrata in possesso dei documenti interni all'azienda, la firma di ProPublica ha diffuso uno dei quiz somministrati da Facebook ai propri revisori di contenuti: in una slide vengono accostati una "donna autista", due "bambini neri" e un gruppo di "maschi bianchi". Ebbene, la categoria da proteggere dagli attacchi d'odio, a dispetto di quello che la logica comune suggerirebbe, sarebbe la terza. Quale principio si cela dietro tale apparente arcano? Il mondo di Facebook è regolato da una formula, in base alla quale gli "uomini bianchi" sono considerati un gruppo tutelato dal sistema, poiché entrambe le caratteristiche di sesso e razza che lo costituiscono sono protette. La "donna autista" e i "bambini neri" sono invece da considerarsi sottoinsiemi: soltanto una delle due caratteristiche che li compongono è protetta, pertanto per loro non si configura l'hate speech. Per lo stesso principio, sono tutelate le "donne irlandesi", ma non i "teenager irlandesi" combinazione di età (non protetta) e nazionalità (protetta).

Un altro caso che oppone "universale" a "specifico", è quello riguardante le reazioni a un recente attacco terroristico a Londra: Clay Higgins, deputato repubblicano della Louisiana, ha scritto su Facebook che bisognava fare una strage di tutti i "musulmani radicalizzati" da "cercare, identificare e uccidere".  Ma il suo post non è stato rimosso. Quando invece fu il poeta e attivista di Black Lives Matter Didi Delgado a scrivere "Tutte le persone bianche sono razziste. Parti da questo punto di vista, o hai già fallito", il post fu cancellato e il suo account disabilitato per giorni. Mentre il primo post contiene un invito alla violenza che in teoria non viola gli standard, in quanto rivolto a una specifica sottocategoria di musulmani, il secondo è un attacco a un'intera categoria, i bianchi, e gli algoritmi di Facebook sono istruiti per identificare post di questo tipo e rimuoverli. Una sfida complessa, scrive ancora ProPublica, è poi quella della gestione del dibattito politico sui social media. A essere citato è il caso Donald Trump. Secondo i documenti analizzati dal giornale statunitense, nei suoi post a favore del Muslim Ban, il tycoon avrebbe ripetutamente violato le politiche di Facebook, incitando all'esclusione di gruppi protetti. In quel caso, Mark Zuckerberg in persona è intervenuto per evitare che i messaggi venissero rimossi, così da proteggere l'azienda da possibili accuse di parzialità durante la campagna elettorale. "Le nostre policies non portano sempre a risultati perfetti" ammette Monika Bickert, responsabile della gestione globale delle politiche di Facebook - Ma questa è la realtà con cui confrontarsi in quanto abbiamo politiche che si applicano a una comunità globale, dove le persone in tutto il mondo avranno idee diverse su cosa va bene condividere". Sebbene Facebook sostenga che i testi potrebbero essere leggermente cambiati nelle versioni più recenti delle regole per la revisione dei contenuti fornite al suo staff, gli episodi in cui il suo sistema di controllo si è rivelato inefficace sono innumerevoli. Il principio del politically correct dietro al meccanismo si è così ritorto contro lo stesso colosso, che ambisce a connettere il mondo intero attraverso la sua rete, ma fallisce nel tutelare i più vulnerabili a una ferocia virtuale dagli effetti spesso tangibili.

Perché crediamo alle «bufale» e non vogliamo mai cambiare idea. Che cosa ci spinge a rimanere ancorati a convinzioni smentite da prove concrete? In gioco entrano ideologie, valori e visioni del mondo oppure paure e fobie. Ma talvolta può diventare decisiva è la necessità di salvaguardare l’identità personale o di gruppo, scrive Danilo di Diodoro il 2 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Cosa ci induce a credere a un fatto scientificamente provato, oppure, al contrario, a sospettare della sua credibilità? Perché, in un momento in cui la scienza sembra raggiungere obiettivi ogni giorno più spettacolari cresce il malumore nei suoi confronti? Uno dei più eclatanti esempi di questo fenomeno è la spaccatura che si è creata sul fronte delle vaccinazioni, dove si parlano, senza capirsi, da una parte gli scienziati che portano prove schiaccianti sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini, dall’altra gli antagonisti che non credono a tali prove e sospettano macchinazioni dettate da interessi e manipolazioni. La ricerca svolta negli ultimi anni in ambito psicologico ha scoperto alcuni meccanismi che potrebbero sottostare a tale conflitto, come quella particolare distorsione cognitiva definita “ragionamento motivato”, una tendenza naturale che porta a selezionare le informazioni che riceviamo in modo che corrispondano alle nostre convinzioni, mentre vengono scartate come poco affidabili o credibili le informazioni dissonanti. Quindi il meccanismo naturale di funzionamento della mente umana sembrerebbe per sua natura funzionare al contrario: non sono i fatti a convincerci, ma le convinzioni a selezionare i fatti sui quali ci basiamo. Il fenomeno del ragionamento motivato è noto da tempo, come fa notare Kirsten Weir in un articolo appena pubblicato dall’American Psychological Association, nel quale viene ricordata una classica ricerca effettuata da Peter Ditto, psicologo sociale dell’University of California: a due gruppi di soggetti furono presentati risultati favorevoli o sfavorevoli di un test medico fittizio sulla funzionalità del loro pancreas. Chi aveva ricevuto un responso di malattia era molto più propenso dei partecipanti dell’altro gruppo a screditare l’affidabilità del test e a cercare una seconda opinione. Potrebbe anche sembrare naturale: perché mettere in dubbio una buona notizia e non invece una cattiva, che, fra l’altro, apre la strada a esami e cure magari inutili? Però altre ricerche hanno confermato questa tendenza a non accettare facilmente informazioni che ci mettono in difficoltà, ma anche quelle che contrastano con le nostre profonde convinzioni personali, con i nostri valori morali o perfino con quelli del gruppo nel quale ci identifichiamo. «Persone convinte che la ricerca sulle cellule staminali sia moralmente riprovevole quasi sempre dubitano che abbia qualche probabilità di indurre futuri passi avanti significativi in Medicina», dice Brittany Liu, dell’University of California, che insieme a Ditto ha pubblicato sulla rivista Social Psychological and Personality Science un articolo su come le valutazioni morali diano forma alle convinzioni. L’articolo è basato su una complessa ricerca composta da tre diversi studi sperimentali sulla psicologia delle scelte individuali e ha dimostrato come più forte è la convinzione che una persona già ha, più radicata è la sua idea di avere tutte le informazioni necessarie, e più decisa sarà la sua attività di selezione dei fatti provenienti dal mondo esterno, in modo che corrispondano a tali convinzione e idea. Eppure i fatti, soprattutto quelli provenienti dalla scienza, dovrebbero avere una solidità e un’incrollabilità tali da non dover o poter essere discussi. Viene attribuita al sociologo e senatore americano Daniel Patrick Moynihan la frase: «Tu hai diritto ad avere le tue opinioni alle quali credere, ma non dovresti avere diritto ad avere i tuoi fatti ai quali credere». In realtà i fatti scientifici sono continuamente messi in discussione, come se la scienza non riuscisse ad affermarsi al di fuori di certi ambiti, oltre i quali sembrano vigere tranquillamente altre regole. Dice in proposito Matthew Hornsey, professore di psicologia alla University of Queensland australiana: «Malgrado il fatto che il 97 per cento degli scienziati climatologi concordi sul fatto che il rilascio di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera influenzi il nostro clima, circa un terzo della popolazione dubita che il cambiamento del clima sia causato primariamente dall’attività umana. Dopo una riduzione durata circa un secolo nel tasso di malattie infettive, c’è stato un recente aumento di morbillo, rosolia, parotite, pertosse, una tendenza in parte attribuibile all’errata convinzione che le vaccinazioni possano causare malattie piuttosto che prevenirle». Secondo il professor Hornsey che ha pubblicato, insieme a Kelly Fielding, un articolo in merito sulla rivista American Psychologist, posizioni così apertamente antiscientifiche sono, da un punto di vista psicologico, la punta dell’iceberg, quelle che lui chiama “attitudini di superficie”. Sotto covano le cosiddette “radici delle attitudini”, che non sono modificabili dalle prove scientifiche: ideologie, valori e visioni del mondo, ma anche la necessità di salvaguardare identità personale o di gruppo, oppure profonde paure personali e vere e proprie fobie. In Internet si possono trovare informazioni medico-sanitarie completamente fasulle, ma anche informazioni “certificate”, se si sa dove cercare. «Purtroppo oggi i risultati della ricerca medica sono in gran parte comprensibili solo da chi ha familiarità con la metodologia degli studi, con la lingua inglese e ha accesso alle principali riviste scientifiche internazionali», dice Roberto D’Amico, direttore del Centro Cochrane Italiano, che opera per far sì che le decisioni sanitarie possano essere prese seguendo criteri scientifici. «Tuttavia esistono esperienze finalizzate a rendere più facile l’accesso a informazioni mediche affidabili da parte dei cittadini. Ad esempio, per capire come funzionano le sperimentazioni cliniche si può visitare il sito Ecran (European Communication on Research Awareness Needs) La sperimentazione è la modalità attraverso la quale sono valutati in maniera scientifica efficacia e sicurezza degli interventi sanitari, e molti degli interventi oggi utilizzati sono stati prima valutati con il metodo dello studio randomizzato controllato. «Quando viene ben eseguito, questo tipo di studio fornisce risposte basate su dati oggettivi che permettono di ridurre l’incertezza e talvolta di annullarla», continua D’Amico. Su un singolo intervento possono essere realizzati più studi randomizzati e controllati, durante i quali efficacia e sicurezza di un nuovo farmaco sperimentale vengono confrontate con quelle di un altro farmaco già conosciuto o di un placebo. «Talvolta si hanno risultati discordanti. Per questo sono state sviluppate le revisioni sistematiche, che consentono di fare una sintesi ragionata dei risultati dei singoli studi, sulla quale ci si può poi basare per decidere concretamente quale trattamento scegliere».

Perché crediamo alle bufale sul web, scrive Elena Meli, Corriere della Sera - 30 ottobre 2016 - pagina 48. Le false informazioni sulla salute ci toccano molto da vicino e coinvolgono la nostra emotività Per questo hanno più successo di altre. La “bufala del cioccolato” ha fatto scalpore circa un anno fa, tanto da diventare un caso di studio perfino per la prestigiosa scuola di giornalismo della Columbia University: un biologo e giornalista scientifico di Harvard, John Bohannon, assieme a due documentaristi tedeschi, ha condotto un falso studio clinico sostenendo che la cioccolata facesse dimagrire, lo ha fatto pubblicare su una rivista non troppo attenta ai dettagli e poi ha fatto circolare un comunicato stampa sul tema. Sbalordito, ha visto decine e decine di giornali sparare il titolo in prima pagina: nessuno si era preso il disturbo di leggere a fondo il testo, controllare i dati, capire che si trattava di una ricerca piena di falle. Le bufale in medicina si diffondono anche così, come spiega Bohannon: «Molti redattori non l’avranno neppure letto: sanno che periodicamente escono studi che dimostrano le virtù del cioccolato e tanto è bastato per pubblicare anche questo». Scarsa attenzione dei giornalisti a parte, Bohannon tocca uno degli elementi che spiegano perché le bufale su salute e benessere sono così diffuse: se una notizia “piace”, finiremo per crederla vera. «Non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano: la prima area del cervello che si attiva di fronte a un messaggio è sempre quella deputata alle emozioni, solo dopo si accende la corteccia razionale — interviene Vincenzo Russo, docente di Psicologia dei consumi e neuromarketing alla Libera Università di Lingue e Comunicazione Iulm di Milano — . In altri termini scegliamo emozionandoci, poi troviamo una giustificazione a ciò in cui crediamo: siamo razionalizzatori, più che razionali». «Un meccanismo ben conosciuto e sfruttato dal marketing — prosegue Russo — per esempio, per venderci cibi che immaginiamo più buoni o sani solo perché in etichetta c’è scritto “biologico” o “prodotto locale”, termini che oggi attirano la nostra attenzione e che associamo al benessere. Sulla salute è più facile che bufale e false credenze si diffondano proprio perché è un settore che coinvolge molto più di altri l’emotività». Così eccoci pronti a essere convinti che la cioccolata faccia dimagrire o anche a credere a cose ben peggiori, dai vaccini male assoluto alle cure anticancro miracolose che sono in realtà acqua fresca. Stando agli psicologi, la tendenza a credere alle bufale così come ai complotti (dalle scie chimiche ai medici che non vogliono curare il cancro per lucrare con farmaci costosi e inutili) si associa a tratti del carattere come la mancanza di fiducia sociale, ovvero la tendenza a credere che gli altri siano in genere poco onesti e sinceri; contano poi il “cinismo politico”, ovvero un’idea generalmente negativa del sistema e delle istituzioni, e una bassa autostima che porta a pensare di non poter far mai molto per cambiare le cose (invece conoscere retroscena che gli altri ignorano o essere al corrente di qualche verità, qualsiasi essa sia, fa sentire già un po’ più “potenti”). «Subiamo anche il cosiddetto “pregiudizio della conferma”: dal punto di vista cognitivo ed emotivo è meno faticoso accettare tutte le informazioni che avallano le nostre credenze, giuste o sbagliate che siano – osserva Guendalina Graffigna, docente di Psicologia applicata al marketing sociale all’Università Cattolica di Milano –. Le bufale ci sono sempre state e si sono sempre diffuse con il passaparola, adesso l’entità del fenomeno è enorme grazie al web dove troviamo tutto e il suo contrario e chiunque riesce a reperire informazioni che comprovano qualsiasi ipotesi, rafforzando le proprie idee. Non basta: se accediamo a questi contenuti e magari apponiamo un “mi piace” sui social, gli algoritmi di Internet ci proporranno poi notizie e dati in sintonia con ciò che abbiamo apprezzato rinforzando ancora di più questa “bolla informativa” e l’autoselezione delle informazioni». Come difenderci allora? «Allenando il senso critico e dando credito solo a fonti di informazione autorevoli — risponde Graffigna —. Purtroppo sono percepite distanti, autoreferenziali e vengono messe in discussione, in gran parte perché hanno un modo di comunicare “antico”, poco social: sui siti ministeriali e simili le informazioni sono date senza tener conto della voglia dei cittadini di essere protagonisti dei percorsi di cura, di avere un ruolo attivo e dire la propria». «Il gran proliferare delle bufale — sottolinea l’esperta — è anche sintomo di questo desiderio di partecipazione che poi prende le strade più disparate». «Il “tutti ne parlano” trova in breve una sua veridicità a prescindere dai contenuti, quando viaggia sul web: la gente ritiene veritiere le informazioni trovate in rete nel 59 per cento dei casi — riprende Russo —. Del resto siamo “semplificatori”, crediamo a ciò che riusciamo a capire o che conosciamo: se non siamo motivati o non abbiamo competenze per decidere su un argomento, ci facciamo guidare da ciò che stimola di più l’emozione.

«È vero per tutto ciò che riguarda la salute e il benessere — conclude Russo — ed è evidente nella comunicazione nel settore alimentare, come sanno bene i pubblicitari: non sarebbe affatto necessario scrivere sulla confezione d’acqua che aiuta la diuresi, perché tutta l’acqua lo fa, ma la frase si rivolge alla “pancia” del consumatore e gli fa credere che il contenuto di quella bottiglia sia meglio di quello di tutte le altre anche se non lo è».

L’ha detto la Televisione, scrive il dr Daniele Aprile in "Psiche e Soma" il 16 maggio 2013. Le notizie possono modificare idee e comportamenti? Si, ma solo in pochi casi…Quasi tutti gli italiani guardano il telegiornale e seguono regolarmente alla tivù programmi culturali e d’attualità, per la precisione il 68,6 per cento (rispetto all’83 per cento che guarda la tivù ogni giorno). Il 60,2 per cento legge i quotidiani e il 32,6 ascolta abitualmente i radiogiornali. Lo rivela l’indagine dell’Istat (l’Istituto di statistica) sui nostri comportamenti quotidiani. Riceviamo dunque ogni giorno da giornali, radio e televisione un vero bombardamento di informazioni. Secondo una teoria psicologica ogni notizia è come l’iniezione di un farmaco: ha un’influenza immediata sul comportamento delle persone, proprio come una medicina che, appena iniettata, scatena subito una reazione dell’organismo. Qual è dunque l’effetto delle notizie sulle persone? Davvero riescono a modificarne opinioni, comportamenti e scelte? E possono anche influire sul nostro inconscio? La risposta è sì, ma in modo diverso a seconda delle caratteristiche individuali, dei mezzi di informazione che ce le danno e di come ce le presentano di volta in volta. In realtà i mezzi di comunicazione, più che alterare direttamente il modo di pensare e di agire del pubblico, selezionano gli argomenti sui quali tutti “devono” avere un’opinione. Quando i giornalisti diffondono determinate notizie, escludendone altre, creano una specie di “mappa dei fatti” sulla quale si concentra, e discute, la popolazione. C’è poi una seconda selezione: fra le notizie proposte da stampa, radio e televisione, ognuno sceglie quelle che lo interessano di più. Sui quotidiani, per esempio, gli adulti e i ragazzi leggono soprattutto gli articoli di politica e di attualità (70,3 per cento dei lettori), mentre le donne si concentrano sulla cronaca locale (76 per cento). Tutti, però, tendono a rivolgersi alle fonti d’informazione con le quali si sentono più in sintonia. Perfino durante le campagne elettorali, invece di confrontare il programma dei vari partiti, ci si informa prevalentemente attraverso i giornali che rispecchiano la propria ideologia. E si seguono i programmi radio e televisivi che danno più spazio al partito di appartenenza. Insomma, ognuno cerca di costruirsi un’informazione su misura, che rispecchi il più possibile il proprio punto di vista.

E se, invece, non si ha ancora un’opinione su un avvenimento? In questo caso, i servizi giornalistici possono influenzare i giudizi delle persone. Ma, per riuscirci, ne devono prima catturare l’attenzione. Il pubblico, in realtà, riesce a memorizzare soltanto una minima parte delle notizie diffuse dai vari canali d’informazione. Ecco perché più i messaggi sono brevi, ripetuti e semplici (richiedono, cioè, un minimo sforzo di comprensione), più vengono recepiti e hanno, quindi, possibilità di orientare le scelte delle persone. Lo confermano tutte le ricerche psicologiche più recenti, condotte sia in Europa che negli Stati Uniti, nelle quali sono state analizzate anche le caratteristiche più efficaci delle informazioni “persuasorie” per eccellenza: quelle pubblicitarie e quelle diffuse durante le campagne elettorali. I risultati sono identici: in entrambi i casi, infatti, le persone condividono, o comunque accettano più facilmente, i messaggi che hanno uno o più elementi a loro familiari. Ciò favorisce un processo di identificazione con l’autore, e perfino con il contenuto che le sue parole hanno espresso. Inoltre, di solito ci si lascia convincere più facilmente se chi lancia il messaggio è un personaggio di successo, sul quale inconsciamente si trasferisce la responsabilità della propria, eventuale adesione. Le informazioni “persuasorie” producono, secondo gli studiosi, “effetti limitati” sulle persone, proprio perché di solito hanno un unico obiettivo da raggiungere, e in breve tempo: durante e subito dopo una “campagna” sulla ricerca scientifica, per esempio, la popolazione reagisce versando ai centri di ricerca una maggior quantità di finanziamenti. Poi, però, la campagna d’informazione finisce e tutto torna come prima.

Le notizie, dunque, esercitano soltanto un’influenza temporanea? Niente affatto. Anzi, possono anche suscitare reazioni profonde, imprevedibili. E’ accaduto con la guerra del Golfo, nel 1991: durante la prima settimana, le immagini del conflitto tennero incollati davanti allo schermo 9 milioni di italiani. Suscitando nelle persone anziane insonnia, paura, ricordi angosciosi della seconda guerra mondiale.

Oggi, insomma, le notizie puntano sempre più spesso sul coinvolgimento emotivo del pubblico. Ma, in questo modo, colpiscono direttamente l’inconscio delle persone. In particolare, le notizie presentate in modo drammatico e che riguardano un episodio violento, come un omicidio, stimolano in ognuno sia le tendenze sadiche che quelle masochistiche. Cioè le due forze aggressive contrapposte che covano in ognuno di noi, così scatta una doppia paura: quella di essere violenti e quella di subire un’aggressione. Eppure, le centinaia di informazioni su incidenti, rapine, violenze d’ogni tipo che tutti ricevono quotidianamente sembrano cadere nell’indifferenza. Il fatto è che non siamo in grado di sopportare notizie sconvolgenti. Mancano sicurezze, e modelli di riferimento precisi attraverso i quali filtrare la realtà. Inoltre non riusciamo a elaborare tutte le informazioni che riceviamo ogni giorno. Risultato: ci difendiamo con il distacco. Si tratta, però, di un distacco apparente. Perché, dietro l’indifferenza, le notizie continuano a esercitare in ognuno una profonda influenza, in modo diverso a seconda della personalità. I messaggi violenti o preoccupanti possono far vacillare o, addirittura, far crollare le difese di un individuo. Provocando in lui forti angosce, o liberando i suoi aspetti più nascosti. Per esempio, di fronte alla notizia di un suicidio, in chi ha represso per anni il desiderio di compiere quel gesto può scattare l’impulso ad agire. Secondo lo studio di un sociologo australiano, Riaz Hassan, la media quotidiana dei suicidi sale di circa il 10 per cento nei 2 giorni successivi alla comparsa sui giornali della notizia di un suicidio. Secondo gli psicologi, infatti, c’è una parte inconscia in noi che, assistendo alle tragedie altrui, riesce a scaricare tensioni e provare in qualche modo sollievo. Un meccanismo morboso, cioè quasi patologico e in genere del tutto incontrollabile. Le notizie, dunque, possono provocare ansia, angoscia, liberare gli aspetti repressi di sé, spingere alla violenza, alimentare un sottile compiacimento sadico. Tutto questo accade, in particolare, a chi non possiede una “interiorità strutturata”, cioè alle persone psicologicamente più deboli, come disturbati psichici o semplici depressi, o a chi attraversa un momento di particolare fragilità. Ma tutti, in un modo o nell’altro, subiscono l’influenza delle notizie.

Come difendersi? L’unico modo, dicono gli esperti, è utilizzare più canali d’informazione, per contrapporre alle insidie delle tecniche giornalistiche una preparazione più solida e una maggiore capacità di giudizio.

La televisione è la detentrice della verità? Scrive Rolando Tavolieri. Mi chiamo Rolando Tavolieri e sono uno Psicologo, iscritto all'ordine degli [...] In tanti anni di televisione, di programmi seguiti, di talk show, di approfondimenti ed altro, possiamo notare come tutto ciò che viene detto, commentato e scandito dai programmi televisivi viene accettato per vero, viene recepito come reale, senza però accertarci se questa o quella notizia sia vera. In pratica da tanti anni ciò che ascoltiamo in televisione attraverso vari programmi televisivi, nei talk show, nei programmi di intrattenimento, nei telegiornali, nei programmi di informazione o di approfondimento, tutte le informazioni che ci vengono date, tutto ciò che viene detto o riferito, i dibattiti che ne seguono e le interpretazioni di ciò che accade da parte di presentatori, giornalisti, politici, persone coinvolte ed altri, viene accettato in modo passivo come reale, come vero.

Ad esempio ti è mai capitato di sentire diverse persone affermare:

“questa cosa è vera, l’hanno detta in tv!”;

“dobbiamo comprare quel farmaco,l’ha detto un medico in tv”;

“dobbiamo mangiare quel cibo, l’ho sentito dire in quel programma”;

“domani piove, l’ho ascoltato in tv!”;

“hai seguito il caso di quell’omicidio? Sicuramente è stata la tal persona, perché l’hanno detto in televisione”.

Potrei andare avanti facendo centinaia di altri esempi in cui puoi constatare come la televisione è diventata ERRONEAMENTE la detentrice della verità, questo fenomeno di percepire le notizie e le interpretazioni che vengono fatte come reali, spesso è un fenomeno inconscio, ad esempio quando un personaggio famoso, politico, sportivo o del mondo del cinema viene “indagato”, la prima impressione che possiamo avere è che sia “colpevole”, in pratica scambiamo le indagini in corso fatte su una persona per sapere se è realmente colpevole o se è innocente, per colpevolezza prima ancora che le indagini vengano fatte o approfondite. Certo lo facciamo inconsciamente, inconsapevolmente, ma una volta che questo processo viene innescato, è difficile controllarlo, perché il messaggio che viene assorbito dalla mente inconscia è quello in cui crederemo dopo, quindi se il messaggio che la parola “indagato” equivale per noi a “colpevole”, quel messaggio sarà per noi la realtà, quindi il “Messaggio” che la parola usata in tv o la notizia data ha per noi diventa la nostra verità e la nostra realtà. La cosa importante che possiamo fare è quella di “Prenderne Coscienza”, cioè di prenderne atto a livello cosciente e riflettere bene su cosa stiamo pensando, perché una cosa è avere un’impressione su una persona e un’altra è essere certi della sua innocenza o della sua colpevolezza, la differenza la può fare il fatto di informarsi a 360 gradi, verificare tramite altre persone, tramite il web, seguire da vicino le indagini, avere più notizie ed informazioni e verificarle tutte, solo dopo tante verifiche, le informazioni ricevute e la capacità di “discernere” (separare) le informazioni vere da quelle false, solo allora possiamo pian piano affermare con attenzione e sempre con un margine di potenziale errore se quella notizia è vera o falsa o se quella persona è innocente o colpevole. Il fatto che molte persone credano immediatamente a questa o a quella notizia, il fatto di dare subito un’interpretazione o di giudicare quella situazione di cui si parla, o addirittura di criticare o giudicare immediatamente quella persona di cui si parla senza approfondire o verificare se quelle notizie su di lui sono reali, dipende da vari fattori, vediamo assieme quali sono:

Intanto i programmi televisivi vengono seguiti da milioni di persone, sia nel nostro paese che in altri stati, grazie alle potenzialità tecnologiche come il decoder, internet, ed altro ancora, e tutto ciò che viene visto, ascoltato e seguito da tantissime persone, è come se ci “unisse” un poco, è come se vedendo gli stessi programmi ed ascoltando gli stessi discorsi o dialoghi di approfondimento in tempo reale, tutti noi telespettatori avessimo qualcosa in comune, qualcosa che ci unisce , come una condivisione mediatica del mondo.

Quando i riflettori della tv vengono puntati su questa o quella persona, è come se mettesse noi spettatori nella posizione di diventare i “critici” o i “giudici” dei soggetti in questione, di ciò che accade e di ciò di cui si parla.

La notizia data in tv viene spesso amplificata in quanto qualcosa che è vista e sentita da milioni di persone assume in un certo qual modo un potere forte, in positivo o in negativo, dipende dalla connotazione che le viene data, mettere l’accento su questa o su quella notizia le conferisce potere ed anche per questo viene amplificata. Ecco perché il fatto di parlare tanto e per tanto tempo di qualcuno, gli porta potere se se ne parla bene o può infangarlo se se ne parla male.

La tv ha il potere di “dirigere” l’attenzione del telespettatore passivo, verso questo o quel fatto, verso questo o quel personaggio, ed ovviamente dirigendo l’attenzione verso una situazione, la distoglie da un’altra notizia che magari è più importante o che non si vuole approfondire in quel momento per vari motivi. In questo modo la tv può monopolizzare l’attenzione delle persone a piacimento, e questo è un grande potere, che però noi possiamo imparare a gestire e controllare attraverso un po’ di riflessione e di analisi.

Anche la “Ripetitività” di una notizia le conferisce potere, perché più una notizia viene ripetuta e approfondita e più se ne parla, più questo circolo vizioso tende ad aumentare e ad amplificarsi. Ecco perché una notizia di cronaca nera sembra non finire mai, viene data e ripetuta anche per anni, addirittura si sono inventate trasmissioni apposite per approfondirne ancora di più i contenuti come se i tg non bastassero, questo perché l’audience aumenta gli introiti, è le notizie sono dunque legate anche ai soldi che si possono ricavare da esse.

Il fatto di ascoltare una notizia ci mette nella posizione di assumere il ruolo di “critico” o di “giudice”, e quindi di sentenziare, di accusare o di dare clemenza al personaggio di turno, in questo modo possiamo “liberarci” inconsciamente delle nostre azioni sbagliate, delle nostre “colpevolezze”, del fango che c’è dentro di noi proiettandolo sugli altri, in questo caso sui soggetti protagonisti di questa o quella situazione del momento. Infatti scagliare accuse su una persona è come se ci liberasse o ci distogliesse dalle accuse che dovremo a volte dirigere su noi stessi, anche questo fenomeno è inconscio (ma forse non sempre).

Come puoi notare le implicazioni su ciò che accade a livello psicologico e sociale quando diventiamo spettatori spesso “passivi” di una notizia raccontata in tv, sono implicazioni “sottili” ma potentissime ed a volte “inconsce”, di cui cioè non ci rendiamo conto a livello cosciente, ma che seguono una direzione ben precisa e raggiungono l’obiettivo.

Come possiamo dunque “Controllare” tutto questo? Come possiamo “Gestire” noi telespettatori questi fenomeni complessi al fine di non venirne trasportati come da un fiume in piena?

Ecco alcuni consigli Pratici ed Utili che puoi seguire prima di accingerti ad assumere il ruolo di spettatore:

Intanto diventa giorno dopo giorno uno spettatore “Attivo”, come? Avendo la mente aperta, evitando cioè di credere ciecamente ad una notizia senza averla prima approfondita, verificata ed assorbita a 360 gradi, osserva la notizia da più punti di vista, soprattutto mi riferisco ai fatti importanti, tralasciando il gossip, o le notizie inutili che parlano di pettegolezzi su questo o quel personaggio.

Ascolta le “parole” che vengono usate per dare una notizia, infatti anche “Come” viene data una notizia è importante, a volte più del contenuto, perché “Come” viene data una notizia può amplificarla o ridurla, mettere l’accento sulla notizia o lasciarla sfuggire nel dimenticatoio, “Trasmettere Emozioni” o renderla insignificante.

Chiediti perché viene dato risalto ad una notizia e viene tralasciata un’altra notizia più importante. Ogni tanto le notizie vengono pilotate in una direzione particolare, alcune possono aumentare gli ascolti, altre meno, così il metro di misura diventa l’audience, il denaro che si può ricavare attraverso le pubblicità associate a notizie forse poco importanti ma che, se producono altissimi ascolti arricchiscono chi sta dietro le quinte, anziché privilegiare l’importanza di alcuni fatti, o l’impatto sociale che possono avere sulla popolazione, anziché stimolare l’interesse degli ascoltatori verso notizie di pubblica utilità o innovative in campo scientifico, nella fisica, nella medicina, nella psicologia, ed altro ancora.

Ascolta le notizie che ti vengono date in modo “neutrale”, senza far pendere la bilancia delle tue credenze da una parte o dall’altra, cerca di essere il più obiettivo possibile, anche quando ti sembra che quella notizia particolare sia vera, reale, o difficile da confutare, lasciati sempre un margine di “possibilità contraria”, cioè la tua mente deve essere sempre aperta ai colpi di scena, alle sorprese, al fatto che puoi sbagliarti, ok?

Cambia l’Atteggiamento con cui segui le trasmissioni ed ascolti le notizie. Con questo intendo dire che se il tuo atteggiamento con cui sei abituato ad ascoltare le notizie, le informazioni, gli approfondimenti è quello di credere subito in ciò che ti viene detto solo perché lo sta facendo la televisione, se la tua prima impressione sui fatti raccontati è quella di darne subito un giudizio a priori, fermati un attimo, rifletti e poniti delle “domande Costruttive” come ad esempio:

“cosa mi fa pensare che quella notizia sia vera?”;

“cosa mi porta a dare subito un giudizio su ciò che ho ascoltato?”;

“cosa mi porta a giudicare questa o quella persona?”;

“cosa mi fa dire che quel personaggio sia colpevole o innocente?”;

“ho approfondito la notizia?”;

“ho verificato ciò che ho appreso dalla tv?”;

Ecco, rispondi a domande come queste e poi Sicuramente il tuo Atteggiamento nei confronti di ciò che ascolti e di ciò vedi in tv Cambierà. Spero di averti dato alcuni argomenti di Riflessione per analizzare cosa accade quando ascoltiamo la tv e quando ci facciamo un’idea riguardo a ciò che ascoltiamo ed alle persone coinvolte in una situazione particolare. Ricorda quindi i seguenti punti Importanti:

Sii una persona con la mente Aperta;

Cambia Atteggiamento nel modo di ascoltare o credere alle notizie;

Cerca di avere un “Ascolto Neutrale”, il più obiettivo possibile;

Verifica ed Approfondisci le notizie in 1000 modi diversi;

Percepisci una situazione da più punti di vista per averne una visione a 360 gradi;

Chiediti se il tuo giudizio o le tue credenze hanno dei riferimenti validi;

Ascolta “Come” vengono date le notizie;

Sii una persona Attiva nell’ascolto;

Dirigi tu la tua attenzione sui vari fatti, e non lasciare che sia la tv a farlo.

''L'ha detto la tv'' Tecniche e modelli di persuasione mediatica. Tesi di Laurea Magistrale. Facoltà: Lettere e Filosofia. Autore: Federica Pollastrelli. La televisione è diventata uno dei mezzi più efficaci per il fenomeno denominato costruzione sociale della realtà. Costruzione della realtà perché le informazioni che recepiamo dalla tv si trasformano in idee, credenze e valori che a loro volta influenzano il modo di percepire il mondo circostante e il modo di relazionarci con gli altri. Il processo che ha portato la televisione a diventare uno strumento tanto influente è stato graduale, a volte intenzionale altre meno, ma sicuramente le tecniche nel tempo si sono affinate grazie ai progressi in campo psicologico e sociologico, che hanno contribuito a chiarire le dinamiche comunicative degli individui e gli effetti della comunicazione mediatica. Se le prime teorie degli anni Venti vedevano l'individuo come una tabula rasa, quelle più recenti, ridimensionano il concetto di media onnipotenti e propongono la tematica della costruzione sociale della realtà. Nell'attuale società dell'immagine è la televisione, attraverso le immagini a veicolare determinate visioni di ciò che ci circonda, condizionando, quindi, quello che noi spettatori percepiamo. Tra le tecniche più note per “realizzare” la costruzione sociale della realtà vi è l'utilizzo del frame. Dato che le persone solitamente ragionano secondo quadri di riferimento costituiti da immagini o conoscenze culturali, l'utilizzo del frame, che significa letteralmente cornice di riferimento, serve per arrivare al nòcciolo di un argomento esprimendo simultaneamente il proprio modo di concepirlo. Questa, che può sembrare una banale semplificazione, è in realtà una tecnica molto efficace e sottile, in quanto non solo permette un controllo sui contenuti detti ma anche e soprattutto su ciò che non viene detto, stabilendo così un'implicita censura. Un'ulteriore conferma del fatto che la televisione ha il potere di condizionare la realtà, possiamo trovarla anche nella comunicazione politica nel momento in cui è venuta a contatto con il mezzo televisivo. Attualmente, l'efficacia del discorso politico è strettamente connessa agli schemi narrativi della tv. L'immagine del leader ha acquisito sempre più peso, diventando perfino più importante dei suoi discorsi e il fattore intrattenimento sembra essere fondamentale per ottenere consenso e visibilità, da qui anche il termine politainment. Anche l'informazione, oltre all'utilizzo del frame, fa molto leva sulle immagini e di conseguenza sull'emotività dell'ascoltatore. Se pensiamo ai servizi giornalistici degli ultimi tempi, possiamo vedere come la cronaca nera abbia in un certo senso il monopolio sugli altri generi informativi. Questo perché da un lato abbiamo accettato e cerchiamo la cosiddetta “tv del dolore” e dall'altro lato perché il valore di notiziabilità è più alto e i giornalisti riescono ad andare avanti per diversi giorni fornendo piccole note di colore o sviluppi sullo stesso argomento. Inoltre, le tinte forti dei servizi servono alle reti per garantirsi il numero maggiore di ascolti. Anche per quanto riguarda la pubblicità ritroviamo lo stesso discorso di costruzione della realtà perché se questa agli inizi era più legata a far conoscere dei beni di uso comune, oggi il suo utilizzo è asservito alla creazione di bisogni indotti per cui i beni vengono caricati di significati simbolici per invogliare all'acquisto facendo leva sulle pulsioni e i desideri, a partire dai bisogni reali fino a quelli riguardanti l'immagine di sé, l'autostima, ecc. Lo sfruttamento della narrazione televisiva crea delle realtà parallele che inevitabilmente condizionano le nostre scelte e quindi le nostre vite. Anche l'utilizzo degli stereotipi veicola determinati significati che dalla televisione influenzano poi le nostre cognizioni. Questo succede perché la tv ricorre spesso al loro utilizzo, anche solo per ragioni di massima efficienza, dato che si tratta di messaggi semplici e facilmente riconoscibili dal destinatario, perché hanno origine nel senso comune. Ma purtroppo gli stereotipi non sono mai neutri, anzi sono molto spesso discriminatori e portano come conseguenza un'appiattimento della la realtà, condizionandone addirittura il significato, e a lungo termine ci fanno accettare con fiducia e senza senso critico ciò che la televisione ci propone, senza averne fatto esperienza. L'ultima parte dell'elaborato pone in evidenza la figura femminile, in relazione all'impoverimento dei significati prodotto dal mezzo televisivo. Già dagli esordi della tv la donna è stata presentata come una figura accessoria, cercando solo la valorizzazione del suo corpo piuttosto che altre sue abilità, a dispetto dell'uomo che di solito invece viene caratterizzato più per il suo talento o le sue attitudini. La conseguenza è stata quella di modificare la percezione della figura femminile stessa: anche noi donne oggi ci guardiamo con occhi maschili, perché abbiamo interiorizzato i canoni insiti nello stereotipo che ci vuole seriali, perfette e sempre giovani.

L'ha detto la televisione, scrive il 20 ottobre 2009 "Informare per resistere". Sono interessanti i dati di un sondaggio pubblicato oggi su Repubblica e realizzato da Demos & Pi su "Gli italiani e l'informazione" che riassumerò in breve. Premesso che la ricerca è stata effettuata su un campione di 1337 persone maggiori di 15 anni, emerge ancora una volta il ruolo fondamentale, ai fini informativi, della maledetta televisione. Vediamo prima di tutto quanta gente guarda la tv. Spulciando le tabelle pubblicate emerge che il 46% del campione rappresentativo della popolazione italiana sta davanti alla tv dalle due alle quattro ore al giorno. Il 17,8% trascorre più di quattro ore attaccato allo schermo in modalità geco, ed il 27,3% di costoro vota Berlusconi. Forse per riconoscenza per tante ore di divertimento spappolaneuroni che gli offre gratis. Gli elettori della Lega sono meno teledipendenti (15,2% con più di quattro ore al giorno) dei pidiellini. Troppo moderna, la diavoleria. I druidi non avevano la tv. Chi la guarda di meno, tra gli stakhanovisti del tubo catodico o dell'LCD, sono gli elettori dell'Italia dei Valori. Un fortunato 1,7% di italiani intervistati dichiara di non guardare la tv. Rispetto alla rilevazione precedente del 2007, per quanto riguarda le fonti di informazione quotidiana del campione, in generale aumenta la fiducia nella tv satellitare, digitale terrestre e per Internet. In crescita anche i giornali quotidiani mentre calano radio e televisione analogica (RAISET, La7). Ho sempre l'impressione che queste ricerche di mercato diano risultati un po' schizofrenici. Infatti, se tra i TG ai quali gli ipnotizzati dalla tv danno maggiore fiducia calano il TG1 e il TG5 ma aumentano Studio Aperto (ahimé), il TG de La7, SkyTG24 e soprattutto RAINews24, con un clamoroso +13,4%, il programma di informazione del quale gli italiani pare si fidino di più è "Report" della Gabanelli. Una bella domanda del sondaggio riguardava il grado di indipendenza politica dei mezzi di informazione. In generale gli italiani indicano come fonte maggiormente obiettiva Internet. Scorporando i dati per appartenenza politica, la fiducia ad Internet viene data a maggioranza dagli elettori dei partiti d'opposizione e dei partiti minori, mentre gli elettori di centrodestra (PDL e Lega) credono alla televisione. Addirittura più i leghisti dei papiboys, con un bel 37,5%. Sul conflitto di interessi di Berlusconi e se esso condizioni la libertà di informazione e l'andamento della politica, il numero di coloro che percepiscono il problema è, in generale, in aumento. Più che lo stato della libertà di espressione, comunque, preoccupa il condizionamento della politica. Gli elettori dell'opposizione e coloro che meno guardano la tv sono coloro che maggiormente si preoccupano del conflitto di interessi. Gli elettori del PDL e i teledipendenti hard sono coloro che meno sentono il problema. Forse, ammettendone l'esistenza, temono che gli possa venire meno la dose. In definitiva, si dimostra per l'ennesima volta che non è vero che "le televisioni non contano". Contano, eccome se contano. Conta soprattutto uniformare la poltiglia da far trangugiare ai telespettatori che stanno lì davanti come uccellini di nido aspettando qualsiasi cosa purchè si possa ingoiare. E se è merda non se ne accorgono nemmeno. Anzi dicono, come Mina in quella famosa canzoncina: "Ma che bontà!". Ecco perchè ci si sbatte tanto per piazzare le persone nostre in RAI, per mettere i papiboys e le papigirls a leggere il telegiornale delle 20, perchè i tg stanno assomigliando sempre di più a contenitori di vuoto spinto farciti di nulla. E perchè infine la tv non serve più per informare ma per disinformare, per tenere assieme il proprio elettorato, pour épater le papiminkia', manipolarlo e mantenerlo dipendente dalla dose quotidiana di propaganda. E serve anche, ultimamente, per mazzolare gli avversari.

Alcune considerazioni finali. In generale, secondo i dati del sondaggio, gli italiani sembrano guardare meno la tv per affidarsi invece ad Internet ed ai mezzi di informazione più innovativi. Si accorgono del cambiamento in senso peggiorativo dell'obiettività dei telegiornali, leggono i giornali quotidiani ed apprezzano il giornalismo di inchiesta à la Gabanelli. Sembra quasi un'altra Italia, un paese più maturo di quanto appaia a sentire il suo peronetto di riferimento. Solo il 17,8% del campione intervistato risulta teledipendente a livelli da comunità di recupero, appartenente alla specie "l'ha detto la televisione" ed è infine a maggioranza berlusconiano. Non sarà, come sospettavo giorni fa, che il papipeople rappresenti proprio una minoranza gonfiata dagli steroidi televisivi nel tentativo di emergere da una maggioranza kommunista? Ci mancava solo di essere un paese dopato.

La sana diffidenza verso ogni informazione è il naturale antidoto alle bufale, scrive Alessandro Gilioli il 3 gennaio 2017. Nel suo articolo sul Corriere della Sera di oggi il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella torna sulla questione della Rete che «aumenta notevolmente le possibilità che siano diffuse notizie false e bufale», essendo Internet «un sistema decentralizzato in cui chiunque può diventare produttore di informazione». Questo, sostiene Pitruzzella, danneggia i cittadini nel loro «diritto a ricevere un’informazione corretta». Di qui la sua idea di una «istituzione specializzata terza e indipendente che rimuova in tempi rapidi i contenuti che sono palesemente falsi e illegali». A mio avviso, questa impostazione della questione parte da un grave errore, da cui discendono quelli successivi e la drammatica conclusione, cioè la proposta di una sorta di Tribunale della Verità con poteri censori. L’errore di partenza è pensare che, a causa di Internet, i cittadini oggi siano vittime passive di notizie false più di prima: più cioé di quando l’informazione non era decentralizzata e pochi soggetti (governi ed editori privati) avevano il controllo dell’informazione. Nell’era dell’informazione esclusivista le notizie – comprese quelle false, che sono sempre state abbondanti e strumentali agli interessi dei governi o dei proprietari dei media – godevano infatti di una forza di impatto e di una capacità persuasiva molto maggiore di qualsiasi bufala online attuale. In altri termini: erano balle come quelle di oggi, ma piú potenti. Perché provenivano da fonti considerate ufficiali. Io ci sono cresciuto, in quel mondo lì. Anche Pitruzzella, che è pure un po’ più anziano di me. Stupisce che non se lo ricordi. Stupisce che non ricordi l’era in cui frasi come “l’ha detto la televisione” o “sta scritto sul giornale” erano l’esibizione di una fonte di certezza. Benché tivù e giornali non siano mai stati pure fonti di verità, ma anche strumenti di interessi politici ed economici. Che non si potevano contraddire, cioè di cui nessuno poteva leggere il controcanto. C’era quella versione lì – o, più spesso, quella omissione lì – e basta. Al massimo si poteva acquistare un giornale diverso per avere una versione diversa, ciò che comunque era sforzo di pochi, mentre il conformismo era del tutto senza sfumature e senza diritto di replica sul medium più facile, diffuso e popolare, la tivù. Allora la questione non è se oggi circolano più bufale di trent’anni fa ma è se il cittadino-utente ne è più vittima rispetto a trent’anni fa. E no, non lo è. Per almeno due motivi. Primo, perché molto più rapida, facile ed economica è la strada per la replica, per trovare il controcanto rispetto alla bufala (o all’omissione). Lo sforzo è minimo, avviene nello stesso medium che diffonde il falso (la Rete), talvolta perfino nei commenti con link al medesimo articolo o comunque a pochi clic di distanza. Prima, invece, pervenire a qualche preziosa forma di debunking di una bufala (di giornale o detta in tivù) esigeva una fatica molto maggiore, ed era infatti prerogativa di pochissimi. Secondo, prima le persone avevano mediamente meno strumenti di difesa psicologica, erano cioè meno smaliziate e meno diffidenti verso ciò che veniva immesso dai mezzi di comunicazione. Insomma, di fronte alle bufale ci cascavamo molto più facilmente. E la diffidenza – la sana diffidenza verso ogni informazione – è il principale antidoto a ogni bufala, che sia on line o diffusa in altro modo. La crescita della diffidenza (connessa proprio con la decentralizzazione dell’informazione!) è la migliore notizia degli ultimi anni. E siamo solo agli inizi: più la Rete, medium recente, uscirà dalla sua fase adolescenziale, più la diffidenza crescerà, più sarà prassi quotidiana di ciascuno imparare a dividere il grano dal loglio. In altri termini: sì, circolano più balle rispetto a trent’anni fa. È ovvio, dato che è cresciuta in modo esponenziale la massa di informazioni circolanti e la massa di produttori di informazioni. Eppure le bufale sono (e soprattutto saranno) meno pervasive rispetto ad allora (e quindi creano meno conformismo) perché più facilmente contraddicibili e perché la società che le riceve ha (e avrà sempre di più) gli anticorpi per reagire, che invece erano quasi assenti tre decenni fa. Istituire un “Tribunale della Verità” non è solo un’idea a forte rischio di liberticidio: è anche un sistema che porta a soffocare la nascita e la crescita degli anticorpi, delegando tutto a un ente superiore, riportando i cittadini-utenti a una condizione di minorità e di infanzia mentale (in cui cioè hanno bisogno di un papà che gli dice cos’è verità e che cosa favola). Tutto questo, per parlare seriamente. Se invece volessimo fare un po’ di (fondata) ironia, verrebbe da chiedersi che cosa rimarrebbe in giro dei giornali e dei tg italiani se il tribunale della verità dovesse agire a 360 gradi, non solo sulla Rete ma su tutto il sistema della comunicazione. Nelle edicole rimarrebbero in vendita giusto i biglietti del tram. In tivù vedremmo solo il monoscopio con l’ora esatta. E nelle stazioni andrebbero censurati anche i cartelloni con gli orari di Trenitalia.

Nella palude mediatica si nascondono gli interessi corporativi di una Italia ancora mentalmente e istituzionalmente feudale..., scrive Gilberto Migliorini. Nell'informazione italiana si mescolano diversi livelli espressivi, dalla carta stampata ai blog passando attraverso la televisione e il cinema. Al di là della specificità dell’elemento tecnico e della modalità di comunicazione, permane l'imprinting mentale dell’italiano medio: un'icona distorta da stereotipi nei quali si dovrebbe riconoscere il suo vero volto. Quello che si vede nel fondo dell’occhio è un'immagine che si riflette su specchi deformanti, ed è da questi che a forza di insegnamenti mediatici l’opinione pubblica ha imparato a riconoscersi. Si tratta dell'idealtipo dell'abitante del Bel Paese descritto anche da tanta filmografia. Il format mediatico ha contribuito a mantenere e consolidare il cliché accentuandolo in tutte le sue forme, dando vita con l’effetto Pigmalione all'emblematico burattino collodiano; non solo metafora esistenziale dell’uomo in generale, ma anche icona antropologica di quel simbionte italico, un avatar alla ricerca di una identità psico-sociale. Alla base della pochezza culturale del paese c’è una scuola che ha fallito miseramente proprio dove avrebbe dovuto creare le premesse per formare un cittadino consapevole e in grado di comprendere la realtà in cui vive. Realtà è un concetto astratto, qualcosa che richiama immediatamente l’esigenza di problematizzare, andare oltre i luoghi comuni e le verità già bell'e confezionate. Realtà è quella che sfugge sempre, una entità indefinita, e per questo occorre svelarne i risvolti e i doppi fondi, avvicinarsi alla sua essenza invisibile. Realtà è quella che ci fa essere duttili, curiosi ed aperti, perché sfida le nostre certezze. Realtà è quella che cerchiamo di comprendere tra mille difficoltà e contraddizioni, ma senza l’arroganza di chi crede di conoscerla già per intero e senza mai esercitare l’arte del sospetto. La vera cultura è quella che si misura nella capacità di guardare il mondo con scetticismo disincantato, con la volontà di andare oltre le apparenze che ci attraggono nell'orbita delle false certezze, quelle del si dice, delle verità già confezionate e pronte all'uso. Una cultura dove i classici della nostra letteratura non siano solo cariatidi ingessate e mortifere, ma elemento attualizzante di riflessione, riscoperta delle nostre radici come propulsore di rinascita e di appartenenza consapevole al nostro passato e progettualità del nostro futuro. La scuola italiana nell'imprinting dei decreti delegati ha invece trasformato l’elemento educativo in un sistema convenzionale dove i media hanno fatto il loro ingresso surrettiziamente per interposta persona (le famiglie) con tutto il peso degli stereotipi. La democrazia è stata intesa come un mero opinare e come una sorta di arbitraria presa di posizione, un carnevale di maschere e un caleidoscopio di illusioni speculari. Un illustre semiologo ha argomentato che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”.  Si tratta però di stabilire chi lo sono per davvero, a meno di considerare accademici, benpensanti e personaggi di rango (illuminati o cariatidi?) come i soli in grado di effettuare la cernita (dei cretini e non) dall'alto di qualche infallibile e indiscussa autorità. Nel blob degli opinionisti nessuno può dirsi escluso dalla selezione, nessuno può chiamarsene fuori. O forse qualche deus ex machina, noblesse oblige, possiede le stimmate della verità per via di qualche titolo accademico o laurea honoris causa? I media hanno saputo affinare tutti i loro strumenti di persuasione su un target (il popolo italiano) sempre più povero di strumenti culturali, sempre più in balia di imbonitori e suggeritori, sempre più integrato in un sistema di rinforzi (positivi e negativi) che lo hanno eletto a ignaro destinatario di un esperimento di controllo e persuasione. Il burattino alla ricerca della sua identità è stato immerso in un habitat dove la propaganda e la manipolazione hanno assunto i caratteri suadenti dell’intrattenimento, dell’informazione e della partecipazione. Il concetto di democrazia - replicato in tutte le salse e declinato con le figure retoriche dell’enfasi e dell’iperbole - è risuonato come un mantra nelle aule parlamentari, nelle piazze e nei comizi. La parola magica è echeggiata soprattutto in quel frame dei teleschermi dove il mondo là fuori è a portata di un dito con lo zapping e con la magia di un cambio di canale repentino. Democrazia come scelta libera di canale tra quelli offerti da qualche proprietà (pubblica e privata), compresa quella del teatrino di Mangiafuoco, con tutte le lusinghe di un gioco di ruolo (con ricchi premi e cotillon) dove l’utente partecipa e recita insieme alla compagnia degli attori, con Arlecchino e Pulcinella e l’immancabile Colombina. Gli slogan altisonanti, le seduzioni cromatiche, le allusioni erotiche e le retoriche del moralismo accattivante hanno circuito e assecondato la dabbenaggine e la superficialità di un italiano medio educato a pensare per slogan, a utilizzare i luoghi comuni, le ricette preconfezionate di una cultura usa e getta. Il target è stato trasformato in una cavia da laboratorio, illuso di essere il soggetto che sceglie e non l’ignaro oggetto di adescamento e manipolazione. Tanto più il sistema mediatico è riuscito a occultare le sue procedure di influenza ‘culturale’ con l’enfasi della retorica e della demagogia, tanto più la forza persuasiva ha intaccato i residui di razionalità dell'Homunculus italicus, quello degli spot. Il buon senso è stato annacquato in un chiacchiericcio insulso e banale, nell'incapacità di interpretare la realtà mediatica, di penetrarne i meccanismi sottostanti e gli algoritmi che presiedono al controllo e alla persuasione. Il burattino ha fatto da comparsa e da fumetto in un diagramma di flusso, una riga di istruzioni in un copione, convinto di essere protagonista sulla scena... non solo cavia e zimbello. La società italiana è diventata preda di automatismi mentali, talora in modo inconsapevole, influenzata da tutte quelle forze più o meno occulte sotto l’egida di un potere invisibile. Il gioco dei grandi numeri e delle medie statistiche (una profilazione di carte fidaty e fragranti biscottini) si è trasformato in una ingegneria politico-istituzionale per regalare all'utente un’immagine sempre più fedele, per conoscerne i gusti, le predilezioni, le idiosincrasie, i desideri e perfino i pensieri. Un programma per il futuro? Un disegno utopico? Un non-luogo più simile a una chimera, un progetto senza capo né coda, ma mosso dal desiderio di controllo e di potere. Il fine che nel Principe del segretario fiorentino (Machiavelli) aveva comunque la sua giustificazione in un sistema di governo ordinato, è diventato quello di un potere che ha in se stesso l’unica giustificazione. È un Bel Paese governato da gruppi che negoziano con le forze antagoniste per curare i propri interessi di parte. Il cinico mazziere utilizza in modo scaltro e senza remore morali tutti gli strumenti in suo possesso per manipolare e controllare un’opinione pubblica sotto tutela, un po’ con la bacchetta e un po’ con i mezzi suadenti dell’imbonitore. Il bastone e la carota in una commistione di minacce e di seduzioni amalgamate in forma di kermesse hanno educato l’italiano ad un opportunismo di sopravvivenza, un suddito sempre alla ricerca di escamotage in grado di far fronte alla protervia e all'arbitrio di governanti che promuovono gli interessi del loro clan. Il risultato è una società plasmata da slogan, controllata da un sistema mediatico in grado di indurre stili di consumo, comportamenti, modi di pensare e reazioni emotive. Un Paese dove gli opportunisti perseguono i loro interessi correggendo e modulando di volta in volta obiettivi e finalità in ragione di programmi occasionali in prospettive miopi e di corto respiro. Pensare che il Bel Paese abbia delle teste pensanti in grado di elaborare strategie a medio e lungo termine, sia pure orientate a degli interessi occulti, significa ritenere che la nave Italia abbia davvero un comandante, sia pure celato nell'ombra, in grado di sapere sempre esattamente dove l’imbarcazione sta andando. La realtà è invece quella di tanti piccoli ammiragli che con i loro piccoli cannocchiali scrutano gli oggetti meschini della brama di potere in una miopia negoziale fatta di compromessi e di opportunismi che hanno come meta quel galleggiare tra Scilla e Cariddi, mantenersi in sella nella prospettiva del comando. Un carpe diem coniugato nella forma dell’occasionalismo e del dirigismo a spizzico, sia pure in un quadro di alleanze internazionali e all'interno di un mercato globale. Un programma ben definito nel suo obiettivo, il potere, ed elementare nei suoi metodi, con le empiriche correzioni di rotta per non scafare…Il paradosso italiano è che nel paese cattolico per eccellenza l’etica è quella di un moralismo da galateo, un senso di giustizia che si appella a una precettistica, alla correttezza (spesso solo illusoria) dei procedimenti formalmente ineccepibili, vuoti e altisonanti, e alle belle intenzioni che nascondono interessi di bottega. Le caste hanno tradotto il loro meschino interesse nella forma di protocolli legislativi e normativi che ne assicurano protezione e sopravvivenza sotto forma di un labirinto di codici ricorsivi inespugnabili. Il povero Pinocchio finisce sempre per essere inseguito dai briganti e impiccato. Il provvidenziale soccorso al burattino indossa le vesti di una figura salvifica: lo squalo può assumere perfino le innocue e allettanti sembianze di una bella e accattivante fatina dai capelli turchini. Descrivere una macchina organizzativa composta di istituzioni e organismi sembra un’impresa da fisica sociale applicata alla sociometria e all'economia. I sistemi sociali ed economici sono più o meno stabili nel breve o nel lungo periodo. L’evoluzione è il tratto di tutti i sistemi reali. In qualche caso esistono perfino quelle scosse sismiche che vanno sotto il nome di rivoluzioni dove le società collassano e subiscono trasformazioni violente. L’immagine dell’equilibrista è evocativa per un sistema che da sempre possiede una capacità ‘creativa’ di sopravvivere modificandosi in ragione degli opportunismi. Il sistema Italia si regge su una stabilità assicurata dalla compartimentazione, una piramide stratificata dal vertice fino alla base. Non si tratta di una impossibilità delle persone di ascendere o discendere nella piramide sociale quanto di un sistema di chiusure che non a caso ricordano il nostro medioevo, una compartimentazione per gruppi sociali e soprattutto professionali, un sistema di garanzie e di protezioni alla base anche di quei sistemi mafiosi che in qualche modo traggono ispirazione e imitano, sia pure al di fuori della legalità, le idiosincrasie culturali delle nostre istituzioni. Per comprendere la logica del sistema Italia (e della sua mentalità) occorrerebbe, prima di effettuare una analisi di tali chiusure (con privilegi e immunità), fare un passo indietro e guardare al medioevo italiano che rappresenta la nostra matrice culturale. I modelli istituzionali - sia pure con la connessa innovazione tecnologica - mantengono un assetto immutabile al di là delle trasformazioni di facciata. Il potere è riuscito a camuffarsi con garanzie legislative e norme di tutela come meri specchietti per le allodole. L’evoluzione politica e istituzionale non ha inciso più di tanto sulla mentalità e il costume, ma soprattutto sull'organizzazione sociale. Il sistema Italia, nonostante le presunte innovazioni strutturali, rimane palesemente feudale. Il feudo che viene generalmente pensato come una entità territoriale ha gradualmente assunto una fisionomia più simile a un software evanescente che a un hardware fisico: le strutture del potere, in parte anche interiorizzate sotto forma di ideologie, hanno dissimulato variamente il loro carattere corporativo negli escamotage normativi che hanno mantenuto strutturalmente il paese in una condizione di immobilismo: i privilegi e le immunità hanno assunto una forma indeterminata e ubiqua, occultandosi dietro le formule propagandistiche e con un sistema mediatico esso stesso parte integrante delle egemonie sociali e delle strutture di potere. Il feudo da luogo fisico circoscritto, e da pertinenza ideologica dell’ortodossia di un gruppo politico, è diventato consorteria di interessi condivisi dei clan che spartiscono prebende e privilegi. I nuovi signori di banno hanno tradotto in senso metaforico il dominatus loci, mentre l’allodio (la piena proprietà) ha assunto il carattere sfumato della concessione in un giuramento di fedeltà con un diffuso sfruttamento del potere per interessi privati. Nella nuova realtà italica il feudo è costituito da un sistema di coperture che delimitano dei perimetri di potere, sistemi normativi che fungano da cinture di sicurezza e scambi di favore. Il diritto reale ha assunto il carattere di una rendita (di denaro e potere) in cambio non tanto di una specifica prestazione professionale (elemento accessorio) quanto di una fedeltà e consonanza che si esprime nell'omertà e nella complicità comunque legalizzate nei formalismi giuridici, nei codicilli e nelle norme ad personam. Le caste nel sistema Italia sono rappresentate da quei gruppi (anche istituzionali) che si mantengono rigorosamente chiusi in privilegi senza nessun rischio di essere smascherati come portatori di interessi di parte e al di fuori di una legalità che non sia solo di facciata. La possibilità di sfuggire a qualsiasi forma di controllo autenticamente democratico è data da un sistema normativo che nella indeterminatezza è sempre in grado di giustificare i suoi atti formali. La quadratura del cerchio è rappresentata da quelle formule ubique che possono essere lette variabilmente e derubricate a conferma che tutto è sempre fatto secondo scienza e coscienza. Le leggi rappresentano un flatus vocis dove l’interprete (quello istituzionalmente legittimato) può sempre fornire la decodifica di un nominalismo linguistico formalmente ineccepibile. I codici interpretativi hanno infatti la souplesse necessaria a tradurre i fatti conclamati sic et nona seconda della convenienza, delle circostanze e soprattutto degli interessi di riferimento. Il risultato è che le contraddizioni, le manchevolezze, le inadeguatezze e le incapacità dei vari strati della piramide sociale – di fatto impermeabili a un controllo e a una razionalizzazione che non sia soltanto di facciata – dal vertice e scendendo via via nel sistema delle istituzioni e delle connesse professioni - è sempre in grado di scaricare alla base tutte le sue incapacità e le sue magagne. Chi paga è sempre la palude degli utenti in un sistema di inefficienze e di abusi. Il sistema Italia, al di là delle belle formule di democrazia liberale e delle tirate ideali, rimane un paese feudale nella mentalità e nella qualità delle sue istituzioni che godono di quell'immunità derivata da un sistema largamente autoreferenziale e basato sulla discrezionalità mascherata dai formalismi giuridici e su forme di legalità di facciata. La divisione dei poteri nel sistema Italia costituisce non solo l’illusione di una società libera ed aperta, ma una sorta di divide et impera - sui generis - che trova autogiustificazione in un rapporto di reciproca legittimazione dei poteri nella loro completa autonomia e nella loro assoluta discrezionalità in quanto interpreti di norme tanto vaghe e indeterminate da poter sempre essere ascritte agli interessi di camarille e corporazioni. L’idea di una responsabilità che risulti indipendente dalla casta di appartenenza e dalle connesse protezioni e agevolazioni, è quanto di più alieno e inammissibile per un sistema dove l’individuo è sempre e soltanto in funzione degli interessi del suo clan (e del sistema di alleanze tra gruppi di potere) e non già della società nel suo complesso. Ognuno colga a piacere i riferimenti appropriati…

Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli”. Allo scrittore la laurea honoris causa in «Comunicazione e Cultura dei media» a Torino. Il conferimento laurea honoris causa in “Comunicazione e Culture dei Media” a Umberto Eco, scrive il 10/06/2015 "La Stampa". «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». Eco vede un futuro per la carta stampata. «C’è un ritorno al cartaceo. Aziende degli Usa che hanno vissuto e trionfato su internet hanno comprato giornali. Questo mi dice che c’è un avvenire, il giornale non scomparirà almeno per gli anni che mi è consentito di vivere. A maggior ragione nell’era di internet in cui imperversa la sindrome del complotto e proliferano bufale».

Imbecilli e non, tutto il mondo è social. L’atto d’accusa di Eco contro il moltiplicarsi di bufale nella Rete ha suscitato vivaci reazioni tra i lettori e gli internauti. Su Facebook e Twitter regna davvero lo scemo del villaggio? Scrive Juan Carlos Martin il 12/06/2015 su "La Stampa". Internet? La catena di montaggio delle bufale, «il luogo in cui nascono le più assurde teorie complottistiche». Facebook e Twitter? Uno sfogatoio per quelli che «prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, e di solito venivano messi a tacere», mentre «ora chi scrive ha lo stesso diritto di parola di un Nobel». L’atto di accusa pronunciato da Umberto Eco (La Stampa ne ha riferito nel servizio sulla sua visita a Torino per la laurea honoris causa in Comunicazione e media) ha suscitato un vasto e vivace dibattito in Rete e tra i lettori. Ma davvero i social allevano «legioni di imbecilli»?  Chiarissimo professor Eco, mi dispiace contraddirla, ma su Internet si sbaglia. E si sbaglia proprio dal principio, ovvero da quando afferma che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli». Non perché l’affermazione non sia vera - chiunque frequenti la Rete lo vede tutti i giorni - ma perché anche gli «imbecilli» hanno il diritto di esprimersi. La nostra Costituzione, infatti, non concede la libertà di espressione solo ai premi Nobel, ai «colti» o agli «intelligenti»: la libertà di parola è assicurata a tutti. Ed è assicurata a tutti perché è nell’interesse di democrazie ben funzionanti avere il più ampio spettro possibile di voci, incluse quelle che possono apparire (e magari sono) estreme o «imbecilli». Con un unico rimedio accettabile, ovvero ancora più parole: parole di chiarimento, di confutazione, di spiegazione, di informazione. Ma anche tralasciando questo giudizio di valore, professor Eco, temo si sbagli anche su alcuni punti successivi. Gli «imbecilli» non stanno affatto «danneggiando la collettività»: stanno solo esercitando la loro libertà di parola. Solo una collettività «imbecille» si danneggia perché gli «imbecilli» parlano. Una collettività non imbecille, infatti, ha gli anticorpi per gestire le parole di tutti, incluse quelle stupide o inutili. E il fatto che gli «scemi del villaggio» possano esprimersi su Internet non implica che «Internet li abbia promossi a portatori di verità». A meno che non si voglia accusare anche Hyde Park a Londra di promuovere a «portatori di verità» tutti quelli che si fermano a parlare allo «Speaker’s corner». Sulle sue ultime affermazioni siamo invece in totale accordo. Il modo giusto per reagire all’enorme - e per me straordinaria - espansione della libertà di espressione resa possibile da Internet è quello di dare a tutti gli strumenti critici per valutare ciò che leggono, sentono e vedono. Cinque secoli fa abbiamo dovuto imparare a valutare l’affidabilità di un libro basandoci su autore e editore (e ciò non ha impedito che le librerie, ancora oggi, siano piene di libri che diffondono «bufale» colossali). Poi abbiamo dovuto imparare a leggere i giornali, e in tempi ancora più recenti abbiamo dovuto (o avremmo dovuto) imparare a interagire criticamente con radio e, soprattutto, televisione. Ora è il momento della Rete. È del tutto possibile espandere gli strumenti critici validi per i mass media tradizionali e insegnare a giudicare l’attendibilità di una voce di Wikipedia o il grado di affidabilità di un determinato blog o di una notizia su Facebook. Sono competenze che alcune università hanno cominciato a insegnare ed è auspicabilmente solo questione di tempo prima che diventino un insegnamento obbligatorio. Non si può, infatti, essere cittadini a pieno titolo senza la capacità di valutare criticamente le informazioni che incrociamo ogni giorno, che provengano dalla televisione, dai giornali o da Twitter. Certo, è urgente che queste competenze si diffondano, vista la crescente influenza dei social media. E allora ci aiuti, professor Eco: usi la sua straordinaria autorevolezza per convincere ministri e rettori a muoversi più rapidamente. Le garantisco che in tal caso scatterebbe un’altra, meritatissima «standing ovation». 

“Eco, i social network e le legioni di imbecilli. Difendere la verità è un lavoro che costa fatica”. Il commento di Gianluca Nicoletti: «Non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza», scrive Gianluca Nicoletti l'11/06/2015 su "La Stampa". Dove andremo a finire signora mia! Adesso che Umberto Eco ci ha aperto gli occhi sul fatto che l’umanità sia popolata da legioni d’imbecilli. E’ incredibile che costoro abbiano pure diritto di parola, senza che nessuno possa metterli a tacere! S’immagini che Il professore ha detto pure che hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel…Pensi signora sarebbe come se io e lei, che ci parliamo dal balcone mentre stendiamo i panni, potessimo parlare con la stessa dignità che so di un Dario Fo….Non c’è più religione veramente!  Attenzione, non è un paradosso per criticare il pensiero di quello che ritengo essere uno dei più illustri rappresentanti viventi della nostra letteratura e saggistica, anzi resto sinceramente e profondamente ammirato da tutto quello che Umberto Eco ha sinora prodotto come pensiero. Ma non riesco a reprimere la tentazione di rappresentare un’onirica ricostruzione di come potrebbe stimolare il dibattito tra due casalinghe di Voghera il pensiero che egli ha espresso in occasione del conferimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” da parte dell’Università di Torino. Senza nemmeno lontanamente immaginare che qualcuno possa mettere in discussione opinioni altrui su temi in fondo così legati a punti di vista personali, mi verrebbe da dire che finalmente possiamo misurarci con il più realistico tasso d’imbecillità di cui da sempre è intrisa l’umanità. Era sin troppo facile per ogni intellettuale, o fabbricatore di pensiero, misurarsi unicamente con il simposio dei suoi affini. Ora, chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato da corsari, rispetto ai bei tempi in cui questa massa incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori. Stare buoni e zitti, leggere giornali scritti da noi, leggere libri scritti da noi, guardare programmi in tv in cui al centro eravamo noi, ascoltare lezioni che facevamo noi. E’ finita purtroppo l’epoca delle fortezze inespugnabili in cui la verità era custodita dai suoi sacerdoti. Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, farlo costa fatica, gratifica molto meno, ma soprattutto richiede capacità di combattimento all’arma bianca: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza. E’ vero, Internet è il libero scatenamento di ogni menzogna, consolidamento di ogni superstizione, sublimazione di ogni velleità. Proprio per questo la contemporaneità ci affascina, è una tigre da cavalcare per non essere da lei divorati. Pensare che ancora possano esistere gabbie capaci di contenerla e quanto di più lontano dalla realtà si possa immaginare. Non è questione di supporto del sapere di rango inferiore, può anche essere come dice il professor Eco che si ritornerà al cartaceo, ma equivarrà al ritorno al vinile, alle foto con la Polaroid, al cosplay steampunk che sogna un futuro d’ipertecnologia a vapore e abiti vittoriani. Sono nostalgie che hanno la loro gloriosa rinascita nella memoria digitale, riportano ogni folle idea del passato a un funzionale stratagemma perché quei milioni d’imbecilli possano, a loro piacere, ricostruirsi un’epica individuale, senza aver mai compiuto un gesto veramente epico in tutta la loro vita… E allora? Chi siamo noi per negare il diritto all’imbecillità di evolvere con strumenti individuali? Non credo ai comitati di saggi, ai maestri di vita digitale che fanno dai giornali l’analisi critica della rete. Le loro sentenze avrebbero quel profumino di abiti conservati in naftalina che oggi emanano le muffe lezioncine sulla buona televisione, sul servizio pubblico, sulla qualità dei programmi, su questo è buono e questo fa male. Siamo tutti intossicati, per questo oggi l’intellettuale deve fare sua la follia del funambolo. Chi vorrebbe curare gli altri e ancora si proclama sano, è in realtà (digitalmente) già morto. 

Eco aveva ragione, il Web crea stupidi intelligenti. Anticipiamo l’intervento su "la Stampa" del 09/09/2016 del semiologo Gianfranco Marrone al Festival di Camogli: «Siamo eroi di Borges oberati di dati». Ireneo Funes, eroe eponimo della memoria in eccesso, non aveva corpo. O, quanto meno, lo usava il meno possibile. Ricordando tutto di tutto, sino ai più minimi dettagli della più banale delle situazioni, ogni cosa e ogni percezione delle cose, ogni parola ascoltata, ogni sentimento provato, Funes preferiva vivere nell’oscurità, pensando il meno possibile, esistendo il minimo indispensabile. Troppe cose in mente per poterne immagazzinare di nuove. E poi: con quale principio ordinatore? Con quale metodo? Finiva così per essere – nota Jorge Luis Borges, suo visionario inventore – una pura voce: alta, nasale, burlesca. Effimera. Va tenuta presente, questa parabola iperletteraria, non foss’altro perché più volte Umberto Eco se n’è servito per spiegare il funzionamento della rete, i meccanismi di internet, gli effetti cognitivi ed estetici dei social network. Eco e Borges, i due autori massimi delle totalizzazioni impossibili – la biblioteca infinita, il labirinto semiosico, la mappa uno a uno, Menard che riscrive Cervantes… –, si sono incontrati anche così, condividendo il problema della memoria ambivalente: pochi ricordi rincretiniscono, troppi ricordi altrettanto. Quella che è senz’altro – quanto meno dai sapienti greci ai giganteschi serbatoi delle odierne macchine pensanti, passando per i big data dei cattivissimi dell’ultim’ora – la principale prerogativa dell’intelligenza e della conoscenza, della scienza e della filosofia, la memoria appunto, si trova costretta fra due idiozie opposte e complementari: l’incapacità cognitiva dello smemorato recidivo, la boria inutile di chi rammenta oltre il necessario. Funes considera gli umani, inguaribili distratti, esseri a lui inferiori. Ma ne ha istintiva paura, perché, diversamente da lui, sanno più o meno come vivere. Messa così, la vexata quaestio degli stupidi in rete – che Eco, provocandoci sino all’ultimo, ha voluto consegnarci – acquista una nuova forma. Si ricorderà la polemica che lo scorso anno, pochissimi mesi prima di lasciarci, una sua dichiarazione pubblica («internet è pieno di imbecilli!») aveva scatenato. Soprattutto, manco a dirlo, in internet stessa. Tutti a dire che non è affatto così, che il maestro una volta tanto ha toppato, che la rete è il migliore dei mondi possibili… e sorvolo sugli insulti. In una delle sue ultime «bustine» (che adesso chiude Pape Satàn Aleppe) lui aveva replicato, sornione, facendo una botta di conti: Facebook ha moltiplicato i bar dello sport, di modo che chiunque, a ogni momento, si sente in diritto di parlare a vanvera. Ma il dibattito è tuttora aperto, e serve per riflettere, oltre che sul web e i suoi cascami, sul senso profondo della stupidità. Tutt’altro che evidente. Musil, per esempio, osservava che non c’è peggior stupido di chi ostenta la propria intelligenza. Barthes ricordava che occorre sentirsi stupidi per esserlo di meno. E già Flaubert ripeteva che la vera idiozia consiste nel voler concludere. C’è di che. Quanto alla rete, se ne è detto di tutto e il suo contrario. Salutata al suo nascere come la panacea di tutti i tutti i mal di pancia ideologici, terreno dove la libertà di parola avrebbe foraggiato il peace-and-love post-californiano, è diventata l’inferno a cielo aperto dove ignoti oligarchi succhiano il sangue biancastro del popolo bue. Fosse soltanto cretineria. La dialettica fra apocalitti e integrati è viva e vegeta, ed è curioso che a starci dentro sembra esserci lo stesso Eco, che 50 anni fa l’aveva criticata. E qui entra in gioco un profeta poco ascoltato, quell’José Ortega y Gasset che nella Ribellione delle masse, 1930, aveva visto giusto: tutti siamo cretini e sapienti insieme. Un esperto di fisica subatomica farfuglierà scemenze sulle politiche internazionali. Un Premio Nobel in letteratura interverrà con imbarazzante cipiglio sulle scelte finanziarie planetarie. Un maturo ingegnere palpiterà leggendo alla fidanzata poesiole da quattro soldi. Come dire che non c’è sapientone che non sia imbarazzatemene stolto al di fuori del suo terreno di ricerca scientifica, non c’è pensatore heideggerianamente autentico che sappia far funzionare uno smartphone d’ultima generazione. Tutti però, ed è questo il punto, oggi si incontrano ardentemente sui social media. E non è solo un problema di numeri. Si scompaginano faldoni polverosi. Si riarticolano paradigmi acquisiti. Da una parte Facebook, Twitter e soci donano a chiunque la responsabilità di parola, assunta con leggerezza e insipienza, dando la stura alle opinioni più dure e più pure. D’altra parte questi cosiddetti media 2.0 ridimensionano tutti e subito, livellando ogni biodiversità culturale entro le griglie precostituite di un format adolescenziale. E tutto resta registrato, scritto, archiviato alla rinfusa ma comunque conservato. Parli chi può, gli altri dietro la lavagna: per far compagnia a quell’idiota di Funes. 

L'idiota di successo. Un grande semiologo e un grande cineasta. Insieme per dialogare di come va il mondo. In un libro di prossima uscita. Qui ne anticipiamo un capitolo. Dedicato all'idiozia. E alla sua pericolosità. Che è quella di convincerci di cose prive di ogni logica, scrive il 5 maggio 2009 "L'Espresso".

Umberto Eco: Ho fatto una distinzione, in uno dei miei libri, fra l'imbecille, il cretino e lo stupido. Il cretino non ci interessa. È quello che porta il cucchiaio verso la fronte anziché puntare alla bocca; è quello che non capisce quello che gli dici. Il suo caso è semplice. L'imbecillità, invece è una qualità sociale e, per quel che mi riguarda, puoi anche chiamarla diversamente visto che per alcuni 'stupido' e 'imbecille' sono la stessa cosa. L'imbecille è colui che in un certo momento dirà esattamente quello che non dovrebbe dire. È autore di gaffe involontarie. Lo stupido invece è diverso; il suo deficit non è sociale ma logico. A prima vista sembra che ragioni in modo corretto; è difficile accorgersi immediatamente che non è così. Per questo è pericoloso. (...) Ti faccio un esempio. Lo stupido dirà: 'Tutti gli abitanti del Pireo sono ateniesi. Tutti gli ateniesi sono greci. Quindi tutti i greci sono abitanti del Pireo'. Ti viene il sospetto che qualcosa non funzioni perché sai che ci sono dei greci di Sparta, per esempio. Ma non sai spiegare subito dove e perché si è sbagliato. Dovresti conoscere le regole della logica formale. Ecco, credo che dovremo occuparci specificamente dello stupido.

Jean-Claude Carrière: Per me lo stupido non si accontenta di sbagliare. Afferma chiaro e forte il suo errore, lo proclama, vuole che tutti lo sentano. È sorprendente vedere quanto la stupidità è roboante. 'Ora sappiamo da fonti certe che...'. E segue una cazzata enorme. 

Eco: Hai assolutamente ragione. Se dici con insistenza una verità comune, banale, diventa immediatamente una bêtise...

Carrière: Flaubert dice che la bêtise consiste nel voler trattare conclusioni. L'imbecille vuole arrivare da solo a soluzioni perentorie e definitive. Vuole chiudere per sempre delle questioni. Ma questa bêtise, che spesso viene recepita come una verità da un certo tipo di persone, è per noi, con il passare della storia, estremamente istruttiva. La storia della bellezza e dell'intelligenza, cui limitiamo il nostro insegnamento, è solo un'infima parte dell'attività umana, lo abbiamo già detto. Forse bisognerebbe pensare, e del resto tu lo stai già facendo, a una storia generale dell'errore, dell'ignoranza, oltre che della bruttezza. (...)

Eco: Quanto alla bêtise, dopo quel che ne hai detto, mi pare che sia una cosa diversa dalla stupidità. Si può essere stupidi senza essere completamente 'bestia'. Stupidi per caso. (...) Un caso di epifania dell'imbecillità (nel senso in cui la intendo io) è offerto da Joyce quando riferisce una conversazione con Mister Skeffington: "Ho saputo che suo fratello è morto", dice Skeffington. "E aveva soltanto dieci anni", gli viene risposto. "È in ogni caso doloroso", risponde Skeffington.

Carrière: La bêtise è spesso vicina all'errore. È questa passione per l'imbecillità che mi ha avvicinato alla tua ricerca sui falsi. Ecco due percorsi rigorosamente ignorati nell'insegnamento. Ogni epoca ha le sue verità da una parte e i suoi notori imbecilli dall'altra, enormi, ma si assume il compito di insegnare, di trasmettere, solo la verità. In qualche modo, la bêtise viene filtrata. Sì, c'è un politicamente corretto e un 'intelligentemente corretto'. Detto diversamente, un buon modo di pensare. Che lo vogliamo o no. 

Eco: È il test dela cartina tornasole che ci consente di verificare se siamo in presenza di un acido o di una base. Se esistesse una cartina tornasole per questi casi, potremmo sapere, di volta in volta, se siamo in presenza di uno stupido o di un imbecille. Ma per tornare al tuo accostamento fra bêtise e falso: il falso non è per forza espressione di stupidità o di imbecillità. È semplicemente un errore. Tolomeo credeva in buona fede che la Terra fosse immobile. Commetteva un errore in mancanza di informazioni scientifiche. Ma forse domani scopriremo che la Terra non gira in torno al Sole e allora renderemo omaggio alla sagacia di Tolomeo. Agire in cattiva fede significa dire il contrario di ciò che si ritiene vero. Ma noi commettiamo sempre i nostri errori in buona fede. L'errore attraversa quindi tutta la storia dell'umanità e per fortuna peraltro, se no saremmo degli dei. La nozione di 'falso', che ho studiato, in realtà è molto sottile. C'è il falso che deve apparire indiscernibilmente (nel senso leibniziano) come la stessa cosa del suo modello. Chi presenta un falso come vero, sapendo che non è la stessa cosa del suo modello, è in mala fede, e inganna. C'è poi, invece, il ragionamento falso di Tolomeo, che parlando in buona fede, si sbaglia. Tolomeo non era un falsario perché credeva davvero che la Terra fosse immobile.

Carrière: Questa precisazione non ci facilita nel nostro sforzo di definizione: Picasso diceva che poteva fare lui stesso dei falsi Picasso. Si è anche vantato di aver fatto i migliori falsi Picasso del mondo.

Eco: De Chirico ha confessato anche lui di aver fatto dei falsi De Chirico. E devo confessare anch'io di aver fatto dei falsi Eco. Una rivista satirica italiana, una specie di Charlie Hebdo, aveva preparato un numero speciale del 'Corriere della Sera' a proposito dell'arrivo dei marziani sulla Terra. Evidentemente si trattava di un falso. Mi hanno chiesto un mio falso articolo firmato da me medesimo, come parodia di Eco.

Carrière: È un modo per uscire da se stessi, dalla propria carne dal proprio mestiere. E anche dalla propria testa.

Eco: Ma prima di tutto è un modo per criticarsi, per mettere tra virgolette i propri luoghi comuni, perché sono proprio i luoghi comuni quelli che io devo ripetere per fare un falso Eco. L'esercizio che consiste nel produrre un falso di se stessi è dunque molto sano.

Carrière: Stessa cosa per questa indagine sulla bêtise che ci ha occupati per alcuni anni. Si è trattato di un periodo lungo in cui io e Bechtel leggevamo solo, con accanimento, libri bruttissimi. Spulciavamo i cataloghi delle biblioteche e, alla lettura di certi titoli, ci facevamo già un'idea del tesoro che ci attendeva. Quando scopri, nella tua lista, un titolo come 'Dell'influenza del velocipede sui buoni costumi' puoi stare sicuro che troverai il tuo miele!

Eco: Il problema si presenta quando un folle interferisce con la tua stessa vita. Come ho già detto, ho dedicato una ricerca ai folli pubblicati dalle vanity press (editori che pubblicano i libri a spese dell'autore, ndr) ed è evidente, per me, che riassumevo le loro idee con ironia. Ora, alcuni di loro non hanno percepito l'ironia e mi hanno scritto per ringraziarmi di aver preso sul serio il loro pensiero. Stessa cosa col 'Pendolo di Foucault', che se la prendeva coi fanatici del complotto e dell'occultismo e che ha suscitato in loro alcuni casi delle manifestazioni di entusiasmo inattese. Ricevo ancora (o meglio: mia moglie o la mia segretaria, che le filtrano) telefonate da parte di un Gran Maestro dei Templari. (...) Detto questo, la difficoltà nel decidere se uno sia un cretino, uno stupido e un imbecille viene dal fatto che queste categorie rappresentano dei tipi ideali, sono degli Idealtypen, come direbbero i tedeschi. Ma il più delle volte troveremo nello stesso individuo una mescolanza delle tre attitudini messe insieme. La realtà è ben più complessa di questa tipologia. (...)

Carrière: Infatti, la prima cosa che si scopre studiando la coglionerìa è che siamo coglioni anche noi. È evidente. Non si trattano impunemente da coglioni gli altri se non ci si rende conto che la loro coglionerìa è uno specchio per noi. Uno specchio permanente, preciso e fedele.

Eco: Cadiamo nel paradosso di Epimenide che dice che tutti i cretesi sono dei bugiardi. Poiché lui è di Creta, è bugiardo. Se un imbecille ti dice che tutti gli altri sono imbecilli, il fatto che lui sia imbecille non impedisce che forse ti stia dicendo la verità. Se poi aggiunge che tutti gli altri sono degli imbecilli come lui, allora dà prova di intelligenza. Quindi non è un imbecille. Perché quelli veri solitamente passano la vita a far dimenticare che lo sono. Esiste anche il rischio di cadere in un altro paradosso, che è stato enunciato da Owen. Tutte le persone sono imbecilli, eccetto te e me. Ma anche tu, a dire la verità, se ci penso bene...

Carrière: La nostra mente è delirante. Tutti i libri che collezioniamo, io e te, testimoniano della dimensione propiamente vertiginosa del nostro immaginario. È particolarmente difficile distinguere la divagazione e la follia da una parte e l'imbecillità dall'altra.

Eco: Un altro esempio di stupidità che mi viene in mente è quello di Nehaus, autore di un pamphlet sui Rosa Croce scritto all'epoca in cui, verso il 1623, ci si interrogava per sapere se esistevano o no. 'Il solo fatto che ci nascondono il fatto che esistono è la dimostrazione della loro esistenza', afferma quest'autore. (...) E per concludere un'altra storia. Nelle nostre società, in cui il problema del lavoro si pone per tutti, alcune persone stanno riscoprendo l'artigianato. Spesso, quando mi capita di avvalermi dei loro servizi, e noto che leggendo il mio nome sulla carta di credito mostrano di sapere cosa faccio, penso che gli stessi artigiani, cinquant'anni fa, dei miei libri non avrebbero saputo nulla. Molti artigiani di oggi, dunque, hanno completato la loro formazione superiore, prima di dedicarsi a un mestiere manuale. Un amico mi raccontava che aveva dovuto, con un collega filosofo, prendere un taxi, un giorno, dall'università di Princeton a New York. L'autista, nel racconto del mio amico, era un orso il cui viso era completamente coperto da lunghi capelli irsuti. Inizia a conversare per capire un po' con chi ha a che fare. Loro gli dicono che insegnano a Princeton. Ma l'autista vuole saperne di più. Il collega, un po' scocciato, dice che si occupa delle ontologie regionali e dell'epoché e l'autista lo interrompe dicendo: 'Ah, vuole dire Husserl, no?'. Si trattava, naturalmente, di uno studente di filosofia che faceva il taxi driver per pagarsi gli studi. Ma all'epoca un autista che conoscesse Husserl era una specie assolutamente rara. Oggi vi può capitare di incontrare un autista che ascolta musica classica e che a me fa domande sul mio ultimo lavoro semiotico. Non è del tutto surreale.

Carrière: Nell'insieme sono notizie positive, no?

Eco: Possiamo insistere sui progressi della cultura, che sono manifesti e che toccano categorie sociali che prima ne erano escluse. Ma contemporaneamente, c'è sempre più imbecillità. Non è che, perché stavano zitti, i contadini di un tempo fossero scemi. Essere colti non significa necessariamente essere intelligenti. No. Ma oggi tutte queste persone vogliono farsi sentire e fatalmente, in alcuni casi, ci fanno sentire solo la loro imbecillità. Quindi possiamo dire che l'imbecillità di un tempo non si esponeva, non si faceva riconoscere, mentre adesso offende le nostre giornate.

LA VERITA' E' FALSA.

La «post-verità» da Platone fino a Trump. La filosofa Adriana Cavarero analizza le radici della «parola internazionale dell’anno», ovvero quando i governanti diventano popolari sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza, scrive Adriana Cavarero il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Gli Oxford Dictionaries hanno eletto «post verità» parola internazionale dell’anno 2016, a seguito del controverso referendum sulla «Brexit» e dell’elezione presidenziale americana ugualmente contestata, che hanno contribuito a diffondere questo termine tanto nei mass media che nel gergo politico. Il dizionario definisce «post-verità» come «in rapporto o contestuale a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto alla leva esercitata sulle emozioni e sulle credenze personali». Il prefisso «post», in questo caso, non significa «successivo», ma anzi denota un’atmosfera in cui la verità è irrilevante e prevalgono le credenze radicate nelle emozioni. Ci si chiede se una politica che fonda la sua agenda sul principio della verità, scartando il regno emotivo di sentimenti e credenze, sia mai esistita nell’intera tradizione politica dell’Occidente. A dire il vero è esistita, ma solo nel registro astratto della teoria: nella fervida immaginazione politica di Platone.

Nella Repubblica, Platone esamina l’antagonismo tra una politica costruita sulla verità, che corrisponde alla sua concezione della polis ideale, e una politica costruita invece sulle emozioni, ovvero sul pathos, la patologia di quella entità politica collettiva che egli chiama «i molti» — hoi polloi — e che descrive in modo allegorico come «un grosso animale». Il contesto in cui questa celebre e ignobile immagine emerge è un discorso di Socrate sulla natura del vero filosofo, che si distingue dalla natura di altri esperti di logos nell’Atene contemporanea, i sofisti. Nello sviluppare una speciale tecnica di linguaggio che riesce ad emozionare «i molti» i sofisti si prestano a pagamento a istruire i futuri leader politici su un discorso che miri a manipolare il pubblico e, tecnicamente, a conquistarsi i voti degli elettori. Platone paragona il sofista a qualcuno che «avesse compreso gli impulsi e i desideri di un animale da lui allevato grande e forte e sapesse come bisogna avvicinarsi a lui e quando e per quali motivi diventa più irascibile o più mite, quali suoni è solito emettere a seconda delle circostanze, e quali, se proferiti da altri, lo ammansiscono e lo irritano; e tutte queste conoscenze, apprese grazie a una lunga dimestichezza, le chiamasse sapienza e si volgesse a insegnarle quasi avesse istituito un’arte;… tutto in base alle opinioni di quel grosso animale».

È risaputo che le teorie antidemocratiche di Platone sono state storicamente cooptate dalla tradizione reazionaria e dall’estrema destra, persino dalle ideologie naziste. Eppure vale la pena riflettere sulla sua critica della democrazia. Platone sostiene che la democrazia si trasforma inevitabilmente in demagogia, un regime politico che provoca la corruzione del popolo tramite la manipolazione dell’opinione pubblica e crea governanti che accrescono la loro popolarità sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza di molti, rinfocolando le loro emozioni e contrastando le decisioni ragionate. Questi leader si specializzano nel coltivare, incrementare, riprodurre e riformulare gli impulsi del grosso animale, allo scopo di stabilire e affermare un sistema di potere fondato sul pathos, una forma di «politica patologica». In questo senso, la polis ideale di Platone è all’opposto: come governanti, i filosofi sono in realtà guidati dalla verità del logos, ovvero dalla capacità della ragione di controllare e reprimere gli impulsi delle parti più basse e viscerali. I filosofi, sostiene Platone, devono essere educati ad amare la verità e provare vergogna nel mentire. Al contrario, dato che i politici educati dai sofisti guardano al logos non come una struttura che racchiude l’ordine della verità, ma piuttosto come uno strumento di azione per manipolare le emozioni della gente, essi mentono. La verità è irrilevante in questo contesto patologico. Talmente irrilevante che qualunque cosa il grosso animale creda o sia persuaso a credere, ciò corrisponde al vero. Il concetto della post-verità applicata alla politica, come suggerisce il dizionario di Oxford e come Platone sembra presagire, non liquida la verità, bensì la rende irrilevante.

La posta in gioco non è la verità, bensì il potere: sia il potere generalmente definito come dominio sugli altri tramite mezzi di persuasione oppure, più nello specifico, come caratteristica distintiva di operazioni linguistiche capaci di dimostrare l’irrilevanza e, in ultima analisi, la superfluità del vero. Platone, antidemocratico ed elitista, è il primo a detestare i tecnici della manipolazione del popolo che trasformano l’esercizio della menzogna in un’arte politica efficace, accettabile e gradevole, l’arte del discorso acrobatico, una specie di funambolismo verbale assai divertente. Per questo motivo Platone non esita a definire ciarlatani i sofisti e i loro emuli in politica, aggiungendo che la loro esibizione corrisponde ai gusti popolari degli spettatori del circo.

Potrei aggregarmi alla schiera degli scettici, ma non è questo il mio scopo. In questo momento, mi appassiono alla descrizione della fenomenologia della politica patologica, nel suo annoverare anacronistico e altamente polemico di una serie di caratteristiche e preoccupazioni riguardanti un certo pathos politico, i cui profili sembrano convergere nell’attuale definizione di post-verità. Se Platone insistendo sulle emozioni dei «molti» dava consistenza e giustificazione alla bugia, Hannah Arendt ci aiuta a comprendere lo specifico della menzogna politica moderna come «bugia fabbricata» e fittizia. La presa sulle emozioni è in questo caso aggravata da una comunicazione che, lungi dall’essere manipolazione acrobatica del discorso, mira ad accattivarsi il pubblico attraverso frasi tanto efficaci quanto sconnesse: in pratica sembrano vere in quanto prodotte non dalla ragione ma da impulsi. Improvvisato e privo di coerenza teorica il discorso politico dell’attuale potere spegne in noi il senso del reale, sostituendo la nostra presa sulla realtà con fatti «alternativi», fake theory, bugie rese «reali» dai social media. Nell’era della post verità il potere si esprime con stile improvvisato. Quello che twitter trasforma in realtà. Il rapporto tra verità e politica è definitivamente collassato? (Traduzione Rita Baldassarre)

La polemica: verità, post-verità e ragione. La verità tra sentimento soggettivo, dubbio e controllo della ragione, scrive Rocco Buttiglione il 15 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Adesso è di moda la post-verità. Uno incolto potrebbe pensare che la post-verità sia quello che una volta si chiamava menzogna ma in realtà non è proprio così. Tra la idea di menzogna e quella di post-verità sta la morte della idea di verità. I saggi, i colti, ci hanno spiegato che la verità non esiste. Prima ancora dell’era del web e della proliferazione incontrollata dei blog, dalle colonne dei grandi giornali e dalle cattedre universitarie ci hanno detto che la verità è pericolosa per la democrazia, che quelli che credono una verità hanno la tendenza naturale ad imporla e quindi sono tendenzialmente totalitari. C’è stato anche chi ha denunciato la pretesa totalitaria della ragione ed esaltato il primato della autenticità soggettiva. Che succede quando muore l’idea di verità? Ognuno di noi è abitato da un groviglio di impulsi, paure, desideri e tensioni istintive. La idea di verità ha la funzione di controllare (Foucault direbbe sorvegliare) questo magma, di costringerlo a fare i conti con la realtà. Se questo non avviene l’uomo rimane prigioniero di se stesso, perde la capacità di adattarsi all’ambiente, infine muore. Della realtà fanno parte anche gli altri esseri umani. Quando muore l’idea di verità muore anche il dialogo che unisce gli uomini fra di loro. Ogni uomo infatti ha una sua verità, che è la risultante delle sue interne passioni dell’anima. Per poter confrontare la mia verità con la verità dell’altro ho bisogno di credere in una verità più grande che possiamo scoprire insieme. Se questa idea viene meno avremo il pluralismo delle verità. Ognuno griderà la sua verità con tutta la forza di cui dispone. Il pluralismo delle verità era l’ideale dei decostruzionisti (quelli che volevano decostruire l’idea di verità). Essi, per la verità, immaginavano la coesistenza pacifica, senza violenza, delle diverse verità. Adesso abbiamo visto che si sbagliavano. Non vedevano il fatto che viviamo in un mondo comune e diamo forma alle nostre società attraverso un lavoro comune. Per realizzare il mio desiderio, per dare forma alla mia idea di verità, ho bisogno della collaborazione dell’altro. Credevano che il desiderio fosse buono o almeno innocuo. Non vedevano che l’invidia la violenza contro l’altro uomo è una componente fondamentale del desiderio non sottoposto al vincolo della ragione. Assistiamo dunque ad una regressione di massa. Nel Mercante di Venezia Shakespeare ci offre un modello insuperabile di questo movimento di pensiero. Io sono frustrato per le mille ragioni che si frappongono fra il mio desiderio e la sua realizzazione. Invece di cercare un percorso reale verso la realizzazione del desiderio mi trovo un responsabile immaginario della mia infelicità. Nel caso di Shakespeare questo responsabile è Shylock, l’ebreo. La mia frustrazione è reale e la condensazione delle sue cause in un personaggio fantastico è una grande opera d’arte. La identificazione di questo personaggio fantastico con l’ebreo reale è invece demoniaca (esiste anche il demoniaco nell’arte). Io sento che l’ebreo è la causa del male del mondo e, data che non esiste nessuna ragione superiore abilitata a giudicare del mio sentimento, allora l’ebreo è davvero, almeno per me (e per quanti si lasciano contagiare dal mio sentimento) la causa di tutti i mali del mondo. Per la verità una crisi analoga della idea di verità l’Europa la ha vissuta fra la fine del secolo XIX e gli inizi del secolo XX. È da quella crisi che nacquero i totalitarismi. Non a caso i nuovi filosofi della decostruzione fanno tutti riferimento a Nietzsche. Adesso si tende ad addossare al web tutti i mali della post verità. Il ragionamento andrebbe rovesciato. La diffusione del web ha effetti così distruttivi perché avviene in un tempo storico che già precedentemente aveva rinunciato alla idea di verità. Non abbiamo assistito a linciaggi mediatici fatti dalla grande stampa che adesso si straccia le vesti per le bufale del web già molti anni prima della diffusione di internet? Sia chiaro: internet va regolato ed è del tutto inaccettabile l’idea che esso possa essere uno spazio anarchico in cui ci si sottrae alla responsabilità per le proprie azioni. Talvolta le parole sono pietre e chi le scaglia non si può sottrarre alla propria responsabilità. Il problema vero, però, non è la regolamentazione del web, é la riabilitazione della idea di verità. Un problema strettamente connesso, poi, è quello del ripristino dei confini fra i generi letterari. In occasione dell’anniversario dell’attentato a Charlie Ebdo si moltiplicano gli articoli che chiedono un uso responsabile della satira. È giusto chiedere a chi fa della satira di essere responsabile? La satira è sempre stata un modo di far emergere il represso. Rido perché scopro in me stesso un umore che collude con quello che la satira mi dice, per crudele ed osceno che sia. Ne rido perché so che non è vero. È come andare allo zoo (pardon: al parco biologico) a vedere gli animali feroci. Mi diverto perché so che sono inoffensivi. Il vero problema è che è saltata la distinzione fra la satira e l’informazione. Una satira politicamente militante ha diseducato una generazione abituandola a pensare che il satiro dice la verità ovvero che non esiste differenza fra il sentimento soggettivo e la verità. Fra il sentimento soggettivo e la verità esiste il controllo della ragione. La ragione vaglia i fatti e valuta se essi confermino o contraddicano il sentimento soggettivo. La ragione sottopone il sentimento soggettivo al controllo metodico del dubbio e lo lascia valere solo se supera (nella misura in cui supera) questo vaglio del dubbio. Nel fare questo la ragione considera diverse ipotesi alternative. Esse hanno però il dovere di rendere ragione di tutti i fatti accertati, non possono selezionare solo i fatti che le confermano tacendo quelli che le contraddicono. È solo attraverso questo difficile esercizio che cresce una opinione pubblica matura. Senza di essa però la democrazia muore.

Noi in trappola tra bufale e censura. La circolazione di false notizie online non si combatte con lo stop alla libertà di parola.  Ma evitando l’impunità di chi le diffonde, scrive Roberto Saviano l'08 gennaio 2017 su "L'Espresso". Come sempre in Italia (anche quando le notizie che ci riguardano arrivano dall’estero) si ragiona tirando in ballo la parola “emergenza” per far leva sull’emotività. Come sempre - e questo impedisce la ricerca reale di una soluzione - si propongono ricette inattuabili e che hanno un retrogusto amaro, quando non pericoloso. E come sempre, la risposta non tarda ad arrivare. Anch’essa è scomposta, deve alzare i toni perché la gara è a chi la spara più grossa, a chi fa più proselitismo e ovviamente il proposito finale non è trovare una soluzione, ma lasciare tutto com’è. Ché, detto tra noi, quando le cose vanno male sono in molti a stare bene. Ed ecco la nuova reale e pressante urgenza ed emergenza democratica: le bufale online, le false notizie. Non fraintendete il mio tono, è effettivamente un problema che esiste e non va sottovalutato, ma la sua risoluzione non si chiama censura. Per fare un esempio che è sotto gli occhi di tutti, secondo l’analisi della testata americana BuzzFeed, nella fase conclusiva della campagna presidenziale americana, le 20 notizie false più cliccate su Facebook hanno generato più condivisioni, più like e più commenti rispetto alle 20 notizie vere più cliccate: “Il Papa appoggia Donald Trump” (notizia falsa) ha avuto più condivisioni dell’inchiesta del Washington Post sui reati di truffa e corruzione di Trump (notizia vera). L’ho presa larga, ma sto parlando della nostra Costituzione, quella stessa che molti vogliono difendere, che pochi conoscono e che pochissimi si impegnano perché sia effettivamente applicata. Sto parlando dell’articolo 21 di cui cito le prime righe: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”. E io aggiungerei questo: la tutela della libera formazione delle opinioni nelle persone è un diritto fondamentale da tutelare e se le bufale, se le false notizie presenti online mettono a rischio questa libertà la risposta non può essere il controllo dello Stato sulle conseguenze, ma la ricerca delle cause. Allo stesso tempo la soluzione non può essere far finta che il problema non esista e rivendicare il diritto a dire ciò che si vuole, ovvero il diritto all’irresponsabilità. Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, rilascia al Financial Times (ecco la notizia che ci arriva dall’estero) un’intervista sullo stato dell’informazione in Italia e dice che la maggiore causa di degrado della democrazia sono le bufale che circolano sul web e sui social. Pitruzzella dice di non fidarsi del controllo che i social farebbero sulle notizie false e auspica la costituzione di una serie di istituti indipendenti coordinati da Bruxelles e modellati sull’Antitrust. Non sarebbe lavoro da affidare a società private, dice, perché: «è storicamente compito dei poteri pubblici». Afferma di non temere alcun rischio censura perché le persone «potranno continuare a utilizzare un web libero e aperto» (con “free”, l’intervista era in inglese, non credo di riferisse alla gratuità del servizio che in Italia è costoso anche quando - e capita spesso - è scadente. Ma questa è un’altra storia). Pitruzzella, a margine della sua intervista, accenna anche alla soluzione già esistente, ovvero il ricorso dei privati cittadini che si sentono danneggiati dalle false notizie all’autorità giudiziaria ma, secondo Pitruzzella, la macchina giudiziaria è notoriamente “clunky” che io tradurrei con “oberata”, “ingolfata”. Ecco, quindi una risposta di buon senso a Pitruzella poteva essere questa: ma invece di pensare a un intervento dello Stato, non sarebbe stato meglio auspicare una riforma del sistema giudiziario dando atto delle ripercussioni che il suo malfunzionamento ha anche sulla circolazione di notizie false e sulla sostanziale impunità per chi le produce e le diffonde? E invece no e a rispondere immediatamente è Beppe Grillo, che nella sua invettiva omette di citare le bufale da cui tutto oltreoceano era partito, e si accomoda sul banco degli imputati dicendo che è lui che vogliono zittire e censurare. Pitruzzella non l’aveva citato Grillo, che però, sentendosi chiamato in causa, rivendica di fatto il diritto alla bufala. Conclusione: c’è chi vorrebbe censurare e chi vuole dire balle, in mezzo ci siamo noi. That’s all folks.

La verità? E' falsa: 2016, un anno di bufale. Da Agnese Renzi che vota no a Boldi nei panni di Berlusconi, un’antologia delle migliori-peggiori notizie fasulle alle quali una quantità immane di persone ha abboccato. Un racconto lungo dodici mesi di disinformazione, scrive Maurizio Di Fazio il 23 dicembre 2016 su "L'Espresso". Notizie false, falsissime, a cui però si è creduto in massa. Frottole, meme, favolette acchiappa-click diventate virali e verità costituita. Bufale passate senza soluzione di continuità dalla babele interessata dei siti Internet dedicati all’opinione pubblica ufficiale. Con i social network a fare spesso da porta girevole, da docile quinta colonna per la moltiplicazione incontrollata delle fandonie legate soprattutto alla politica, all’attualità, al costume, alla scienza e alla tecnologia. Per il guadagno di pochi mercanti di menzogne (capaci di aggirare a volte anche il sistema immunitario dei media autentici), complice la dabbenaggine di molti e insospettabili fruitori “attivi”, armati di like e condivisione. Questa è la storia contraffatta, ma sulle prime contrabbandata per buona, dell’anno che se ne va tra allarmismi, pietismi e le consuete morti ingannevoli di celebrities della politica e dello spettacolo; rivelazioni della Nasa sull’esistenza degli alieni; nuove e spaventose malattie in agguato e ripristini imminenti della leva obbligatoria; Facebook e Whatsapp che diventeranno a pagamento, e il ritorno alla lira fissato per il primo gennaio; l’ex ministro Cécile Kyenge che vomita cattiverie contro il nostro Paese, Laura Boldrini che preferisce gli immigrati clandestini a tutti noi e i giustizieri del pomeriggio che suppliscono col far west al lassismo di una classe politica che sempre dal primo gennaio ci toglierà la pensione per ridistribuirla agli immigrati stupratori. Eccovi quindi un’antologia delle migliori, peggiori bufale del 2016, alle quali una quantità immane di persone ha abboccato. Un racconto lungo dodici mesi di disinformazione fattasi, per assurdo, fantomatica informazione corrente.

Attentato a Bruxelles. Il 23 marzo, il giorno dopo la strage all’aeroporto dell’Isis, ci casca la gran parte dei quotidiani italiani online, che pubblicano un video fake in apparenza riconducibile alle telecamere a circuito chiuso. E il video rimbalza in tutte le dirette televisive, commentato dal fior fiore degli opinionisti ed esperti di terrorismo e geopolitica. In verità, il filmato è relativo a un’altra carneficina, quella perpetrata cinque anni prima, l’11 gennaio del 2011, all’aeroporto russo di Mosca-Domodedovo, già presente già su Youtube.

Referendum sulle trivelle di aprile. Nel pubblicizzare il referendum, i “no triv” assicurano che sposando la loro posizione si eliminerebbero le piattaforme petrolifere dal panorama dei mari italiani. Ma non è così: il quesito referendario si limita al divieto del rinnovo delle concessioni per le trivellazioni in mare entro le dodici miglia. I fautori del sì agitano invece lo spettro dell’impennata dei licenziamenti e del crollo delle entrate dei petrolieri qualora perdessero la propria battaglia: doppio falso. Desta clamore il tweet di Giampaolo Galli, docente e parlamentare del Pd, che inneggia all’“astensione per Regeni e i marò”.

Sisma e menzogne. Nemmeno il tempo di riprendersi dallo spavento per i terremoti che squassano, tra agosto e ottobre, il centro Italia, che si fa largo la bugia epidemica della magnitudo abbassata ad arte (sotto i sei gradi) per non pagare i danni ai cittadini. Su Facebook proliferano tanti novelli sismologi, che asseverano con forza la bontà della loro teoria.

Referendum costituzionale. Da Gigi D’Alessio e Barbara D’Urso che smetteranno rispettivamente di cantare e di fare televisione se vincesse il no, a Vladimir Putin (un beniamino dei bufalari) che dichiara: “Se vince il sì, la Russia agirà di conseguenza, e non in senso positivo”. E che dire del presunto outing della first-lady Agnese Renzi, col suo “Voterò no”? Ma la bufala-spartiacque si mette in moto sulla scia del post Facebook del frontman dei Liftiba, Piero Pelù, che denuncia di essere stato costretto a usare una matita non copiativa in cabina elettorale. Parecchi altri seguono il suo esempio, nonostante la smentita ufficiale del Viminale. Le matite copiative funzionano solo su certi tipi di carta, e su quella normale si comportano come semplici matite. S’è sempre saputo.

Immigrati brutti, sporchi e cattivi. “Il Governo dà 35 euro al giorno a ogni immigrato”: tra le bufale a tema, questa è tra le più classiche. E tra gli “scoop” farseschi e xenofobi più originali dell’anno, si segnala questo del 28 agosto. “Pescara. Io ho più bisogno di quei terremotati, che si fottano. Da qui non me ne vado. Queste le parole di Mustafa Thomas Daverie, immigrato sbarcato a Lampedusa nel 2015 che attualmente soggiorna presso l’hotel (inesistente) “Nobelli” di Montesilvano. Il senegalese continua affermando che “i terremotati hanno i soldi quindi si possono risolvere da soli. Io no”, mentre tiene in mano il nuovissimo Galaxy S7 Edge pagato con le nostre tasse, 35 euro al giorno per la legge stabilita dal governo Renzi in collaborazione con la Boldrini. La nostra redazione è indignata dai commenti di questo ragazzo a cui noi italiani abbiamo salvato la vita. Ti senti indignato anche tu? Condividi il post, tutti devono sapere”. E in migliaia accorrono e condividono.

L'esordio di Gentiloni. "Basta ipocrisie, sono tutti finti poveri e io sono già scocciato di questo piagnisteo: rimboccarsi le maniche per il futuro del paese, qualche sacrificio non ha mai ammazzato nessuno, solo così l’Italia tornerà a primeggiare in Europa”. Queste le frasi che avrebbe proferito il nuovo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Parola, credibilissima, di “Libero Giornale”. Lo sfogo fittizio di Gentiloni prosegue così: "Ma per ritornare ad essere veramente competitivi gli italiani devono fare dei piccoli sacrifici quali smettere di lagnarsi sui social e poi fare la fila per comprarsi l’ultimo iPhone o insultare i protagonisti di Riccanza per poi fare tavolo in discoteca in 40 per potersi permettere una bottiglia di DonPero. Risparmiassero 10 euro in più al mese, così potrebbero campare dignitosamente".

Renzi che parla al cellulare in momenti decisamente inopportuni. Nella foto-meme si vedono Renzi, Boldrini, Grasso e Mattarella ad Ascoli al funerale delle vittime del terremoto, mentre si fanno il segno della croce. Qualcuno però mette in giro la voce che la mano del premier dietro la cravatta stia manipolando, in gran segreto, il suo smartphone… Una suggestione e niente più. Troppo tardi: l’indignazione dilaga sui social.

Pokémon bufala. Narra uno delle decine di siti di informazione pataccara: “La situazione sta davvero degenerando, incidente d’auto causato da Pokèmon Go. Un 22enne romano ha perso il controllo della sua auto che si è ribaltata a causa della brusca sterzata che il giovane aveva eseguito quando si è accorto che stava invadendo la corsia opposta. L’auto ha preso fiamme ma per fortuna il giovane è stato estratto e portato immediatamente in ospedale, dove, per le condizioni gravissime, è deceduto. La polizia municipale accorsa sul posto ha rilevato subito che il giovane usava lo smartphone mentre giocava a Pokémon Go, il nuovo videogame lanciato da Nintendo alcuni giorni fa e che sta facendo impazzire gli appassionati di tutto il mondo. La distrazione del videogame sul display del cellulare gli è stata fatale: l’auto è andata completamente distrutta come si vede nella foto”. Tutto falso. Hai capito, Galileo? Il rapper B.o.b. si professa convinto che la terra sia piatta e non sferica. E il bello è che lo seguono in moltitudini in questo suo sragionamento che ci riporta indietro di secoli, ai tempi della realtà aumentata.

Bufal-Stracult.

1) Il 5 marzo il solito “Libero Giornale” pubblica un “pezzo” dal titolo Sicilia: estremista islamico uccide il cane della fidanzata perché annusa il Corano. Svolgimento: “Bruttissima storia di crudeltà e ignoranza arriva da tranquillo comune siciliano di Marina di Vigata. Un pizzaiolo algerino di 22 anni, Aarif al Djebar ha crocifisso il cane della sua fidanzata italiana, una meticcio di Chihuahua. La bestiola era colpevole di aver annusato il suo Corano, incautamente lasciato sopra una sedia. L’uomo, che sembra avere legami con l’Isis, l’ha presa e l’ha crocifissa, poi, non contento ha anche dato fuoco alla carcassa. Il 22enne ha detto di averlo fatto perché era un cane degli infedeli. Il giovane, che risulta essere un clandestino, è balzato agli onori della cronaca francese quando nel 2011 fece saltare in aria un allevamento di maiali a Buffle, nella bassa Provenza”.

2) “Rocco Siffredi ha intrattenuto rapporti intimi con due donne nel bagno di un ristorante ed è stato allontanato dal proprietario su sollecitazione di clienti imbarazzati per i rumori”. Questa leggenda metropolitana è stata purtroppo ripresa e rilanciata anche da testate serie e autorevoli.

3) “Massimo Boldi vestirà i panni di Silvio Berlusconi nel prossimo film di Paolo Sorrentino”. La notizia, piuttosto incredibile, viene pubblicata da svariati giornali solitamente credibili. Ma era l’ennesima bufala assurta al rango di vero, sia pure giusto per qualche ora: un’eternità incontenibile, sul web.

I cretini della post verità Francesco, scrive Maria del Vigo l'1 gennaio 2017 su “Il Giornale”. É l’anno dei cretini della post verità. Termine già certificato dal prestigiosissimo Oxford Dictionary e infatti tutti i più saccenti giornaloni si sono affrettati a mandare a memoria questa parola: dal Guardian al Washington Post, dal Times al Corriere della Sera, dal radicalchicchissimo Internazionale a Repubblica. È la parola dell’anno finito e senza dubbio ci romperanno le balle con questa strampalata teoria anche in quello che ha appena iniziato. Ma cos’è dunque questa post verità? Di cosa si stratta? È il solito giro di parole che le elite radical chic si inventano per darsi un po’ di arie. Questi sterminatori di parole e di buon senso hanno decretato che siamo nell’era della posto verità; e, per intenderci, sono gli stessi che chiamano lo spazzino operatore ecologico e l’handicappato diversamente abile; quelli che hanno inventato decine di perifrasi per catalogare (con estremo rispetto, ovviamente!) tutti i gusti sessuali, quelli che si dice genitore 1 e 2, quelli che se dici negro ti mettono alla gogna e che prima o poi chiameranno i bianchi diversamente neri per non essere troppo razzisti, senza accorgersi di essere gli ultimi razzisti rimasti sul pianeta terra. Hanno ecceduto a tal punto in questa ossessione politicamente corretta da essere diventati la caricatura di loro stessi. E qualcuno, esasperato da questo galateo dell’ipocrisia, ha sbroccato e ha pensato bene di ruttargli in faccia. L’ultimo in ordine temporale è stato Beppe Grillo. Ma torniamo alla post verità e al suo significato. Post verità è un modo per dire bufala, balla, bugia. Ma siccome – come dicevamo prima - loro non chiamano mai le cose col loro nome hanno pensato di apparecchiare questo termine paludato. La post verità è una bufala di nome e di fatto. La teoria è che nel far west della rete circolino così tante bugie che la gente (che se avessero il coraggio delle loro azioni definirebbero “plebi”) finisce per crederci e per farsene influenzare. Per non cadere nel loro stesso gioco: siamo di fronte a una cagata pazzesca. Provate un po’ a indovinare quando ha preso campo questa idea? Vi aiuto io: si è fatta largo silenziosamente dopo il successo della Brexit, è esplosa a livello mondiale a seguito della vittoria di Donald Trump e in Italia è diventata verbo dopo il trionfo del No al referendum costituzionale. Un caso? No. Anche perché coloro che la hanno inventata e la utilizzano come una scimitarra contro le folle populiste, sono gli stessi che non avevano capito niente di quello che stava ribollendo nei loro rispettivi paesi. Quelli che fino al giorno prima dicevano che se la Gran Bretagna fosse uscita dall’Europa il secolare impero di sua Maestà sarebbe andato gambe all’aria, che quell’arricchito di Trump avrebbe fatto esplodere il mondo e che lo stop alle riforme avrebbe portato ogni forma di distruzione sullo Stivale (queste non erano post verità ma semplicemente delle idiozie). Invece la regina è ancora lì con la sua imperturbabile permanente, Trump rispetto all’ultimo, isterico, Obama sembra uno statista e in Italia non è cambiato un tubo. Dunque, lorsignori, non adattandosi a un mondo che va per i fatti suoi e non si adatta ai fatti che circolano nella loro testa, hanno deciso di ribaltare il tavolo: hanno vinto i populisti perché la menzogna ha prevalso sulla verità e gli elettori hanno preso lucciole per lanterne. Insomma, è stato solo un gigantesco abbaglio. Ed è tutta colpa di internet e dei social network. Il passo successivo – e qualcuno già lo ha fatto capire tra le righe – è dire che gli elettori sono solo una massa di imbecilli e quindi bisogna abolire il suffragio universale. Così improvvisamente la post verità è stata spalmata come un balsamo su tutti i mezzi di comunicazione. Quando non sai come giustificare un clamoroso fallimento della tua combriccola ideologica tiri fuori la post verità e tac è fatta. Un manipolo di cretini che non capisce un cavolo di quello che vuole realmente la gente ha risolto la situazione classificando come ebeti qualche centinaio di milioni di persone: noi stiamo dalla parte giusta, loro da quella sbagliata perché sono ignoranti che si bevono qualunque fesseria. Perché è rassicurante, per chi ha perso ogni punto di rifermento, convincersi che è tutta colpa delle balle e di chi le posta su Facebook. Come se non fossero mai esistite le bufale, come se i cittadini, gli internauti e dunque gli elettori, non fossero capaci di distinguere autonomamente il vero dal falso. E così da strampalata teoria autoassolutoria e popolodenigratoria si è trasformata in un’istanza politica. Ed è questo il pericolo. Perché i governi hanno iniziato a dire che bisogna porre rimedio a questa cosa, che i social network sono delle cloache a cielo aperto dove tutti – ohibò! – possono dire quello che gli pare. Giovanni Pitruzzella, il presidente dell’Antitrust, ha dichiarato al Financial Times che “i pubblici poteri devono controllare l’informazione”. Oh, finalmente qualcuno ha calato la maschera. Beppe Grillo, una volta in vita sua, ha detto una cosa giusta: questa è una nuova inquisizione. Ha ragione. Ci manca solo che i burocrati di Roma o – ancora peggio – di Bruxelles si mettano a censurare quello che scriviamo sui nostri profili Facebook… Anche perché, allora, se si dichiara guerra alle balle bisogna mettere alla berlina tutti, ma proprio tutti i pinocchi del mondo, e non solo su Facebook. Sento tintinnare le ginocchia in Parlamento. Vogliamo imbavagliare Maria Elena Boschi perché in televisione diceva che con la vittoria del No sarebbe stato più difficile combattere il terrorismo islamico? E quella non era post verità, ma proprio una stronzata. Difatti i cittadini lo hanno capito, hanno smontato una per una tutte le trimalcioniche promesse referendarie e hanno dato il benservito a Renzi e al suo governo. A dimostrazione del fatto che gli elettori non hanno bisogno di una badante di Stato che verifichi e selezioni per loro quello che possono o non possono leggere. Ma loro, questa badante ce la vorrebbero appioppare. Vorrebbero mettere le nostre idee in libertà vigilata, sigillare una zona traffico limitato del pensiero, mettere fuori legge gli eretici. Perché ci vuole un attimo a infilare le critiche nel cestino della spazzatura, dello spam illeggibile. Sognano una discarica indifferenziata del pensiero politicamente diverso. Non scorretto. Gli scorretti – quelli che vogliono cambiare le regole del gioco – sono soltanto loro. Non ce la faranno, perché cercare di fermare la rete – la gente – con qualche carta bollata è come pensare di poter svuotare il Sahara con un cucchiaino da tè. Ma il 2017 sarà comunque l’anno in cui i cretini della post verità cercheranno di mangiarsi pezzi della nostra libertà. Libertà di informazione, libertà di critica e financo politica. Stiamo all’erta. 

"Non credono ai social, ma tre giovani su dieci rilanciano le bufale". L'87% diffida della Rete, ma il 28,5% ha condiviso almeno un fake e l'11% diffonde "sempre e comunque". I dati dell'istituto Toniolo, scrive Cristina Nadotti il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Consapevoli che quanto si legge sui social andrebbe verificato, ma comunque pronti al clic veloce che diffonde la bufala. Ci sono soprattutto due dati, nell'indagine dell'Osservatorio giovani dell'Istituto G. Toniolo su "Diffusione, uso, insidie dei social network", capaci di fotografare la società della post-verità: tra i giovani che hanno dai 20 ai 34 anni circa uno su tre (il 28,5 per cento) ammette di aver condiviso un'informazione poi rivelatasi falsa. Eppure il pericolo bufala è noto: l'86,6 per cento afferma che i social non vanno presi troppo sul serio perché "i contenuti che vi si pubblicano possono essere tanto veri quanto inventati". Un'anticipazione dell'indagine, condotta nel mese in corso su un campione di 2.182 persone, rappresentativo dei giovani dai 20 ai 34 anni, sarà presentata oggi all'incontro "Vero, verosimile, post-verità", che l'arcivescovo di Milano terrà con giornalisti e comunicatori. I dati raccolti sulla diffusione delle bufale in rete lasciano tuttavia qualche speranza su un mutamento di tendenza, su una maggiore consapevolezza nell'uso dei social. Se, come detto, il 28,5 per cento ha condiviso informazioni poi risultate false, il 75,4 riferisce che, dopo un'esperienza personale o la diffusione di una bufala da parte di un amico, ha aumentato la sensibilità sul tema e l'attenzione ai contenuti "sospetti". In particolare, il 55,6 per cento ha smesso di condividere contenuti da contatti a rischio e il 41,7 per cento ha rimosso dalla propria rete chi diffondeva notizie false. Ma resta un 11,2 per cento che tende a condividere "sempre e comunque, tanto è impossibile appurare l'attendibilità di quello che circola in rete". La capacità di fiutare l'inganno e di aumentare l'attenzione è poi strettamente legata agli strumenti culturali. Tra chi ha il solo diploma di scuola media, la condivisione di un bufala è al 31,7 per cento, scende al 24 per cento tra i laureati. Con un titolo di studio universitario si individuano le notizie false condivise da altri (77,8 per cento, contro il 74,6 per cento di chi ha un titolo intermedio e il 70,4 per cento di chi ha un titolo basso) e anche la reazione dipende dal livello culturale: il 79,1 per cento dei laureati è pronto a cancellare un contatto facile alle fake news, contro rispettivamente il 76,7 e 71,4 di chi ha un titolo intermedio o basso. Confermati anche il primato di Facebook tra i social network e l'uso dello smartphone. Il 90,3 per cento degli intervistati è presente sul social di Zuckerberg, il 56,6 per cento è su Instagram, Google+ cattura il 53,9 per cento degli utenti, mentre Twitter resta al 39,9. Chi usa Facebook è più assiduo (oltre il 90 per cento presente con cadenza quotidiana) e lo strumento privilegiato per connettersi è il telefonino (72,7 per cento), sul quale si leggono post di amici e follower (74,1 per cento), news (63,2 per cento), si conversa via messenger (57,8 per cento) e si commentano post dei contatti (49,1 per cento). Non vacilla il binomio rete/libertà: il 69,2 per cento degli intervistati considera i social uno strumento dove è più semplice comunicare stati d'animo ed emozioni ed esprimere "apertamente il proprio punto di vista sulle questioni più controverse dell'attualità" (71,3 per cento) con un linguaggio più schietto e diretto (70,1 per cento).

Contro la post-verità in rete, legittima difesa degli utenti. Non serve la censura ma il lavoro di contrasto delle fake news da parte dei lettori, dei giornalisti liberi, dei siti di fact-checking, in collaborazione con Facebook, Google e Twitter, scrive l'1 gennaio 2017 su Panorama Luigi Gavazzi. Il post-truth in rete e i populisti che la usano, la democrazia minacciata, sono entrati definitivamente nel dibattito politico quotidiano anche in Italia, dopo che giovedì scorso il presidente dell'Antitrust, Giovanni Pitruzzella, parlando con il Financial Times, ha proposto una rete di agenzie pubbliche dei Paesi Ue contro le notizie e le storie false diffuse online. Questa opera di individuazione e smascheramento delle bufale, secondo Pitruzzella sarebbe più efficace se venisse affidata direttamente a autorità pubbliche simili alle varie antitrust nazionali, invece che essere semplicemente delegata alle grandi aziende che dominano Internet - Facebook, Google o Twitter e alla loro volontà e capacità di contrastare le informazioni false. Gli utenti, dice Pitruzzella, continuerebbero "a usare un Internet libero", ma beneficerebbero di un'entità "terza", indipendente dal governo, "pronta a intervenire rapidamente se l'interesse pubblico viene minacciato". Contro Pitruzzella subito si è levato l'anatema di Beppe Grillo, che ha urlato al complotto contro la libertà di espressione, cui hanno fatto da eco immediatamente venerdì i social network, e sabato anche qualche giornale, Il Fatto Quotidiano in testa. Reazione che ovviamente allontana ogni possibilità di analisi e dibattito civile. Ma certo la questione del rischio censura merita tutta l'attenzione. Il punto ovviamente non è essere favorevole o meno alla censura. È invece necessario trovare modi e strumenti, e regole, per garantire la libertà di espressione, ma anche per evitare che essa diventi strumento di odio razziale e politico e, questo è il caso in questione, di informazione ingannevole. E con il web e i social network che amplificano a dismisura qualsiasi comunicazione, aumentandone il potenziale di influenza e convincimento, questi strumenti e regole devono essere probabilmente studiati specificamente. Intanto si tratta di vedere cosa intenda concretamente Pitruzzella, e come verrà eventualmente definito il potere di intervento delle agenzie che invoca. Lunedì 2 gennaio sul Corriere della Sera, il presidente dell'Antitrust ha chiarito parzialmente il suo pensiero. In sostanza quel che il presidente dell'Antitrust propone è l'introduzione di "istituzioni specializzate, terze e indipendenti, che, sulla base di principi predefiniti, intervengano successivamente, su richiesta di parte e in tempi rapidi, per rimuovere dalla rete quei contenuti che sono palesemente falsi o illegali o lesivi della dignità umana (non dimentichiamo il caso recente della ragazza napoletana che si è uccisa dopo la diffusione virale sulla rete di un suo video che doveva essere privato)". In linea generale è meglio evitare di andare oltre il perimetro previsto dalle leggi attuali, con le norme sulla diffamazione e la calunnia, e contro l'incitamento all'odio razziale. Ci sono poi le regole deontologiche dei giornalisti che potrebbero ispirare anche alcune regole generali di autoregolamentazione dei social network, relative ai limiti che si possono imporre alla diffusione delle informazioni. Un'Autorità che decida cosa è vero e cosa è falso può essere più pericolosa dei danni che vuole evitare. Buona parte del lavoro di difesa della verità e del diritto a essere informati correttamente, lo dovrebbero invece fare gli utenti della rete, i giornalisti, e le aziende protagoniste della diffusione dell'informazione sul web. Come ha scritto Nadia Urbinati su la Repubblica del 2 dicembre, è il caso di fare appello alla "responsabilità da parte di coloro che esercitano la politica e contribuiscono a creare l'opinione. La democrazia non sopporta né le politiche dell'odio né quelle della verità, ma neppure le azioni repressive che dovrebbero scongiurarle. Ha bisogno, in questi casi in modo particolare, di cittadini, di politici e di giornalisti capaci di virtù pubblica, di far affidamento al senso del limite e dell'autolimitazione. Non è stata ancora escogitata una forma migliore per governare le emozioni senza pretendere di estirparle, una medicina che ucciderebbe il malato nell'illusione di guarirlo". E in successivo intervento a Radio 3, Urbinati ha invocato anche il concetto di Sfera Pubblica nella definizione che ne ha data Jürgen Habermas. Timothy Garton Ash che alla questione della libertà di espressione nell'era di Internet sta dedicando parecchio lavoro - un sito per esempio, e un lungo ed elaborato libro, Free Speech: Ten Principles for a Connected World - ricorda il contributo importante che si apprestano a dare le grandi potenze del web, come Facebook, per esempio, che riconosce l'enorme responsabilità del social network nel "costruire uno spazio in cui le persone possano essere informate". Ma allo stesso tempo Garton Ash riconosce come Facebook e gli altri big del web siano da considerare più partner di altri attori, che essi stessi "arbitri della verità". Gli attori protagonisti sono innanzitutto gli utenti, che devono sempre più prestare attenzione, verificare le fonti cui attingono in rete, soprattutto sui social; scavare nei report poco credibili. E soprattutto rendere pubblico il proprio lavoro di verifica, mettendo a nudo le fonti di informazione bullshit, i siti di propaganda. Gli utenti, tutti noi, dovranno anche diventare un po' antipatici, almeno sui social. Quando un "amico" afferma o rilancia informazioni evidentemente false, di propaganda, diffamatorie, dovrebbe dirlo apertamente e esplicitamente. Sarà un lavoro duro e faticoso, ma se lo si fa in tanti, sarà efficace. A volte le bufale e le interpretazioni "post-fattuali" nascono anche da un collegamento inventato fra due fatti che non hanno relazioni alcuna di causa ed effetto, ma come tali vengono presentati. E il collegamento, magari solo suggerito, in rete rimbalza di account in account, e diventa certo, creduto. Diventa un post-fatto. E su questo tipo di false informazione il lavoro di decostruzione degli altri utenti è fondamentale, perché la loro credibilità sembra incontestabile, sembra quasi probabile, la loro efficacia retorica è subdola. I media con reputazione di credibilità e indipendenza che devono dedicare più tempo e attenzione a smascherare i fornitori di informazioni inventate, deformate e false. BuzzFeed che sta facendo un o sforzo notevole contro i fake, ha pubblicato a fine anno una lista delle 50 peggiori notizie false chehanno girato su Facebook nel 2016. Un'operazione che sicuramente aita a fare chiarezza e a difendersi. Le varie iniziative di crowdfunding e non-profit per il giornalismo investigativo e il fact-checking dovranno essere create, sostenute, aiutate, anche con lavoro volontario. Infine, Facebook, Google, Twitter. E le varie piattaforme di blogging. La tecnologia permette loro "di individuare ed eliminare - spiega Garton Ash - le notizie diffuse in massa da robot sotto la regia della Russia di Vladimir Putin o da siti di spamming (alias "meme farms") il cui scopo è semplicemente arricchirsi con la pubblicità online".

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

Fake news, il veleno che piegò Mia Martini, scrive Domenica 14 maggio 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Ventidue anni fa, di questi giorni, moriva la cantante Mia Martini. Una morte misteriosa, al culmine di una vita privata e di un percorso artistico segnati dalla maldicenza: dicevano portasse iella, non volevano mai pronunciare il suo nome. Proviamo a leggere questa vergognosa storia con gli occhi di adesso. Mia Martini è stata prima vittima di due fake news (dicevano portasse male per un tragico incidente in cui persero la vita due musicisti della sua band e per il crollo di un telone che copriva il palco su cui doveva esibirsi) e poi di bullismo. Un bullismo feroce, consapevole e adulto: quello di certi suoi colleghi, di certi impresari, di certi giornalisti. Mia è vissuta per anni nella post verità, nel regno delle bufale e delle cattiverie. E non c’erano nemmeno gli algoritmi dei social media a rilanciarle. Di fake news e bullismo si può morire, è bene saperlo. Ieri come oggi. Sono veleni iniettati per privare la vittima di ogni difesa. In ebraico c’è un’espressione forte per indicare la maldicenza, lashon hara (malalingua). È considerata una colpa gravissima, che Dio non tollera: «Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo» (Levitico 19:16). Nelle nostre società laiche e illuminate, il reato ha sostituito il peccato. Ma il rito tribale e persecutorio della maldicenza è sempre lo stesso, amplificato oggi dal «popolo del web».

Fake news, bufale e dintorni, scrive Paolo Campanelli il 17 maggio 2017. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. L’amore per le bufale è un curioso concetto. Certo, c’è chi spaccia notizie con titoli dubbi o incompleti per far andare persone sui propri siti e guadagnare soldi, c’è lo Schierato Politico Estremo che s’inventa storielle inverosimili per favorire la propria posizione, ma molte, troppe false notizie vengono semplicemente buttate nella rete e lasciate a loro stesse. Prima di andare oltre, c’è da fare una chiara differenza: la bufala è differente dal giornale di satira; dove la prima è disinformazione, i secondi fanno ironia con situazioni chiaramente grottesche e impossibili, il Vernacoliere è lo storico giornale cartaceo, mentre Lercio è uno dei più famosi siti internet al riguardo. Il problema sorge quando le fonti delle bufale si fingono giornali di satira. Ma una cosa è dire che il politico “presunto corrotto” di turno ha un indice di gradimento del 215% nelle carceri, cosa impossibile già matematicamente oltre che improbabile dal punto di vista della necessità di fare rilevazioni, o prendere qualche istantanea da una fiction o un cartone animato e aggiungerci sotto una didascalia che la faccia sembrare presa da un momento critico nei libri di storia e aggiunto il colore, un’altra è incolpare il gruppo di immigrati di turno di aver fatto danni ad un palazzo storico aggiungendo la foto di qualche resto archeologico cittadino o dei veri e propri ruderi tanto comuni nel territorio italiano. Quella delle bufale recentemente soprannominate Fake News (seguendo la denominazione americana diventata famosa per via del costante usa da parte del loro Presidente, è una situazione che si autoalimenta, una persona che crede a varie bufale diventa più suscettibile ad altre, creando un loop di cecità dalla quale il credulone non si riesce a liberare, al grido di “metti tutto in discussione”. Tralasciando però la seconda parte “e analizza i risultati metodicamente per non farti ingannare nuovamente”. Il caso più eclatante degli ultimi tempi è stata quello di “Luciana” Boldrini: sorella di Laura, presidente della Camera dei Deputati, accusata di aver speso, solo nell’ultimo anno, ingenti somme pubbliche nell’accoglienza di immigrati oltre a ciò già fatto dal governo. In realtà Lucia Boldrini, pittrice, è morta da più di trent’anni. E il punto di origine della bufala non lascia alcun dubbio, si trattava di un attacco a base di “fango politico” in piena regola. Ricostruendo il percorso di alcune delle bufale dalla diffusione più rapida infatti, si giunge ad una cerchia di persone che le creano “professionalmente”, fin troppo spesso collegati con medie e piccole industrie e con gruppi politici; dove l’obbiettivo dei secondi è chiaramente quello di ottenere il voto di persone facilmente influenzabili anche al di fuori dei sostenitori del proprio partito, per le aziende si tratta di manovre più subdole: incrementare la vendita di prodotti “alternativi” mettendo in circolo l’informazione di come i prodotti più diffusi creino problemi all’organismo o all’ambiente, talvolta persino con informazioni parzialmente corrette. La storia degli acidi a base di limone che circolava a inizio 2013 è emblematica, in quanto prendeva in considerazione che il succo di limone è effettivamente una sostanza acida utilizzata come sgrassatore e come anticoagulante in ambito medico (acido citrico), ma nelle percentuali di purezza e quantità in cui si trova negli alimenti è comunque inferiore all’acidità dei succhi gastrici. Gli effetti più estremi di una bufala possono essere sottovalutati, vedendo come molte possano essere risolte con una semplice e rapida ricerca su un qualsiasi browser internet, ma tre sono i giganteschi esempi di una bufala fuori controllo: l’omeopatia, i vaccini e l’olio di palma. Omeopatia e vaccini richiedono conoscenze chimiche di un livello al di sopra di quello del cittadino medio, e comunque prenderebbero troppo tempo, l’olio di palma, invece, pur se segue gli stessi schemi, è un “concetto” estremamente più comprensibile. Fino a un paio di anni fa, nessuno si interessava all’olio di palma, eccetto le industrie alimentari; l’olio di frutti e semi di palma è sempre stato utilizzato in Africa e medio oriente per una moltitudine di usi, fra cui la preparazione di cibo, anche sostituendo oli e altri tipi di grassi, come ad esempio il burro, sapone, ed infine, nel caso del Napalm e del biodiesel, come componente di armi e di carburanti rispettivamente; una delle peculiarità dell’olio di palma è che ha una grande percentuale di grassi saturi, e quindi può essere confezionato in un panetto simile al burro a temperatura ambiente, che ne semplifica la lavorazione quando si ha a che fare con gli enormi quantitativi industriali. Tuttavia, con l’aumento della richiesta nel XX secolo, la coltivazione della palma ha portato a un incremento delle colture a discapito di altre produzioni, e di deforestazione. A questo si aggiunge che il consumo smodato di quest’olio ha effetti deleteri sull’organismo, identici all’eccesso di burro e di grassi. A partire dalla metà del 2014, però, cominciò a girare la notizia che “l’olio di palma fa male”; In breve tempo, espandendosi a macchia…d’olio, la notizia lasciò tutta l’Europa terrorizzata. I reparti di marketing delle grandi aziende, però, presero la palla al balzo, e scrissero chiaramente sui loro prodotti che non contenevano olio di palma, anche su quelli che non lo avevano mai utilizzato. Eccetto la Ferrero, che forte della sua posizione, e della sua cremosità, affermò fermamente che la Nutella, e tutti i suoi fratelli dolciari, avrebbero continuato a usare l’olio di palma nelle loro ricette, poiché parte essenziale nella creazione del gusto e non come araldo dei mali dovuti all’eccesivo consumo di dolci (arrivando persino a fare test di laboratorio). Questo ha indubbiamente posto il potenziale bersaglio della “bufala” di fronte ad un inatteso dilemma tra l’ansia indotta dalla pressione mediatica ed il consolidato piacere della adoratissima crema di nocciole. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. La costituzione, infatti, delinea la libertà di informazione, che è legata a doppio filo con la libertà di opinione degli utenti, e con l’obbligo per chi fornisce le informazioni di, attendibilità, cioè di dimostrare che si tratta di fatti avvenuti. Due concetti che non possono e non devono sovrapporsi l’uno all’altro, ma che non hanno alcuna limitazione se semplicemente messi in rete e spacciati per “Fatto”. Dei passi contro la disinformazione e le bufale sono stati fatti sia dai governi di vari paesi, fra cui dei timidi passi anche in Italia, che dai privati, prevalentemente dai social network, ma a questo deve corrispondere un minimo di attività da parte dell’utente, il cosiddetto “Fact Checking” (o in italiano, controllo delle fonti), particolarmente da parte di chi si è “laureato all’università della vita” e da chi si è ritirato dagli studi, conscio di una minore abilità in ambito di studio e comprensione.

Rai, Alfano denuncia autori e conduttori Gazebo: "Mi diffamano da tre anni". Lo annuncia una nota di Alternativa Popolare: "Non si è trattato di un singolo atto ma di una intera campagna durata anni a spese del contribuente", scrive il 20 maggio 2017 "La Repubblica". Angelino Alfano denuncia autori e conduttori del programma Rai Gazebo (condotto da Diego 'Zoro' Bianchi su Rai3) per diffamazione, in sede civile e penale: lo annuncia una nota di Alternativa Popolare, il partito del ministro degli Esteri. "Ieri, con i soldi degli italiani, due milioni e mezzo di euro per il 2017!!!, si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico". La nota spiega che: "Ieri, con i soldi degli italiani - due milioni e mezzo di euro per il 2017 - si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico. Il presidente di Alternativa Popolare, Angelino Alfano, annuncia, dunque, di avere dato mandato ai propri legali per denunciare autori e conduttori di Gazebo in sede civile e in sede penale". È quanto si legge in una nota. "Alla denuncia, Alfano allegherà i riferimenti diffamatori a lui rivolti durante gli ultimi tre anni di puntate televisive di Gazebo, per dimostrare ciò che sarà facile dimostrare: non si è trattato di un singolo atto diffamatorio - che sarebbe stato comunque grave - ma di una intera campagna diffamatoria durata anni a spese del contribuente e con una pervicacia diffamatoria che rende plateale il dolo, l’intenzionalità, la tenace volontà di creare un danno alla persona e all’area politica che rappresenta. Il punto è reso ancor più grave dall’enorme sproporzione che vi è, all’interno del servizio pubblico, tra lo spazio dedicato alla diffamazione da questa trasmissione e lo spazio dedicato alla informazione, in altre trasmissioni Rai, sulla medesima area politica e sulla stessa persona che la rappresenta. Infine, è stata la stessa Rai 3, pochi giorni fa, a sottolineare che tale trasmissione è un mix tra informazione e satira, con questa frase contenuta nella nota che era stata diffusa e che riportiamo qui fedelmente: ’... programma caratterizzato dal mix di satira e informazione che ne definiscono l’identità...’. Quindi, se è già stato ampiamente superato il confine della satira traducendosi in diffamazione, a maggior ragione tutto ciò nulla ha avuto a che fare con l’informazione. Ultima considerazione amara: questa diffamazione non può che essersi svolta con la azione o la dolosa e persistente omissione di una intera catena di comando che, dalla rete sino ai vertici massimi, ha consentito questi abusi. Anche costoro, nei limiti del legalmente consentito, saranno, da Alfano, chiamati a rispondere sia nel giudizio civile che nel giudizio penale. Alfano fa presente, infine, di essere giunto a questa amara determinazione dopo tre anni di paziente sopportazione di questo scempio che ha fatto il servizio pubblico, nella speranza che vi fosse un operoso ravvedimento nella diffamazione". L'annuncio della denuncia arriva a pochi giorni dall'ultima polemica: Alternativa Popolare aveva negato l'accredito a Gazebo per partecipare alla conferenza stampa sulla legge elettorale convocata nella sede del partito di Alfano.

 “Casa Renzi”, la soap opera infinita del Fatto Quotidiano, scrive Lanfranco Caminiti il 17 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Consip e la miseria del giornalismo: quando l’informazione diventa pettegolezzo e spettacolo di bassa lega. Quel che conta è la cornice narrativa e non più i fatti.

‘Ofiglie: Tu ha da riciri ‘ a verità, ggiura. Ggiura ca nun ricuordi.

‘ O pate: T’o ggiuro, nun m’arricuord nniente.

‘ O figlie: Ggiurale ‘ ncoppa a Maronna ‘ e Pumpei.

‘ O pate: ‘ O ggiuro, ncoppa a Marunnina nuost’. Nun m’arricuordo nniente.

‘ O figlie: E nun mmiettiri ‘ a mmiezzu ‘ a mamma. ‘ Nce fa’ passa’ nu guaie.

‘ O pate: No, t’o ggiuro, ‘ a mamma, no.

‘ O figlie: Statte bbuono. E accuorto.

Non è un dialogo spoilerato dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione della saga dei Savastano, insomma della fiction Gomorra. Piuttosto una verace traslazione, dal toscano del “giglio magico” al napoletano più proprio della notitia criminis (tutto ruota intorno il napoletano imprenditore Alfredo Romeo), dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione di intercettazioni intorno “casa Renzi” – secondo la sceneggiatura di Marco Lillo, casa di produzione Il Fatto Quotidiano. La quale casa di produzione pubblica (cioè spoilera, fregando il segreto delle procure) un fitto e drammatico dialogo tra figlio e padre Renzi riguardo l’incontro con uno degli imputati del caso Consip. Come se fosse, appunto, la conferma di quanto ha sempre sostenuto – un appalto “mafiosizzato”, in cui imprenditori, facilitatori, politici e commissari si tengono insieme da un patto scellerato di corruzione – e non, piuttosto, quanto è lampante, evidente. Che cioè, l’allora presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico non ne sapesse proprio una beneamata mazza, e che, pure, tutto quest’ambaradam è stato costruito “ad arte” per colpirlo. Come è possibile questo, cioè che l’una cosa venga spacciata per l’altra? È possibile per lo stesso meccanismo per il quale se un personaggio muore in una stagione di una fiction può capitare che risorga due stagioni dopo: quello che conta cioè è la “cornice narrativa”, per un verso, e la disponibilità dello spettatore, per l’altro. E anche la cosa più inverosimile, cioè che un morto resusciti, viene passata per buona. Vedete, è la stessa risposta di Marco Travaglio quando gli si fa notare che tutto è un po’ illegittimo. E lui che dice? Non è questo che conta, è la “sostanza” che conta. La “sostanza” è solo il racconto. La tensione drammatica del dialogo tra figlio e padre Renzi c’è tutta. Un figlio deve chiedere conto al padre di un certo comportamento. Di un episodio, di una cosa. È un uomo fatto, ormai, e l’altro è sulla strada del declino. È un destino, questo, che prima o poi tocca tutti. Ma non a tutti tocca prendere di petto il proprio padre, incalzarlo di domande, metterlo all’angolo perché sia limpido, almeno per una volta, per questa volta. Accenna a qualcosa d’altro – e toccando proprio un tasto che sa l’altro ha proprio a cuore, la fede – per fargli capire che non è proprio aria, che non sorvolerà come magari altre volte è accaduto. Sa che il padre indulge alla bugia, magari piccola piccola, di quelle che si dicono per il bene – è un insegnamento che i cattolici conoscono a perfezione. O forse solo all’omissione. Lo ha fatto con lui, chissà quante volte quand’era piccino, e adesso ancora, adesso che è l’uomo più potente d’Italia, lo ha fatto con un suo braccio destro, Luca Lotti. «E non farmi dire altro», questo dice Matteo Renzi a suo padre. L’altro sa di cosa stia parlando il figlio, capisce, tace. Non farmi dire altro: è una frase forte, potente. Terribile. Matteo Renzi è un maschio alfa, un capo branco. Ha fatto presto, forse anche troppo presto, a misurare la sua forza, i suoi denti, la sua zampata con i vecchi capi del suo branco – non erano di già sdentati. Li ha rottamati a cornate, a unghiate, a morsi. Per quello che era la storia del suo partito era poco più di un cucciolo – la gerontocrazia vigeva sovrana nei partiti comunisti d’occidente. Eppure, quel cucciolo – all’inizio guardato con sufficienza nella sicurezza di domarlo al primo impatto – ha mostrato che era impastato di smisurata ambizione e forza. S’era addestrato in casa, prima. Forse presto, troppo presto, aveva già preso a cornate il proprio padre. Il primo, probabilmente, a essere rottamato. Vedete, in letteratura, c’è il complesso di Edipo, l’amore del figlio verso la madre e l’ostilità verso il padre, e il complesso di Elettra, per spiegarlo dalla parte delle bambine, e il complesso di Giocasta, l’amore morboso di una madre per il figlio. Ma non c’è letteratura, e nominazione, per un complesso del padre verso il figlio. Quell’uomo è tornato adesso come un incubo. E anche gli altri – quelli che ha rottamato politicamente – sono tornati come un incubo. Tutto troppo presto: nei racconti tutto questo accade quando il personaggio è ormai in agonia, negli ultimi giorni di vita, in cui rivede a ritroso la propria storia e tutti quelli che ha “fatto fuori” per il potere, quel dannato potere, tornano come fantasmi malmostosi. Chi sta accelerando il corso degli eventi narrativi? Qual è la manina che scrive? Che di soap opera si tratti è ormai evidente. Gli ingredienti ci sono tutti. Il malloppo, anzitutto, ovvero: l’avidità. E poi, il militare infedele, le carte false, il giudice che non decide su fatti e reati ma se gli atteggiamenti di uomini e donne siano o meno integerrimi, le gazzette ciarliere, gli azzeccagarbugli, la famiglia, quella naturale e quella allargata della Massoneria, e soprattutto: isso, issa e ‘ o malamente. Dove isso e issa è abbastanza facile identificarli, in Renzi e in Maria Teresa Boschi. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, certo, a parte l’appartenere entrambi i personaggi principali, le dramatis personae, allo stesso “pacchetto di mischia”. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, tranne il fatto che siano due giornalisti – de Bortoli e Lillo – le “gole profonde”. Scrivono e trascrivono, orecchiano e intercettano, alludono e illudono. A un certo punto, combaciano pure. Nella tempistica, intendo. Escono allo scoperto.

Sono loro, i due scrivani, ‘ o malamente? Due persone, in carne, ossa e testata, per un solo personaggio? Qualcosa si va sfaldando nella storia. Il militare infedele – che avrebbe dovuto “sacrificarsi” – va in giro a raccontare come sono andate davvero le cose. A chi rispondeva. Gli era stato ordinato di fare così, non è farina del suo sacco. Quasi, dice, ho solo obbedito agli ordini. E addita il responsabile. È stato il magistrato che indagava a voler lasciare intendere che i servizi segreti si stessero interessando della cosa – non c’è proprio traccia di questa storia, ma un faldone che racconta di come probabilmente i servizi segreti si sarebbero potuti interessare di questa storia. E le trascrizioni un po’ abborracciate, in cui l’uno veniva scambiato con l’altro, e quello che aveva detto l’uno veniva messo in bocca all’altro, beh, sì, quelle forse sono state un mio errore – dice l’infedele – però, dovete capirmi, ero sotto stress, quello – il giudice – voleva dei risultati e io non avevo in mano niente. Lo chiamava di notte, mentre compulsava ancora le sudate carte, il giudice Woodcock al capitano Scarfato per chiedergli conto di cosa fosse riuscito a concludere quel giorno? O lo chiamava all’alba, mentre iniziava a compulsare le sudate carte, per incitarlo a concludere finalmente qualcosa quel giorno? Che qua, di risultati, se ne vedevano pochini. Ah, che stress per il povero capitano. A un certo punto deve aver capito che sarà solo lui a pagare, a finire a dirigere il traffico a Forlimpopoli, e non ci sta. Tutto l’impianto narrativo rischia di impazzire come la maionese. E qua ‘ o malamente iesce ‘ a fora.

Banca Etruria, Renzi contro De Bortoli: "È ossessionato da me". Renzi in campo per blindare la Boschi: "Che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". E attacca De Bortoli: "Ha un'ossessione per me", scrive Sergio Rame, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". "Ferruccio de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent'anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina? Chi ci crede è bravo". In una intervista a tutto campo al Foglio, Matteo Renzi va all'attacco dopo le indiscrezioni sul salvataggio di Banca Etruria pubblicate dall'ex direttore del Corriere della Sera sul nuovo libro Poteri forti (o quasi). "De Bortoli ha una ossessione personale per me che stupisce anche i suoi amici". "Quando vado a Milano, mi chiedono: ma che gli hai fatto a Ferruccio? Boh. Non lo so". Nell'intervista al Foglio l'ex premier non fa sconti a De Bortoli: "Forse perché non mi conosce. Forse perché dà a me la colpa perché non ha avuto i voti per entrare nel Cda della Rai e lo capisco: essere bocciato da una commissione parlamentare non è piacevole. Ma può succedere, non mi pare la fine del mondo". Per Renzi "che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". "Praticamente tutte le banche d'Italia hanno visto il dossier Etruria in quella fase. Come pure il dossier Ferrara, il dossier Chieti, il dossier Banca Marche. Lo hanno visto tutti e nessuno ha fatto niente", continua Renzi. Che, poi, aggiunge: "Ferruccio de Bortoli ha detto falsità su Marco Carrai. Ha detto falsità sulla vicenda dell'albergo in cui ero con la mia famiglia. Ha detto falsità sui miei rapporti con la massoneria. Non so chi sia la sua fonte e non mi interessa. So che è ossessionato da me. Ma io non lo sono da lui. È stato un giornalista di lungo corso, gli faccio i miei auguri per il futuro e spero che il suo libro venda tanto". Renzi è convinto che, quanto prima, "si chiariranno le responsabilità a vari livelli". "E - avverte - se c'è un motivo per cui sono contento che la legislatura vada avanti fino ad aprile 2018 è che avremo molto tempo per studiare i comportamenti di tutte le istituzioni competenti. Cioè, competenti per modo di dire. Non vedo l'ora che la commissione d'Inchiesta inizi a lavorare. Come spiega sempre il professor Fortis, vostro collaboratore, Banca Etruria rappresenta meno del 2 per cento delle perdite delle banche nel periodo 2011-2016. Boschi senior è stato vicepresidente non esecutivo per otto mesi e poi noi lo abbiamo commissariato: mi pare che non sia stato neanche rinviato a giudizio. Se vogliamo parlare delle banche, parliamone. Ma sul serio".

Sulla propria pagina Facebook, De Bortoli replica ricordando all'ex premier che "avendo detto due volte no alla proposta di fare il presidente, non era tra le mie ambizioni essere eletto nel cda della Rai". E incalza: "Visto quello che sta accadendo, ringrazio di cuore per non avermi votato. Non avrei potuto comunque accettare avendo firmato un patto di non concorrenza". Poi continua: "Io non ho mai scritto che è un massone, mi sono solo limitato a porre l'interrogativo sul ruolo della massoneria in alcune vicende politiche e bancarie. Ruolo emerso, per esempio, nel caso di Banca Etruria. Ho commesso degli errori, certo". Nel libro ne ammette diversi in oltre quarant'anni. Come quello, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sul caso JpMorgan-Mps, della data di un sms solidale inviato da Marco Carrai a Fabrizio Viola, "licenziato" poi dal governo. "Non so quali falsità siano state scritte sul soggiorno a Forte dei Marmi nell'estate del 2014 - continua - mi aspetterei invece da Renzi che chieda scusa al collega del Corriere che, in quella occasione, stava facendo il suo lavoro e alloggiava nell'hotel. L'inviato venne minacciato dalla scorta che gli intimò di andarsene. E gli faccio i miei migliori auguri per il suo libro che uscirà a breve".

Giornalismo del controregime, scrive Piero Sansonetti il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Giornalismo di contro- regime Cioè, giornalismo di regime. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa – ed ennesima – richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e – alcuni – con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del “Fatto Quotidiano” – che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione… – ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi.

Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica.

Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake.

Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato.

De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake.

La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico – per la precisione giudaico-massonico, anzi: demo-pluto-giudaicomassonico – fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua “ipotesi di accusa” alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: «Lei che ha svelato la richiesta della ministra…». Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti- regime. O di contro- regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato.

La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava “disinformazia” ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà – se non addirittura di verità – nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone…

Ferruccio, per favore, se hai le prove mostrale, scrive Piero Sansonetti il 12 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Boschi-Banca Etruria si sta sgonfiando. Finirà nel dimenticatoio come il caso-Guidi, il caso-Lupi, il caso Madia? Il caso-Boschi si ridimensiona. Molti giornali di destra hanno mollato la presa dopo la parziale marcia indietro di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato di non aver mai sostenuto che la Boschi fece pressioni indebite su Unicredit per salvare Banca Etruria. Eppure nel suo libro c’è scritto che «Boschi chiese a Ghizzoni (amministratore delegato di Unicredit) di valutare l’acquisto di Banca Etruria». Resta in campo, al momento, solo Il Fatto Quotidiano che ieri si è lanciato in soccorso di De Bortoli sostenendo di avere le prove della colpevolezza della Boschi. Lo ha scritto enorme, in prima pagina, con l’inchiostro rosso: «Boschi mente: ecco le prove». E ha pubblicato un servizio d Giorgio Meletti nel quale si parla di una riunione a casa del papà della Boschi, dirigente di Banca Etruria, con gli amministratori della stessa Banca Etruria e di alcune banche del Nord. A questa riunione – dice Meletti – che si tenne nel marzo del 2014, partecipò anche la Boschi. Il servizio di Meletti è fatto molto bene e sembra assai informato, anche se naturalmente occorreranno dei riscontri. E tuttavia resta una domanda: ma Meletti non accenna nemmeno all’ipotesi che a questa riunione, o ad altre riunioni, partecipò Ghizzoni. E allora perché mai questo fatto dovrebbe provare che De Bortoli ha ragione? Ieri de Bortoli ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Ha detto che la vicenda di Banca Etruria è tutta una vicenda di massoneria. Un paio d’anni fa aveva detto la stessa cosa del governo Renzi. Né allora né adesso, però, ha citato elementi di prova, o almeno di indizio. Più che altro è sembrata una sua sensazione. Se anche le accuse alla Boschi di aver tentato di spingere Ghizzoni a comprare la Banca dove lavorava il papà dovessero basarsi solo su una sua impressione, non sarebbe una buona cosa. Questa vicenda può concludersi in tre modi. O De Bortoli si decide a portare le prove della sua affermazione, e allora il governo Gentiloni va a gambe all’aria. O De Bortoli queste prove non le ha, e davvero ha scritto il libro solo basandosi su voci raccolte in ambienti vicini a Unicredit, e allora ci troveremmo di fronte a un capitolo nerissimo per il giornalismo italiano. Oppure può succedere che i due contendenti capiscono che è meglio non esagerare nel duello, anche perché l’uno e l’altra hanno dietro le spalle forze abbastanza potenti e capaci di far male, e in questo caso anche “Il Fatto” abbasserà i toni e tutta la storia passerà in cavalleria. Come è successo col caso-Guidi, col caso-Lupi, col caso Madia. E’ sicuramente la terza l’ipotesi più probabile. E non è una bella cosa, né per il giornalismo né per la politica.

Quelle cene con Ligresti per tornare in via Solferino. La vacanza dell'ex direttore nel resort in Sardegna, scrive Domenica 14/05/2017, "Il Giornale". Le cronache raccontano di aragoste a quintali per gli ospiti illustri di Salvatore Ligresti al Tanka Village di Villasimius, in Sardegna. Vecchie storie, un'altra epoca, uno splendore e una leggerezza che ormai non ci sono più. Alla corte dell'ingegnere, quando i tempi del crack Fonsai erano ancora molto lontani, accorrevano in tanti, per lo più personalità del mondo politico e istituzionale, ministri, generali, prefetti, sottosegretari, direttori. Andare al Tanka era un po' lavorare, perché lì si tessevano le relazioni pubbliche che contavano e che portavano spesso alle poltrone importanti. Relazioni rigorosamente trasversali, bipartisan si direbbe oggi. Il Tanka, insomma, veniva considerato un po' una prosecuzione dell'ufficio. Anche se molti scroccavano pure la vacanza, visto che pochi alla fine pagavano il conto. Qualcuno, quando poi se n'è parlato sui giornali, ha persino negato di esserci stato. Non si sa mai. Tra i tanti che negli anni sono passati per il bellissimo villaggio sardo un tempo regno della famiglia Ligresti c'era anche l'ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Correva l'estate del 2008. All'epoca non guidava più il quotidiano di via Solferino, che aveva già diretto per sei anni, dal 1997 al 2003, ma era già in trattativa per tornarci e si muoveva in quella direzione. C'è chi lo ricorda, infatti, ospite di Ligresti, proprio lì, nel resort di Villasimius, dove l'ingegnere amava organizzare cene speciali per i suoi ospiti di riguardo. Quell'estate il giornalista trascorse qualche giorno al Tanka e tutte le sere sedeva al tavolo di Ligresti, in quel periodo ancora saldamente al vertice di Fonsai, azionista di peso del patto di sindacato dell'editore del Corriere della Sera. Per poter tornare al timone di via Solferino, insomma, era quello il posto giusto dove mangiare aragoste in compagnia e dove valeva la pena trascorrere qualche giorno di vacanza. Di lì a qualche mese, infatti, de Bortoli tornò al comando del giornale milanese, dove è poi rimasto fino al 2015. E pensare che in quei giorni d'estate furono in molti a stupirsi di vederlo al Tanka, tra i clientes di Ligresti. C'è anche chi lo ricorda bersaglio di amichevoli sfottò sull'argomento da parte di chi sedeva con lui al tavolo dell'ingegnere e che sapeva bene perché fosse lì. Pare che lui non gradisse le prese in giro sull'evidente motivo della sua presenza in quel luogo. Era tanti anni fa. Un'altra epoca, appunto.

Il libro di de Bortoli e la memoria corta sul "Corriere" indipendente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ho letto Poteri forti (o quasi), il libro di Ferruccio de Bortoli già direttore del Corriere della Sera e del Sole24Ore - edito da «La nave di Teseo», di cui si parla in questi giorni per il clamore suscitato dal capitolo che svela l'interessamento della ministra Boschi presso Unicredit per agevolare il salvataggio della banca di papà, la Etruria. «Memorie di oltre quarant'anni di giornalismo», recita il sottotitolo di copertina. E questo basta per mettere l'autore al riparo da critiche su eventuali errori ed omissioni nel racconto che corre fluido come si addice alla penna di un grande giornalista e direttore. Perché di «memoria» ognuno ha la sua e ha il diritto di centellinarla a suo piacimento, che sia per amnesia o per calcolo. Non so perché Ferruccio de Bortoli abbia deciso di raccontarsi a soli 64 anni. Di solito l'autobiografia salvo casi di conclamato narcisismo o ragioni economiche arriva a chiudere una carriera, non a rilanciarla. Svelare retroscena, dare giudizi su uomini viventi e potenti si presta a ritorsioni pericolose. Conoscendo la cautela dell'uomo, grande e cauto navigatore, mi vien quindi da pensare che de Bortoli consideri conclusa la sua brillante carriera, almeno nel giornalismo attivo e di vertice. Fatti suoi, ovviamente. Ma torniamo al libro. De Bortoli vuole farci credere di essere stato per dodici anni (in due tranche, 1997-2003, 2009-2015) a capo di un giornale tempio della libertà e sentinella di democrazia, arbitro imparziale delle partite alcune violente e drammatiche - che si giocavano nel Paese. È la vecchia tesi, retorica e falsa, della sacralità del Corriere della Sera, giornale in cui ho lavorato per diversi anni e che quindi ho ben conosciuto dall'interno. Il Corriere è stato il primo, e per lungo tempo unico, grande e ricco giornale nazionale e per questo ha allevato e ospitato le migliori firme del giornalismo e della cultura per oltre un secolo. Fin dalla nascita, il vestito è stato a libera scelta da qui la sua apparente indipendenza - del direttore e dei giornalisti, ma il cappello è sempre stato attaccato dove padrone voleva: monarchico durante la monarchia, fascista sotto il fascismo, antifascista alla caduta del regime, piduista all'epoca della P2, filo-Fiat sotto il regime di Agnelli, benevolo, negli anni più recenti governati da Bazoli, con il sistema finanziario e bancario vincente. Quest'ultimo è un club di miliardari i cui membri, come tutti i padroni, sono conservatori, ma hanno la necessità di apparire progressisti per non avere rogne nel loro espandersi nell'ombra (in Francia la chiamano «sinistra al caviale»). Tutto ciò non significa che de Bortoli non sia stato un direttore libero. Lui, nato in altro mondo (la sua era una solida e umile famiglia), sognava e studiava fin da giovane racconta chi l'ha frequentato in quegli anni di entrare in quell'ambiente dorato ed esclusivo. Sulla plancia del giornale degli Agnelli prima e dei banchieri poi è stato quindi perfettamente a suo agio. Più che di indipendenza parlerei quindi di coerenza.

Non è poca cosa, la coerenza, cioè la fedeltà alle proprie idee. Ma perché non dirlo? Perché evitare, in una biografia di oltre duecento pagine, di scrivere due righe sul suo essere stato un giovane e convinto comunista, sia pur di quelli che, essendo intelligenti, avevano capito che più che le piazze era meglio frequentare i salotti, che le parole potevano essere più utili e potenti delle spranghe alle quali, infatti, l'uomo, a differenza di tanti compagni, non si è mai neppure avvicinato. Nel libro la fede politica di de Bortoli la si deduce solo dal fatto che le offerte di lavoro che narra di aver ricevuto (presidente Rai, sindaco di Milano, direttore del Corriere) gli arrivavano sempre da politici o banchieri di sinistra (una, in verità, da Letizia Moratti, ma era appunto per dirigere il Tg3). Essere di sinistra è infatti la non misteriosa precondizione per dirigere il Corriere della Sera, altrimenti non si spiega come a giornalisti altrettanto bravi (penso a Montanelli prima di lui e a Vittorio Feltri suo quasi coetaneo) sia stata negata tale possibilità. Anche l'attuale direttore, Luciano Fontana, non a caso professionalmente e culturalmente nasce e cresce all'Unità. De Bortoli (con Paolo Mieli, con il quale si è avvicendato più volte al comando) è stato la faccia presentabile dell'antiberlusconismo militante, la lunga mano della sinistra politica e affaristica (che nel libro, giustamente, si vanta di aver frequentato con reciproca stima e soddisfazione) per manipolare l'opinione pubblica in punta di regole («la notizia è notizia», ama ripetere il direttore, quasi a scusarsi). Noi tutti sappiamo che cosa de Bortoli che oggi ci rinfresca la memoria anche con aneddoti curiosi - è stato libero di scrivere e far scrivere, non cosa non ha pubblicato (potere questo più importante del primo). E, forse, non lo sa neppure lui, perché in un giornale l'acqua inevitabilmente scorre dove il direttore (e il padrone) traccia il solco. Escludo in modo categorico che de Bortoli sia mai stato servo di qualcuno, ma socio ho il sospetto di sì. Forse pure dei magistrati che davano la caccia a Silvio Berlusconi. Nel libro c'è un lungo paragrafo di elogi a Ilda Boccassini («ne ammiro il coraggio, per fortuna il Paese ha toghe come lei, coraggiosa e preparata»). Dice di averla incontrata tante volte, la chiama per nome, «Ilda», incurante di poter così suscitare anche solo un sospetto sull'origine di tanta abbondanza di informazione che il Corriere ha sfornato durante il caso Ruby («una inchiesta per la quale è stata ingiustamente attaccata», scrive senza aggiungere che l'imputato, Berlusconi, è stato assolto per non aver commesso il fatto e che, quindi, non fu una grande inchiesta). Di Berlusconi scrive con distacco: «Il Cavaliere non si arrese mai all'idea che un giornale liberale non stesse per definizione dalla sua parte». Per la verità il Corriere della Sera è stato «per definizione» contro Berlusconi, il cui dubbio è lo stesso che negli ultimi cinquant'anni hanno avuto in tanti: come ha fatto un giornale che si dice liberale a farsi soggiogare dal Pci, dal sindacato interno (un vero Soviet con diritto di censura), fino a strizzare l'occhio alla non pacifica rivoluzione sessantottina? Cosa c'era, nel 1994, di liberale nello sperare che Occhetto prendesse il potere a scapito di un partito davvero liberale come Forza Italia (io c'ero, dietro le quinte, e l'apparente equidistanza era tifo vero)? Cosa c'è stato di liberale nel fare un endorsement, alla vigilia del voto del 2006, a firma del direttore (Paolo Mieli, prima volta nella storia di quel giornale) a favore di un governo Prodi-Bertinotti? Cosa c'è stato di liberale nell'avere un pregiudizio profondo nei confronti non solo di un liberale come Silvio Berlusconi, ma di chiunque emergesse in qualsiasi campo (arte, letteratura, musica, perfino lo sport) e non fosse dichiaratamente di sinistra? La risposta è semplice: Il Corriere, da un secolo a questa parte, non è un foglio liberale. È un camaleonte che ha ingannato, e inganna tuttora, i suoi non pochi lettori liberali (e tutti i politici liberali che bramano di apparire sulle sue colonne). Il Corriere di de Bortoli è stato, lo ripeto, «per definizione» e con un abile gioco di doppi pesi e doppie misure, contro tutto ciò che non era omologato al clan. Tra i suoi editori nel consiglio di amministrazione Rcs - De Bortoli ne ha avuto uno mal visto dai salotti della sinistra e simpatico alla destra: Salvatore Ligresti. E, guarda caso, è l'unico che nelle sue memorie stronca anche con un certo cattivo gusto: «Mi sono trovato a disagio a sedermi a tavola con la sua famiglia». Ora, è vero che Ligresti era un personaggio atipico, che è fallito malamente. Ma sono certo che la sua coscienza non è meno linda di quella di diversi suoi soci apparentemente «per bene» tanto cari al direttore. Certo, è facile vantarsi, con un eccesso di civetteria, dell'amicizia di Mario Draghi: «Una sera camminavo per Parigi, mi suona il telefonino: ciao Ferruccio, sono Mario...». Facile liquidare l'appoggio entusiasta dato dal Corriere al disastroso governo Monti dando un paio di buffetti al Professore oggi in disuso. Facile svelare solo oggi l'aggressione subita da un cronista del Corriere da parte di Matteo Renzi, taciuta quando l'aggressore era potente primo ministro. Insomma, è facile continuare la narrazione della favola di un Corriere della Sera vergine e nelle mani di coraggiosi paladini senza macchia con fonti disinteressate. Facile e pure legittimo. Ma, almeno io, non ci casco. 

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

«Ha vinto il M5S, dateci il reddito di cittadinanza». L'assalto ai Caf del barese. Succede nel piccolo comune di Giovinazzo. Cittadini in fila per ottenere i moduli, centralini tempestati dalle telefonate al servizio di Comune e Regione, scrive l'8 marzo 2018 “L’Espresso. "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per Reddito di Cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone fra ieri e oggi si sono presentate ai Caf locali e, nel capoluogo, anche a Porta Futuro, il centro servizi per l'occupazione. Gli episodi, già resi noti dal sindaco di Giovinazzo (Bari), Tommaso Depalma, che ha parlato di file davanti ai Caf della città, si stanno verificando anche in queste ore. A Porta futuro a Bari, racconta il responsabile, Franco Lacarra, "sono una cinquantina le persone che tra ieri e oggi hanno chiesto i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza, si tratta soprattutto di giovani". "A noi sindaci - afferma Depalma - piacerebbe poter comunicare ai cittadini che il problema della disoccupazione è risolto e che per tutti quelli che non hanno lavoro c'è un Reddito di Cittadinanza, ma credo che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali". «Ovviamente - aggiunge Franco Lacarra   - non si tratta di folle oceaniche, ma comunque è certo che molta gente è alla ricerca dei moduli per ottenere il reddito di cittadinanza e ci chiede informazioni». «Sono soprattutto i giovani - aggiunge - che ci chiedono informazioni, naturalmente anche i Caf potranno dare una descrizione su quello che sta accadendo».

"Ha vinto M5S, dateci i moduli per il reddito di cittadinanza". Numerose richieste ai Caf da Bari e Palermo. A Giovinazzo e nel capoluogo pugliese decine di richieste. A Palermo un Caf costretto a mettere un avviso all'esterno. Ma i Cinque Stelle della Puglia attaccano: "Una mistificazione", scrive l'8 marzo 2018 "La Repubblica". "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per il reddito di cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone dopo l'esito del voto si sono presentate ai Caf locali. A Bari e a Giovinazzo - ma anche a Palermo dove gira anche un falso formulario - decine di cittadini hanno chiesto informazioni sulla modulistica per accedere al reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle. Nel job center di Porta Futuro a Bari, per esempio, in tre giorni sono pervenute da persone di età compresa tra i 30 e i 45 anni una cinquantina di richieste di accesso alla modulistica. "A chi si è affacciato chiedendo se fossero già disponibili i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza, abbiamo dato una risposta tecnica, dicendo che non c'è al momento nessun provvedimento che codifica questo strumento", ha chiarito Giovanni Mezzina, responsabile dei servizi di orientamento di Porta Futuro Bari. Anche a Palermo le richieste iniziano ad arrivare. Una decina di persone si sono presentate al Caf Asia di Piazza Marina. E al patronato dell'Ente nazionale di assistenza sociale ai cittadini (Enasc), per frenare il via vai di chi chiedeva informazione hanno affisso un foglio con la scritta in italiano e in arabo: "In questo Caf non si fanno pratiche per il reddito di cittadinanza". In Puglia, dal Comune di Giovinazzo, l'assessore alle Politiche Sociali, Michele Sollecito, racconta che le domande su questo specifico provvedimento si aggiungono, ma in termini di curiosità, a quelle che da tempo i cittadini pongono per accedere al Reddito di dignità (Red) della Regione Puglia e al Reddito di Inclusione (Rei) del Governo. "Non c'è nessuna nuova frenesia per il reddito di cittadinanza proposto dai 5Stelle, ma curiosità sì. Ma nessun pugno sul tavolo o nessuna rivendicazione animata. Perché Giovinazzo non è una città di indolenti parassiti". Dal canto suo il sindaco di Giovinazzo, Tommaso Depalma (lista civica), ritiene "che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali. La vittoria del M5S c'è stata, netta e inconfutabile, ma per il reddito di cittadinanza la vedo dura". Ma in Cinque Stella della Puglia parlano di mistificazione della realtà. E raccontano che anche il direttore di Porta Futuro, Franco Lacarra, "che per dovere di cronaca è il fratello del neoeletto deputato renziano Marco Lacarra del Pd ha confermato in maniera molto schietta che non vi era stato alcun assalto". Il comunicato di Porta Futuro, però, non smentisce: "Alcuni cittadini sono passati dal nostro sportello per chiederci informazioni e approfondimenti su questo tema. Vogliamo chiarire che tutto ciò è normale nel nostro Paese: succede ogni volta che vengono divulgate notizie rilevanti per le politiche del lavoro e per la vita dei cittadini, come è avvenuto per altre proposte legislative promosse negli ultimi mesi".

La Fake news contro il Movimento Cinque Stelle delle richieste di massa di reddito di cittadinanza, scrive il 9 marzo 2018 "Positano News". Da questa mattina in Puglia politici e giornali hanno lanciato una nuova bufala: FIUMI di persone avrebbero preso d’assalto alcuni CAF e centri per l’impiego per richiedere il reddito di cittadinanza. A lanciare l’allarme per primo il sindaco di Giovinazzo (BA) (che ha appoggiato il PD in campagna elettorale) che, commentando un articolo di una testata locale, ha parlato di “file davanti ai Caf della città”. La notizia è stata poi ripresa da “La Repubblica” che ha raccontato di “RAFFICHE DI RICHIESTE” anche per “Porta Futuro” il centro per l’impiego di Bari. UNA FOLLIA GENERALE CHE CI E’ APPARSA QUANTOMENO “SOSPETTA” ad appena 4 giorni dal voto, con un Governo nemmeno insediatosi in attesa che si sblocchi la situazione tra le varie forze politiche e dunque nessuna possibilità di legiferare. ABBIAMO DUNQUE DECISO DI ANDARE CONTROLLARE LA SITUAZIONE IN PRIMA PERSONA. Dopo aver girato alcuni CAF senza scorgere neanche lontani tentativi di “assalti”, abbiamo deciso di recarci direttamente a “Porta futuro”. Ingresso vuoto. Corridoi vuoti. (Dell’assalto e delle file interminabili mattutine, neanche un superstite). All’ingresso alcuni addetti ci hanno subito spiegato che “in realtà noi non abbiamo visto quasi nessuno, questa notizia ha lasciato di stucco anche noi”. Ci hanno dunque fatto parlare con il direttore Franco Lacarra (per dovere di cronaca sottolineiamo essere il fratello del neoeletto deputato renziano MARCO LACARRA (PD)) che in maniera molto schietta e onesta ci ha confermato che rispetto agli articoli letti non vi era stato alcun “assalto” ma che è solo capitato, come gli capita sempre per qualsiasi provvedimento compresi quelli regionali, che alcune persone NEGLI ULTIMI 3 GIORNI si siano recate a chiedere informazioni generiche sul reddito di cittadinanza. Abbiamo dunque chiesto al direttore di riportare la realtà dei fatti specificando di come si sia trattato di un fenomeno assolutamente normale e quotidiano per loro. Il direttore, d’accordo con noi, ha dunque richiesto al suo ufficio comunicazione di scrivere una smentita sul canale Facebook di Porta Futuro. Non sappiamo bene come sia potuto accadere ma solo pochi minuti dopo lo stesso direttore è stato contattato telefonicamente, davanti a noi, dallo staff del sindaco renziano ANTONIO DECARO (PD). Abbiamo ascoltato dunque il direttore costretto a “giustificarsi” spiegando che con questa smentita avrebbe voluto solo raccontare la verità dei fatti (a suo parere, testualmente, “una cazzata”). Nel frattempo, mentre eravamo ancora in loco, sono arrivati altri giornalisti del TG RAI, di Repubblica e pare che il direttore sia stato contattato anche dalla CNN. Tutto quanto vi abbiamo raccontato sopra è cronaca, ora traete voi le vostre conclusioni. Dal canto nostro, vorremmo solo dirvi una cosa: è evidente che la lezione di queste elezioni politiche a qualcuno non sia bastata. A questo punto vi preghiamo: se davvero avete così poca considerazione per l’intelligenza dei cittadini italiani continuate pure a diffondere falsi “scandali” e fake news, vorrà dire che alle prossime consultazioni elettorali il Movimento 5 Stelle volerà, da solo, oltre il 41%. A riveder le stelle…

Putin è davvero colpevole? Qualcosa proprio non torna nel caso Skripal, scrive il 27 marzo 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Siamo proprio sicuri che ad avvelenare l’ex spia Skripal e sua figlia siano stati i russi? Permettetemi di avanzare più di un dubbio esaminando con attenzione le notizie uscite finora. I punti che non tornano sono questi:

Primo. Qual è il movente? Quale l’interesse per Putin? Mi spiego: tutti riconoscono al presidente russo grande sagacia nel calibrare le sue mosse. Eccelle sia nella strategia che nella tattica. Da tempo sappiamo che gli Stati Uniti (i quali trainano l’Europa) sono impegnati in un’operazione di logoramento del Cremlino volto a ottenerne un rialliniamento su posizioni filoamericane, che potrà essere ottenuto con certezza solo attraverso un cambio di regime ovvero con l’uscita di scena di Putin. Siccome una rivolta colorata è inattuabile, lo scenario è quello di rendere insostenibile il peso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale, inducendo le élite russe a ribellarsi al presidente appena rieletto. In questo contesto, ogni pretesto viene sfruttato per innervosire o indebolire Putin. Conoscendo l’obiettivo finale, bisogna chiedersi: ma che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del pollonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso. Diplomaticamente sarebbe stato un suicidio, perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata, fino all’ultimo atto, l’espulsione coordinata dei diplomatici, a cui l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata, benchè avrebbe potuto – e proceduralmente dovuto – astenersi. No, Putin non è leader da commettere questi errori.

E veniamo al secondo punto, che riguarda il rumore mediatico e il furore delle accuse.  Non dimentichiamolo, la comunicazione è uno strumento fondamentale nell’ambito delle guerre asimmetriche (tra l’altro è il tema che tratto nel mio ultimo saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”). Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”.

Se analizziamo attentamente le dichiarazioni del governo britannico, notiamo come la stessa premier May continui a dire che “è altamente probabile” che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi. E nel comunicato congiunto diffuso ieri da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma sviluppato non significa prodotto in Russia. Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come fabbricato – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa, che pertanto andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa. Non come un verdetto. Anche la semantica, in frammenti ad alta emotività come questi, è indicatrice e dovrebbe allertare la stampa, che invece non mostra esitazioni. Eppure di ragioni per mostrarsi più cauti ce ne sono molte. Vogliamo ricordare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Ma esempi in tempi recenti non mancano.  L’isteria accusatoria di queste ore ricorda quella delle “prove incontrovertibili” del 2013, secondo cui Assad aveva sterminato col gas 1300 civili, fa cui molti bambini. Scoprimmo in seguito che a usare il gas furono i ribelli per provocare un intervento nella Nato. O, sempre in Siria, nel 2107 quando Amnesty e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un formo crematorio in cui venivano bruciati i ribelli, rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano. Sia chiaro: nessuno sa chi abbia attentato alla vita di Skipal e di sua figlia e nessuna ipotesi può essere esclusa. Ma la propaganda è davvero assordante e i precedenti, nonché l’esperienza, suggeriscono maggior cautela. E un sano scetticismo: perché Putin sarà, per la grande stampa, “cattivo” ma di certo stupido non è.

Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno. 

Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi  - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".

Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.

Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee. 

Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa?  Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo. 

Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.

Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.

Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.

Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la 'Grande marcia del ritorno' che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi. 

L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas,Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".

L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".

Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con ‎in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, ‎avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni ‎israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ‎ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che ‎definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. ‎Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): ‎centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri ‎o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola ‎giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. ‎Gli ospedali già ‎in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi ‎mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché ‎quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al ‎torace. ‎«I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, ‎lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia ‎emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci ‎diceva Aziz Kahlout, un giornalista.

Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor ‎Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse ‎spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le ‎autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia ‎del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le ‎comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare ‎porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza ‎rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di ‎tiratori scelti. ‎

Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ‎ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia ‎del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni ‎politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche ‎Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto ‎nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, ‎famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. ‎Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle ‎torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato ‎lanci di pietre e di molotov, ha parlato di ‎«manifestazioni di massa volte a coprire ‎attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ‎ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti ‎sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima ‎di essere uccisi da una cannonata.‎

La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è ‎coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ‎ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea ‎si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel ‎nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo ‎il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, ‎intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando ‎Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la ‎catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. ‎Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non ‎sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al ‎Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla ‎marcia e che si unirà alle prossime proteste ‎«perché la vita è difficile a Gaza e non ‎abbiamo nulla da perdere‎». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta ‎‎«porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza‎».‎

Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di ‎terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri ‎all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al ‎confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E ‎il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.‎

Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.

Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.

ALL’1% GLI UTILI IDIOTI DELL’UCCIDENTE. La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa, scrive Fulvio Grimaldi sul suo blogspot, riportato da Davide il 10 marzo 2018 su ComeDonChisciotte.  

Quelli “del popolo”. Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si può!

Di Maio tra omaggi a San Gennaro e Mattarella e rifiuto degli F35. Sebbene questo unanimismo di fondo in fatto di geopolitica tra gli ambiguoni o catafratti della sinistra ausiliaria del sistema e del sistema i militanti in divisa, possa aver confuso le idee a molti sulla partita che si gioca in Medioriente, o nei trasferimenti via Ong di popolazioni, o a proposito dello “Zar Putin” e dei suoi maneggi per non far vincere Hillary, basta a volte una piccola crepa e la luce passa e illumina quanto si voleva restasse al buio. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto su Di Maio, ma credo che siano davvero pochini gli italiani che condividono l’idea che spendere 80 milioni al giorno per muovere guerre a chi non si sogna di disturbarci e che quindi non abbiano apprezzato il voto 5 Stelle contro ogni missione militare e contro l’acquisto degli F35. Questo al netto delle promesse di “normalizzazione” profferite ora a tutto spiano dal leader 5Stelle e che lo fanno apparire come il pifferaio di Hamelin le cui liete marcette si trascinano dietro tutti i ratti della prima e seconda repubblica. Pensano di salire sul carro del vincitore, ma nella storia il pifferaio i ratti li porta a precipitare nell’abisso. Di Maio se lo ricorda?   Non vorremmo che si finisse come la fiaba: che poi quelli trascinati via sono i bambini.

La Siria si riprende anche Ghouta: pacifisti e diritto umanisti a stracciarsi le vesti. Prendiamo la Siria, insieme a tutte le altre guerre, una dopo l’altra, che con ripetitività parossistica ci vendono come difesa dei diritti umani di un popolo massacrato dal proprio governante. Ci hanno seppellito in un bunker di menzogne: i tondini li forniscono le Ong tipo Amnesty International, HRW, MSF, la malta che li tiene insieme sono i media. Date un’occhiata a questo osceno appello di Amnesty perché si costringa Damasco a levare l’assedio alla Ghouta. Ancora una volta questo sempre più lurido arnese del bellicismo imperiale si fa riconoscere. Non una parola sul golem terrorista che da 7 anni sbrana la Siria e tiene ostaggi, ogni tanto massacrandoli, gli abitanti delle zone occupate. Mille parole perfide e lacrimose su Aleppo in corso di liberazione, non una parola su Raqqa polverizzata dai bombardamenti Usa, con tutti i suoi abitanti, mentre elicotteri prelevavano quelli dell’Isis per reimpiegarli, insieme agli ascari curdi, in altri crimini contro il popolo siriano.

Bimbi a Damasco. Ma poi nel calcestruzzo si apre una crepa. Ed è la pigrizia degli stereotipi. C’è sempre un dittatore che bombarda il proprio popolo, una massa sterminata di bambini uccisi, come se, per esempio, Ghouta, fosse tutta una scuola materna, ci sono sempre gli Elmetti Bianchi e i Medici senza Frontiere, grazie ai soldi di Soros, che stanno inevitabilmente dalla parte dei “ribelli” e che poi vengono esaltati e premiati dagli strumenti di comunicazione di coloro che le guerre le promuovono. Non mancano mai le “armi chimiche di Assad”, linea rossa che poi regolarmente sfuma, cancellata da prove e testimonianze (grazie russi!), come sono insostituibili i sanguinari jihadisti di Al Qaida e Isis contro cui gli imperiali dicono di combattere, ma dopo averli addestrati, armati e poi salvati dalle offensive dell’esercito siriano e suoi alleati. Qualcuno rovistando nel web si accorge, a dispetto della furia anti-fake news della Boldrini, che l’attacco siriano alla provincia di Ghouta avviene dopo sei anni che da lì i terroristi hanno ininterrottamente bombardato con razzi e mortai i 7 milioni di civili della capitale Damasco; che le centinaia di vittime dell’offensiva governativa su Ghouta, “soprattutto bambini”, sono il dato inventato dall’Osservatorio che i servizi britannici e i jihadisti gestiscono a Londra; che, se il governo spedisce colonne di autobus a evacuare la gente di Ghouta, o la Croce Rossa siriana prova a creare corridoi umanitari per rifornire di cibo e medicinali, a bombardare queste colonne e questi corridoi, voluti dal governo, saranno difficilmente gli stessi governativi. Nel documentario “Armageddon sulla via di Damasco” ho illustrato alcuni effetti del martellamento su Damasco, fino a 90 missili in una settimana. Dal mercato Al Hamidiyya, il più antico e bello del Medioriente, colpito nel momento di maggiore affollamento, alla stazione di autobus disintegrata nell’ora di punta, con schizzi di sangue e parti di corpo spiaccicati fin sul cavalcavia alto 20 metri. Immagini mie e di canali siriani che nessuno in Occidente ha mai ripreso. E’ successo mille volte, come centinaia sono state le incursioni aeree dei pirati israeliani. Avete sentito qualche sussurro di disapprovazione da Amnesty e compari?

Il “manifesto”: tutti uguali ma uno più uguale. Così, un po’ per volta, si aprono crepe, delle quali la più grossa è il dubbio che il “manifesto” e affini, quelli che si precipitano a fornire palchi e ghirlande ad Amnesty, non te la raccontino giusta quando mettono sullo stesso piano chi spara da Ghouta e chi avanza da Damasco e, anzi, trovano che i più cattivi siano coloro che “assediano” il sobborgo della capitale per eliminare uno degli ultimi bubboni tumorali incistati nel proprio territorio dai gangster imperialsionisti e mica quelli, sicari e mandanti, che vogliono mantenere, ai costi più inenarrabili, un presidio che tenga sotto tiro Damasco e impedisca la pacificazione e la vittoria dei giusti. Che sono poi anche le forze popolari siriane precipitatesi in soccorso ai curdi sotto attacco turco ad Afrin, a dispetto delle pugnalate alle spalle che questo mercenariato di Usa, Israele e sauditi, ha inflitto a chi ne aveva accolto, con tanto di cittadinanza, le centinaia di migliaia di fuggitivi dalle persecuzioni di Ankara.

Quando parla il popolo, non gli gnomi da giardino, il re buonista resta nudo. Le ambiguità e distorsioni dei media, a qualsiasi obbedienza politica pretendano di rifarsi, hanno iniziato a frantumarsi contro il muro della realtà. Elezioni politiche che mozzano gli arti alla principale forza di dominio e relegano nell’irrilevanza chi gli opponeva formule di rito anni ‘50, del tutto avulse da quanto una chiara percezione dello stato di cose reale richiederebbe, dimostrano che il re è nudo e nudi sono anche principi, duchi, baroni, paggi, nani e ballerine. La menzogna ha esaurito la sua capacità mistificatrice. Da fuffa e nebbia, demagogia presidenziale e pontificale, sono scaturiti irresistibili gli abusi inflitti dai dominanti ai dominati sul piano sociale, economico, ambientale, di lavoro, scuola, salute. Ma forse anche i crimini dei quali ci hanno voluto partecipi, anche a spese nostre, compiuti contro altri popoli. Non sarà un caso che gli unici vincitori di questa contesa elettorale siano coloro che a spese e avventure guerresche, come alle sanzioni che a queste si accompagnano, si sono sempre opposti. E se questa barra la manterranno dritta, sarà già molto.

Al potere via decostruzione e migrazione. Che sono poi anche quelli che, in un modo o nell’altro, quale corretto ed equo, quale rozzo e falsamente motivato, hanno messo in dubbio la sacralità dei facilitatori delle migrazioni “per fame, guerra, persecuzioni”. Il che ci porta a un’altra considerazione. Invasori e terrorismo jihadista ha posto particolare accanimento nella distruzione delle vestigia storiche delle nazioni che sono stati mandati ad assaltare. Ong, umanitaristi, sinistre, Don Ciotti e missionari nelle colonie, Soros, briciole sinistre, sostengono l’accoglienza dei rifugiati senza se e senza ma. Ci sono punti di contatto, affinità di obiettivi, tra queste forze e le campagne che condividono? Non penso al semplicistico discorso che individua causa ed effetto nelle bombe e nelle conseguenti fughe. Lo stereotipo del “fuggono da guerre, fame e persecuzioni”. Penso a una manovra a tenaglia che cancella corpi e spirito di comunità formatesi nel sangue, nei progetti, nelle sconfitte e nelle rinascite, nella lingua e nei costumi, su una comune terra, in rapporto con lo stesso ambiente ed è così che ha acquisito conoscenza e coscienza di sé, identità, autostima, volontà di perpetuarsi e crescere. Un fiore nell’infinita ricchezza della varietà dei fiori. Prima di manipolazioni e ibridazioni. Se, io élite di infima minoranza, perseguo un progetto di dominio mondiale assoluto che solo a me e ai miei subalterni obbedienti convenga, delle forze così formatesi e così composte, altrettante negazioni al mio disegno, devo liberarmi. E’ conditio sine qua non per l’affermazione del progetto mondialista. La mia operazione a tenaglia consiste, primo, nel cancellarne i segni della storia, delle opere compiute, le fondamenta dell’edificio che una comunità, un popolo, una nazione, devono avere sempre in corso d’opera se intendono avere un futuro. Del resto, senza queste tessere del mosaico, l’umanità si estingue. L’élite regnerà sul deserto o su un altro pianeta. E, secondo, nello sradicarli, spostare quelli che non ho decimato con guerre militari o economiche, tagliare radici, staccare il fogliame dal tronco, disperderlo, alienarlo da se stesso, confondendolo in quello che chiamano “meticciato”. Erano le mie ultime ore nella Baghdad che ho illustrato in “IRAQ: un deserto chiamato pace”, aprile 2003. I carri Usa, penetrati in città avevano sparato i primi colpi contro l’Hotel Palestine, dove stavamo noi giornalisti che non avevamo seguito l’ordine di Bush di far parlare solo gli embedded al seguito degli invasori. Morirono un mio amico di Al Jazeera e un reporter spagnolo. Uscendo dalla città in taxi passai accanto al Museo Nazionale: Protetta da reparti angloamericani, manovalanza importata dal Kuweit stava già saccheggiando la più ricca testimonianza della storia araba e irachena, dai sumeri agli Abbassidi, anche a beneficio dei predatori dei caveau occidentali. Subito dopo avrebbero disperso e bruciato i testi, resi sacri dal tempo e dall’amore dei loro lettori, della Biblioteca Nazionale, dalle tavolette cuneiformi della prima scrittura, alla magnificenza letteraria delle Mille e una notte e ai traduttori arabi di Aristotele. Intanto i carri americani si preparavano a travolgere sotto i propri cingoli Babilonia, Ur, Niniveh, Samarra, Nimrud, Ctesifonte, Hatra. Quattromila anni di creatività umana, di civiltà, di culla della civiltà. Meticolosamente, sistematicamente polverizzati o predati. E poi stessa procedura in Siria, Aleppo, Palmira, Libia, Gaza, ovunque la pianta umana fosse più antica, robusta, rigogliosa, degli stenti arbusti, delle misere gramigne di chi a una cultura annegata nel sangue ha sostituito centri commerciali, tecnologie decerebranti e arsenali atomici.

Mosul. In parallelo i migranti, pezzi interi di popoli, 6 milioni di siriani spodestati, un milione a disposizione dei minijob di Angela Merkel. E, logicamente, afghani, iracheni, libici, pachistani e, soprattutto africani: basta seccare con una megadiga Impregilo un fiume come l’Omo in Etiopia e 60mila perdono l’acqua, i coltivi, la sussistenza, diventano foglie secche al vento che qualche Ong seduce a farsi schiavi “meticciati” in un bengodi di sfruttati europei. Come si vede in ogni sequenza che ci induce a impietosirci e a condividere “l’accoglienza”, sono in stragrande maggioranza giovani con i tempi e le forze capaci di futuro. Un futuro abbandonato alle multinazionali a casa propria, ma per il quale fornire braccia e saperi In Occidente. Sono giovani, in grado di affrontare i pericoli della filiera del traffico di carne umana, ma non procreeranno più per la continuità di una comunità arrivata fin ad oggi a dispetto di prove di ogni genere, procreeranno per il “meticciato”. A compensare ciò che da noi, nell’esaltazione dei generi e transgeneri della sterilità, non nasce più. E se crediamo che da tutto ciò noi siamo esenti, proviamo a gettare uno sguardo fuori dalla finestra, tra un asilo nido che non c’è e una famiglia che il precariato di sistema rinserra in sogni frustrati. Diamo un’occhiata ai territori terremotati, banco di prova e cartina di tornasole di un altro fronte della stessa guerra. Credete che, a quasi due anni dal sisma con migliaia ancora nei campeggi al mare, in alloggi di fortuna lontani, con attività produttive sparite per sempre, con la ricostruzione neanche di una stalla, si tratti solo di inefficienza, ritardi, risse per appalti? Ho girato per quelle terre palmo a palmo (“O la Troika o la vita – Non si uccidono così anche le nazioni”). Paesi con le radici nell’impero romano e le chiese del Medioevo, dove hanno lasciato segni Arnolfo da Cambio, Mantegna, Leopardi, Piero della Francesca: tesori inenarrabili. I terremotati li vogliono scoraggiati, esportati, migranti anche loro, i territori privati di una economia nativa, sorta dal genius loci, anacronisticamente non sovranazionale, ma legata ai bisogni locali, ai biotopi naturali e umani. Spopolare per nuove destinazioni d’uso. Sovranazionali. Come quando sradicano con gli ulivi l’anima della Puglia, per far posto a gasdotti e resort di Briatore. Rifugiati nostrani di cui nessuno tiene conto e né Soros, né alcuna Ong dei diritti umani reclamano un’accoglienza senza se e senza ma. Tutto questo Pippo non lo sa. Tutto questo quelli dell’1% “rosso”, PaP (Potere al Popolo), i PC (le scissioni dell’atomo), o LuE (i neoliberisti, NATOisti, Bruxellisti, insofferenti di Renzi), non lo sanno. Sepolti nell’altroieri, del progetto capitalista e della relativa strategia non studiano e non vedono neanche la più abbagliante evidenza. Nanetti da giardino occupati a strappare erbacce, mentre fuori cresce una giungla di piante carnivore. E non si accorgono che, ignorando quella strategia, ogni lotta contro il precariato di vite e lavoro è già persa, mentre sono del tutto compatibili quelle contro le molestie, per i matrimoni e le adozioni gay, per ogni più fantasiosa invenzione di genere come fieramente esibite in quelle manifestazioni d buongusto e di cultura popolare che sono i Gay Pride, contro la minaccia dell’Onda Nera nazifascista. Minaccia eroicamente combattuta, da Macerata a Milano a Roma a Palermo, con l’illusione di ricavarne dividendi boldriniani e poi spassosamente risultata pulviscolo littorio allo 0,9%, Casa Pound, e allo 0,37% Forza Nuova. Tocca scioglierli per salvarci dall’orrore di nuovi Farinacci e Himmler, era l’invocazione tonitruante della Boldrini, grande specialista di armi di distrazione di massa. Intanto, però, il mondo reale scioglieva lei e i suoi scioglitori. E senza neanche un sorso di olio di ricino. Ma più compatibile, anzi, più gradita di tutte, è la campagna per l’accoglienza dei migranti. Roba di sinistra, ca va sans dire.

I non detti di Ghouta, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2018 su "Il Giornale". Tutto ciò che accade in queste ore nella periferia di Damasco, di preciso a Ghouta, è filtrato da una sconcertante quanto irresponsabile narrativa. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni eppure i grandi e autorevoli mezzi d’informazione sembrano accorgersene solo ora perché gli ingredienti per la mistificazione della realtà non mancano affatto. La meccanica comunicativa è più o meno sempre la stessa: una produzione di notizie scollegate fra loro e confezionate dentro un frame, cioè la cornice giornalistica da cui è impossibile sfuggire, in questo caso “la mattanza di Ghouta perpetuata dall’aviazione del governo siriano”. Seguono immagini scioccanti – in larga parte riportate dai “White Helmets”, il braccio umanitario e mediatico dei gruppi terroristici- che mostrano le tragiche conseguenze “dell’offensiva”, intere abitazioni rase al suolo, cadaveri sulla strada, donne in lacrime, ambulanze, soccorritori in cerca di cadaveri tra le macerie. Le riprese sono di qualità, il logo con l’elmetto bianco appare di continuo, le fotografie vengono scattate con cura. Nell’album emerge un’istantanea che diventa il simbolo di un assedio: una bambina col pigiama rosa – la scelta del pigiama non è casuale e richiama di riflesso i campi di concentramento nazista – che viene tratta in salva da casa sua. Esattamente come ad Aleppo, quando il piccolo Omran Daqneesh fu immortalato coperto di sangue e polvere nell’ambulanza, peccato che poco tempo dopo il padre svelò la tecnica dei White Helmets i quali presero il bambino ancora sporco e scosso dai bombardamenti e lo gettarono in mondovisione sul loro profilo Twitter certi che le agenzie occidentali lo avrebbero alzato come trofeo. Alla sequenza di immagini trasmesse a ripetizione – peraltro sempre le stesse – seguono i dati. A contare i morti ci pensa il generatore di notizie diretto da un solo uomo che vive in Inghilterra: l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Ad accodarsi a questo macabro spettacolo del dolore sono le organizzazioni non governative occidentali – Unicef, Save The Children, Médecins Sans Frontières – che mentre mettono in primo piano i cadaveri putrefatti di donne e bambini raccolgono donazioni – tramite squallidi banner pubblicitari – dai lettori distratti e travolti da un flusso ininterrotto di lacrime.  Nessuno vuole negare le conseguenze immonde della guerra, il problema, ancora una volta, sono i non detti dell’offensiva di Ghouta.  Chi vive nel sobborgo di Damasco? Chi sono questi ribelli (che se ci fate caso non vengono più nemmeno definiti “moderati”)? Come agiscono? E come fa un’enclave, senza sbocchi autostradali, a fornirsi di armi e munizioni? Questo spazio geografico si è ritagliato nella contorta mappa militare nel lontano 2012 e si colloca sul lato nord-orientale, alle porte della capitale. Quasi 400mila civili sono tenuti praticamente in ostaggio da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con Al Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam – che da anni attaccano i quartieri centrali di Damasco – non lontani dal Suk – a colpi di mortai. L’offensiva dell’esercito siriano è stata rafforzata per rispondere agli attacchi contro i damasceni che si sono intensificati proprio in questi giorni. Molti di loro hanno perso la vita ma se ne parla poco perché la narrativa occidentale è monodirezionale e classifica i civili siriani in due categorie: alcuni sono più vittime di altri. Ghouta è anche quel luogo in cui vengono fabbricate e utilizzate armi chimiche come dimostrò l’attacco del 21 giugno del 2013 in cui inizialmente furono lanciate accuse contro il governo di Bashar al Assad, poi smentite dal premio Pulitzer Seymour Hersh e rispedite al mittente fornendo le prove che invece incolparono proprio quei ribelli “angelizzati” dalla stampa occidentale, i quali le utilizzarono per trascinare l’amministrazione Obama in guerra. Ecco, fin quando i grandi esperti con i loro look confortevoli o i commentatori isterici non vi risponderanno a queste domande precise vorrà dire che sono alimentatori inconsapevoli di questa grande macchina della disinformazione, o furbetti che coprono per chissà quali interessi veri e propri gruppi terroristici complici dei peggior crimini che loro stessi denunciano. 

Erdogan tuona sui civili di Ghouta, ma quelli di Afrin sono “terroristi”, scrive il 27 febbraio 2018 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". In questa guerra di Siria tutto assume connotati incredibili, anche Erdogan che si erge a paladino del diritto internazionale e umanitario. Parlando della tragedia umanitaria della Ghouta orientale, il portavoce del presidente turco ha scritto che “il regime sta commettendo massacri” e che “il mondo dovrebbe dire stop a questo massacro insieme”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, venerdì scorso ha invitato la Russia e l’Iran, alleati della Siria di Assad, a “fermare” le bombe su Ghouta Est, parlando del bombardamento del sobborgo damasceno come qualcosa che passerà alla storia come la “Srebrenica siriana”. Il presidente turco ha deciso di sposare, in questi giorni, una linea fortemente negativa nei confronti dell’avanzata di Damasco nel sobborgo della Ghouta orientale. Rompendo quasi definitivamente il patto di Astana con Putin e Rohani, Erdogan ha deciso di intraprendere una campagna assolutamente contraria al governo facendo tornare indietro le lancette dell’orologio ai tempi delle prime rivolte contro Assad, quando Ankara sosteneva il rovesciamento del leader siriano e le milizie che si ergevano in tutta la Siria. E ovviamente sfrutta la questione della Ghouta orientale per colpire il governo siriano e imporre la propria linea nello scacchiere settentrionale siriano. Erdogan è così: chi lo tutela ha la sua collaborazione e chi non lo tutela diventa nemico. E sono sempre i curdi dell’Ypg l’ago della bilancia. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere le milizie del Rojava e del nord dell Siria, il presidente turco ha abbandonato nella sostanza l’alleanza con Washington schierandosi con Mosca e sostenendo il piano delle de-escalation zones con l’Iran e la Russia. Adesso che ha intrapreso l’operazione “Ramoscello d’ulivo” e ha scatenato le forze armate contro i curdi di Siria, ottenendo il confronto diretto con la Siria, eccolo di nuovo andare contro il governo di Damasco e provare a riallacciare i rapporti con gli Usa. Nel frattempo, ha intrapreso contro i curdi una campagna militare cruenta, che sta tenendo sotto scacco intere città e dove ci sono già le prime accuse di uso di gas contro i villaggi. Soltanto che, secondo Ankara, c’è una differenza. Mentre per Erdogan la risoluzione Onu sulla tregua è giusta per fermare il massacro della Ghouta orientale, la stessa cosa non vale per Afrin, Manbij. La Turchia ha accolto positivamente l’approvazione della tregua umanitaria in Siria, ma ha subito messo le mani avanti, dicendo che questo non avrà alcuna conseguenza su Afrin e l’offensiva di terra nel nord della Siria perché “resterà risoluta nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche che minacciano l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria”. Non c’è discussione sul fatto che questa decisione” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “non abbia alcun effetto sulla operazione che la Turchia sta portando avanti”, ha confermato il vice premier turco, Bekir Bozdag, mentre Erdogan ha sottolineato che l’offensiva “continuerà fino a che l’ultimo terrorista sarà distrutto”. “Sembra che sarà una estate dura e calda per i terroristi e per i loro sostenitori. Prima ripuliremo Manbij, poi tutta l’area a ovest dell’Eufrate”, così si è espresso Erdogan. Parole non troppo dissimili da quelle rivolte dal blocco a sostegno di Assad nei riguardi dell’offensiva contro Ghouta Est e altre sacche. Eppure, se per Erdogan questi sono massacri sui civili, quella che ha intrapreso la Turchia è solo un’offensiva contro il terrorismo. Un interessante punto di vista che fa riflettere su quanto sia importante l’uso del linguaggio in un conflitto che si svolge anche con le definizioni.

Ghouta Est: quando i ribelli mettevano i civili in gabbie, scrive "Piccole note" il 27 febbraio 2018 su "Il Giornale". La Russia ha stabilito che da oggi, ogni giorno, ci sarà una tregua umanitaria per Ghouta Est, dalle 9 alle 14 e chiesto l’apertura di vie di fuga per i civili che vi abitano. La pressione internazionale per fermare l’attacco dell’esercito siriano diretto all’enclave di Damasco controllata dai cosiddetti ribelli ha sortito un primo effetto. Vedremo gli sviluppi: anche la campagna per la riconquista di Aleppo Est fu uno stillicidio di stop and go, a causa da una pressione internazionale diretta a contrastare le operazioni dell’esercito siriano.

La Caritas siriana denuncia lo squilibrio dell’informazione. Esattamente quanto accade adesso, grazie una fortissima campagna mediatica che dipinge l’operazione contro Ghouta Est come brutale e i ribelli come eroi in lotta contro il sanguinario regime di Assad. La guerra è brutta, anche quelle giuste (quella di liberazione dal nazifascismo, ad esempio, conobbe ombre terribili: Dresda, Cassino, Hiroshima e Nagasaki…). Ma questa sembra più brutta di altre. E i ribelli che la combattono più umanitari di altri: ecco che foto e video li immortalano mentre, premurosi, soccorrono i feriti e altro e più stucchevole. Nessuna notizia di quanto da essi perpetrato a Damasco in questi giorni. Tanto che anche la Charitas siriana, in un raro comunicato, ha sbottato: «La maggior parte dei reportage giornalistici si concentra sui bombardamenti effettuati dalla Siria e dalla Russia su Ghouta Est». Nulla si dice invece di quanto avviene a Damasco, martellata ogni giorno «dall’inizio del 2018» da «colpi di mortaio» sparati da quel quartiere (vedi anche Piccolenote). Come anche nessuna notizia sul raid degli Stati Uniti a Deir Ezzor compiuto in questi stessi giorni: 25 i civili uccisi (Xinhua). D’altronde tale silenzio è in linea con quanto accaduto a Raqqa, città coventrizzata dagli Stati Uniti per scacciarne l’Isis (questa la narrazione ufficiale).

Le gabbie umanitarie degli eroi di Ghouta Est. Resta che se il quartiere di Ghouta Est non viene liberato, gli altri quartieri di Damasco resteranno preda dei bombardamenti dei ribelli cari ai circoli che stanno perpetrando il regime-change siriano. A meno che i loro sponsor internazionali non li fermino, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare. Gli servono perché sono fonte di destabilizzazione permanente della capitale siriana. Così anche le campagne umanitarie servono a uno scopo prettamente bellico: a evitare che Ghouta Est cada ed essi perdano un tassello prezioso nella prospettiva di portare al collasso il governo di Damasco, logorandone la resistenza.

Ma chi sono gli eroi di Ghouta Est? Si tratta di alcune milizie jihadiste, subordinate ad al Nusra (al Qaeda), la più forte e organizzata. Istruttivo un report di Human Rights Watch, organizzazione non certo filo-Assad, del 2015: «I gruppi armati siriani mettono in pericolo i civili, incluse le donne» che espongono «in gabbie di metallo in tutta Ghouta orientale». Un crimine di guerra, spiega HRW, che i miliziani hanno usato per evitare gli attacchi del governo siriano. Importante quel cenno a «tutta Ghouta orientale» contenuto nel testo: indica che le gabbie dell’orrore sono state usate da tutte le milizie presenti a Ghouta, non dalla sola al Nusra. Nel report di HRW un cenno a un altro video che immortala «camion che trasportano gabbie, ciascuna contenente da quattro a otto uomini o donne». I «ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ogni gabbia contiene circa sette persone e il piano è quello di produrre 1.000 gabbie da distribuire nella Ghouta orientale». Il bello è che lo sanno anche loro: anche la Cnn, infatti, aveva ripreso quel video (cliccare qui). Allora, quelle terribili immagini servivano per denunciare la brutalità dell’estremismo islamico. E così giustificare un intervento americano in loco. Oggi non servono più, anzi. Così sono semplicemente obliate. La guerra siriana, come anche altre (Yemen ad esempio), è «disumana», come ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Quelle immagini lo documentano nella maniera più agghiacciante. Come disumana è la cortina fumogena che intossica le informazioni su quanto realmente sta avvenendo in quel martoriato Paese.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

Insultare la Boldrini è prova di «maschia libertà», scrive Piero Sansonetti il 16 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Sul web troneggia la notizia degli affari d’oro che la sorella di Laura Boldrini combina sulla pelle degli immigrati. Questa sorella della Boldrini – dice il web – si chiama Luciana ed è la presidente di 340 cooperative di assistenza ai profughi. Chiaro che si mette in tasca i milioni. E chiaro anche che è stata Laura a indicarle la buona strada. E giù insulti. «Scandalo, scandalo!!! E i giornali, complici non ne parlano! Farabutta, farabutta!». Eh già: Boldrini è la casta, signori, vedete come è arrogante?. Però non è vero niente. Insultare Laura Boldrini è prova di «maschia libertà»? La sorella di Laura Boldrini è morta alcuni anni fa. La sorella di Laura Boldrini non si chiamava Luciana. La sorella di Laura Boldrini non presiedeva alcuna cooperativa ma faceva la restauratrice di opere artistiche. Non è vero niente ma sono veri, e bruciano, gli insulti che piovono a valanga sui social, nei post, nelle mail. In questa storia si congiungono due questioni, diverse, che spesso si mescolano. La questione delle fake news, ossia delle notizie false (quelle che una volta si chiamavano leggende metropolitane) e la questione, cosiddetta, del linguaggio dell’odio. Le leggende metropolitane sono una vecchia storia, non si sapeva come nascessero ma entravano nel cuore dell’opinione pubblica. Una volta si diceva che la moglie di Rutelli fosse la proprietaria di tutti i parcheggi con le strisce blu di Roma. Oppure che il tale leader politico avesse determinate abitudini sessuali, o una certa fidanzata o un certo fidanzato segreto, e cose simili. Tutto falso. Ma ci sono anche leggende metropolitane più pericolose, come quella – per citarne una storica – che gli zingari rubano i bambini, o che gli ebrei sono proprietari di tutti i posti chiave nell’economia di una città, o di una regione. Fino a qualche anno fa queste leggende “aleggiavano” e facevano danni, ma non potevano diffondersi, e soprattutto “inverarsi”, attraverso la potenza incontrollabile della rete. Ora il problema si è molto aggravato, perché non solo è sempre più difficile smentire le fake news, ma la proporzione tra notizie vere e notizie false si sta ribaltando. Le notizie vere diventano minoranza, e in questo modo il rapporto tra conoscenza e verità salta in aria.

È un problema? Si, è un problema serissimo, soprattutto perché al diffondersi dell’informazione non vera (quella che in Unione sovietica era ben organizzata dallo Stato, si chiamava “disinformazia” ed era un formidabile strumento di governo e di controllo sociale) si è sommato il dilagare del linguaggio dell’odio. Di che si tratta? Della convinzione sempre più diffusa che la misura del valore di ciascun odi noi – della nostra libertà, e del nostro coraggio, e della nostra capacità ideale – risieda nella forza d’odio che riusciamo ad esprimere. Usando modi di espressione violenti e mirando a demolire l’interlocutore col quale vogliamo dissentire, e umiliarlo, e ferirlo profondamente.

Gli avvocati italiani (e cioè il Cnf, il Consiglio nazionale forense) sono riusciti in queste settimane a organizzare un evento che avrà una notevole importanza: un G7 degli avvocati, che si svolgerà in settembre e metterà a confronto i rappresentanti delle avvocature dei sette paesi più industrializzati del mondo. E questo G7 degli avvocati avrà come tema dei suoi lavori proprio questo: come opporsi al linguaggio dell’odio senza mettere in discussione la libertà di parola, di pensiero, di espressione, di stampa.

Problema non semplice e che sicuramente riguarda molto da vicino il giornalismo italiano. Perché è chiaro che il dilagare della “disinformazia” e dell’odio è uno dei risultati della perdita di funzione del giornalismo. Il quale aveva tra i suoi compiti principali quello di mediare tra notizie e popolo, e dunque produrre informazione vera, verificata, di qualità, approfondita. Il giornalismo si è trovato spiazzato dall’improvviso successo della rete, e ha visto assottigliarsi il suo ruolo di mediatore e di “intellettuale”. Ma invece di elaborare una strategia di rilancio dell’informazione di qualità, ha preferito accodarsi al linguaggio dell’odio e alle fake news. Facilitato dalla retorica anti- casta. Le fake news e l’odio vengono usati come mazza per colpire la casta, cioè soprattutto i politici, e in questo modo si costruisce una gigantesca auto- giustificazione: “vado contro il potere dunque sono coraggioso – dunque ho ragione”. Il ruolo della verità sparisce. A dare la prova di correttezza e di giustezza non è il vero o il falso, ma il grado di rabbia e di attacco al presunto potere. Questa abitudine giornalistica – il caso Consip, con le clamorose balle che ha prodotto, è un esempio lampante e recente – è sospinta da un’ “onda” popolare, ma a sua volta è lei stessa il motore che alimenta quest’onda, e la protegge, e la giustifica, e la sostiene. Qual è la causa e quale l’effetto è difficile dire. È facile dire, invece, che se il giornalismo non si pone il problema di affrontare la propria crisi di identità, sarà difficile fronteggiare la barbarie del falso e dell’odio. E chi vorrà inondare di fango la Boldrini, o chiunque altro, potrà farlo liberamente e sentirsi eroico, libero e vero maschio.

Perché diciamo “migrante” anziché “immigrato”? Ce lo spiega la Boldrini, scrive Adriano Scianca il 18 maggio 2015 su “Il Primato Nazionale”. “Migrante”, participio presente del verbo “migrare”. Grammaticalmente, la parola indica un’azione che è in corso, che si sta svolgendo in questo momento, senza riguardo al passato o al futuro. Indica quello che stai facendo ora, non ciò che hai fatto o ciò che farai. Non c’è né origine né destinazione in un participio presente. Forse è per questo che il termine è stato scelto come definizione ufficiale delle masse sradicate che muovono il grande business dell’immigrazione. Finché la lingua italiana ha avuto una sua logica esistevano gli emigrati (chi lasciava una terra per andare altrove) e gli immigrati (chi si era mosso da casa sua e raggiungeva un nuovo luogo), che potevano anche essere le stesse persone ma viste da prospettive differenti. L’emigrato è andato da qui verso altrove, l’immigrato è arrivato qui da altrove. Resta comunque l’idea di un punto di partenza e di arrivo, lo spostamento è una parentesi limitata al fatto di raggiungere un determinato luogo.

Nei primi anni Ottanta, tuttavia, comincia a comparire nei documenti ufficiali della Cee la parola “migrante”. Il giornalismo italiano recepisce la novità a partire dalla fine di quel decennio, ma è in questi ultimi anni che la parola entra nel linguaggio comune, sospinta anche dall’eugenetica linguistica operata dal politicamente corretto.

I motivi del cambio sono spiegati dall’Accademia della Crusca: “Rispetto a migrante, il termine emigrante pone l’accento sull’abbandono del proprio paese d’origine dal quale appunto si esce (composto con il prefisso ex via da) per necessità e mantenendo un senso profondo di sradicamento su cui proprio quel prefisso ex sembra insistere […]. Migrante sembra invece adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il paese d’arrivo, restare cioè migranti”.

L’emigrante, nel nostro immaginario collettivo, è l’italo-americano o l’italiano che si è stabilito in Belgio o Germania per trovare lavoro. Persone che, per quanto siano riuscite a integrarsi, spesso solo dopo diverse generazioni, per noi restano sempre “italiani all’estero”, con un legame anche solo virtuale che non si spezza. Ma legami e appartenenze non sono visti di buon occhio oggi, potrebbero essere portatrici o suscitatrici di razzismo.

Aggiunge il sito della Treccani: “Emigrante, come dice l’etimo, sottolinea il distacco dal paese d’origine, calca sull’abbandono da parte di chi ne esce, come segnala anche l’etimologico e- da ex- latino. Ad emigrante, proprio per via di quel prefisso, ma anche a causa del precipitato storico che si è sedimentato nell’uso della parola, si associa l’idea del permanere di un’identità segnata dal disagio del distacco, e dunque l’allusione a una certa difficoltà di inserimento nella nuova realtà di vita […]. In ogni caso, migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo”.

Una “perpetua migrazione”: è questo il concetto chiave. E va interpretato alla luce di un ragionamento illuminante fatto a suo tempo da Laura Boldrini, secondo la quale il migrante è “l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi”. Anzi, secondo la Boldrini gli immigrati “sono molto più contemporanei di noi. Di me ad esempio che sono nata in Italia, sono cresciuta in Italia, ho anche lavorato fuori ma poi continuerò come tanti di noi a vivere in questo Paese”. Ecco quindi perché dire “migrante” anziché “immigrato”: perché indica una condizione di sradicamento generale, di continuo movimento, di nomadismo spirituale in cui forgiare il nuovo cittadino del mondo, rappresentato dall’immigrato ma al cui modello tutti ci dobbiamo ispirare. L’immigrazione è un esperimento di laboratorio, la creazione di un uomo nuovo a cui tutti prima o poi ci dovremo conformare, eliminando il peccato originale del radicamento per essere anche noi “più contemporanei” e cessare di pensarci come italiani, marocchini, cinesi o romeni. A quel punto, finalmente, nascerà l’homo boldrinicum, senza più origini né radici. Adriano Scianca

Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono il 15 Agosto 2016 Francesco Borgonovo e Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola.  Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura.

Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici.  Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica».

Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito?

Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria.

Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale.

La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro.

Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso.

Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti. Francesco Borgonovo e Adriano Scianca

Chissà se madonna Laura Boldrini, papessa della Camera, ha letto di recente I promessi sposi e s'è dunque imbattuta in Donna Prassede, bigottissima moglie di Don Ferrante, convinta di rappresentare il Bene sulla terra e dunque affaccendatissima a "raddrizzare i cervelli" del prossimo suo e anche le gambe ai cani, sempre naturalmente con le migliori intenzioni, di cui però - com'è noto - è lastricata la via per l'Inferno, scrive Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano l'11 marzo 2014. Noi tenderemmo a escluderlo, altrimenti si sarebbe specchiata in quel personaggio petulante e pestilenziale descritto con feroce ironia da Alessandro Manzoni, e avrebbe smesso di interpretarlo ogni giorno dal suo scranno, anzi piedistallo di terza carica dello Stato. Invece ha proseguito imperterrita fino all'altroieri, quando ha fatto sapere alla Nazione di non avere per nulla gradito l'imitazione "sessista" della ministra Boschi fatta a Ballarò da Virginia Raffaele, scambiando la satira per lesa maestà e l'umorismo su una donna potente per antifemminismo. E chissenefrega, risponderebbe in coro un altro paese, abituato alla democrazia, dunque impermeabile alla regola autoritaria dell'Ipse Dixit. Invece siamo in Italia, dove qualunque spostamento d'aria provocato dall'aprir bocca di un'Autorità suscita l'inevitabile dibattito.

Era già capitato quando la Rottermeier di Montecitorio aveva severamente ammonito le giovani italiane contro la tentazione di sfilare a Miss Italia, redarguito gli autori di uno spot che osava financo mostrare una madre di famiglia che serve in tavola la cena al marito e ai figli, sguinzagliato la Polizia postale alle calcagna degli zuzzurelloni che avevano postato sul web un suo fotomontaggio in deshabillé e fare battutacce - sessiste, ça va sans dire - sul suo esimio conto (come se capitasse solo a lei), proibito le foto e i video dei lavori parlamentari in nome di un malinteso decoro delle istituzioni, fatto ristampare intere risme di carta intestata per sostituire la sconveniente dicitura "Il presidente della Camera" con la più decorosa "La presidente della Camera". Il guaio è che questa occhiuta vestale della religione del Politicamente Corretto è incriticabile e intoccabile in quanto "buona". E noi, tralasciando l'ampia letteratura esistente sulla cattiveria dei buoni, siamo d'accordo: Laura Boldrini, come volontaria nel Terzo Mondo e poi come alta commissaria Onu per i rifugiati, vanta un curriculum di bontà da santa subito. Poi però, poco più di un anno fa, entrò nel listino personale di Nichi Vendola e, non eletta da alcuno, anzi all'insaputa dei più, fu paracadutata a Montecitorio nelle file di un partito del 3 per cento e issata sullo scranno più alto da Bersani, in tandem con Grasso al Senato, nella speranza che i 5Stelle si contentassero di così poco e regalassero i loro voti al suo governo immaginario. Fu così che la donna che non ride mai e l'uomo che ride sempre (entrambi per motivi imperscrutabili) divennero presidenti della Camera e del Senato.

La maestrina dalla penna rossa si mise subito a vento, atteggiandosi a rappresentante della "società civile" (ovviamente ignara di tutto) e sventolando un'allergia congenita per scorte, auto blu e voli di Stato. Salvo poi, si capisce, portare a spasso il suo monumento con tanto di scorte, auto blu e voli di Stato. Tipo quello che la aviotrasportò in Sudafrica ai funerali di Mandela, in-salutata e irriconosciuta ospite, in compagnia del compagno. Le polemiche che ne seguirono furono immancabilmente bollate di "sessismo" e morte lì. Sessista è anche chi fa timidamente notare che una presidente della Camera messa lì da un partito clandestino dovrebbe astenersi dal trattare il maggior movimento di opposizione come un branco di baluba da rieducare, dallo zittire chi dice "il Pd è peggio del Pdl" con un bizzarro "non offenda", dal levare la parola a chi osi nominare Napolitano invano, dal dare di "potenziale stupratore" a "chi partecipa al blog di Grillo", dal ghigliottinare l'ostruzionismo per agevolare regali miliardari alle banche. Se ogni tanto si ghigliottinasse la lingua prima di parlare farebbe del bene soprattutto a se stessa, che ne è la più bisognosa. In fondo non chiediamo molto, signora Papessa. Vorremmo soltanto essere lasciati in pace, a vivere e a ridere come ci pare, magari a goderci quel po' di satira che ancora è consentito in tv, senza vederle alzare ogni due per tre il ditino ammonitorio e la voce monocorde da navigatore satellitare inceppato non appena l'opposizione si oppone. Se qualcuno l'avesse mai eletta, siamo certi che non l'avrebbe fatto perché lei gli insegnasse a vivere: eventualmente perché difendesse la Costituzione da assalti tipo la controriforma del 138 (che la vide insolitamente silente) e il potere legislativo dalle infinite interferenze del Quirinale e dai continui decreti del governo con fiducia incorporata (che la vedono stranamente afona). Se poi volesse dare una ripassatina ai Promessi Sposi, le suggeriamo caldamente il capitolo XXVII: "Buon per lei (Lucia) che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza". Poco dopo, sventuratamente, la peste si portò via anche lei, ma la cosa fu così liquidata dal Manzoni: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto". Amen.

Sgarbi contro il vocabolario politicamente corretto della Boldrini, scrive il 4 gennaio 2017 "New notizie". Vittorio Sgarbi vs Laura Boldrini: il noto critico d’arte, che non si fa problemi a dire pubblicamente quello che pensa di ogni situazione che richiami la sua attenzione, ha preso di mira la Presidente della Camera, Laura Boldrini: non si tratta della prima volta, ricordiamo che quest’estate Sgarbi aveva demolito la sua decisione di istituire una fantomatica commissione parlamentare contro l’Odio. “La Commissione contro l’odio porterà a risultati sorprendenti. Riconosceremo finalmente i sentimenti di Totò Riina. Saremo indotti a giustificarlo e forse ad amarlo, anche se non lo abbiamo concesso ai suoi figli. Sì, esorcizziamo l’odio. Cerchiamo le radici del male.  Perché odiare gli assassini del Bangladesh? Perché provare rabbia e rancore? Rispettiamo lo slancio religioso dei terroristi. Condividiamo il loro martirio, i valori reali che li ispirano” aveva allora criticato Sgarbi. Ma non si ferma qui: il noto critico, che ha tantissimi seguaci sui social e non solo, ha anche preso di mira il nuovo vocabolario della Boldrini, il cui scopo politico primario sembra essere quello di declinare al femminile ogni nome. Con buona pace della grammatica italiana. ‘Sindaca’ e ‘Ministra’ o addirittura ‘Presidente’, neologismi che sono già mutuati da alcuni organi di informazione. Per deridere questa “battaglia”, Sgarbi chiama il presidente della Camera Boldrina. “Napolitano ha detto una cosa semplice: che i ruoli prescindono dai sessi, che non si applicano ai sessi, che sono persone ma che essendo di genere femminile non diventano femminili, un persono sostiene Sgarbi.

La ministra Fedeli e i discorsi di Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto rischia di essere ridicolo anche quanto si propone obiettivi seri, come nel caso dei decreti delegati sulla scuola, scrive Gian Antonio Stella il 18 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". «Signore e signori, dottoresse e dottori, idrauliche ed idraulici, oboiste ed oboisti, sfogline e sfoglini…». Avanti così, Valeria Fedeli rischia di fare il verso a certi discorsi del mitico Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto, infatti, riesce ad essere ridicolo anche quando si propone obiettivi seri. E se la British Medical Association, come ha raccontato su il foglio Giulio Meotti, ha tracciato il solco in Gran Bretagna invitando «i medici a non parlare più di expectant mothers (mamme in attesa), ma di un più generico pregnant people (gente incinta), per rispettare l’eventuale natività gay» la nostra ministra dell’Istruzione si è incamminata lesta nel solco. Come spiega Tuttoscuola, infatti, dopo aver esordito alla ripresa delle lezioni dopo l’Epifania con un tonante «Care ragazze e cari ragazzi, bentornate e bentornati», la signora ha sfidato le scontate ironie della popolazione scolastica (che in queste cose sa essere feroce) con i testi definitivi dei decreti delegati. Dove ha sfondato la barriera del suono del politicamente corretto: «Ventinove (29) volte bambino è diventato “bambina e bambino”, quarantanove (49) volte alunno è diventato “alunna e alunno”, quarantasei (46) volte studente è diventato “studentessa e studente”». Un esempio? Nel decreto sull’inclusione spicca: «Valutato, da parte del dirigente scolastico, l’interesse della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente…».

Il record, prosegue la rivista di Giovanni Vinciguerra, «è dentro il decreto sulla valutazione con 44 articolazioni di genere (per fortuna non c’erano le bambine e i bambini dell’infanzia, non compresi nella valutazione). Al secondo posto il decreto sull’inclusione con 32 articolazioni, seguito dal decreto della riforma 0-6 anni con 17 exploit tutti riservati ovviamente a bambine e bambini». E meno male che i sindacati, che sembrano a loro agio con la ministra-sindacalista, non si sono accorti d’una profonda ingiustizia: nei «già verbosissimi decreti» non ci sono distinzioni sul sesso dei docenti. Scelta che avrebbe imposto l’uso di professoresse e professori, maestre e maestri e così via. Domanda: al di là delle possibili proteste di chi davanti a un eccesso di precisazioni di genere potrebbe dichiararsi estraneo all’uno e all’altro sesso, è questo il famoso «rispetto» per gli studenti? Non sarebbe più rispettoso evitare loro di cambiare professori ogni anno o passare ore ed ore in edifici a rischio sismico e idrogeologico?

Politicamente corretto, la nuova religione della “sottomissione” al “non pensiero” del potere, scrive il 13 dicembre Giuseppe Reguzzoni su Tempi. Per la nuova religione non è vero ciò che è vero, ma ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico non è un’altra religione ma il pensiero stesso. Chi pensa è un potenziale nemico. Anticipiamo in queste pagine alcuni stralci del saggio Il liberalismo illiberale, dell’Editore XY.IT, in libreria in questi giorni. L’autore, Giuseppe Reguzzoni, è uno storico e giornalista, traduttore (tedesco, francese, inglese) anche di opere di papa Benedetto XVI. Collabora con l’Istituto Mario Romani dell’Università Cattolica di Milano. Il Politically Correct è il nuovo tabù e l’aura di timore che lo circonda è il nuovo senso del pudore, del tutto imposto ed eterodiretto. Preso alla lettera, “politically correct” richiama in qualche modo l’idea di “correct polity”, dunque una certa buona maniera di governare o, anche, di stare al mondo gli uni accanto agli altri, di costruire insieme la politéia, la comunità civile. (…) Il Politicamente Corretto è, nella prassi sociale di ogni giorno, un elenco implicito di divieti o, se si vuole, di dogmi indimostrabili. Il sacerdote del Politicamente Corretto non mira ad argomentare, ma a puntare il dito, con orrificato stupore, su chi osa mettere in questione la secolarissima sacralità del suo Credo. (…)

Già solo accennare alle grandi aree semantiche di cui si occupa questo moderno e laico tribunale dell’Inquisizione costituisce in qualche modo un reato: immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà e di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, temi identitari, domande esistenziali e fedi religiose sono oggi i nuovi “tabù”, ciò di cui è bene non parlare, anche se, inconsciamente, quando sopravvive un minimo di spirito critico, lo si vorrebbe fare. L’idea di tabù è stata sviluppata anzitutto dagli antropologi, come una sorta di proibizione rituale, implicita e inconscia, ma è stato Freud a evidenziare il nesso tra tabù e nevrosi. La nostra è una civiltà nevrotica, a tratti schizofrenica, che nega l’esistenza stessa del problema, confinandolo nei propri tabù. Il Politicamente Corretto è, appunto, il tabù rispetto alla ricerca e alla percezione della verità, tutta intera. C’è, tuttavia, chi di questi tabù usa consapevolmente per consolidare i propri disegni di potere. (…)

Il ministero orwelliano del condizionamento esiste e la sua forza sta nella sua apparente, superficiale, invisibilità. Come nel mondo immaginato da Orwell in 1984 la lingua, o meglio, la “neolingua” è strumento di potere. Solo che, a differenza che nel mondo distopico di Orwell, nel linguaggio politicamente corretto i termini sono in costante aggiornamento. Si dice e non si dice, attuando con efficacia forme di censura preventiva che ostacolano o impediscono ogni forma di pensiero critico personale, qui proprio come in 1984. (…)

Questi tabù, organizzati ectoplasmaticamente in quella realtà fluida e in continuo mutamento che è il Politically Correct, costituiscono la nuova religione civile della società globale. Qui sta il cambiamento in corso almeno da due decenni e coincidente con la crisi dei grandi sistemi politici di matrice ideologica, incluso il liberalismo e la sua pretesa di essere una sorta di via media. Qui sta il nocciolo della forma che il Politically Correct sta assumendo e il fatto che esso non sia ormai più solo un linguaggio, ma, appunto, un elemento di raccordo e coesione sociale, con tratti simili a quelli che Rousseau attribuiva alla sua religione civile.

Che la formulazione del modello del Politically Correct abbia avuto luogo prima negli Stati Uniti non è certamente un dato casuale. Rispetto all’Europa gli Stati Uniti, pur essendo un paese fortemente secolarizzato, restano tuttavia fortemente segnati da un ipermoralismo parabiblico, in cui Arnold Gehlen ha riconosciuto i tratti di «una nuova religione umanitaria». Dopo la Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, negli anni Sessanta del secolo scorso, il linguaggio puritano ha subìto una profonda mutazione a contatto con il linguaggio (neo)marxista veicolato dagli intellettuali della scuola di Francoforte o ispirato da loro, dapprima rifugiati negli Stati Uniti e poi installati nelle scuole e università occidentali. È stato soprattutto con le rivolte giovanili degli anni Sessanta che costoro hanno assunto il ruolo di sacerdoti del pensiero unico, esercitando un controllo progressivamente egemone sui media e sui sistemi scolastici ed educativi occidentali. Già le modalità con cui questo pensiero si è imposto presentano quei tratti di slealtà che sono caratteristici del linguaggio politicamente corretto, dal momento che la critica dell’autorità andava di pari passo con modelli di autoritarismo implicito: si contestavano le figure tradizionali dell’autorità, avvvalendosi dell’autorità che derivava dalle proprie cattedre e dai propri ruoli. Il politicamente corretto si presentava antidogmatico, imponendo però dogmi impliciti e indiscutibili, così come, nella sua versione sessantottina, si presentava come anticonformista, imponendo però nuove forme di conformismo radicale e disperato. In questo modo, sleale, il nuovo moralismo andava costruendo i suoi dogmi, e si avviava a trasformarsi in quella che Carl Schmitt definiva «la tirannia dei valori». (…)

D’altra parte è l’Occidente, nel suo insieme, dunque anche l’America, a divenire vittima di se stesso e dei propri complessi di colpa, evidenti nelle nuove forme di autocensura. Il bombardamento di slogan antirazzisti, multiculturali, antiomofobi ha assunto toni parossistici, quasi religiosi. Non si offrono ragioni, ma tabù indiscussi, e il solo sollevare questioni, anche minime, è considerato blasfemo. Il politicamente corretto, in quanto nuova religione civile, impone un credo indiscutibile e indiscusso. Nella nuova religione non si crede perché essa è ragionevole, ma solo per paura o per assuefazione. Lungo sarebbe l’elenco dei “dogmi” di questa nuova religione civile, più facile identificare nei grandi media, voce dei poteri forti, la nuova inquisizione, che sentenzia senza ascoltare e condanna attraverso mantra ossessivamente ripetuti. Per essa non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico di tale tribunale non è un’altra religione civile, filosofica o rivelata, ma il pensiero stesso. Chi pensa, per il fatto stesso che pensa, è un potenziale nemico. Non affannatevi a pensare, a voler conoscere la realtà, lo facciamo noi per voi. Voi limitatevi a divertirvi o compiangervi e, soprattutto, adeguatevi.

La dittatura del politicamente corretto suppone delle società liberali o, se si preferisce, apparentemente liberali, dove sia almeno a parole garantita la possibilità di scegliere, magari cambiando canale tra reti, in realtà tutte omogenee al sistema. È il paradosso del liberalismo, che vive di presupposti che non è esso stesso in grado di generare, (…) è l’involuzione di un modello culturale e politico che, partito in nome della libertà, finisce per ritagliare quest’ultima a uso di chi ha il potere finanziario e politico. (…) Nel Politicamente Corretto tutto ciò che marca la differenza tra comunità e individui, finanche tra i due sessi, è percepito e indicato come un ostacolo imbarazzante. (…)

La laicità radicale, o laicismo negativo, mira finanche ad annullare i segni storici della presenza delle religioni in Occidente (dunque della religione cristiana) sostituendovi altri segni in linea con la propria visione del mondo. Alle comunità religiose è riconosciuto, al massimo, lo status di enti privati, senza alcuna pertinenza diretta con la realtà statuale. È quanto non ha mancato di constatare, e denunciare, papa Giovanni Paolo II lungo tutto il proprio pontificato: «Nell’ambito sociale si sta diffondendo anche una mentalità ispirata dal laicismo, ideologia che porta gradualmente, in modo più o meno consapevole, alla restrizione della libertà religiosa fino a promuovere il disprezzo o l’ignoranza dell’ambito religioso, relegando la fede alla sfera privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica» (Ai presuli della Conferenza episcopale della Spagna, in visita Ad limina Apostolorum, 24 gennaio 2005).

La campagna contro i crocifissi, sottoscritta anche da un altro Zagrebelsky, a nome del Consiglio d’Europa, non è che un elemento di questo complesso processo di sostituzione simbolica che pretende di investire la totalità del vivere civile e le sue espressioni non puramente individuali, come accade, esemplarmente, nella gestione del tempo e della sua dimensione pubblica. Per il momento la rimozione del calendario cristiano risulta ancora troppo complessa, ma val la pena di ricordare che essa è già stata sperimentata all’epoca della Rivoluzione francese e riproposta dai sistemi totalitari del XX secolo. La nascita di un calendario civile, con applicazione rigorosa di nuove forme di “precetto festivo” si colloca, a sua volta e in pieno, su questa medesima linea, dal momento che il calendario rappresenta la scansione ufficiale del tempo in una società. In Italia il 25 aprile, l’1 maggio e il 2 giugno hanno assunto funzioni che vanno ormai ben al di là della commemorazione civile di eventi storici importanti. Ci sono centri commerciali che sono aperti il 25 dicembre, Natale, ma non è possibile o è estremamente difficile che la stessa cosa avvenga il 25 aprile o il 2 giugno. Eppure, se il presupposto del laicismo radicale è che tutto è relativo e che, dunque, nessuna posizione debba essere considerata preminente, non si capisce bene su che cosa debba fondarsi la sacralità di tali ricorrenze “civili”.

Alle feste “comandate” del calendario civile, paragonabili alle solennità del calendario liturgico, si sommano le “feste di precetto” e le “memorie solenni”, come la giornata della memoria (ormai imposta in tutte le scuole, con cerimonie e iniziative culturali), l’8 marzo (festa della donna) o la festa della mamma o il 14 febbraio, san Valentino, festa degli innamorati. Queste ultime, laiche feste di precetto, tra l’altro, che pur non hanno il carattere di solennità nazionali, sono oggi elementi costitutivi di una sorta di calendario universale del Politicamente Corretto.

Tale calendario “civile”, non potendo annullare del tutto le festività religiose, tende a neutralizzarle. Così è avvenuto con il Natale cristiano, ormai scomodo sul piano dei dogmi della religione civile del Politicamente Corretto, che è stato trasformato in festa dei buoni sentimenti (con apertura dei negozi). D’altra parte, se internet è l’emblema della nuova società globale, quando si parla di calendario, è interessante osservare come il motore di ricerca Google ormai da anni scandisca il fluire dei giorni come una sorta di rubrica liturgica di questa nuova religione civile secolare, assumendo il ruolo di custode e guardiano della rete. Intorno al logo di Google abbiamo visto scorrere di tutto: dall’anniversario della nascita di Confucio, con tanto di costume mandarino stilizzato, a quella di Galileo, con allegato telescopio, e persino quello di Ludwik Zamenhof, ebreo polacco creatore dell’esperanto. Non sono mancati riferimenti alla nascita di Buddha, malgrado la scarsità di dati storici certi, e abbiamo potuto seguire quasi integralmente la scansione annuale delle principali festività ebraiche. Da qualche anno ci toccano anche gli auguri ai musulmani per l’inizio e la fine del Ramadan. Per par condicio il 25 dicembre ci si attenderebbe l’immagine di un piccolo presepe, ma non è mai stato così. Il massimo che ci è stato concesso è stato il grassone vestito di rosso, con tanto di renne al seguito, caricatura inventata dalla Coca Cola del vescovo greco anatolico Nicola di Myra.

Su Google sono costantemente e volutamente assenti i riferimenti al calendario cristiano in quanto cristiano, benché il motore di ricerca non abbia ancora rinunciato al calcolo degli anni dalla nascita di Cristo. I richiami alle feste cristiane sono “tabù”. Ma nella geografia politica dell’imbarazzo, Google non è che un elemento accanto a moltissimi altri, come il divieto esplicito del tradizionale augurio “Merry Christmas” sulle insegne di molti comuni inglesi o quello implicito nella stragrande maggioranza delle aziende europee ed americane, fino ad arrivare all’esclusione di presepi e alberi di Natale in alcune scuole statali italiane in nome della multiculturalità. La domanda che sorge spontanea è se davvero si tratti solo di imbarazzo o se, piuttosto, queste scelte non sottendano un disegno nascosto, non siano cioè l’espressione di una visione secolarista che si va imponendo come una nuova e non esplicita religio civilis, mascherandosi da laicità dello Stato che, addirittura, come in Zagrebelsky, dichiara di considerare pericoloso ogni contributo che le religioni possono offrire alla coesione sociale in quanto tale.

Le forze che agiscono dietro questo progetto sono molteplici e si muovono sulla base di processi anche molto differenti di autocoscienza. Sarebbe ingenuo, però, pensare a un movimento in tutto e per tutto spontaneo, di carattere culturale, quasi che la cultura e la mentalità dominante non abbiano nulla a che fare con le forme, indotte, del disciplinamento sociale. Un’analisi compiuta di questi processi è arrivata sinora più dalla letteratura distopica che dalla riflessione speculativa. Certo, la teologia successiva al Vaticano II non si è ancora confrontata in maniera seria con il tema del condizionamento socio-culturale come progetto di riscrittura della mentalità e della società. I sorrisini e le ironie quando si tocca il tema dell’influenza della massoneria sulla mentalità odierna la dicono lunga su questa profonda ingenuità (è davvero solo tale?). Eppure i testi e i documenti che mettono in guardia da un atteggiamento che cerca di mascherare l’ingenuità con la spocchia intellettuale non sono pochi. Una cosa è il complottismo, altra, e ben diversa, è la progettualità culturale sulla società, particolarmente quando essa non è esplicitata in programmi politici trasparenti, ma in forme di condizionamento legate ai soft power. (…)

Il cristianesimo non è una religione civile; il laicismo radicale, almeno implicitamente, sì. Si può discutere se e quanto le religioni possano contribuire alla religione civile di una nazione, ma, in una prospettiva cristiana, ciò implica che il termine “religione” sia inteso in senso quasi metaforico. E implica che la religione civile non si ponga in termini sostitutivi rispetto alle religioni storiche, ma ne accolga il contributo (…). Benedetto XVI, riassumendo una posizione che non può essere tacciata di integralismo fondamentalista, non dice che il cristianesimo è una religione civile, ma che esso ha una funzione civile. Non è la stessa cosa (…).

Per dirla con Carl Schmitt, si tratta di un processo di continua “neutralizzazione” dei riferimenti ideali. Alle religioni tradizionali si sostituisce la pura razionalità, sino ad arrivare a cercare un punto di coesione il più neutro possibile nell’economia e nella tecnica. Tra queste suggestioni di massa, quella che fluttua da un centro conflittuale all’altro, mantenendo la propria funzione mitica, è certamente l’idea di progresso. (…) In fondo, mentre il cosmopolitismo settecentesco era una dottrina filosofica, il globalismo contemporaneo ne è l’erede in forma “neutralizzata”. L’altro elemento, accanto al mito del progresso e della “neutralità della tecnica”, impostosi soprattutto dal Sessantotto, è quello dei diritti dell’uomo, interpretati evolutivamente proprio alla luce del mito del progresso, come ha acutamente dimostrato la professoressa Janne Haaland Matláry proprio in rapporto all’idea di dittatura del relativismo. Il concetto riprende un passaggio fondamentale dell’omelia di Benedetto XVI durante la celebrazione della Messa Pro eligendo pontifice, che ben riassume il carattere (pseudo) “religioso” di questa prospettiva. Il dialogo, per funzionare, implica l’esistenza di un vocabolario comune, in cui i termini fondamentali non vengano usati in maniera e con significati ambigui od equivoci.

Il relativismo etico dell’Occidente e il Politically Correct come sua implicita religione civile non sono in grado di realizzare questo dialogo dato che, nella migliore delle ipotesi, quel che ne deriva è solo una mera giustapposizione del diverso, una multiculturalità senza incontro e senza scambio. Anche i diritti dell’uomo, considerati in sé e per sé, non riescono a uscire dal rischio di un’interpretazione ambigua ed equivoca. A prescindere dal fatto che la maggior parte dei paesi islamici non riconosce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’interno dello stesso Occidente è al centro di interpretazioni opposte che ne annullano il valore “universale”. Il punto è l’uso che oggi si sta facendo dei diritti dell’uomo. Da una parte sono divenuti la nuova Bibbia politica di una comunità sociale diversamente priva di qualunque riferimento ideale, dall’altra sono stati di volta in volta usati come la bandiera di un valore e del suo esatto contrario, per esempio, della difesa della famiglia tradizionale e della sua demolizione attraverso il riconoscimento dei cosiddetti matrimoni omosessuali. Nessuno in Occidente può oggi permettersi di andare contro i diritti dell’uomo, e allora si tenta di tirarli dalla propria parte, spostando il problema dall’applicazione dei diritti dell’uomo alla loro interpretazione.

La Dichiarazione ha una sua precisa collocazione storica e si tratta di un riferimento storico che ha qualcosa di miracoloso, di irripetibile. Si usciva dalla Seconda Guerra Mondiale e dagli orrori del nazifascismo (quelli del comunismo erano ancora ipocritamente occultati). La Dichiarazione Universale nacque come reazione al relativismo politico e legale della Germania hitleriana e, più in generale, delle ideologie totalitarie, con un implicito riferimento all’idea che stava alla base del processo di Norimberga. Ai criminali nazisti che si appellavano all’obbedienza agli ordini ricevuti dall’alto, si ricordava che esiste un’altra obbedienza, ben più decisiva. Sulla base di questa idea, per la prima volta nella storia, un tribunale aveva emesso delle condanne non perché gli imputati erano nemici, ma perché avevano violato questa legge di natura, quella a cui si ispirò la Dichiarazione.

Ora, perché questa legge possa davvero essere tale, in forza di quel “sentire comune” di tutta l’umanità a cui essa fa riferimento, bisogna che non possa essere modificata arbitrariamente dagli attori politici. Ma è proprio questa la crisi che sta investendo i diritti dell’uomo. Se essi sono solo una convenzione, modificabile col cambiare delle opinioni, allora i diritti non sono più tali, perché possono a loro volta essere modificati. Perché i diritti dell’uomo siano tali, devono essere al di sopra degli stati, (…) essi non possono neppure essere in balìa dei nuovi poteri transnazionali che cercano di svuotarli dall’interno reinterpretandoli in direzione di quel mostro ideologico che è il politicamente corretto. Le grandi lobbies del potere transnazionale non potendo negare i diritti in quanto tali, tendono a dissolverli considerandoli solo come delle mere convenzioni, delle questioni di maggioranza all’interno di un’opinione pubblica da loro dominata o egemonizzata. (…)

La strategia sottesa è quella del soft power, vale a dire del condizionamento dell’opinione pubblica da parte di agenzie internazionali di opinione, con meccanismi acutamente descritti da Haaland Matláry nel suo volume sui «diritti umani traditi»: si comincia a imporre la trattazione di certi temi, mettendo in conto il rifiuto della maggioranza ancora poco “illuminata”; si pretende che se ne parli come di “diritti civili”, magari facendo riferimento a “casi pietosi” e con l’appoggio di importanti figure del mondo dello spettacolo o dello sport; ci si appella al sostegno del mondo scientifico, di volta in volta identificato con qualche personalità di comodo e si ottengono, alla fine, delle “direttive non vincolanti” emanate da organismi transnazionali (come – aggiungiamo noi – potrebbe essere anche il Parlamento europeo). A questo punto il gioco è fatto e si può intervenire all’interno di ciò che resta dello stato nazionale appellandosi alle moderne conquiste dei paesi civili e al tale pronunciamento della tale commissione per chiedere il “diritto” al matrimonio omosessuale, alla sperimentazione sugli embrioni, alla clonazione eccetera. Nel frattempo si dilata il vocabolario delle maledizioni politicamente corrette per far sì che gli avversari nemmeno vengano ascoltati: razzista, omofobo, oscurantista, rozzo. (…)

È chiaro che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è stata svuotata. Essa ha senso solo in quanto espressione del diritto naturale, cioè di quel diritto che viene prima di ogni forma di organizzazione statale e che è inviolabile: «Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati» (Art. 30). Mettere in questione il carattere universale di questi princìpi e il loro ancorarsi nelle «leggi non scritte e immutabili» del diritto naturale significa spianare la strada all’arbitrio e a nuove forme di totalitarismo. All’azione distruttiva del soft power Haaland Matláry oppone la necessità di riscoprire il valore fondativo e universale della ragione. La sua proposta di rivalutazione del diritto naturale indica in modo rigoroso un possibile percorso fondativo della categoria del “prepolitico” in un contesto culturale e sociale secolarizzato.

In una prospettiva cristiana, restano due questioni: quella di come l’avvenimento cristiano debba porsi di fronte a questa sorta di religione globale, incentrata sul mito del progresso e sulla relativizzazione dei diritti dell’uomo; quella del contributo alla coesione sociale che il cristianesimo è chiamato a portare nella vita delle nazioni e nelle relazioni internazionali.

Il punto non è solo il ruolo che le religioni possono svolgere all’interno delle società secolarizzate, ma, soprattutto, le condizioni perché queste ultime possano sopravvivere e non sprofondare in una violenza di tutti contro tutti. (…) Una corretta religione civile – sempre che si voglia ancora insistere su questa espressione di per sé ambigua – sarebbe, dunque, necessaria allo Stato liberale e democratico occidentale proprio in funzione della realizzazione di questi presupposti che esso non può darsi da solo, ma che può ricevere dalle forze più vive che esistono al proprio interno.

Senza negare l’evidenza di una società occidentale divenuta plurale (…), ma comunque bisognosa di riferimenti etici e ideali comuni, si tratta di relativizzare l’idea di religione civile, riconoscendole – con Benedetto XVI – un valore necessario, ma non sufficiente: «Il concetto di religio civilis appare così in una luce ambigua: se esso rappresentasse soltanto un riflesso delle convinzioni della maggioranza, significherebbe poco o niente. Ma se invece deve essere sorgente di forza spirituale, allora bisogna chiedersi dove questa sorgente si alimenta». Ecco, allora, le due tesi ratzingeriane, per una rilettura della laicità dello Stato e della religione civile a essa sottesa: «La mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità», espressione con cui si intende non solo la presenza di nuove comunità religiose, ma il contributo fattivo e vitale che le comunità possono dare, come «sale della terra» (che più avanti Ratzinger chiama anche «minoranze creative»), alla coesione sociale e civile, in rapporto con tutti i fermenti più vivi che operano all’interno della società. È evidente che per essere se stessa, l’esperienza cristiana chiede e necessita di non essere privatizzata e ridotta a puro elemento individuale e soggettivo. È altrettanto evidente che questa esperienza non deve temere di rapportarsi a un mondo divenuto plurale, rimanendo però se stessa sino in fondo. Diversamente, il concetto di religione civile resta «prigioniero in quella gabbia di insincerità e ipocrisia che è il linguaggio politicamente corretto».

Contro il fascismo di sinistra. L’occidente politicamente corretto è un élite vuota e secolarizzata che si crede eterna, dice Camille Paglia. “Il free speech era l’anima della sinistra degli anni Sessanta, poi è diventata una polizia del pensiero stalinista”, scrive Mattia Ferraresi il 6 Febbraio 2015 su "Il Foglio".  “Quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”, dice Camille Paglia.

New York. Camille Paglia combatteva il politicamente corretto quando ancora non esisteva. C’era la cultura perbenista e censoria che veniva dagli anni Cinquanta, ma non esisteva ancora l’invisibile polizia del linguaggio del “fascismo di sinistra”, come lo chiama lei, che tracciava il confine fra il legittimo e l’illegittimo nel discorso pubblico non sulla base di un ben perimetrato codice morale, ma intorno alle linee incerte della libertà individuale. Non è con la coercizione che il politicamente corretto si è insediato. E’ stato un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza, articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti, non imposto con il manganello della buoncostume. E’ lo strumento di protezione degli indifesi, dei più deboli, delle minoranze oppresse, dicevano i suoi difensori, e l’argomento potrebbe essere ripetuto anche da Mark Zuckerberg per giustificare l’esclusione da Facebook dei testi che contengono la parola “frocio” (termine che compare in questo articolo al solo scopo di sfruculiare l’ottuso algoritmo).

Paglia è passata in mezzo a tutte le fasi della guerra del politically correct. Faceva il primo anno di università nello stato di New York quando gli studenti di Berkeley guidati da Mario Savio manifestavano per la libertà di parola, gettando i semi della controcultura; in tasca aveva sempre una copia di “Howl” (“la mia bibbia”, dice) il poema di Allen Ginsberg censurato per oscenità. Nel 1957 la polizia aveva perquisito – e contestualmente devastato – la libreria di San Francisco che con inaccettabile affronto aveva continuato a vendere il volume; nei primi anni Novanta, quando il politicamente corretto si è coagulato in un sistema di regole per lo più non scritte, diventando convenzione dopo essere stato pulsione, la femminista contromano era sulla copertina del New York magazine con uno spadone medievale davanti al Museo d’arte di Philadelphia: una “women warrior” a presidio della libera cittadella della cultura contro gli attacchi del politicamente corretto.

Non che lo schema del politicamente corretto oggi sia stato superato, anzi. Nella sua veste più minacciosa di “hate speech”  – un politicamente corretto con il turbo – il canone che regola l’indicibile nel discorso pubblico è diventato pervasivo e meccanico, s’è infiltrato nella rete sotto forma di cavillosi termini d’uso che si accettano senza leggere; nelle università americane è sempre più frequente il fenomeno del “disinvito” di oratori che possono offendere la sensibilità di qualche gruppo minoritario; sul giornale di Harvard lo scorso anno una studentessa suggeriva di abbandonare la finzione della “libertà accademica” e di selezionare in modo finalmente esplicito quali eventi approvare e quali no sulla base della compatibilità ideologica con una certa tavola di valori che l’università di fatto promuove (e a parole nega). Il massacro islamista nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi ha rinfocolato il dibattito sulla libertà di espressione e sui suoi limiti. Per qualche settimana siamo stati tutti Charlie, poi l’occidente benpensante è tornato al suo business as usual: il New York Times non ha pubblicato le vignette di Maometto per non offendere i lettori musulmani, Facebook le ha censurate per non far arrabbiare il governo turco e l’editorialista David Brooks ha fatto notare un’indiscutibile verità: un giornale come Charlie Hebdo “non sarebbe durato trenta secondi” in qualsiasi università americana. Si sarebbero sollevate proteste indignate, minoranze offese avrebbero manifestato e finanziatori altrettanto offesi avrebbero protestato con argomenti molto più convincenti.

Lo stesso magazine che ritraeva Paglia fra armature medievali quasi quindici anni fa ha pubblicato di recente un saggio sul politicamente corretto di Jonathan Chait, opinionista di tendenza liberal, di cui il Foglio ha dato conto la settimana scorsa. Chait si scaglia contro la dittatura del politicamente corretto e per capire che ha messo il dito in una piaga insanguinata del dibattito basta leggere alcune delle violente reazioni all’articolo da parte di esponenti di minoranze e sottoculture che esigono protezione da parte della polizia del linguaggio. Il ragionamento dei critici suona così: Chait può permettersi di attaccare il politicamente corretto perché è un maschio-bianco-etero-ricco, se soltanto uscisse per un attimo dalla bolla di privilegio sociale in cui vive capirebbe che le regole per non offendere le minoranze sono un bene sociale imprescindibile. Questo tanto per dire dove può portare la foga iconoclasta del movimento anti-anti-politicamente corretto, che legge qualunque episodio come figura dell’universale dialettica fra oppressori e oppressi.

Il cuore del saggio di Chait, però, era il tentativo di dimostrare che il politicamente corretto non è figlio del liberalismo, ma ne è una perversione, un tradimento introdotto dalla sinistra radicale d’impostazione marxista e inclinazione totalitaria. Nello schema di Chait c’è una sinistra buona e liberale che disprezza la correttezza politica e innalza monumenti al “free speech”, e una sinistra cattiva che con un rasoio ideologico raschia via dal discorso pubblico ciò che è incompatibile con il suo pensiero, e usa come scusa la difesa delle minoranze.

La guerriera Camille Paglia prende a spadate questa rappresentazione, e in una conversazione con il Foglio ripercorre la genesi del politicamente corretto in seno (e non al di fuori) alla rivoluzione liberale: “La libertà di espressione era la vera essenza, l’anima della politica di sinistra degli anni Sessanta, che reagiva al conformismo e alla censura degli anni Cinquanta, alla quale si opponevano già prima gruppi radicali underground, i poeti Beat e gli artisti di San Francisco e del Greenwich Village. La libertà di espressione è sempre stato il mio principio e la mia motivazione centrale, parte dell’eredità dei filosofi dell’illuminismo che hanno attaccato con forza le autorità religiose e i privilegi di classe. Proprio per questo è stato incredibilmente scioccante per me il momento in cui i liberal americani hanno abbandonato il free speech negli anni Settanta e hanno inaugurato l’èra del politicamente corretto, per la quale soffriamo ancora oggi. Invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta, la sinistra è diventata una polizia del pensiero stalinista che ha promosso l’autoritarismo istituzionale e ha imposto una sorveglianza punitiva delle parole e dei comportamenti”.

La sottesa analogia con la dinamica che dalla rivoluzione giacobina e ai suoi ideali di liberté ecc. conduce al terrore è certamente politicamente scorretta, e Paglia da sempre mischia maliziosamente il registro dell’analisi a quello della provocazione (solitamente quando l’interlocutore pensa si tratti di provocazione in realtà è il frammento di un ragionamento calmo e lucido), rimane da spiegare il perché, e forse anche il come. Perché la sinistra ha abbandonato le sue aspirazioni di libertà per rintanarsi nel fascismo di sinistra? “Per capirlo – dice Paglia – dobbiamo innanzitutto esaminare il fallimento della sinistra nel comunicare e capire la maggioranza dell’America, il mainstream. Il documentario Berkeley in the Sixties, uscito nel 1990, mostra una serie di errori strategici fatti dalla sinistra, che, ad esempio, ha deciso di associarsi a movimenti che promuovevano il disordine civile. Questo ha portato a una reazione culturale fortissima, la quale ha contribuito al risultato delle elezioni del 1968: Richard Nixon è diventato presidente, ed è nato un enorme movimento conservatore a livello nazionale”.

Così la destra è riemersa sulla scena politica grazie alle contraddizioni interne della sinistra, mentre i liberal scottati dal l’arrivo di Nixon “si sono infiltrati nelle università”. Erano i primi anni Settanta, ricorda Paglia, “proprio quando ho cominciato a insegnare”. Questa sinistra che si è riversata nell’accademia “ha fatto pressioni enormi sugli organi di governo dei college per introdurre cambiamenti di sistema che poi sarebbero diventati la struttura base su cui è stato costruito tutto l’edificio del politicamente corretto: sono nati dipartimenti autonomi e autogestiti di studi femminili, studi afroamericani, chicano eccetera. Questi programmi ispirati dalla ‘politica dell’identità’ erano basati innanzitutto sull’ideologia, non su standard di qualità in termini di ricerca. I professori venivano assunti in quanto true believer e il dissenso da un codice approvato non era tollerato. Ero orripilata dai rigidi dogmi e dalla mediocrità intellettuale di tutto questo: oggi è la routine dell’accademia americana”.

I dipartimenti umanistici sono stati occupati dai discendenti della sinistra illuminata e liberale, non soltanto dai radicali marxisti, i quali invece occupavano inespugnabili e tuttavia isolate roccaforti universitarie. “Nei decenni – continua Paglia – i pensatori indipendenti che cercavano di fare carriera nelle humanities sono stati cacciati dalle università. Ho avuto a che fare con questo fascismo dottrinario in tutti i modi possibili. Esempio: il mio primo libro, ‘Sexual Personae’, che criticava l’ideologia femminista convenzionale, è stato rifiutato da sette editori prima di essere pubblicato nel 1990, nove anni dopo che avevo finito di scriverlo. Per fortuna quello era un momento in cui si stava discutendo del politicamente corretto sui media per via di certi codici linguistici imposti da università tipo la University of Pennsylvania. Non mi è dispiaciuto quando il magazine New York ha deciso di dedicarmi la storia di copertina, anzi se devo dire la verità l’idea della spada è stata mia”.

A quel punto, però, i dettami del politicamente corretto avevano penetrato a tal punto la cultura che i giornali di sinistra accusavano Paglia di essere una conservatrice (“accusa isterica che non aveva alcun senso: avevo appena votato per l’attivista ultraliberal Jesse Jackson alle primarie democratiche, sono ancora registrata per il Partito democratico e ho sostenuto, anche finanziariamente, il Green Party”) e la ragione della reazione convulsa, spiega, è semplice: “La sinistra è diventata una frode borghese, completamente separata dal popolo che dice di rappresentare. Tutti i maggiori esponenti della sinistra americana oggi sono ricchi giornalisti o accademici che occupano salotti elitari dove si forgia il conformismo ideologico. Questi meschini e arroganti dittatori non hanno il minimo rispetto per le visioni opposte alla loro. Il loro sentimentalismo li ha portati a credere che devono controllare e limitare la libertà di parola in democrazia per proteggere paternalisticamente la classe delle vittime permanenti di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. La sinistra americana è un mondo artificiale prodotto dalla fantasia, un ghetto dove i liberal si parlano solo con altri liberal. Penso che la divisione politica fra destra e sinistra sia moribonda e vada abbandonata, abbiamo bisogno di categorie più flessibili”.

Il “free speech” è un concetto morto nel cuore della sinistra, ma a morire, più tragicamente e meno concettualmente, sono anche i vignettisti che disegnano Maometto per rivendicare la libertà d’espressione. In America molti giornali mainstream non hanno voluto ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, cosa pensa di tale scelta?

“Dato che le vignette di Charlie Hebdo erano disponibili in rete, non capisco perché i grandi giornali avrebbero dovuto ripubblicarle, esponendo i loro staff a potenziali pericoli da parte di fanatici senza scrupoli. I direttori poi possono anche indulgere in gesti nobili e simbolici, barricati come sono dietro sistemi di sicurezza molto più sofisticati di quelli della redazione di Charlie, ma di solito a pagare il prezzo più alto sono gli inservienti, le guardie, i custodi”. Un’esibizione di prudenza che non ci si aspetterebbe da un’intellettuale venuta fuori dalla sinistra, ma a ben vedere Paglia ha passato tutta la vita a combattere una élite che sbandierava la libertà come valore supremo; la femminista che combatte il dogma dell’uguaglianza dei ruoli e la lesbica che difende la differenza sessuale come base antropologica dell’occidente: “Guarda, sono una militante della libertà di espressione e un’atea, ma rispetto profondamente la religione come sistema simbolico e metafisico. Odio profondamente le becere derisioni alla religione che sono un luogo comune dell’intellighenzia occidentale secolarizzata. Ho scritto che Dio è la più grande idea che sia venuta all’umanità. Niente dimostra l’isolamento della sinistra dalla gente quanto la derisione della religione, che per la maggior parte degli uomini rimane una caratteristica vitale della loro identità. La magnifica ricerca di significato, dunque religiosa e spirituale, degli anni Sessanta si è persa nella politica delle identità dei Settanta. Le vignette di Charlie Hebdo erano crude, noiose e infantili, insultavano il credo di altre persone senza nessuna vera ragione artistica. Il massacro è stata un’atrocità barbara e la libertà di espressione deve essere garantita in tutte le democrazie moderne. Ma quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”.

Michel Houellebecq nel suo libro “Sottomissione” parla esattamente dell’assenza di un’alternativa secolare all’altezza dell’immaginario religioso, che finisce per affermarsi nella vuota libertà dell’occidente perché porta un surplus di significato. Paglia non ha letto il libro dello scrittore francese né lo farà. Nessuna antipatia particolare, soltanto “non leggo romanzieri contemporanei”. E qui Paglia s’infervora: “A meno che non abbiano una diretta esperienza da zone di guerra, gli scrittori odierni non hanno nulla da dirci sulla crescente instabilità del mondo di oggi. Cosa sa esattamente Houellebecq del presente a parte quello che tutti leggiamo sui media? Per capire il presente leggo sempre testi di storia e religioni comparate. Siamo in un periodo simile a quello del tardo impero romano, quando una élite sofisticata, secolare e con uno stile di vita sessualmente libero pensava che il suo mondo fosse eterno. Il suo vuoto spirituale era la sua condanna. Quella che è arrivata dalla Palestina era una religione di passione e mistero che valorizzava il martirio. L’occidente ha perso la strada, che cos’ha da offrire oggi? Può anche essere che il vecchio conflitto con il mondo islamico sia il fattore primario nel determinare la storia nel prossimo secolo. Ma non possiamo capire cosa sta succedendo senza tornare alle nostre radici culturali e ricostruire un senso di rispetto per la religione”.

Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale".  «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.

«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.

L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale".  E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana. È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.

La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale".  In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.

L’UBBIDIENTE DEMOCRATICO di Luigi Iannone. L’intento di questo libro è quello di misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo. Viviamo un mondo in cui siamo allo stesso tempo attori e registi di una enorme sinfonia pervasa dal politicamente corretto tanto che per rintracciarne gli echi non dobbiamo fare molta fatica. Basta soffermarsi sugli accadimenti più banali, sui fatti di cronaca o di costume, sul linguaggio della politica o dei media. È sufficiente indugiare con animo libero su ognuno di essi per rendersi conto quanto sia difficile farne a meno. “Luigi Iannone, scrittore non allineato dalle frequentazioni raffinate, con questo libro ci accompagna nei sentieri poco battuti, lontani dal politicamente corretto. L’autore si propone di ricostruire un mosaico ‘differente’ tra presente, passato e futuro, per ribaltare schemi, épater le bourgeois, non facendo concessioni alla morale comune, ordinaria, canonica, maggioritaria nell’establishment e nell’immaginario collettivo progressista.” dalla prefazione di Michele De Feudis.

Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico <<(…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.

Libri. “L’Ubbidiente Democratico” di Iannone: per distinguersi dalla ridente polis dei corretti, scrive il 20 settembre 2016 Isabella Cesarini su "Barbadillo". Si spalanca con un’affermazione di Carmelo Bene, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show – 1994, l’ultimo libro dello scrittore Luigi Iannone. Corsivo che diviene principio guida dell’opera L’Ubbidiente Democratico, nell’esergo del genio salentino: “Non me ne fotte nulla del Ruanda. E lo dico. Voi no. Non ve ne fotte ma non lo dite”. Si tratta di una dichiarazione, all’interno della quale non si trovano i caratteri di quel “corretto” che attualmente siamo tutti obbligati a indossare. Iannone si inoltra all’interno di un campo minato che pochi hanno l’ardire di calpestare. Il suo soliloquio si fa dapprima parola e poi pagina scomoda, poiché lontana da quello spazio così abusato e gremito del politicamente corretto. Una città immaginaria solo nel nome, zeppa di tante bravissime persone, altrettanti buoni propositi, tutti così realizzabili, ma solo nell’evanescenza dell’incompiuto. E guai a non pensarla come gli abitanti di questa ridente città: marchio d’infamia e foglio di via. In assenza di cotanto calore, l’apolide si ritrova rapidamente isolato, ma certamente sereno in compagnia di quelle idee ritenute così scomode. Pensieri come lampi; zampilli che attraversano anche gli autoctoni della lieta cittadella, ma restano sconvenienti e dunque la scelta ricade sulla comodità di restare distesi sul proprio personale divano del tacere. E rimanendo nel tema morbido del salotto, lo stesso scrittore confessa il suo – e non solo – incubo ricorrente. La vicenda onirica si svolge nel salotto più famoso e corretto d’Italia: la casa immacolata di Fabio Fazio. Cortese sino alla nausea, accogliente nelle ospitate degli abitanti della città ubbidiente: Fiorella Mannoia, Corrado Augias che in un altro alloggio ancor più confortevole illumina d’immenso Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini. Ancora un passaggio sull’agiata villa di Lilli Gruber che invita Roberto Vecchioni, Jovanotti e compagnia lealmente cantando. Un ripiegamento onirico, nello specifico meglio noto come incubo, dove i buoni e i giusti si avvicendano nelle notti turbate dello scrittore. Al risveglio, il tedio risulta meno onirico, ma ugualmente corposo. Quello di Iannone è un percorso che svela acutamente molte annose questioni e ripetuti meccanismi. Il cantante Simone Cristicchi è uno di quei casi, che da un certo punto in poi, entra di diritto nella categoria dei ripudiati dagli ubbidienti. Portando in scena lo spettacolo dal titolo Magazzino18, legato all’ostico argomento dei martiri delle foibe e il dramma degli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia, Cristicchi si fa velocemente indegno della residenza sotto la volta dei corretti. All’esterno di un tale phanteon di purezza, lo scrittore Iannone colloca una figura leggendaria che trattiene tutti i caratteri del mito: Hiroo Onoda. Non come l’icona di un eccesso idealistico, quanto la delicata e meritevole descrizione di una creatura, che da lontano, si rivolge direttamente alla nostra voce interiore. Accade in questo piccolo uomo, un’espressione dell’onore nell’aderenza a quella meravigliosa forma di amor patrio, stimato malamente come espressione desueta e oltremodo scorretta. Diverso il discorso per i nostri Presidenti della Repubblica, tutti, da un momento storico in poi, cittadini onorari della cittadella corretta. Non più latori del potere temporale, ma cavalieri senza macchia, custodi eterni del potere spirituale. Figure immacolate con vite prive di umani buchi neri: coerenza e sacralità. Dunque papi e non capi di Stato in odor di santità e non in tanfo di muffa. Iniziato dallo storico revisionista Ernst Nolte, allo spirito critico che si fa maniera di voler scomporre e sezionare anche il più ameno dei luoghi comuni, Iannone procede come un bulldozer verso le considerazioni scolastiche. Con uno sguardo nostalgico a quella che ritiene l’ultima degna del nome di riforma, nella persona di Giovanni Gentile, opera una non poco interessante distinzione tra scuola come istituzione e studio. Non necessariamente le due cose coincidono. L’autore stesso, si dichiara tanto avverso alla scuola, quanto devoto all’apprendimento e all’approfondimento. Caratteristica che si dovrebbe considerare virtù, anche in merito al fatto di essere stata patrimonio di molti nomi altisonanti. A fronte del fatto che personalità come Croce e Prezzolini non raggiunsero l’incoronazione in pianta di alloro, attualmente presunti rapper, assolvono il ruolo di oracolo. Il reietto dell’arcadica cittadella dell’ubbidiente, raggiunge l’apoteosi della sua posizione in una più che scontata affermazione: “Chi sbaglia, paga”. Un coro di indignati si leva davanti a una dichiarazione così poco chic, qualunquista e fuori da ogni apericena. E anche se il profano proclamatore, circoscrive il suo pensiero nella premessa, che alcuno deve essere trattato in maniera deprecabile, non risulta comunque socialmente accettabile. Ed è proprio in tale incrocio tra la tolleranza a oltranza e la volontà di ridurre al minimo gli effetti di ogni dramma che le due strade si confondono, sino ad annullarsi all’unisono. Al contrario, accolti con una certa deferenza sono coloro che Montanelli sintetizzava nel termine “firmatari”. Una categoria numerosa che pone la sua firma ovunque, contro o in favore, poco importa. L’atto apprezzabile prescinde la causa e premia l’atto: l’autografo. Nell’Eden degli ubbidienti, persino il tempo è differente: l’unico imperativo è nella rapidità. Elemento imprescindibile che qualifica ogni tipo di legame sentimentale, amicale o lavorativo. Ogni traccia di sequenzialità, qualsiasi tratto di gradualità, necessari alla civiltà, vengono prontamente inghiottiti dalla velocità che svilisce il naturale processo di crescita identitaria e comunitaria. L’autore ci porta, non privo di un tono amaro, finanche all’interno delle rovine di Pompei. Non vi è modo di uscire da un’impasse dove si gioca al rimbalzo di responsabilità tra ministri, soprintendenti, sotto, di lato o ad angolo, se non mediante un paradosso. Singolarità, che si dispiega nella sopravvalutazione di alcuna arte contemporanea, a scapito di meraviglie antichissime e intramontabili. Alla bellezza che naturalmente affascina, l’esempio in un’emozione provata di fronte alla grandezza di un Caravaggio, si preferisce cercare il significato ancestrale di un ortaggio steso a terra in qualche galleria d’arte nel mondo. Allora, il trionfo appartiene a quel lato deteriorabile, che si elegge a tutto, con le virgolette di occasione intorno alla parola arte. Nell’incontaminato mondo degli ubbidienti, lo scrittore ci guida altresì, nella spiegazione dell’uso di una certa tipologia di linguaggio. Il mansueto democratico adopera una lingua che si esaurisce tutta nel trionfo della premessa. Un’epifania che accoglie qualunque argomento, puntualmente preceduto da un mantra, una sorta di nenia: “premesso che non ho nulla contro…”. Un noiosissimo preambolo che scagiona preventivamente da qualsiasi accusa, eccezion fatta per quella di viltà. Poiché non vi è mai l’ardire e/o semplicemente l’onestà di dire ciò che intimamente si pensa. Troppo rischioso, eccessivamente inelegante e dannoso sino alla cacciata dal borghetto della compostezza. L’opera di Luigi Iannone figura un invito alla riflessione, all’ascolto di una voce dissenziente come arma di difesa dallo smottamento di informazioni che quotidianamente ci cade indosso. Un sovraccarico di notizie, dove difficilmente si trova la bussola per l’orientamento. Se risulta poco agevole farlo nelle strade, almeno si provi un tipo di ribellione, forse più adatta alla nostra società; insorgere verso quella diffusa e prepotente forma di conformismo che si fregia nel vezzo del mascheramento anticonformista. Lo spirito libero all’interno di una cittadina tutta edificata sulla compostezza democratica, tende ad apparire alla stessa maniera dello zio pazzo in Amarcord di Federico Fellini, nella splendida interpretazione di Ciccio Ingrassia. Iannone ci dona un sapiente parallelo cinematografico per descrivere la considerazione che abbraccia coloro che provano a non appiattirsi sulla melassa perbenista: i matti del paese. E se l’autore apre in Carmelo Bene, chi scrive si permette – solo dopo aver sollecitato la lettura di questo pungente pamphlet – di usarlo in conclusione da un estratto del Maurizio Costanzo Show – 1995: “Qualcuno ed era davvero anche lui un genio, ha detto che la democrazia è il popolo che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo”.

Ecco come distruggere il politicamente corretto, scrive l'1/11/2016 “Il Giornale”. Ci voleva qualcuno che lo scrivesse e Luigi Iannone lo ha fatto: “provate a dire banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti”. L’idea del giornalista e scrittore, frequentatore abituale del pensiero di Jünger e amico personale del defunto Ernst Nolte, è balenata a molti, ma ci voleva il suo libro per esprimerla appieno. Il titolo è L’ubbidiente democratico. Come la civiltà occidentale è diventata preda del politicamente corretto (Idrovolante Edizioni, pp. 138, Euro 13) e spiega come “incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze”. E via con esempi eclatanti su cose che tutti sanno ma è meglio tacere, per non rischiare gli insulti di cui sopra. Quindi, vietato dire che la Kyenge è diventata ministro grazie al colore della sua pelle, che le quote rose sono una forma di sessismo alla rovescia, un contentino da dare alle donne, un po’ come piazzare un filo di perle su un severo gessato da ministro. Guai a dire che certi delinquono, perché Caino non si tocca e se Abele se la passa male sono fatti suoi: i criminali vanno capiti. Guai a toccare il capo dello Stato, che pare il Santo Patrono del politicamente corretto. Che di questo si tratta, e basta. Di una dittatura soft, che ha messo da una parte i buoni e gli intelligenti – ossia gli ubbidienti al credo unico imposto dalla vulgata radical chic – e dall’altra i cafoni, gli ignoranti, gli imbecilli, i puzzoni. Ossia, quelli che provano ancora a ragionare con la propria testa e non si lasciano influenzare. L’importante, però, è tacere. Per non fare la fine degli abitanti di Gorino i quali, non avendo voluto gli immigrati, sono i mostri del momento. Quelli di Capalbio, che pure non li hanno voluti, invece se la sono cavata. Chissà perché… ma questa, in fondo, è tutta un’altra storia.

Questo libro è un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Pensate di essere liberi di esprimervi come vi pare? Provate a esporre tesi anticonformiste durante una cena, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". La libertà d'espressione è meravigliosa e noi tutti siamo convinti di poterla esercitare. Fino a quando scopriamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti, per chi professa certe idee, non incendiarie ma comunque non allineate al pensiero unico, c'è la riprovazione del mondo culturale, che si esprime in due modi: il silenzio e l'insulto delegittimante. In libreria domina ormai il Saggio Unico, figlio del Pensiero Unico. È solare: su alcuni temi si può parlare in un solo modo, quello prescritto dal politicamente corretto. L'islam? È una religione di pace. Il libero mercato? Il vero responsabile di tutte le ingiustizie del mondo. L'accoglienza indiscriminata degli immigrati? Un dovere morale e una necessità per sostenere l'economia del Vecchio continente. A proposito, l'Europa? Una magnifica istituzione senza la quale saremmo ancora più poveri e perpetuamente in guerra come nel XX secolo. L'appartenenza al genere maschile o femminile? Uno stereotipo culturale da superare. Avere figli? Un diritto. L'adozione alla coppie omosessuali? Un diritto. L'eutanasia? Un diritto. Tutti abbiamo diritto a tutto. Abbiamo perfino diritto a dire che le cose elencate, o almeno alcune di esse, non ci trovano d'accordo. Ma se lo esercitiamo, ecco il nastro adesivo sulla bocca per impedirci di parlare e le accuse infamanti: ignorante, xenofobo, razzista, islamofobo, omofobo. Non se ne potrebbe almeno parlare, confrontarsi, dibattere? In teoria, sì. In pratica, no. Se non ci credete, guardate lo spazio occupato dalle idee anticonformiste nelle librerie, nei programmi televisivi, nei festival, nei convegni. È prossimo allo zero. Per questo, il libro di Camillo Langone "Pensieri del lambrusco. Contro l'invasione" (Marsilio, pagg. 180, euro 16; in libreria dal 3 giugno) è un'autentica rarità. L'autore, firma de il Giornale, mette in fila tutte le ideologie che considera rovinose per se stesso e per l'Italia. Ne esce un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Langone, spesso partendo dalla notizia di cronaca, a volte di cronaca culturale, colpisce senza paura proprio nei punti più controversi, e ci mostra che quando un'idea, perfino buona, viene trasformata in ideologia, produce disastri. Nel mirino ci sono i nuovi -ismi: l'ambientalismo, l'americanismo, l'animalismo, l'estinzionismo, l'esibizionismo, l'europeismo, l'immigrazionismo, l'islamismo... Pagina dopo pagina, gli intellettuali che vanno per la maggiore sono ferocemente dissacrati (vedi il teologo-non teologo Vito Mancuso alla voce ateismo). Al loro posto, autori che insegnano a pensare: Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Michel Houellebecq e altri. Cosa c'entra il lambrusco del titolo? Di fronte alla liquidazione dell'Italia, meglio rifugiarsi «nell'unico vero vino autoctono italiano» invece di ricorrere a «dozzinali vitigni alloctoni». Già, perché alla fine, il libro di Langone si e ci interroga su cosa significhi essere italiani ai nostri giorni. Per i nichilisti, nulla. Ma Langone non è un nichilista.

Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto, scrive Carlo Lottieri, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia. In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung. Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra. È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato. Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa. Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano. Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx. Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi. Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa. Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo. Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura. È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa. Carlo Lottieri

Bret Easton Ellis choc: il politicamente corretto uccide la nostra cultura. Lo scrittore americano e il critico Alex Kazami contro movimenti antirazzisti e nazi-femministe, scrivono Andrea Mancia e Simone Bressan, Martedì 4/10/2016, "Il Giornale".  "Che diavolo è successo agli MTV Music Awards? Niente di inquietante o scioccante, nessuna Miley Cyrus strafatta che insulta Nicki Minaj sul palco, nessun tipo di provocazione e dunque nessun attimo di divertimento. Tutti invece, vanno d'amore e d'accordo nel celebrare quella falsa inclusività politicamente corretta che ormai è diventata terribilmente noiosa e che, probabilmente, è la causa del vertiginoso crollo nel numero di telespettatori che ha seguito lo show". A Bret Easton Ellis, lo scrittore americano autore (tra l'altro) di Less Than Zero e American Psycho, l'edizione 2016 dei Video Music Awards, organizzata lo scorso 29 agosto da MTV al Madison Square Garden di New York, proprio non è piaciuta. E durante l'ultima puntata del suo podcast ha letto integralmente un monologo del giovanissimo scrittore (e critico-provocatore) canadese Alex Kazami che spara a zero contro gli eccessi politically correct di una cerimonia ormai diventata un gigantesco spot per «Black Lives Matter», il movimento finanziato anche da George Soros che accusa le forze di polizia statunitensi di essere intrinsecamente razziste nei confronti della comunità afro-americana. Kazami, che non incarna esattamente lo stereotipo del vecchio trombone della destra conservatrice, visto che è un millennial di 22 anni dichiaratamente gay, è ancora più feroce di Ellis. "Il Black Lives Matter Sabbath che è stato rappresentato ai Video Music Awards 2016 rappresenta la fine della cultura per come la conosciamo. L'intero show è stato un'ode alla narrativa liberal secondo la quale, visto che i bianchi sono tutti cattivi, almeno una persona su due tra quelle inquadrate dalla telecamera deve essere una donna di colore, perché siamo costantemente angosciati dalla necessità di non terrorizzare una generazione di spettatori cresciuta con una dieta di spazi di sicurezza, auto-vittimizzazione e trigger warning (l'avvertimento che segnala la possibilità che un testo possa essere offensivo per qualcuno, ndr)". Una scelta, secondo Kazami, totalmente ipocrita e dettata soltanto da strategie commerciali: "MTV non vuole esporre il suo pubblico a un immaginario pop pericoloso, per paura di offendere qualcuno, a meno che questo immaginario non ricada sotto il mantello protettivo del politicamente corretto. Ma la musica pop deve essere offensiva, non politicamente corretta". "La maschera imposta allo show continua il giovane scrittore canadese è stata un melenso tentativo di dipingere ogni artista sul palco come un campione di bontà, indulgendo continuamente in riferimenti al movimento Black Lives Matter, alla brutalità della polizia, a Martin Luther King. Questo era il copione, il dogma a cui tutti hanno obbedito. Ed era palpabile il terrore che qualcuno potesse esprimere un'opinione contraria al dogma. È proprio questo che sta uccidendo la nostra cultura: la paura di essere puniti per non aver aderito integralmente a questa ideologia collettiva del politicamente corretto". Il principale obiettivo delle critiche di Ellis e Kazami, con ogni probabilità, è stata l'interminabile performance di Beyoncé (vincitrice addirittura di otto premi), che nella sua coreografia ha esplicitamente fatto riferimento agli afro-americani uccisi dalla polizia (con i ballerini che crollavano al suolo dopo essere stati colpiti da una luce rossa) e che sul red carpet ha sfilato insieme alle madri di Mike Brown, Trayvon Martin ed Eric Garner, i tre uomini di colore che con la loro morte sono diventati il simbolo di «Black Lives Matter» (e una scusa per la guerriglia urbana scatenata dal movimento in molte città americane). Ellis, in ogni caso, non è nuovo alle polemiche sugli eccessi del politicamente corretto e dei social justice warriors. Ad agosto, sempre sul suo podcast, se l'era presa con le "femministe isteriche" e "naziste del linguaggio" che avevano attaccato il critico musicale del Los Angeles Weekly, Art Tavana, per un presunto articolo "misogino" sulla cantante (e modella) Sky Ferreira. Per Ellis, queste femministe di nuova generazione sono diventate "nonnine aggrappate alle proprie collane di perle, terrorizzate dal fatto che qualcuno possa pensare qualcosa, su un qualsiasi argomento, che non sia l'esatta replica delle loro opinioni". "Queste piagnucolose narcisiste afferma Ellis utilizzano l'altissimo tono morale tipico dei social justice warriors, sempre fuori scala rispetto alle cose per cui si offendono. E si stanno trasformando in piccole naziste del linguaggio, con le loro regole di indignazione prefabbricata, invocando la censura ogni volta che qualcuno scrive, o dice, qualcosa che non aderisce completamente alla loro visione dell'universo". "Questa sinistra liberal che si auto-proclama femminista conclude l'autore di American Psycho è diventata così iper-sensibile da essere ormai entrata in una fase culturale di autoritarismo. È qualcosa di così regressivo e lugubre da assomigliare terribilmente a un film di fantascienza distopica, ambientato in un mondo in cui è permesso un solo modo per esprimersi, in un clima di castrazione collettiva che avvolge tutta la società".

Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. Il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

Annalisa Chirico fra femminismo e provocazione, scrive Benedetto Marchese su “Città della Spezia”. L'autrice racconta a Cds il suo libro "Siamo tutti puttane" presentato anche nella rassegna "I grandi temi" di Bocca di Magra: "Quote rosa? Solo se c'è competenza". “Provocare significa sciogliere il proprio pensiero e lasciarlo libero di muoversi e concepire qualcosa per noi e per gli altri. Nella società di oggi c'è una cautela estrema che frena tutto questo”. Ospite nel salotto di Bocca di Magra di Annamaria Bernardini De Pace e della sua rassegna letteraria dedicata quest'anno proprio alla provocazione, la giornalista e saggista Annalisa Chirico sintetizza così il filo conduttore della manifestazione nella quale ha presentato il ultimo libro “Siamo tutti puttane” (sottotitolo “Contro la dittatura del politicamente corretto”), senza distinzioni di genere e ispirato dal Processo Ruby. “Seguendo le udienze – racconta a Cds la collaboratrice di Panorama e Il Foglio – mi sono resa conto che l'imputato non era più Berlusconi ma quelle ragazze le cui vita privata veniva vivisezionata e giudica di fronte al grande moralizzatore pubblico. Era diventato un processo al senso del pudore e il codice morale si stava sostituendo a quello penale, si parlava solo di gusti sessuali. Il mio libro – prosegue – è invece un grido di rivolta contro il moralismo e il politicamente corretto: ognuno ha il diritto di scegliersi la vita che vuole, e di lavorare per realizzare i propri sogni, anche rischiando di farsi del male”. Edito da Marsilio e pubblicato dopo i precedenti “Condannati preventivi” e “Segreto di Stato – il caso Nicolò Pollari”, il libro delinea anche il pensiero dell'autrice sul femminismo e il ruolo della donna nella nostra società. “Ho concluso il mio dottorato con uno studio sul corpo della donna – prosegue – e mi ritengo una femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione: ciascuna di noi può sentirsi Madonna o puttana ma non deve sottostare a delle regole. Sono critica verso le Taleban-femministe che hanno fatto di quel processo solo una battaglia politica contro Berlusconi per poi sparire subito dopo. Negli anni Settanta le femministe scendevano in piazza al fianco delle prostitute, oggi troviamo una parte di quella sinistra sui palchi a puntare il dito contro altre donne che ritengono degradate e che discriminano. Un movimento che è diventato braccio armato della politica e che è stato respinto, sempre nella stessa area, da coloro che quarant'anni fa avevano lottato per i diritti delle donne. Si sono occupate delle “Olgettine” ma non delle arabe o italiane che vivono segregate. Un problema che riguarda tutto l'Occidente che non si preoccupa di tutelare ad esempio le eroine di Kobane che vengono lasciate sole a combattere contro l'Isis”. Chirico, origini pugliesi e romana d'adozione, non si sottrae poi ad un commento sull'episodio avvenuto pochi giorni fa su una spiaggia di Fiumaretta con vittima una giovane ripresa con il compagno in un video che ha girato sugli smartphone di mezza Val di Magra ed è finito anche sui giornali. “Dobbiamo capire che le giovani d'oggi sono molto più disinibite e se da un lato queste cose possono accadere normalmente, dall'altro dovrebbe esserci un limite da parte di chi le pubblica o le condivide”. Attratta fin da piccola dalla politica e con un passato fra i Radicali di Pannella l'autrice rivela invece una distanza convinta dalla militanza: “Ne sono stata interessata, ora la seguo solo per mestiere, ho votato poche volte e mi sono astenuta sempre senza pentimento. Le quote rosa in politica? Scegliere donne competenti è importante – conclude – farlo solo per rispettare la parità è del tutto inutile”.

Chi è Annalisa Chirico, la paladina del femminismo liberale. La giovane scrittrice e opinionista ha pubblicato un libro dal titolo esplicito, “Siamo tutti puttane”, nel quale polemizza contro il femminismo radical-chic di certa sinistra e invoca la libertà per un nuovo femminismo, scrive I.K su "Gossip di Palazzo" venerdì 23 maggio 2014. 28 anni dalla penna tagliente, aspetto piacente che male non fa, autodefinitasi “liberale, tortoriana, radicale” sulle pagine delle sue biografie online, sul proprio sito personale e sul blog di Panorama "Politicamente scorretta" che gestisce personalmente, dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma: Annalisa Chirico è una delle giovanissime opinion-maker della carta stampata e dell’editoria digitale che stanno mettendo a dura prova le giornaliste di una volta grazie ad una buona dose di sfacciataggine e femminile tracotanza. Sulla sua pagina Facebook ci sono moltissime foto con tutti i sostenitori e acquirenti famosi del suo nuovo libro, …La giovane scrittrice e fidanzata di Chicco Testa si scaglia contro le femministe post sessantottine. Autrice di due libri, uno contro l’abuso della carcerazione preventiva “Condannati preventivi” e l’altro sul caso Niccolò Pollari e i segreti di stato tra Usa e Italia, Annalisa Chirico è in questi giorni sulla bocca della politica e del costume italiano per la pubblicazione di un terzo libro dal titolo decisamente esplicito di “Siamo tutti puttane” nel quale, come ha spiegato in un’intervista a Dagospia, rivendica il diritto di ciascuno di farsi strada come meglio può senza dover per forza incappare in trancianti giudizi operati sulla base della morale altrui. Nello specifico mirino del libro della Chirico, lanciato in pompa magna anche grazie all’appoggio una campagna mediatica via Twitter (#SiamoTuttiPuttane è l'hashtag dedicato) con personaggi famosi quali cantanti, giornalisti provocatori come Giuseppe Cruciani e svariate partecipazioni televisive, sono finite le cosiddette taleban-femministe dell’intellighenzia di sinistra, guidate da Lorella Zanardo di Se non ora quando e dalla presidente della Camera Laura Boldrini: il libro, ha spiegato Annalisa Chirico, è nato proprio dall’indignazione che le montava dentro durante il processo alle olgettine, le ragazze prezzolate da Berlusconi per i famosi festini nella villa di Arcore gestiti da Nicole Minetti. A ogni udienza m'incazzavo di più: quelle ragazze, chiamate in qualità di testimoni, in realtà erano imputate, e non per reati del codice penale, ma per i loro costumi privati. Quelle toghe stavano violando i diritti di ragazze che avevano avuto la colpa estrema di accarezzare il potere cercando di inseguire i loro sogni. Embé? Chi siamo noi per giudicare i sogni degli altri? Le taleban-femministe giudicano. Annalisa Chirico ne ha per tutti, specialmente per quello che lei chiama "il boldrinismo" della politica: Io sono femminista, ma il loro è un femminismo perbenista che celebra il modello di donna madre e moglie. Hanno restaurato il tribunale della pubblica morale. Il berlusconismo non t'impone come vivere. Il pericolo del boldrinismo invece è che vuole importi come vivere. E in merito alla sua relazione con Chicco Testa, sessantaduenne ex presidente di Enel e giornalista su molte testate italiane? Annalisa Chirico si riconferma sprezzante del giudizio altrui: Non è l’uomo più vecchio con cui sono stata.

GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.

Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.

Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.

“Frocio” non si dice. “Figlio di troia” sì, scrive Francesco Merlo il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Dunque “frocio” non si può dire e “figlio di troia” sì? E “siciliano mafioso” non è razzismo, mentre “zingaro di merda” lo è? E se fosse ridicolo tutto questo affanno del perbenismo italiano nel compilare classifiche di legittimità dell’insulto? Non si può infatti applicare il politicamente corretto all’ingiuria, non esiste l’offesa sterile, non ci sono parolacce detergenti e anzi spesso il più turpe vaffanculo, quando è lanciato sotto stress e non quando diventa progetto politico, disinnesca il pugno. Le male parole come sfogo, come valvole liberatrici durante uno scontro sul campo di gioco, o sulla strada o persino in Parlamento, fanno muro ai ceffoni, disarmano gli istinti violenti, impediscono le botte, sono l’unico modo di darsele di santa ragione senza farsi male. E chissà se per Mandzukic è più offensiva la parola “zingaro” o la parola “merda”? Ed è più politicamente scorretto Sarri, che ha dato del finocchio a Mancini, oppure Mancini che aveva assolto se stesso quando aveva dato del “finocchio” ad un cronista? E’ infatti una giostra il mondo del politicamente corretto. Basta un piccolo cambio di scena e l’ingiuriante diventa ingiurato come nel film i Mostri dove Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si indigna e si ribella perché gli automobilisti, mentre gli sfiorano il sedere, gli gridano. E Gassman incede su quelle strisce a passo volutamente lento e abusa dell’asilo politico che gli offre il codice della strada: come Mancini, “ci marcia”. Ma poi quando sale sulla sua cinquecento il mostro Gassman sfreccia su quelle stesse strisce mostrando le corna ai pedoni. Più ancora della strada, lo sport è metafora di guerra, la vita combattuta con altre armi, non la politica astrusa e neppure la cultura dei privilegiati, ma il mondo dei sentimenti, materia forse non semplice ma sicuramente selvatica: il mondo del turpe eloquio. E però Konrad Lorenz tratterebbe De Rossi come uno dei suoi spinarelli e non certo come un razzista. Anche Freud sorriderebbe dinanzi alle accuse di omofobia a Sarri. Per non dire di Lévi-Strauss che si sentirebbe beato davanti a tanti selvaggi. Tanto più che, con un formidabile testa-coda, il politicamente corretto avvelena anche i selvaggi. Ieri, nelle tante trasmissioni radio, persino gli ultrà romanisti si sono impasticcati di politicamente corretto e, dando vita alla figura ossimorica dell’ultra per bene, dell’estremista formalista, per salvare il loro De Rossi hanno solennemente stabilito che non essendo Mandzukic uno zingaro non può sentirsi offeso dalla parola zingaro. Con questa logica se dici puttana a una puttana la offendi, se invece lo dici a una signora, va bene. L’importante infatti è non ledere i diritti della minoranza sfruttata (le puttane) anche a costo dell’onore della maggioranza (le signore). Insomma sei un gran maleducato, ma politicamente corretto; sei un vero facchino ma non sei un razzista. Applicando questa logica anche all’ingiuriato, solo un frocio si arrabbia se gli dicono frocio. Dunque se Mancini si arrabbia vuole dire che è frocio? La giustizia sportiva, per trovare delle attenuanti a Sarri, ha accolto questa stramba tesi degli ultrà e ne ha fatto una fonte di legge condannando l’allenatore del Napoli a solo due giorni di squalifica, e per giunta in coppa Italia, a riprova che la nostra giustizia sportiva coniuga le regole con l’humus, la legge con gli umori, in nome del popolo italiano politicamente corretto, vale a dire della curva sud che strologa di diritto, del bar sport dove il tifoso-fedele si traveste da laico. Come si vede, il politicamente corretto della plebe, che di natura è scorretta, è alla fine un pasticcio, è l’innesto del birignao nella suburra. Come se Marione Corsi, l’ex terrorista dei Nar, divo della più importante radio romanista (dice), conducesse “Che Tempo che fa” al posto di Fabio Fazio. Infine c’è la televisione che amplifica e rende caricaturale il politicamente corretto perché costringe a mentire, non conosce sfumature, insegna a parlare con la mano davanti alla bocca e dunque a occultare il corpo del reato, come ha ben spiegato ieri Spalletti, il nuovo allenatore della Roma. Alla Camera dei deputati sono stati vietati per regolamento gli zoom proprio per evitare la lettura del labiale e dunque le indiscrezioni rivelatrici, le schermate dei siti porno visitati mentre si discute della Finanziaria, l’ingrandimento del display del cellulare di Verdini terminale di traffici e commerci, le parolacce dette e scritte nei pizzini che gli onorevoli si scambiano tra loro. E certo non ci piace che sia stata oscurata la casa di vetro della democrazia. Ma una vota Dino Zoff raccontò che dovendo subire un rigore, il suo allenatore Trapattoni gli impartì un ordine in forma di consiglio: buttati a destra perché quello lì calcia i rigori sempre sulla destra. Al momento del tiro, Zoff per istinto avrebbe voluto andare a sinistra, ma prevalse l’obbedienza al Mister. Fu gol. E Zoff scomodò il cielo con una bestemmia e con un insulto secco e forte contro Trapattoni. Lo avesse ripreso la televisione, Zoff sarebbe passato alla storia del calcio come un insolente e un blasfemo, nemico di Dio e del proprio allenatore. Ecco dunque l’ultimo pasticcio del politicamente corretto: la televisione condanna alla trasparenza che però tanto più sembra fedele quanto più è infedele perché travisa mentre mostra, deforma mentre informa. E’ allora meglio nascondersi al politicamente corretto? Oppure è meglio comportarsi come profetizzava Italo Calvino? Conosco un omosessuale che vive in un piccolo paese e che all’insulto “frocio”, che ogni tanto gli capita di subire, reagisce con orgoglio.

Insultare una fascista (incinta) non è reato, scrive Gian Marco Chiocci il 2 febbraio 2016 su “Il Tempo”. Giorgia Meloni non ha bisogno di avvocati d’ufficio, la conoscete, sa difendersi da sola. Ma quel che la fogna di internet le sta vomitando addosso dopo l'annuncio del bebè in arrivo, imporrebbe una risposta dura e bipartisan che a distanza di 48 ore ancora non s'è vista. Madri, padri, figli di, parenti prossimi o trapassati: di insulti familistici la politica si alimenta ogni giorno ma non se n'erano sentiti rivolti a un feto. I cultori della doppia morale, della superiorità intellettuale, culturale ed esistenziale, ci regalano sovente perle di ironia che a parità di sarcasmo, se rivolte a un'immigrata, una lesbica, una politica di sinistra, scatenano reazioni veementi, rimostranze parlamentare, raccolte di firme e sit-in in girotondo. Prendete la Boldrini. Impegnata com'è a far rispettare l'articolo determinativo femminile, "la" presidente della Camera ha espresso solidarietà all'ex ministro solo quando Fabio Rampelli (l'ombra lunga di Giorgia) ha evidenziato la sua partigianeria nell'esprimere solidarietà solo a chi non la pensa come la leader di An. Va detto che anche le politicanti di centrodestra si sono fatte riconoscere. Hanno tergiversato fino a quando non s'è mossa la Carfagna, dopodiché qualcuna ha preso coraggio e s'è indignata. Insomma, se la Bindi è più bella che intelligente, giustamente il mondo s'indigna con Berlusconi. Ma guai a scandalizzarsi se esponenti democratici condividono su facebook Madonna Meloni che concepisce senza peccare oppure ritwittano quel gentiluomo di sua sobrietà di Vladimir Luxuria che cinguetta sperando di tramandare la specie («auguri e figli trans»). Ti sentirai rispondere che è satira, sarcasmo, ironia. Ma sì, minimizziamo. Ridimensioniamo l’accaduto. Lo facevano anche i katanga dell’autonomia operaia quando sprangavano i missini e si difendevano così: «Uccidere un fascista non è reato».

Un orrore sul sito dell'Annunziata: giusto insultare il figlio della Meloni, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2016. Sull'Huffington Post di Lucia Annunziata un intervento di rara violenza contro Giorgia Meloni. A firmarlo è Deborah Dirani, che si definisce "donna, prima. Giornalista, poi". Nel mirino la leader di Fdi-An, bersagliata da insulti e sfottò dopo aver rivelato di essere incinta. E la signora Dirani, de facto, spiega che la Meloni si merita questo tipo di linciaggio. Chiarissimo l'attacco del suo articolo: "Giorgia Meloni è incinta. Giorgia Meloni è una delle responsabili della degenerazione della politica del mio Paese. Di quella politica fatta di esclusione, di negazione dei diritti, di slogan populisti e di intolleranze culturali". Dunque, la Dirani aggiunge che la Meloni "è incinta e io sono ben contenta, dico sul serio". E subito dopo riprende a manganellare: "Ma la gravidanza non fa di lei una persona migliore, non la trasforma magicamente in una donna aperta al diverso da sé. Resta esattamente quella che è e raccoglie esattamente quello che tanto si è prodigata a seminare: intolleranza". Insomma, l'intolleranza raccolta dalla Meloni in questi giorni - ricordiamolo: insulti e sfottò al nascituro, qualcosa di vergognoso che non c'entra nulla con la politica - sarebbe dovuta alla presunta intolleranza del personaggio Meloni. Quale intolleranza? Si suppone il sostenere politiche di destra, una roba che la signora Dirani non può tollerare, tanto che nello stesso, improponibile e violento, commento si spinge a scrivere: "Buona gravidanza, Giorgia Meloni e... Speriamo che sia femmina (volevo aggiungere anche comunista!)".   

Mancini e il politically correct che tarpa le ali alla libertà d'espressione. Froci, zingari, clandestini e handicappati non esistono più. La "neolingua" impone gay, rom, migranti e diversamente abili e ora invade anche i campi di calcio, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 20/01/2016, su "Il Giornale". “Sarri è un razzista, uomini come lui non possono stare nel calcio. Mi son alzato per chiedere al quarto uomo del recupero. Lui ha iniziato ad inveire contro di me, dicendo ‘frocio e finocchio’ Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Persone come lui non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai. Ha 60 anni, si deve vergognare”. Con queste parole Roberto Mancini rischia di inguaiare Maurizio Sarri. I due allenatori hanno avuto un brutto battibecco al termine della partita di Coppa Italia e l’insulto scappato al coach del Napoli rischia di costargli caro. Secondo le norme della Figc chi ha “stop "un comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso" rischia quattro mesi di squalifica che andrebbero scontati anche in campionato. Mancini ha rotto la regola aurea del calcio che può essere riassunta con la frase di un celebre film: “ciò che avviene dentro il miglio verde rimane dentro il miglio verde” e così il web si è diviso su Twitter tra chi scriveva #iostoconMancio e #iostoconsarri. Siamo all’apoteosi del politicamente corretto. Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center ha chiesto un incontro con il presidente del Napoli, Auelio De Laurentis e Carlo Tavecchio, presidente della Figc perché “uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Siamo sicuri che molti di questi benpensanti di sinistra che si indignano per un “frocio” scappato in un campo di calcio, dove gli insulti e le bestemmie sono di casa, sono scesi in piazza a difesa della libertà d’espressione quando l’Isis ha fatto la strage di Charlie Hebdo. Fintanto che si insulta la Chiesa cattolica o qualcuno dipinge un Gesù Cristo immerso nella pipì tutto va bene ma se si dice frocio, zingaro, clandestino, cieco o handicappato allora apriti cielo. Nella neolingua dei benpensanti frocio deve chiamarsi “gay”, il clandestino “migrante”, cieco diventa "non vedente", zingaro “rom” e l’handicappato si trasforma in “diversamente abile”. Come se anche i cosiddetti “normodotati” non siano diversamente abili tra loro. Non tutti gli uomini “comuni” hanno le stesse abilità e anche chi non è in sedia a rotelle, nella maggior parte dei casi, ha abilità diverse se messo a confronto con Rocco Siffredi e Stephen Hawking. Chi vive in sedia a rotelle, chi non vede o chi non sente è, invece, portatore di uno o più handicap, ossia di svantaggi cui non si è ancora è posto il giusto rimedio con un adeguata opera di abbattimento delle barriere architettoniche. Eppure la sinistra cosa si accinge a fare? Una proposta di legge per aumentare le pensioni d’invalidità, al momento ferme a poco più di 200 euro? No, la preoccupazione di Sel è quella di cambiare la dicitura “handicappato” in “diversamente abile” dal testo di legge 104, come conferma al giornale.it da Erasmo Palazzotto, promotore della proposta di legge che arriverà in Parlamento presumibilmente a febbraio. Se si va avanti di questo passo si dovrà chiedere a Iva Zanicchi di cambiare la sua canzone da “dammi questa mano, zingara” a “dammi questa mano, rom”. Dire “frocio” fa scandalo proprio nel momento in cui il governo depenalizza il reato di ingiuria tanto che persino Vittorio Sgarbi, per protesta, ha abbandonato una trasmissione tivù senza insultare nessuno. A breve sarà impossibile anche dare del “cornuto” all’arbitro. Preparatevi al marito con una moglie “diversamente fedele”… Siamo alle comiche finali del politicamente corretto.

Sarri e il solito coro del "Politicamente corretto" a giorni alterni, scrive "Il Piccolo D'Italia il 20 gennaio 2016. Fonte: Fabrizio Verde, Francesco Guadagni e Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico. In occasione della partita di calcio tra Napoli e Inter, valevole per la qualificazione alla semifinale della Coppa nazionale, è entrata in azione la solita ipocrisia e doppia morale di marca italica. Evento scatenante, un litigio tra i tecnici delle due compagini calcistiche Maurizio Sarri e Roberto Mancini. Quest’ultimo, allenatore dell’Inter, nel dopo partita ha lanciato accuse di razzismo nei confronti del tecnico toscano che allena la squadra partenopea, colpevole di averlo apostrofato con i termini ‘frocio’ e ‘finocchio’. Per Maurizio Sarri, che dichiara di non ricordare le parole esatte ma si è scusato a telecamere spente nello spogliatoio dell’Inter prima dell’accusa mediatica di Mancini, si è trattato di una caduta di stile, questo è fuor di ogni dubbio. Ma è l’intero contesto di abnorme colpevolizzazione dell’allenatore del Napoli ad essere oggettivamente fuori luogo. Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia è il paese dove in occasione di ogni partita di calcio vengono gridati i più beceri cori razzisti nei confronti della città di Napoli e dei suoi abitanti, nel generale disinteresse di giornalisti e addetti ai lavori, che fanno a gara nel minimizzare questi atti di razzismo, declassandoli a semplici sfottò da stadio, senza tener contro del retroterra culturale che vi è dietro a questi slogan beceri e razzisti. Si tratta degli stessi personaggi che da ieri cercano di ergersi a improbabili moralizzatori del mondo del calcio. Si tratta, si sa, del solito “politicamente corretto” creato ad arte. Che dire poi dello stesso Roberto Mancini che si è precipitato ai microfoni della Rai a denunciare indignato delle offese ricevute, dopo aver provato nello spogliatoio del Napoli a venire alle mani con il tecnico toscano? Si tratta dello stesso Mancini che nel 2000 intervenne in difesa del suo amico Sinisa Mihailovic, il quale aveva definito il centrocampista dell’Arsenal Vieira un «negro di merda», con queste testuali parole riportate dal quotidiano ‘La Repubblica’: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Lo stesso Mancini che da allenatore del Manchester City rischiò di finire alle mani con ben due suoi giocatori Adebayor e Tevez. Il primo accusato di fingere un infortunio poi rivelatosi vero, il secondo per divergenze tecnico-tattiche. Il litigio tra il tecnico di Jesi e l’attaccante argentino trovò il suo culmine quando Mancini affermò nei confronti di Tevez ‘l’elegante’ frase «go fuck your mother». Insomma, il tecnico che ieri si è tanto scandalizzato non ha nulla da invidiare alle tante teste calde che popolano il calcio mondiale. In ultima analisi è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che da anni ignorano il più becero razzismo, le ruberie, i macroscopici brogli e quant’altro accade nel mondo del calcio. E, infine, un ultimo punto, il più importante perché non parliamo più di qualcosa attinente ad un gioco, è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che ignorano e tollerano ogni giorno lo stupro di diritti, democrazia e della nostra Costituzione che avviene ogni giorno. Lo stato in cui versa un’Italia sempre più schiacciata della dittatura europea neoliberista dipende anche, e soprattutto, dal coro del “politicamente corretto” dei bombardatori umanitari a giorni alterni.

Quella sinistra "politicamente corretta" che da settant'anni deride e insulta i gay. Togliatti offendeva Gide mentre la rivista diretta da Berlinguer inseriva gli "invertiti" fra i nemici di classe. Fino alle scivolate di D'Alema e Bersani, scrive Cristina Bassi, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale".  «A froci!», «finocchio», «culattoni», «checca squallida»: la destra, certo, si è spesso messa in (cattiva) luce quando si è trattato di insulti omofobi e battute da trivio. Post-missini e leghisti in testa. E se la Dc usa per decenni la maldicenza, pure Beppe Grillo scivola su un «At salut, buson!», rivolto a Nichi Vendola dal palco di Bologna (2011). Ma arrivano dalla sinistra progressista le invettive più insidiose contro i gay. A volte vaghe: «È mollezza borghese». Altre dirette: «Deviati», «pederasti», «invertiti». Altre ancora subdole: le unioni omosessuali? «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano questi?», si chiede D'Alema nel 2006. «È meglio che un bambino cresca in Africa piuttosto che con due uomini o due donne», dichiara un anno più tardi Rosy Bindi, madre del ddl sui Dico. Dopo Stai zitta e va' in cucina, saga del sessismo a Palazzo, il giornalista di SkyTg24 Filippo Maria Battaglia pubblica Ho molti amici gay - La crociata omofoba della politica italiana (Bollati Boringhieri).

Partiamo dal dopoguerra. Nel 1950 Palmiro Togliatti sul mensile Rinascita si scaglia, sotto pseudonimo, contro André Gide che si è ricreduto sul comunismo. A sentirlo parlare, sostiene il segretario del Pci, «vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov'è specialista». E un anno prima: «Se quando ha visitato la Russia nel 1936 gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch'egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese!». Mentre il mensile della Fgci Gioventù Nuova, diretto da Enrico Berlinguer, se la prende con Jean-Paul Sartre: «Un degenerato lacchè dell'imperialismo, che si compiace della pederastia e dell'onanismo». Riflette l'autore: il messaggio dell'apparato è che «tra i comunisti non c'è posto per gli omosessuali, invertiti e pederasti (usati spesso come sinonimi) sono solo gli avversari borghesi».

C'è l'espulsione dal Pci di Pier Paolo Pasolini «per indegnità morale» nel 1949. Francesco Rutelli che nel 2000 da sindaco di Roma ritira il patrocinio al Gay Pride perché si tiene nei giorni del Giubileo. E la reazione di Giancarlo Pajetta nella seconda metà degli anni '80. A Botteghe Oscure nota facce nuove: «Incuriosito, si avvicina, scoprendo che si tratta della prima delegazione gay accolta in via ufficiale nella sede comunista. E prima le puttane, e adesso i finocchi si sfoga, scuotendo la testa ma che c... è diventato questo partito?». Arrivando ai giorni nostri, ecco la sinistra «diversamente omofoba». Nel 2009 Bersani manifesta «forti perplessità» sulle unioni gay. È bene, spiega, regolare un fenomeno cresciuto «a dismisura». Però «poi non è che lo chiamo matrimonio omosessuale perché non sono assimilabili». Ancora: «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano i Pacs e la Tav?, si domanda nel 2006 l'ex premier Massimo D'Alema (...). Prima di aggiungere, significativamente: Ci siamo fatti incastrare a discutere di questioni marginali rispetto ai problemi del Paese». Pochi mesi dopo aggiungerà che il matrimonio tra omosessuali «offenderebbe il sentimento religioso di tanta gente». Nel 1995 aveva dichiarato: la coppia omo non può «essere considerata una famiglia».

A sinistra la «tolleranza repressiva» ha lasciato il posto al silenzio imbarazzato: «C'è una generazione di gente brillantissima che viene dal Pci che non ha mai fatto coming out racconterà nel 2012 la deputata dem Paola Concia Donne e uomini, personaggi di primo piano di quel partito. Se avessero dichiarato pubblicamente la loro omosessualità avrebbero fornito carburante alla sinistra». Non solo: «Alcuni colleghi del Pd (...) ogni volta che mi vedono parlare con una donna, si strizzano l'occhio e dicono che ci sto provando (...). Pregiudizi che trovano conferma nel 2011 quando la deputata annuncia che si sposerà in Germania con la compagna. Che si dice in questi casi?, le domanda Rosy Bindi». Infine Vendola che confessa: «È stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito».

Da Che Guevara a Orlando, tutte le contraddizioni del mondo gay, scrive Adriano Scianca il 14 giugno 2016 su “Il Primato nazionale”. Il 14 giugno 1928 nasceva a Rosario, in Argentina, Ernesto Guevara de la Serna, destinato a passare alla storia, col nomignolo di Che, per l’apporto dato alla rivoluzione comunista cubana e per essere stato, dopo l’instaurazione del regime castrista, uno dei suoi principali esponenti. Di lui si è detto e scritto tutto. Non è neanche una novità sconvolgente quella per cui, nella visione guevarista dell’uomo nuovo, non ci fosse posto per l’omosessualità: che il Che sia stato l’artefice della creazione di veri e propri campi di concentramento per omosessuali, in cui finirono anche molti simpatizzanti per la rivoluzione, è cosa ben documentata. Eppure il brand guevarista va forte proprio in quei settori che vorrebbero fare l’esame del dna a chiunque sia anche solo in odore di “omofobia”. Beninteso, non vogliamo frettolosamente liquidare qui la rivoluzione cubana con un giudizio piccolo-borghese limitato ai suoi “crimini”, ma certo la contraddizione stride, e parecchio. Non è la sola, se restiamo in campo “lgbt”: al recente gay pride di Roma, per esempio, sono stati fotografati dei cartelli che inneggiavano al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla libertà della Palestina. Ben fatto, la causa palestinese gode di tutta la nostra simpatia. Ma, anche qui, non si può non ragionare in punta di coerenza: Israele è uno Stato estremamente gay friendly, cosa che è difficile dire della controparte palestinese e del mondo musulmano in genere. È questo il motivo per cui, dopo la strage di Orlando, il pensiero dominante è andato in tilt: un musulmano, figlio di immigrati, che fa strage di gay. Come uscirne? Sel, in Italia, ha risolto la questione, dando la colpa al fascismo, ma questa è patologia psichiatrica e va lasciata quindi agli specialisti. Abbiamo detto del gay pride: non è forse quella una contraddizione ambulante? Uno sfoggio identitario per rivendicare diritti e uguaglianza. L’espressione di una sottocultura trasgressiva per reclamare l’accesso al perbenismo borghese. Un ostentato “siamo diversi da voi” per far capire alla gente “siamo uguali a voi”. Ora, questo micro-viaggio che parte da Che Guevara e arriva non a Madre Teresa, come la Chiesa immaginaria di Jovanotti, ma allo stragista di Orlando passando per i carri chiassosi del gay pride, cosa vorrebbe dimostrare? Nulla, se non che l’ortodossia politicamente corretta, che ha nelle rivendicazioni lgbt la sua punta di lancia più avanzata, è un sistema logico fallace e un sistema etico claudicante. E che la dittatura del pensiero unico è innanzitutto una dittatura del non pensiero. Adriano Scianca

Omofobia sinistra. Era il 1934 quando Klaus Mann, il figlio dello scrittore Thomas che ebbe una vita signorilmente intensa e signorilmente angosciata, scrisse un pamphlet contro la persecuzione dei “pederasti”. Persecuzione degli omosessuali da parte della sinistra. Sì, perché se oggi negli stereotipi c’è l’omofobia di destra e l’omofilia di sinistra, un tempo, e non fu molto tempo fa, c’era l’omofobia di sinistra e l’omofilia di destra. Klaus Mann denuncia “l’avversione nei confronti di tutto quanto è omoerotismo che nella maggior parte degli ambienti antifascisti e in quasi tutti gli ambienti socialisti raggiunge un livello intenso. Non siamo molto lontani dall’arrivare a identificare l’omosessualità con il fascismo. Su questo non è più possibile tacere”, scrive Giulio Meotti il 22 Luglio 2013 su “Il Foglio”. E ancora: “Come mai sui giornali antifascisti leggiamo parole come ‘assassini e pederasti’ abbinate quasi con la stessa frequenza con cui vengono abbinate sui fogli nazisti le parole ‘traditore del popolo ed ebreo’? La parola ‘pederasta’ viene usata come un’ingiuria”. Né in “Arcipelago Gulag” di Alexander Solzenicyn, né nei “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov, c’è una parola per raccontare la sorte degli omosessuali nei campi sovietici. Sono chiamati, semplicemente, “gli infamati”. In un’opera di divulgazione del commissariato sovietico di Pubblica sicurezza del 1923, intitolato “La vita sessuale della gioventù contemporanea”, si legge che l’omosessualità è “una forma di alienazione” che sarebbe scomparsa, naturalmente o meno, con l’avvento del comunismo. La morale sessuale della sinistra ha sempre oscillato fra la critica radicale delle istituzioni borghesi, a cominciare dal matrimonio, e quella delle “degenerazioni” del costume, segno della corruzione che veniva dalle classi dominanti e capitalistiche. Nel 1862 il proclama della “Giovane Russia” postulava l’abolizione del matrimonio “fenomeno altamente immorale e incompatibile con una completa eguaglianza dei sessi”. La critica di Engels (“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”) indusse la prima generazione di rivoluzionari russi a considerare la famiglia come una “istituzione superata”. August Bebel scriveva che “il soddisfacimento dell’impulso sessuale è un affare privato di ciascuno proprio come il soddisfacimento di ogni altro impulso naturale”. Ma quando una militante bolscevica, nel 1915, stese un pamphlet favorevole al “libero amore”, Lenin rispose che questa era una concezione borghese, non proletaria. Parlando con Klara Zetkin, nel 1920, definì “completamente antimarxista e per di più antisociale la famosa teoria secondo cui, nella società comunista, la soddisfazione dell’istinto sociale e dell’amore è una cosa semplice e insignificante come bere un bicchier d’acqua”. Queste teorie e i conseguenti comportamenti si erano diffusi nella prima fase rivoluzionaria, negli ambienti intellettuali delle grandi metropoli, dominati dallo spirito dissacratore dei futuristi, che consideravano l’omosessualità solo un modo diverso di bere un bicchier d’acqua. A mano a mano che il potere sovietico si estese alle campagne, con la guerra civile e la Nep, la situazione mutò radicalmente. La famiglia tradizionale tornò a essere il modello e ogni “devianza” fu condannata.

Si cominciò con l’attacco di Bucharin alla diffusione fra i giovani di “gruppi decadenti e semiborghesi con nomi come Abbasso l’innocenza, Abbasso il pudore” e si finì con l’inserire nel codice penale la condanna ai lavori forzati per l’omosessualità. Gli intellettuali comunisti occidentali si adeguarono. Uno dei testi più noti di Bertolt Brecht, “Ballade vom 30 Juni”, presenta Hitler e Ernst Röhm come amanti di letto, usando l’accusa di omosessualità per screditare il nazionalsocialismo. Si arriverà, con il giornalista Georges Valensin, a dichiarare che nella Cina di Mao “l’omosessualità non esiste più” (l’Espresso, 20 novembre 1977).

Il Pcf si distinse nell’attacco a “intellettuali degenerati” come André Gide, l’autore di “Si le grain ne meurt”, l’autobiografia dove confessa come in una psicoterapia le “brutte abitudini” di bambino onanista all’Ecole Alsacienne o le crudeltà di adulto libertino inflitte alla madre. “Ce vieux Voltaire de la pédérastie”, scrisse di lui Ernst Jünger, che così sintetizzò il suo nichilismo scettico redento dall’eleganza dello stile. Gide l’alfiere dell’individualismo antiborghese, il custode del classicismo che disse “Je ne suis pas tapette, Monsieur, je suis pédéraste”. Ma anche il militante dell’antifascismo infatuato per breve tempo del comunismo e che, sontuosamente accolto nel 1936 a Mosca, ritornò in occidente per scrivere “Retour de l’Urss” e “Retouches à mon retour de l’Urss”, i libri in cui riferì quello che aveva visto realmente nella Russia staliniana. Divenne così “Gide, il traditore”, “il bieco reazionario”, “il servo dei padroni”, “il nemico della classe operaia”: questo il campionario di epiteti pubblicati a caratteri cubitali contro l’omosessuale antesignano. “Quelle sue calunnie, assurde e ignobili, contro il paese guida del comunismo internazionale, sono la bava avvelenata di un degno figlio della piccola borghesia, di un alleato dei nostalgici nazisti e delle camicie nere”, scrivevano i giornalisti dell’Humanité, il quotidiano del Partito comunista francese. E i loro colleghi della Pravda, organo del Partito comunista sovietico, rivolgendosi ai lettori militanti: “Sapete perché il signor Gide ce l’ha tanto con noi e con i nostri compagni? S’è indignato, poverino, ha provato un disgusto indicibile, quando si è accorto che i comunisti di Mosca non sono pederasti”.

Quando a Stoccolma, nel 1947, diedero al settantottenne Gide il premio Nobel per la Letteratura, Jean Kanapa arriverà a dire che dieci anni prima lo scrittore aveva provato disgusto per i bolscevichi “accorgendosi che essi non erano pederasti”. Nel 1949 Dominique Desanti lo descrisse vecchio di ottantun anni “con già sul viso la maschera della morte”, circondato da giovani ammiratori che avevano trovato nei suoi libri la stessa liberazione che altri trovavano a Place Pigalle. Nel coro di mostrificazione di Gide non mancherà la voce di Palmiro Togliatti, il segretario del Pci che sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, dal giorno del suo ritorno in Italia, nell’ottobre 1943, a quello della sua morte a Jalta, nell’agosto 1964, svolse il suo magistero culturale sulle pagine di Rinascita. Nel maggio 1950, scriverà a proposito di Gide: “Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti fra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente”.

Il 20 febbraio 1951, all’indomani della scomparsa di Gide, l’Humanité pubblicherà un necrologio intitolato “Un cadavere è morto”. E’ lo stesso Kanapa che nel 1947 riassunse la posizione ufficiale del Partito comunista francese in un saggio intitolato “L’esistenzialismo non è un umanesimo”, in cui si arriva a sostenere che “il significato sociale dell’esistenzialismo è la necessità attuale per la classe sfruttatrice di addormentare i suoi avversari” e che Jean-Paul Sartre era un “pederasta che corrompe la gioventù”. In Italia si seguì un doppio binario. Gli omosessuali non venivano ammessi nel partito e quando venivano scoperti, come nel caso famoso di Pier Paolo Pasolini, venivano espulsi in base alla norma sulla “condotta esemplare” contenuta nello statuto comunista. C’è ad esempio il caso di Pietro Secchia, sul quale cominciarono a circolare voci soltanto dopo che, morto Stalin e fuggito il suo più stretto collaboratore, fu esautorato dal suo ruolo di capo dell’Ufficio quadri, quello che vigilava sulla vita, anche privata, di “compagni e dirigenti”. Sul piano pseudoscientifico pesarono a lungo le teorie biologiche di Andrei Lissenko, che sosteneva una specie di superiorità razziale del proletariato nel quale “fenomeni di devianza”, come l’omosessualità, potevano sussistere solo come il risultato della contaminazione di altre classi. Nel Partito comunista, di omosessualità non si parlerà a lungo. Nel convegno del 1964 dedicato a “Famiglia e società nell’analisi marxista” si accenna polemicamente, lo fa Umberto Cerroni, “alle false alternative teoriche del ribellismo sessuale”, mentre la ricognizione della “esperienza sovietica” di Luciana Castellina arriva a criticare “gli eterodossi, gli innovatori” come sostenitori “del ritorno a una tematica crepuscolare, in difesa del privato e dei suoi tenui sentimenti”. Ancora nel 1979 Antonio Roasio, uno dei fondatori del Partito comunista a Livorno, non trovava di meglio che criticare l’Unità per “l’eccessivo rilievo” dato all’omosessualità in un numero del quotidiano e che “comunque la si giudichi, l’omosessualità non può essere considerata un aspetto della libertà sociale”.

C’è poi la storia, quella vera, del “Che”, Ernesto Guevara. Una storia che in pochi raccontano oggi e che le stesse associazioni omosessuali militanti hanno sempre nascosto. Con il passaggio di poteri da Batista a Castro, nel 1959, Guevara venne nominato procuratore militare con il compito di reprimere “gli oppositori della rivoluzione”. Nei tribunali finiscono per espressa volontà del Che molti religiosi, tra cui l’arcivescovo dell’Avana, e moltissimi “maricones”, gli omosessuali. Il Che realizza campi di lavori forzati ed elabora i regolamenti dentro le galere del regime, che fissano le punizioni corporali per i più facinorosi, come i lavori agricoli eseguiti nudi. Alcuni reduci racconteranno di “maricones” uccisi personalmente, con colpi di pistola alla tempia, dal leggendario guerrigliero. Perché nella Cuba comunista tanto amata in occidente, il castrismo ha perseguitato gli omosessuali chiamandoli “pinguero” (marchetta) e “bugarrón” (uno che cerca sesso spasmodicamente). E se nella Cuba di Batista i gay stavano male e basta, fu tra il 1965 e il 1968, dopo la rivoluzione, che ci fu il trionfo delle Unidades militares de ayuda a la producción, veri e propri lager con guardie armate e filo spinato. Ci finivano dal “poeta finocchio” all’“attore effeminato”, tutti in divisa blu, sottoposti a marce durissime, cibo scarso, ma anche “cure” con gli elettrodi attaccati ai genitali. Il comandante Ernesto Guevara fu lì uno degli aguzzini.

Granma, l’organo ufficiale del Partito comunista cubano, nell’aprile 1971 scriveva per esempio che “il carattere socialmente patologico delle deviazioni omosessuali va decisamente respinto e prevenuto fin dall’inizio. E’ stata condotta un’analisi profonda delle misure di prevenzione e di educazione da rendere efficaci contro i focolai esistenti, inclusi il controllo e la scoperta di casi isolati e i vari gradi di infiltrazione. Non si deve più tollerare che gli omosessuali notori abbiano una qualche influenza nella formazione della nostra gioventù. Siano applicate severe sanzioni contro coloro che corrompono la moralità dei minori, depravati recidivi e irrimediabili elementi antisociali, ecc.”. L’omosessualità è trattata alla stregua di un virus patogeno. Nel 1979 gli atti omosessuali vennero decriminalizzati a Cuba, ma i gay continuarono a venire accusati di essere “oppositori del regime”, sbattuti in galera senza processo, mandati a morte in quell’isola magnifica che descrive Claudio Abbado. Il quotidiano Juventud rebelde pubblica una foto di un impiccato, un “gusano”, un verme, e sui pantaloni c’è scritto “homosexual”. Nel 1984 Néstor Almendroz e Orlando Jiménez Leal producono il documentario “Cattiva condotta”, dove raccontano la persecuzione del regime castrista contro i gay. Racconta lo scrittore Guillermo Cabrera Infante: “La persecuzione degli omosessuali dei due sessi fu una persecuzione di dissidenti. Gli omosessuali deviano dalle norme borghesi. I comunisti sostengono le coppie convenzionali, il matrimonio… L’omosessualità minaccia tutto ciò, perciò gli stati totalitari la temono”. Ancora l’articolo 303 del codice penale del 30 aprile 1988 punisce chi “manifesti pubblicamente” la propria omosessualità con pene che variano tra i tre mesi a un anno di prigione o una multa che va da cento a trecento cuotas per coloro che “infastidiscono in modo persistente gli altri con proposte amorose omosessuali”. In occidente, dove oggi vige l’omofilia militante e avanza la censura antiomofoba, l’omosessualità è stata sempre una questione di emarginazione. Nell’emisfero comunista, e nel pensiero della sinistra europea, l’omosessualità era destinata a scomparire. Assieme ai froci. Una “soluzione finale” contemplata in un articolo che Maksim Gorkij, la bandiera degli scrittori sovietici, l’amico di Lenin, il padre del realismo socialista, pubblicò il 23 maggio 1934 contemporaneamente sulla Pravda e sull’Izvestia, sotto il titolo “Umanesimo proletario”: “Nei paesi fascisti, l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente; nel paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”.

SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.

Radical chic. Locuzione: Che riflette il sinistrismo di maniera di certi ambienti culturali d'élite, che si atteggiano a sostenitori e promotori di riforme o cambiamenti politici e sociali più appariscenti e velleitari che sostanziali.

Ecco come smascherare i radical chic 2.0 (in 12 punti), scrive Francesco Maria Del Vigo il 26 agosto 2014 su "Il Giornale". Qualche giorno fa, sul Giornale, ho pubblicato una lista in nove punti sui tic dei radical chic on line. Questa è la versione integrale:

La foto del profilo non è (quasi) mai una loro foto. Sarebbe troppo nazionalpopolare. Mettono solo frammenti di film di qualche regista polacco mai distribuiti fuori dalla circonvallazione di Varsavia.

Quando scelgono una loro immagine deve essere schermata da almeno cinque o sei filtri, avere delle velleità artistiche e magari ritrarre solo una parte del viso. Espressione sempre preoccupata per i destini del mondo. Il sorriso è bandito come un retaggio del ventennio berlusconiano.

L’oroscopo è un vizio da portinaia. Ma se si tratta di quello di Internazionale no. Lo condividono su tutti i social come se fosse il Vangelo.

Le foto delle vacanze vanno bene solo se si è nel terzo mondo o in un campo profughi. Pose obbligatorie: sguardo corrucciato, camuffati da indigeni e nell’atto di solidarizzare con gli abitanti del luogo. Il colore (degli abitanti del luogo) deve essere intonato alla nuance dei sandali Birkenstock.

Su Twitter parlano tra di loro di cose che capiscono solo loro. Sublimazione del sogno radical chic: l’esposizione mediatica del salotto (ovviamente etnico) di casa propria.

Sì al selfie, ma solo se ha un significato sociale e politico. Possibilmente con un cartello in mano che sostiene la battaglia di qualche gruppo di contadini ugandesi. Ancora meglio se su iniziativa di Repubblica.it.

La Reflex. Più che uno strumento fotografico è un monile, una collana da appendere al collo. Condividono e scattano foto solo con voluminosissime – e costosissime – macchine fotografiche professionali. Preferiscono Flickr a Instagram, troppo plebeo.

Il meteo è il prolungamento della politica coi mezzi della natura. Se piove non è colpa del governo ladro, ma dello scioglimento dei ghiacci dovuto al capitalismo diabolico. Condividere (sui social) per educare.

Il cibo non esiste. Esiste solo il food. Da fotografare e condividere sui social solo a tre condizioni: che sia a km 0 (va bene anche se è stato coltivato nella rotatoria di Piazzale Loreto), etnico o equo e solidale.

La petizione on line è la nuova e comodissima forma di contestazione. Va bene per risolvere tutti i problemi: dal cambio degli stuoini nel condominio (meglio sostituirlo con un piccolo kilim) alla fame nel mondo. Basta un click. Tutto il nécessaire è su Charge.org.

Film, libri, giornali. Tutto in lingua straniera. Molto chic condividere video di serie tv in lingua originale non ancora trasmessi in Italia. Appena oltrepassano le Alpi diventano rigorosamente pacchiane.

Anche Youporn è troppo pop. Forse anche sessista, potrebbe addirittura essere di destra con quello sfondo nero… Meglio ripiegare su siti soft porn o intellettual-erotici. Ammesso anche spulciare tra le pagine osè di Tumblr.

Le 9 differenze tra tamarri e radical-chic, scrive il 4 novembre 2014 Enrico Matzeu. (Gli stilisti mi evitano, le pr non mi invitano ai party più glamour. Scrivo sull’Oltreuomo per vendicarmi di loro.) La giungla umana è fatta di tante specie diverse, di tanti tipi umani che vengono costantemente tenuti sotto osservazione da antropologi e ornitologi. Tra queste specie, due meritano di essere analizzate con cura certosina: i Tamarri e i Radical-chic. Due categorie che come i binari della transiberiana non si incontreranno probabilmente mai. Entrambe le categorie si schifano a vicenda ed entrambe vanno orgogliose delle loro variopinte peculiarità. Ho provato con cura e garbo a sottolineare le differenze tra gli zarri e gli snob, nei nove ambiti dove emerge al meglio la loro personalità. Le 9 differenza tra Tamarri e Radical-chic:

1. Abbigliamento. I Tamarri doc vogliono stare comodi e si infilano i pantaloni della tuta anche per il matrimonio del cugino di ottavo grado (ah no, lì indossano i pantaloni della festa in finto acrilico traslucido). Le donne non rinunciano ai leggings, mai, neanche quando i leggings rinuncerebbero volentieri a loro. Entrambi portano con ossessione i gilet imbottiti, come fossero costantemente a bordo della Costa Concordia. I radical-chic invece portano la giacchia in velluto a costine anche in spiaggia, con camicette alla coreana e le immancabili Clarks. Per le donne l’abito asimmetrico di qualche stilista giappo-svedese è d’obbligo nell’armadio.

2. Vacanze. I Tamarri amano il sole più di se stessi e se d’inverno passano il tempo libero stesi su un lettino abbronzante, d’estate preferiscono di gran lunga le sdraio di polipropilene di Rimini e Riccione. I più internazionali svernano invece a Ibiza o Mykonos, sfoggiando costumini con sospensorio annesso o bikini tigrati. I radical-chic temono il sole più dell’ebola e se una volta amavano Capalbio ora preferiscono di gran lunga il Museo d’Orsey di Parigi o al massimo qualche sperduta isola del Mediterraneo a mangiare crudité di pesce e piatti bio.

3. Borse. I Tamarri amano indubbiamente accessori griffati, evidentemente griffati. Le donne non rinunciano al bauletto Louis Vuitton (meglio se tarocco) e gli uomini al borsello di Gucci (meglio se rubato). Per i radical-chic le borse sono unisex. Sia uomini che donne infatti usano quasi esclusivamente borse in tela, meglio se di qualche festival filosofico-cinefilo-letterario, ai quali probabilmente non sono neanche mai stati.

4. Ristoranti. Per i Tamarri sushi is the new pizza. Si abbuffano come bambini del Biafra in un qualsiasi all you can eat del quartiere e più ordinano più si sentono dei giusti. I radical-chic hanno smesso di mangiare il sushi da almeno tre anni. Ora si dedicano alla cucina vietnamita, alle hamburgerie dove si ordina con l’IPad o da Eataly, dove un ordine costa come un IPad.

5. Tatuaggi. I Tamarri si tatuano con gusto tutto il corpo come fosse una tela impressionista (nel senso che fa impressione). Partono con un tribale sui bicipiti e finisce che si colorano anche la mano con il viso della nonna defunta. Le iniziali del proprio amato sono indispensabili e diventano un marchio a fuoco come per le vacche. I radical-chic invece si dividono tra quelli che vogliono il tattoo old school, con marinai e sirene (che neanche nei Pirati dei Caraibi), oppure puntano sui tatuaggi minimalisti, fatti di disegni stilizzati o schizzi di Mirò.

6. Occhiali da sole. Un Tamarro come si deve si distingue anche e soprattutto da un paio di occhiali da sole. Per la regola che più grosso ce l’hai (l’occhiale) più sei figo, al Tamarro tipo piace esagerare, con montature che invadono la faccia, peggio di Putin con l’Ucraina, e lenti specchiate che ti riflettono pure le adenoidi. Il radical-chic non rinuncia ai suoi Rayban, meglio se tartarugati, pieghevoli, vintage, in limited edition e con la cordicella al collo. Sia mai li perdano.

7. Musica. Da adolescenti la musica dance è per i Tamarri come l’insulina per i diabetici: questione di vita o di morte. Crescendo, si affezionano ai neo melodici italiani, possibilmente amici della De Filippi o con almeno un paio di date in America Latina. I radical-chic citano De André, Guccini e Battiato ogni tre per due, spesso confondendoli tra loro e odiano tutto ciò che è pop (talvolta addirittura i pop-corn). Frequentano club con musica dal vivo e non si perdono i concerti dei gruppi più indie del momento, anche di quelli che non conoscono.

8. Libri. Diciamocelo, i Tamarri leggono più volentieri le riviste scandalistiche (o scandalose) dei libri, però se proprio devono entrare in una libreria ne escono con la biografia di qualche calciatore, qualche libro di aspiranti motivatori e naturalmente il libro dell’Oltreuomo. I radical chic millantano sempre letture impegnate e impegnative e sui loro comodini ci sono pile e pile infinite di libri, tra i quali si leggono titoli di Kafka, Hesse e Tolstoj, ma in fondo, messo al contrario, un po’ nascosto c’è sempre una delle novità letterarie di Fabio Volo. I radical-chic in salotto hanno sempre l’ultimo libro fotografico di Oliviero Toscani. Ottimo soprammobile.

9. Sport. La palestra è per i Tamarri come la Mecca per i musulmani. Quando entrano però loro non si tolgono le scarpe perché devono sfoggiare le ultime sneakers giallo fluo con i lacci fucsia e le canotte ascellari. Bicipiti, tricipiti e addominali devono essere tonici e tirati più della pelle di un tamburo e sfoggiati sotto a camicie e t-shirt aderenti dal dubbio gusto. I radical-chic boicottano la palestra perché la ritengono anticostituzionale e preferiscono di gran lunga la corsa, possibilmente al Central Park di New York o il tennis, perché si possono indossare quei gonnellini tanto chic.

Radical chic. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Radical chic è un'espressione idiomatica mutuata dall'inglese per definire gli appartenenti alla borghesia che per vari motivi (seguire la moda, esibizionismo o per inconfessati interessi personali) ostentano idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o comunque opposte al loro vero ceto di appartenenza. Per estensione, la definizione di radical chic comprende anche uno stile di vita e un modo di vestirsi e comportarsi. Un atteggiamento frequente è l'ostentato disprezzo del denaro, o il non volersene occupare in prima persona quasi fosse tabù, quando in realtà si sfoggia uno stile di vita che indica un'abbondante disponibilità finanziaria o improntato al procacciamento dello stesso con attività che, qualora osservate in altri, un radical chic non esiterebbe a definire in modo sprezzante, come volgarmente lucrative. Inoltre tale atteggiamento sovente si identifica con una certa convinzione di superiorità culturale, nonché con l'ostinata esibizione di tale cultura "alta", o la curata trasandatezza nel vestire e, talora, con la ricercatezza nell'ambito di scelte gastronomiche e turistiche; considerando, insomma, come segno distintivo l'imitazione superficiale di atteggiamenti che furono propri di certi artisti controcorrente e che, ridotti a mera apparenza, perdono qualsiasi sostanza denotando l'etichetta snobistica. La definizione radical chic fu coniata nel 1970 da Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense. Il 14 gennaio di quell'anno, Felicia Bernstein, moglie del celebre compositore e direttore d'orchestra Leonard Bernstein, organizzò un ricevimento di vip e artisti per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista Pantere Nere (alcuni membri delle Pantere Nere furono invitati al ricevimento). Il party si tenne a casa dei Bernstein, un attico di tredici camere su Park Avenue (un ampio viale di Manhattan). Tom Wolfe scrisse un ampio resoconto sulla serata, descrivendo in modo molto critico gli invitati, rappresentanti dell'alta società newyorchese. Ne risultò un articolo di 29 pagine pubblicato sul New York Magazine dell'8 giugno 1970. In Italia, l'espressione fu ripresa da Indro Montanelli nel celebre articolo Lettera a Camilla, in forte polemica con la giornalista Camilla Cederna, quale ideale rappresentante dell'italico "magma radical-chic", superficiale e incosciente culla degli anni di piombo. In seguito, egli chiarì che la vera destinataria della lettera aperta era invece Giulia Maria Crespi, allora padrona del «Corriere della Sera» e amica della Cederna, con la quale i dissidi sarebbero sfociati, l'anno seguente, nell'allontanamento di Montanelli dal quotidiano di via Solferino, dove lavorava sin dal 1937. A parte l'adozione del neologismo, l'argomento era già stato affrontato da Montanelli in vari scritti, nei quali lamentava la frivola ideologia sfoggiata da certa borghesia ricca e pseudo-intellettuale lombarda, facendone anche un ritratto tragicomico nella pièce teatrale Viva la dinamite! (1960).

Cosa sono i radical chic? Scrive Luca Sofri il 29 agosto 2014 su "Il Post". In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza […]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.

Il corso per diventare un vero radical-chic. Sul web impazza una locandina che promette fantomatiche lezioni. L'obiettivo: incarnare perfettamente lo stereotipo nel minor tempo possibile, scrive il 6 Dicembre 2013 "Libero Quotidiano”. Il radical-chic. Una figura che accompagna gli "anni duemila". Rigorosamente di sinistra (ma critico con la sinistra stessa), snob ma finto alternativo, con la puzza sotto al naso, un po' terzomondista ma elitario, molto tollerante soltanto a parole, il radical-chic è odiato da tutti: da chi non lo è e da chi, invece, ne incarna lo stereotipo. Già, perché il radical-chic, essenzialmente, disprezza e denigra, ottenebrato da una sorta di nichilismo illuminante di cui lui, e solo lui, è dotato in abbondanza. Non è semplice essere un radical-chic. Ci vogliono anni di studio, le giuste frequentazioni, una certa inclinazione. Ma da oggi imparare è possibile. Almeno questo è quanto promette una locandina che circola sul web, e che nel tam-tam di Twitter e Facebook ha già avuto un certo successo. Si tratta del "Primo corso di Radical Chic". Sottotitolo: "L'unico corso con attestato riconosciuto a livello nazionali". La promessa: "Impara tutti i segreti per sc... le donne più insipide del sistema solare in sole 10 lezioni da dieci ore". L'omaggio: "I primi 10 iscritti riceveranno in omaggio la guida Diventa buddista in un'ora". I contenuti - Nel mirino, insomma, tutti gli stereotipi molto radical e altrettanto chic: quello appena citato buddismo, quello sulle donne (quelle radical-chic, sia chiaro) molto insipide e quello relativo all'ambizione (malcelata) dei radical-chic, ossia fare l'amore il più possibile (anche se le parole usata per indicare la "circostanza" è ben più volgare). La locandina entra poi nel merito del corso, in cui si imparerà "come curare al peggio barba e capelli", "come metterci ore a capire come vestirsi per sembrare uno che si butta addosso la prima cosa nell'armadio". S'apprenderà poi "l'importanza del velluto a costine e del cachemire", e verrò chiarito l'amletico dubbio: "Clarks o mocassini?". E ancora, verrete illuminati sull'"importanza dell'abbinamento aperitivo-bio e musica jazz", nonché su "tutti i vini buoni, i cantautori, teatri, viaggi da citare", e sempre in termini di viaggi due regioni non avranno più segreti grazie al corso di geografia "dettagliato di Toscana e Umbria". Altri temi utili per la formazione: "Pere e formaggio, parliamone" e "le migliori supercazzole da pronunciare per fare colpo al primo approccio". Quindi una lezione su "tutte le parole più impressionanti, quali: Flaubert, sushi, Moleskine e tante altre!". Infine un seminario su "come raggiungere in bicicletta le mostre di fotografia, presentazioni di libri e sale d'essai più scrause dell'intera Ue" e "come mettere in atto la rivoluzione del salotto di casa propria". Il tutto, conclude la locandina, con una "quota d'iscrizione promozionale a 5.000 euro per il primo ciclo di lezioni (Iva esclusa)".

Ebbene sì, siamo radical-chic, scrive Eugenio Scalfari il 10 aprile 2012 su “L’Espresso”. L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt. Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco. Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio. Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto. Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale. I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori. Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.

Radical choc, scrive Annalena Benini il 15 Aprile 2011 su “Il Foglio”. Alberto Asor Rosa si è sbagliato: pensava di essere a una cena après-concert, in cui ci si ritrova nel proprio ambiente, sicuri di essere compresi nella teorizzazione mondana del colpo di stato. Purtroppo il professore stava sbadatamente scrivendo su un quotidiano, e in questi casi diventa “complicato far capire a chi è fuori dall’ambiente come simili bisogni apparentemente volgari siano assoluti” (lo scriveva Tom Wolfe nel 1970 in “Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”, a proposito della necessità dei rivoluzionari dell’East Side di avere un posto dove andare il fine settimana, in campagna o al mare, di preferenza tutto l’anno, ma necessariamente da metà maggio a metà settembre). L’urgenza di un golpe da salotto è pari, per intensità, almeno all’impresa della ricerca dei domestici (in “Radical Chic” dovevano essere bianchi, per non urtare i sentimenti delle Black Panther durante i party). Sono cose futili e grevi insieme, quindi allarmanti: bisogna pensare intensamente a Mario Missiroli, storico direttore del Corriere della Sera, quando diceva: “In Italia non si potrà mai fare la rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”, per non prendere completamente sul serio le incitazioni al golpe contro Silvio Berlusconi di uno scrittore Einaudi. L’idea di avvalersi dei Carabinieri e della Polizia di stato (per congelare le Camere, sospendere tutte le immunità parlamentari e dare alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilire d’autorità nuove regole elettorali), è geniale, perché consente di salire sul cellulare della Polizia e andare alla guerra civile con lo chauffeur, ristabilendo così la più profonda vocazione democratica senza seccature di parcheggio o di tassametro. Ci sarà però il problema di come vestirsi: non si può esagerare con le mise da teatro, troppo frivole, che potrebbero per sbaglio richiamare certe serate berlusconiane, ma non si può nemmeno arrivare vestiti tipo “boccone del povero”, con una qualche orribile accoppiata dolcevita-jeans (data anche l’età veneranda dei golpisti), quindi il consueto abbigliamento accademico è da preferire: un tweed, per esempio, ma se i Carabinieri marciano sul Parlamento dopo mezzogiorno, il tweed è già inadatto. Bisognerà accordarsi per un’ora sobria, ma non da levatacce di operai con le borse sotto gli occhi e cattivi caffè preparati da mogli scarmigliate: le dieci e mezzo del mattino, ecco l’ora perfetta per un golpe, dà un senso di attivismo e di zelo, ma rilassato, un po’ come gli orari delle lezioni all’università. Sarà elettrizzante e romantico (purché a debita distanza dal popolo e dalle provocazioni sulla sovranità dei cittadini e del Parlamento), sarà finalmente una cosa fatta come si deve, senza mezze misure, con la gente giusta, gli sguardi severi, le barbe curate, i baffi bianchi, foto intense nei risvolti di copertina, certi deliziosi cocktail après-golpe. Resta però quel piccolo tarlo, che già impensieriva i radical chic di Tom Wolfe nelle donazioni alle Black Panther: la rivoluzione non è fiscalmente detraibile.

Libri. “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” de La Via Culturale, scrive il 29 aprile 2017 Jaap Stam su "Barbadillo. Il 24 aprile è uscito “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” (ed. La Vela, pp 176, euro 12), l’ultimo libro di Alessandro Catto, blogger su Il Giornale e fondatore del blog “La Via Culturale”. Di seguito pubblichiamo un estratto del libro, che elabora una forte critica verso il pensiero unico. “Populismo, demagogia, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: termini che ultimamente vengono utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre un argine al processo di globalizzazione. E’ il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, tribune politiche e istituzioni in maniera impropria e di impedire un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Sono i paradossi di chi, antifascista in assenza di fascismo, in un’astratta idra di internazionalismo del mercato giustifica e promuove le peggiori distorsioni ai processi democratici e ai diritti sociali dei popoli occidentali. In capitoli brevi, ironici e frizzanti si fa luce su un fenomeno, quello liberal, che sta subendo una profonda ridiscussione ma che ancora oggi non è pienamente conosciuto, nemmeno dai suoi contestatori. Il presente volume analizza la nascita, la crescita e lo sviluppo di una sinistra che spesso ha finito con l’adottarne lo stile e i contenuti, astraendosi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Radical Chic è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura, vengono sfatati in modo leggero e divertente tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria”.

Ecco “Radical Chic”, il libro contro il pensiero unico politicamente corretto, scrive Alessandro Catto il 3 maggio 2017 su “Il Giornale". Si chiama Radical Chic ed è il nuovo libro de La Via Culturale. Edito dalla casa editrice La Vela, è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura vengono sfatati tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria. Populismo, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: nel volume si parla anche dell’abuso di questi termini, utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre dei paletti alla retorica della globalizzazione. Il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, culturali e politici in maniera impropria, impedendo un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Nel perenne paravento dell’antifascismo in assenza di fascismo, la storia di una pseudosinistra che spesso ha finito con l’astrarsi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Un libro di 170 pagine suddiviso in brevi e frizzanti capitoletti, di facile lettura e privo di approcci accademici o troppo complessi, fruibile da tutti e capace di fare veramente luce su di un fenomeno, quello liberal e politically correct, così importante nel presente dell’Europa ma ancora poco conosciuto, soprattutto da chi tenta di costruire una alternativa.

Quei radical chic della sinistra da salotto schierati dalla parte dei tassisti del mare…, scrive Franco Busalacchi il 2 maggio 2017 su "I Nuovi Vespri". Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista, sarà perché mio zio ha fatto la resistenza in Lombardia con in tasca la tessera del PCI firmata da Palmiro Togliatti, ma io a questi nipotini di Bertinotti li manderei tutti, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista e mio zio (suo figlio) fece la Resistenza, muovendosi per tutta la Lombardia con in tasca una tessera del Partito comunista datata 1943, firmata da Palmiro Togliatti e rinnovata nei due anni successivi, rischiando di essere fucilato sul posto se l’avessero beccato; sarà per la conseguente aura che si è respirata sempre in casa mia, ma quando io sento uno di questi nostri comunisti con la barca e la erre moscia, mi incazzo come un animale. Tutti questi radical chic, nipotini di Bertinotti, il quale ancora, tra una rivoluzione in salotto e un’altra, percepisce una cospicua, aggiuntiva indennità come ex Presidente della Camera dei deputati, io li porterei una bella mattina, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sepolcri imbiancati che fanno del buonismo a buon mercato una bandiera con la quale coprono la loro ipocrisia. Tutti dalla parte dei tassisti del mare che speculano sulle disgrazie altrui. A questo si è ridotto il messaggio del Sol dell’avvenir: “Impossibilitati fare rivoluzione per mancanza tempo, auspichiamo e ribadiamo… Ci vediamo stasera da Giangi”. Ve li immaginate questi manichini azzimati capeggiare una sfilata (non una marcia, ovviamente) contro la Beretta, la Agusta, la Oto Melara, gruppi economici che vendono armi a quelli che sparano sulle popolazioni che sono costrette lasciare i loro Paesi? Per carità! Troppo complicato. “Primavera d’intorno brilla nell’atria e per li vampi esulta. E’ tempo di granite e di brioscine. Al bar si pontifica meglio davanti ad un Cuba libre ornato di un parasole in miniatura.

Se li sentisse Lèon Bloy!

Quel razzismo immaginario dei radical-chic. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che i buonisti replicano solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo, scrive Ennio Castiglioni il 28 Aprile 2017 su "Il Populista". Pascale Bruckner ci ha spiegato come esista un “razzismo immaginario”. Per soffocare la libertà, il dibattito si grida subito al razzismo e si trascinano le persone in tribunale come nei regimi totalitari. I Governi e le multinazionali ci vogliono così nascondere come sia in atto un piano per modificare profondamente l’occidente e far sparire gli italiani. Se vi sembra poco…Mentre dalla Libia, dove ci sarebbero tra 700mila e un milione di migranti, continua l’invasione con ben 37mila arrivi nei mesi più freddi dell’anno, il Governo con grande solerzia prepara l’accoglienza. È scritto a chiare lettere nel DEF (Documento di economia e finanza) 2016 l’intento di favorire, piuttosto che arrestare questo esodo mirato. Si cerca di reperire le risorse necessarie a sostenere un flusso migratorio di circa 310mila unità, con un profilo crescente per i prossimi 15 anni. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che si può replicare solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo. Se nel 1994 gli immigrati regolari erano 500mila, nel 2016 sono oltre 5 milioni e si vuole consentire l’ingresso ad altri 310mila all’anno per i prossimi 15 anni, nel 2031 ci saranno quasi 10 milioni di immigrati, il 17% della popolazione, mentre chi avesse la fortuna (o la sfiga) di campare fino al 2065 vivrà in un’Italia dove uno su tre sarà immigrato. Ormai le navi delle varie Ong non si limitano più al salvataggio in mare, ma si spingono nelle acque libiche dove regolarmente prelevano i migranti per trasportali sulle coste italiane. Il tutto con la complicità dei canali di informazione ufficiali e con un Governo che si guarda bene dal mobilitare la Marina Militare o la Guardia Costiera. Molti politici italiani, mentre si fingono commossi di fronte alle immagini di morte nel Canale di Sicilia continuano ad essere al servizio delle multinazionali, che versano enormi somme di denaro alle loro Fondazioni. Queste immense società dove il profitto e la speculazione finanziaria hanno ormai oscurato la figura dell’uomo e cancellato ogni questione morale, necessitano di un costante apporto di manodopera a basso costo, di giovani braccia da sfruttare. Se diamo un’occhiata oltre Oceano vediamo ben 97 società del settore tech, Apple, Google, Facebook, Microsoft, Netflix, Snap e così via, che hanno chiesto ai tribunali di bloccare l’esecuzione dei decreti presidenziali, voluti da Donald Trump, per regolare l’immigrazione. Avrebbero potuto avanzare al grido “Non toglieteci gli schiavi!” L’Italia, se non dovesse accadere qualcosa, ad esempio un Governo a guida Salvini, diventerà ben presto un Paese di braccianti africani, di religione islamica, da utilizzare per pochi euro all’ora. Chi dice questo viene accusato di essere uno sporco razzista? Beh, francamente, con la posta in gioco, chi se ne frega!

Il Politicamente corretto ha ucciso la cultura occidentale, scrive Francesco Giubilei su "Il Giornale il 13 novembre 2015. Uno dei principali mali della nostra società – forse il più profondo e grave perché subdolo, ramificato e stratificato – è il politicamente corretto. Una vera e propria dittatura – come recita il sottotitolo del libro di Annalisa Chirico che tratta di tutt’altro argomento “contro la dittatura del politicamente corretto” – che è diventata ancor più evidente con il web. Perché in una società di tuttologi, di esperti in ogni settore dello scibile umano, in un bar sport a cielo aperto come è diventata la società del XXI secolo, avere posizioni che contrastano il pensiero comune non è ormai più concesso, in barba alla democrazia. Criticare la visione della massa porta ad essere tacciati come snob o, peggio ancora, con un paradosso che stento a comprendere, di essere antidemocratici. Perché sostenendo posizioni scomode o non omologate, si offende l’altrui libertà. Così non è più possibile pubblicare sui social la foto di una cena a base di maialino arrosto perché si offende la sensibilità dei vegani, non si può più pubblicare un crocifisso perché si è irrispettosi verso le altre religioni. Il risultato è quello di annichilire la nostra storia, le nostre tradizioni e la nostra cultura, creando una società senza valori e identità e quindi senz’anima. Proprio in questi giorni sono avvenuti due episodi in tal senso sconcertanti, uno negli Stati Uniti e uno nel nostro paese. La celebre catena di caffetterie Starbucks ha deciso di eliminare la scritta “Merry Christmas” dalle tazze di Natale per rispettare le altre credenze religiose. Mi chiedo a questo punto quale sia l’utilità delle tazze natalizie se non si celebra il Natale, ah già il denaro… L’episodio accaduto a Firenze è invece ancor più grave e preoccupante: “le crocifissioni di Chagall e Guttuso, la pietà di Van Gogh, la via crucis di Fontana potrebbero urtare <la sensibilità delle famiglie non cattoliche>, e per questo le terze classi dell’elementare Matteotti di Firenze non andranno a visitare la mostra dove queste opere sono esposte, cioè la ‘Bellezza Divina’ a Palazzo Strozzi”, scrivono Adinolfi e Bocci su la Repubblica. Siamo giunti al punto che anche le opere d’arte di alcuni dei principali artisti al mondo possono urtare la sensibilità dei credenti di altre religioni, non resta che abbattere chiese e monumenti per evitare che possano creare fastidi e malumori.

Firenze, la mostra con le tele di Chagall e Van Gogh vietata ai bimbi della scuola: "Urta i non cattolici". I genitori contro la scelta del consiglio interclasse delle terze elementari dell'istituto Matteotti di fermare la gita all'esposizione "Divina Bellezza" sul rapporto tra arte e sacro. Il preside: "Nessun motivo religioso, la programmazione è ancora in corso". Inviato un ispettore del Miur, scrivono Gerardo Adinolfi e Valeria Strambi il 12 novembre 2015La Crocifissione bianca di Chagall, il quadro preferito da Papa Francesco che per l'occasione della sua visita a Firenze era stato spostato da Palazzo Strozzi al Battistero, non potrà essere visitato dagli alunni della terza elementare della scuola Matteotti del capoluogo toscano. E così neanche la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e le altre cento opere della mostra Divina Bellezza. Ai bambini dell'istituto così non sarebbe concesso di conoscere le sculture di Fontana, ma anche i quadri di Munch, Picasso, Matisse che, nell'esposizione fiorentina, riflettono sul rapporto tra arte e sacro avendo come filo conduttore proprio il tema della religione. La gita per gli alunni del Matteotti è vietata. Il motivo? "La visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra", si legge, secondo quanto riporta il quotidiano La Nazione, dal verbale della riunione del consiglio interclasse dello scorso 9 novembre redatto da un rappresentante di classe e distribuito a tutti i genitori. Con le proteste partite proprio da molte famiglie arrabbiate dalla decisione: "I nostri figli non potranno più studiare storia dell'arte, basata proprio sull'arte sacra? - si sono chiesti i genitori contrari al divieto - siamo a Firenze, vedremo quindi negare le gite a Santa Croce, in Duomo e agli Uffizi perché ci sono figure sacre?". Domande poste anche al preside dell'Istituto Alessandro Bussotti che però ribatte alle accuse e spiega: "La visita non è stata annullata perché nessuna visita era precedentemente stabilita, la programmazione è ancora in corso e non è detto che non si faccia. Una classe delle medie dell'Istituto comprensivo la farà. Se gli insegnanti nella programmazione avevano deciso di non farla sicuramente non è stata per motivazioni religiose. Tutti indipendentemente dalla fede devono poter godere delle bellezze dell'arte". Ribattono anche gli insegnanti delle terze del Matteotti: “L’inclusione, o meno, di visite a mostre o musei non ha motivazioni di ordine religioso, ma esclusivamente di natura didattica, nell’ambito dell’attività di progettazione, che è propria della libera espressione dell’attività docente, in relazione all’efficacia della ricaduta sul processo di apprendimento degli allievi.” Cosa sia successo nel consiglio di interclasse spetterà dunque scoprirlo ad un ispettore del Miur che arriverà forse già domani da Roma alla scuola elementare di viale Morgagni per fare luce sul caso. A confermare l'ispezione è stato il direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale della Toscana Domenico Petruzzo.  "Stamani - ha affermato Petruzzo - ci siamo sentiti con l'ispettore" che arriverà alla scuola "al più presto, forse domani". "Dobbiamo vigilare e avere cognizione del caso in modo preciso" ha continuato il direttore dell'Usr Toscana, spiegando che "occorre riserbo" fino a che non saranno "accertate con precisione le cose come stanno". Al termine degli accertamenti, ha detto ancora, "saranno prese le misure per le responsabilità che ci sono". Di sicuro c'è che quelle tre righe in uno dei quattro verbali sono state scritte, e diffuse tra i genitori. Se è vero che una scuola fiorentina ha annullato la visita degli alunni ad una delle più belle mostre fiorentine di arte sacra degli ultimi anni 'per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche' saremmo davanti ad un fatto quantomeno insensato. Non solo perché siamo da sempre la città del dialogo interreligioso, ma anche perché sarebbe un errore grossolano escludere dalle scuole la fruizione del nostro patrimonio di storia e cultura che comprende oggettivamente anche l'arte sacra, che per forza di cose da noi è arte cristiana", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella. "Senza togliere che alla mostra "Bellezza divina", accolta in Palazzo Strozzi vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo... ma a cosa pensano certi insegnanti? - va avanti il sindaco -  Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?". Forza Italia parla invece di "Follia ideologica" mentre la Lega Nord ha organizzato una protesta pacifica all'esterno della struttura per la prossima settimana.

L'ARTE SACRA VIETATA A SCUOLA: LA STUPIDITÀ DI UN DIVIETO. Alla scuola elementare Matteotti di Firenze è stato deciso di non far visitare la mostra “Bellezza Divina” in corso a Palazzo Strozzi con opere di Van Gogh, Guttuso, Matisse, Picasso e la celebre Crocifissione Bianca di Chagall per non urtare la sensibilità dei non cattolici visto il tema religioso. Allora si dovrebbero eliminare tutte le gite ai musei italiani ed europei e togliere la storia dell’arte dai programmi, scrive Antonio Sanfrancesco il 12 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. Quando l’ideologia, unita alla mancanza di buonsenso, entra nelle scuole accadono cose assurde. È il caso della scuola elementare Matteotti di Firenze dove il consiglio interclasse del 9 novembre scorso, come riferisce La Nazione, ha deciso di annullare per tutte le classi terze della scuola la visita già programmata alla mostra “Bellezza Divina” allestita a Palazzo Strozzi. Il motivo? «Per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra», recita il verbale della riunione redatto da un rappresentante di classe. Nell'esposizione si possono ammirare oltre cento opere di celebri artisti italiani che vanno da metà Ottocento al Novecento tra cui capolavori famosissimi come l’Angelus di Jean-François Millet, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi, la Pietà di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, laCrocifissione di Renato Guttuso delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, laCrocifissione bianca di Marc Chagall, proveniente dall’Art Institute di Chicago. Più altre opere di artisti del calibro di Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana,Pablo Picasso, Max Ernst, Stanley Spencer, Georges Rouault, Henri Matisse. I non cattolici potrebbero aversene a male, e quindi meglio non far conoscere nulla ai ragazzi. In base a questo scellerato principio, anche la storia dell’arte dovrebbe essere bandita dai programmi scolastici visto che la stragrande maggioranza di essa è sacra e ha per tema la religione cristiana. A scuola non si dovrebbe studiare la Commedia di Dante e – per restare a Firenze – dovrebbero essere abolite anche le gite in Duomo, in Santa Croce o gli Uffizi dove le immagini sacre di certo non mancano. Se così fosse, i cristiani che vanno a Istanbul non potrebbero visitare la Moschea Blu o ammirare un tempio induista in India. Il preside dell’Istituto, Alessandro Bussotti, ha fatto sapere che non era presente alla riunione spiegando che «l’eventuale esclusione della visita non ha motivazioni religiose e non è escluso che la mostra possa essere reinserita nei programmi didattici se non di tutte, almeno di alcune classi». A completare il quadro di una vicenda inquietante e grottesca insieme c’è il commento, di assoluto buonsenso, dell’imam di Firenze, Izzedin Elzir, che ha detto che andrà a vedere la mostra e che il Crocifisso «non offende nessuno ed è il simbolo di una fede religiosa che rispettiamo». Di scelta «insensata» parla il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Alla mostra», ha scritto in un post su Facebook, «vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo...ma a cosa pensano certi insegnanti? Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?».

Il direttore del museo: "Vietare la mostra? All'estero non sarebbe mai successo". Arturo Galansino, direttore generale di Palazzo Strozzi: "Quando l'ho saputo sono rimasto interdetto. Vieteranno anche i lavori di Michelangelo e Leonardo perché trattano di arte sacra?", scrive Giovanni Masini Venerdì 13/11/2015 su "Il Giornale”. Quando lo raggiungo al telefono, Arturo Galansino sembra più divertito che altro. Il giovane direttore generale di Palazzo Strozzi, fresco di nomina (è a Firenze da marzo, in precedenza aveva lavorato a Louvre e National Gallery, ndr), non si capacita della bufera che si è scatenata dopo che a una scolaresca fiorentina è stato vietato di visitare la mostra sull'arte sacra allestita proprio nel suo museo per "non offendere i bimbi non cattolici".

D'altronde il politicamente corretto è eccepito solo alla controparte politica.

Cristo nell'urina: l'opera scandalo patrocinata dalla regione Toscana. L'opera di Andres Serrano verrà esposta al Photolux Festival di Lucca e ritrae un crocifisso in un bicchiere di urina. L'ira della Lega Nord, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Un crocifisso, simbolo non solo di una religione ma anche della cultura italiana ed europea, immersa nell'urina. Chiamatela pure arte. Ma blasfema. Al Photolux Festival di Lucca, dal 21 novembre al 13 dicembre prossimi, verrà esposta "Piss Chirst", una fotografia realizzata da Andres Serrano, fotografo statunitense, che ha immortalato un crocifisso immerso in un bicchiere pieno della sua urina. Sono anni che l'opera crea scandalo. Succede dalla sua prima esposizione nel lontano 1987 negli Usa. In quel caso due senatori repubblicani portarono il caso anche in Parlamento. Da noi, invece, il Pd ha deciso addirittura di patrocinare la mostra in cui verrà esposta. Il simbolo della regione Toscana, infatti, campeggia su volantini e sul sito della mostra internazionale di di fotografia. A denunciare il fatto sono stati due esponenti locali leghisti in una nota: "È inammissibile - affermano i consiglieri regionali Manuel Vescovi ed Elisa Montemagni - che si sostengano iniziative di questo genere, dove vengono esposte opere che offendono pesantemente il cristianesimo. Un'opera che umilia Cristo e rende omaggio all'Islam". Gli esponenti leghisti annunciano che durante il festival "organizzeranno un presidio davanti alla sede della mostra per esprimere il nostro totale dissenso. Invitiamo i cittadini toscani ad unirsi a noi in questa forma di pacifica protesta che vuole difendere le nostre profonde radici cristiane". Secondo il direttore del festival, Enrico Stefanelli, invece, l'opera ha pieno diritto ad essere esposta. "Lo spirito del festival - ha detto - è quello dell'equilibrio in un contesto di libertà". "Quell'opera - continua - non è nata come un oltraggio o una contestazione del Cristo, quanto piuttosto della mercificazione delle immagini. Poi dobbiamo collocarla nel periodo storico in cui è stata realizzata, negli anni '80". Sarà. Ma mentre il crocifisso nell'urina merita di essere visto e pubblicizzato, solo ieri in una scuola di Firenze ad alcuni bambini è stata vietata la mostra con dipinti raffiguranti il Cristo perché i crocifissi "urtano i non cattolici". Allora facciamo una proposta: si annulli anche questa che urta i cattolici. Anche se già sappiamo che i buonisti ci diranno di no ed utilizzeranno i soliti due pesi e due misure. Le ragioni dei cattolici, per loro, non hanno ragione d'esistere.

Al contrario.

“Carabiniere spara”: la canzone controcorrente indigesta ai buonisti. Il singolo di Matteo Greco in difesa del diritto delle forze dell'ordine di sparare per fare il loro lavoro è stata sommersa dagli insulti della sinistra, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. “Mi sento un cantautore controcorrente. So bene che questo non mi renderà famoso. Ma non importa”. Matteo Greco non ne è irritato. La sua canzone “Carabiniere spara” ha provocato reazioni stizzite dalla maggioranza degli ascoltatori. “Perbenisti”, li chiama lui. Ma se ne farà una ragione: sa bene che il successo è più facile con un testo buonista, piuttosto che di buonsenso. L’ultimo singolo del cantautore di Falconara Marittima è diventato famoso, suo malgrado, per la quantità di insulti ricevuti. Il motivo è tutto - o quasi - nel titolo: “Carabiniere spara”. Spara ai ladri che rendono impossibile la vita nelle città. Spara (metaforicamente) al governo che non fa nulla per cambiare le cose. E così è stato messo all’indice dalle varie sinistre, culturali e non. Gli hanno dato del razzista, istigatore d’odio e c’è anche chi ha avanzato denuncia alla procura della Repubblica per apologia di reato. La canzone, la cui musica può piacere o meno, lancia un messaggio semplice su sicurezza e immigrazione. “La cittadinanza non si può regalare - afferma Greco - bisogna conquistarsela. Per ridurre la criminalità è necessario gestire l’immigrazione con maggiore intelligenza”. Concetto reso chiaro sin dalla prima strofa: “Spiegami cosa ci fa un uomo con machete in mano, nessuno che lo può fermare, nessuno che gli può sparare”.

Da cosa nasce questa canzone? 

“Da due casi di cronaca. Quello di Milano, quando Kabobo ha creato il panico con il suo machete. E la vicenda molto simile di Jesi, dove un ragazzo sfondò la vetrina di un negozio, prese due machete e si mise a camminare per tutto il centro storico. Venne fermato da un carabiniere - quello della canzone - che aveva la pistola in mano, ma non sparò”.

A lui rivolgi un complimento: “Tanto onore a te”. Perché allora il titolo della canzone sembra biasimare la scelta di non aver aperto il fuoco? 

“Bisogna partire dal principio. Una cosa simile non dovrebbe succedere: il poliziotto non dovrebbe essere messo nelle condizioni di usare le armi. Questo è (sarebbe) il ruolo dello Stato, che però non sta assolvendo al suo compito”. Ma quel carabiniere avrebbe dovuto sparare, sì o no? “Cristianamente dico che una vita risparmiata è sempre una vittoria. Il gesto che io richiamo nella canzone, “Carabiniere spara”, più che una richiesta è un avvertimento. Se non verranno trovate delle soluzioni, se i cittadini continueranno a sentirsi insicuri, saranno costretti a farsi giustizia da soli. Il mio grido è un allarme: bisogna permettere alle forze dell’ordine di fare il loro mestiere”.

Le forze dell’ordine si sentono frustrate dall’impossibilità di garantire la sicurezza dei cittadini. 

“Sono anni che sento poliziotti e carabinieri lamentarsi di essere in trincea con mezzi insufficienti. Agenti che perdono un’intera giornata a identificare un malvivente, che rischiano la vita per arrestarlo e poi lo vedono il giorno dopo fuori di prigione. Inutile lamentarsi poi delle città insicure”.

Te la prendi anche con il governo “che non dice niente”.

“Il Governo è colpevole di non aver messo al primo posto la sicurezza e la tutela della vita dei cittadini. Sembra essere distante dalla vita reale, è percepito assente”.

Perché i “buonisti”, come li chiami tu, ti hanno criticato così tanto? 

“La gente non ragiona. Preferisce stare con gli occhi bendati e coccolarsi nei bei pensieri buonisti. Bisogna invece essere razionali. Parlare di difesa significa focalizzarsi sulla vita di una persona. Pensiamo agli anziani, che hanno pagato anni di tasse per ritrovarsi obbligati a stare chiusi in casa perché se escono rischiano di essere rapinati o aggrediti. E’ questa l’Italia per cui hanno lavorato? A me questo Paese non va più bene. E l’ho cantato”.

Nel testo dici di “rivolere la mia Italia, una città libera”. 

“Il nostro è un Paese non più libero di essere vissuto. La mia Italia, invece, è quella in cui i ragazzini sono di nuovo padroni delle loro piazze e i nonni delle loro panchine.

Qualcuno ti avrà spiegato però che non è il tipo di canzone con cui si diventa famosi. 

“Lo so benissimo. Ma io scrivo quello che penso. So di andare controcorrente, ma sono anche fiero di essere riuscito a coinvolgere le forze dell’ordine. Ho ricevuto tantissimi messaggi di apprezzamento di agenti, poliziotti o soldati. Una volta l’ho anche fatta ascoltare in piazza ad alcuni carabinieri”.

E come hanno reagito? 

“Con un semplice ‘grazie’. Che vale più di mille parole. E pensare che tra i passanti che mi hanno sentito suonare e che si sono fermate, c’erano soprattutto stranieri. Questo sa cosa vuol dire?” Mi dica. “Che nel loro Paese sono abituati a far rispettare le regole. Solo in Italia vale il contrario”.

A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!

Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.

Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".

La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.

Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.

Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.

Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.

Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….

Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......

Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.

Conformista come già cantò Giorgio Gaber

"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.

Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.

Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.

Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.

Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.

Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.

Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.

Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.

Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista

Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.

Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.

Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.

Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."

Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.

Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero). 

Sei intollerante (se è italiano). 

Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa). 

Sei cattivo (se è un essere umano). 

Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.

Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?

Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?

La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.

L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.

Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.

"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".

Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.

Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?

"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).

"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).

"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).

Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.

L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”.  Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.

L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.

L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini, che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".

L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.

L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».

L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....

In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.+Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

GLI ESTREMISTI DELLE NOSTRE VITE.

Gli estremisti delle nostre vite. Pasolini aveva ragione, scrive Francesco Boezi il 2 novembre 2016 su “Il Giornale”. “Caro Gennariello – scrisse Pasolini ad un allievo immaginario – a causa della scuola diseducatrice sei qui davanti a me come un povero idiota, umiliato, anzi degradato, incapace di capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale che, fra l’altro, ti angoscia”. Sono le poche righe da cui è scaturita l’idea di dar vita a questo blog. Parole portatrici di una struggente quanto tragica attualità “Gennariello” fu il destinatario ipotetico cui Pasolini inviò un “trattatello pedagogico” raccolto in Lettere Luterane. Un giovane di quindici anni, napoletano, borghese, amante del calcio. Il prototipo di studente potenzialmente imbevuto dal conformismo. Lo scrittore e regista romano cercò di metterlo in guardia dai professori, dai compromessi degli intellettuali, dall’immobilizzazione delle aspirazioni dentro un consesso culturale marcio ed incapace di sviluppare il libero pensiero, la libera immaginazione, la vocazione dell’intelligenza personale. Gli individui all’interno della scuola italiana, insomma, andrebbero sviluppandosi come contenitori vuoti, buoni solo ad essere riempiti con le nozioni utili al pensiero dominante, a quella cultura totalizzante cui Pier Paolo Pasolini addossava la responsabilità di voler accentrare tutto dentro la civiltà dei consumi. Chissà cosa avrebbe pensato Pasolini dell’accordo tra il Miur e Mcdonald’s per l’alternanza scuola-lavoro. Il ministero dell’istruzione, infatti, ha siglato un’intesa per cui gli studenti potranno svolgere le ore previste dalla legge 107 (Buona Scuola) all’interno dei locali del celebre fast food. Un favore niente male ad una multinazionale, mentre il Pd in piazza canta “Bella Ciao” in sostegno del Sì al referendum. Chissà cosa avrebbe scritto a Gennariello. Probabilmente le stesse medesime cose. La forza di Pasolini, d’altro canto, sta nell’essere stato un profeta. Era il 2 novembre 1975 quando l’autore di “Scritti corsari” fu assassinato all’Idroscalo di Ostia. Il poeta di Casarsa aveva già compreso che persino la scuola si sarebbe rivelata corresponsabile del proliferare dei modelli imposti, della distruzione delle differenze, dell’omologazione, di un edonismo neo-laico privato di qualunque valore umanistico, del dominio, insomma, dell’ideologia del consumo e dell’immagine. L’istituzione scolastica, alla fine della fiera, come stampella del totalitarismo della mercificazione. Gli studenti italiani lavoreranno a Mcdonald’s nelle ore di lavoro previste dalla 107. Deve essere stato questo il sogno ribelle dei sessantottini che oggi occupano le cattedre ed i banchi ministeriali d’Italia. Pasolini aveva ragione.

Viaggio tra i fondamentalisti della porta accanto: dai nazi-vegani ai dittatori del piatto, quelli che vogliono imporci le loro ideologie, scrive Domenico Ferrara, Mercoledì 02/11/2016, su "Il Giornale". Pubblichiamo un estratto del libro di Domenico Ferrara, "Gli estremisti delle nostre vite". Un viaggio attraverso i fondamentalisti della porta accanto: dai nazi-vegani ai dittatori del piatto passando per gli ecologisti estremi e altro ancora. Insomma, quelli che trasformano scelte di vita personali in ideologie da imporre a tutti. Vogliono metterci le catene. Non siamo più liberi. E non c’entra la libertà filosofica né la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Qui parliamo di arbitrio. E di estremismo. C’è una parte della società di oggi che cerca non tanto di inculcarci delle dottrine (ché sarebbe un fine legittimo che garantirebbe almeno la facoltà di non partecipare alle lezioni) quanto di imporci dei paradigmi, degli stili di vita, dei regimi alimentari. È una parte della società che mina nel profondo la nostra libertà di scelta. E, il più delle volte, lo fa con la violenza fisica o verbale, con l’allarmismo sociale o ancora con il terrorismo psicologico. Sono i talebani delle nostre vite. Gli estremisti della quotidianità. I portatori malati di un pernicioso nazismo delle idee. Quello che confina i disertori in un ghetto sociale, i cui componenti vorrebbe che diventassero una minoranza sempre meno influente. E soprattutto meno libera. Il verbo che loro diffondono è il solo possibile, quello giusto. Alla faccia del rispetto delle opinioni altrui. Si dice che la nostra libertà finisca dove inizia quella degli altri. Ma loro, gli altri, non conoscono confini. E, soprattutto, non credono nella libertà del prossimo, anzi, fanno di tutto pur di contrastarla e demolirla. In un’epoca in cui i terroristi dell’Isis condizionano le nostre esistenze, tagliando, oltre alle teste dei loro nemici, anche la nostra cartina geografica (prendete un mappamondo e fermatevi a riflettere un secondo su quali posti in questo periodo evitereste per paure di un attentato dell’Isis e vedrete che non sono pochi), c’è un altro tipo di fondamentalismo (ideologico) che si insinua nelle nostre vite. Il più delle volte non ce ne rendiamo conto, ne siamo inconsapevoli. Altre volte invece ci si presenta davanti con una virulenza inaudita. Prendete i nazivegani per esempio. Sì, proprio quelli. Ma badate bene, qui non si prendono in considerazione coloro che hanno scelto la via dell’ascetismo culinario e che il massimo del fastidio che possono procurare è la confusione dell’amico che se li trova a cena e che rimodella il menu a immagine e somiglianza degli invitati. No, quelli sono i vegani moderati, quelli che pacatamente ti spiegano le ragioni della loro scelta, che discettano di cibo industriale e che ti saprebbe- ro elencare i macchinari utilizzati per la cottura del pollo e gli elementi chimici usati per alimentare gli animali del pianeta. Scelta legittima e financo condivisibile. Perché scelta privata. Ognuno è libero, in teoria, di impiattarsi quello che più gli pare e piace. Nei limiti della legge, ovviamente. Non stiamo parlando di chi vuole farsi bistecche di panda e cucinare i gatti. Per carità. Qui si parla degli estremisti, quelli che fanno vere e proprie azioni di «guerriglia» contro i carnivori. Sono i paladini della violenza delle idee, disposti a tutto pur di convertire un infedele. Ma in realtà la conversione è un obiettivo che non si prefiggono. Loro puntano alla punizione. Lo ha spiegato perfettamente Valerio Vassallo, il leader di uno di questi movimenti vegani in un’intervista al programma Le Iene che ha fatto il giro del web. «Se vedo una persona che mangia un panino con la mortadella, se riesco ci sputo dentro. Se vedo una signora con una pelliccia, faccio di tutto per danneggiargliela. Se, per salvarsi la vita, mia madre fosse costretta a usare dei farmaci testati sugli animali, la disconoscerei». Sempre lui, insieme ai suoi compagni di ideologia, bloccò una gara di pesca alla trota sulle rive del fiume Sesia cercando di convertire un padre con queste dolci parole: «Tu stai insegnando a tuo figlio ad uccidere», innescando con lui un acceso alterco e impaurendo il bambino che scoppiò in un pianto dirotto. Colpirne uno per educarne cento. I nazivegani non guardano in faccia niente e nessuno. E riscrivono la storia, a modo loro. Nelle loro menti stanno rivivendo gli anni del nazismo: ciò che avviene negli allevamenti rappresenta - per loro - un nuovo Olocausto e gli animali sui quali si sono testate e si testano le medicine del passato, del presente e del futuro patiscono le stesse pene dell’inferno che patirono gli ebrei. Ma le fondamenta su cui si poggia questa sorta di religione ultra-ortodossa sono labili come un grissino (vegano) e non trovano alcun appiglio scientifico se non l’ancor più fragile precetto in base al quale è inutile testare i farmaci sugli animali se tanto poi sono gli uomini a doverli assumere. È l’antiscienza per eccellenza. O peggio, il disconoscimento della scienza stessa. A meno che, per salvare gli animali, non si voglia passare direttamente ai test sui bambini.

Giù le mani da Magdi Cristiano Allam, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2016 su “Il Giornale”. Chi sono davvero i razzisti? In questi giorni Magdi Cristiano Allam, intellettuale e giornalista tra i più liberi in Italia, nonché caro amico di chi scrive, è stato nominato cittadino onorario dal comune di Cascina, centro abitato di 45mila persone in provincia di Pisa. A volerlo insignire di tale carica sono stati l’assessore alla cultura, Luca Nannipieri, ed il sindaco, Susanna Ceccardi. Quello di cui stiamo parlando è il primo comune toscano ad essere governato dalla Lega Nord. “Fino a qui tutto bene; il problema non è la caduta, è l’atterraggio”, così recitava il monologo più famoso della pellicola L’odio (La Haine) film diretto e scritto, nel 1995, da Mathieu Kassovitz. L’atterraggio è rappresentato dai sedicenti appartenenti allo schieramento locale del Pd, la Cascina Democratica, che vuole ergersi ad unico detentore del potere di gestione del pensiero in città. Dai loro canali social alzano il pugno sinistro al cielo: “Restiamo convinti che l’assegnazione della cittadinanza ad Allam sia un gesto sbagliato e ci pare opportuno far conoscere la nostra opinione ai cittadini”, poi continuano “si prefigura il ritorno alla difesa del feudo, in maniera sempre più bellicosa”. Vogliono avere la prima e l’ultima parola, vogliono ergersi a liberatori delle coscienze quando sono i primi a promuovere leggi e discorsi liberticidi. La loro intenzione è quella di tappare la bocca a chi dice no, a chi si solleva contro una società corrotta e che frana insieme ai suoi valori. Anche il Psi, ma sono ancora vivi?, non ha perso tempo e ha cercato pubblicità attraverso la figura, stoica in questo caso, di Magdi. “Il Psi di Cascina non può né approvare né sottacere ad un’operazione di arruolamento forzato di Oriana Fallaci. E’ oggettivamente fuorviante associarla a culture e ad opinioni politiche, mai condivise e da cui è stata lontana tutta la vita, come si sta tentando di fare con l’iniziativa promossa presso il teatro Politeama”. Stiamo parlando di Cassandre, riferendoci a Magdi e alla Fallaci, capaci di vedere il futuro, analizzarlo, studiarlo e predirlo. Personalità che non hanno paura a caricare la loro anima, tra cultura e volontà di non cedere, per colpire il male di questi tempi. La disoccupazione ci sta mettendo in ginocchio, l’immigrazione ci sta rubando la nostra identità sacra e la politica sta spegnendo ogni sogno rivolto verso l’avvenire ed il problema è un’onorificenza? VERGOGNATEVI. I democratici, e chi altrimenti?, hanno definito il saggista “un personaggio che soffia sul fuoco del fondamentalismo”, ma non è finita qui perché viene descritto, dagli adepti renziani, come un uomo “che divide e nasconde dietro l’espressione scontro di civiltà l’idea di nuova guerra santa”. Ho dovuto rileggere certe dichiarazioni, almeno due volte, per sincerarmi che fossero vere. Come può un uomo che per 56 anni è stato musulmano, che ha raggiunto l’Italia partendo dall’Egitto, dove è nato, con un visto per lo studio in tasca essere un seminatore d’odio. Un intellettuale che ha abbracciato il Cristianesimo e che combatte ogni giorno il fondamentalismo islamico capace, solamente, di inorridire l’intero globo. Persona dotta, istruita e volenterosa la cui unica colpa è quella di dire la verità, nient’altro che la verità. “Dare del seminatore di intolleranza a me è estremamente grave. Sottintende il fatto che ho un pregiudizio nei confronti degli immigrati o dei musulmani che corrisponde ad un reato perché parliamo di razzismo. Ricordo loro che io sono stato un immigrato vero in Italia. Mi rappresentano come un terrorista ma io sono una vittima del terrorismo e di quelli che seminano intolleranza: da 14 anni vivo sotto scorta”, questo ha dichiarato, lo scrittore, sulle colonne de Il Giornale.  Eppure i veterocomunisti pisani, tanto ligi a parlare di morale, però incapaci nella loro dottrina politica di averne una, dovrebbero sapere che il comune di Cascina, nel 1998, ha consegnato la cittadinanza a Silvia Baraldini. Quest’ultima ha scontato 23 anni di galera, per associazione eversiva, tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia. Vicina al movimento Black Panther Party è finita in manette per concorso in evasione, associazione sovversiva (nel curriculum figurano anche due tentate rapine) ed ingiuria al tribunale. Resto disgustato da questo tipo di proteste e dichiarazioni puramente ideologiche, capaci di mostrare solo l’ignoranza di chi critica per partito preso senza analizzare i contenuti. In questo caso parliamo di una persona che conosce, a memoria, il Corano e che da quando si è convertito è stato dichiarato un uomo morto dall’Islam, proprio per via della sua conversione. Ma a quanto pare i difensori di questa religione, che promuove l’odio, bramano per diventare i primi complici del fondamentalismo religioso se le nostre città si trasformeranno nella Parigi della sera del 13 novembre. Del resto ognuno si sceglie i propri modelli di civiltà, il mio l’ho scelto ed è un esempio di disciplina e di lotta per ognuno di noi: MAGDI CRISTIANO ALLAM.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

Vuoi fare successo? Inventati una Gomorra! Uno scrittore fallito inventa un reportage su Scampia. E, sparando "ca...te senza pietà" arriverà alla gloria. La geniale parodia di Roberto Saviano fatta da Francesco Mari, scrive Nicola Mirenzi su “Il Giornale”. Francesco Mari, La ragazza di Scampia, Fazi, 2014. Altro che il vero. È lo spruzzo di realtà, specie se criminale, che scala le classifiche, diventa bestseller e assalto ai botteghini. Ecco la messinscena che Francesco Mari fa a pezzettini con il suo romanzo d’esordio, La ragazza di Scampia (Fazi Editore, 256 pp, 16 euro), prendendosi gioco dei prodigi dello storytelling camorristico nazionale, dove la scena di Napoli è sempre acchitata per compiacere l’occhio di chi guarda, desideroso di confermarsi nell’idea che “i napoletani abitano dentro un noir a cielo aperto”. Il protagonista, Franco, tardo trentenne funzionario del comune, ha una vita noiosa. Il momento di più alta eccitazione della giornata lo raggiunge quando si ficca le cuffie dell’iPod nelle orecchie andando in ufficio. “Niente Radiohead e niente Anthony and the Johnsons da queste parti. Niente nomi giusti e gusti ricercati, di chi di musica ne capisce. Qui si attinge l’illuminazione a botte di Madonna, Jennifer Lopez e Céline Dion”. Poi c’è la depressione del lavoro: “Otto ore quotidiane di ufficio in cui faccio questo: niente”. Per arrivare alla ciliegina sulla torta delle le donne: ““È quasi un anno che non scopo, Vale!”, Chi cazzo se ne frega della crisi economica, la disoccupazione, i problemi preadolescenziali di tuo figlio”. Un monologo interiore che si conclude sempre con la stessa resa: un bacio sulle guance. Franco però scrive. Rimugina la rivincita. Il piano è convincere un editore cool di Milano, uno di quelli che ti fanno svoltare da un giorno all’altro, di pubblicare un libro. S’inventa così di sana pianta un Reportage dall’inferno di Scampia (e dove, senno?). “Come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, ho imbracciato la mia arma e ho cominciato a sparare cazzate senza pietà”. Un cantante neo-melodico che svela i segreti dei clan. Il gruppo rap impegnato nel sociale. Una donna-coraggio che perde il fratello e decide di parlare senza paura di morire ammazzata: “I killer che mi verranno a fare fuori li aspetterò qua, a casa mia”. È una storia afrodisiaca. Combacia alla perfezione con l’ideologia del romanzo criminale. Il mafia-reality-show. L’editore si convince d’aver scovato il nuovo Saviano. Firma il contratto. Pianifica di far uscire il libro insieme a un film. “Faranno il botto”, presagisce. Sale su su sino al settimo cielo. Da dove non scenderà neanche quando scopre che è tutta una sceneggiata. Era la Napoli che voleva farsi raccontare. La racconterà. “Vera, falsa, che importanza ha?”.  A sfottere godiamo: siam settentrionali.

ESSERE LIBERALI OD ESSERE DI SINISTRA?

Dover scegliere di essere egoisti e meschini o saccenti e cattivi?

Dante contro gli immigrati: "La mescolanza delle genti è causa dei mali delle città". Nel XVI canto del Paradiso Dante, tramite il suo avo Cacciaguida, lancia un'invettiva contro gli stranieri che hanno invaso Firenze e contro la Chiesa, complice dell'invasione, scrive Matteo Carnieletto su “Il Giornale”. Esiste un Dante Alighieri che Benigni non vuole o non può vedere. Un Dante reazionario. Reazionarissimo. Un Dante che sarà poi ripreso dal "cattolico belva" Domenico Giuliotti e da Ezra Pound. Questo Dante, il vero Dante, ha scritto parole durissime contro l'immigrazione e contro la Chiesa che si rende complice di questa tratta di uomini. Basta leggere il sedicesimo canto del Paradiso, dove Dante, accompagnato da Beatrice, è a colloquio con Cacciaguida, il glorioso avo che trovò la morte durante la seconda crociata. Dante chiede a Cacciaguida di parlargli di Firenze, di raccontargli come fosse nei tempi civili. Subito Cacciaguida si infiamma "come s’avviva a lo spirar d’i venti / carbone in fiamma, così vid’io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti". Ricorda come gli abitanti di Firenze fossero un quinto rispetto a quelli che ci sarebbero stati 150 anni dopo dopo la sua morte: "Tutti color ch'a quel tempo eran ivi / da poter arme tra Marte e ‘l Batista, / eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, / pura vediesi ne l’ultimo artista". Ovvero: la popolazione di Firenze, che ora è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era pura fino al midollo. Fino al più semplice degli artigiani. E di chi è la colpa, secondo Cacciaguida e, quindi, anche secondo Dante? Della Chiesa che favorisce l'immigrazione dei toscani a Firenze: "Se la gente ch’al mondo più traligna / non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, / tal fatto è fiorentino e cambia e merca, / che si sarebbe vòlto a Simifonti, / là dove andava l’avolo a la cerca". Ovvero: se la Chiesa non fosse stata matrigna nei confronti dell'imperatore e fosse stata amorevole nei confronti del figlio, certi fiorentini che ora passano il tempo a cambiar valute e a mercanteggiare sarebbero rimasti a Semifonte a chiedere l'elemosina come facevano i loro avi. E Dante riconosce la causa prima della decadenza delle città nell'immigrazione indiscriminata: "Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone". Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città. Insomma, attenti progressisti e radical chic a leggere Dante. Potreste rimanere parecchio delusi.

Il Giornale: "Dante era contro gli immigrati". Ma il dantista Mirko Volpi li stronca: "Operazione forzata, non tirate Dante per la giacca", scrice Laura Eduati su L'Huffington Post. Sette secoli prima dell'arrivo dei barconi dall'Africa, Dante Alighieri si scagliava contro gli immigrati. O almeno questa è la lettura del quotidiano "Il Giornale" che cita il XVI canto del Paradiso, dove viene deplorato l'arrivo degli abitanti del contado a Firenze, città ora impura perché ha accolto genti di diversa provenienza. Per questo, avverte l'autore dell'articolo, "radical chic" e fautori dell'accoglienza dei profughi rimarrebbero delusi dalla lettura della Divina Commedia. Dante chiede a Cacciaguida di parlargli di Firenze, di raccontargli come fosse nei tempi civili. Subito Cacciaguida si infiamma "come s’avviva a lo spirar d’i venti / carbone in fiamma, così vid’io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti". Ricorda come gli abitanti di Firenze fossero un quinto rispetto a quelli che ci sarebbero stati 150 anni dopo dopo la sua morte: "Tutti color ch'a quel tempo eran ivi / da poter arme tra Marte e ‘l Batista, / eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, / pura vediesi ne l’ultimo artista". Ovvero: la popolazione di Firenze, che ora è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era pura fino al midollo. Fino al più semplice degli artigiani. Dopo aver sottolineato che la colpa della mescolanza era della Chiesa, così come ricorda lo stesso Cacciaguida, Il Giornale conclude riportando l'opinione di Dante sullo spostamento delle persone da un luogo all'altro: "Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone". Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città. "Si tratta di una indebita attualizzazione di Dante, una operazione forzata che tira l'autore della Divina Commedia per la giacca cercando di portarlo sugli argomenti di attualità e piegandolo alle proprie convinzioni", commenta Mirko Volpi, ricercatore e studioso di Dante all'Università di Pavia. "Dante non è moderno e non è modernizzabile, perciò quello che scriveva non può essere utilizzato in una polemica attuale come l'immigrazione, così come non si poteva usarlo in chiave anti-Islam". Volpi, che affianca il suo lavoro di filologo a volumi più leggeri come "Il Diario di Mirko V." e che a luglio sarà in libreria con "Oceano Padano" (Laterza), ricorda il senso reale delle terzine citate da Il Giornale: "Il dialogo con Cacciaguida si inserisce in una polemica differente: quella che Dante ha sempre nutrito nei confronti dell'avidità e della sete di ricchezza. Il trasferimento di commercianti e artigiani dal contado a Firenze è dunque visto come una conseguenza della fame di denaro, e perciò giudicato negativo e portatore di corruzione in una città che secondo la sua visione un tempo era stata pura e incontaminata". "Fare un parallelo tra lo spostamento di qualche centinaio di persone dalle colline alla città non può essere nemmeno lontanamente paragonabile con l'esodo dei profughi a bordo dei barconi nel Mediterraneo: anche questa è una forte sproporzione che indica una maniera sbagliata di leggere Dante. Non è Dante a dover arrivare nel 2015, siamo noi a dover tornare indietro e scoprire il Dante del suo tempo, con i valori eterni che promuove".

Antonio Socci su “Libero Quotidiano”: ecco il Dante che Benigni non ci ha mai raccontato. In altri tempi a celebrare solennemente in Senato, alla presenza del Capo dello Stato, il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, sarebbero state chiamate personalità del calibro di Francesco De Sanctis o Benedetto Croce.  Ma ogni epoca ha i vati che merita. Così, pare per volontà del presidente Grasso, il Senato nei giorni scorsi ha fatto tenere la suddetta prolusione al comico di Vergaio, Roberto Benigni. È lui il nuovo vate della nazione? Non è facile capire com’è che - per gli attuali vertici dello Stato - un gigante del pensiero e della storia nazionale come Dante debba essere illustrato in Senato da un attore comico. Perché Benigni questo è: un ottimo comico, divertente, ma pur sempre un comico che va benissimo per la tv e per le piazze.  Ma non risulta che abbia titoli o meriti filosofici, letterari o storici per tenere la prolusione in Senato. Del «Benigni poeta» del resto ricordo solo l’Inno del corpo sciolto sulle cui strofe è meglio sorvolare. Evidentemente il presidente Grasso al nome di Dante riesce ad associare solo quello di Benigni, segno di una «cultura» non proprio vastissima e perlopiù televisiva.  In fondo avrebbe potuto reperire anche sui giornali (non dico sui libri) nomi di intellettuali contemporanei - da Ernesto Galli della Loggia a Umberto Eco, al cardinale Giacomo Biffi - a cui affidare una riflessione che avesse un'autorevolezza adeguata all’aula del Senato. Ma i vertici dello Stato ritengono che Benigni sia l’oratore più adatto per gli attuali parlamentari. Qualcuno ha notato che di questo passo potrebbero chiamare in Senato a celebrare il Petrarca un Alvaro Vitali e Checco Zalone per il Manzoni.  Forse il paragone non è giusto. Benigni ha fatto obiettivamente una buona opera di divulgazione popolare con le sue letture dantesche. Sono molto divertenti gli spettacoli che ha dedicato alla Divina Commedia. Ma sono appunto spettacoli di un ottimo attore comico.  Altra cosa dovrebbe essere una solenne riflessione in Senato sul 750° anniversario della nascita di un poeta così grande e così importante per il nostro Paese da aver letteralmente coniato la nostra lingua italiana (perché - se non lo si sa - la Divina Commedia fu scelta come il canone della nostra lingua). Possibile che delle nostre istituzioni e della nostra identità culturale millenaria si abbia una considerazione che non va oltre gli esilaranti spettacoli di un attor comico? Possibile che nessuno abbia sentito, nell'occasione, la necessità di una riflessione seria sulla nostra identità nazionale? Sarebbe questo il «senso delle istituzioni» che viene sempre sbandierato da lorsignori? Ed è questa la consapevolezza culturale che le nostre classi dirigenti hanno della storia e del destino di questo Paese? Da Benigni, in Senato, per questa nostra Italia del cazzeggio, è arrivata la solita raffica di battute. Simpatica quella secondo cui PD significherebbe Partito di Dante.  Lui l’ha detta ridendo, ma si sa che Arlecchino si confessa burlando e - in fin dei conti - l'operazione fatta in questi anni da Benigni è stata proprio questa: trasformare Dante in un autore «politically correct». Infatti si è verificato questo singolare e buffo fenomeno: negli ultimi quindici anni Dante - o meglio il Dante benignesco - è entrato nel Pantheon del progressista italico. Curioso no? Con il '68 la Divina Commedia fu di fatto spazzata via dalla scuola, Dante era considerato un barboso bigotto reazionario.  Poi Benigni, per la sua Italia progressista, l’ha tirato fuori dal lazzeretto in cui era stato relegato. Ma non che oggi Dante venga letto o davvero riproposto a scuola e studiato e amato. No.  Quanti fra coloro che si dicono appassionati dantisti sulla scorta di Benigni hanno mai sentito parlare o letto Auerbach o Contini o Singleton? Ancor più si tengono a distanza dalla dottrina cattolica di Tommaso d’Aquino e Bernardo di Chiaravalle che struttura tutta la Commedia. Figuriamoci. Il Dante dell’intellettuale collettivo e della Sinistra benpensante in realtà è Benigni, non il poeta della Divina Commedia che resta - ai loro occhi - un indigeribile trombone cattolico-reazionario. Infatti Benigni, per renderlo digeribile al delicato stomaco della sinistra salottiera, ha «appannato» il vero Dante, quello «politicamente scorretto», scomodo e urticante. Oggi il vero Dante, redivivo, sarebbe letteralmente schifato e considerato quasi un appestato, sia nelle curie ecclesiastiche che in quelle laiche, come del resto gli accadde in vita. Infatti visse ramingo e braccato. Fu considerato un fallito come politico e pure come intellettuale se - lui vivente (già circolavano l'Inferno e il Purgatorio) - fu data l’incoronazione di poeta (che era un po’ il Nobel di allora) a un tal Albertino Mussato, per aver scritto una tragedia, l’Ecerinis, che nessuno ricorda più. Dante fu esiliato da Firenze e morì in contumacia (come Craxi!) con l’accusa di «barattiere», cioè tangentista. Dunque o Dante era un ladro (perciò sarebbe considerato col disprezzo riservato ai politici corrotti) o - ed è certo - non lo era e allora fu vittima di una giustizia di parte (politicizzata), davanti alla quale - fra l'altro - non volle comparire disprezzandola (così guadagnandosi la condanna al rogo). Del resto ha lasciato nella Commedia parole di fuoco contro chi lo condannò. Ed insieme il suo alto lamento sull'Italia che vede come un «bordello» e come una nave senza timoniere, sbattuta qua e là dalle tempeste e rovinata da classi dirigenti miserabili. Ma il Poema sacro - che non ha eguali nella letteratura mondiale (in questo Benigni ha ragione: «non è l’apice della letteratura italiana, è l’apice di tutte le letterature, non c'è niente di più alto») - contiene pure un'impressionante e «spudorata» serie di violazioni del politically correct, tale da fare impallidire l’odierna mentalità dominante. Tempo fa un'associazione internazionale - riferiva il Corriere della sera - ne chiese la cancellazione dai programmi scolastici o la «correzione» dei suoi presunti contenuti «islamofobici, razzisti ed omofobici». In realtà non c’è nessun razzismo, ma è vero che il poema dantesco può sembrare urticante a due «partiti» oggi agguerritissimi, il mondo musulmano e il movimento gay, in riferimento a coloro che il poeta pone all’Inferno. Del resto, da «cattolico integralista» come oggi lo si definirebbe (ma in realtà è solo cattolico), mette all'inferno pure gli eretici, i bestemmiatori, gli adulatori e (pur essendo lui alquanto sensibile alle grazie femminili) anche i lussuriosi. Infine, come se non bastasse, condanna con parole di fuoco diversi Papi del suo tempo, mettendoli all'inferno e sparando a zero sulla corte pontificia, pur professandosi cattolicissimo. Anzi, proprio perché cattolico. Cosa che oggi, in tempo di bigottismo imperante, sarebbe ritenuta inammissibile: ma lui era cattolico, non clericale, né papolatra, mentre oggi tutti sono clericali e papolatri, senza però professare la fede cattolica. Il cardinale Giacomo Biffi ha scritto: «La cristianità ha un esempio ammirevole del connaturale connubio tra fede e libertà in Dante Alighieri. Proprio la sua indubitabile adesione alla verità cattolica consente e illumina la sua perfetta autonomia di giudizio, svincolata da ogni timore o condizionamento umano. Dante non teme di criticare l’operato dei Papi e le loro scelte operative, fino a collocarne diversi nel profondo dell'inferno. Ma in lui non viene mai meno e mai minimamente s’attenua “la reverenza delle somme chiavi” (Inf. XIX, 101). Quando si tratta di esprimere riserve o biasimi che egli ritiene dovuti, non ci sono sconti né per i laici, né per gli ecclesiastici, né per i monarchi, né per i semplici cittadini... tenuti tutti, senza eccezioni, ad attenersi alla legge evangelica». Dante non fu solo il più grande dei poeti, ma - essendo davvero cristiano - fu un uomo libero. E per questo scomodo.

Perchè preferiamo Einaudi a Croce, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Si può tecnicamente affermare che ci siano più “Storie del pensiero liberale”, che pensatori liberali in circolazione. Ve ne consiglio una, fresca di stampa, scritta da Giuseppe Bedeschi per i tipi della Rubettino. Se l’autore non si offende, direi che la parte che vale di più è proprio la sua corposa introduzione. È una roba che può leggere chiunque: anche un autodidatta, come chi scrive. È semplice e ben organizzata. Molto chiara l’esposizione sul diverso fondamento filosofico del liberalismo delle origini. Quello di Locke basato su un diritto naturale alla libertà individuale, sacrosanto e sovraordinato a qualsiasi invenzione realizzata dagli uomini stessi. Hume contesta invece i presupposti del contratto tra individui con cui nascerebbe lo Stato nella teoria lockiana, sostenendo che dal punto di vista strettamente storico chi ci governa deve il suo scettro a qualche prepotenza o conquista del passato. E che dunque il liberalismo (conclusione simile a Locke) deve difendere i cittadini dallo Stato. Non ve la facciamo lunga, ma potremmo continuare con tante delle porte intellettuali lasciate aperte nella sua introduzione da Bedeschi. Il liberalismo come si concilia con la democrazia? Per l’autore la sintesi c’è. Ma non per l’intero pantheon degli autori che ricorda. E come mettere insieme eguaglianza e libertà? Insomma i grandi temi del pensiero liberale sono ben amalgamati nella prima parte del libro e poi rubricati in capitoli dedicati ai grandi pensatori nel prosieguo. Scrive Bedeschi che proprio queste numerose distinzioni tra pensatori liberali hanno fatto parlare qualcuno di “liberalismi” al plurale. Una posizione però inaccettabile. Vi consigliamo tra l’altro di leggere l’ultima parte dedicata ai liberali tra le due guerre. L’autore nota, giustamente, come sia il periodo meno fecondo per l’idea liberale. Ma sentite come definisce Benedetto Croce: “in un quadro generale di decadenza del liberalismo medesimo, sia in Kelsen sia in Croce si avverte l’indebolimento, o addirittura, il venir meno di alcuni motivi fondamentali del pensiero liberale”. E ancora: “Croce non può essere considerato un grande pensatore liberale”. Qualche pagina più avanti il suo famoso dibattito sulle libertà economiche con Luigi Einaudi, vi darà qualche elemento in più per giudicare. Se oggi dovesse aggiornare la sua storia del liberalismo, temo che Bedeschi farebbe ancor più fatica a trovare un grande pensatore liberale per il nuovo millennio.

Lev Tolstoi su “Il Giornale”: "La rivoluzione non si fa con la violenza". "La condizione dell’umanità attuale è tanto più deplorevole in quanto nei nostri cuori noi concepiamo la possibilità di un'altra vita, completamente differente, ragionevole e fraterna, senza pazzia del lusso di alcuni e la miseria e l'ignoranza degli altri, senza esecuzioni, dissolutezza, violenza, armamenti, guerre. Ma il regime presente, mantenuto dalla forza, si è radicato a tal punto che noi non possiamo immaginare una vita collettiva senza un’autorità governativa; noi ci siamo a tal punto abituati che cerchiamo di realizzare addirittura l’ideale di una vita libera e fraterna attraverso degli atti d’autorità, vale a dire con la violenza. Questo errore è alla base del disordine morale e materiale della vita passata, presente e futura della cristianità. Un esempio lampante ci è donato dalla Rivoluzione francese. Gli uomini della Rivoluzione hanno posto chiaramente gli ideali di uguaglianza, di libertà e di fraternità, in nome dei quali essi hanno desiderato trasformare la società. Da questi principi sorsero delle misure concrete: abolizione delle caste, ripartizione uguale delle ricchezze; soppressione dei titoli e dei gradi, della proprietà fondiaria, dell'esercito permanente, istituzione dell'imposta sul reddito, pensioni per i lavoratori; separazione della chiesa e dello stato, cioè l'istituzione di una dottrina razionale, comune a tutti. Queste misure, essendo sagge e benefiche, erano la conseguenza diretta dei veri principi di libertà, uguaglianza e fraternità posti dalla Rivoluzione. Questi principi, così come le misure che ne sono sorte, sono stati, sono e resteranno veri, e rimarranno come l'ideale dell'umanità fintanto che non saranno realizzati. Tuttavia, questo ideale non potrà mai essere realizzato con l'aiuto della violenza. Malauguratamente, gli uomini della Rivoluzione erano talmente abituati all'uso della forza come unico mezzo d'azione, che non si accorsero della contraddizione che conteneva l'idea di realizzare l'uguaglianza, la libertà e la fratellanza attraverso l'uso della violenza. Essi non si accorsero che l'uguaglianza è l'opposto della dominazione e della sottomissione, che la libertà è inconciliabile con la costrizione e che non si può avere della fratellanza tra coloro che comandano e coloro che obbediscono. Da questo fatto derivano tutte le atrocità del Terrore. L'errore non è tanto nei principi, come credono alcuni - essi sono stati e restano veri -, ma nei mezzi in cui si sono applicati. La contraddizione che spuntò così nettamente e brutalmente durante la Rivoluzione francese e che, al posto del bene, conduce al male, dimora fino al giorno d'oggi, rivelandosi in tutti i tentativi di migliorare l'organizzazione sociale. In effetti, si spera di realizzare questo miglioramento con l'aiuto del governo, cioè con la forza. Ancora meglio questa contraddizione si manifesta non soltanto nelle dottrine sociali attuali, ma nelle stesse dei partiti politici più progressisti: socialisti, rivoluzionari, anarchici, che prevedono la città futura. Insomma, gli uomini cercano di raggiungere l'ideale di una vita razionale, libera e fraterna attraverso l'aiuto della forza, quando questa, qualsiasi forma essa prenda, non è altro che il diritto ottenuto da alcuni per disporre degli altri e, in caso di insubordinazione, di contrastare questi con il mezzo estremo: l'assassinio. Vale a dire: realizzare l'ideale della felicità umana mediante l'omicidio. La grande Rivoluzione francese è stata l’enfant terrible che, in mezzo all’entusiasmo di tutto un popolo, davanti alla proclamazione delle grandi verità rivelate e all'inerzia della violenza, ha espresso, in maniera candida, tutta l'inettitudine della contraddizione nella quale si dibatté allora e si dibatte ancora l'umanità: «Liberté, égalité, fraternité ou la mort». \[…\] Ora, la meta - il bene di ognuno e di tutti - è raggiunta unicamente grazie alla trasformazione interiore dell'individuo, per l'elaborazione di una coscienza religiosa e indipendente, allo scopo di vivere in conformità con questa concezione personale. Nello stesso modo che una materia in combustione può da sola comunicare il fuoco a delle altre materie, solo la vera fede e la vera vita di un uomo possono essere trasmesse ad altri uomini, diffondere e consolidare la verità religiosa. Dunque, solo la propagazione e il consolidamento della verità religiosa migliorano le condizioni degli uomini. Ecco perché non c'è un mezzo per liberarsi da tutti i mali di cui soffrono gli uomini, compreso l'atroce male che commette il governo: il lavoro interiore che ognuno di noi deve fare al fine d'essere l'architetto del proprio miglioramento morale. \[…\] Ora, questa libertà vera può essere realizzata solamente con il rifiuto di sottomettersi a qualsiasi autorità, senza ricorrere alle barricate, assassini e nuove istituzioni ottenute e sostenute con il ricorso alla violenza. \[…\] Penso che proprio ora stia cominciando quella grande rivoluzione che si è andata preparando per duemila anni in tutto il mondo cristiano. Una rivoluzione consistente nella sostituzione del cristianesimo degenerato, di quel potere di pochi e la schiavitù di tutti gli altri, in un cristianesimo vero, alla base dell'eguaglianza di tutti gli uomini e di una libertà autentica, quella propria degli esseri ragionevoli. Lev Tolstoi"

25 APRILE 2015. 70 ANNI DALLA LIBERAZIONE. L'ALTRA RESISTENZA CONTRO IL RITO DELL'ANTIFASCISMO UN PO’ FASCISTA.

L'Italia liberata dagli alleati. La storia scritta, invece, da chi si dichiara vincitore: Saccenti e cattivi sempre contro.

Dubbi e ricordi di Salandra. Così l'Italia entrò in guerra. Primo ministro fra il marzo 1914 e il giugno 1916 fu lui, con Sonnino, a "pilotare" il Paese dalla neutralità all'intervento a fianco dell'Intesa, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Il 2 giugno 1915 Antonio Salandra pronunciò in Campidoglio, nella bella sala degli Orazi e Curiazi, un celebre e appassionato discorso per illustrare le motivazioni che avevano spinto l'Italia a imbracciare le armi. Disse che la guerra, appena iniziata per l'Italia, era «santa» e si combatteva «a tutela delle più antiche e più alte aspirazioni, dei più vitali interessi della patria». Aggiunse che sarebbe stata «più grande di qualunque altra la storia» ricordasse e che avrebbe coinvolto tutti gli italiani. Per dare al discorso il carattere di un solenne atto di governo era stato scelto un giorno non festivo. Salandra aveva lavorato al discorso per due mattinate, ma gran parte di esso fu pronunciato a braccio sulla base di appunti. Cionondimeno ebbe successo e piacque persino a Benedetto Croce non certo tra i fautori dell'intervento, che vi trovò parole «veramente da italiano, da italiano antico e moderno, insieme borghese nel miglior senso della parola» e del quale gli piacque «quell'assenza completa di fanatismo nazionalistico, quella concezione patriottica e umana insieme, che è una delle più belle note dell'italianità». Salandra era succeduto a Giolitti nel marzo 1914. Aveva superato i sessant'anni e aveva alle spalle una lunga carriera politica: eletto deputato per la prima volta nel 1886, aveva poi ricoperto più volte incarichi di sottosegretario e ministro. Era, anche, uno studioso illustre di diritto amministrativo, formatosi culturalmente alla scuola di Francesco De Sanctis e di Silvio Spaventa. Liberal-conservatore, si era battuto per «l'unione di tutte le forze liberali» contro i partiti estremi e, formando il governo, si era ispirato al principio di creare una «concentrazione liberale» alla quale partecipassero esponenti della sinistra zanardelliana, del centro e della destra. Interessato soprattutto alla politica interna, all'amministrazione, al rafforzamento dello Stato e alla costruzione del grande partito liberale, si trovò subito a dover gestire la posizione dell'Italia, allora legata dalla Triplice Alleanza all'Austria-Ungheria e alla Germania, di fronte alla guerra scoppiata nell'estate del 1914. La sua prima scelta fu la neutralità, il 3 agosto di quello stesso anno. Poi venne, l'anno successivo, dopo le «radiose giornate» del maggio 1915, la decisione di prendere parte al conflitto per portare «a compimento il Risorgimento» ed «elevare l'Italia alla realtà di grande potenza». Proprio al periodo compreso fra la scelta neutralista e quella di entrare in guerra Salandra dedicò un importante volume di «ricordi e pensieri» intitolato L'intervento che la Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio di Firenze ha ristampato in una curata edizione anastatica e che verrà distribuito gratuitamente a tutti i partecipanti al grande convegno Niente fu più come prima. La Grande Guerra e l'Italia cento anni dopo , che si svolgerà a Firenze il 13 e 14 marzo. L'opera è una testimonianza che ricostruisce, sulla base dei ricordi di un protagonista e sulla documentazione, le trattative con l'Austria e quelle con l'Intesa, la stipulazione dell'accordo di Londra, le battaglie in piazza e in Parlamento fra neutralisti e interventisti, la crisi del maggio 1915, gli estremi tentativi diplomatici per evitare l'ingresso in guerra e le fasi della mobilitazione militare e civile. Salandra aveva cominciato a pensare che la neutralità fosse destinata a finire quando «l'ambizioso piano germanico della guerra di poche settimane» si era infranto sulle rive della Marna. C'erano, quindi, state, prima, la crisi governo per divergenze sul finanziamento del piano militare e, poi, la formazione del nuovo gabinetto del quale entrarono a far parte personalità come Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino. Quest'ultimo, nominato ministro degli Esteri, era legato a Salandra da una trentennale amicizia e da una «solidarietà politica» in nome di una concezione «forte» del liberalismo e della necessità di un «ritorno allo Statuto» per recuperare o tonificare il prestigio e l'autorità dello Stato. I veri protagonisti dell'attività diplomatica svolta in maniera sotterranea nei difficili e drammatici mesi compresi fra il novembre 1914 e la primavera del 1915 furono, proprio, loro due, Sonnino e Salandra. Questi lo riconosce senza mezzi termini: «del bene e del male a noi due spetta l'onore e il biasimo». Le trattative con Vienna e Berlino iniziarono nel dicembre 1914 ma si arenarono per l'insufficienza dei compensi offerti all'Italia dalle potenze della Triplice. Quelle con l'Intesa, che avrebbero portato al Patto di Londra e all'impegno italiano a entrare in guerra entro un mese, cominciarono all'inizio di marzo. La descrizione che Salandra fa della crisi di maggio è precisa e ricca di chiaroscuri. Il fronte interventista era costituito da intellettuali e studenti, nazionalisti, irredentisti, sindacalisti rivoluzionari. Era, per così dire, un vario interventismo raccolto attorno al progetto di completare l'unità nazionale e assicurare all'Italia un ruolo paritario fra le potenze. A esso si contrapponeva il fronte neutralista comprendente liberali giolittiani, socialisti e cattolici. Sottolinea Salandra come la spinta venisse proprio dal Paese: «mentre i neutralisti tenevano il campo a Montecitorio, gli interventisti occupavano le piazze». Poi, finalmente, ci fu la dichiarazione di guerra contro l'Austria. Dal volume emerge la personalità di un uomo che, liberale con una visione conservatrice della politica in linea con la tradizione della Destra storica, segnò la fine dell'età giolittiana e del tentativo di Giolitti di proporre un liberalismo fondato sull'arte del compromesso e sulla prassi della mediazione. Con la sua «politica nazionale» contrapposta alla «sana democrazia» di Giolitti, Salandra diventò il naturale punto di riferimento della «borghesia liberale» costituita dai nuovi ceti medi sorti dal processo di industrializzazione e modernizzazione dell'Italia postunitaria.

La stanza di Montanelli su “Il Corriere della Sera”: Ecco perchè Mussolini entrò in guerra. Caro Montanelli, Sono un giovane appassionato di argomenti storici e ultimamente sto leggendo il suo libro sulla storia d'Italia del Novecento. Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, vorrei farle questa domanda. Secondo lei Mussolini proprio non avrebbe potuto fare a meno di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler nel giugno del 1940, e, magari, non avrebbe fatto meglio a fare come Franco, cioè il neutrale? Arduino Lapo. Caro Lapo, Se lei sta leggendo il libro mio e di Cervi sull'Italia del Novecento, dovrebbe avervi già trovato risposta alla sua domanda. Niente e nessuno costringeva Mussolini a entrare in guerra a fianco della Germania. Il problema si era posto il 3 settembre dell'anno prima (1939), quando la guerra era stata - controvoglia, molto controvoglia - dichiarata da Francia e Inghilterra alla Germania che aveva invaso la Polonia. E in quel momento forse Hitler avrebbe voluto che l'Italia si schierasse al suo fianco, come stabiliva il patto d'alleanza (il famoso e famigerato "Patto d' Acciaio") fra i due Paesi. Mussolini, addusse due motivi a giustificazione della sua - come oggi la si chiamerebbe - "desistenza". Il primo era quello di non essere stato nemmeno informato del colpo di mano sulla Polonia che non poteva non provocare l'intervento di Francia e Inghilterra, dati gl'impegni che alla Polonia le legavano. Il secondo era la condizione posta da Mussolini e, a quanto pare, accettata da Hitler, che la guerra non dovesse scoppiare prima di altri tre anni, quanti ne occorrevano all'Italia - da poco reduce dagli sforzi bellici compiuti in Abissinia e in Spagna - per prepararvisi. Tutto questo era noto solo nei ristretti ambienti della diplomazia. Ma io, che in quel momento mi trovavo a Berlino per conto di questo giornale, ricordo con quale disprezzo ci guardavano i tedeschi. "I soliti traditori" pensavano di noi italiani. Nel giugno del '40 le cose erano del tutto cambiate. L' esercito francese era stato spazzato via dalla Wehrmacht, solo un brandello di quello inglese era riuscito a reimbarcarsi e a tornare a casa. E la Germania, convinta di non aver più bisogno di aiuto per giungere alla vittoria, non solo non sollecitò l' intervento italiano, ma ne fu infastidita. (Che cosa i tedeschi pensassero di noi, mi era stato chiaro fin dal 1938, quando, di passaggio a Londra, venni a conoscenza di un episodio che governo e stampa inglesi avevano, per motivi di opportunità, tacitato. Un'associazione di reduci della prima guerra mondiale aveva invitato a una conferenza uno dei più autorevoli Marescialli tedeschi - Brauchitsch mi dissero, ma poi mi smentirono - sulle nuove tecnologie militari. Alla fine del banchetto che seguì, qualcuno gli chiese chi avrebbe vinto la prossima guerra. "Chi la vincerà, non lo so - avrebbe risposto l'ospite -, ma so con sicurezza chi la perderà: chi avrà per alleato l'Italia". Non giuro sul nome di Brauchitsch, ma sull'autenticità dell' episodio sì). Fu quindi di sua testa, e contro l'opinione dei suoi uomini migliori - Grandi, Balbo, Bottai - e dello Stato Maggiore a guida Badoglio, che Mussolini volle e decise la guerra. Perchè? Perchè era convinto che i tedeschi l'avessero già vinta, e che quindi convenisse sedere, al tavolo della pace, al loro fianco. Lei mi chiederà in quali documenti questo sta scritto. No, i documenti non ci sono nè potrebbero esserci. Sono i gesti, le parole e le decisioni di Mussolini a darcene la certezza, del resto condivisa da tutti coloro che avevano accesso a lui e coi quali ho a lungo e ripetutamente parlato. Mussolini era intelligente, ma abbastanza ignorante. Non sapeva cosa fossero l'Inghilterra e l'America. Uomo dell'Ottocento e di cultura ricalcata sulla pubblicistica francese della fine di quel secolo (i suoi autori erano Zola e Sorel), coltivava il mito della Grande Armee, e, quando la vide crollare in pochi giorni, si persuase che più nulla e nessuno potesse arrestare la marcia trionfale dell'odiato (sì, odiato: so quel che dico) alleato. Franco, molto meno intelligente, ma più scaltro, freddo e calcolatore di lui, non ci cascò ("Piuttosto che avere un altro colloquio con quel tipo - disse Hitler al termine del loro incontro nel '40, sulla costa basca -, preferirei farmi strappare tutti i denti"), e così salvò il suo Paese e se stesso. Nemmeno questo sta scritto nei documenti. Ma lo si ricava, senza possibilità di dubbio, dai fatti.

Aprile 1945: gli ultimi giorni di Mussolini. Il 16 aprile lascia il Garda. A Milano cerca inutilmente la mediazione con il CLNAI quando la RSI è ormai agonizzante e i tedeschi si ritirano,scrive Edoardo Frittoli su "Panorama". "Si, Giulio Verne,…ne riparleremo più avanti". Così Mussolini aveva ironicamente risposto al capo della polizia repubblicana Tamburini quando questi aveva fantasticato sulla possibilità di fuga del duce e dei gerarchi a bordo di un sottomarino costruito a Trieste e diretto in Argentina o Polinesia. Il Mussolini dei primi mesi del 1945 è lo spettro di sé stesso. L'ultima fiammata l'aveva spesa al Teatro Lirico di Milano nel dicembre precedente. I tedeschi ormai parlano sempre meno di armi segrete e saccheggiano sempre di più derrate e macchinari industriali nell'ottica di un'estrema difesa del Reich. La violenza e l'anarchia dei reparti "speciali" di Polizia Repubblicana e delle Brigate Nere lo avevano spinto allo scontro con alcuni membri del governo di Salò, sopra tutti Buffarini Guidi. Poi c'erano i battitori liberi come Roberto Farinacci, più vicini ai tedeschi che a Mussolini, che agitavano le acque nella speranza di una successione alla guida del fascismo repubblicano. E gli alleati germanici, con lo strapotere di plenipotenziari vicini a Hitler come Karl Wolff, Eugen Dollmann, Walter Rauff (uno dei padri delle Gaswagen, le camere a gas mobili). Nel marasma degli ultimi giorni della RSI Mussolini altalena tra il purismo del ritorno alla rivoluzione sansepolcrista e spinte neo-socialiste, reminiscenze della sua cultura pre-fascista. Si avvicina e lo avvicinano intellettuali e personaggi grotteschi, che gli propongono soluzioni impraticabili nell'imminenza della fine. Edmondo Cione, un allievo di Benedetto Croce, gli presenta un nuovo assetto politico del fascismo repubblicano, che avrebbe dovuto includere elementi dell'opposizione liberale e cattolica in senso critico. Divorato dall'ulcera, il Mussolini degli ultimi giorni di Salò sembra voler perseguire a tutti i costi la strada della "socializzazione" delle industrie e dell'agricoltura. Da un lato per cercare di preservare il patrimonio industriale del Nord dalla devastazione operata dai tedeschi. Dall'altra pensa ad un passaggio di mano dal fascismo ad uno stato socialista e anti borghese.  Il piano non sarà mai di fatto attuato per la risoluta avversione dei tedeschi e per la generale ostilità degli operai in continua agitazione, nonostante le concessioni salariali promesse dalla RSI. Con l'avvicinarsi degli Alleati e con la ripresa dell'azione da parte del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) il governo di Salò comincia a formulare ipotesi di estrema resistenza o, eventualmente, di fuga in Svizzera per poi giungere nella Spagna franchista e da qui in Sudamerica. Nasce in questi giorni il piano cosiddetto R.A.R. (Ridotto Alpino Repubblicano). Si trattava di fortificare la zona montuosa della Valtellina e resistere almeno fino all'arrivo degli Alleati. Il più convinto sostenitore del ridotto era Alessandro Pavolini, segretario del PFR. Il vecchio generale Graziani, rassegnato e depresso, lo aveva deprecato sin dall'inizio. Infatti mancavano le forze necessarie per realizzarlo e difenderlo. Risultò chiaro sin da subito che il ridotto sarebbe stato devastato in poco tempo dall'aviazione alleata. Mussolini asseconda i suoi e cerca di contattare gli Alleati, i quali rispondono categoricamente: resa incondizionata. Il CLNAI fa altrettanto, così che Mussolini cerca contemporaneamente due strade alternative. Dal 16 aprile il duce decide di andarsene dalle sponde del Garda e lascia Gargnano per Milano, dove si stabilisce in Prefettura. Nella capitale lombarda Mussolini cerca contatto con l'ambasciatore svizzero Troendle. Questi temporeggia, ponendo difficili condizioni alla richiesta di asilo per il duce e i ministri di Salò. L'altra via è la mediazione della Chiesa. Per questo l'Arcivescovo di Milano Idelfonso Schuster si attiva per organizzare un incontro con il governo del CLNAI. Incontro che avviene presso la sede dell'Arcivescovado il 25 aprile, giorno dell'insurrezione. Ad attendere Mussolini c'è il generale Raffaele Cadorna, comandante militare del CVL e c'è Riccardo Lombardi per il CLNAI. Per il governo della RSI ci sono il generale Graziani e il sottosegretario Francesco Maria Barracu, il fondatore dei "Volontari di Sardegna-Battaglione Angioy" , grande invalido e seguace di Mussolini fino alla fine. I colloqui di fatto non cominceranno mai perché al duce è annunciata la voce di una pace separata con gli Alleati voluta da Karl Wolff. Mentre in città echeggiano gli spari e i tumulti dell'insurrezione generale, Mussolini fa ritorno in Prefettura. In corso Monforte termina la sua permanenza a Milano. Verso le 19 raduna i suoi comunicando di fatto la volontà di lasciare la città alla volta di Como, per un "precampo" prima del tentativo di espatrio in Svizzera. A nulla valgono gli estremi tentativi di Carlo Borsani, il cieco di guerra, di far tornare il duce in Arcivescovado. Alle 19,30 circa l'autocolonna con Mussolini e il suo seguito lascia Milano per l'ultimo viaggio.

E alla fine arrivarono gli Alleati. Le divisioni britanniche e americane superarono il Po il 24 aprile. E appresero lungo la strada per Milano che la città era già stata liberata. E i primi carri armati alleati arrivarono in Duomo solo il 29 aprile, scrive Massimo de Leonardis su “Il Corriere della Sera”. Le liberazioni delle grandi città italiane ebbero caratteristiche diverse. A Roma, per ragioni strategiche e per la sua peculiarità di sede del Papato, non vi furono né battaglia né devastazioni: i tedeschi si ritirarono poco prima dell’arrivo degli alleati. Opposto il caso di Firenze, con la città divisa e aspri scontri, che durarono settimane. Torino fu aggirata dalle truppe tedesche in ritirata, ma vi si manifestò il fenomeno dei franchi tiratori fascisti. A Milano le truppe americane arrivarono con la città già in mano ai partigiani, tranne alcuni centri di resistenza tedeschi. Nell’aprile 1945, sotto il Comando Supremo Alleato nel Mediterraneo del britannico Generale Sir Harold Alexander, operava in Italia, agli ordini dell’americano Tenente Generale Mark W. Clark, il XV Gruppo di Armate, composto dall’8a Armata britannica del Generale Sir Richard L. McCreery, e dalla 5a Armata americana del Tenente Generale Lucian K. Truscott, Jr, che contava circa 270.000 soldati (con altri più di 30.000 di riserva), oltre 2.000 pezzi di artiglieria e mortai e migliaia di veicoli, ed era schierata sulla linea di montagna a zig zag dal mare Tirreno, all’altezza del Cinquale tra Viareggio e Massa, al Monte Grande, vicino alla via Emilia. Da qui, verso sud-est, partiva il fronte della 8a armata britannica, a cavallo dei fiumi Sillaro e Santerno, e poi a nord-est lungo la sponda sud del Senio fino alla riva meridionale della laguna di Comacchio sull’Adriatico. Le operazioni preliminari iniziarono sul fronte dell’8a armata alle 3 del 2 aprile nella laguna di Comacchio, mentre l’azione diversiva sulla costa tirrenica iniziò il 5 aprile. Alle 14 del 9 aprile, dopo massicci bombardamenti ed un intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria, iniziò l’attacco generale della 8a armata e alle 9.45 del 14 quello della 5a Armata. La svolta nell’offensiva avvenne il 20; il 21 fu conquistata Bologna e a mezzanotte del 24 l’88a divisione di fanteria americana passò per prima il Po. Il Generale Truscott ordinò l’avanzata della 5a Armata verso Verona, conquistata il 26 aprile, per separare la 10a e la 14a Armata tedesca, bloccare le vie di ritirata verso il Brennero e rompere la linea dell’Adige. Più a Occidente la 1a Divisione Corazzata americana, gli «Old Ironsides», doveva bloccare le linee di ritirata verso l’Austria e la Svizzera tra i laghi di Garda e di Como. Il 27 la Divisione incontrò partigiani provenienti da Milano, apprendendo che la città era stata liberata dalle forze della Resistenza. La mattina di domenica 29, gli americani occuparono la periferia e i primi carri armati arrivarono fino al Duomo; la sera il Col. americano Charles Poletti, governatore militare alleato in Lombardia, fu ricevuto in prefettura dai membri del Clnai e del Cvl. Il pomeriggio del 30 entrò in città il Tenente Generale Willis D. Crittenberger, comandante del IV Corpo d’Armata americano, con il Combat Command “B”. Già dal 27 era comunque a Milano il Capitano Emil Quincy Daddario dell’Office of Strategic Services (antesignano della CIA). Il giorno precedente aveva arrestato a Cernobbio il Maresciallo Rodolfo Graziani e i Generali Bonomi e Sorrentino; li trasferì a Milano, prima all’Hotel Regina, poi al Grand Hotel et de Milan e infine al carcere di S. Vittore, da dove infine li condusse verso Bergamo. L’Hotel Regina, tra le vie Silvio Pellico e Santa Margherita, era sede del comando della Sicherheitspolizei-SD. Daddario negoziò la resa dei tedeschi, che avevano rifiutato di arrendersi ai partigiani. Il 30, protetti da mezzi corazzati americani e sotto le armi puntate dei partigiani, i tedeschi abbandonarono l’albergo. Una folla minacciosa tentò di assalirli e gli americani spararono raffiche di mitra in aria per “calmare gli animi”. Nel frattempo, intorno a Milano le truppe americane e brasiliane eliminarono sacche di resistenza di truppe tedesche e della RSI. Dal 9 aprile al 2 maggio 1945, data della resa in Italia, le perdite dei tedeschi e dei fascisti, tra morti, feriti e dispersi, furono di 70.000 uomini, quelle alleate di 16.700.

Professore ordinario di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e Docente di Storia dei trattati e politica internazionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dallo stop alle vendette alla «coabitazione»: Antonio Greppi, il sindaco della Liberazione. Rimasto nella memoria di tutti i milanesi, Antonio Greppi aveva visto morire un figlio, Mario, per mano della Legione «Ettore Muti». Ma non esitò a fermare le rappresaglie contro gli ex repubblichini, scrive Jacopo Perazzoli su “Il Corriere della Sera”. Per i milanesi è rimasto, fino all’ultimo, il sindaco della Liberazione, perché il socialista Antonio Greppi (1894-1982) a capo della nostra città c’era arrivato quando i nazisti erano ancora asserragliati nell’hotel Regina, a pochi passi da piazza della Scala. Non appena nominato dal Clnai il 27 aprile 1945, il neo primo cittadino si spese con determinazione per risolvere le gravi criticità lasciate sul campo dalla guerra. Fu così quando, per contrastare l’annoso problema del fabbisogno di alloggi per i milanesi, decise di nominare un commissario ad hoc e, al tempo stesso, di rivolgersi direttamente ai concittadini, perché coloro che ne avessero la possibilità mettessero a disposizione dei senzatetto alcuni locali: era l’inizio della coabitazione, che sarebbe rimasta nella memoria storica della città per molto tempo. Ma non soltanto. Per esempio, sul piano dell’assistenza sociale, il sindaco non perse tempo: pur in un regime di ristrettezza economica (nel 1945 le casse comunali disponevano di poco meno di 5 milioni di lire da spendere), optò per riorganizzare l’Ente comunale di assistenza, un organo ideato negli anni del fascismo. Esso fu affidato alla direzione di un altro socialista illustre, Ezio Vigorelli, che riuscì a fronteggiare con efficacia le conseguenze del caro viveri (nel secondo semestre del 1945 il costo della vita era infatti aumentato del 20,8%). Ugualmente riconducibile ai limitati mezzi finanziari fu un’altra scelta che contraddistinse l’operato di Greppi: nel 1945, quando uno dei problemi maggiori in città era rappresentato dal diffondersi della tubercolosi, il primo cittadino creò il cosiddetto «fondo penicillina», per coprire le spese necessarie all’acquisto del medicinale per i cittadini meno abbienti e chiese ai milanesi di finanziarlo, trovando un’adesione plebiscitaria. Un altro aspetto, questo di natura morale, ha contribuito a tramandare un’immagine positiva del «sindaco della Liberazione». Nei giorni immediatamente successivi alla resa delle forze nazifasciste, si scatenò in città un’ondata di vendette contro gli ex sostenitori della Repubblica di Salò. Da apprezzato avvocato penalista, Greppi non esitò a prendere posizione ufficiale contro quelle violenze, benché lui stesso fosse da considerare una vittima indiretta del fascismo, dato che suo figlio Mario, membro dell’VIII brigata Matteotti, era caduto a Milano nel corso di una rappresaglia attuata dalla legione Ettore Muti. La sua posizione contraria alla prosecuzione della violenza politica, una volta terminata la Resistenza, non toglie nulla al fatto che Greppi fosse una personalità integrata nell’antifascismo milanese. Il Clnai, su precisa volontà del suo presidente Alfredo Pizzoni, lo scelse quale primo cittadino anzitutto perché godeva di ottime credenziali da oppositore della dittatura. Nel 1938 e nel 1940 venne infatti internato a San Vittore poiché sospettato – non a torto – di attività clandestina antifascista (dal 1937 reggeva le sorti del Centro interno del Partito socialista), e il 26 luglio 1943 firmò, quale rappresentante del Psi, un manifesto dei partiti democratici milanesi con cui si chiedeva la liquidazione di qualsiasi traccia del ventennio mussoliniano. Sottoscrivere quel documento, soprattutto in seguito alla rinascita del fascismo sotto le vesti della Repubblica sociale, volle dire per Greppi prendere la via dell’esilio: dopo l’uccisione di Aldo Resega, il commissario federale di Milano della Rsi, fu costretto a riparare in Svizzera, visto che sul suo capo pendeva una condanna a morte. Dietro a quel motivo se ne celava però un altro che spinse i vertici del Clnai a puntare su Greppi. Partendo dal presupposto che scegliere un socialista quale sindaco di Milano significava ricollegarsi idealmente alla stagione dei suoi predecessori Caldara e Filippetti, venne indicato Greppi perché all’interno di quella famiglia politica era uno dei pochi che potevano contare su una buona esperienza amministrativa. Infatti, tra il 1920 e il 1922, seguendo un suggerimento giuntogli direttamente da Filippo Turati, aveva guidato l’amministrazione di Angera, la città da cui proveniva; nel piccolo centro lacustre impostò un’azione che avrebbe poi perseguito nel capoluogo lombardo, rappresentata dalla messa in campo di misure di politica sociale e culturale, insieme ad un forte sviluppo dell’edilizia convenzionata. Per questa serie di ragioni Sandro Pertini, allora capo dello Stato, parlò di «un grande vuoto nella vita democratica» lasciato da Greppi con la sua scomparsa, avvenuta il 22 ottobre 1982. L’autore fa parte del dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro»

Primo Maggio e 25 Aprile: ma è ancora festa? Momenti di patriottismo per altri soltanto ponte. E c'è chi pensa di abolirle, scrive Carmelo Caruso su "Panorama". E poi è subito 2 maggio. E prima ancora era stato il 26 aprile. Portate via dal giorno successivo, affievolite dalle proteste che non mancano (A Napoli quest’anno con evento sospeso). 25 Aprile e 1 maggio, celebrazioni con appendice musicale “segnato dal tempo”, ha avuto modo di dire perfino Susanna Camusso, segretario della Cgil, tanto da far ipotizzare la fine di quello che è divenuto la foto del primo maggio ovvero il concertone di piazza San Giovanni. Feste, certo e già lo storico Mario Isnenghi sottolineava come non ci sia festa il cui fine non sia la creazione di una memoria condivisa, strumenti per costruire una nazione. Forse. Divenute un lungo “ponte” per alcuni, a vedere le piazze sempre meno affollate, per altri un braccio di ferro sempre più vinto dalle catene commerciali che ne hanno fatto una crociata del lavoro senza attenuanti. Serrare le saracinesche o tenerle aperte? A Firenze un anno fa fu protesta condivisa perché fosse festa di tutti, ma peggio provò a fare Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, quando si disse pronto ad abolirle o meglio “a spostarle” alle domeniche tutte quelle feste repubblicane che compongono il calendario laico di un paese: 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno, provocando la solita polemica tra abolizionisti e antiabolizionisti. Rientrò subito dopo le proteste di storici e dell’Anpi con la benedizione del nostro presidente. Del resto l’idea di abolire le feste era passata in mente anche a Giulio Andreotti che abolì nel 1976 addirittura l’Epifania poi reintrodotta da Bettino Craxi, ma l’abolizione del primo maggio la realizzò solo Benito Mussolini che nel 1925 volle sopprimere la festa dei lavoratori che nel frattempo erano stati trasformati in cocci delle “corporazioni”, il compromesso storico inventato dal duce tra padroni e operai. Polemica stantia, salvo registrare, come appunto la Camusso, un qualcosa che sa di logoro e non per il simbolo quanto per la contingenza. «Il concerto del Primo Maggio vuole parlare ai giovani con un linguaggio che ci permette di interloquire con loro. Il prossimo è il 25simo. Tutte le cose sono segnate dal tempo». E ha precisato: «Bisogna fare una riflessione ma non voglio dire comunque che questo sia l'ultimo». “Magari andrebbe ripensata con nuove formule, ciò non toglie che queste siano e rimangono feste di tutti – convinto risponde il presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia che proprio nel 2006 decise di aprire le porte dell’associazione - prima eravamo solo partigiani, adesso anche i giovani vengono ad iscriversi. E’ stato un modo per rigenerare. Proprio per questo credo che il concerto non bisogna eliminarlo, rimane un modo per fare uscire dall’isolamento i giovani. E’ il classico momento d’incontro. Poi è inevitabile che una festa come il Primo Maggio abbia subito dei contraccolpi a causa della crisi”. Un riflusso che addolora per primi i padri della Repubblica, quei Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano che di fatto si sono “inventati” la festa del 2 giugno togliendole quella patina di retorica e parata per riconsegnarla alla memoria degli italiani come battesimo e genetliaco della Repubblica. Notizia vuole che il presidente abbia deciso di celebrare per quest’ anno un 2 giugno “sobrio” senza ricevimenti con i diplomatici e c’è chi come Sel di Nichi Vendola auspica la sospensione della parata, ecco. Del resto ci sono date che s’iscrivono e che devono farsi stele dice la storica dell’arte Antonella Sbrilli ricordando l’uso che il pittore Jacques Louis David ne fece nel suo “La Morte di Marat”, attraverso quella data che si legge nel testamento del giacobino il quadro si fa monumento annotò lo scrittore Michael Butor. E credere che ci avrebbero unito anche se così non sembrerebbe, almeno a leggere quanto accaduto ieri a Napoli, alla Città della Scienza, da poco incendiata. Tafferugli tra Cobas e sindacati, insomma frazionismo sindacale con i Cobas che gridavano: “Non c’è niente da festeggiare”. Sicuri? Proprio anni fa su questo stesso giornale lanciava la sua provocazione Paolo Guzzanti premettendo l’accusa a cui sarebbe andato incontro: “Lo so mi tacceranno di revisionismo”. Eppure era proprio quel polemista di Guzzanti stroncandolo a ricordare un primo maggio che oggi sa di sbiadito: “Grumi di memorie inconfessate, se non Spartaco Polizza da Volpedo, almeno le cariche della Celere di Mario Scelba o l’eco dei bambini minatori e di David Copperfield. Quel che non va è proprio la retorica di un mondo morto e non ci sono ingaggi di musica sotto il palco che possono dare vita a ciò che è morto”. La pioggia ieri ha fatto il resto e se si aggiunge il contro concertone (brutto definirlo così) organizzato a Taranto da David Riondino, il più noto commissario Montalbano giovane, le somme si tirano da sé, piazze divise e il pericolo di un deja vu che sa di stanchezza e scoramento. Di solito è questo il destino di qualsiasi data e il poeta Valerio Magrelli ne ha cantato in una sua poesia la caducità: “Luce di stella morta/ giunta da un trapasso presente/ il suo oggi è lo ieri/luce salma/ memoria di un oltretomba quotidiano”. Che sia colpa dell’impossibilità di allungare le date? Probabile, visto che ogni celebrazione è destinata a finire troppo presto, allungarle è soltanto un desiderio che l’incedere quotidiano ha impedito. Sarà per questo che nel testo irridente di Elio e le Storie Tese “Il complesso del primo maggio”, gioco satirico di controinformazione sui clichè della festa, la voce di Eugenio Finardi subentra a ricordare una verità: “Il primo maggio è fatto di gioia, ma anche di noia…”. Nel frattempo è già tre maggio, meno un mese al due giugno…

25 aprile, una festa lunga 70 anni. Iniziative, immagini e celebrazioni per l'anniversario della Liberazione. 25 aprile, cinque libri per la Festa della Liberazione. Dai classici di Calvino e Vittorini ai più recenti di Aldo Cazzullo e Giacomo Verri, cinque romanzi per ricordare, scrive Andrea Bressa su "Panorama". Come ogni anno, il 25 aprile ci si ferma per un giorno a ricordare e celebrare la liberazione dal giogo fascista e dalla barbarie della guerra. La nostra Festa della Liberazione la vogliamo passare anche tra le pagine di chi ha saputo raccontare i drammi di quegli anni, magari anche impegnato nella lotta in prima persona. Ecco dunque cinque libri per riflettere sul significato di una ricorrenza tanto importante.

La mia anima è ovunque tu sia – Aldo Cazzullo (Mondadori)

Nella primavera del 1945 i tedeschi sono ormai costretti a ritirarsi abbandonando i frutti delle loro razzie. Nella città di Alba i tesori dei nazisti vengono spartiti tra il capo dei partigiani e un rappresentante della Curia. Più di cinquant’anni dopo, un misterioso omicidio scuote la città e sembra riportare a galla gli eventi di quei giorni febbrili.

Uomini e no – Elio Vittorini (Mondadori)

Il primo romanzo in assoluto sulla Resistenza, scritto quando la lotta per la liberazione dal nazifascismo era ancora in corso. Il capitano Enne 2 guida il suo gruppo di partigiani alla scoperta di una Milano spettrale e deserta, ormai abbandonata alle violenze e ai soprusi della guerra.

Il partigiano Johnny – Beppe Fenoglio (Einaudi)

Questo classico della letteratura partigiana ha il sapore di una moderna epopea. Il giovane Johnny, studente di letteratura inglese, decide di prendere parte alle azioni di guerriglia per difendere le sue amate Langhe dall’invasore nazista. Il romanzo s’ispira in larga parte alla biografia dell'autore.

Il sentiero dei nidi di ragno – Italo Calvino (Mondadori)

La guerra civile al tempo della Resistenza è narrata dal punto di vista di Pin, un bambino che osserva con stupore e con sinistra ammirazione le imprese compiute dai ‘grandi’. L’apparente sicurezza con cui affronta fascisti e partigiani cela in realtà un profondo disagio, quello dell’orfano di guerra abbandonato da tutti.

Partigiano Inverno – Giacomo Verri (Nutrimenti)

Un ragazzino innamorato, un giovane irrequieto e un pensionato mite e disorientato, sullo sfondo di una Resistenza raccontata in forma di epica contemporanea. Dal passato non arriva solo la storia narrata, ma anche il registro e la voce di un mondo lontano.

C’è un antifascismo un pò fascista. Scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile.

Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente.

Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una ”appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è ”identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso ”identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”.

Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del ”terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il ”renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica.

Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul ”Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la ”feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona.  E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.

A chi il 25 aprile? Ai soliti noti (ma su Raiuno). Prima serata a rischio retorica con Saviano, Pif, Albanese, Paolini e Ligabue, scrive Maurizio Caverzan su "Il Giornale". Ci saranno tutti o quasi. Dite un nome e lo trovate. Fazio e Saviano, Albanese e Marco Paolini, Pif e Ligabue. E poi chissà quanti altri. Del resto, il momento è solenne, bisogna ammetterlo: settant'anni dalla Liberazione del 25 aprile 1945. Quindi, per l'occasione, Raiuno si traveste da Raitre o, se preferite, Raitre trasloca su Raiuno. Una grande serata unificante, dal titolo schietto e festoso: Viva il 25 aprile! col punto esclamativo. Una serata che avrà nella Piazza del Quirinale il cuore pulsante della celebrazione officiata da Fabio Fazio. «Perché le vere feste si fanno in piazza - recita il comunicato di Raiuno - e la piazza del Quirinale è la piazza di tutti». E ancora: «Il 25 aprile è una festa di compleanno e quest'anno ricorre il 70° compleanno della Libertà». Insomma, diciamola tutta, una grande serata a rischio retorica. Per la quale il servizio pubblico non ha lesinato sulle risorse. Ordunque, Fazio all'ombra del Quirinale, Pif in collegamento dalla Sicilia, Roberto Saviano da Montecassino, Marco Paolini ed Elisabetta Salvatori da Sant'Anna di Stazzema, Antonio Albanese da Alba, Ligabue e Francesco De Gregori in concerto da un'altra piazza di Roma. En plein. Dicono i beninformati che a volere la grande serata unificante sia stato il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi. E che abbia orchestrato l'operazione in perfetta sintonia con Andrea Vianello, direttore di Raitre, con il quale peraltro l'intesa è consolidata dalle trattative sul caso Floris e dalla scelta di trasmettere Gomorra sulla Terza rete con lancio della coppia Fazio-Saviano, e non, per esempio, su Raidue. Secondo queste fonti il capo di Raiuno, Giancarlo Leone, avrebbe fatto buon viso a forza maggiore. E ora aspetterebbe di vedere come va il mezzo trasloco, il cambio di tasto sul telecomando con conseguente, probabile, spaesamento del pubblico. Tuttavia, non c'è tanto da stupirsi. Perché comunque, questa strana serata nasce da un equivoco che viene da lontano. Ovvero che la Liberazione della Seconda guerra mondiale e la Resistenza siano esclusive di una certa sinistra, più salottiera che militante, ma pur sempre sinistra (come se non esistessero partigiani non comunisti o azionisti). E, di conseguenza, che l'anniversario di uno dei momenti fondanti della Repubblica non possa essere gestito se non dai soliti noti. Ma siccome quest'anno il «compleanno della Libertà» è più solenne perché trattasi del settantesimo, cifra tonda, ci voleva la rete ammiraglia, il primo canale, la massima potenza di fuoco. Sarà davvero difficile restare alla larga dalla retorica.

Quest'anno torna la retorica. La Storia invece fa il ponte. Per la festa il diktat è archiviare il "revisionismo", scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Ma la Resistenza quanto dura? La risposta di qualcuno è semplice, da corteo: «Ora e sempre Resistenza!». Viene da una poesia di Calamandrei, per carità, ma senza la dedica al generale Kesselring (che voleva un monumento dagli italiani) perde di senso. E così, a 70 anni dal 25 aprile, se uno sfoglia i giornali o va in libreria si trova davanti una serie di richiami alla lotta al nazifascismo che dà l'impressione che Kesselring prema di nuovo contro il baluardo alpino. Anzi, se in questi anni qualche tentativo di ragionamento più pacato lo si è fatto, la cifra tonda e l'inserimento della ricorrenza nel calendario del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale sono visti da qualcuno come l'occasione per tornare alla «Resistenza perfetta». Lo storico Giovanni De Luna lo teorizza nel suo volume intitolato proprio La resistenza perfetta (Feltrinelli). Dice di provare «un insopportabile disagio» quando si indaga sulle imperfezioni della Resistenza: «Dagli anni '90 in poi si è messa in moto una valanga di fango e detriti inarrestabile, alimentata da una storiografia punteggiata da aneddoti poco edificanti». Meglio mettere tutto sotto lo zerbino e buttarla in retorica, allora? Qualche esempio. A Modena lo scorso weekend c'è stato il Festival play , un poco resistenziale festival del gioco. Si è dovuto comunque colorirlo di «memoria». Si è giocato alla staffetta partigiana. Oppure a Radio Londra. Niente di male, però la caccia al tesoro che parte da dove si uccise Angelo Fortunato Formiggini e finisce alla lapide per i fucilati è un po' troppo. Meglio allora lo spiegamento di libri del Corriere della Sera che sino al 26 settembre proporrà letteratura partigiana. Promuovendo l'operazione con titoli tipo: «Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà». E c'è anche un po' di confusione, visto che tra i libri resistenziali finiscono dei racconti di Mario Rigoni Stern che con la Resistenza hanno poco a che fare ( Aspettando l'alba ). Ma siamo alle solite, tutto è Resistenza, persino Rigoni Stern, volontario fascista, che scriveva: «Non vi è stata una guerra più giusta di questa contro la Russia sovietica». Certo, si dirà: ha cambiato idea mentre era in un lager tedesco, dopo l'8 settembre. Forse. Di sicuro il 25 aprile stava ancora cercando di tornare a piedi dalla Polonia, rientrò a casa il 5 maggio. Del resto qualsiasi cosa, in attesa del 70º, può essere «partigianizzata». Mettiamo che si decida di parlare di una mostra di Mario Dondero, come ha fatto La Stampa il 10 aprile. Dondero è un grande della fotografia. Fra le altre cose ha fatto il partigiano in Val d'Ossola, ma questo poco o nulla ha a che fare con i suoi scatti. Però il titolo diventa: «Dondero, la guerra all'ingiustizia del partigiano con l'obiettivo». L'intervistatore sentirebbe pure la necessità di denunciare «il revisionismo diventato senso comune». Meno male che il revisionismo è diventato senso comune: proprio La Stampa pubblica in prima pagina un «conto alla rovescia» per il 25 aprile a firma Paolo Di Paolo, scrittore «inviato nel 1945». L'inviato raccoglie a piene mani virgolettati d'epoca di Togliatti. E il quotidiano propina anche titoli equilibrati come: «Il momento della scelta tra barbarie e civiltà». Per non dire di come è stata strumentalizzata la lettera del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Micromega . Di tutto ciò che ha scritto, nelle titolazioni di alcuni giornali come il Fatto , si è isolata (quando non forzosamente interpretata) solo la frase sull'evitare «pericolose equiparazioni tra i due campi in conflitto». Lo storico Angelo D'Orsi, sempre sul Fatto esulta per «la fine del “rovescismo” alla Pansa», e nella sua visione persino Luciano Violante, che osò «salutare i ragazzi di Salò», sembra un apologeta. Beh, certo ma quel che conta, chioserà qualcuno, è la tv! Iris, canale Mediaset dedicato al cinema, da oggi al 24 aprile, presenterà il ciclo «Storie di libertà», omaggio alla Resistenza. A commentare la rassegna, Fausto Bertinotti. Quanto ai titoli: Il Generale della Rovere , Il delitto Matteotti , I piccoli maestri ... E anche l'hollywoodiano Il mandolino del Capitano Corelli che, a essere sinceri, trasforma l'eccidio di Cefalonia in un polpettone romantico a cui forse bisognerebbe «resistenzialmente» ribellarsi. Raiuno invece imbastirà una serata affidata a Fazio. Ospiti i soliti noti: Saviano, Paolini, Albanese, Ligabue... Che sia un po' sbilanciata a sinistra? Sulle librerie sarebbe meglio non far parola. Oscar Farinetti, il patron di Eataly, in Mangia con il pane (Mondadori) racconta le avventure del padre Paolo Farinetti. Il comandante Paolo ha un curriculum bellico di tutto rispetto: liberò dalle carceri di Alba 22 detenuti politici. Ma la biografia si trasforma in una narrazione edulcorata. E Farinetti jr., quando può, si ritaglia anche uno spazietto per spiegare quanto è bella Eataly: «Non è un impero, è piuttosto un gruppo di lavoro di circa 4mila persone che si sbattono per celebrare la meraviglia dell'agroalimentare italiano». Insomma, resistere oggi è mangiare bene. Del resto a Milano si va dal «tutto è Resistenza» alla Resistenza a rischio di antisemitismo. La brigata ebraica non è gradita in piazza. Perché? Perché si fa resistenza anche a Israele. Abbastanza per far adirare anche il presidente della Fondazione Anna Kuliscioff, Walter Galbusera: «I veri partigiani... sono rimasti in pochi e i gruppi dirigenti non sempre hanno atteggiamenti costruttivi». Polemiche non dissimili si sono sviluppate anche a Roma. Dove c'è chi ha detto - e la presidente della Camera gli ha dato ragione - «si dovrebbe togliere la scritta “Dux” dall'obelisco del Foro Italico a Roma». Cancellare i nomi è un modo un po' strano di rievocare la storia. Ecco, la Storia? Quella il 25 aprile fa il ponte.

Giorgio Albertazzi: "Io, il duce, piazzale Loreto", scrive “Libero Quotidiano”. Sta per tornare il 25 aprile. E come accade tutti gli anni, torna la retorica della Liberazione. Prima sui giornali e poi sulle piazze. Uno dei quotidiani che si è portato avanti è Il Fatto Quotidiano, che dedica al 25 Aprile due pagine, una delle quali dedicata a una intervista a Giorgio Albertazzi. Che fu negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale tra i fascisti di Salò. E su quanto accadde in piazzale Loreto ha un giudizio sicuramente controcorrente. "Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l' ha voluto e chi l' ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l' uomo è quella cosa lì. Un animale? Il peggiore degli animali". Lui non c'era, quel giorno a Milano: "Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente". La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l' Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso". Finì due anni in carcere, per essere stato coi Repubblichini: "Come dissi in un' intervista all' Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c' è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l' ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte".

Il 25 aprile nei diari conservati all'archivio di Pieve Santo Stefano. Quel giorno di 70 anni fa a Milano raccontato dalle parole di chi era lì. Nove storie selezionate tra quelle conservate nell'archivio diaristico nazionale, scrive Nicola Maranesi su “L’Espresso”. Sono trascorsi settant’anni da quel mercoledì 25 aprile 1945. Il giorno della Liberazione, il giorno in cui l’Italia ha debellato il nazifascismo e chiuso l’oscura esperienza della Repubblica Sociale Italiana. Milano è stata e resta il luogo simbolo di quel passaggio storico. Una città che in pochi giorni ha vissuto gioie estreme e dolori estremi, distribuiti tra centinaia di migliaia di persone che tornavano ad abbracciarsi e altrettante che continuavano a uccidersi. Con le vittime e i carnefici a passarsi il testimone, in uno di quei momenti della storia in cui è impossibile tracciare un confine universale tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per comprendere cos’è accaduto in città in quei giorni di 70 anni fa non esiste racconto più efficace di quello racchiuso nei diari e nelle memorie di chi c’era. Centinaia di questi sono conservati presso l’ Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano , in provincia di Arezzo. Una rapida perlustrazione di questo fondo in gran parte inedito lascia affiorare le voci dei protagonisti. Ne abbiamo scelte nove, che ci sembrano rappresentative di sentimenti e stati d’animo diversi e complementari. A partire da quella dell’operaio della Compagnia generale elettricità Antonio De Palo ("Due fucilati") che il 24 assiste a uno degli ultimi crimini commessi dai fascisti, che “per impressionare le maestranze” fucilano due partigiani prelevati dal carcere di San Vittore nel piazzale antistante la sede della Compagnia. C’è poi quella della giovane studentessa di ragioneria Maria Rachele Ciccarelli (“Liberi? Sembra impossibile”), che riassume l’enorme impatto delle novità che si stanno abbattendo sulla vita di tutti con una semplice frase, pronunciata dal sanatorio dov’è in cura: “Liberi. Cosa vuol dire per noi liberi. Mi sembra impossibile”. Una libertà che sfugge a Rina Alberici ("Trentasette morti"), che nella sua testimonianza racconta ancora di esecuzioni sommarie, ma che vedono invertirsi le parti tra vittime e carnefici. Allo stabilimento Breda gli operai insorti hanno imprigionato il personale dirigente. Compilano una lista di capi d’accusa e si fanno giustizia da soli. Tra i reclusi c’è anche Aurelio, marito di Rina, che verrà risparmiato e tornerà a casa salvo, facendosi però strada tra i cadaveri di trentasette colleghi ammucchiati di fronte al cancello della fabbrica. Non rischierà la vita ma subirà una violenta aggressione la giovanissima Maria Luisa Torti ("Picchiata dai partigiani") che sarà picchiata e rasata dai partigiani per essersi rifiutata di baciare una lercia bandiera rossa. Sono gli episodi più tragici di una riconquista della città che annovera molte tappe pacifiche, come quelle che Antal Mazzotti ("Scene dalla Liberazione") e il membro del Comitato di liberazione nazionale Vella Folgore ("La riconquista di Milano") descrivono minuziosamente nei rispettivi diari. Sono i rovesci inaspettati che il partigiano ed ex repubblicano Luigi Mingozzi riassume alla perfezione nella sua biografia e nel racconto delle giornate che seguono il 25 aprile ("Vendette, festeggiamenti, amori"). Tutte queste storie di gente comune rappresentano tasselli che aiutano a comprendere la Storia. E a rispondere agli interrogativi. Come quelli che è lecito porsi al cospetto della compassione che prova il piccolo Mauro Pistolesi ("Più pietà che odio" ) pur trovandosi di fronte ai fascisti fiancheggiatori dei nazisti, responsabili dei delitti ai quali ha assistito. Come quello di cui parla un altro testimone, Claudio Cimarosti ("A otto anni ho visto il duce a testa in giù"), nella sua memoria. Claudio ha otto anni quando il 29 aprile il padre lo conduce a piazzale Loreto per vedere i cadaveri di Mussolini, Clara Petacci e dei gerarchi. “Come hai potuto pensare di portare un bambino?”, ha chiesto al genitore anni dopo. “Mi sembrò assolutamente normale portare anche te”, la risposta. “Tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”.

"A otto anni ho visto il duce a testa in giù". A soli otto anni Claudio Cimarosti è già abituato a guardare la morte in faccia. Non solo quella che gli appare a piazzale Loreto nei volti del Duce, di Clara Petacci e dei gerarchi, al cospetto dei quali è posto dal padre senza alcun indugio. Tra partigiani assassinati e violenze verbali, Claudio può dire di aver bruciato presto le tappe della vita. Quel giorno in piazzale Loreto io c’ero. Prima ancora che fossero appesi a testa in giù alla pensilina del distributore di benzina, la notizia che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi ed erano in piazzale Loreto si sparse per la città. Anche mio papà lo seppe, prese immediatamente la bicicletta, mi mise in canna e partimmo per piazzale Loreto. In piazzale Loreto c’era una folla enorme. Mio papà, con me per mano, tentò di avvicinarsi al punto dove c’erano i cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi, ma fu impossibile anche perché, ad un certo punto, la strada era stata completamente allagata. […] Poco dopo che fummo arrivati furono appesi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina e noi potemmo vederli. Forse credo […] che quello non debba essere stato uno spettacolo molto edificante per un bambino di otto anni! E questo ebbi modo di dirlo a mio papà, una sera, chiacchierando, qualche anno prima che lui morisse. “Come hai potuto pensare – gli chiesi – di portare un bambino di otto anni a vedere dei cadaveri esposti in piazza?”. E lui mi diede ragione. “Oggi – mi disse – Non lo rifarei sicuramente, ma questo ti deve far capire che clima c’era in quel periodo, che aria si respirava in quei giorni. Tu sai che in vita mia non sono mai stato un esagitato, però quel giorno mi sembrò assolutamente normale portare anche te, perché quello era un avvenimento storico eccezionale, ma soprattutto perché tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”. […] D’altro canto non era la prima volta che vedevo dei cadaveri. Era una cosa quasi normale in quel periodo. Una mattina io ed i miei amici, nel bel mezzo del parco Solari che dovevamo attraversare per andare alle scuole di via Ariberto, trovammo, steso in un prato, il cadavere di un partigiano. Evidentemente era stato ucciso nel corso della notte e giaceva là da ore senza che alcuno se ne curasse. Un’altra volta andammo a vedere due partigiani che erano stati fucilati a piazza Cantore. E di morti se ne sentiva parlare ogni giorno. Uccisi da entrambe le parti, partigiani e fascisti. E si sentiva parlare di gente arrestata, di persone sparite, si sentiva parlare di torture che avvenivano nelle carceri.

Trentasette morti. Madre del piccolo Pierpaolo e moglie di Aurelio, un dirigente della Breda, Rina Alberici ha lasciato una testimonianza autobiografica sul 25 aprile priva di entusiasmi. Nelle ore che accompagnano la Liberazione, ore che definisce “della caccia all’uomo, sanguinosa e fratricida”, un pericolo di morte minaccia la sua famiglia: Aurelio è stato sequestrato dagli operai insorti. Il diario di Rina Alberici (foto di Luigi Burroni)Io e Pierpaolo (il figlio di Rina, ndr) sembravamo due senza fissa dimora; la maggior parte del tempo lo passavamo per strada, scrutando qua e là in attesa di un arrivo. Un pomeriggio, guardando verso viale Umbria vidi stagliarsi nella luce fra gli alberi una sagoma e mi parve di riconoscere Aurelio. “Non è lui” mi dissi “Aurelio non viaggia in bicicletta”. Quell’uomo pedalava piuttosto forte tenendo il manubrio con una sola mano poiché nell’altra aveva una ciambella con coperchio per W.C. Scuotendo la manina Pierpaolo gridavo: “Guarda è papà, papà; Aureliooo” e scoppiai a piangere. Aurelio stava bene, non aveva né fame né sete; in quei tre giorni, rinchiusi nei sotterranei, mangiarono e bevvero come nababbi; non gli fecero mancare neppure il fumo. Secondo gli “aguzzini” si trattava degli ultimi pasti della loro vita. […] All’entrata in Milano degli americani gli operai misero in atto repentinamente la loro “rivolta”; già armati (un’organizzazione fatta a regola d’arte) presero possesso di tutto lo stabilimento (Breda, dove lavorava Aurelio, ndr) convogliando il personale dirigente o con alte cariche nei sotterranei che avevano funzionato come rifugi antiaerei. Il Comitato promotore disponeva della lista di coloro su cui pendevano i capi d’accusa; di mano in mano ne prelevarono quattro o cinque, ma non facevano più ritorno. Aurelio, fra i rinchiusi, quando sentiva l’appello gli sembrava che il cuore volesse scoppiargli. Ne furono prelevati una quarantina circa; non era difficile immaginare la fine che fecero. Il terzo giorno Aurelio si sentì chiamare, le gambe gli tremavano ed un incaricato gli disse che poteva andare a casa; su di lui non pendevano capi d’accusa. Non gli sembrò vero. […] Uscendo dal cancello dovette scavalcare circa 37 morti fucilati, abbandonati in mucchio per terra. La fretta e la paura non gli diedero la possibilità di riconoscerli; là si fucilava senza regolare processo. Presa una bicicletta qualsiasi incominciò a pedalare, ma visto un posto di blocco si fermò rifugiandosi in un negozio di servizi igienici e per non fare la figura del fuggiasco trattò l’acquisto della famosa ciambella.

Picchiata dai partigiani. Quando giunge il 25 aprile e la Liberazione Maria Luisa Torti ha una sola certezza. Il peggio è passato. Purtroppo sbaglia. Mentre osserva senza favori l’ingresso degli americani a Milano, è vittima di una ritorsione immotivata da parte dei partigiani. Il diario di Maria Luisa Torti (foto di Luigi Burroni)Era il giorno che era logico pensare che chiunque avrebbe come minimo avuto la forza di alzare la testa, di guardare avanti, perché ognuno di noi sopravvissuti potevamo dire “io ho già pagato!”. Invece io, proprio io, non avevo ancora finito di pagare. Il tempo, le ore non avevano misura, so che non era ancora del tutto buio [… so che la porta venne spalancata improvvisamente ed entrarono due partigiani, ovvero così si presentavano in quei momenti di caos, tutti coloro che avevano voglia di alzare la voce. Questi due ragazzi (perché non avevano più di sedici-diciassette anni) che conoscevo bene perché abitano due palazzi oltre il mio, prima buttarono all’aria la casa, cassetti e armadi in cerca di che cosa non so, perché infatti non presero nulla, poi guardandomi dissero “tu vieni con noi”. Ricordo solo le labbra di papà che erano diventate due fessure dipinte di bianco. I vicini di casa silenziosi che avevano riempito la stanza e io (ancora oggi per quanti sforzi faccia, non ricordo come scesi le scale, come mi trovai in quel piccolo giardino di quella villetta) io mi vedevo lontana, non vivevo in prima persona. C’era una macchina accanto a me da dove scendevano tanti partigiani, erano aggrappati alle portiere, e avevano tutti i capelli e la barba lunghi, e tutti avevano intorno al collo un fazzoletto rosso, e tutti cantavano continuamente fino a drogarsi col canto “…e bandiera rossa sempre vincerà…e bandiera rossa sempre vincerà…”. I due stupidini che mi avevano prelevata a casa dissero al compagno Lupo: “Questa è una repubblichina”. Dieci, cento mani mi spinsero, mi toccarono, mi spinsero, i bottoncini della camicetta bianca erano saltati ed il mio seno era semiscoperto. Ero una fanciulla di una figura meridionale bruna e prorompente, perciò maggiormente tutti erano eccitati. I due ragazzi che mi avevano portata non c’erano più; forse chi era più grande di loro e che mi conosceva sapeva che io non c’entravo per niente con tutto ciò, ma la voce del compagno Lupo mi portò alla realtà perché mi gridò: “Bacia la bandiera”. Davanti a me c’era una specie di tovaglia rossa, lercia, sporca, bagnata, strappata, puzzava di sudore e di sangue e il tessuto (non il simbolo) mi fece schifo e voltai la faccia…non l’avessi mai fatto! Il volto mi fu riempito di schiaffi, il primo mi colpì subito la bocca, mi si ruppe il labbro superiore e sentivo il sapore dolciastro del mio sangue, i mei capelli lunghi si sparpagliavano intorno al mio volto e ogni tanto sentivo: “Bacia la bandiera”. E io cretina continuavo a voltare la faccia finché i miei capelli, che mi coprivano il volto, e che mi entravano in bocca quando prendevo fiato per urlare di nuovo…improvvisamente il mio volto era libero. E i miei bei capelli neri e riccioluti, erano in terra più in là. E quelli ridevano e quello con la forbice che faticava a tagliare. E quelli che mi tenevano la testa. E io che urlavo e poi una voce forte che grida “Basta!”. Basta. […] Fui sollevata da terra e Glauco, un ragazzo che conoscevo da piccola ed ora già adulto, pulito, con gli occhiali i capelli normali e diventato qualcuno di importante durante la vita partigiana, presami per un braccio mi disse: “Stai tranquilla, è stato un errore…”.

L'altra Resistenza. Quella che nessuno vuole più ricordare. Il saggio di Ugo Finetti ricostruisce le vicende di militari e partigiani dimenticati Erano patrioti e lontani dal Pci, per questo nei libri di storia non c'è stato posto per loro, scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Tra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 (data ufficiale della Liberazione, anche si sparò ancora un bel po') chi ha combattuto per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca supportata dalle forze (assolutamente gregarie) della Rsi? La risposta all'apparenza è molto semplice. In primo luogo gli anglo-americani e gli alleati, tra cui andrebbe citato il numerosissimo contingente polacco che arrivò a contare 75mila uomini. In secondo luogo le forze cobelligeranti italiane, il Corpo Italiano di liberazione, ovvero ciò che restava del regio esercito. Che crebbe di consistenza durante il conflitto per arrivare a contare 22mila uomini perfettamente armati e disciplinati. Poi le formazioni partigiane di diversa estrazione ideologica e politica. Nel '43 i loro organici erano ridottissimi. Nell'aprile del '44 secondo la maggior parte delle fonti contavano circa 22 mila uomini. Le formazioni comuniste erano le più numerose, ma ben lontane da rappresentare la maggioranza assoluta delle forze partigiane. Quello fatto sin qui potrebbe sembrare un bigino inutile ed ovvio. Però a settant'anni dal 25 aprile del '45 l'immagine che ci viene regalata della Liberazione è ancora molto distorta. Ideologizzata. Il contributo delle truppe regolari italiane marginalizzato, i partigiani raccontati come se avessero tutti al collo un fazzoletto rosso (ma rosso comunista, perché anche sui socialisti già si potrebbe storcere il naso), gli anglo-americani rimossi, anzi quasi colpevoli di averci negato la possibilità di essere inclusi nel Patto di Varsavia. È del resto di qualche giorno fa un titolo delle pagine di Repubblica che recitava così L'Armata Rossa che fece la Resistenza. Racconta le vicende dei soldati sovietici che fuggiti ai tedeschi cooperarono coi partigiani. Sulla loro consistenza numerica non occorre fare molti conti, nel testo si spiega che se ne sa poco, ma il titolo fa ben capire dove si vuole andare a parare. Se si vuole sfuggire a questo clima, che ha stravolto la storiografia per decenni, è di aiuto il testo di Ugo Finetti che proponiamo in allegato con il Giornale nella nostra biblioteca storica, La Resistenza cancellata (pagg. 376, euro 7,60 più il prezzo del quotidiano). Finetti, ex giornalista della Rai con all'attivo moltissime inchieste e reportage, ricostruisce in questo saggio l'uso politico della Resistenza fatto nel Dopoguerra. Spiegando quanto quest'uso politico abbia fatto male alla stessa Resistenza. Per usare le sue parole: «Quando l'antifascismo diventa un marchio di cui una minoranza pretende di avere l'esclusiva, e si accusa quotidianamente di fascismo la maggioranza, si scava un fossato tra antifascismo e opinione pubblica». Ma soprattutto Finetti dà largo spazio alla storia dei resistenti dimenticati. In prima istanza i militari. E rende loro giustizia dopo decenni di oblio: «La resistenza non fu infatti una guerra civile tra due élites - i rivoluzionari comunisti e gli irriducibili di Salò - ne ebbe come caratteristica la lotta di classe. Vide alla nascita come protagonisti militari guidati da ufficiali “legittimisti”... Le prime formazioni hanno come denominazione richiami risorgimentali e gli Alleati ne favorirono la nascita. Il Partito comunista, dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1944, svolse un ruolo del tutto secondario». E l'opera di ricerca di Finetti è pregevole soprattutto quando aiuta a riscoprire personaggi importanti come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che fu il vero organizzatore della lotta antitedesca a Roma. Partecipa all'inutile tentativo di difendere la città sotto l'attacco tedesco. Si dà alla clandestinità. Il 10 dicembre 1943, quale comandante riconosciuto dal governo Badoglio, dirama a tutti i raggruppamenti militari nell'Italia occupata dai nazifascisti la circolare 333/op, nella quale vengono indicati gli obbiettivi dell'organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia. Le sue parole d'ordine erano: «guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico». Cosa che lo metteva in forte concorrenza con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e getta una luce sinistra sul suo arresto e la sua fucilazione alle fosse ardeatine. Ma non è un caso isolato. Anche Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, contatto principale di Radio Londra tra i resistenti italiani, è stato ostracizzato. Stessa sorte per Alfredo Pizzoni che subito dopo l'8 settembre 1943, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il Cln lombardo, che nel febbraio 1944 divenne il ClnaI. Nei libri di storia non compare, troppo borghese. Finetti rende giustizia a quei patrioti, come i militari che resistettero alla Wehrmacht mentre per colpa del Re e di Badoglio il Paese finiva allo sbando, che sono stati rimossi dalla memoria perché non omologabili. È revisionismo? O il revisionismo di comodo è stato il precedente oblio?

Non erano tutti comunisti. La Resistenza fuori dal mito. Una lunga mistificazione, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Vent'anni or sono, nel 1995, Renzo De Felice, dopo aver ricordato che la Resistenza era stato «un grande evento storico» che nessun revisionismo sarebbe riuscito a negare, richiamò l'attenzione sul fatto che i numeri di quanti avevano preso parte attiva alla lotta partigiana erano ancora controversi. Ma, quali che ne fossero le dimensioni, quel che sembrava certo allo studioso, era il fatto che, al contrario di quanto si sosteneva generalmente, non era possibile «definire la Resistenza un movimento popolare di massa» se non nelle settimane che precedettero la resa dei tedeschi e la vittoria delle truppe alleate. Del resto anche uno dei suoi principali protagonisti, il generale Raffaele Cadorna aveva scritto nelle sue memorie che, al momento della liberazione, il numero dei partigiani era cresciuto «a dismisura» e aveva aggiunto: «Un semplice fazzoletto rosso al collo bastava a tramutare un pacifico operaio o un contadino in partigiano persuaso di avere acquistato larghe benemerenze nella liberazione della patria». L'amara verità è che la grande maggioranza degli italiani, ormai stanca della guerra, aveva preferito evitare di schierarsi in maniera palese a favore della Resistenza o della Repubblica sociale italiana. Il sentimento collettivo era andato coagulandosi, non per opportunismo ma come scelta di «mera necessità» e come «male minore», in una sorta di «zona grigia» costituita essenzialmente da «quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi, impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia». La tesi di De Felice sembrò dirompente perché metteva in discussione non già la Resistenza in quanto tale ma piuttosto il suo uso politico e ideologico, la sua strumentalizzazione. Quello dello storico era, in realtà, un invito a rileggere e studiare la Resistenza al di fuori del «mito» che ne era stato accreditato soprattutto ad opera dei comunisti. Questi ultimi erano riusciti a far prevalere l'idea non solo di una grande rivolta popolare di massa ma anche, e soprattutto, di un fenomeno unitario a guida comunista. Cosa che non era affatto vera perché alla Resistenza, nelle sue varie fasi, presero parte, oltre ai comunisti e agli azionisti con le brigate «Garibaldi» e «Giustizia e Libertà», anche esponenti di altre forze politiche, dai cattolici ai socialisti, dai liberali ai monarchici inquadrati in brigate e formazioni autonome, talora in dissenso sulle scelte operative. Per non dire, infine, del contributo alla lotta di liberazione da parte dei militari italiani del Corpo italiano di Liberazione e di quell'altra e coraggiosa forma di resistenza rappresentata dal rifiuto di collaborare con i tedeschi da parte dei soldati internati nei campi di concentramento, gli Imi dei quali fece parte anche Giovannino Guareschi. Alle origini del processo di mistificazione storica della Resistenza c'era un preciso disegno portato avanti dal Partito comunista e, in via subordinata, dal Partito d'azione, quello di accreditare che la Resistenza fosse il vero e il solo evento rivoluzionario della storia dell'Italia unita. Il che spiega, per inciso, il motivo per il quale le formazioni autonome, quelle cioè che facevano riferimento a forze politiche diverse dal Pci o dal Pda, fossero guardate con diffidenza se non addirittura con ostilità. Rientra, per esempio, in questo quadro - e vi entra in maniera emblematica delle lotte intestine all'interno del movimento partigiano - il caso dell'eccidio della malga di Porzûs, dove un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo di orientamento cattolico e laico-socialista fu barbaramente liquidato da parte di partigiani comunisti. Spiega, ancora, perché si dovesse glissare sul contributo militare, importante ed anzi essenziale, degli Alleati alla liberazione del Paese e perché si inventasse quella dubbia categoria interpretativa della Resistenza come «secondo Risorgimento» giustamente criticata da un grande ed equilibrato storico come Rosario Romeo. E spiega, infine, come, per molto tempo, la storiografia ufficiale della Resistenza, quella che De Felice avrebbe definito la vulgata, si fosse preoccupata non soltanto di minimizzare, di fatto sottovalutandola, la partecipazione delle componenti non comuniste all'epopea resistenziale. Quando, nel 1991, venne pubblicato il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza , sembrò che si aprisse una stagione completamente nuova rispetto, per esempio, al classico libro, la Storia della Resistenza , che uno storico militante come Roberto Battaglia aveva scritto, quasi a caldo e sotto la guida ispiratrice di Luigi Longo, presentando, in chiave marxista, la Resistenza come una guerra di popolo egemonizzata e guidata dai comunisti. La novità stava, in primo luogo, nel recupero, in ambito storiografico, della nozione di «guerra civile» prima sdegnosamente rifiutata e utilizzata solo nella polemica politica e in talune ricostruzioni provenienti dall'ambiente neofascista. Adesso la «guerra civile» non era più rifiutata, ma diventava un aspetto della Resistenza accanto ad altri due, quelli di una «guerra patriottica» e di una «guerra di classe». Ma si trattava di una novità apparente perché, al fondo del discorso, rimaneva in piedi l'equazione che tendeva a collegare l'idea della Resistenza con l'idea di una rivoluzione politica e sociale. Non è un caso che la ponderosa, e pur importante, opera di Pavone liquidasse la vicenda di Porzûs in una nota e sottovalutasse il contributo delle componenti non comuniste o azioniste della Resistenza: come dimostra, per esempio, il fatto che le citazioni del nome di un liberale come Edgardo Sogno si contino sulla punta delle dita. Il proposito comunista di accreditare l'immagine di una Resistenza unitaria guidata dai quadri dirigenti del partito comunista e farne il fondamento legittimante dello Stato democratico post-fascista era funzionale al disegno di Palmiro Togliatti, e dei suoi accoliti, di conquistare il potere attraverso l'affermazione della «democrazia progressiva». Era un proposito di natura «pedagogica» e politica al tempo stesso che si risolveva, però, in un vero e proprio «tradimento» della Resistenza stessa e dei suoi valori. La storia della Resistenza raccontata dalla vulgata comunista e azionista è contenuta in un libro ideale pieno di pagine stracciate e cancellate che solo da poco tempo alcuni volenterosi ricercatori stanno tentando di restaurare o ricostruire. È la storia di una «Resistenza rossa» che si sarebbe affermata, come sostenne Luigi Longo durante le celebrazioni del primo decennale, vincendo le opposizioni di cattolici e liberali e di tutti quegli antifascisti che, troppo legalitari, ne boicottavano il carattere di movimento popolare di massa e ne ostacolavano l'evoluzione in senso classista. Ma è una storia falsa che ha avuto successo soltanto grazie all'egemonia culturale gramsci-azionista che per molto tempo, per troppo tempo, ha condizionato le menti degli intellettuali italiani. È ora di riscrivere la storia vera della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, per assegnarle il posto che, legittimamente, le spetta. Al di là e al di fuori del mito. E, soprattutto, delle speculazioni politiche.

La guerra dei sette giorni dei «repubblichini» traditi. Dopo il 25 aprile del 1945, i tedeschi sacrificarono gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero. E per gli uomini della Rsi il conflitto proseguì fino al 2 maggio, scrive Rino Cammilleri su "Il Giornale". Nel 70º anniversario del «25 aprile» l'editore D'Ettoris ha pubblicato un libro che mancava: Il gladio spezzato. 25 aprile-2 maggio 1945: guida all'ultima settimana dell'esercito di Mussolini (pagg. 144, euro 14,90). L'autore, Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia Militare, colma una lacuna. Sì, perché, come dice Francesco Perfetti nella prefazione, permane «la convinzione che il 25 aprile 1945 siano cessate definitivamente le ostilità in Italia». Ma «il conflitto durò ancora per una settimana provocando perdite fra militari e civili almeno fino al 2 maggio 1945. Questi sette giorni sono stati poco esplorati dalla storiografia». Con una precisione da consumato studioso, Rossi ci informa nel dettaglio su ciò che avvenne in quella settimana fatale. Che conobbe il caos, le diserzioni, il «si-salvi-chi-può», i voltagabbana, ma anche pagine di autentico valore e di lotta disperata. Già, perché fu subito chiaro, a chi voleva vederlo, che «i tedeschi intendevano sacrificare gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero», cosa che fin dal febbraio 1945 era stata decisa in una riunione a Parma dei vertici militari tedeschi. Del resto, che cosa questi pensassero degli italiani era stato bene espresso in un giudizio del generale Eugen Ott, ispettore della Wehrmacht per le divisioni della Rsi: «Conoscendo la qualità militare e la mentalità dell'italiano \ non ci si può aspettare molto da questa truppa». Così, i repubblichini furono praticamente lasciati a vedersela con l'avanzata anglo-americana e i partigiani. E i fedeli del Duce sapevano bene che questi ultimi non erano inclini a fare prigionieri. «Come bene aveva intuito Renzo De Felice (e, a onor del vero, assai prima Beppe Fenoglio) nella sua opera postuma e, purtroppo, incompleta, fu guerra civile “senza se e senza ma”, e il solo fatto che se ne parli a quasi settanta anni di distanza accalorandosi come se tali eventi fossero di attualità, dimostra a volumi - se ancora ce ne fosse bisogno - che come tale essa è percepita ancora oggi da molti italiani». Fenoglio nel 1949 aveva intitolato una sua prima raccolta di scritti Racconti della guerra civile , ma l'editore Einaudi l'aveva modificato in Racconti barbari . Il termine «guerra civile» dilagò solo dopo la pubblicazione, nel 1991, del libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri). In quei giorni parossistici il destino dell'agonizzante repubblica fascista e delle sue forze armate era l'ultimo dei pensieri non solo dei tedeschi, ma anche degli Alleati, per i quali l'Italia rappresentava un teatro di guerra secondario nello scacchiere europeo. Inoltre «i leader occidentali (Winston Churchill su tutti) temevano una replica dell'amara esperienza greca, dove alla liberazione era seguita una feroce guerra civile fra nazionalisti e comunisti nella quale le truppe britanniche erano rimaste pesantemente coinvolte». La guerra era ormai praticamente conclusa e l'evitare un insensato sacrificio di vite umane fu il problema che occupò le lunghe trattative in Svizzera tra Karl Wolff, plenipotenziario delle forze armate tedesche, e Allen Dulles, responsabile dell'Oss (Office of strategic service), che negoziarono la resa tedesca in Italia. Ma che fare dei prigionieri repubblichini? «Questi ultimi erano considerati dagli Alleati alla stregua dei tedeschi, ossia reparti combattenti i cui componenti ricadevano pienamente sotto la convenzione di Ginevra». Così non la pensava Giovanni Messe, capo di stato maggiore del regio esercito, per il quale, essendo l'Italia di Vittorio Emanuele III ufficialmente in guerra con la Germania dall'ottobre 1943, i soldati di Salò erano colpevoli di tradimento per aver collaborato in armi «con il tedesco invasore». E dire che il Messe era stato a suo tempo decorato dai tedeschi con la croce di ferro di prima e seconda classe e, per giunta, era l'unico Maresciallo d'Italia ad avere ottenuto l'ambitissima Ritterkreuz che neanche Graziani, capo delle forze armate repubblichine, aveva. Per quanto riguardava il Cln, questo aveva stabilito l'instaurazione di tribunali straordinari che avrebbero dovuto giudicare i «collaborazionisti». Il Cmrp (Comitato militare regione Piemonte), da parte sua, decise di passare subito per le armi tutti coloro che avessero militato nelle forze armate di Salò. Né i fascisti, d'altro canto, si comportavano in modo granché diverso con i partigiani catturati. I marò repubblichini furono abbandonati dal generale tedesco Eccard von Gablenz, che contrattò il ritiro dei suoi uomini con i partigiani senza dirlo agli italiani. Questi, decimati dall'aviazione alleata durante la fuga, il 26 aprile 1945 decisero di sciogliersi. Tutti a casa (forse). Quelli di Brescia, responsabili di una rappresaglia, nello stesso giorno «con poca accortezza» si consegnarono al Cln di Lumezzane. Con il risultato che il loro comandante, tenente colonnello Mario Zingarelli, e venticinque marò furono fucilati il 10 maggio. E così via. Italiani contro italiani. Più guerra civile di così...

Ecco le memorie inedite dei "repubblichini" di Salò. I ragazzi di Salò erano spesso giovani che avevano perso tutto e mossi da ideali patriottici. Ecco le loro testimonianze, scrive Roberto Chiarini su "Il Giornale". Parafrasando Carl Schmitt, si potrebbe affermare che, se nello stato di eccezione si costituisce una nuova legittimità, della legittimità in quello stesso passaggio si definiscono anche i principi fondativi. Il nostro stato d'eccezione è stata la Liberazione. Si fissarono allora i criteri ispiratori del nuovo Stato. Il 28 aprile è il giorno in cui i partigiani passarono per le armi l'artefice della dittatura, l'8 maggio quello in cui finì la guerra in Europa, ma è il 25 aprile, giorno della sollevazione di Milano contro l'occupante nazista e il collaborazionista fascista, che è stato assunto come data simbolo della nuova Italia. La Repubblica, nata dalla Resistenza, ha fatto dell'antifascismo lo statuto valoriale che ha tracciato il confine della legittimità democratica. Ne è derivato che l'assolutizzazione della «giusta causa» dei partigiani contro la «causa sbagliata» dei militi della Rsi abbia portato ad assolutizzare uniformandole anche le ragioni della lotta ingaggiata dai due campi nemici: delle avanguardie consapevoli al pari delle maggioranze gregarie. Quel che vale per un giudizio storico-politico complessivo sulla Liberazione, non è detto però valga anche come criterio nella considerazione delle singole vicende personali. Non tutti i «ragazzi di Salò» furono volontari. Non tutti furono fascisti irriducibili. Non tutti furono sanguinari, anche se tutti si caricarono sulle spalle la responsabilità di sostenere la causa di un'Italia e di un'Europa destinate a divenire baluardi di regimi totalitari e razzisti. Del fascismo repubblicano disponiamo di una ricca letteratura fatta di memoriali o di ricostruzioni redatte per lo più da gerarchi o da personaggi in vista del regime, tutte ovviamente più o meno auto-assolutorie. Meno conosciuti sono, invece, i percorsi esistenziali, morali, alla fine anche inesorabilmente politici dei - chiamiamoli - «giovani qualunque», seppure essi costituissero la gran massa di quanti vestirono la divisa saloina. Per quel che si è riusciti a indagare, il mondo dei giovani dell'esercito di Salò risulta più variegato e complesso di quanto sommari giudizi abbiano sinora lasciato intendere. Ecco due casi a nostro giudizio istruttivi.

Umberto, un ragazzo di Padova non ancora diciottenne, in una giornata di sole della primavera del 1944 va con gli amici a giocare la sua solita partita al pallone. Torna a casa e scopre di essere diventato orfano di entrambi i genitori e per giunta anche ridotto sul lastrico. Non c'è più nemmeno la sua casa, colpa di un bombardamento. Non sapendo a quale santo votarsi, non trova di meglio per campare che arruolarsi in Marina, nelle file della X Mas. Viene dislocato in Friuli, dove nel corso di uno scontro finisce prigioniero dei partigiani. Liberato dai suoi commilitoni, è trasferito sul Senio, nei pressi di Castel Sampietro. Qui è impiegato in rischiose azioni sulla linea del fronte. Ferito nel corso di un bombardamento, dopo un trasferimento avventuroso, è ricoverato prima nell'ospedale di Argenta, poi in quello di Verona. Le sue condizioni peggiorano per le molteplici, gravi ferite riportate. È salvato in extremis da un ufficiale medico tedesco che gli asporta decine di schegge. Non ha ancora finito la convalescenza che si vede costretto a fuggire dall'ospedale per non finire nelle mani dei partigiani ormai alle porte di Verona. È a Padova, a casa di una zia dove si sta curando le ferite, quando viene sorpreso dal 25 aprile. Fugge. Tenta inutilmente di rifugiarsi in Francia. Ripiega allora su Bardonecchia. Qui riesce a sopravvivere e soprattutto ad occultare il suo passato da repubblichino facendo il garzone da un fornaio comprensivo. Sospettato di nascondere un passato da milite della Rsi, alla fine del 1945 lascia Bardonecchia per Padova, dove riesce ad arruolarsi nella Guardia di Finanza. Conduce poi una vita nell'ombra, ben guardandosi da compiere atti che facciano riesumare il suo passato compromettente. È la figlia a metterlo nei guai sposando - parole sue - «un comunista» che non manca di riaprire la ferita. Ma il colpo più duro lo riceve allorché l'adorata nipotina, di ritorno dalla scuola, lo apostrofa corrucciata: «Ma tu nonno è vero che sei un massacratore di partigiani?». L'anziano «ragazzo di Salò» scoppia in un pianto sconsolato. Prende allora la decisione di registrare a futura memoria la sua esperienza di combattente della Rsi. Scopo - confessa - lasciare testimonianza perché un giorno la nipotina, divenuta adulta, possa rendersi conto che suo nonno non si è macchiato di delitti né di azioni infamanti.

Tre amici ricevono la chiamata alle armi dall'esercito di Salò. Hanno tutti un'educazione fascista ma nessuno è un ardente mussoliniano. Pur senza entusiasmi, accettano di arruolarsi. Uno, Vaifro, finisce sul fronte orientale dove troverà la morte. Gli altri due, Amilcare e Lucio, sono inviati sul fronte occidentale, in Liguria, in due unità diverse. In occasione di una licenza, Lucio riceve dalla madre del commilitone una lettera e un pacco da consegnare all'amico. Al suo rientro, si presenta alla caserma di Amilcare ma, non appena fa il suo nome, suscita allarme: viene a sapere che ha disertato unendosi a una formazione partigiana. Temendo che nella lettera siano presenti indicazioni compromettenti, Lucio decide di consegnare ai superiori solo il pacco. L'amico finirà comunque catturato, torturato e ucciso. Lucio invece finisce la guerra sempre sotto le insegne della Rsi. A fine guerra, tornando al paese teme di finire oggetto di una qualche attenzione non benevola da parte dei partigiani del posto. Non gli succede invece nulla di tutto questo. La madre di Amilcare, sorella del sindaco socialista insediatosi dopo la Liberazione, lo mette sotto la sua protezione. Mostra in tal modo la sua riconoscenza per il gesto con cui Lucio, tenendo per sé la lettera a suo tempo consegnatagli, aveva coperto la fuga dell'amico. Da allora fino alla morte, avvenuta qualche anno fa, Lucio non manca mai di onorare ogni anno nel giorno dei morti con una corona di fiori la memoria dei suoi due amici, Vaifro e Amilcare, l'uno repubblichino, l'altro partigiano.

Albero della Vita in piazza Loreto, ma l'Anpi: "Offusca ricordo dei partigiani". Secondo il comune, la torre simbolo di Expo potrebbe finire in piazzale Loreto, "per cancellare un momento storico controverso". I partigiani insorgono: "Confonderebbe le idee", scrive Ivan Francese su "Il Giornale". Ha sempre diviso e continua a dividere gli animi dei milanesi e degli italiani, piazzale Loreto.  Prima teatro della barbara esposizione dei cadaveri di quindici partigiani, fucilati nell'agosto 1944 dalle forze della Repubblica di Salò e quindi lasciati esposti al pubblico ludibrio; poi, nell'aprile 1945, testimone dell'altrettanto barbara esposizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi, in quella che lo stesso comandante partigiano Ferruccio Parri definì un'oscena "macelleria messicana". Da novembre piazzale Loreto potrebbe ospitare l'ormai celeberrimo "Albero della Vita" progettato per diventare il simbolo di Expo. La torre di 35 metri di Marco Balich potrebbe venire trasferita nella piazza alla fine di corso Buenos Aires su proposta dell'assessore al Verde Chiara Bisconti. "Per cancellare un momento storico controverso con un inno alla vita", spiega la Bisconti. Una proposta che ha subìto scatenato le ire dei partigiani: "Sarebbe una nota stonata che creerebbe solo confusione - protesta il presidente milanese dell'Anpi Roberto Cenati - Il simbolo di piazzale Loreto c'è già ed è il monumento che ricorda i 15 partigiani, che da tempo chiediamo che venga restaurato. L'installazione di Basich resti sul sito di Expo". Più favorevole, invece, il centrodestra. Non si oppone, ad esempio, l'ex vicesindaco Riccardo De Corato, che però avverte: "Prima dovremmo mettere anche una targa che ricordi che qui è stato appeso Mussolini".

Veneziani: il 25 aprile nega dignità anche a chi ha dato la vita per la patria, scrive Antonella Ambrosioni su “Il Secolo D’Italia”. “Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa ”. È stato chiaro, ultimativo, Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, fresco di nomina come direttore scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. Il 25 aprile non è una festa perché rimane una celebrazione divisiva e mai concepita all’insegna della veritas e della pietas, sostiene il neo direttore.

Veneziani, lei ha parlato di una festa divisiva e di una festa “contro”. Parole quanto mai opportune ascoltando le esternazioni colme di rinata retorica resistenziale e antifascista del presidente della Camera prima, del Capo dello Stato poi, non trova?

«Sì, il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita».

Lei sostiene che nella retorica di parte il 25 aprile “oscura” persino la Grande Guerra: come è possibile?

«Facendo parte del Comitato degli anniversari di Palazzo Chigi, ho potuto notare proprio questo paradosso: mentre alcune ricorrenze, come il centenario della Grande Guerra, sono ricordate solo negli aspetti tragici, catastrofici, con il carico di dolore, sacrifici e morte, sul settantesimo del 25 Aprile prevale esclusivamente l’aspetto celebrativo, senza mai ricordare le pagine nere, sporche, sanguinose che l’hanno accompagnata. Negli ultimi tempi è poi è cresciuta l’ enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra mondiale. Anzi, per la Grande Guerra si è deciso solo di restaurare monumenti, per il 25 aprile vi sono celebrazioni ovunque. Prima considerazione: scusate, il centenario è una data più importante, una data “tonda”, non la celebriamo mai; mentre il 25 aprile viene celebrato ogni anno, è l’unica festa civile del nostro Paese, oltre alla Festa del Lavoro, quindi non è certo una festa trascurata; e oltretutto è irrituale celebrare i Settantesimi. Chiedevo, pertanto, nient’altro che l’equiparazione dei giudizi storici, esaminare i due eventi dal punto di vista storico e non celebrativo, mettendo in luce anche i punti critici della Resistenza».

Le parole del Capo dello Stato non aiutano certo a ricomporre la memoria storica quando ancora una volta ristabiliscono una gerarchia tra giovani di Salò e partigiani: pietà per i morti – ammette – ma i primi stavano dalla parte sbagliata, i secondi da quella giusta. Parole che segnano un passo indietro rispetto al processo di riconciliazione avviato da Luciano Violante quando parlò della necessità di comprendere le ragioni dei ragazzi e delle ragazze che scelsero la Rsi.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: tutte le falsità sulla Resistenza. "Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della Liberazione.  Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall'opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo. Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l'ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, leader delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell'Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L'Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l'aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile. Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l'animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra. In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall' Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere. La ferocia insita nell' animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un' altra guerra. Con l' obiettivo di fare dell' Italia l' Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell' Unione Sovietica. I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un' arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci. La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d' Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall' 8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura. In totale, 19 vittime. La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto "Giacca", 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l' assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l'estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri. È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, "Gemisto", il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva "Gemisto". Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come "Giacca" morì nel suo letto. Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull' Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l' estate e l' autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti. A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia. Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, "Marco", il pioniere della Resistenza sull' Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell' Oltrepò pavese. Morì l' ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi. Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell' Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri. Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un' occhiata ironica. E disse: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent' anni. Lasciamolo riposare in pace». Un' altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, "Bisagno", il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell' ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell' oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona. Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti. Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza. Con lui spariva l'unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria un'insurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po' dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l' offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell' Ossola e di Alba.

Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L' area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all' Unione Sovietica. Vi dominava l'indisciplina più totale. Al vertice c' era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili. Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità. La repubblica dell'Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l'ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l' ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo: «A Domodossola c' è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini». La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944». Durata dell'esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio: «Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n'era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri...». In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall'altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un'altra epoca altrettanto feroce. L'ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione record. Ma le tante sinistre andarono in tilt. E diedero fuori di matto. Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l' accusa più ridicola: l' aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d'Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell'Unità, varie eccellenze dell' Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista. Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido. La meno grottesca riguarda l' ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere. Si sono aggrappati alla Resistenza. E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure. Ecco un'altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell' Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell' ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l'agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati. Che cosa resta di tutto questo?

Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos'altro. Quando viaggio in auto per l' Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento. È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell' Aquila fascista. E mi domando se avrei avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent'anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l'amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L'Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no. Giampaolo Pansa".

Pansa: «La Boldrini dovrebbe andare al doposcuola. Non conosce la storia», scrive Aldo Di Lello su “Il Secolo D’Italia”. «La Boldrini? Dovrebbe andare a ripetizione di storia». Non fa sconti, Giampaolo Pansa, alla terza carica dello Stato dopo Bella ciao cantata nell’Aula della Camera e dopo gli interventi sul  25 aprile che hanno riproposto i temi della vecchia vulgata resistenziale della Prima repubblica. In questi giorni di retorica d’annata, l’autore de Il sangue dei vinti è intervenuto su Libero (23 aprile) per ricordare alcune verità scomode sulla Resistenza.

Allora Pansa, non ritieni che il clima di questo settantesimo anniversario del 25 aprile sia caratterizzato da un sorta di passo indietro rispetto alle aperture e alle ammissioni di qualche anno fa? Penso a Mattarella, che non vuol sentir parlare di “ragioni” dei “ragazzi di Salò”, a differenza di quanto a suo tempo affermò Luciano Violante e di quanto, più recentemente, ha ammesso Napolitano. Penso soprattutto alla Boldrini, che giorni fa, in televisione, è arrivata a negare l’esistenza di una guerra civile. Per la presidente della Camera bisognerebbe solo parlare di «lotta di liberazione». Un vero e proprio ritorno al passato. Non ti pare? 

«Non voglio polemizzate con Mattarella: è una persona che stimo. È il Capo dello Stato e mi rappresenta. Della Boldrini penso invece che dovrebbe essere mandata al doposcuola, perché dimostra di non conoscere la storia italiana. Non può parlare in quel modo. L’estrema semplificazione della sua non conoscenza c’è stata quando ha fatto intonare Bella ciao alla Camera:  non è mai stata una canzone partigiana. I partigiani cantavano Fischia il vento. Ha fatto uno spettacolo da teatrino dell’oratorio rosso».

Che differenza noti tra il tempo in cui uscì Il sangue dei vinti e oggi?

«Il sangue dei vinti uscì nel 2003 ed ebbe subito un successo pazzesco. Dopo pochi mesi aveva già venduto duecentomila copie. E l’interesse è continuato  negli anni successivi, fino alla vendita di un milione di volumi.  Fui bersagliato in tutti i modi. Me ne dissero di tutti i colori. E si trattava spesso di accuse ridicole e grottesche. Ci fu anche chi, ad esempio,  disse che volevo fare un regalo a Berlusconi per farmi nominare direttore del Corriere della Sera. Non c’è dubbio che era un’Italia faziosa.  Oggi abbiamo una faziosità nascosta, che non si esprime. Siamo alle prese con una crisi economica che, nonostante quello che dice Renzi, non è affatto risolta. E poi c’è l’enorme dramma delle migrazioni e degli sbarchi. L’Italia è come un malato che non si è ancora alzato dal letto per la paura di muoversi. Rispetto ad allora, l’Italia è più addormentata. Ed è su questa Italia che si è abbattuto lo tsunami di retorica per il settantesimo anniversario del 25 aprile».

Non ritieni che, in questa Italia addormentata, il conformismo attecchisca più facilmente?

«Ti rispondo con un esempio tratto dai miei ricordi d’infanzia. A quel tempo, avrò avuto otto o nove anni, i miei genitori mi facevano preparare il “prete”. Sai che cos’è?»

NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.

Non aprite quella casa (editrice). Se no la burocrazia vi ucciderà. Tasse, regole complicatissime, distribuzione bloccata e lungaggini Lanciarsi nel mercato editoriale è un'impresa titanica. Parola di esperto, scrive Gianluca Barbera su “Il Giornale”. Volete aprire una casa editrice? Vi hanno detto che oggi fare impresa è più facile? Avete prestato fede alle promesse di Renzi di ridurre la burocrazia e le tasse? Alle parole di Monti quando assicurava che i giovani avrebbero potuto costituire una società con un euro? Se avete creduto a tutto questo avete vinto il Premio Babbeo dell'Anno. La verità è che chi vuole fondare una casa editrice deve affrontare non solo un surplus di burocrazia e costi, ma anche rischiare di finire in un reparto di Neuropsichiatria. Partirò da un indovinello. Giovanni, Marco e Paola vogliono aprire una casa editrice. Su suggerimento del commercialista (figura immancabile della contemporaneità, come il prete nell'Ottocento) optano per una società a responsabilità limitata, 10mila euro di capitale sociale (il minimo consentito). Dopo aver depositato in banca i tre decimi del capitale previsti dalla legge, si recano dal notaio, firmano l'atto costitutivo e, dopo aver pagato l'onorario (non meno di 1800 euro), si sentono dire: «C'è però un piccolo problema. Per ottenere la partita Iva e l'iscrizione alla Camera di Commercio, come la legge impone, bisogna disporre di una PEC (casella di posta certificata). Ma per ottenere una PEC occorre avere già la partiva Iva». I tre si scambiano un'occhiata fra l'incredulo e il divertito. «Ci sta dicendo che per ottenere la partita Iva dobbiamo avere la PEC e per ottenere la PEC dobbiamo avere la partita Iva?». «Proprio così» risponde il notaio allargando le braccia. «E allora come si fa?» domandano allibiti. Inizia un balletto di telefonate: il notaio parla col commercialista, il commercialista coi tre aspiranti editori, questi con una società che fornisce PEC, ma non se ne viene a capo. I ragazzi perdono la pazienza: «Non saremo certo i primi! Come fanno gli altri?». Dopo un attimo di esitazione: «Purtroppo sono le nuove disposizioni di legge, e una soluzione non c'è... Ognuno trova il modo di arrangiarsi come può... Basta individuare l'anello debole della catena e trovare una scappatoia». E ora, che fare? Come sapete, con un po' di buona volontà in Italia una soluzione si trova sempre. Lascio al lettore scovare la soluzione. Ma questo, ovviamente, non è che il principio. Perché un istante dopo il notaio aggiunge che, PEC o non PEC, senza il supporto di un commercialista non può inoltrare richiesta di partita Iva. E infine ricorda loro che devono saldare con un assegno perché il pagamento deve essere tracciabile e dunque serve un conto in banca. Riassumiamo: notaio, commercialista, banca. Restano solo il geometra e l'avvocato e poi non manca nessuno. Ma il peggio deve venire. Il giorno dopo, col morale sotto i tacchi, i tre si recano dal commercialista, che presenta subito il conto: 355 euro per l'iscrizione nel registro delle imprese, 1.480 per la comunicazione d'inizio attività alla Camera di commercio, 395,17 per la vidimazione dei libri sociali, 115,80 per la famosa PEC, un importo variabile per l'iscrizione all'Inps. E naturalmente c'è l'onorario del commercialista di cui tenere conto. I ragazzi mettono mano al portafogli e a fine giornata si rendono conto che, prima ancora di aver cominciato a lavorare e a produrre qualcosa, il capitale sociale si è già quasi dimezzato. E non è finita. C'è da farsi assegnare il codice Isbn (quello che trovate sul retro di copertina dei libri), indispensabile per commercializzare le loro pubblicazioni: costo dell'operazione 292,80 euro. C'è poi da registrare il marchio: altri 245 euro, oltre alla pazienza di cui ci si deve armare per far fronte all'indolenza e ignavia dei funzionari dell'ufficio marchi e brevetti, distaccato presso la Camera di commercio. E poi c'è la banca presso la quale vi recherete per aprire il conto: vi farà cascare dall'alto ogni cosa, vi chiederà di sottoscrivere un documento chiamato «antiriciclaggio» di cui nessuno pare capire l'utilità (se riciclate denaro, non sarete così stupidi da dichiararlo). Dovrete rispondere a un fuoco di fila di domande ed esibire una quantità di documenti di cui sul momento non disporrete e per ottenere i quali dovrete rivolgervi nuovamente al notaio e al commercialista. E poi naturalmente la società andrà censita e se volete operare con l'home banking bisognerà fare richiesta di un codice operativo. Altro tempo, altri costi. Se per di più avete fatto domanda per un piccolo fido, vi aspettano decine di firme da apporre. E guardatevi bene dal cambiare la sede sociale: sarebbero altri 380 euro alla Camera di commercio. Ma ora finalmente si parte, direte voi. Certo. Ma tenete presente che il proprietario dell'ufficio che avrete affittato vi chiederà una lauta caparra più il primo mese o trimestre anticipato. E ve la dovrete vedere coi tempi della Telecom per l'allaccio delle linee telefoniche e dell'Adsl, con la società elettrica, con quella del gas, con le loro arzigogolate procedure di attivazione, con le ore di attesa quando vi rivolgerete ai loro numeri verdi. Imparerete a convivere con adempimenti burocratici pressoché quotidiani, in un quadro normativo che cambia ogni anno in peggio, con una sfilza di tasse da far accapponare la pelle: Iva, Ires, Irap, Tari, Tasi o Tares o Tirsu o Trise (o come diavolo si chiama), ritenute d'acconto, acconti su imposte future, contributi previdenziali, tasse camerali, tasse annuali sui libri sociali, costi per la frequenza obbligatoria a corsi di primo soccorso e sicurezza sul lavoro (e relativi aggiornamenti periodici). E poi il famigerato Entratel, il modello 770, il redditometro, lo spesometro, la nuova Certificazione Unica (centinaia di pagine da stampare e spedire in triplice copia, alla faccia dell'informatizzazione e delle campagne per il risparmio della carta). E ancora la tenuta del libro dei verbali, il registro delle tirature, il foglio delle presenze, il libro matricola, il Dps (documento programmatico per la sicurezza), quello della valutazione dei rischi, la redazione del bilancio annuale coi suoi rovelli interpretativi, la compilazione degli studi di settore, la fattura elettronica per chi lavora con enti pubblici (te le fa il commercialista, ovviamente non gratis), la dichiarazione dei redditi. Per non parlare dei folli interessi bancari sui fidi... E non abbiamo ancora fatto cenno al fatto che vi servirà un buon distributore, altrimenti i libri come ci arrivano in libreria? E questo è l'ostacolo degli ostacoli. Anche perché è in atto una rivoluzione. Si sta passando da una situazione di relativa concorrenza a una di quasi monopolio. Il tutto con l'avallo dell'Antitrust, che ha autorizzato la fusione tra il gruppo Messaggerie Libri e Feltrinelli (socio unico di Pde, l'altro distributore storico), assai più nefasta per il pluralismo editoriale del paventato matrimonio tra Mondadori e Rizzoli. Grazie a una sentenza dell'Antitrust del dicembre 2014, per trovarsi un distributore tutto si è fatto più complicato. Dovrete presentare una mole di documentazione prima non necessaria. Vi verrà richiesto di esibire documenti attestanti la solidità finanziaria della vostra azienda: in soldoni, si tratterà di dimostrare di non avere gli ultimi due bilanci in perdita (ma se sei nuovo come fai a esibire gli ultimi due bilanci?) e di non essere gravato da protesti. Dovrete dimostrare inoltre di possedere una solida rete di promozione. Ma fermiamoci qui, per carità, benché ci sarebbe altro da aggiungere. Anche perché a questo punto i nostri baldi giovani sono invecchiati perlomeno di cinquant'anni, se non all'anagrafe perlomeno nello spirito. Ma in fondo sono stati fortunati. A semplificargli le cose ci ha pensato Renzi. Altrimenti, sai che dolori!

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

Brogli a Sanremo, parte la denuncia. Michelangelo Giordano, cantautore 36enne calabrese approdato a Milano in cerca di gloria, si è ritrovato con una lettera di esclusione in mano, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”. L'appuntamento è per il 13 aprile 2015, tribunale civile di Imperia. È lì che andrà in scena la prima "puntata" di un dopo Festival al vetriolo. Una querelle diversa da quelle costruite ogni anno per insapidire le tradizionali settimane sanremesi, perché stavolta di mezzo c'è una causa per danni, e le accuse - la cui eventuale fondatezza toccherà ai giudici riscontrare - di un giovane cantautore calabrese. Si chiama Michelangelo Giordano, ha 36 anni e nel suo curriculum rivendica alcuni guizzi pregevoli, come la vittoria del premio "Una canzone per Amnesty 2013", oltre ad un mentore del calibro di Mogol che lo avrebbe notato durante un seminario di musica organizzato dalla scuola di musica fondata dallo stesso paroliere (il CET) incoraggiandolo a trasferirsi dalla Calabria a Milano. Il concorso Giordano, lo scorso settembre 2014, decide di iscriversi alla manifestazione "Area Sanremo 2014", promossa con bando pubblico e gestita dalla società "Sanremo Promotion" controllata dal comune ligure. Il concorso, che ha aperto le porte della partecipazione al Festival della canzone italiana 2015 ai suoi due vincitori, prevedeva nella sua prima fase la selezione di 40 finalisti da parte di un'apposita commissione di valutazione, composta dalla storica voce dei Pooh Roby Facchinetti (presidente), dalla cantante Giusy Ferreri e dal produttore e rapper Dargen D'Amico. A novembre, Giordano si è esibito davanti a quella giuria eseguendo il brano "Chi bussa alla porta", tema impegnato (il panico e la sofferenza di chi è vulnerabile ai suoi attacchi), parole e musica scritte da lui. Al termine, come riportano i suoi avvocati Marzia Eoli e Luca Fucini nell'atto di citazione presentato ad Imperia contro la Sanremo Promotion, i giudizi della commissione sarebbero stati "entusiasti", sia per "l'originalità del brano prescelto" che per la musica e il testo. Un giudizio positivo che troverà riscontro, evidenziano ancora gli avvocati, nella scheda di valutazione di Giordano al quale Roby Facchinetti attribuirà addirittura quattro dieci su quattro. La doccia fredda Cinque giorni dopo, però, l'artista riceve da Sanremo Promotion la comunicazione del mancato superamento della fase eliminatoria. Chiede di poter visionare la propria scheda di valutazione, e davanti ai giudizi "più che lusinghieri" (scrivono i suoi due avvocati) che la inchiostrano rimane ancora più sconcertato. Decide così di fare un accesso agli atti, per confrontare la sua scheda con quelle dei 40 finalisti, per conoscere i criteri di valutazione adottati e per visionare i verbali della commissione contenenti questi ultimi. Punteggi più alti Dalle schede, recita ancora l'atto di citazione, emerge che "alcuni candidati ammessi alla successiva fase finale riportano giudizi espressi, sia con punteggi numerici e sia con il giudizio complessivo, di gran lunga inferiori a quelli riportati da Giordano". Nella scheda di valutazione, in effetti, il cantautore ha un 9,17 (media finale dei punteggi ottenuti per le singole componenti dell'audizione e cioè voce, presenza scenica, performance e brano) e un 9 (giudizio complessivo espresso dai commissari). Altri quattro concorrenti selezionati al suo posto tra i 40 finalisti, portati come esempio nella citazione, hanno tutti voti inferiori al 9, oscillanti tra l'8,80 e l'8,50. "Perché", si chiede l'artista, "sono stato scartato dopo essere stato valutato così positivamente?". Il verbale Nel verbale stilato dalla commissione e che data a prima dell'inizio delle selezioni, in realtà, si dice che "al termine di ogni audizione la commissione compilerà una scheda dell'esibizione. La commissione stabilisce che le valutazioni contenute nelle suddette schede non determineranno la classifica finale dei candidati e quindi non saranno in alcun modo vincolanti in ordine alla scelta dei finalisti". Quelle valutazioni formulate dai giurati andrebbero considerate alla stregua di consigli utili ai giovani concorrenti per individuare i propri punti forti e quelli da perfezionare. Per gli avvocati di Giordano, invece, le cose non starebbero così. Le schede di cui si parla nel verbale sono definite "dell'esibizione" e non "di valutazione", dicono. Nel bando di concorso che disciplina "Area Sanremo 2014", riportano inoltre nella citazione, all'articolo 6 si legge che "la commissione di valutazione adotterà le proprie decisioni in seduta segreta secondo i criteri che saranno resi noti ai candidati prima dell'inizio delle selezioni mediante pubblicazione sul sito internet www.area-sanremo.it". Il bando e i criteri delineati nel sito, sostengono gli avvocati di Giordano, sarebbero pertanto l'unica "legge di gara" individuabile e le schede di valutazione "l'unico elemento di giudizio in cui la commissione ha espresso un punteggio numerico per ogni parametro ispirato ai criteri fissati sul sito internet". "Siamo di fronte a una selezione con bando pubblico", afferma Giordano al telefono da Sesto San Giovanni, "un parametro di valutazione trasparente doveva esistere e i punteggi delle schede di valutazione sono l'unico che si possa individuare in questo concorso". Gli avvocati del cantautore chiedono alla Sanremo Promotion 250.000 euro, puntando su un risarcimento per "perdita di chance" dal momento che il loro assistito, escluso dalla selezione finale malgrado l'alto punteggio ottenuto, non ha potuto esibirsi davanti ai rappresentanti delle principali case discografiche multinazionali e ai manager musicali ammessi all'ascolto dei 40 finalisti. Chiedono anche il ristoro dei 3.860 euro che l'artista, al pari degli altri 3876 concorrenti, ha dovuto spendere per poter partecipare alla selezione. Inclusi, riportano ancora gli avvocati, i soldi versati per la partecipazione ad un corso di formazione per gli iscritti, obbligatoria per poter accedere alle selezioni vere e proprie, con vitto, alloggio e viaggio a carico dei cantanti. Il comune di Sanremo, da noi contattato, non ha inteso per il momento commentare la vicenda. Abbiamo fatto pervenire una richiesta di replica anche a Sanremo Promotion, posta in liquidazione a febbraio dopo il voto a maggioranza del consiglio comunale cittadino, senza però venire ricontattati.

Denis Fantina, la star di Amici rifiutato al talent The Voice di Rai 2, scrive “Libero Quotidiano”. Il talent The Voice quest'anno è diventato l'ultima spiaggia di tanti cantanti quasi dimenticati. Dopo Chiara Iezzi di Paola e Chiara, nell'ultima puntata del talent in onda su Rai 2 si è presentato Denis Fantina, vincitore della prima edizione di Saranno Famosi, oggi conosciuto come Amici, ben 15 anni fa. I giudici però lo hanno bocciato clamorosamente. Denis ha cantato il brano di Marco Mengoni "Credimi ancora" e, una volta capito chi fosse, i giudici hanno cercato di giustificarsi. Il primo ad arrampicarsi sugli specchi è stato il giudice Francesco Facchinetti: “Per quanto riguarda il team Fach eravamo quasi sul pulsante, hai fatto trenta e non hai fatto trentuno”. Cerca di metterci una pezza anche Piero Pelù: “Io non mi sono girato perché tu hai portato questo pezzo di Mengoni e lo hai cantato con un piglio metallaro ma se tu ti fossi buttato più sul versante heavy metal ti avrei votato. Complimenti perché hai cantato da Dio”. Un'amara consolazione, senz'altro.

Le Blind Audition di The Voice 3 sono terminate, scrive "Panorama”. Il 25 marzo 2015 i quattro coach hanno infatti completato le loro squadre, che comprendono 16 talenti per team, e dal prossimo mercoledì si passa dunque alla seconda fase del talent show, ovvero le Battle: accoppiati due a due dal proprio giudice, i cantanti dovranno scontarsi per rimanere in gara cantando la stessa canzone. In queste puntate, l’eliminato avrà la possibilità di essere ripescato da un altro giudice. È il momento di osare e di fare il grande salto, è l’ultima chance per molti degli aspiranti cantanti, visto che i quattro team sono quasi chiusi. Nella lunga carrellata di talenti che si sono esibiti ieri sera, ce n’è uno già noto: alle audizioni al buio si è presentato anche Dennis Fantina, vincitore di Saranno Famosi, cioè la prima edizione di Amici. “Quando vinci credi che il tuo mondo cambi totalmente, invece non è così – racconta nell’rvm di presentazione – Oggi collaboro con un bar, si fa fatica, meno male che mia moglie lavora. Dopo il programma ho fatto album e concerti, poi il fermento è venuto meno. Voglio masticare nuovamente musica: della mia voce mi fido molto, dell’emozione no. Me la gioco e vediamo cosa accade”. Così sale sul palco e canta Credimi ancora di Marco Mengoni – e su Twitter Fiorello sottolinea la scelta sbagliata del brano - ma nessuno dei giudici si gira. Il primo a riconoscerlo è Francesco Facchinetti, poi a ruota gli altri. Quando torna nel backstage Fantina è visibilmente contrariato e intanto i giudici commentano la sua esibizione. “Se canta Zarrillo, spacca”, azzarda Facchinetti e J-Ax replica ironico: “Ma nessuno vuole che canti Zarrillo, nemmeno Zarrillo”. Francesco e Roby Facchinetti - ribattezzato “il sommo maestro, l’eccelso cantore”, per via delle perifrasi ardite, dal conduttore Federico Russo – sono i primi a chiudere il team scegliendo Giulia Pugliese. Dunque il cantante dei Pooh non può più schiacciare il “pirellone”, come aveva erroneamente ribattezzato il pulsante che consente alla sedia di girarsi. Il #teamFach è al completo. “Abbiamo iniziato col botto, cioè con la tua caduta, e finiamo alla grande”, commenta Francesco. In totale, padre e figlio portano alla Battle dieci donne e sei uomini: “Abbiamo trovato quello che cercavamo”. Noemi e Piero Pelù hanno un solo cantante da scegliere, J-Ax invece ancora due. Tocca a Noemi tagliare il traguardo per seconda e chiudere il team dei fiori d’acciaio – così lo chiama perché, spiega, delicato ma al tempo stesso solido – e scommette su Giuseppe Izzo. “Quest’anno il team Noemi spacca. Non mi sono focalizzata su un solo tipo di voce: ho timbri unici e super pop, è molto eterogeneo”. Contenta e soddisfatta. Restano tre posti a disposizione e Pierluca Tevere ipoteca l’accesso alle Battle conquistando Piero Pelù, che pigia il pulsante poi s’infila sotto il tendone che nasconde il cantante a tutto il pubblico. “Stavo svenendo quando ho visto la testa di Piero”, commenta Pierluca. “Mi aspettavo una donna, è stato un piacevolissimo shock. Il team Diablo ha una grandissima varietà di timbri e di personalità”, commenta il coach. Il quindicesimo posto nel team J-Ax se lo aggiudica invece Edoardo Esposito, in arte Edo Sparks, poi il rapper la tira per le lunghe, fa esibire quattro diversi aspiranti cantanti ma non trova quella che definisce “una voce killer”. Alla fine punta su Maurizio Di Cesare, cagliaritano di 22 anni, che lo conquista e chiude la Blind Audition. “Questa è la voce che volevo: mi fa perdere la testa. Ora il team loser 2.0 è chiuso: mi sono lasciato guidare da istinto ed emozione, ho tentato di cercare cose non precise o intonate, ma stilose”.

The Voice, Dennis Fantina fuori: “Hai cantato la canzone sbagliata”. E lui su Facebook: “Il brano non l’ho scelto io”, scrive Michele Monina su “Il Fatto Quotidiano”. L'eliminazione dell'ex vincitore di Amici non è certo un caso di Stato ma fa un po' specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Ci risiamo. Ieri sera si sono chiuse le Blind audition di The Voice, terza stagione, e come era già capitato in passato con la cantante dei Jalisse, eliminata alla cieca, i cinque baldi giudici hanno seccato Dennis Fantina, primo vincitore di Amici di Maria De Filippi, una vita fa. E esattamente come è capitato con colei che ha reso Fiumi di parole uno dei peggiori incubi della nostra giovinezza, via a scuse e supercazzole per giustificare l’aver escluso incautamente un professionista dalla futura competizione televisiva. Ora, partiamo da un presupposto fondamentale, The Voice è un programma tv. Niente a che fare con la musica. Nessun cantante di successo è uscito da li, neanche altrove. Chi ne esce rafforzato, molto, è il giudice, che in Italia, come altrove, vede spesso una carriera morta di colpo rinata. Ma di musica, niente. Dennis è stato sputato sul palco a giochi praticamente fatti. Pochi i posti disponibili rimasti, e quindi selezioni più ardue. I giudici, mentre cantava, ne hanno decantato le doti, ma nessuno si è girato. Bye bey Dennis. La canzone non è adatta, hanno detto, aprendo un piccolo caso. Perché, anche qui, ci si pone una domanda: chi decide le canzoni da proporre? Spesso gli autori stessi. Quindi, decidono di giocare un volto conosciuto a giochi fatti, gli scelgono la canzone e tanti saluti. Chiara di Paola e Chiara, per dire, la cui presenza sicuramente è più interessante rispetto a quella d Dennis, un po’ usurato dal tempo, è stata messa in condizione di passare a scatola chiusa, tra le prime a esibirsi. Non che l’eliminazione di Dennis sia un caso di Stato, chiaro. Ma fa un po’ specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Diciamolo, The Voice, che l’anno scorso ha avuto un po’ di successo non certo per la voce di Suor Cristina, ma per il famoso abito che fa la monaca, è il talent con meno talento tra quanti si vedono in giro. E quando un talento c’è, spesso, viene lasciato scappare, per pura opportunità televisiva. Non è un caso che Laura Pausini si sia guardata bene dal venire a fare il giudice in Italia, andando prima in Messico e poi, ora, in Spagna. Ora le squadre sono chiuse, c’è una trans, qualche caso umano, Chiara Iezzi e poco altro di interessante. C’è j-Ax coi suoi stucchevoli Axforismi, Noemi con la sua boria, i due Facchinetti che mettono in scena un quadretto familiare tutto da dimostrare e Piero Pelù, l’unico che sembra affrontare la cosa con un minimo di cuore. Poi c’è la gara, ma fortunatamente non lascerà traccia dietro di sè.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.

I moralizzatori della rete prendono di mira Povia. Ovviamente sono quasi tutti utenti fake, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Giuseppe Povia come Red Ronnie. Amaro destino per artisti o personaggi pubblici che non fanno del “politicamente corretto” la loro ragione di vita. Guai a dire qualsiasi cosa che non strizzi l’occhio al pensiero unico e dominante della kultura, ossia al pensiero, se così si può chiamare, della sinistra. Anche un innocente post come “L’Italia va gestito da italiani”, in riferimento alla nomina del ministro italo-congolese Kyenge la “nera”, può scatenare una reazione turbolenta da parte degli evangelizzatori giustizieri della rete. Era già successo a Red Ronnie quando aveva osato andar contro il guru Giuliano Pisapia in piena campagna elettorale per le amministrative di Milano, ora la medesima sorte è riservata a Povia, reo di avere espresso un semplice parere su facebook. La fan page di Povia non è invasa come quella di Red Ronnie ai tempi, ma il cantante riceve quotidianamente messaggi di insulti o disprezzo, a volta dal contenuto palesemente diffamatorio, altre con minacce od inviti a “suicidarsi”. Povia, pazientemente e pacatamente, risponde a tutti. Anche agli utenti con nome e foto palesemente fittizi. Inutile dire che i leoni da tastiera si sottraggono regolarmente alla discussione, preferendo la “toccata e fuga” di insulti.

Da qui l'intervento tramite facebook di Antonio Giangrande in favore di Povia. «Sig. Povia, lei conosce Antonio Giangrande? Basta mettere il suo nome su Google e vedere le pagine web che parlano di me e poi, cliccare su libri. Li si vedranno i titoli di tutti i saggi che ho scritto, ciascuno di 800 pagine circa. Dimostro in fatti, quello che lei, traduce nei suoi testi. Libri che ho scritto dopo 20 anni di ricerche. Sono censurato, come lei, perché scomodo. Le devo dire, però, caro compagno di viaggio, orgogliosi di essere diversi, che a quelli come noi liberi e non omologati alla cultura sinistroide, non rimane che raccontare con i propri libri e con le proprie canzoni la realtà contemporanea ai posteri ed agli stranieri, perché in Italiopolitania, Italiopoli degli italioti, siamo un seme che mai attecchirà.»

«Antonio, grazie, pubblicalo sulla mia bacheca quello che hai scritto, che mi fai sentire meno solo e guardati questi video sennò non capisci bene. Ci vediamo in live Giuse.»

"Chi comanda il mondo": il web si schiera pro e contro sulla canzone di Povia, scrive di Don Ferruccio Bortolotto su “Riviera 24”. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Domanda, denuncia vie di soluzione ed un’aggressiva quanto risanatrice profezia sono nel ritmo della canzone di Povia «Chi comanda il mondo». Ho guardato e riguardato il video, che mi è stato inviato da un amico, con la matita in mano per fermare sulla carta i frammenti della visione del cantautore, che come pugni rompono i muri di pietra degli occhi e della testa. «La musica può arrivare dove le parole non possono» - canta Povia – ed è vero: le sue percussioni e la sua voce scavano un solco che non può lasciare indifferenti. In questo caso la musica riesce a diventare un imperativo ascoltato dalla nostra volontà intorpidita e saccheggiata di dolore e di potere. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Cerco un silenzio che non sia quello che precede ed accompagna il sonno, ma quello di chi con attenzione veglia custodendo il fuoco di un desiderio profondo che tutti abbiamo nel cuore: la voglia di sapere.  Non difendere questo desiderio è acconsentire alla tirannia.

Povia e Assotutela: botte da orbi sul web. L'artista accusato di "istigare l'odio razziale" nel suo ultimo brano "Chi comanda il mondo?", scrive Chiara Rai su “Il Tempo”. Il cantautore Giuseppe Povia e il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato danno spettacolo su Facebook. Ad accendere la miccia non è stato l'artista: l'ultima canzone di Povia ha mandato su tutte le furie Maritato il quale non digerisce le parole contenute nell'ultimo brano dell'artista a tal punto da minacciarlo di denuncia per istigazione alla violenza e all'odio razziale. Queste accuse pesanti come macigni sorgono, secondo Maritato, da alcuni passaggi che conterrebbero messaggi subliminali che alimenterebbero l'antisemitismo. Così, sicuro della sua veste di paladino della causa, il presidente di Assotutela non risparmia commenti al vitriolo: "Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia - esordisce Maritato - in questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall'Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina. Il nuovo brano ‘Chi comanda il mondo?’ contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo". E poi minaccia: "Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali - conclude -  stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all'odio razziale, mi meraviglio della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento". In pratica la tesi di Assotutela è questa: dato che Povia sarebbe in decadenza, l'unica forma di promozione è lanciare un pezzo shock per alimentare le polemiche e dunque vendere più dischi. Ma la risposta del cantautore non si è fatta attendere. Povia non ci sta e le canta al presidente Maritato: "Addirittura una denuncia? Invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte". E poi l'artista spiega meglio: "La canzone 'Chi comanda il mondo?' è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto". Povia, rivolgendosi poi direttamente ad AssoTutela commenta: "Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure". Il cantautore infine conclude con un invito invito al dialogo: "Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: 'siamo divisi dai simboli, noi singoli' ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci". Ma la questione non sembra chiusa qui, a quanto pare le spiegazioni sembrano non essere sufficienti. Soltanto la conclusione del continuo tam tam di messaggi sul social network potranno dirci chi dei due avrà la meglio sull'altro.

Testo - Chi comanda il mondo? – Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e www.nuovecanzoni.com disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli 

Povia e il coraggio di dire di no: meglio una moneta sovrana che puttana, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. Chi comanda il mondo? Chi comanda il mondo? È la domanda ossessiva che dà il titolo all’ultimo album di Giuseppe Povia, che, piglio naif e linguaggio scomodo, apre uno squarcio di luce potente sull’attualità mettendo in musica il suo gigantesco no al dominio planetario della grande finanza, di «illusionisti e finti economisti». C’è una dittatura – canta Povia – un dittatura senza volto, fatta di balle e finte illusioni che vorrebbe un popolo inebetito. «Silenzio / fate la nanna bambini / verranno tempi migliori / Chi comanda il mondo? / C’è una dittatura, c’è una dittatura / Non puoi immaginare quanto fa paura / Chi comanda il mondo? / Oltre che il potere /  vuole il tuo dolore / e dovrai soffrire / e sarai costretto ad obbedire…», è l’incipit del brano che farà discutere e solleverà lo sdegno delle anime belle del progressismo planetario, quelle sempre pronte a gridare allo scandalo e al complotto. «C’è una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti…Ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia fino a portarci all’apatia». La dichiarazione di guerra all’eurocrazia non potrebbe essere più esplicita: «Gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati da Maastricht a Lisbona, siamo tutti indignati perché questi trattati annullano ogni costituzione». Povia conferma la sua verve provocatoria e anti-ideologica quando canta che «la libertà è la lotta contro l’ingiustizia non sono né di destra né di sinistra, la musica può arrivare nell’essenziale dove non arrivano le parole da sole». Un passo avanti a molti politologi e opinionisti. E per finire un appello contro i grand commis di oggi e di ieri: «Qui bisogna dare un bel colpo di scopa e spazzare via ogni Stato da quest’Europa. Se ogni Stato uscisse dall’euro davvero magari ogni debito andrebbe a zero. Vogliamo una terra sana sana, meglio una moneta sovrana che una moneta puttana».

Messo in croce dal web. L’autore de I bambini fanno oh e di Luca era gay non è nuovo ad attacchi e isterie online. Qualche giorno fa Michel Emi Maritato, presidente di Assotutela, ha ingaggiato un derby a distanza dalla sua bacheca Facebook accusando Povia di contenuti antisemiti e arrivando a minacciare denunce «per istigazione alla violenza e all’odio razziale». «In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina».  A dir poco squallida la tesi di Assotutela secondo la quale l’artista   avrebbe lanciato il pezzo shock per  vendere più dischi e risalire dalla “decadenza”. «Addirittura una denuncia – risponde elegantemente Povia – invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte. La canzone Chi comanda il mondo? è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto». Dov’è lo scandalo? «Se vi riferite alla frase “messo sulla croce in Israele”, vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo, che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell’attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi». Geniale.

Povia e la denuncia per Chi Comanda il Mondo?: il Dott. Maritato fa chiarezza su “New Notizie”. Da due giorni circola inarrestabile sul web la notizia secondo la quale Povia rischierebbe di essere denunciato per il suo ultimo brano Chi comanda il mondo?: a detta di diverse fonti sul web, la denuncia potrebbe partire dall’Associazione per la tutela del cittadino AssoTutela, presieduta da Michel Emi Maritato. Ma facciamo una breve cronistoria di quanto accaduto. Il 5 Marzo Povia pubblica sul proprio canale YouTube il brano Chi comanda il mondo?, brano di denuncia che tende a sottolineare le dinamiche di potere – a volte occulte – che governerebbero il mondo e costringerebbero l’umanità ad una sorta di schiavitù. Passa circa una settimana (e giungono alcune decine di migliaia di views per il video, che vi proponiamo in coda) e si diffonde la notizia secondo la quale AssoTutela sarebbe pronta a sporgere denuncia contro il cantante per le tematiche proposte (vedremo che, in realtà, non è esattamente così). Pronta, quindi, giunge la replica di Povia attraverso Facebook. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di sentire telefonicamente il Dottor Michel Emi Maritato che, disponibilissimo, ci ha spiegato la propria personale posizione: “Per Povia ho una grande stima e mi ritengo un suo fan. Condivido le tematiche espresse nel brano; dal canto mio sono un signoraggista, lavoro quotidianamente per combattere contro l’usura bancaria e gli abusi di Equitalia. Ciò che non condivido è un certo tipo di simbologia esoterica, presente all’interno del video. Una simbologia che sottende una lotta al potere ebraico e che rappresenta una scelta quantomeno poco felice in un momento come quello attuale, con l’incombenza della minaccia dell’Isis”. “Il messaggio poteva passare anche senza determinate immagini, in maniera più delicata”. Circa la denuncia, quindi, il Dottor Maritato ha detto: “La denuncia è al vaglio dei legali. Saremmo comunque felici se Povia accettasse un confronto e spiegasse le sue posizioni, magari attraverso i nostri mezzi di comunicazione”. Per poi concludere: “Povia è una grande arista. Un artista anticonformista che con le sue scelte rischia di essere tagliato dai circuiti mainstream. Chi ha confezionato il videoclip, d’altro canto, ha inserito dei simboli che possono incitare all’odio razziale. Ciò magari è stato fatto senza che Povia ne fosse consapevole, ma rimane il fatto che una determinata simbologia si sarebbe potuta evitare”.

AssoTutela contro Povia per il brano ''Chi comanda il mondo'', scrive “Il Mamilio”. Al centro della vicenda il brano ''Chi comanda il mondo''. “Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia”. Lo dichiara in una nota il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato. “In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi ci manca la genialata di Giuseppe Povia benzina sul fuoco. Il nuovo brano Chi comanda il mondo contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo. Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali, stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all’odio razziale, mi meraviglio – conclude Maritato nel comunicato – della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento''. La reazione di Povia, direttamente dal suo profilo Facebook, non  si è fatta attendere: ''La canzone "Chi comanda il mondo" - scrive - è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto. Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme''. ''Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella - continua il cantante -  avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure. Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo,  stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone:  "Siamo divisi dai simboli, noi singoli"  ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci''.

Per la canzone mi dicono: “VENDUTO!! GUADAGNI SOLDI!!” (Leggete dai..non è possibile), scrive Povia sul suo Blog Lunedì, 09 Marzo 2015. Il video della canzone “Chi comanda il mondo” è stato visto in meno di 4 giorni da oltre 40 mila persone senza pubblicità. SONO SOLO LO VOLETE CAPIRE? SOLO! SENZA PUBBLICITA’. Solo con il vostro PASSAPAROLA e vi dico G R A Z I E! Anzi devo ringraziare anche rispettivamente i creatori di Facebook e Youtube che mi permettono di diffondere un minimo la mia musica e ciò che penso. La canzone l’ho prodotta di tasca mia e il video mi è stato concesso da Marco Carlucci, uno dei più grandi registi social-underground che ci sono nel panorama italiano. Neanche lui è un venduto, sennò non avremmo trovato intesa su certi argomenti che toccano la finanza. Lui è lo stesso che mi fece i video di “Luca era gay” e  “La Verità” realizzati soprattutto per ammirazione artistica e intellettuale nei miei confronti. Abbiamo pensato che poteva nascere un video da quest’altra canzone, punto.  Come andava andava. Senza aspettative. (Parlo di “chi comanda il mondo”). VENDUTO? IO? Dai..vi prego.. Non voglio dire parolacce o insulti perchè non servono in questo caso ma vorrei chiarire che non solo non sono un venduto e non lo sono mai stato davvero, ma non guadagno soldi su questo brano per il seguente ed elementare motivo: Non l’ho caricato sui portali a pagamento, E’ GRATIS, lo potete ascoltare e vedere quando e come volete. Lo ripeto QUANDO E COME VOLETE. Scommetto che ce lo avete già sull’I-pod in mp3 vero? E’ GRATIS. E sarei VENDUTO? E DOVE LI GUADAGNEREI I SOLDI SENTIAMO? Bene, la notizia vera però è questa: SONO IN VENDITA!!!  SONO IN VENDITA, CERTO CHE SI! Ma non ho bisogno di qualcuno che mi produca solo un disco, ho bisogno che sposi il mio pensiero, la mia spiritualità, il mio carattere la mia arte e il mio combattere questo ANTISISTEMA che sta degenerando tutte le nuove generazioni vendendo una “Libertà” fatta di troppa devastazione, troppo eccesso di droga, sesso e amore venduto come quello che si vede sui siti porno gratuiti. IO SONO IN VENDITA! MA NON SONO VENDUTO, MAI! AVREI PARTECIPATO ALL’ISOLA DEI FAMOSI, UN PROGRAMMA PER IDIOTI. Non ce l’ho con chi ci partecipa ma con chi lo guarda. Non è l’abbondanza il problema, ma chi se la beve. e si, ho detto che combatto contro L’ANTISISTEMA, avete capito bene! Il problema è proprio L’ANTISISTEMA! Quello che ci fa sentire in colpa se esprimiamo il nostro normalissimo pensiero. Insultate i vostri idoli! Insultate coloro che vi dicono ciò che volete sentirvi dire. Quelli che girano intorno al problema ma non lo centrano come si deve, perchè si cagano addosso. Quelli che rinnegano i loro testi, le loro canzoni, le loro dichiarazioni. Quelli che parlano di un'umiltà che non ha nessuno in questo mondo e che fanno i finti umili. Insultate quelli che vogliono farvi credere che non si vendono ma che invece in quest’ambiente di cani e cagnette in calore tutti messi a pecora, ci sguazzano e ci si ritrovano proprio bene. Quelli sono i veri VENDUTI e voi i loro COMPLICI PERFETTI. Io sono solo, artisticamente solo e non piango: MI CI GIOVO, ME NE VANTO, GODO! SONO LIBERO.

Povia ad Affari: "Il concerto del Primo Maggio? Non ci vado solo perché fa figo". Intervista di Giovanni Bogani Martedì, 11 aprile 2006. Il piccione di Povia? Abitava su un tetto, nel centro di Firenze. Quello che ha ispirato la canzone che ha vinto a Sanremo, quello che si accontentava delle briciole, quello che volava basso, perché il segreto è volare basso. Stava su un tetto fiorentino. “E neanche lo sopportavo”, dice lui, fiorentino per amore, da cinque anni: per amore della sua donna Teresa, che gli ha dato da poco una figlia. “Ogni mattina, a mezzogiorno, io appena sveglio, e questo piccione a tubare, ad amoreggiare e a rumoreggiare, con tutti i suoi rumorini da piccione. E io, piano piano, mi sono chiesto se non avesse ragione lui, con il suo amore così semplice, in qualche modo così assoluto. E ho cominciato a scrivere una canzone su di lui”. Povia, nelle strade medievali di Firenze, tra i vicoli intorno a Ponte Vecchio, ha vissuto anni di bohème. E in questi anni, ha maturato il suo talento. Ha coltivato i suoi sogni, tra un turno e l’altro del suo lavoro di cameriere. Lo incontriamo in un bar. E ci facciamo raccontare i suoi anni anonimi. Quando ancora il successo era un miraggio lontano, da afferrare, semmai, o forse da non raggiungere mai.

Povia, quali erano i luoghi della tua Firenze?

“Piazza Santo Spirito, dove mi ritrovavo con il mio amico Simone Cristicchi, che aveva anche lui una fidanzata a Firenze; il Porto di Mare e l’Eskimo, due locali dove si fa musica dal vivo, ai quali sono molto legato. E piazza della Passera: lì, al caffè degli Artigiani, un piccolo caffè frequentato da turisti americani, nel mezzo del cuore della Firenze antica, ho lavorato per due anni”.

Hai lavorato a lungo come cameriere?

“In tutto, diciotto anni. Di qua e di là, a Milano, a Porto azzurro all’isola d’Elba, e poi a Firenze”.

Che cosa si impara?

“La pazienza, prima di tutto. E poi si impara a riconoscere le brave persone. E anche gli altri, quelli che brave persone non sono”.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di smettere, di mollare tutto?

“Praticamente, in continuazione. Pensavo sempre: basta, adesso smetto. In questo mondo, nessuno ti apre le porte. Stavo male, mi sentivo a mio agio solo con la mia fidanzata…”.

Quando l’hai conosciuta, Teresa?

“L’ho conosciuta in modo classico, in una discoteca all’isola d’Elba. Dodici anni fa. Teresa è di Firenze; ci siamo visti per sette anni attraversando l’Italia da una parte all’altra. Poi, cinque anni fa, sono venuto ad abitare qui”.

E ora chi sei?

“Uno che non si considera un artista, ma uno che vorrebbe scrivere canzoni per tutti. Per comunicare alla gente. Uno che vorrebbe essere semplice, e chiaro, e dare emozioni. Insomma, vorrei essere ‘pop’. E non sono né di destra né di sinistra. Ho cantato per il papa, ma non per vestirmi di una bandiera. Perché ci credo io, e basta”.

Insomma, tu non ti schieri. Ma la religione è importante per te. Da quando?

“Da quando ero depresso, praticamente disperato. Non riuscivo a sfondare con la musica, passavo da un lavoro di cameriere all’altro, non avevo neanche una città di cui potessi dire: è casa mia….E poi, nella sala di aspetto di una stazione, do un euro a un frate cappuccino che chiedeva, con molta discrezione, dei soldi. Lui mi dice: siediti. Come, siediti? Mi sono seduto, perché ho visto che aveva un volto intenso, serio, che aveva qualcosa da dire. Abbiamo parlato. E questo frate cappuccino mi ha cambiato la vita”.

Come è la tua vita adesso?

“Semplicissima. Sto con la mia donna, Teresa, con mia figlia Emma, che ha 15 mesi e comincia a ‘gattonare’. E vado a fare la spesa al supermercato, come tutti”.

E’ più bello scrivere le canzoni o cantarle?

“Per me, scriverle. Mi ci vogliono cinque minuti per avere un’idea, e mesi per finire una canzone. E nel mezzo, c’è il lavoro più bello del mondo. Dare vita a una melodia, a un’armonia, a delle parole. Creare qualcosa che prima non esisteva. A volte mi stupisco ancora, di questo miracolo che accade ogni volta”.

Una curiosità. Ma dove abitava il piccione della canzone con cui hai vinto Sanremo?

“Di fronte alla mansarda dove vivevo io, a Firenze. Mi svegliavo, e vedevo tutti i giorni questo piccione che tubava. Non lo sopportavo: io non amo i piccioni, per niente! Ma poi ho capito che aveva la sua ragione di vita, che aveva il suo diritto alla felicità, all’amore. E che, a suo modo, sui tetti di fronte a casa mia, lui  viveva l’amore in un modo assoluto”.

Quale canzone stai scrivendo?

“Una canzone sull’amicizia. Che sarà più bella di tutte quelle che ho scritto fino ad ora. Ma una canzone non si fa in cinque minuti. Ci vogliono mesi. In cinque minuti ti viene un’idea, un titolo, un ritornello. Il resto è lavoro, è fatica”.

Concerti? Farai quello del Primo Maggio?

“No. Ma non perché ho suonato per il Papa, e non faccio il Primo Maggio. Non lo faccio perché molti suonano in quel concerto per atteggiamento, e non per convinzione. Ci vanno perché fa figo”.

«Preferisco rinunciare sia a consensi, sia a compensi - spiega Povia in un video pubblicato sul suo profilo Facebook il 10 marzo 2015 - Perché tanto so che se dico di sì a uno, poi gli altri se la prendono e storcono il naso. Tanto sempre è andata così. Nel 2005 stavo partecipando con i”I Bambini fanno oh” al concerto del Primo maggio a Roma, ma poi mi dissero: se vieni da noi, poi non devi mai andare con gli altri. Allora risposi: no, grazie. E da lì il mio percorso è quello che conoscete, senza mai nessun appoggio politico o discografico e sempre pieno, pieno di critiche e di insulti che non tarderanno ad arrivare».

POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni,  abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.

Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?

«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».

In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?

«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti»

Conosci Pierdavide Carone?

«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».

Il tuo rapporto con i talent, dunque?

«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè  su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».

Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.

«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata.  Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».

Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.

«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».

Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?

«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”.  Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».

Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.

«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi  a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».

Su le mani, perché?

«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».

Già deciso per chi votare?

«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».

Luca era gay è del 2009.  A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?

«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può.  Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».

Cosa ne pensi delle adozioni gay?

«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».

A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.

«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così  lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»

Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?

«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».

Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?

«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».

Vasco Rossi o Ligabue?

«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».

Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?

«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi  fargli da corista, allora sì».

Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?

«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».

Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?

«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose.  Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».

Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?

«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».

Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?

«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».

Quando uscirà il tuo disco?

«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».

Guarderai Sanremo?

«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che  sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».

Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…

«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.

Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.

Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.

Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.

Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.

Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.

Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.

Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).

Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".

La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:

1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;

2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;

3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.

Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.

Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.

Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

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Fonte:
Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.

Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.

Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini  vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009  aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma  non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.

Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.

Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.

L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).

E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.

Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.

I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane.  Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della  razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.

Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)

In Europa:

Italia 33.200.000

Francia 350.000

Svizzera 200.000

Austria 650.000

Corsica 300.000

Altre parti d'Europa 300.000 

Totale 35.000.000 

Altrove:

Brasile 1.000.000

Rep. Argentina 620.000

Altre parti del Sudamerica 140.000

Stati Uniti 1.200.000

Africa 60.000 

Totale 3.020.000

Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000 

A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910  negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente  l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani).  Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza  è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita,  come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare  l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani  ha raggiunto proporzioni  ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I  Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.

Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:

Settentrionali

New York 94.458

Pennsylvania 59.627

California 50.156

Illinois 33.525

Massachusetts 22.062

Connecticut 13.391

Michigan 13.355

New Jersey 12.013

Colorado 9.254 

Meridionali

New York 898.655

Pennsylvania 369.573

Massachusetts 132.820

New Jersey 106.667

Illinois 77.724

Connecticut 64.530

Ohio 53.012

Louisiana 31.394

Rhode Island 30.182

West Virginia 23.865

Michigan 15.570

California 15.018 

Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.

L’ARTISTA DE SINISTRA

Il razzismo, se sa, è brutta robba.

È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.

Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta

è l’intellettuale quanno rutta.

Quanno se erge cor dito moralista

e come er Padreterno,

dei buoni e dei cattivi fa la lista.

Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,

è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente

de chi se crede sempre er più sapiente.

Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’

e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno

de chi è convinto che deve lascià un segno.

L’artista de sinistra in tracotanza,

dall’alto del suo ego trasformato,

diventa un drogato de arroganza.

Lui se convince de esse come un Faro,

invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.

Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...

Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.

Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».

Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia.  L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri?  Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.

I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero ), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso , testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.

La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.

Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.

Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.

Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande (nella foto), presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.

Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.

Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.

Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?

Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.

La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.

Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.

Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!

Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.

I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.

Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.

Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo  22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata».  Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».

Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato  adottava un atto o  un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava  facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Detto questo sembra evidente che si abbisogna di una legge di tutela per i cittadini contro i magistrati che delinquono indisturbati.

ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!

Le cose vanno di male in peggio, ma per gli italiani non vale l’evoluzione della specie. Si scannano per la politica ed il calcio. Il loro pensiero è per il diveretimento. Nulla fanno per garantire un futuro migliore per i loro figli.

A QUANDO LA RIVOLUZIONE IN ITALIA? Si chiede Sergio Di Cori Modigliani su “Informare per resistere”. Quand’è che si verifica una rivoluzione? E come si fa, a innescarla, una rivoluzione? La parola “rivoluzione” non viene dalla politica, bensì dall’astronomia. E’ stata giustamente presa in prestito perchè identifica con esattezza uno specifico processo politico. Indica il movimento dei corpi celesti che ruotano su se stessi e fanno un giro intorno alla stella cui fanno riferimento. Quando ritornano nella posizione originaria, sono diversi, anche se magari non sembra, proprio perchè si è verificata la rivoluzione. La si usava anche per indicare i giri che i dischi al vinile compivano sul piatto d’acciaio: 78 rivoluzioni al minuto, oppure 33, più tardi anche 45. La caratteristica della rivoluzione, che la rende un concetto così affascinante, consiste nel fatto che vince sempre. Tanto è vero che si sa con matematica e millimetrica certezza che “si è verificata una rivoluzione” soltanto dopo, mai prima. Nessuno, a meno che non sia un pazzo o un mitomane, può pensare di sè (o dirlo o scriverlo) di essere un rivoluzionario durante il percorso, o prima. Se vince, allora è diventato un rivoluzionario. Se non vince, è rimasto un rivoltoso. Le rivolte sono tutte rivoluzioni mancate. Non è mai esistito, nella Storia dell’umanità, il ricordo di una rivoluzione che non abbia vinto, altrimenti non sarebbe tale. Il rivoluzionario, quindi, è un vincente. Sempre. Ma lo sa dopo, a giochi fatti. Finchè dura la partita corre sempre il rischio di essere un semplice rivoltoso, il che è tragico. Per comprendere e definire questo concetto, basterebbe pensare alla frase di George Bush sr., allora direttore della CIA, nel 1978, quando, dopo una riunione con i vertici della sua agenzia con i quali stava affrontando la crisi iraniana da loro sottovalutata, disse imprecando: “Cazzo! Questa non è una rivolta, ma è una rivoluzione. Imbecilli che non siete altro!”. Lo aveva capito. E aveva ragione. Gli iraniani non lo sapevano ancora, negli ultimi 30 anni avevano vissuto ben sei rivolte, nessuna delle quali era riuscita a diventare una rivoluzione. Se ne sono accorti cinque minuti dopo, come avviene sempre nelle rivoluzioni. La rivoluzione politica, quindi, si realizza quando si verifica un cambiamento epocale che modifica l’asse strutturale di una società, riportando l’equilibrio solo e soltanto dopo che si sono verificate delle trasformazioni impensabili fino a poco prima. Tutto ciò per introdurre il tema del post: tutte queste chiacchiere sulle cosiddette o - ancora peggio - presupposte riforme, le trovo (oltre che noiose da morire) ridicole e fuorvianti. La situazione dell’Italia è talmente disastrosa che nessuna riforma, ormai, in nessun campo, sarebbe in grado di poter risolvere alcun problema strutturale. Per cambiare il paese in meglio, è necessaria una rivoluzione. Ne esistono di due tipi: una violenta e sanguinosa, che abbatte il sistema politico vigente e lo sostituisce con uno diverso, come sono state quelle castrista, cinese, sovietica, francese, inglese, americana. Non mi piace, non la auspico, non la voglio. L’altra, invece, è di tipo pacifico e armonioso, quella mi piace e la voglio. Ma non voglio una rivolta, bensì la rivoluzione. Quella che si manifesta senza colpo ferire, senza neppure una vittima, un incendio, un incidente, che opera nella realtà e la cambia, perchè va a incidere nella struttura reale della società. Galileo Galilei è stato, ad esempio, un grande rivoluzionario; anche il Dottor Fleming (colui che ha scoperto la penicillina) lo è stato; anche Dante Alighieri, Dostoevskij, Le Corbusier, Enrico Fermi, Alessandro Volta, i fratelli Meliès, ecc. Il mondo è pieno, grazie a Dio, di rivoluzionari. La rivoluzione pacifica, in ambito politico, comporta -altrimenti rimaniamo nel campo della mitomania o della rivolta e quindi ci si condanna alla sconfitta e alla perdizione- una modificazione comportamentale di 360 gradi, per ritornare alla posizione di equilibrio ma su basi diverse. Per dirla in parole povere: rivoltati come calzini. La differenza tra il rivoltoso e il rivoluzionario consiste nel fatto che il rivoltoso è mosso dalla rabbia, dal livore, dalla disperazione e ha un’idea molto chiara in testa: la realtà che sta vivendo lo ripugna, lui è indignato, non ne può più, vuole abbattere tutto, senza avere la minima idea di dove andrà a parare; il rivoluzionario, invece, pensa al dopo, ovvero alla progettualità, alla strategia, al cambiamento operativo pragmatico che vuole attuare secondo modalità che il sistema appena abbattuto non consentiva. Detto questo, mi sembra che non vi sia ombra di dubbio sul fatto che l’Italia è (forse in tutto l’occidente) il paese più lontano in assoluto da qualunque forma di rivoluzione necessaria. Ne parlano, si usa il termine, ma il fine consiste nell’usurare la parola, svilirla, disossarla, e far credere alla gente che. Gli italiani, per motivi ancora non del tutto chiari fino in fondo, hanno deciso di bersela. Lo hanno fatto con Berlusconi, con Prodi, con Monti, con Letta, con Renzi. Lo avevano fatto anche con Berlinguer. Tutte queste persone elencate, sono state citate, vissute, e identificate come rivoluzionari. Il che è falso. Sono tutti dei falliti,  in quanto rivoluzionari, ma hanno avuto un enorme successo (ciascuno secondo le proprie modalità) come dei rivoltosi sui generis. I conti con le rivoluzioni si fanno dopo: non esistono rivoluzioni abortite, rivoluzioni a metà, rivoluzioni così così, mezze mezze. O la rivoluzione c’è o non c’è. A questo punto è immancabile l’intervento di qualcuno che dice: “eh! Si sa, il mondo va così, le rivoluzioni non esistono più ormai”. Non è vero. Esistono eccome, e seguitano a esistere. Il fatto che non le si conoscano non vuol dire che non ci siano. Le rivoluzioni si possono anche esportare, mai imporre. Si esporta il modello che serve come stimolo, il cui fine consiste nell’alimentare l’ispirazione che poi produce cambiamenti autoctoni. I Beatles, ad esempio, sono stati dei rivoluzionari, non vi è alcun dubbio. In America (per gli americani) lo è stata a suo tempo anche Madonna perchè il modello identificativo proposto ha comportato un radicale mutamento nella comportamentalità degli statunitensi, soprattutto il genere femminile. Gli americani, in questo momento, stanno vivendo una fase molto interessante del loro percorso e da oltreoceano arrivano di continuo segnali confortanti (per loro) che indicano un cambiamento di rotta epocale, per alcuni tratti rivoluzionario. Qui, non se ne parla neppure. Basterebbe porsi una domanda secca: “Come mai noi italiani dagli Usa abbiamo sempre importato soltanto il peggio? Come mai noi ci ingozziamo come tacchini di tutte le schifezze colonialiste che l’America produce e ci impone con la violenza e il ricatto ma non siamo capaci e in grado di importare anche il loro vento rivoluzionario quando esso si manifesta? Perchè ci becchiamo soltanto gli osceni F35 ma non gli scatti evolutivi e risolutivi?”. In California stanno avvenendo diversi episodi di grande rilevanza dal punto di vista sociale, iniziati alla fine dell’autunno del 2012. La California è da sempre un gigantesco laboratorio sperimentale. In Usa si dice: “Quando arriva una novità dalla California, esultano il diavolo e il buon Dio: sanno che uno dei due vincerà di sicuro”. Perchè il peggio e il meglio della civiltà occidentale, negli ultimi 50 anni, è venuto da lì. Noi, qui, importiamo soltanto la parte diabolica, quella mercatista, consumista, la peggiore. Raccontai l’episodio cardine quando si verificò, il 5 novembre del 2012, ma non ebbe alcuna risonanza. L’Italia è molto lontana da quella modalità d’approccio. Ecco il fatto: la California è uno stato molto ricco, contribuisce per il 22% al pil nazionale. Se fosse una nazione, sarebbe la quinta potenza al mondo. Il loro pil è pari a quello dell’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia messi insieme, intorno ai 3.500 miliardi di dollari l’anno. Nel 2012, in seguito alla crisi, il bilancio statale ha sofferto di una crisi di liquidità che ha spinto il governatore ad attuare tagli lineari nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica e negli incentivi per giovani laureati provenienti da famiglie disagiate. Si è scatenato un grande dibattito tra le forze politiche e intellettuali californiane che ha dato vita a un referendum votato il 4 novembre del 2012. Il testo diceva: “Siete favorevoli o contrari all’aumento fiscale di un’aliquota una tantum, nell’ordine del 12%, per tutti i residenti i cui introiti superino 1 milione di dollari all’anno, con la specifica che la somma ottenuta verrà investita al 100% per impedire la privatizzazione dell’istruzione, impedire la chiusura di 450 centri universitari consentendo di elargire 25.000 borse di studio a giovani laureandi meritevoli e d’eccellenza?”. I primi sondaggi (effettuati alla fine di settembre) davano il 70% a coloro che erano contrari alla tassazione. Nessuno va a votare chiedendo un aumento delle tasse, era dato per scontato. L’astensione era data intorno al 65%. Ma a ottobre avvengono episodi inauditi. Le più ricche e famose famiglie di Los Angeles, Santa Monica, Malibu, a proprie spese, cominciano a fare campagna elettorale a favore della tassazione, soprattutto attrici e attori di Hollywood, da George Clooney a Jane Fonda, da Sigourney Weaver a  Matt Damon, da Steven Spielberg a Nicholas Cage, i quali spiegavano in televisione che per loro era inaccettabile l’idea di vivere da super ricchi circondati da un insostenibile disagio esistenziale. Negli altri stati, soprattutto a New York e in Florida, li prendevano in giro con accanimento sostenendo che in California si era diffusa una nuova droga che dava allucinazioni. Il referendum ha visto l’abbattimento dell’astensionismo e la vittoria della mozione pro-tasse con il 59% dei voti. Una settimana dopo, il governatore annunciava di aver radunato 24 miliardi di dollari grazie all’esito referendario, sufficienti a salvaguardare l’intero sistema di gestione dell’istruzione pubblica sia umanistica che scientifica fino al 2017. Nessun media ha neppure parlato dell’argomento, considerata una stranezza californiana. Ma due mesi dopo, i più attenti, si sono resi conto che era stato piantato il germe di una rivoluzione pacifica. E come in ogni rivoluzione che si rispetti, lo si sa sempre dopo. Quell’evento ha determinato un cambiamento radicale di ottica e di prospettiva che ha incentivato gli investimenti restituendo ottimismo pragmatico perchè il dibattito è passato dalla discussione su “come abbattere il debito pubblico dello Stato” a quello, invece reale “come affrontare il problema della re-distribuzione della ricchezza”. Questa è la rivoluzione. Perchè questo è l’unico vero problema. Non 80 euro regalati a un mese dalle elezioni, che valgono quanto la carità vaticana nel 1500. Sarebbe possibile cominciare a parlare in Italia di eventi simili, copiabili? Non credo. Papa Francesco ha suggerito di “mettere in campo la creatività per affrontare i gravi problemi del disagio sociale”. La creatività è questa, inventata nel luogo che ha inventato il tablet, yahoo, amazon. Serve un nuovo parametro sociale, un nuovo approccio sociologico, una diversa comportamentalità esistenziale. Servirebbe un sindacato che annuncia con geniale creatività rivoluzionaria di aver scelto di restituire collettivamente allo Stato gli 80 euro con la dizione “non vogliamo la carità, vogliamo una strategia strutturale” e quindi aprire un dibattito tra tutte le forze politiche per andare a riempire il tragico e gigantesco vuoto prodotto dal genocidio culturale perpetrato negli ultimi 25 anni. Il sindacato, in Italia, non lo farebbe mai, non è certo un caso che siano proprietari di uno spropositato numero di immobili sui quali non pagano tasse. Basta questo, per rendersi conto della confusione che regna in questo paese. Ci vogliono idee operative, immediate, efficaci ed efficienti. Un grado e un grammo di meno portano indietro il paese. Buon Senso e Buona Volontà - valori della tradizione moderata italiana - paradossalmente sono diventati in questo paese il vero nutrimento della rivoluzione di cui abbiamo bisogno. O cambia il comportamento esistenziale dal punto di vista psicologico di tutti, a cominciare dalla classe dirigente, imprenditoriale, sindacale, oppure seguiteremo a passare da una illusione a un’altra, da una mossa truffaldina a un’altra mossa truffaldina. E se alle prossime elezioni europee vinceranno ancora Berlusconi, Renzi e i soliti noti, allora vorrà dire che gli italiani, in realtà, non esistono più. E’ nata una nuova etnia, ignorante e poco intelligente, cosa che gli italiani non erano. Come sosteneva Charles Darwin, “la specie che si evolve, quella più intelligente, non è la più forte o la più sana, ma quella che più di ogni altra è in grado di sapersi adattare ai cambiamenti”. Quindi, ci si adatta al cambiamento e si evolve. Tutti insieme. Oppure ci si adatta alle chiacchiere degli imbonitori di turno, Berlusconi o Renzi, l’uno vale l’altro. Si salveranno in pochi, pochissimi. A mio avviso, non si tratta di soldi, di qualche euro in più o in meno. Si tratta della sopravvivenza di una intera civiltà. Ma non potete aspettarvi che ve lo vengano a spiegare quelli che la stanno distruggendo, perchè dal dissolvimento della Bella Italia ne traggono un loro squallido vantaggio finanziario. Tutto qui. California dreaming! Festeggiare il 25 aprile come data della liberazione dall’invasione nemica e come la fine della guerra, a me sembra un ossimoro pornografico che mi indigna e mi scandalizza. Nella guerra ci siamo dentro fino al collo: è lo scontro tra chi vuole imporre una idea monarchica della vita, pretendendo dai propri sudditi deferenza e riverenza, e i cittadini ai quali dare la guazza di qualche briciola, purchè se ne stiano buoni e zitti: obiettivo finale della guerra è quello di non modificare in alcun modo l’assetto strutturale del sistema vigente. La guerra c’è, solo che non si vede. A questo serve la truppa asservita della cupola mediatica: a nascondere la realtà. Intanto, sul pianeta Terra, c’è già chi ha capito come fare e cosa fare per evolversi verso nuove forme di sopravvivenza collettiva, esistenzialmente sostenibili, spiritualmente forti, culturalmente corpose. Perchè non cominciamo anche noi a pretendere di andare verso il futuro? Se non cambiamo noi, dentro, come possiamo pretendere che cambi la nostra realtà? Buon week end a tutti. Altro che rivoluzione. Gli italiani pensano solo a divertirsi. O comunque così sono indotti a farlo.

"Panem et circenses" è la metafora con cui si descrive un metodo di governo, scrive Paolo Casalini su “Informa Arezzo”. La frase è usata per descrivere la creazione di approvazione pubblica ormai conosciuta col nome di "consenso", non attraverso esemplare o eccellente servizio pubblico e amministrazione dello stato, ma attraverso la diversione, la distrazione, o la semplice soddisfazione delle esigenze immediate, di una popolazione che ha esigenze "palliative" . E’ stata coniata da Giovenale, che la usa per denigrare in modo indiretto il governo di Roma, preoccupato solo di creare strumenti di controllo, semplicistici ma efficaci, nei confronti della gente comune. La frase implica anche l'erosione o l'ignoranza del dovere civico, tra le mancate preoccupazioni del popolo di Roma. Nell'uso moderno, la frase è presa per descrivere un popolo che valorizza aspetti superficiali della vita pubblica, non quanto le virtù civiche. Secondo Giovenale, in tutto lo spettro politico dell’epoca repubblicana, si connota una supposta banalità e frivolezza che caratterizza il periodo prima del suo declino e che la spingerà inevitabilmente nel successivo Impero Romano. Probabilmente Giovenale si riferisce ad un epoca passata per non incorrere nelle ire di quella presente, ma la critica resta valida in ogni tempo, poiché sempre le stesse sono le dinamiche di gestione delle masse. Con intenzione simile, si è usata l'espressione "Feste, farina e forca" per definire la vita nella Napoli del periodo borbonico, in cui all'uso di feste pubbliche e di distribuzioni di pane, si accompagnava la pratica di numerose impiccagioni pubbliche, come dimostrazione circense della capacità del potere politico di assicurare il mantenimento della legalità. E’ questa l’evoluzione moderna del concetto di "circenses", laddove anche l’amministrazione della giustizia diventa forma di intrattenimento, argomento di conversazione, e quindi strumento di distrazione di massa. Una forma di distrazione che si accompagna al bisogno di trovare sempre un capro espiatorio che si presti a farsi carico delle disgrazie comuni, e su cui il popolo possa facilmente scaricare, come su un parafulmine, le energie rivoluzionarie o di semplice rivolta…Spiega molto bene Giovenale: dare il cibo a buon mercato e offrire forme di intrattenimento, "panem et circenses",  è stato il modo più efficace per salire al potere (e per conservarlo) [...] iam pridem, ex quo suffragia Nulli / uendimus, effudit curas; nam Sie Dabat Olim / imperium, fascio littorio, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / Panem et circenses . [...] (Giovenale, Satire 10,77-81)Dopo duemila anni, il senso è sempre lo stesso: mentre il popolo è impegnato a fare il tifo per i gladiatori di turno, c’è chi scorrazza allegramente tra le sedie del potere. Accade così, anche ai giorni nostri, che in nome di una presunta ristrutturazione e mentre il popolo è troppo assorbito dai circenses estivi, stanno smantellando sotto i nostri occhi il nostro territorio, spostando uno alla volta i nostri uffici, le nostre società comunali, la nostra sanità, l’acqua che beviamo, i cibi che mangiamo, il coordinamento della gestione dei rifiuti, i trasporti pubblici, l’amministrazione dell’energia e creando altrove una cittadella del potere e del denaro (Montepasconia) che ci amministrerà per i decenni a venire: ci stanno infilzando una “supposta” alla volta, ben cosparsa di vasellina, ma ciò che è peggio, è che mentre vengono a raccontarci tutto questo (evviva la democrazia), i guardiani della comunicazione sono tutti o quasi, impegnati ad ascoltare osannanti le schitarrate o i racconti di una Italia lontana. In nome del risparmio stanno smantellando le strutture provinciali, per conferire la gestione del territorio alle Aree Vaste, sotto stretto controllo partitocratico. Ci stanno spogliando di ogni bene comune, smantellando il nostro territorio e lentamente, ma inesorabilmente, ci stiamo trasformando in sudditi... ma l’unica cosa che ci interessa sono i circenses:  da mesi riusciamo solo a parlare di Icastica, Giostra del  Saracino, sagre paesane e concertini vari, più o meno importanti. La forza di un territorio non sono solo i suoi politici, ma anche, anzi soprattutto i suoi cittadini. E la forza dei politici, dipende dal grado di coesione e dalla forza che ricevono dal consenso popolare.  Inutile lamentarsi dello scarso peso politico di chi ci governa, quando siamo proprio noi, disinteressandoci della cosa pubblica, a togliere peso e forza all’azione politica. Un popolo interessato solo a trovare il modo come passare il tempo, avrà una classe politica che farà il possibile per accontentarlo, giustificando il suo impegno in nome del turismo, di una fantomatica offerta culturale, della promozione del territorio, di una offerta economica che non arriva e non arriverà certo in nome di una festicciola. Mentre si smantellano le università, mentre si alleva un popolo di capre nell'illusione che la cultura sia ovunque, facile, a buon mercato e senza sacrificio alcuno, in nome di un turismo che non si interessa affatto al nostro agitarsi nella melma fangosa in cui stiamo affondando, stiamo lasciandoci addormentare cullati da un concertino, pogando felici delle nostre illusioni e del nostro nulla. Per il nostro bene naturalmente!

Italiani, un popolo di festaioli, scrive Mario Rossini a Beppe Severgnini. Gentile Beppe, vorrei approfittare della tua conoscenza del mondo per chiederti una conferma, o una smentita, sul fatto che noi italiani siamo piuttosto festaioli, altro che tristi e depressi. Facciamo questo conto. Il periodo delle festività natalizie è il più lungo dell'anno, ma non è il solo. Natale, Capodanno, ponte dell'Epifania consentono a molti di godersi dei giorni spensierati, per non parlare degli studenti che non studiano. Appena ripresi dalla botta di vita arriva San Valentino, festa minore promossa di ruolo, poi il buon vecchio Carnevale, che da qualche parte è ancora una bella e sentita tradizione. Seguono la Festa della Donna e la festa del Papà, da non sottovalutare. Poi Pasqua, da associare con un bel ponte e con le ultime settimane bianche, iniziate a metà gennaio, o con le prime uscite tipo capitali estere. Il 25 Aprile ed il 1° Maggio completano le feste primaverili, da bollino rosso del traffico. La festa della Mamma c'è ancora, in questo mese gli studenti stanno viaggiando in lungo ed in largo con le gite scolastiche, che tutto sono meno che culturali. Arrivano la festa della Repubblica, l'agognata fine delle lezioni ed il rompete le righe, tutti al mare o in montagna. L'estate italiana è calda ed allegra, colma di occasioni di divertimento. A fine agosto si rientra con il magone ma non per molto. Hanno inventato Halloween, ne avevamo proprio bisogno, associato al ponte di inizio novembre permette di ri-abituarsi gradatamente allo stress da divertimento. L'8 dicembre, ponte dell'Immacolata, dà il via alla stagione della neve, si respira l'aria natalizia che porta con sè cene aziendali, regali, caccia all'occasione di viaggio (secondo le ferie stabilite) per l'imminente periodo di festività. Il cerchio si chiude e ricomincia un altro giro di giostra. Se poi questi giorni cadono a metà settimana hai voglia, la festa aumenta. Con dei periodi così spezzettati ne risente il lavoro, non certo il divertimento. Forse ho dimenticato quà e là qualche tradizione locale, ma più o meno credo di aver messo tutto.

L'Italia è il Paese dei Festival, scrive “La Stampa”. Abbiamo più eventi di qualunque Stato d'Europa. Immaginate che bello un viaggio attraverso l’Italia in cui ogni città sia una festa, piena d’incontri culturali, spettacoli gratuiti, gente interessante per le strade e offerte convenienti. Nel Paese dei festival un percorso del genere è possibile, anche se un tantino lungo, caotico ed arzigogolato. Tanto che per farcela entro l’anno bisognerebbe saltare qualche tappa. Perché i festival sono ormai innumerevoli e si accavallano. Anche senza contare quelli di musica e di cinema, le fiere, i saloni, le rassegne e le lezioni di storia a Roma o Milano, il viaggio è complicatissimo. Si potrebbe cominciare dal Festival della Formazione, fino al 30 a Mirano. Fabio Chiusi, 30 anni, laureato alla London School of Economics, ne cura la parte social network: «Facciamo live blogging, siamo su Twitter e su YouTube e cerchiamo di far vivere l’evento anche in Rete». All’inizio di luglio farà lo stesso al Festival Caffeina di Viterbo, curato da Filippo Rossi di FareFuturo, ed è appena tornato dal Festival del Giornalismo di Perugia. «C’è un popolo che si muove tra i festival – racconta - per ovviare alla banalità della tv, da un lato, e dall’altro alla noia dell’accademia». Poi scappa via perché c’è da prendere l’aperitivo spritz di gruppo che a Mirano scandisce l’ora del prima di cena, mentre al mattino c’è il caffè e il pomeriggio il tè con gli ospiti della manifestazione. Se invece vi piace il gelato, a Firenze fino al 31 c’è il festival dedicato, in contemporanea col Maggio musicale. Quello dell’Economia di Trento è invece fissato dal 3 al 6 giugno. Direttore scientifico il professor Tito Boeri, coinvolto anche in Economia e Società Aperta, un evento della Bocconi per la città di Milano. Ancora a Firenze, dal 9 al 12 giugno, c’è il Festival del viaggio, da non confondere con quello della letteratura di viaggio dal 24 al 27 settembre a Roma. A luglio i festival si diradano, la gente va in vacanza. Ma l’eccezionalità italiana, il campanilismo reso evento, si conferma lo stesso per tutta l’estate alla Versiliana di Forte dei Marmi e certo a Cortinincontra. Sempre in Toscana c’è il Foto Festival dall’8 al 17 luglio a Massa. E a Fiuggi il Family Festival dal 24 al 31. Finalmente arriva settembre e, tornati dal mare, si può ricominciare a viaggiare. Il Festival della Mente a Sarzana è il primo appuntamento dal 3 al 5. Giulia Cogoli, l’organizzatrice, nel mucchio non ci sta: «I veri festival sono unici, hanno un’unità di tempo, di luogo e spesso di tema. La Milanesiana o gli incontri letterari nella Basilica di Massenzio a Roma io li considererei rassegne».  Però sempre lei inaugura proprio in questi giorni i Dialoghi sull’uomo a Pistoia. A settembre c’è pure il genitore di tutti questi eventi: il Festivaletteratura, proprio così. Tutt’attaccato, perché pure nei nomi, fateci caso, si cerca di renderli diversi l’uno dall’altro, nonostante siano tantissimi. Ad esempio, il Festival Filosofia di Modena manca del “della” ed è dal 18 al 20 settembre. Scherza Michelina Borsari, la direttrice in partenza per Saint Emilion in Francia, uno degli otto Paesi con cui organizza eventi del genere: «La Siae registra 1500 festival, ma i più solidi sono una cinquantina. Alcuni sono di teatro, danza, cinema; in ogni caso, forme contemporanee di sapere che riportano la parola nello spazio pubblico. Un’esigenza che non caratterizza soltanto l’Italia ma che qui è stata più acuta». Forse pure troppo, già che gli eventi eccezionali son diventati perenni. Ecco il Festival Internazionale di Poesia dal 9 al 21 giugno a Genova, Parma Poesia dal 15 al 19 dello stesso mese, Parco poesia a settembre a Riccione, il Poesia Festival a fine settembre in provincia di Modena e il Festival della Poesia civile a novembre a Vercelli. C’era pure Bergamo poesia, ma ora rimane solo Bergamo scienza ad ottobre. In compagnia del Festival della Scienza dal 29 ottobre al 7 novembre a Genova, del Festival delle Scienze a gennaio all’Auditorium di Roma, di Scienza in piazza dall’11 al 21 marzo a Bologna. A Perugia invece, dal 30 settembre al 3 ottobre, c’è il Science Festival. Infine a Milano, dal 22 al 28 marzo, c’è il Vedere la Scienza Festival. Non va meglio con la letteratura, che non contenta di Mantova aggiunge dal 18 al 20 giugno a Bassano del Grappa il Piccolofestival Letteratura, dal 20 maggio al 22 giugno il Festival Letterature a Roma, dal 29 giugno all’1 luglio il FestivAltura a Verbania sui temi della montagna, dal 18 al 21 novembre a Cuneo Scrittori in città e dal 15 al 19 settembre Pordenone legge. Ed esiste pure Pordenone pensa. Se non vi bastasse. 

Quanto vanno forte i festival Tra letteratura e scienza, riparte la stagione delle rassegne. Che non conoscono crisi, grazie ai finanziatori più assortiti, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Piazza Grande gremita per la lezione magistrale di Enzo Bianchi al Festival Filosofia 2014 Avanti, cultura! Con il debutto delle Scienze all’Auditorium di Roma è iniziato il lungo calendario dei festival, una corsa fra almeno 67 eventi - alcuni studi ne censiscono fino a 209 - dedicati a libri e astronauti, economisti e filosofi ma anche cuochi e tradizioni. Nonostante la crisi, gli appuntamenti culturali spopolano: per allungare la stagione turistica, a maggio come in autunno, non c’è ormai sindaco che non desideri affollare la propria città di fan di un grande scrittore o di uno scienziato illuminato. Gli happening intellettuali hanno successo di pubblico. E di sponsor, istituzionali e privati: attraggono investimenti che superano i 24 milioni di euro all’anno, 400mila in media per ogni rassegna secondo le stime di Guido Guerzoni della Bocconi di Milano. Ma i soldi arrivano anche dall’Unione Europea: solo come “fondi strutturali” per lo sviluppo del Mezzogiorno, le regioni del Sud hanno ricevuto in cinque anni da Bruxelles 72 milioni di euro per portare in piazza arti e saperi. Dalla fine degli anni ‘90 i festival culturali hanno conquistato la scena in tutta Italia, grazie alla loro capacità di avvicinare lettori ed esperti, di coinvolgere autori, ricercatori, studenti, fondazioni ed enti locali. Solo per la letteratura, seguendo l’esempio della manifestazione più antica, quella di Mantova (che ha compiuto 18 anni), ce ne sono oggi almeno 33. BookCity a Milano si è conclusa nel 2014 vantando come l’anno prima “130 mila visitatori” e centinaia di incontri. L’agenda s’infittisce ogni stagione. «L’impatto economico positivo per le città è stato confermato da innumerevoli studi», commenta Pierluigi Sacco, professore ordinario di Economia alla Iulm. Ma se la forza commerciale è certa, lo è meno quella sociale: la voglia di sapere testimoniata da questi appuntamenti non è ancora riuscita a innescare un cambiamento nazionale, almeno stando alle statistiche che ci vedono in coda all’Europa per consumi culturali. Perché? Prima del dibattito, la radiografia. Quanto costano i festival impegnati? I big, come Mantova o Genova per la Scienza, hanno un budget che va dagli 1,5 ai due milioni di euro. Pochi però possono contare su investimenti così consistenti: meno di uno su 10, stando all’ultimo rapporto di Guido Guerzoni, “Effettofestival”. Un quarto degli eventi si mantiene invece con un bilancio fra i 250 e i 500mila euro. Quasi la metà se la cava con meno. E chi li paga? Principalmente gli enti locali. Praticamente ogni festival ha almeno un comune, una provincia o una regione fra i sostenitori, a cui si affiancano spesso le camere di commercio. Il municipio di Milano, ad esempio, nel 2013 ha finanziato 29 kermesse, per un totale di un milione e 400 mila euro di contributi. Il grosso è andato a rassegne di cinema e teatro, ma ci sono anche eventi come la Milanesiana di Elisabetta Sgarbi (direttore editoriale di Bompiani) a cui sono stati assicurati 80mila euro. “Collisioni”, la manifestazione che unisce letteratura e musica a Barolo, ha ricevuto dal Piemonte 70mila euro. Il Pirellone del leghista Roberto Maroni ha dato il suo supporto alle tradizioni padane: con 5mila euro al Festival celtico dell’Insubria 4mila al Festival internazionale del Folclore. Invece i dialoghi di Trani, in Puglia, per l’edizione 2013 hanno potuto contare su 46mila euro dall’Unione Europea e altri 32mila da Stato e Regione. Briciole rispetto ai 104 mila euro arrivati da Bruxelles al “festival della Magia” di Crotone attraverso il dipartimento calabrese all’Istruzione. Ed è ancora niente rispetto ai 118 mila euro garantiti dai “Fondi strutturali europei” per l’ultimo Diamante Festival nel Cosentino, dove fra mostre, convegni e concerti si celebra sua maestà il Peperoncino: aggiungendo i contributi nazionali, lo show “piccante” ha ricevuto 348mila euro a stagione, e ne ha raccolti quasi altrettanti dai privati. A parte la sponda europea, solida soprattutto al Mezzogiorno, è difficile contare sul settore pubblico in tempi di spending review. Al festival della Letteratura di viaggio di Roma il Campidoglio ha dimezzato l’anno scorso le sovvenzioni: da 80 a 48mila euro. «Noi abbiamo subìto tagli del 35 per cento», racconta Vittorio Bo, creatore del primo e più importante Festival della Scienza, quello di Genova. La Provincia era fra i fondatori del progetto: ancora nel 2009 aveva garantito 100mila euro. «Un contributo importante, ora azzerato», spiega Bo: «Manteniamo per fortuna il sostegno degli altri, fra cui il ministero dell’Istruzione. E le riduzioni in generale sono state proporzionali a quelle decise dai privati». Quali privati? Le più presenti, anche se si trovano a metà tra pubblico e profit, sono le fondazioni bancarie. L’ente filantropico della Cassa di risparmio di Torino, ad esempio, ha finanziato nel 2013 ben 72 festival per 975mila euro. Gli aiuti sono andati a iniziative consolidate come Scrittorincittà, organizzata dall’assessorato alla Cultura di Cuneo, ma anche a un “Festival nazionale Luigi Pirandello” (stessi fondi: 20mila euro) allestito da un’agenzia di comunicazione torinese, del cui evento nella vicina Coazze resta in Rete giusto una pagina Facebook con 134 “mi piace”. E ancora: gli incontri sulla Scienza a Genova sono stati possibili anche grazie ai 360mila euro della fondazione di Compagnia di San Paolo. Mentre dal ramo solidale del Banco di Sardegna sono arrivati 40mila euro al noto festival di Gavoi e altrettanti a “Leggendo Metropolitano” di Cagliari. Accanto alle fondazioni, è aumentata in questi anni la presenza delle multiutility e delle società di servizi locali, che vogliono così radicare la loro influenza sul territorio. Hera, il colosso che controlla rifiuti, acqua ed energia in Emilia Romagna e in parte del Nord Est, ha speso nel 2013 quasi tre milioni di euro in sponsorizzazioni, un milione e 100 solo per la cultura. A Bologna, dove ha la sede principale, ha sostenuto di recente un festival poetico, uno di fumetti, diversi di cinema e alcuni musicali. L’emiliana Iren ha messo in bilancio 4 milioni e 700mila euro per sostenere iniziative benefiche, sportive e letterarie. Per il suo Nord-Ovest, A2A ha investito un milione e 750mila euro. La romana Acea poco meno di tre milioni. Ci sono poi grandi aziende come Eni, 21 milioni e 438 mila euro spesi destinati alla cultura nel 2013 – anche se con l’arrivo di Claudio Descalzi la generosità è in corso di revisione –, Finmeccanica, Coop (che ha partecipato al festival della Tv di Dogliani, a quello di Mantova e all’“Ilaria Alpi” di Riccione), Vodafone e Telecom. Infine, ci sono i partner locali. Dalle banche agli aeroporti, sino a pastifici, bar, trattorie, hotel, artigiani, autoricambi, caseifici, arredatori e vivai. Il Festival di Mantova riceve dai privati il 75 per cento del budget (dipendendo solo per l’11 dalle istituzioni mentre il resto viene dai biglietti), e ha 150 sponsor, che vanno da Hera a Persol passando per studi di commercialisti o “il raviolificio sotto casa”: «Alcune grosse aziende si sono allontanate perché mettiamo tutti gli sponsor sullo stesso piano», racconta Marzia Corraini: «Ogni incontro ha il suo pannello con i loghi dei promotori, a prescindere dalla dimensione della società. Certo: c’è chi è presente per più giorni. Ma per noi tutti i partner, grandi e piccoli, sono uguali: è in questo la nostra libertà. E la nostra forza sul territorio». I contributi possono essere sia economici che “strumentali”: dagli sconti per i partecipanti alla pubblicità per gli eventi. Il “Centro Latte Rapallo” ad esempio ha messo a disposizione «le etichette di oltre 100 mila bottiglie di “Latte Fresco Tigullio Alta Qualità”, distribuite in tutta la provincia di Genova» per pubblicizzare il festival di Comunicazione di Camogli. Comunicazione riuscita: ad ascoltare Umberto Eco e gli altri ospiti sembra siano arrivate 20 mila persone. Perché ai privati interessa tanto investire sulle riflessioni in pubblico del filosofo Remo Bodei o del romanziere Andrea de Carlo? Perché sono seguite da un sacco di gente. Anche se stabilire con certezza quanta, è impossibile. I festival più trasparenti comunicano solo le presenze: ovvero non i visitatori, ma il numero complessivo di partecipanti, che conta due volte chi segue due convegni. Ed eccoli: 66mila biglietti venduti a Mantova; 130mila spettatori per gli eventi gratuiti di BookCity, 90mila ascoltatori al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (220mila considerando anche gli incontri non filosofici), 45mila al raduno della Mente di Sarzana, 14mila a LetterAltura sul Lago Maggiore, 13mila a Bergamoscienza, e così via. C’è però anche chi si limita, nei comunicati, a indicare “migliaia di spettatori” (Popsophia, Tolentino), oppure segnala soltanto il numero di click online o ancora dichiara laconicamente “sale piene”. Quello che è certo è che il pubblico non ha conosciuto crisi. «Devo ammettere: avevamo un po’ di paura l’anno scorso, considerate le difficoltà economiche delle famiglie», racconta Marzia Corraini, fra i fondatori del FestivaLetteratura di Mantova: «Ma ancora una volta ci siamo stupiti: i visitatori sono aumentati». E non è solo dal numero di sedie riempiti che si può valutare il successo. Ci sono eventi piccoli come “Dedica” di Pordenone, che raggiunge solo le cinquemila presenze ma riesce ogni anno ad approfondire un autore nuovo, producendo contenuti di spessore. E poi c’è il contesto. Quello che una rassegna dà al suo territorio. Lo spiega bene lo scrittore e presidente dell’Associazione “L’Isola delle storie” Marcello Fois in una ricerca su “L’Italia creativa” di Annalisa Cicerchia: «L’ultima edizione del Festival di Gavoi», racconta, «è stata visitata da 30mila spettatori, in un paese di tremila abitanti. Arrivano grandi scrittori che non ricevono alcun tipo di cachet. La manifestazione costa 220 mila euro e in questi anni il Pil del Comune è cresciuto del 24 per cento. Ciò significa che si sono aperti alberghi dove non esistevano, si è riavviato un camping che da 25 anni era chiuso. Il turismo si è espanso per tutto l’anno, compreso l’inverno. In Barbagia». Che i conti tornino, per i commercianti locali, lo ha dimostrato anche il Festival per l’Economia di Trento (chi se non loro?), che nel 2008 ha affidato ai propri partecipanti una card con cui segnalare le spese in pernottamenti, ristoranti, negozi e musei: scontrini da 154mila euro al giorno. «Tocca chiederci oggi: cosa resta di tutto questo fermento?», si domanda l’economista Pierluigi Sacco: «I grandi eventi danno grandi ritorni - sul breve periodo - per grandi investimenti. Ma dobbiamo confrontarci sul loro scopo: riescono a cambiare la politica dei luoghi in cui avvengono? Ad avere un impatto sull’istruzione? Sui consumi? Sulle abitudini della popolazione?». Secondo Sacco, la risposta è: più o meno no. Nel senso che hanno dimostrato di servire poco nella loro forma-standard, che vuole un grande scrittore, o un noto intellettuale davanti a un pubblico passivo e felice. L’unico modo perché della cultura “resti attaccata”, sostiene il docente, è puntare sull’interazione. Sullo scambio. Come avviene, insiste, nei laboratori per studenti del Festival di Genova, che permettono ai bambini di “mettere le mani” nella scienza. Secondo lui, il dialogo da attivare fra gli adulti e gli autori dovrebbe essere diverso: un confronto,  più che una conferenza. «È vero, il nostro pubblico è composto per più della metà da scuole», risponde Vittorio Bo, «ma non dobbiamo snobbare gli incontri frontali, anzi: c’è un pubblico adulto che ha bisogno di sedersi e ascoltare persone intelligenti. Il dialogo forse non si sente. Ma perché è interiore e profondo».

Dura dodici mesi l’anno la stagione dei festival letterari in Italia, scrive "Italia.it". Con formule collaudate o innovative da presentare agli operatori, agli appassionati di buone letture e al grande pubblico, il panorama dei festival letterari mette in risalto “firme”emergenti e scrittori già affermati a livello nazionale e internazionale. Il panorama di queste manifestazioni che si susseguono tutto l'anno lungo la penisola è molto variegato sia nelle proposte che nella formula tematica, territoriale o commerciale. I festival letterari rappresentano spesso un vero e proprio connubio tra il fatto culturale e l’evento spettacolare. Il festival è infatti un momento unico in cui l'autore può creare un contatto diretto con il proprio pubblico. Diversi per storia e origini, nati per iniziativa di intellettuali, fondazioni o librai, i festival letterari rappresentano vere e proprie realtà di riferimento per la narrativa italiana. Saldi al momento nella loro leadership e forti della loro lunga storia, si possono elencare il Salone Internazionale del Libro di Torino,  la Fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi di Roma, il Festival della Letteratura di Mantova  e quello degli autori di Lucca, il Festival Internazionale di Poesia di Genova e quello organizzato da Internazionale a Ferrara. Accanto ai capisaldi della letteratura spiccano kermesse autoriali che si contraddistinguono per la particolarità della location. Accolte in piccoli borghi o un suggestive piazze, queste manifestazioni rappresentano vere e proprie chicche nel calendario di incontri letterari italiani. Cortina d'Ampezzo, per esempio, ospita nei tradizionali spazi delle Poste e nella nuova e suggestiva cornice della “Conchiglia” di piazza Venezia, una rassegna dedicata alla letteratura ma che dà spazio anche ai dibattiti, al teatro e alla musica. E ancora, scendendo lungo la penisola, nelle ridenti cittadine di mare di ToscanaRomagna e, già fino alle Marche e all’Abruzzo sono decine e decine le occasioni di incontro con gli autori di saggi, romanzi e cataloghi. A cominciare dalla frequentatissima vetrina di Capalbio libri, che si tiene ogni anno nel cuore del borgo medievale.  Dalla costa tirrenica a quella Adriatica. A San Benedetto del Tronto va in scena Scrittori sotto le Stelle, l’appuntamento estivo in riva al mare. A Palermo, nello splendido palazzo Steri, si rinnova l'appuntamento dedicato all'editoria indipendente, Una Marina di Libri. La capitale ospita uno dei festival più suggestivi: Letterature, festival Internazionale di Roma, apprezzata kermesse presso la Basilica di Massenzio al Foro Romano. Lungo tutta la penisola vi è poi un filone di manifestazioni che fondono tra loro vari "generi": scienza, filosofia, noir, fumetto. Genova si è affermata in questo senso come punto di riferimento per la divulgazione scientifica, mentre Modena, Carpi e Sassuolo sono diventate capitali della filosofia con il Festivalfiolosofia. Courmayeur da oltre vent'anni dà spazio al giallo con Noir in Festival, mentre Trento è la vetrina in cui presentare libri sull'economia e accendere dibattiti a tema. Ce n'è per tutti i gusti.

L'Italia dei festival cinematografici, scrive “Italia.it”. L’Italia, patria di grandi registi, ma anche luogo di innumerevoli set italiani e stranieri, ospita ogni anno diverse rassegne cinematografiche di carattere internazionale. Sicuramente la più importante è la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica che ha luogo nell’incantevole Venezia, all’interno dello  storico Palazzo del Cinema, sul Lungomare Marconi, al Lido di Venezia. Il festival, che si svolge tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, è il secondo festival cinematografico più antico del mondo dopo il Premio Oscar (la prima edizione si tenne, infatti, nel 1932). Si svolge sempre in un’altra bellissima città d’arte italiana, il Torino film festival. Nata nel 1982 nella città della mole antonelliana, che ospita anche il Museo del cinema, la rassegna è dedicata soprattutto alle realizzazioni indipendenti e, oltre al cinema d’autore e di genere,  prende in considerazione anche cinematografie straniere e produzioni video. Dal 2006 anche la Città Eterna ha la sua rassegna cinematografica; si tratta del Festival internazionale del film di Roma che si tiene in autunno a Roma presso l'auditorium Parco della Musica. Nella città considerata la capitale del cinema italiano e dell'industria cinematografica, location prediletta dai grandi registi e sede della cosiddetta “fabbrica dei sogni”, Cinecittà, non poteva mancare un festival dedicato alla Settima Arte. Sempre a Roma ha luogo anche il RIFF - Rome independent film festival. Nato nel 2000, ha lo scopo di promuovere il circuito cinematografico indipendente, con particolare attenzione alle opere prime italiane. Il festival si tiene presso il nuovo cinema Aquila, la Casa del Cinema a Villa Borghese e il Kino. Degni di interesse anche festival cinematografici minori che hanno un certo riscontro di pubblico e critica e che si svolgono, tra l'altro, in bellissime zone di villeggiatura. A cominciare dall'Ischia Film Festival nel Castello Aragonese di Ischia, a luglio. La manifestazione, in cui si premiano le opere, i registi, i direttori della fotografia e gli scenografi che valorizzano “location” italiane o straniere, organizza anche il Convegno Nazionale sul cineturismo. C'è poi il “Taormina film fest”, storico festival cinematografico internazionale che si tiene nel suggestivo Teatro antico di Taormina. La rassegna ha anche ospitato la premiazione dei “David di Donatello”, il premio cinematografico italiano per eccellenza, e i Nastri d'argento del sindacato giornalisti cinematografici. Infine, la Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, altro importante festival cinematografico che nasce nel 1964, si tiene nella splendida città costiera delle Marche. Una menzione a parte, poi, per il Giffoni film festival, una rassegna di cinema per i ragazzi che ha luogo a Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno dal 1971. Le giurie del Festival sono composte da giovani italiani e stranieri che vengono ospitati dalle famiglie di Giffoni e dintorni e che, oltre a visionare i film, discutono con registi, autori e interpreti. Grandissimi nomi partecipano ogni anno a questa rassegna della quale il regista François Truffaut, nel 1982, ha lasciato scritto: “Di tutti i festival del cinema, quello di Giffoni è il più necessario”.

L’Italia dei Festival del cinema scrive Ambra Vannicelli su “50epiù”. Da quello di Venezia, il più antico del mondo, agli oltre 150 Festival sparsi in tutto il Paese. Prossimo appuntamento è con il Festival Internazionale del Film di Roma. La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, in corso fino al 6 settembre, è il festival più vecchio del mondo. Ha 71 anni e non sentirli, visto che ancora oggi si conferma un importante punto di riferimento per la produzione cinematografica mondiale. L’Italia ha all’attivo un numero assai sostanzioso di Festival dedicati al cinema, cortometraggi inclusi. Il calendario è fittissimo. Basti pensare che una volta chiusa la Mostra di Venezia seguirà una sfilza di rassegne cinematografiche. Il primo appuntamento che segnaliamo è con il Festival Internazionale del Film di Roma. Tra gli ultimi arrivati (nasce nel 2006), si tiene dal 16 al 25 ottobre. Torna a ottobre anche il Napoli Film Festival che quest’anno celebra Michelangelo Antonioni in occasione dei 50 anni di “Deserto Rosso”, il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1964. A seguire Torino Film Festival, alla 32° edizione, in programma dal 21 al 29 novembre. Da Torino a Firenze con il Festival dei Popoli, dedicato al cinema documentario, che si tiene dal 28 novembre al 5 dicembre. E poi sarà la volta del Festival Internazionale del Cinema di Salerno, uno dei più antichi, nato all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946. In Italia, secondo un elenco parziale stilato da wikipedia, si contano oltre 150 festival cinematografici, nessun Paese ne vanta così tanti, nemmeno gli Stati Uniti nonostante l’imponente industria cinematografia.  Alcune rassegne sono molto longeve e ancora attive. Nel 1949 ne debuttano ben due: il Filmvideo festival internazionale del cinema di Montecatini Terme (Pt), rassegna che propone il meglio dei cortometraggi, che si terrà dal 12 al 19 ottobre, e il Valdarno cinema FEDIC a San Giovanni Valdarno (Fi), dedicato al cinema indipendente. Nel 1952 invece nasce Trento Film Festival. La rassegna  presenta e promuove  film e video di ogni nazionalità, genere e durata con al centro la montagna, l’avventura e l’esplorazione. L’appuntamento con la 63° edizione è dal 30 aprile al 10 maggio 2015. Andando avanti con le rassegne più longeve nostrane e ancora in attività, tra le più prestigiose c’è il Taormina Film Fest, erede della Rassegna Cinematografica di Messina e Taormina nata nel 1955. A questo punto impossibile non ricordare i Premi David di Donatello, destinati alla migliore produzione cinematografica italiana e straniera. La prima cerimonia di premiazione si è tenuta  1956 a Roma al Cinema Fiamma. Nel 2007 il David è diventato Accademia del Cinema Italiano. Il 25 novembre 2009 Gian Luigi Rondi, classe 1921, viene nominato presidente a vita. Altri Festival dedicati al cinema nasceranno nel corso degli anni, sempre più internazionali, originali, ma anche di “nicchia”.  Tra i tanti meriti, quello di far conoscere i film di giovani registi, opere prime, pellicole che hanno avuto poca fortuna nella distribuzione. Al riguardo 50&Più con la sua sede di Roma fa la sua parte sponsorizzando sin dall’inizio il Santamarinella Film Festival (Rm), nato dieci anni fa. La rassegna  è dedicata al giovane cinema italiano d’autore, vetrina per quei registi esordienti che non trovano adeguati spazi per presentare le proprie opere. Infine, oltre al primato del Festival cinematografico più vecchio del mondo, l’Italia vanta un Festival molto particolare. Si tratta del Festival di Giffoni (Sa). Nato da un’idea dell’attore Claudio Gubitosi per promuovere e far conoscere il cinema per ragazzi. Una delle particolarità di questo Festival sono i giurati: hanno dai 18 anni in giù e provengono da ogni parte del mondo.

Più festival che scandali, ed è tutto dire, scrive  Beppe Severgnini dal Corriere della Sera. Della Letteratura. Delle Letterature. Del Libro. Dei Libri. Del Libro Usato. Del Libro Internazionale. Del Libro per Ragazzi. Del Libro all’Orizzonte. Dell’Autore. Degli Autori. Del Libro con gli Autori. Dell’Inedito. Della Piccola e Media Editoria. Dell’Editoria Indipendente. Della Microeditoria. Del Giornalismo. Della Poesia. Della Marina. Del Noir. Del Giallo. Del Fumetto e dell’Animazione. Della Penna d’Oca (e del Byte). Dei Bambini (o Children che dir si voglia). Del Racconto. Delle Parole dello Schermo. Del Viaggio. Del Pensiero. Della Filosofia. Della Comunicazione. Di Cinema e Letteratura. Dell’Innovazione. Del Mondo Antico. Della Scienza. Della Mente. E poi: Internazionale, In Riva al Mare,  A Piedi Nudi nel Parco, Sotto le Stelle, Sul Fiume, sulle Bocche. Questa selezione dimostra una cosa: in Italia produciamo più festival che scandali, ed è tutto dire.  Alcuni sono diventati i migliori d’Europa nel loro genere (Mantova per la letteratura, Perugia per il giornalismo). Molti sono buoni. Tutti sono volonterosi e, quasi sempre, pieni di gente. Il fenomeno è stato studiato, discusso, copiato. Le rivalità italiane si sono, infatti, festivalizzate. Se una città ha un festival, la città vicina non può farne da meno. Cosa spinge il pubblico verso questi incontri? Il piacere di stare insieme, la confusione gioiosa, la gratuità e un po’ di serendipity: la voglia di trovare ciò che non si sta cercando (un libro, un’idea o un fidanzato, dipende). Nelle sagre – caposaldo della vita sociale italiana – si mangia, si beve, si balla. Nei festival si può ascoltare e guardare. Per chi ha problemi di colesterolo e coordinazione, una dignitosa soluzione. Cosa spinge le amministrazioni locali a organizzare, sostenere, sponsorizzare i festival? La possibilità di ottenere molto con poco. Gli autori, a differenza di ogni professionista dello spettacolo, si offrono gratuitamente. Il verbo non è scelto a caso: per molti di noi il richiamo dell’approvazione è irresistibile. In tanti, ormai, sono in grado di riempire una piazza; e chi non ci riesce si consola, a cena, pensando d’essere un intellettuale. E’ questa umanissima debolezza il carburante del sistema. Gli scrittori sono manodopera gratuita, zelante, incontenibile. Nessuno attraversa l’Italia per vendere venti copie d’un libro; molti sono disposti a farlo in cambio di una distesa di occhi attenti e dell’applauso finale. Parlate con un editore. Vi dirà: per impedire a certi autori di partecipare ai festival dovremmo incatenarli! E sarebbe fatica inutile. Si presenterebbero così sul palco, con un nuovo titolo, “Novello Prometeo”. A proposito: se qualcuno fosse a Firenze, oggi tocca a me (Festival del Viaggio). Sabato ad Asti apro invece Passepartout (direttore scientifico Alberto Sinigaglia). Poi chiudo coi microfoni fino a settembre. Sarà una lunga estate d’astinenza. Se parlerò ai ginepri della Gallura nel maestrale, vuol dire che sono proprio conciato male.

Sanremo:I grandi scandali del passato, scrive Gigi Vesigna su “Marida Caterini”. Non solo canzonette. Le polemiche, il gossip, gli scandali, veri o costruiti ad arte, sono sempre stati ingredienti fondamentali per il Festival di Sanremo. Nel corso degli anni molti sono stati gli avvenimenti rimasti nascosti al grande pubblico che hanno coinvolto i protagonisti. Ho scelto cinque edizioni, tra le sessantadue della storia della kermess, e di queste vi svelo alcuni episodi curiosi che sono venuti alla luce soltanto anni dopo. Cominciamo quasi dagli inizi.

Siamo nel 1955 . Claudio Villa è il vincitore annunciato del Festival, prima ancora che cominci. Alla vigilia della serata finale, colpo di scena: Villa si dà malato, colpito da una bronchite fulminante che gli impedisce di cantare. Lo fotografano a letto, nella sua camera all'Hotel Nazionale, dove appare sofferente: poi arriva l'annuncio ufficiale:non canterà la sera della finale. Sconforto tra i molti fan del Reuccio, ma la verità è un'altra. Sua moglie Miranda. nota doppiatrice (sua la voce italiana di Sherley Temple) ha scoperto che Claudio l'ha tradita e si è precipata a Sanremo, minacciando di fargli una scenata in diretta tv. Panico tra gli organizzatori, poi il regista Vito Molinari ha un'idea risolutiva: le telecamere inquadrano un giradischi con il disco "Buongiorno tristezza" canzone che, naturalmente, vince, mentre Villa segue il festival in tv. Solo dopo un incontro senza testimoni, riferiscono che è scoppiata la pace. Claudio Pica e Miranda si erano sposati nel 1952 e si separeranno nel 1962...

Undici anni dopo: è il 1966. Arbore e Boncompagni arrivano al Festival in macchina da Roma con l'amica Carla Puccini e si inventano una beffa ai danni dell'ormai mitico Mike Bongiorno che presenterà la manifestazione con lei e con Paola Penni. A un certo punto Carla dovrà svenire in scena e beccarsi un bel po' di pubblicità. Ma Mike fiuta l'inganno e quando, con la  coda dell'occhio, vede che alla sua destra Carla sta per accasciarsi, chiama la telecamera sul suo primo piano e la mantiene sinchè il palco non è sgombrato dalla "salma". Grande Mike che con gli undici Festival presentati, merita ampiamente il monumento che sarà collocato a Sanremo in via Escoffier, angolo via Matteotti, a due passi dall'Ariston e inaugurato da Fabio Fazio il 15 febbraio. Alto un metro e 96,  a Sanremo non è costato un euro perchè ha pagato tutto la moglie Daniela. Un altro monumento, dedicato a Michael Nicholas Salvatore Bongiorno ( è il suo nome per intero) si trova a Breuil, vicino  Corina, dove Mike aveva una casa e andava a sciare.

Arriviamo al 1974. E' il festival più scassato della storia: vince una certa Gilda che fa l'infermiera a Torino. Si scatenano i rumours: secondo alcuni, Gilda, una bella ragazza bionda, sarebbe "fidanzata" con il potente assessore al turismo Napoleone Cavaliere, secondo altri protetta da camorra o 'ndrangheta.  La realtà è molto più banale. Il suo agente, Nello Marti, ha saputo che le giurie sarebbero state dislocate soltanto in caserme e così, prima del Festival, Gilda fece una tournèe proprio nelle caserme italiane. E vinse facile.

Eccoci al 1990. Grazie al patron Adriano Aragozzini, al festival si torna a cantare dal vivo, ma la sede è il nuovo Palafiori, una cattedrale nel deserto voluto per motivi politici da un potente gruppo democristiano. Dentro fa un freddo glaciale, sulla volta volano sciami di pipistrelli. Vincono i Pooh con "Uomini soli", ma la vittoria se la sarebbe meritata Toto Cutugno che canta "Amori" con Ray Charles. Ma già alla vigilia i Pooh avevano in tasca la vittoria: era la condizione perchè, per la prima volta, si mettessero in gioco al Festival.

E siamo nel terzo millennio: è il 2001. Come quest'anno è vigilia di elezioni e tocca a Raffaella Carrà la presentazione del festival. Lei è riluttante: da sempre sa- gliel'ha preannunciato un profetico pendolino- che Sanremo per lei sarebbe stata sicuramente una sciagura. Ma la Rai praticamente la costringe: subito dopo il Festival si va alle urne e in viale Mazzini sanno bene che con lei non ci saranno comportamenti politicamente scorretti. Il rischio era che il Festival potesse andare in malora. Cosa che non succede, grazie alla vittoria di Elisa e al secondo posto di Giorgia. Le canzoni salvano le elezioni. Un dèjà vu? Speriamo.

Estate 2015: gli italiani ammazzano i festival? Si chiede “Rockol”. Ci sono, sì, realtà solide e funzionali sul panorama musicale estivo dal vivo in Italia, e rassegne ormai istituzionali come il Rock in Roma o il Lucca Summer Festival (o festival emergenti come l'Home Festival di Treviso, per citarne uno), dopotutto, sono lì a dimostrarlo. L'estate rock all'aperto italiana, però, negli ultimi anni ha perso dei pezzi difficili da rimpiazzare (e, al proposito, di una nuova edizione di Mondo Ichnusa al momento non si hanno notizie), e presto potrebbe perderne altri. Perché da una parte ci sono dei promoter e degli imprenditori pronti a tenere duro, e dell'altra dei comitati di quartiere sul piede di guerra o delle giunte comunali che di collaborare, proprio, non ne vogliono sapere. Così, mentre all'estero si annunciano i sold-out nelle prevendite e le ultime definizioni nei cartelloni dei maggiori eventi per la prossima estate, qui da noi manifestazioni di primi piano ancora lottano nella speranza di poter aprire i battenti. C'è chi è fortunato, come il Milano City Sound, che proprio in queste ore dovrebbe ufficializzare la propria edizione 2015, e c'è chi ancora naviga a vista - Rock in Idro e Arezzo Wave - nella speranza che qualosa, di qui a breve - perché se Roma non è stata costruita in un giorno, nemmeno un festival di prima grandezza si può organizzare in una settimana - si muova. Ecco, quindi, cosa abbiamo rischiato, o ancora stiamo rischiando, di perderci per la prossima estate. Il Rock in Idro, dopo anni passati a migrare tra le aree periferiche al capoluogo lombardo, pareva aver trovato un porto sicuro nell'Arena Joe Strummer del Parco Nord, a Bologna: la conferenza stampa - e le dichiarazioni degli attori coinvolti (municipalità e promoter) - prima, durante e dopo l'edizione 2014 parlavano di un contratto triennale che avrebbe messo in sicurezza il festival almeno fino al 2017. Poi, a inizio del 2014, l'amara sorpresa: un ripensamento del Comune avrebbe indotto l'agenzia organizzatrice, Hub Music Factory, a tornare sui suoi passi e cercare - compatibilmente con le tempistiche necessarie per organizzare una manifestazione di tali proporzioni - una location alternativa. "Siamo rimasti soli, ancora una volta, nella ricerca di una location che di diventare stabile - purtroppo - non ne vuole sapere", ci ha confessato una decina di giorni fa il co-fondatore della Hub, Alex Fabbro, allora prossimo a una riunione con l'assessorato che sulla carta avrebbe potuto essere dirimente. Ma che, ad oggi, di sbrogliare la situazione non è stata ancora in grado. Problemi, ma connessi ai comitati di quartiere, li ha avuti anche il Milano City Sound, il tribolato festival milanese un tempo ospitato dall'Arena Civica poi spostatasi - negli ultimi due anni - all'Ippodromo, sempre nel capoluogo lombardo, e che dal 2015 troverà spazio in una porzione del parco di Monte Stella, sempre nel quartiere di San Siro: dopo ripetuti sopralluoghi tecnici da parte delle autorità, la rassegna organizzata da Vittorio Quattrone dovrebbe ufficializzare la nuova edizione a giorni. Ancora top secret, al momento, il cast per la prossima estate, anche se il promoter ha già anticipato - per sommi capi - quali saranno le caratteristiche della rassegna prossima ventura: nell'area concerti di trentamila metri quadri complessivi, oltre a due aree per altrettanti palchi - della capienza di 18mila presenze per il main stage e 3mila per il palco secondario - troveranno spazio anche posti ristoro, strutture sportivi e spazi polifunzionali per incontri, corsi e altro. "Ci hanno accusato di voler cementificare uno spazio verde", ha risposto Quattrone alle accuse dei comitati che hanno dato battaglia perché il Comune non concedesse lo sfruttamento del parco attiguo all'ex area del PalaSharp: "Per la verità il discorso portato avanti da chi ci osteggia vede nel pubblico dei concerti un'orda di criminali. Il nostro scopo, invece, è solo quello di valorizzare - per due mesi su dodici - una porzione di uno spazio verde di Milano, che comunque resterà a disposizione del pubblico. Il piano sottoposto ai tecnici del comune, che, tra l'altro, non hanno mai rilevato irregolarità, non prevede nessun intervento che possa arrecare danni permanenti (come, ad esempio, l'utilizzo di piastre in acciaio o in cemento per gli allestimenti), ma include il ripristino a nostro carico del manto erboso dopo la manifestazione in zone che ne prevedano l'eventuale rinnovamento". Ancora più ricca di ostacoli, che ne starebbero seriamente ipotecando la realizzazione, è la strada che potrebbe condurre al prossimo Torino Traffic Free Festival. Le ultime, in merito, sono state riferite a metà gennaio dal giornalista della Stampa Gabriele Ferraris: nonostante un progetto molto ambizioso, che potrebbe vedere iscritti nel cartellone i nomi nientemeno che di Thom Yorke e Bjork, l'impossibilità da parte del municipio del capoluogo piemontese, unita alla confusione creatasi in giunta dopo la presentazione di almeno tre progetti, due da parte degli organizzatori storici (divisisi in due gruppi, con da una parte Gianluca Gozzi e il chitarrista dei Subsonica Max Casacci, e dall'altra il direttore artistico del locale Hiroshima Mon Amour Fabrizio Gargarone e il giornalista Alberto Campo) e uno (quasi subito abortito) da parte della giunta, non avrebbe fatto altro che complicare ulteriormente il processo di organizzazione, già dalle fasi preliminari. Non va meglio dall'altra parte dell'Italia, a Napoli, dove il Neapolis Festival, già lo scorso anno, fu costretto a chiudere i battenti. E anche per la prossima esatte Sigfrido Caccese, che della manifestazione è uno degli organizzatori, vede nero. E ripete riflessioni che gli addetti ai lavori conoscono fin troppo bene: "Sembra che la formula festival, in Italia, di funzionare non ne voglia sapere. Soprattutto in una città come Napoli, che oggi come non mai sta mostrando una scarsa inclinazione verso questi spettacoli. Ed è un vero peccato, non solo per gli appassionati, perché un festival come il Neapolis crea un grande indotto". Scarsa vocazione festivaliera a parte, il muro di gomma contro al quale rimbalzano i tentativi degli organizzatori pare essere il solito: "La mancanza di collaborazione da parte delle istituzioni è totale", denuncia Caccese, "Ormai, ad averli come interlocutori, non ci proviamo nemmeno più. Per il resto noi non molliamo, e a organizzare il festival ci proviamo. Magari su soli due giorni, invece di tre, come successo in occasione delle passate edizioni, magari più in piccolo: se non quest'anno, l'anno prossimo la formula giusta per imbastire la manifestazione la si troverà". E se dovessimo dare una percentuale di possibilità di una riapertura dei battenti già per la prossima estate? "Il 20, 30%. Non di più...". E non c'è storia o tradizione, quando si tratta di mettere in piedi un festival, a tenere. Lo sanno bene gli organizzatori di Arezzo Wave, una delle sigle storiche sul panorama tricolore, che da un paio d'anni a questa parte sembrava aver ritrovato il suo spazio - seppure decentrato, nel 2013, quando si tenne in Valdichiana, rispetto alle edizioni storiche - nella città che gli aveva dato i natali: l'edizione del 2015 della manifestazione ideata da Mauro Valenti è a rischio. Il problema? Il solito: istituzioni estremamente lente nel fornire risposte e comitati di zona sul piede di guerra. A spiegarlo è stato lo stesso Valenti, in una lettera aperta inviata al Corriere di Arezzo: "Nelle edizioni 2012 e 2014 (nel 2013 non ci è stata data la possibilità di farlo ad Arezzo) abbiamo investito più di 1.200.000 euro senza ricevere un euro dal Comune, portando risorse nel territorio e mettendo Arezzo come capitale delle politiche musicali giovanili del nostro paese. Ciò nonostante ogni nostra richiesta è ignorata, cosa strana visto anche il marchio di proprietà comune tra fondazione e amministrazione e l'obiettivo teorico della sua valorizzazione".

Storia di un fallimento (perchè l’Italia non ha un grande festival), si chiede  Daniele Salomone, Direttore di Onstage. Perché l’Italia non ha un grande festival? Perché non riusciamo ad organizzare un evento all’altezza di quelli che invidiamo ai paesi europei e agli Stati Uniti? Domande simili sono tornate di moda quest’anno perché è saltato l’Heineken Jammin’ Festival e abbiamo assistito al caso eclatante dell’A Perfect Day, annullato dopo che la line up completa era stata annunciata. Ma questo problema in Italia ha radici molto profonde: è un grave fallimento del sistema-paese. Se non abbiamo un festival degno di questo nome le responsabilità sono di tutti. Dei privati, delle istituzioni e del cosiddetto popolo. Il lungo periodo di recessione non aiuta, ma non può essere un alibi: in questo campo faticavamo molto anche quando il paese cresceva. I privati. Eventi come Glastonbury e Sziget contano su organizzazioni che lavorano 12 mesi l’anno sulle proprie creature, mentre da noi sono sempre stati i promoter a tentare di mettere in piedi i grossi festival. Un’anomalia che produce effetti negativi: intanto è possibile che una struttura impegnata nella produzione di concerti abbia poche risorse per organizzare raduni lunghi e di una certa dimensione. Poi c’è un conflitto d’interesse: il promoter tende a privilegiare l’artista del suo roster nella costruzione del cast, anche se la scelta si rivela controproducente per la qualità del cast stesso. Ma soprattutto esiste un problema imprenditoriale: nessuno è riuscito a proporre un prodotto-festival all’altezza del mercato. Per esempio, le location si sono sempre rivelate inadatte e l’offerta di ristorazione non si è mai evoluta: non è più accettabile stare in coda due ore per bere una birra e non poter mangiare altro che un panino freddo con la salsiccia scotta. Dovreste vedere come funzionano questi servizi nei festival europei. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di eventi destinati a una fascia di popolazione benestante. Le istituzioni. Non è una novità che la classe politica italiana abbia problemi con la gestione del patrimonio e delle iniziative culturali. L’amministrazione pubblica non riesce a prendersi cura di un tesoro dell’umanità come Pompei, figuriamoci se può comprendere l’utilità di un festival musicale per l’economia di un territorio e di una collettività. Per il Sziget si mobilitano gli enti di promozione turistica ungheresi: non è un caso che degli oltre 350mila spettatori, la stragrande maggioranza sia straniera. Budapest spalanca le porte ai turisti e mostra all’Europa il suo profilo migliore. Noi non sappiamo farlo, eppure di turismo dovremmo essere campioni. E non posso fare a meno di chiedermi come si comporterebbe un Comune di fronte alla possibilità di organizzare un grande festival nel proprio territorio, se qualche abitante protestasse perché contrario. A giudicare da quanto avviene a Milano, dove un piccolo comitato di residenti condiziona la programmazione e la qualità (acustica) dei concerti a San Siro, ho come il sospetto di conoscere la risposta. Gli abitanti sono voti. Il pubblico. Noi. Noi che viviamo la musica come il calcio, con le tifoserie di artisti e generi che rifiutano tutto quello che è “avversario”. Noi che non abbiamo il minimo interesse per quello che non conosciamo e persino ai concerti dei nostri idoli non degniamo di uno sguardo gli artisti spalla. Noi che diamo la colpa agli organizzatori se il prezzo del biglietto ci pare troppo alto, quando invece dipende quasi sempre dal cachet degli artisti. Noi che se il prezzo è giusto ci lamentiamo del cast (e, appunto, ignoriamo le richieste dei big). Noi che tra un weekend al mare e tre giorni dentro una tenda non abbiamo dubbi. Noi che ai festival italiani non ci andiamo, ma all’estero si perché è più figo. In effetti. Ho citato Glastonbury e Sziget perché sono realtà virtuose che propongono modelli opposti. Il primo punta tutto sulla qualità (e la quantità) della proposta musicale, ma state certi che vostro figlio di due anni troverà tutte le strutture necessarie per passare una splendida giornata. E se vi si dovessero rompere le acque mentre ascoltate i Rolling Stones, non c’è problema. Tanto per capirci, in 40 anni di storia, Glasto si è costruito una tale credibilità che i biglietti finiscono 8 mesi prima dell’evento, quando nessun artista è stato annunciato. A Budapest invece hanno puntato sull’esperienza: andare al Sziget significa farsi una settimana di vacanza in un parco a tema (musicale) situato dentro un’isola sul Danubio. Concerti di tutti i generi e dimensioni, dj-set, ma anche giostre, meditazione, sport e infinite altre attività. Peace&Love. L’ingresso costa relativamente poco ma la struttura guadagna offrendo tutti i servizi necessari con efficienza ed efficacia. E Budapest gioca di sponda. Sia in Inghilterra che in Ungheria, pur in epoche e contesti diversi, hanno pensato a un prodotto (magari aggiustandolo in corsa), l’hanno posizionato presso un pubblico che lo chiedeva e non hanno incontrato resistenze sul territorio. Guadagnano, creano lavoro e fanno divertire un sacco di gente. Così succede negli Stati Uniti per eventi come Coachella e il South By Southwest. Noi, d’estate, dobbiamo accontentarci dei cosiddetti concert series, cioè manifestazioni che offrono più o meno uno show a sera in un determinato periodo e nella stessa location. Va bene perché comunque ci portano grandi nomi, soprattutto internazionali. Accontentiamoci, ma non nascondiamo la testa sotto la sabbia.

LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.

"Controstoria", ecco il dossier sulle case editrici alternative, scrive Gaetano Farina su “Affari Italiani”. Poiché va tanto di moda pubblicare “dossier”, anche noi abbiamo deciso di elaborarne uno per scavare nell’“oscuro” mondo della Controinformazione.  In tutti questi anni di Governo– Berlusconi, il problema dell’indipendenza dell’informazione è inevitabilmente rimasto centrale nel dibattito del nostro Paese. I recenti avvenimenti – più o meno scandalosi - “Veline in Parlamento”, “Compleanno Noemi”, “Escort a Palazzo Grazioli”, “Festini ad Arcore”, “Guerra contro Anno Zero”, “Nuove Case ai Terremotati Abruzzesi”, “Querele a Repubblica, Unità e Manifesto”, “Decreto Intercettazioni”, “P3”, “Appaltopoli” e “Lodi vari”, anzi, hanno acceso, se non avvelenato, ancor di più il dibattito. E allora, dopo aver “recensito”, sempre su Affari Italiani, le testate on-line e cartacee cosiddette “alternative”, i tempi ci sembrano appropriati anche per proporre un ampio dossier sulle case editrici votate alla controinformazione, a pochi giorni dalla conclusione della seconda edizione del Salone dell’Editoria Sociale, nuovo punto di riferimento per l’editoria indipendente in contrapposizione alla Fiera del Libro di Torino sempre più assomigliante ad un “megagalatticomarket” spudoratamente allineato agli interessi ed alle strategie dei più forti marchi editoriali e dei numerosi sponsor bancari. Dunque, proviamo qui a riunire tutte quelle case editrici che - seppur con un profilo e un approccio differente - ricercano, molto più delle altre, le Verità oltre quelle ufficiali, istituzionali e veicolate dai media convenzionali; s’impegnano a diffondere storie ed informazioni taciute, scarsamente rappresentate o liberate dalla manipolazione mediatica. Un modus operandi che, in Italia, viene etichettato come Controinformazione. Un’etichetta paradossale dato che, dagli anni dello stragismo terroristico, passando per i delitti di Mafia, sino ad oggi, all’epopea del trionfante berlusconismo, la controinformazione è spesso coincisa con la vera informazione. Esplorare la produzione di queste agenzie culturali significa, contemporaneamente, ripercorrere i fatti e gli avvenimenti, analizzare i problemi cruciali della storia contemporanea d’Italia e del resto del mondo, al riparo dalle censure, le manipolazioni, le omissioni, le finalità propagandistiche, i limiti ed i difetti propri dei normali organi d’informazione, asserviti ai grandi poteri istituzionali ed economici. Le produzioni che tratteremo e la controinformazione, in generale, possono essere accusati di “dietrologia” o di alimentare “teorie complottiste”, ma, alla lunga, qui in Italia, riguardo alle grandi stragi, ai problemi legati alle grandi opere, agli sprechi miliardari, alla corruzione, alla connivenza Mafia-Politica, hanno quasi sempre avuto ragione. Hanno anticipato verità e futuri scenari, o, comunque, hanno contribuito a suggerirci altre strade di ricerca della verità, oltre a quelle battute dagli organi d’inchiesta (inclusi media) istituzionali o convenzionali. Inoltre, la controinformazione ha il merito di dar voce a culture, movimenti, comunità, aggregati di pensiero e di espressione alternativi al modello cultural-ideologico dominante che, spesso, per autopreservarsi, è costretto a nascondere, mistificare, dissimulare. Del resto, strati sempre più ampi della popolazione e dell’opinione pubblica faticano a identificare i giornali e l’informazione universale come un “contropotere”. Quando, al contrario, il ruolo, il mestiere, la vocazione del giornalista dovrebbe essere quella di controllare il Potere che, per natura, tende a strabordare, a violare quelli che dovrebbero essere i suoi limiti, che, per autoalimentarsi e riprodursi, tende a mettere in secondo piano gli interessi della collettività. La controinformazione è un “fenomeno” che ha origine dagli anni ’60-’70, grazie al lavoro ed alla militanza di quella che viene battezzata “Sinistra Antagonista”, massima contestatrice, almeno a quell’epoca, delle basi economiche e culturali su cui si regge il nostro sistema sociale. Oggi, tante cose sono cambiate, sembra quasi che la Sinistra sia collassata o preferisca/sia costretta ad essere assente, sebbene si continui a sostenere che la cultura, l’istruzione, l’intellettualismo “siano più cose di sinistra”. In verità, è un sentimento diffuso la nostalgia per la controinformazione ed il giornalismo d’inchiesta di una volta, si lamenta la perdita (e la mancanza) di intellettuali veri ed onesti e di giornalisti coraggiosi e liberi. Compito del vero (autentico) giornalista, a servizio non del suo giornale, ma della comunità e della Verità, dovrebbe esser quello di richiamare il Potere ai suoi doveri - in ogni settore e in ogni articolazione -, smascherarlo e denunciarlo se agisce contro il bene comune, se ricorre a trucchi ed accordi sottobanco per mantenersi intatto. Da un po’ di anni, fortunatamente (a dispetto di chi promuove campagne contro i movimenti d’opinione diffondibili sui social-network), ci è venuto in soccorso il Web ed i potentissimi strumenti che ci offre permettono di addestrarci e prepararci ad una rivoluzione nell’indagine giornalistica e nel modo di fare informazione, in generale. Nel o sul web, e quindi ad ogni lato ed angolo del planisfero, i fatti, le notizie, le foto, le immagini, i video, i grafici, i dati statistici, i commenti, le opinioni, i giudizi, le descrizioni, le osservazioni, le critiche, le riflessioni e le denunce circolano ad una rapidità tale che sono molto difficili da monitorare e quindi da “censurare”. Tanto che, grazie al lavoro e ai contributi condivisi in rete da qualsiasi area del mondo, si sono sviluppati – dal basso - network indipendenti di influenza globale come Indymedia. Estremamente utili, se non fondamentali, per chi cerca ricostruzioni non veicolate da media o da fonti giornalistiche “di parte”. Per chi vuole bypassare i network controllati o, almeno, condizionati da poteri economici e politici, asserviti, anche geneticamente o inconsapevolmente, alla cultura e al pensiero dominante, lottizzati, limitati ad una “visione occidentale” della realtà o a una sua visione “economica”-“capitalistica”, escludendo a priori l’ approccio “umanistico”, snobbisti dei “Sud” del mondo. Per chi è alla ricerca di fatti e notizie che normalmente sono oscurati o ignorati, per chi è interessato a quelle azioni, istanze, richieste, proposte e rivendicazioni provenienti da critici e contestatori dello status quo economico-sociale e dei modelli su cui si fonda, alle minoranze, ai gruppi sociali discriminati, alle controculture, ai portatori di valori e di sistemi di pensiero minoritari. Tutte le 7000 case editrici sparpagliate sul nostro territorio si possono avvalere dei prodigi di Internet, ossia dell’estrema facilità e velocità con cui si possono ricercare e reperire analisi, documenti, commenti, interpretazioni, confronti, dibattiti, approfondimenti, proposte, idee su determinate questioni e problematiche. Tanto che è sempre più fiorente la produzione di quelli che vengono chiamati “Istant Book” su problemi, vicende politiche e giudiziarie, catastrofi, tragedie, delitti e fatti criminosi di particolare gravità ancora all’ordine del giorno. Certo, nel catalogo di quasi tutte le case editrici, anche di colossi come Arnoldo Mondadori per intenderci, si ritrovano opere che - per come solitamente viene intesa rispetto ai criteri che abbiamo descritto sinora - si possono definire di “controinformazione” o che, in diversa maniera e misura, non risparmiano critiche feroci o sbattono in faccia verità scomode ai poteri forti e/o ai “padroni del mondo”. Tuttavia, in quello stesso catalogo se ne possono trovare, contemporaneamente, tante altre (di opere) che sostengono questi poteri o esaltano idee e tesi a loro favorevoli. Nell’elenco che fra qualche riga vi presenteremo, abbiamo voluto visibilizzare, invece, quelle realtà che, sfruttando lo strumento-libro, sono nate per/ si pongono l’obiettivo di sostenere e diffondere una visione, un’interpretazione, una lettura alternativa della società, del presente e del passato, dei fatti, degli avvenimenti, dei problemi più complessi. “Alternativa” che si può tradurre in: contropotere, controculturale, antistituzionale, anticapitalistica e antimperialistica, antilobby, nonviolenta, fuori dal pensiero dominante, umanistica, improntata alla centralità assoluta dei diritti umani, al dialogo ed alla solidarietà fra i popoli, alla ricerca della verità oltre le rappresentazioni ufficiali, all’incontro con la “diversità”, che non si fida dei media convenzionali – solitamente di proprietà di rilevanti gruppi economici -, che non si fida delle promesse e degli appelli dei politici e della politica, di chi ci governa, che è per il rispetto dell’ambiente e per uno sviluppo sostenibile. Certo, come ammonisce il giornalista-attivista Paolo Barnard, bisogna stare attenti a identificare alcuni scrittori, giornalisti, giornali ed editori come degli “Eroi Anti-Sistema”. Altrimenti si rischia di prendere per “oro colato” tutto quello che dicono, quando, invece, anche nei confronti di chi ci appare “amico” o “fidato” occorre mantenere costantemente una distanza critica. Alla lunga, in tanti si possono rilevare dei finti eroi, interessati esclusivamente a crearsi un determinato tipo di pubblico a cui destinare in vendita i propri “prodotti” e nulla più. Qui di seguito troverete quasi 300 schede di case editrici più o meno conosciute; alcune, in verità, sono completamente nuove al grande pubblico e possono risultare delle “semplici” associazioni culturali. Ciò significa che hanno bisogno ancor di più di questa “vetrina”…In ogni scheda proposta viene sintetizzata la biografia e l’ “identità” della casa editrice, ma, soprattutto, sono recensite alcune sue pubblicazioni, diciamo, “rappresentative” o che siamo riusciti ad analizzare. Considerando anche il grado di collaborazione delle case editrici interpellate, possono essere presentati uno o più titoli per ogni scheda. In universo così magmatico come quello dell’editoria italiana, in cui navigano oltre 7000 editori, ammettiamo di aver potuto perdere la bussola, qualche volta: pertanto, ci scusiamo, fin da ora, con chi abbiamo dimenticato o “non recuperato”. Siamo pronti ad essere redarguiti ed, eventualmente, a “riparare” in qualche modo, rivisitando e “ristrutturando” periodicamente il dossier. Ma, insomma, avendo a disposizione gli spazi offertici da Affari Italiani, ci sembrava doveroso contribuire alla riaffermazione degli attori, delle agenzie, dei laboratori e delle correnti culturali impegnati nella contro-informazione e offrire un minimo di visibilità a quei marchi che, soffocati e stritolati nel mercato editoriale da grandi colossi quali Mondadori, Rizzoli o Feltrinelli, meriterebbero più considerazione per le storie e le Verità che ci propongono.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

Si stava meglio quando si stava peggio? Italia, declino inevitabile: dove andremo a finire?

A leggere i giornali od a seguire i Tele Giornali o i talk show in tv cerco di carpire qualche notizia che parli di me: di me cittadino. Cerco qualcuno che parli dei miei problemi.

La pagina politica parla delle solite promesse, dei soliti sprechi e dei soliti privilegi.

La pagina della giustizia parla dei soliti morti, dei soliti arresti e delle solite condanne, oltre che della solita mafia: una rassegna dei successi di magistrati e forze dell’ordine, insomma.

La pagina degli esteri parla delle solite guerre e dei soliti cattivi da eliminare.

La pagina finanziaria parla di default, tasse e soldi per lo Stato che non bastano mai e della ovvia evasione fiscale dei soliti ricchi.

Per lo spettacolo e lo sport la solita rassegna di pettegolezzi di star e starlette senza arte né parte.

A parer dei media sembra che la vita scorra monotona lungo questi binari, salvo qualche problema che, però, a parer dei lettori e telespettatori, appare colpire solo gli altri.

Ma non è così. A spulciare nelle notizie, c’è tutta una quotidianità di cui nessuno parla: la lotta alla sopravvivenza delle famiglie italiane nella assoluta solitudine e nel generale sottaciuto abbandono.

Chi ha qualche anno di vita, (chi troppi, chi pochi) ricorda che:

prima il potere era del popolo: oggi non più, il potere è delle mafie, delle caste, delle lobbies e delle massonerie deviate;

prima c’era meno illegalità, meno obblighi, meno sanzioni e c’erano meno leggi da rispettare, specie quelle a carattere emergenziale: oggi anche un giurista insigne pecca di ignoranza giuridica;

prima nel nome della legalità c’era meno illegalità ed iniquità: oggi l’ingiustizia abbonda e gli abusi di potere strabordano;

prima c’era più rispetto e credibilità negli anziani, nei magistrati e nelle istituzioni: oggi non ci sono più esempi degni da seguire e non abbiamo stima nemmeno per noi stessi;

prima pur con tangentopoli, c’era meno ladrocinio e le mafie non avevano invaso l’Italia: oggi la corruzione e l’abuso di potere è la normalità e la mafia è dappertutto;

prima l’usuraio era l’amico: oggi non più, usuraio è lo Stato o le banche;

prima si pagava un decimo di tributi rispetto ad oggi e si otteneva 10 volte tanto in termini di servizi;

prima nella disgrazia potevi parlare con il politico che votavi ed il minimo che succedeva era che ti ascoltava ed il favore lecito, spesso, ci scappava: oggi non è più così, perché i politici sono tutti degli emeriti sconosciuti e se ti rapporti con loro disattendono il loro mandato;

prima nell’errore speravi nella coscienza delle istituzioni e tutto si aggiustava secondo equità: oggi non è più così, perché più che il principiò di legalità vale l’interesse estremo a punire, per salvaguardia finanziaria del proprio status di sanzionatore;

prima c’era più Empatia, ci si metteva nei panni dell’altro, si condividevano sentimenti, emozioni e sofferenze: oggi non più, c’è più Dispatia, ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui, ovvero c’è più Alessitimia, ossia il disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo delle persone;

prima nell’avversità c’era qualcuno che pubblicamente denunciava sui giornali la tua questione: oggi la notizia è omologata nella censura e se, al contrario, è resa pubblica, lo scandalo non produce effetti;

prima nell’avversità c’era una famiglia, spesso numerosa e con genitori pensionati, che ti sosteneva: oggi siamo soli nell’indifferenza, nell’indisponenza, nell’insofferenza e gli anziani non hanno più figli al capezzale ma solo badanti straniere;

prima si era più ricchi di affetti e di beni materiali: oggi amici non ne hai ed i parenti meglio non averli e se hai un bene materiale te lo toglie la criminalità o lo Stato;

prima nel bisogno il lavoro era tutelato e comunque si trovava, anche negli uffici di collocamento, o addirittura anche a nero o sottopagato: oggi non più assolutamente, nonostante i centri per l’impiego e le agenzie interinali;

prima a veder un clandestino era un’eccezione, oggi è la regola;

prima gli unici ad essere discriminati erano i meridionali: oggi si discrimina tutto e tutti e si uccide per questo (religione, razza, sesso, ideologia politica, tifo sportivo, gusti sessuali, ecc.);

prima si era più sinceri e diretti: oggi si è politicamente corretti, perbenisti e buonisti, ossia più demagoghi, utopistici, falsi e bugiardi;

prima nell’intraprendenza l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, nonostante i disastri meteorologici, erano attività in cui si riusciva ad andare avanti: oggi le campagne sono abbandonate, troppi, cavilli, oneri e spese;

prima nel rischio le imprese, grandi o piccole, riuscivano a produrre reddito: oggi non più, perché sono vessate dallo Stato da controlli, oneri, cavilli e balzelli e tributi e comunque da questo Stato non tutelate dalla competitività estera, o taglieggiate dalla criminalità, o sequestrate e portate al fallimento dallo stesso Stato perché accusate di essere colluse con la criminalità, o, seppur operanti da decenni, chiuse ora perché inquinanti;

prima le professioni si potevano esercitare: oggi non più, perché hanno chiuso gli ospedali ed i tribunali ed impediscono di esercitare. Prendiamo per esempio la professione di avvocato. Hanno chiuso moltissimi tribunali. Hanno impedito la tutela legale per i sinistri stradali e le sanzioni amministrative. Settori utili per i neo professionisti. Non sono certo, però, diminuite, come promesso, le polizze assicurative. Hanno eliminato di fatto il gratuito patrocinio, con condanne inevitabili per gli indigenti, ed in generale il ricorso all’autorità giudiziaria, con il contributo unico unificato elevato. Tra Giudici onorari di Tribunale, Giudici di Pace, Conciliazione obbligatoria e Negoziazione assistita hanno eliminato quasi tutto il lavoro dei magistrati togati, impegnati come sono a fare esclusivamente politica,  ma la lentezza della giustizia è rimasta. Hanno imposto ai giovani avvocati in tempo di crisi l’iscrizione alla Cassa Forense ed imposto in tempo di vacche magre l’esercizio della professione legale in maniera continuativa e prevalente. Ecco i punti fissati dal Governo:

a) la titolarità di una partita Iva;

b) l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in forma collettiva (associazione professionale, società professionale, associazione di studio con altri colleghi);

c) la trattazione di almeno 5 affari per ogni anno dei 3 presi in considerazione, anche se l’incarico è stato inizialmente conferito ad altro legale;

d) la titolarità di un indirizzo Pec comunicato al Consiglio dell’ordine;

e) l’avere assolto l’obbligo di aggiornamento professionale secondo modalità e condizioni stabilite dal Cnf;

f)la stipula di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile che deriva dall’esercizio della professione;

g)la corresponsione dei contributi annuali dovuti al Consiglio dell’ordine;

h) il pagamento delle quote alla Cassa di previdenza forense.

Sig. direttore, lei, meglio di me, sa che prima si poteva criticare e protestare: oggi non più perché abbiamo un bavaglio. Tra la legge sulla privacy e lo spauracchio delle norme penali sulla diffamazione tutto ciò è impedito.

Oggi non puoi nemmeno recriminare con una imprecazione: “Italia di Merda” perchè segue una condanna certa.

Allora… si stava meglio quando si stava peggio? E dove andremo a finire? E comunque, per gli italiani perché non vale la teoria sull’evoluzione migliorativa naturale della specie?

Europa, i napoletani guadagnano meno dei polacchi. E in altre zone d'Italia non va meglio. Secondo i dati più recenti dell'istituto di statistica europeo il reddito medio in provincia di Napoli è ormai inferiore a quello medio della Polonia. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Se un amico di Napoli vi confida che vuole emigrare in Polonia, non chiedetegli se è diventato matto: per come vanno le cose l'idea potrebbe quasi avere senso. Secondo i dati dell' Istituto di statistica europeo , aggiornati al 2011, il reddito medio dei napoletani è ormai inferiore a quello dei polacchi. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro. L'area d'Europa con il PIL più alto è invece la parte occidentale di Londra, cuore finanziario della Gran Bretagna, dove la media supera i 150mila euro. Ma in Italia c'è chi è messo ancora peggio. Nella provincia di Medio Campidano, in Sardegna, il reddito è di 11.200 euro l'anno: poco meno che in Bulgaria. Seguono Caserta e Agrigento, intorno ai 13mila e qualche centinaio di euro in più rispetto a un abitante medio della Romania. Resta forte la divisione nord-sud, anche se in quest'ultimo spicca la provincia di Catanzaro che supera i 20mila euro l'anno – fatto praticamente unico nel meridione –, mentre al centro si distingue Rieti; chi vi abita ha in media un reddito più basso di quello dei vicini. Roma è un caso a parte. Essere il centro della burocrazia italiana, con il relativo carico di retribuzioni elevate, non può che portare a risultati maggiori: un elemento che in qualche misura sposta i redditi – ma non per forza quanto poi si produce davvero – verso l'alto. Al nord invece i milanesi hanno un reddito medio di 45.600 euro, quasi il doppio della media europea. Un valore senz'altro elevato, ma forse neppure troppo per quello che dovrebbe essere il centro della borghesia produttiva italiana. Senza neppure arrivare a Londra, in cui i tanti stranieri della City finanziaria renderebbero il confronto poco sensato, basta andare in Francia o in Germania – a Monaco, Parigi o Bonn – per trovare diverse aree in cui il reddito si aggira o supera i 60-70mila euro a persona. I dati non considerano solo quanto le persone producono, ma tengono in conto anche il diverso costo della vita. Affitti più alti e beni più economici, servizi a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano almeno quanto lo stipendio che riceviamo. Si tratta del modo più accurato per capire qual è il reale tenore di vita delle persone in un regione piuttosto che in un'altra. Come succede di consueto quando si calcola il PIL, è inclusa anche una stima (più o meno accurata) dell'evasione fiscale. Eppure basta tornare qualche anno indietro per capire come i problemi italiani siano tutt'altro che nuovi. La crisi non ha fatto che pesare su un sistema già affaticato – in alcune zone più che in altre. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima della recessione del 2008 crescevano poco – meno dell'1% l'anno. Emilia Romagna, Marche e Lazio avevano invece un ritmo più elevato, intorno al 2%. Il motore pare inceppato da tempo: già intorno al 2002-2003 in diverse regioni il reddito ha fatto un salto indietro, per poi calare a picco dal 2008. In Molise la recessione ha fatto più danni: fino al 2011 l'economia è decresciuta in media del 2,9% l'anno; meno in Campania, con una caduta dell'1,8%. Seguono Calabria (-1,7%), Sicilia e Basilicata (-1,6%). Quando gli altri cadono – magra consolazione – anche restare fermi è un segnale positivo. È il caso di Lombardia e provincia di Bolzano, dove invece le cose sono rimaste stabili oppure la diminuzione è stata minima. Guardando a come vanno le cose provincia per provincia abbiamo un quadro più dettagliato, ma anche meno recente – per il momento i dati arrivano solo al 2011. Che napoletani e siciliani abbiano recuperato qualcosa, nel frattempo? L'unico modo per farsi un'idea è guardare a come sono andati i paesi nel loro complesso. Anche così, però, l'Italia resta quella che fa peggio. Non solo l'economia non recupera quanto aveva perso dall'inizio della recessione, ma continua a cadere ancora. Nel 2012 e 2013 la crescita media è stata molto negativa: la Spagna arretra ma meno, Francia e Germania crescono – molto poco – mentre nel Regno Unito va abbastanza meglio. Nulla di impressionante, certo, eppure nel regno dei ciechi l'orbo è re. Dunque è ancora vero che i napoletani guadagnano meno dei polacchi? Una cosa è certa: negli ultimi due anni questi ultimi sono andati avanti, mentre l'Italia è tornata ancora più indietro. Non solo il divario potrebbe essere rimasto, ma ci sono buone ragioni per pensare che sia aumentato. Chi più in fretta, chi trascinando i piedi, resta il fatto che diversi paesi stanno cominciando a uscire dalla crisi. Molti, ma non l'Italia. Chissà che l'amico napoletano non abbia tutti i torti.

Disoccupazione, i numeri fanno paura. Quella verità nascosta nelle statistiche. Fermarsi a leggere solo il dato generale di chi non ha un lavoro è un errore: i numeri in nostro possesso mostrano  fenomeni meno noti, che interessano soprattutto donne e giovani. Mentre il titolo di studio sembra ancora l'unico antidoto al rimanere senza impiego. Naviga i nostri grafici interattivi, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Una manifestazione del 2011 contro la disoccupazione giovanile Quando si parla di disoccupazione la cosa più semplice è elencare il solito numero - i soliti due numeri - e fermarsi lì. Sono quelli che sono stati ripetuti negli ultimi giorni: il tasso di disoccupazione generale è al 12,6 per cento, quello dei giovani fra 15 e 24 anni è al 43,3 per cento. Al crescere dell'età le cose migliorano, certo, ma restano tutt'altro che confortanti. Eppure la realtà è più complicata, e se si scava più a fondo nelle statistiche il quadro diventa forse ancora più buio: sicuramente più sfaccettato. Eurostat e Istat raccolgono informazioni sul lavoro anche a livello regionale, aggiornate al 2013; e sono dati che mostrano l'enorme differenza che esiste non solo fra paesi europei, ma anche all'interno degli stessi. Eppure, nel fare confronti fra paesi, i dati vanno guardati con prudenza. Il tasso di disoccupazione indica infatti quante sono le persone senza lavoro, ma solo fra quelle che un lavoro lo stanno cercando. Più di tre milioni, secondo le ultime stime: certo non un italiano su dieci o un giovane su due, come si sente dire ogni volta, ma comunque troppo. Il paragone naturale è con i vicini spagnoli. Ma proprio in Spagna, che nella mappa della disoccupazione risalta come una grande macchia rossa, secondo la Banca Mondiale la partecipazione al mercato del lavoro è più alta - in particolare per le donne e nelle aree più povere. In questi gruppi, ovvero, sono molti coloro che dichiarano di essere alla ricerca di un impiego. In Italia vale l'opposto: sono meno le persone che risultano alla ricerca di un lavoro e questo spinge il dato della disoccupazione verso il basso. D'altra parte in Italia e Spagna il numero di persone effettivamente occupate, rispetto al totale della popolazione, è più o meno lo stesso. Dunque la differenza, tutto sommato, è molto minore di quello che sembra. Non è il solo caso. In generale, prima di fare paragoni, bisogna fare attenzione a quei paesi in cui, per esempio, donne e giovani tendono a partecipare di più al mercato del lavoro. È il caso di Germania, Francia e - appunto - della stessa Spagna. Questo però non vuol dire che la situazione sia grave ovunque allo stesso modo; al contrario. Proprio in Italia considerare solo il tasso di disoccupazione generale nasconde le situazioni più diverse: soprattutto in alcune province, soprattutto per i giovani - e ancora di più per le donne. Tutti casi in cui la realtà è molto più difficile di quello che sembra. Prendiamo tre persone diverse: Luca, 40 anni, di Milano; Giulia, una trentenne romana; Sofia, appena diplomata a Napoli. Il primo è riuscito a trovare lavoro, e come lui diversi amici e amiche: a Milano essere uomo o donna non fa grande differenza. Giulia salta da un breve impiego all'altro, ma con la crisi le cose sono diventate più complicate. Trovare un nuovo lavoro è difficile, e non solo per lei: a Roma succede lo stesso a una donna su sei nelle sue condizioni. Sofia invece vorrebbe cominciare a lavorare subito dopo aver finito la scuola, ma non può. A Napoli per andare avanti ci vuole fortuna e bravura - o entrambe - quando tre ragazze su cinque come lei, pur cercandolo, un lavoro non lo trovano. Altrimenti la soluzione è la solita: emigrare. Anche qui però bisogna fare attenzione: fra i 15 e i 24 anni molti ragazzi studiano ancora, quindi non cercano lavoro né sono - tecnicamente - disoccupati. Un gruppo che rientra nella categoria degli “inattivi”, come li chiama l'Istat, composto da poco meno di quattro milioni e mezzo di persone. Il problema vero riguarda invece 685mila giovani di quell'età che, usciti da scuola, un lavoro lo vorrebbero ma non ce l'hanno. I dati smentiscono anche un altro luogo comune: che studiare non serve. Di nuovo, è vero l'opposto. Le persone con titoli di studio più elevati sono quelle meno esposte alle disoccupazione, e questo vale sia per gli uomini che per le donne. Una differenza che - soprattutto al sud - è enorme: le laureate calabresi, per esempio, hanno un tasso di disoccupazione di 8 punti percentuali più basso delle diplomate, mentre le campane arrivano a 10. Per gli uomini è lo stesso, basta guardare la differenza fra laureati e diplomati siciliani: fra questi ultimi, ai tempi della crisi, il tasso di disoccupazione è doppio. Altro che perdita di tempo: uno degli antidoti alla crisi, se mai ce ne fosse uno, sembra proprio lo studio.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Medicina, storia del concorso delle polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati". L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece, la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia, ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico, punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare. A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato. Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore o minore correttezza delle risposte fornite. Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano, archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del 12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi. Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4 contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10 hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31 ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo 17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova, hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16 episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila. Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8. Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico. D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su 60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3 novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27 sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti - quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto, sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione (una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi - per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso. Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio - decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri, meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.

Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio  del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

VA TUTTO BEN MADAMA LA MARCHESA. INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO E LAVAGGIO DEL CERVELLO.

Il “Tutto va ben, madama la marchesa” trae le sue origini da una vecchia canzone francese che narra di un servitore che cerca di rassicurare una marchesa al telefono, mentre le comunica che il suo palazzo è andato a fuoco in seguito al suicidio del marito.

Questa è la cultura contemporanea.

Editto Bulgaro, Bertolino: «Me lo aspettavo». Verro (Cda Rai) nel 2010 scrisse a Berlusconi. Nel mirino 8 trasmissioni. Tra cui Glob. Il comico e conduttore: «Ora capisco tante cose. La satira dà ancora fastidio», scrive Francesca Buonfiglioli su “Lettera 43”. Enrico Bertolino cade dalle nuvole. «Sa che si dice che anche il suo programma Glob fosse nella lista nera di Antonio Verro, consigliere di amministrazione Rai?». «Francamente no, ero all'estero. Me lo sta dicendo lei», risponde il comico e autore a Lettera43.it. Ma non è stupito più di tanto. «Adesso ho capito perché hanno cancellato il programma», aggiunge ridacchiando amaro. «Me lo aspettavo». Poi scherza: «Adesso faremo i martiri per un po' di tempo». La lettera scritta da Verro all'allora premier Silvio Berlusconi nel 2010 - e scoperta da Il Fatto Quotidiano - è già stata ribattezzata «Editto bulgaro bis». Il consigliere d'amministrazione Rai esprimeva la sua preoccupazione all'allora ancora Cav circa «otto trasmissioni» che lo preoccupavano. Delle quali aveva addirittura allegato schede sintetiche. Nel mirino, ci sarebbero state anche Annozero di Michele Santoro, Parla con me di Serena Dandini, Che tempo che fa di Fabio Fazio, Ballarò di Giovanni Floris In 1/2 Ora di Lucia Annunziata, Report di Milena Gabanelli e Lineanotte di RaiTre. Tutti programmi pericolosi perché, è la spiegazione, «fortemente connotati da teoremi pregiudizialmente antigovernativi». La missiva si concludeva poi con un «grosso abbraccio» che tradisce quali fossero i rapporti ben oltre l'istituzionale tra il gran capo di Mediaset e parte del Servizio Pubblico. Ma se il condannato Berlusconi ora è all'opposizione, Verro si trova ancora al suo posto. «Ora mi spiego perché nel 2010 siamo stati fermi un giro...», dice Bertolino. «Spero solo che questa lettera non valga ancora».

DOMANDA. Che effetto fa essere un sovversivo?

RISPOSTA. Piacevolissimo. Soprattutto perché qui in Italia non ci sono le modalità di lotta alla satira francesi. Diciamo che siamo più cautelati.

D. Secondo lei perché Glob era considerato scomodo?

R. Perché, a differenza di altri programmi, veniva seguito da destra e da sinistra. Insomma, ci rivolgevamo agli indecisi. Quelli più influenzabili.

D. La satira, anche sulla comunicazione, fa ancora paura?

R. La satira sì. La politica per molto tempo ha chiesto e sopportato solo la parodia.

D. Cioè?

R. Le imitazioni. Quelle celebrano, mentre la satira dà fastidio.

D. Con costi ridotti riuscivate a ottenere comunque un discreto successo.

R. Le decisioni della Rai raramente seguono logiche industriali. Glob tra l'altro costava un'unghia, era una produzione Itc-Rai, quindi interna, ed è stato una fucina di autori...

D. E lo share?

R. Andavamo in onda in tardissima serata. E poi, va detto, come tutte le trasmissioni, vivevamo di traino. C'erano serate difficili e serate in cui riuscivamo a portare a casa percentuali a doppia cifra.

D. Solo merito del traino?

R. No, sono convinto che gli spettatori crescessero perché si addormentavano col telecomando in mano (ride, ndr).

D. Lei pare affezionato agli editti bulgari.

R. Già, ero già finito nel mirino. Ma non sono certo paragonabile a Daniele Luttazzi o Sabina Guzzanti che hanno pagato pensantemente...

D. Non era simpatico a Berlusconi.

R. Ma arrivavo dopo Gene Gnocchi e Dario Vergassola.

D. L'allora direttore generale di Viale Mazzini Mauro Masi la apostrofò con «quel comico bergamasco». Uno smacco?

R. Un po'. Però fu una grande pubblicità. Come quella volta che ci cacciarono da un teatro di Imperia...

D. Perché?

R. Scajola aveva organizzato una manifestazione con Berlusconi e fummo sfrattati dal teatro.

D. Un cursus honorum il suo. E adesso chi disturberebbe Glob?

R. Adesso mi incuriosisce molto lo stile di Matteo Salvini.

D. E che stile sarebbe?

R. Molto social. Come altri politici twitta gli appuntamenti che ha in tivù e poi interroga la Rete su cosa ha detto.

D. Salvini veramente twitta anche durante i talk...

R. E io proibirei l'uso dei cellulari e dei tablet durante le trasmissioni.

D. Sempre che i talk sopravvivano...

R. Negli Stati Uniti si sta sperimentando un nuovo linguaggio televisivo. Basta con le Ophra e i Letterman.

D. Restiamo a casa: da osservatore cosa nota nei salotti nostrani?

R. Mi incuriosiscono le persone sedute dietro i politici. Quelli che annuiscono. Con cui gli ospiti interagiscono per cercare una complicità diretta. Un esempio? Salvini che ha mostrato in diretta la felpa con la scritta «Renzi a casa» a una signora del pubblico.

D. Ma quello del talk non è un format è da rottamare?

R. Di sicuro non si sa più come vivacizzare le trasmissione. Io avrei una idea...

D. Dica.

R. Vorrei presentarmi da Ballarò vestito da Batman per illustrare i problemi di Gotham City con alle mie spalle Robin che annuisce.

D. E a parte gli scherzi?

R. Il problema è che ormai la televisione è piena da mattino a sera di opinionologhi.

D. Opinio che?

R. Opinionologhi. Se gli opinionisti hanno una loro idea, gli opinionologhi se ne creano una alla bisogna. Sono sempre gli stessi in video da Omnibus a Lineanotte. E twittano in continuazione. Vorrei capire quando scrivono sui giornali...

D. Un po' tuttologi.

R. Mi piacerebbe che ogni tanto qualcuno su un determinato tema dicesse di non avere un'opinione precisa. Ma il maestro di tutto questo è Gianfranco Funari.

D. Funari?

R. Una volta mi presentai a una sua trasmissione su Telemontecarlo. Quella con due tribune contrapposte. Mi disse: «Te, con gli occhi azzurri mettete da sta parte». Scoprì successivamente che dovevo sostenere la tesi di chi non si fa operare da un chirurgo donna.

D. E lei che fece?

R. Gli dissi che non ero d'accordo.

D. E lui?

R. Mi rispose: «E che te frega, mettete là e inventate qualcosa. Facciamo un po' di confusione».

D. Non è cambiata molto la televisione...

R. No, Funari in questo era un maestro, un demiurgo.

Mail di Oliviero Beha a Dagospia. Caro Dago, ho seguito con molto interesse la vicenda del Consigliere Rai di ora e di allora  Antonio Verro, dal cognome e la facies di antico romano, ripresa qui da Vulpio e per interposto “Libero” da Facci. Il mio interesse non si deve alla cosa in sé, alle solite menate Rai, all’ipocrisia dilagante da sempre ecc., tutto repertorio di pessima qualità che conosco come le mie tasche fino alla noia, bensì alle reazioni polemiche allo “scoop” ritardato, a partire da quella di Santoro. Se uno non sapesse come stanno davvero le cose in un Paese orrendo di mafie, mafiette, clan e camarille, di sedicenti buoni contro cattivi dichiarati in un’interpretazione partitocratica per bande fatte di banditi nei due significati, potrebbe pensare che la vita in carriera di Santoro sia stata un autentico calvario, con qualche salita e discesa dal Golgota. Non credo che sia andata biograficamente proprio così. Ha fatto egregiamente gli affari suoi per un quarto di secolo, ha travestito ottime trasmissioni spesso di parte da impegno politico in realtà vendendo (e benissimo) una merce, in primis se stesso, è entrato e uscito da Rai e Mediaset e Parlamento europeo (non credo esattamente da “intellettuale disorganico”…), ha detto rientrando in Rai dieci anni fa che si sarebbe battuto per gli epurati e non è accaduto, adesso ritira fuori il nome di Luttazzi strumentalizzando anche il bravissimo esiliato. Va tutto bene insomma, ma forse il nostro Michele ventrale (tv di pancia…) non è proprio la figura adatta, con le carte in regola, per parlare di censura, editto o non editto bulgaro. Anzi, presumo non sappia neppure dove stia di casa, la censura, concetto relativo che viene adoperato a proprio uso e consumo di volta in volta. Se vuole, ne possiamo parlare, anche pubblicamente… In tutto questo Verro, Tarantola (e Grilli, l’allora Ministro di competenza, e Ponzellini, e la Bpm, e l’indagine “sabbiosa” della Banca d’Italia ai suoi tempi, cara Presidente? Non sono cose che stanno insieme e che nessuno racconta agli italiani distratti ?), Gubitosi e tutto il profumato presepe Rai restano sullo sfondo, come retaggio di un costume che nessuno sa o vuole rottamare… Ma per favore, almeno prudenza nell’indignazione: chi ha davvero la faccia per parlare senza essere sputtanato?

L'antisemitismo di Vauro in tribunale non esiste. Ma ci perseguita da sempre. Naso a becco e stella di Davide: nella vignetta usata la simbologia dei razzisti. I giudici lo assolvono, io lo citerò alla Corte per i diritti umani, scrive Fiamma Nirenstein su “Il Giornale”. Quando guardo la vignetta di Vauro con la mia caricatura, che di nuovo un tribunale italiano ha assolto accusando invece contro ogni logica Peppino Caldarola che ne ha denunciato il significato, penso: bravo Vauro, ha saputo compendiare tutto il significato dell'antisemitismo contemporaneo in una sola immagine. Ambiguo, polivalente, saldamente ancorato nella tradizione antisemita classica, io col naso a becco, un mostro, un essere deumanizzato, con la stella di Davide cucita come esigevano i nazisti con gli ebrei, e moderno, consapevole del fatto che basta trovare una qualche ragione popolare per odiare gli ebrei e appiccicarglielo, come quel distintivo del Pdl accanto al fascio littorio appiccicato a me. Proprio a me? Sono Fiamma? Con la mia storia di femminismo? Diritti umani? Iraniani perseguitati? Tanti libri? Tanta storia? No, sono l'ebrea di Vauro. L'antisemitismo all'Onu, forse non è un fatto molto noto, non si enuncia mai in quanto tale dopo la Shoah: nel '64 la parola «antisemitismo» non venne ammessa come riferimento nella «convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale», perchè, si disse, era un problema di intolleranza religiosa. Fra le intolleranze religiose, non fu ammessa perchè era un problema razziale. Non ci sono effetti o conseguenze nelle risoluzioni dell'Onu per gli antisemiti, perchè non esistono. Anche Vauro non è antisemita: non esistono. Ovunque l'odio è seminato da vignette come quelle di Vauro, una delle tante aggressioni antisemite che ho ricevuto nella vita. Ma io posso parlare, scrivere e viaggiare, una scorta della polizia italiana mi ha protetto per tanti anni da minacce insistenti e reiterate, ma stavolta bisogna che dica a Vauro: basta con l'incitamento. Io la citerò alla Corte europea dei diritti umani, e cercherò giustizia perché come dice Shylock, mangiamo lo stesso cibo, siamo feriti dalle stesse armi e se si punge un ebreo, forse che non sanguina? Io sanguino, quel naso è mio, quello spregio al corpo femminile nella sua vignetta è al mio proprio corpo di donna, la stella di Davide è sul mio petto, quelle ferite per evocare Frankenstein di fatto inconsciamente lei le ha disegnate su un corpo ossuto come quelli dei morti ad Auschwitz, come quelli dei miei nonni. Io so cos'è l'antisemitismo: ho scritto parecchio sull'argomento, fra cui un libro intitolato L'antisemita progressista. Non ce n'è uno che ammetta di esserlo. È dal 2008, quando Vauro stampò la vignetta sul Manifesto, che mi porto quella stella di David, la sua, e non va bene. Invece lo schiaffo è stato reiterato dalla sentenza in appello. L'antisemitismo oggi è inconsapevole, e anche giustificato, Vauro di certo mi ha messo quel fascio addosso perchè decide lui se un ebreo possa scegliere di candidarsi con il Pdl. Altri decisero a suo tempo, se poteva avere un negozio, o una cameriera cristiana, o se poteva andare a scuola con gli altri studenti, o lavorare in Banca, come mio nonno che ne fu cacciato. Anche la bambina che alle elementari mi chiese se avevo la coda non sapeva affatto di essere antisemita, lo chiedeva per curiosità. Non lo sanno quelli che mi hanno accusato di essere la capa della lobby sionista in Italia e alla Camera finché ci sono rimasta, e persino tutti quelli che mi hanno minacciato di morte. I più recenti che mi hanno preso di mira citano la mostrificazione che fa di me Vauro. Basta giuocare la battaglia sul campo contiguo, quello in cui non si parla di niente, e l'antisemitismo è un giuoco ideologico. Eppure i morti ci sono.

"La sinistra è come l'islam chi dissente è perseguitato". Il vignettista Forattini va all'attacco: "Mi hanno fatto fuori, si possono toccare tutti tranne loro", scrive Eleonora Barbieri su “Il Giornale”. Giorgio Forattini è a Parigi. «Ho casa da vent'anni, qui nel Marais, a ridosso del quartiere ebraico». Non lontano dalla redazione di Charlie Hebdo . «Io mi sono disegnato a cavallo, con la matita in una mano che regge la bandiera francese e la scritta: Allons enfants de la satyre ».

In questi giorni hanno difeso tutti la libertà di satira, in piazza è scesa anche la sinistra. Lei fa vignette da quarant'anni. Che ne pensa?

«Intendiamo la sinistra italiana?».

La sinistra italiana.

«E che cosa vuole che ne pensi? Mi hanno sempre perseguitato: puoi toccare tutti, tranne loro. Detto ciò quello che è successo è una cosa atroce, tutti sono con tutti i satirici, fra l'altro quelli di Charlie Hebdo sono di sinistra. Ma la nostra sinistra credo sia ipocrita».

Perché dice che è stato perseguitato?

«Come in Unione Sovietica, o sotto il fascismo, la sinistra si muove come un partito totalitario, dittatoriale: o sei di sinistra o sei fascista, qualunquista, blasfemo, berlusconiano. Così mi hanno combattuto, mi hanno fatto subire processi, servendosi dei giudici che sono dalla loro parte, perché non hanno davvero l'idea della satira libera».

Ha ricevuto una ventina di querele, non si sarà lamentata solo la sinistra.

«Qualche cosa dalla Dc, dal Vaticano... ma i guai sempre da sinistra. Quando Berlusconi era al governo l'ho fatto in tutti modi: non mi ha mai querelato. A Repubblica avevano paura anche a sfottere Stalin».

Il caso più celebre è quello di D'Alema.

«Da allora la mia vita è cambiata. Nel '99 feci questa vignetta sull'affare Mitrokhin. Mi chiese tre miliardi, c'erano ancora le lire. Ero a Repubblica : non mi difese nessuno».

Nessuna solidarietà?

«Macché. Li ho avuti contro. E neanche l'Ordine mi ha difeso».

Neanche un po' di solidarietà dai colleghi?

«Molti sì, ma me lo dicevano a voce. Dai vertici niente, si tirarono indietro. Ma io sono un uomo libero e per me la satira è libertà».

Quindi?

«Quindi presi e andai via. Sa, tre miliardi di danni sono come uccidere un uomo. Per fortuna l'Avvocato mi fece un contratto splendido alla Stampa . E allora D'Alema ritirò la querela».

Quindi non si è scusato?

«No, non mi sono mai scusato, per carità. E ne sono fiero. Del resto sono uno dei pochi vignettisti e satirici indipendenti, tutti sono legati ai partiti».

Ma D'Alema l'ha più incontrato?

«Una volta, per strada. Io l'ho salutato, ma lui ha tirato dritto. Comunque anche da Repubblica non mi hanno più richiamato, davo fastidio».

Prima però non aveva avuto problemi.

«Davo fastidio anche prima. A volte mi dicevano: "Questa vignetta non possiamo pubblicarla", e io: "Non ne faccio un'altra, metteteci la foto del direttore". Oppure a una certa ora Scalfari mi diceva: "Allora, hai finito questa vignetta?" e io: "Un momento direttò, non mi si è ancora asciugato il bianchetto"... Poi sono stato sostituito da gente che stava agli ordini, io non facevo mai vedere prima la mia vignetta. Il fatto è che l'Italia e gli italiani non sono abituati alla satira».

In Francia è diverso?

«Quando raccontavo quello che succedeva, qui a Parigi si mettevano a ridere. C'è totale libertà. Anche per vignette molto violente, cattive. I politici non si sono mai azzardati a toccare gli autori, solo gli islamici l'hanno fatto, perché loro non si identificano con la Francia, ma solo con l'islam. Come da noi la sinistra».

In che senso?

«Per la sinistra o sei con loro o sei il nemico e ti perseguitano. Non puoi parlare di loro, come per gli islamici non puoi parlare dell'islam».

Ma lei ha fatto vignette sull'islam?

«Sì, in passato, contro i fanatici musulmani. Le ho fatte anche sulla Chiesa, ho preso in giro il Papa, qualche cardinale si è lamentato, ma nessuna minaccia o querela. Non sono arrivate le guardie svizzere a prendermi a casa».

A chi si è ispirato fra i vignettisti?

«Jacovitti. Un maestro. Sa, io ho grande solidarietà verso i disegnatori, ma non ne ho ricevuta nessuna da parte di quelli italiani».

Con chi ce l'ha?

«Per esempio Giannelli, l'ho messo io al Corriere . Il direttore Stille mi chiamò, ma all'epoca io stavo bene a Repubblica e così gli consigliai il numero uno di quelli che lavoravano con me a Satyricon , cioè Giannelli».

E poi?

«Poi lui mi fece disegnato da balilla e io lo mandai al diavolo. Mi telefonò e gli risposi che non bisogna mai essere schiavi dei partiti, che devi essere indipendente... Poverino».

C'è più censura oggi o quando ha iniziato negli anni Settanta?

«Più oggi. Perché la sinistra ha preso il potere. Io ho iniziato tardi, a 40 anni, sono entrato con un concorso a Paese sera , poi ho iniziato a occuparmi di politica e in contemporanea a fare vignette per Panorama , per anni sotto la Dc lavoravo tranquillo, ma anche con Berlusconi. Facevo Spadolini tutto nudo... Ora vede, nel mio ultimo libro ho fatto Renzi come Pinocchio, e Napolitano è mastro Geppetto».

Perché Renzi è Pinocchio?

«Gli ha mai sentito dire cose che si sono avverate? Come dicono a Roma, pure lui nun ce capisce niente. E poi ha quel naso lì».

I politici più permalosi?

«D'Alema il massimo. Craxi solo una volta mi ha chiesto 70 milioni, ma Repubblica lì mi aveva difeso».

Spadolini?

«Noo, aveva la raccolta dei miei disegni».

Andreotti?

«Pure. Lui stesso mi sfotteva, col suo humour».

Di Pietro?

«Ah, lui non mi ha mai perdonato. Ho ricevuto anche una condanna».

È vero che vedeva in anteprima le vignette?

«Qualcuno gliele faceva avere prima, sì, e lui era anche capace di non fare uscire i giornali... Un vero democratico. Io non faccio il santo, ma sono un italiano puro: non ho mai colpito l'Italia. Amo la Patria. E per questo sono fascista? No, sono un italiano vero».

Senta, Berlinguer?

«Un altro. Ammazza se s'arrabbiava. Tremendo».

Beh, l'ha disegnato che sorseggiava il tè in salotto, durante un corteo di operai...

«Certo, certo, quello il partito non l'ha mai sopportato».

Però ha anche fatto un sacco di soldi, coi difetti dei politici.

«Sì. Ma li avrei fatti lo stesso, anche libero da minacce. Querelare è un senso di non libertà».

Anche quando c'è un insulto?

«Io non ho mai insultato. Magari ho fatto qualcosa di forte, ma ho sempre rispettato la persona. Poi io ho fatto ventimila vignette, qualche decina di querele sono niente. Ma chi le fa, ecco, non sa che cosa sia la satira, non è un uomo libero».

Il limite qual è?

«L'onestà di chi disegna. Non deve essere espressione di un movimento politico, ma di estrema libertà».

C'è qualcosa di tabù?

«Il buongusto, il fare umorismo: è sberleffo, ma mai condanna, uccisione del nemico, anche con una vignetta. Non deve essere persecuzione ma facciamoci una risata, anche su di voi».

Quando la satira non fa ridere?

«Spesso. In Francia fa ridere, ma in Italia si fa per fare politica, per affossare la parte avversa».

È militante?

«Brava. Ma la satira militante non può essere satira. C'è qualcuno che fa satira, ma sono pochi e si autocensurano. Perché se no la sinistra e i giudici ti tappano la bocca: se uno ti chiede tre miliardi di danni, è come una condanna a morte».

Non esagera? Visto quello che è successo.

«È una battuta, certo, ma è come togliere il lavoro a una persona. E poi un capo del governo che colpisce per una vignetta, che cosa farebbe in una dittatura? Perciò si assimila molto agli islamici che la pensano così, che vogliono la distruzione del nemico, la ghigliottina per chi non la pensa come loro».

È ancora amico di Scalfari?

«Io sono stato tra i quaranta fondatori di Repubblica , fu lui a chiamarmi. Ma da quando ho lasciato non ci siamo più visti. Non abbiamo litigato, ma lui non mi ha difeso e io non posso perdonarlo. È ancora vivo?».

È vero che va sempre dal parrucchiere?

«Sì, tengo molto ai miei capelli. Li porto lunghi perché mi considero un uomo del Settecento. Però ogni tanto mia moglie mi bacchetta, e allora vado a tagliarli».

Ma i vignettisti, come si dice dei comici, sono sempre tristi?

«Sì, sono molto triste. Ho anche perso mio figlio pochi anni fa, aveva cinquant'anni, ci eravamo riavvicinati. Non mi sono più tirato su. Riesco a fare le vignette, faccio qualche battuta, ma mi ha cambiato la vita. Comunque è vero, in genere i satirici non sono degli allegroni. Come il nuovo numero di Charlie Hebdo , è pieno di vignette ma è anche pieno di lacrime».

La satira? Roba da miliardari comunisti! Scrive Bruno Giurato su “Il Giornale”. La satira non ha a che vedere col dire le parolacce: pupù e pipì e pisellino e fessurina. Quella è solo (e non necessariamente) la forma dell’espressione. L’oscenità o la blasfemia non sono garanzia di buona satira, perché la satira, prima di tutto, ha a che vedere con una cosa: dire la verità. Se non dice a verità, se non svela in inedito incontrovertibile, se non apre una radura di luce tra le stecchite boscaglie del luogo comune, il lavoro del satirico è una retorica come un’altra: seriosa, doverosa, pallosa. Ed ecco che arriva un grande e vero satirico e la verità la dice, tutta. Parliamo di Maurizio Milani. Uno che usa la maschera dell’umorismo surreale (immancabilmente definito “stralunato”, che noia!), e lombardo-padano per dire verità, anche pesantissime. A Modena BUK Festival domenica prossima, viene presentato il libro Je Suis Charlie? La satira riflette su se stessa ma le viene da ridere (Sagoma Editore, pp. 128, 9,50 euro). Il volume ospita contributi da Dario Vergassola a Moni Ovadia, da David Riondino a Staino, Marco Carena, Rita Pelusio, gli Skiantos, Pietro Sparacino, Cochi Ponzoni, Max Pisu. E poi c’è lui. Milani. Che in questo testo smonta bel bello tutta la retorica del “satiro” come eroe del nostro tempo. E per fortuna che c’è lui, Milani, che, come sempre facendo di tutto per NON essere preso sul serio scrive cose come: “In Italia la satira è sempre stata in mano ai comunisti. In trent’anni di cabaret ho partecipato a diversi show in tv e in teatro e non mi è mai capitato di conoscere un autore o un produttore della Democrazia cristiana”. Oppure: “Adesso è saltato fuori il problema di quanto la satira debba essere libera. Benissimo! Bel dibattito, molto completo, che lascio volentieri ai miliardari comunisti nelle loro tenute agricole in campagna. Dove si fa tutto Ogm free. Tanto per loro il raccolto è lo 0,5% del reddito che incassano con l’indotto. Indotto fatto per anni a scherzare su Mara Carfagna o Sandro Bondi, tutte persone notoriamente pericolose per le reazioni sproporzionate che potrebbero avere”. Ed è un colpo magnifico a tutto il birignao della satira di sinistra, ai “satiri” di professione, a quelli che citano etimologie latine e Dari Fo a ogni colpo di pedale sulla cyclette del già detto. Ci voleva Milani. Uno che la verità la dice davvero. E senza nemmeno un pipì-pupù-pisellino-fessurina. Senza nemmeno una parolaccia una.

La nostra satira? Attacca Bondi, altro che martiri. Quanta ipocrisia nei comici italiani neo paladini della libertà d'espressione: sono gli stesso gli stessi che emarginano da sempre chi è diverso e non la pensa come loro, scrive Maurizio Milani su “Il Giornale”. In Italia la satira è sempre stata in mano ai comunisti. In trent'anni di cabaret ho partecipato a diversi show in tv e in teatro e non mi è mai capitato di conoscere un autore o un produttore della Democrazia cristiana, il mio partito. Il più bello e il più completo. Dicevo: tutti, dico tutti, erano e sono comunisti. Qualcuno come me si adeguava, facendo finta di essere comunista. Non per vantarmi, ma fin da ragazzo sono sempre stato falso. Oggi, poi, ancora peggio. Se posso, truffo sempre il mio simile. Adesso è saltato fuori il problema di quanto la satira debba essere libera. Benissimo! Bel dibattito, molto completo, che lascio volentieri ai miliardari comunisti nelle loro tenute agricole in campagna. Dove si fa tutto Ogm free. Tanto per loro il raccolto è lo 0,5% del reddito che incassano con l'indotto. Indotto fatto per anni a scherzare su Mara Carfagna o Sandro Bondi, tutte persone notoriamente pericolose per le reazioni sproporzionate che potrebbero avere. Non per vantarmi, ma il mio problema è tirar su mille o millecinquecento euro al mese. Senza contare che finisco per farmi compatire e sbeffeggiare nelle pubbliche mense di Milano dove sono in fila: «Guarda come si è ridotto a non fare la tessera del Pd, aveva così un bel posto alla Rai». Un altro: «Ma è un povero scemo». Io: «Avete ragione, a questo punto parlo e faccio il pentito di cabaret. Dirò tutto: come si diventa affiliati, chi c'è dietro ai comici di regime e dove finisce parte dei compensi». Che io sappia, dovrei essere uno dei primi pentiti di cabaret. E visti i tempi che corrono, credo di poter rientrare nel programma di protezione della Dia. In alternativa, potrei assicurare ai satirici di Capalbio irreversibili vuoti di memoria in cambio di cinquantamila modesti euro in nero, da consegnare entro domani a piazza Eleonora Duse, dove ho il covo. Nel frattempo sono stato giustamente scaraventato fuori dal mondo del cabaret. Per cui mi arrangio con il bracconaggio. Cosa che facevo già prima, ma come hobby. E, già che siamo in confidenza, se avete biciclette rubate, o altro che sia facile da smerciare, portatele da me, sempre a piazza Duse al 2. Dispiace dirlo qui, però a questo punto parlo e vuoto il sacco: «Sì! Sono un ricettatore». Per queste affermazioni sono stato rinviato a giudizio per auto-calunnia, che è quello che volevo; mettermi in mostra verso l'opinione pubblica ed essere nominato al Parlamento in quota gruppo misto. Ma accetto anche una candidatura nel movimento di Grillo. Certo, parlo nel mio interesse; ma come ho fatto il ruffiano una volta, potrei farlo ancora. Cioè, tradire il mandato elettorale passando alla concorrenza. Che è sempre stato il mio sogno: deludere i miei amici facendo la spia.

La satira piace alla sinistra solo se è contro la destra. La Boldrini rimprovera Virginia Raffaele: «La sua ministra Boschi è sessista», scrive Sarina Biraghi su “Il Tempo”. L’insostenibile leggerezza della satira. A sinistra. E sì, perché per la Sinistra non esiste la parità, né di genere né di satira. Come dire, gli imitatori possono essere irriverenti, inopportuni, feroci e autonomi soltanto quando il potere è a Destra. Infatti, l’imitazione fatta dall’attrice e comica Virginia Raffaele del ministro per le Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi, andata in onda martedì su Ballarò, non è stata affatto digerita, neanche dalla diretta interessata. A manifestare questo storico disagio, ieri, un’altra donna, la presidente della Camera Laura Boldrini, ospite di «In Mezzora». «Mi è dispiaciuto vedere la satira della Boschi - ha detto Boldrini - Ci sono tanti modi per fare satira, ma quando si cede al sessismo diventa altro e l’apprezzo di meno». Per la verità, rispondendo alle domande di Lucia Annunziata, Boldrini ha detto anche che in passato alcune parlamentari di Forza Italia hanno «subito dei torti» dello stesso tipo. Quanto all’imitazione di Francesca Pascale, Boldrini ha aggiunto: «Non l’ho vista ma se aveva gli stessi accenti sessisti mi sarebbe dispiaciuto». A donna Laura è semplicemente dispiaciuto, ma ai Democrat ha dato molto fastidio visto che il renziano Michele Anzaldi, segretario della commissione di vigilanza Rai, ha scritto addirittura una lettera alla presidente Anna Maria Tarantola chiedendole se l’imitazione della Boschi fosse «servizio pubblico». Si sa che le imitazioni sono sempre feroci, ma quella della bella ministra fiorentina non ci è parsa così cattiva. La Raffaele l’ha descritta come una maestrina che sa a memoria il programma di governo ma quando un giornalista le rivolge qualche domanda concreta, parte in sottofondo l’indimenticabile colonna sonora di «Un uomo e una donna» e lei si trasforma: occhioni da cerbiatta, bolle di sapone, una sirena ammaliatrice che diventa una miagolante gattina. Certo, quando si è giovani non si sopporta di essere considerate più belle che brave, ma Maria Elena deve farci il callo, proprio lei che per il giuramento al Colle sfoggiò un tailleur pantalone blu elettrico attillato con decollete tacco 12 (giusto per non passare inosservata) e, ancor prima, nella famosa riunione della Leopolda, altro tacco 12 ma leopardato. E se a Ballarò, la sua compagna di partito Alessandra Moretti rideva di gusto, quando la Raffaele imitava Francesca Pascale con tanto di Dudù in braccio, non si è alzato nessun sinistro sgomento tanto da scomodare i vertici Rai... Certo bisogna riconoscere che l’onorevole Mara Carfagna, oltre ad essere bellissima, giovane e affascinante, è anche molto sportiva considerate le battute grottesche con cui veniva bersagliata da Enrico Lucci o dalle battute maschiliste di Neri Marcorè o dalle pure offese di un’altra donna come Sabina Guzzanti... Senza parlare di Nicole Minetti o Daniela Santanchè. Va bè, diciamolo, a sinistra la bellezza è più bellezza, la bravura è più bravura, la serietà è più serietà...la sinistra è diversa nella misura in cui è superiore perché le donne belle della Destra sono «messe lì» da qualche uomo ma non sono intelligenti e preparate, invece quelle della Sinistra sono brave, preparate, impegnate, conquistano per meriti le cariche in politica e soltanto incidentalmente possono essere belle donne... però battute sulla bellezza non si devono fare. Inutile poi rilevare il doppiopesismo anche nelle reazioni alla satira sulla Boschi. Perché Anzaldi può scrivere alla Tarantola e mettere in dubbio il servizio pubblico della Rai e l’eventuale deformazione nella considerazione delle donne, però quando il centrodestra insorgeva contro la satira dei fratelli Guzzanti durante il secondo governo Berlusconi era «inopportuna», o quando Berlusconi interveniva sugli attacchi, sempre sulle reti del servizio pubblico, di Biagi, Luttazzi e Santoro allora era «censura», era «editto bulgaro». Infine, il dem Anzaldi, sempre nella missiva alla presidente Rai, non risparmia una lezioncina sulla satira che «normalmente, secondo la definizione fatta propria anche dalla Cassazione, punta a “castigare ridendo mores”, ovvero a mettere in risalto in maniera comica caratteristiche esecrabili e discutibili di un personaggio pubblico. In questo caso la colpa del ministro sarebbe quella di essere affascinante?». E allora, mentre oggi si voterà la parità di genere nella riforma della legge elettorale, i comici sono avvertiti: le imitazioni soltanto di donne brutte altrimenti, di uomini.

Renzi, Grillo, Travaglio, Salvini: Ecco a voi i “nuovi Farinacci”, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il capo del quarto ( o terzo) partito italiano, Matteo Salvini, l’altro ieri non è andato al colloquio con il presidente della Repubblica e ha motivato questa sua (legittima) decisione con una frase offensiva contro Mattarella (”Cosa dovevo andare a chiedergli, il numero di telefono del suo parrucchiere?”). Il Presidente del Consiglio chiama gufi i dirigenti del suo partito che esprimono dissenso nei suoi confronti, e dopo una riunione della Direzione del Pd nella quale ritenne di aver sconfitto Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, commentò esprimendosi in questi termini: ”Lo ho asfaltato”. Volete che citi qualche dichiarazione di Marco Travaglio? Non c’è bisogno, credo, basta dire che il suo giornale una volta ha pubblicato un editoriale intitolato (”La repubblica delle troie”) e che lui abitualmente usa polemizzare storpiando il nome del suo interlocutore, o affibbiandogli un soprannome insolente. Di Grillo cosa posso dirvi? Che chiama Berlusconi il nano, Bersani lo chiamava, mi pare, Zombi o Gargamella, Renzi lo chiama ”bimbo-minchia”. Fermiamoci qui. Anche perché queste poche citazioni non servono in alcun modo a rappresentare il campionario vastissimo, dilagante, dell’uso dell’offesa, camuffata da sberleffo, per sostituire la polemica politica di sostanza. Io dico: sostituire. Non dico: rafforzare. La durezza dello scontro politico non è una novità, esisteva già nella prima Repubblica, quando la battaglia si inaspriva e i dissensi politici si allargavano e si drammatizzavano. Però, allora, lo spunto era il dissenso, la diversità di opinioni su una grande questione, e l’offesa era un di più. Ora l’offesa è la sostanza e il dissenso sfuma, non si vede o quantomeno è secondario. Mi ricordo, trent’anni fa, fu Claudio Martelli, educato filosofo milanese, a rompere le righe e usare il termine ”neuro-comunismo”(al posto di ”euro-comunismo”) per insultare Enrico Berlinguer. E successe il finimondo, perché fu considerato uno strappo alla buona educazione politica. Martelli lo fece nel corso di un intervento in Parlamento mentre era in corso un ostruzionismo del Pci contro il taglio della scala mobile che durò tre mesi e si concluse solamente, il 7 giugno del 1984, perché Berlinguer fu colpito da un ictus che poi ne provocò la morte. Lo scontro era feroce: ma su un tema sociale, non sulla ricerca dell’urlo, della clamorosità, della ferocia, dell’esaltazione dell’odio come strumento per radunare le proprie truppe. Anche l’ostruzionismo del Pci era uno strumento per radunare le truppe, ma non sull’adesione a un’invettiva bensì sulla difesa di un interesse di gruppo (di classe, si diceva allora) e cioè sul terreno del più puro e drammatico scontro sociale. La ”beatificazione” della volgarità, del trivio, del bullismo estremo, come metodo di lotta politica è invece una eredità del fascismo. C’era un famoso gerarca, che si chiamava Roberto Farinacci, origini popolari e poi breve carriera giornalistica in alcuni giornali locali prima socialisti e poi fascisti, che veniva definito dai suoi stessi camerati ”Farinacci il selvaggio”, era uno specialista in questo tipo di polemica politica. Annientare gli avversari, colpire basso, senza riguardi, puntare all’umiliazione, alla demolizione dell’interlocutore. E poi sorridere, e chiamare l’applauso del circo dei propri sostenitori. Salvini, Grillo, Travaglio e vari altri giornalisti, lo stesso Matteo Renzi, amano questo agonismo politico. Ieri il premier ne ha fatta un’altra. Ha detto che presto l’Italia supererà la Germania come potenza industriale, e diventerà la prima potenza industriale d’Europa. Voi sapete che Mussolini dichiarò: «Spezzeremo le reni alla Grecia». E che quella frase infelice (anche perché l’Italia in Grecia finì con le reni rotte) è diventata un po’ il simbolo della spacconeria politica idiota. Beh, a dire il vero aveva più probabilità Mussolini di vincere la guerra con la Grecia che Renzi di portare l’industria italiana a superare quella tedesca. Lo stile però è quello. Considerare la politica un campo nel quale si fa spettacolo, vince chi recita meglio. E questa scelta porta all’imbarbarimento del linguaggio, che è un imbarbarimento di sostanza. L’imbarbarimento prende il posto dello scontro tra visioni diverse, o dello scontro di classe, o della battaglia ideologica. Non c’è niente da fare, torna il mito di Farinacci. Sgrammaticato, un poco ignorante, digiuno della politica vera, ma aggressivo e capace di fare dell’aggressività la bandiera del fascismo. Io non credo che in Italia esista un pericolo fascista. Altre volte ho polemizzato contro la retorica antifascista, che è stata per settant’anni lo scudo dietro il quale la sinistra ha coperto le sue difficoltà politiche, e che ha usato per ricucire trame di unità quando era più divisa. Penso che quell’antifascismo, spesso illiberale, sempre retorico, militaresco, blindato, sia qualcosa da buttar via. Pericoloso, perché è un antifascismo che scimmiotta il fascismo. Quello del Pd, o dei centri sociali, è lo stesso. Oggi nella società ci sono tanti e diversissimi ”semi” illiberali, autoritari, razzisti, che attraversano come una lunghissima cicatrice tutto il campo politico, dalla sinistra estrema a Casapound. Senza distinzioni profonde. Condizionano il pensiero e il senso comune di partiti e di larghi ceti professionali e sociali, dalla borghesia al proletariato, dalla magistratura, alla chiesa, alla scuola, all’intellettualità. Dove mi pare che il fascismo – lo spirito di quello che a me sembra il fascismo moderno – emerge con più chiarezza è proprio in questo linguaggio della ”demolizione” e dell’odio. Farinacci aveva usato l’invettiva triviale – in parte degradando alcuni temi dannunziani o futuristi – con uno scopo rivoluzionario. Riteneva che quel linguaggio spezzasse luoghi comuni, rovesciasse tabù, potesse accompagnare un fortissimo rivolgimento sociale. ”Sparava sul quartier generale”, come più tardi fecero gli adepti di Mao Tse Tung nella rivoluzione culturale cinese. Il risultato – in un caso e nell’altro – fu la vittoria di chi odiava la libertà, la dignità, la storia. L’estrema conseguenza di quelle lotte triviale furono i falò di libri. Oggi non è molto diverso. Grillo e Travaglio, e con loro Salvini dicono che stanno radendo al suolo il quartier generale. Renzi dice che lui sta rottamando. Lo so che non lo sanno di esser fascisti. Lo so che molti possono ritenere che questo non sia un male. Io dico solo questo: che assomigliano tutti, maledettamente, a Farinacci ( per il quale, peraltro, ho molto rispetto: perché morì, eroicamente, fucilato senza processo da un tribunale del popolo).

Poi con questa cultura di sinistra tutto ha un altro colore.

Gino Paoli, i soldi in nero per la Festa dell'Unità (e quel fermo in frontiera in Svizzera), scrive “Libero Quotidiano”. Ombre (nere) su Gino Paoli, sospetto "furbetto" fiscale, accusato di evasione per aver trasferito un vero e proprio tesoretto in Svizzera. E nel day-after dello scandalo, ecco arrivare altri particolari succulenti sulla vicenda. Tra questi, uno forse lo è più degli altri: il cantautore avrebbe intascato soldi (in nero) per partecipare alle feste dell'Unità, quelle della sinistra per intendersi. E non solo: alla frontiera svizzera è stato fermato mentre cercava di rientrare in Italia con una eccessiva (e sospetta) quantità di contanti, e per questo è stato multato dai doganieri. Gino Paoli, 81 anni, è finito nell'occhio di ciclone. Lui tenta la difesa tramite il suo avvocato, Daria Pesce, che spiega: "E' assurdo che questa vicenda sia finita in pasto al pubblico, e comunque sono tutte balle e lo dimostrerò". Ma tant'è. L'attuale presidente della Siae nonché ex deputato del Partito comunista italiano, secondo la procura di Genova, in Svizzera avrebbe un conto da circa 2 milioni di euro. Mica bruscolini. Come detto, una parte consistente di questo denaro deriverebbe dai compensi ricevuti in nero per concerti svolti in tutta Italia e alle feste dell'Unità. Ma sui pagamenti in nero dei "compagni" non ci sono soltanto i sospetti. Già, perché ci sono quelle che assomigliano a granitiche certezze. Lo stesso Paoli, infatti, ha spiegato che all'epoca - tra il 2000 e il 2010 - era stato "costretto" ad accettare dei pagamenti in nero "alle feste dell'Unità, e adesso - aggiunge - quei soldi vorrei riportarli indietro". Parole e musica che emergono da una telefonata intercettata nei primi mesi del 2004. All'epoca il cantautore non era intercettato, ma lo era invece Andrea Vallebuona, commercialista di cui Paoli era cliente, finito in manette a maggio per truffa e riciclaggio di soldi proprio in Svizzera. La vicenda-Paoli si arricchisce poi con l'episodio dello scorso dicembre: il cantautore è stato fermato dai finanzieri a uno dei valichi di confine con la Svizzera. Stava tornando in Italia, ed è stato perquisito. Il risultato? Sono state trovate parecchie banconote. Troppe banconote, troppe almeno rispetto a quanto è consentito dalla legge: secondo le indiscrezioni si trattava di diverse migliaia di euro. Così è scattata una segnalazione fiscale e una sanzione pecuniaria.

Da Bandiera rossa ai fondi neri, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. La Guardia di finanza ha appurato, dicono, che Gino Paoli ha portato in Svizzera due milioni di euro: evasione fiscale della più bella specie. In parte queste entrate occultate a Lugano, ripetono, si riferiscono a pagamenti in nero per esibizioni alle Feste dell'Unità. La nostra solidarietà va a Gino Paoli e alle Feste dell'Unità. Perché? Lo ha spiegato giovedì sera a Virus , intervistato da Nicola Porro, Vincenzo Visco, il famoso ministro delle Finanze di Romano Prodi. Ha detto Visco: «L'evasione fiscale è chiaramente di destra, perché le tasse servono a finanziare i servizi pubblici, e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». Chiaramente, il ragionamento non fa una grinza, anzi un Grinzane. Per questo solidarizziamo: Gino Paoli e il giornale fondato da Antonio Gramsci, con relativa festa, sono dei nostri, quinte colonne in territorio nemico, pronti a sacrificarsi agli ideali dell'evasione fiscale, che com'è notorio sono la nostra bandiera, espressione della nostra civiltà. Avevo a dire il vero già vissuto un'esperienza personalmente molto istruttiva un paio di decenni fa, andando per una sera a bere birra al Leonkavallo, il centro sociale guidato allora dal mio quasi omonimo Daniele Farina, attuale deputato anti-evasione di Sel. La bionda era buona, la scura meno, ma con il cavolo che vidi l'ombra di uno scontrino fiscale. Sono cose borghesi. Imparai allora una legge molto semplice e che è confermata dalle testimonianze di questi giorni: l'evasione fiscale è di destra, per dirla come Visco, «chiaramente di destra», ma gli evasori sono chiaramente di sinistra. Sono arrivato a maturare l'idea che sia una perfida astuzia dei (...)(...) compagni. Si noti: l'evasione di Gino Paoli e della Festa dell'Unità è del 2008. Chi andò allora al governo? Berlusconi. Dunque una forma di lotta politica antiberlusconiana poteva benissimo essere quella di incrementare l'evasione fiscale per darne la colpa a Silvio. Questa è pura dialettica marxista. O forse, andando alle purissime origini del marxismo-leninismo, bisogna risalire alla fase svizzera del bolscevismo. Quando Parvus e Stalin, al tempo in cui Lenin risiedeva lì, accumularono fondi neri per la rivoluzione nei forzieri delle banche di Zurigo, grazie a rapine, grassazioni finanziarie e matrimoni con ricche ereditiere. Così forse Gino Paoli, di cui si ricorda l'esperienza di deputato comunista, naturalmente indipendente. Esperienza che lo ha accomunato a Corrado Augias, ora anche lui - sia chiaro, da presunto innocente - accusato di essere golosissimo di prebende in nero dall'organizzatore del premio Grinzane-Cavour. Il rosso ama molto il nero, specie se è un artista, ed è una buona premessa per la riconciliazione nazionale. Ci resta una domanda. Chi sono stati, dagli anni dei Ds a quelli del Pd e fino al 2008 (anno del presunto transito di talleri da Genova alla Svizzera), i direttori dell' Unità la quale dava il suo bel nome alle sobrie feste dove girava allegro il nero tra le bandiere rosse? Ce ne sono tre: Furio Colombo fino al 2004, poi Antonio Padellaro fino ad agosto del 2008, quindi Concita De Gregorio. Idea: siete giornalisti ancora più famosi di allora. Mettete su una bella inchiesta su come si è costruito e occultato il falso in bilancio, sfruttando come testimonial le vostre facce di certo pulitissime? Domandatevi come mai quello che secondo Gino Paoli era un sistema a cui era impossibile sottrarsi è invece sfuggito persino al fiuto sgamatissimo dei vostri reporter così abili a prendersela con gli idraulici, i commercianti e i piccoli imprenditori. Un mito intoccabile, le Feste dell'Unità. Quando dopo la fine dei Ds e la nascita del Pd qualcuno minacciò di sopprimerle, cambiandone il nome, intervenne proprio Antonio Padellaro. Scrisse un memorabile panegirico in difesa della loro purezza, condita proletariamente di grasso e sudore colanti da salsicce e da militanti. Dopo aver ovviamente citato come minimo un premio Nobel, nel nostro caso per la precisione Elias Canetti, sentenziò: «Le Feste dell'Unità sono le Feste dell'Unità». Una delle poche verità, si suppone, apparse su quelle pagine dalla fondazione gramsciana. Aggiunse che non si può «cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone». Qualcosa resta nel cuore di milioni di persone; qualche milione resta nel conto svizzero di alcuni più persone degli altri. Ecco, Visco parla anche di falso in bilancio a Virus . Sostiene che «era preoccupatissimo fino all'altro ieri», ma poi con «l'allentamento del Patto del Nazareno» è più tranquillo. In che senso, scusi? Qualcuno lo informi: evasione è ideale di destra, ma falso ed evasione sono pratiche di sinistra. La morale? Come scrisse Montanelli: «Ho conosciuto molti mascalzoni che non erano moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse un mascalzone».

Il M5S chiede le dimissioni di Gino Paoli, Grillo si scusa e lo difende, scrive “Il Secolo D’Italia”. «Premetto che Gino Paoli è mio amico e quindi potrei essere considerato poco obiettivo. Ma a questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, per alcunché, che mi risulti, io non ci sto! I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi». Così Beppe Grillo sul suo blog, si schiera col cantante indagato per evasione fiscale, che a quano pare ha sostenuto di essere stato “costretto” a incassare soldi a nero alla feste dell’Unità. Grillo è dalla sua parte: «Io non ho mosso i miei contro Gino Paoli. Aspetto la magistratura prima di emettere qualunque giudizio, alla faccia degli sciacalli dell’informazione». Il leader del movimento 5 stelle in mattinata aveva chiamato Paoli “per scusarsi con lui dopo gli attacchi del Movimento 5 stelle”. Lo ha riferito il legale del cantautore Andrea Vernazza. Nella giornata di ieri il gruppo alla Camera del M5s aveva infatti diffuso un comunicato nel quale si chiedeva a Paoli di “valutare seriamente le dimissioni dalla sua carica” alla presidenza della Siae. Una mossa non gradita a Grillo, che oggi spiega: «Il Secolo XIX ha pubblicato un titolo di condanna che non ammette replica: “Maxi evasione in Svizzera, blitz della Finanza a casa di Gino Paoli” dal quale un lettore distratto evince che Paoli avrebbe evaso senza alcun dubbio cifre persino superiori al Costituzionalista di Arcore condannato per truffa fiscale», scrive Grillo che parla di “un articolo costruito su delle ipotesi che si para il culo con l’uso dei condizionali”. «Sbatti il mostro in prima pagina. Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà?». Grillo continua: «Il Secolo XIX si sdegna per “la mancanza di rispetto dell’amico Beppe Grillo. Ieri il Movimento 5 Stelle che ha chiesto le dimissioni di Paoli da presidente della Siae. La fretta con la quale Grillo ha mosso i suoi, però, è sintomo di un giustizialismo cinico, per nulla democratico”. Io – scrive però il leader M5s in un post che si conclude con “Sapore di sale” – non ho “mosso i miei” contro Gino Paoli.

Beppe Grillo difende Gino Paoli: "E' un mio amico, non si massacra così un ottantenne", scrive “Libero Quotidiano”. "Io non ci sto". Beppe Grillo affida a un post sul suo blog la difesa di Gino Paoli, finito nell'occhio del ciclone per una presunta evasione fiscale milionaria. "Premetto che Gino Paoli è mio amico da molti anni e che spesso le nostre famiglie si incontrano vivendo nella stessa zona di Genova. Quindi potrei essere considerato poco obiettivo", scrive il leader del Movimento Cinque Stelle. "Ma a questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, per alcunché, che mi risulti, io non ci sto!". Nel suo articolo, dal titolo #SaporeDiSale, Grillo denuncia: "I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi in alcun modo". "Il Secolo XIX - prosegue Grillo - ha pubblicato un titolo di condanna che non ammette replica: 'Maxi evasione in Svizzera, blitz della Finanza a casa di Gino Paoli' dal quale un lettore distratto evince che Paoli avrebbe evaso senza alcun dubbio cifre persino superiori al Costituzionalista di Arcore condannato per truffa fiscale. Nell’articolo si legge 'Le Fiamme gialle stanno indagando su una presunta maxi evasione in Svizzera'. Quindi per ora 'l’evasione è presunta'. Continuiamo: 'Paoli risulta indagato: a metterlo nei guai sarebbero alcune intercettazioni di conversazioni avvenute con il suo commercialista'. Quindi 'sarebbero', che in italiano vuol dire forse che si, forse che no. Poi in una sola frase che vuole essere di condanna senza appello si introducono ben tre dubbi amletici: 'Secondo l’accusa il cantautore genovese (che attualmente ricopre la carica di presidente della Siae) avrebbe trasferito nel 2008 due milioni di euro all’estero, si ipotizza in Svizzera' Secondo l’accusa a cui si potrebbe ribattere il contrario scrivendo 'Secondo la difesa', 'avrebbe trasferito' e dagli con il condizionale. Paoli ha trasferito illegalmente i soldi o no? E infine la perla: 'si ipotizza in Svizzera', ma per questo si potrebbe ipotizzare qualunque posto nel mondo, per esempio dove hanno trasferito (qui senza condizionale) soldi pubblici i partiti. L’immagine che si vuole traferire", prosegue Grillo, "è quella di Paoli 'spallone' con un sacco pieno di euro che valica le Alpi, magari di notte con la luna piena. Nell’articolo è compresa anche una ricca fotogallery della visita dei finanzieri e giornalisti vari a casa di Paoli e poi un’altra coppia sensazionale di condizionali nel resto dell’articolo: 'L’evasione fiscale, secondo gli investigatori, ammonterebbe quindi a circa 800 mila euro e non sarebbero stati dichiarati nel 2009'.'L’evasione fiscale ammonterebbe ... che non sarebbero'". Secondo Grillo, "un articolo costruito su delle ipotesi che si para il culo con l’uso dei condizionali. Sbatti il mostro in prima pagina. Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà? Il Secolo XIX si sdegna per 'la mancanza di rispetto dell’amico Beppe Grillo. Ieri il Movimento 5 Stelle che ha chiesto le dimissioni di Paoli da presidente della Siae. La fretta con la quale Grillo ha mosso i suoi, però, è sintomo di un giustizialismo cinico, per nulla democratico". Io non ho "mosso i miei" contro Gino Paoli. Come ho scritto, aspetto la magistratura prima di emettere qualunque giudizio, alla faccia degli sciacalli dell’informazione. Sapore di sale".

Due pesi e due misure. Beppe Grillo difende Gino Paoli, furia del M5s: e il post sparisce dal blog, scrive “Libero Quotidiano”. Il post di Beppe Grillo con il quale difendeva Gino Paoli è sparito dal suo blog. Il post scritto dal leader M5S per difendere l'amico indagato con l’accusa di aver evaso il fisco, non è più visibile in home page né tantomeno nei link accessibili dalla colonna sulla destra. È possibile leggere la difesa di Grillo tramite apposita ricerca sul blog, ma il post non è più visibile agli internauti che aprono beppegrillo.it. Una mossa probabilmente dettata dall'esigenza di smorzare le polemiche degli attivisti che sotto il post lo avevano attaccato accusandolo di usare due pesi e due misure. "Tu hai espulso per molto meno", gli ricorda un militante con un commento sotto l'artico contro gli sciacalli dell’informazione' che sbattono il mostro in prima pagina. Un altro sottolinea che "difendere gli amici o attaccarli prima della certezza del reato a mio parere è sbagliato". Un altro dice perentorio: "No. No agli amici degli amici. L’onestà deve andare di moda, anche se i disonesti li conosciamo di persona". C’è chi è ancora più tranchant: "Grillo ma cosa stai dicendo? Ora siccome è tuo amico lo difendi? Stai prendendo una bella cantonata". E chi senza mezzi termini scrive: "Mi stai disgustando, e pensare che ti ho votato". E ancora, chi sarcastico spiega: "Anch’io vorrei spezzare una lancia a favore di un mio caro amico, Pepp’ò stuort, anche lui di 80 anni ed anche lui delegittimato da uno Stato che gli rema contro. I condizionali, i congiuntivi e bla, bla, bla...". Un altro attivista M5S attacca: "Beppe, a rischio di essere da te accusato di invecismo, ti dirò che invece ci dovresti proprio stare, anche se davvero si trattasse di gioco al massacro! È vero o non è vero che il M5S ha chiesto le dimissioni di Paoli dalla presidenza SIAE?! È vero! E allora?! Allora non dire che non ci stai quando ci sei già stato!". Un alto punta il dito: "Se ha rubato, e penso che lo abbia fatto, amico di Grillo o no è un ladro come i politici i vari merdosi pieni di soldi. Se non lo ha fatto, la verità uscirà, il Movimento non protegge gli amici di Grillo o amici di altri se ha rubato in galera". Anche perchè, come scrive un altro militante 5 stelle, "chi evade con intenzione e volontà le tasse è un ladro, non importa quanto. Chi protegge un ladro è un complice. Chi ruba un pezzo di pane per non morire di fame è un disperato, e molto probabilmente lo è proprio per colpa dei primi due". Tra i pochi commenti che si schierano al fianco di Grillo, invece, c’è chi se la prende con il giornalismo che "ormai in Italia è tutta una farsa, scrivono sempre per ipotesi, tanto se dopo la persona è innocente i giornalisti se ne fregano. Io da 5 anni non compro nessun giornale". E c’è chi fa dietrologia: "Gino Paoli ha commesso il gravissimo errore di aver detto, durante un’intervista recente, di condividere tutto ciò che dice Grillo. La stampa di regime non poteva non fargliela pagare". O anche: "Insomma anche Tiziano Ferro e la Giannini e chissà quanti altri hanno problemi con il fisco... Ho l’impressione - è la tesi - che siano 'bombe' mediatiche per distrarre l’opinione pubblica dal disastro renziano".

CINQUE STELLE CADENTI. Beppe Grillo fa il garantista Ma solo con gli amici. Il comico assolve Paoli ma condanna gli altri, scrive  Alberto Di Majo su “Il Tempo”. Ha chiesto le dimissioni di tutti. O quasi. Non ha mai guardato in faccia nessuno. Dal presidente della Repubblica (Napolitano) in giù. Non parliamo poi degli indagati. Li ha condannati su due piedi, sul suo blog o in Parlamento. Non ha perdonato nemmeno i «suoi»: ha espulso al volo dal MoVimento i consiglieri regionali finiti nelle inchieste sulle presunte spese pazze dei gruppi politici. Ben prima che le indagini finissero. Eppure stavolta, Beppe Grillo si scopre, improvvisamente, garantista. Tanto da spiazzare gli stessi esponenti del MoVimento. Di fronte a Gino Paoli, indagato per evasione fiscale, il comico è costretto a smentirsi da solo. L’ammette lui stesso all’inizio del suo post: «Premetto che Gino Paoli è mio amico da molti anni e che spesso le nostre famiglie si incontrano vivendo nella stessa zona di Genova. Quindi potrei essere considerato poco obiettivo». Poi aggiunge: «A questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, per alcunché, che mi risulti, io non ci sto! I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi in alcun modo». Ovviamente se la prende con i giornali: «Il Secolo XIX ha pubblicato un titolo di condanna che non ammette replica: "Maxi evasione in Svizzera, blitz della Finanza a casa di Gino Paoli" dal quale un lettore distratto evince che Paoli avrebbe evaso senza alcun dubbio cifre persino superiori al Costituzionalista di Arcore condannato per truffa fiscale. Nell’articolo si legge "Le Fiamme gialle stanno indagando su una presunta maxi evasione in Svizzera". Quindi per ora "l’evasione è presunta". Continuiamo: "Paoli risulta indagato: a metterlo nei guai sarebbero alcune intercettazioni di conversazioni avvenute con il suo commercialista". Quindi "sarebbero", che in italiano vuol dire forse che sì, forse che no». Ma tutte queste precisazioni (giuste, visto che «indagato» non significa «condannato») perché Grillo non le ha mai sollevate per i politici che, negli anni, ha preso di mira? Il comico attacca: «Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà?». E chi risarcirà i politici additati come «mafiosi» o «corrotti» da lui e dai 5 Stelle (ultimo il ministro dell’Interno Alfano) senza che siano state emesse le sentenze? O chi risarcirà gli ex 5 Stelle cacciati perché indagati? «Aspetto la magistratura prima di emettere qualunque giudizio, alla faccia degli sciacalli dell’informazione». In fondo, meglio tardi che mai.

Evadere sarà roba di destra ma gli evasori sono di sinistra. Visco spara sui moderati, ma dovrebbe guardare in casa propria. In quanti hanno avuto guai con le tasse, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. «Le tasse servono a finanziare i servizi pubblici e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». L'ex ministro dell'economia, Vincenzo Visco, in un'intervista concessa a Virus giovedì scorso, ha riproposto la propria personale teoria sociologica (che poi è la stessa di tutti coloro che hanno il cuore a sinistra e il portafogli dall'altra parte): «l'evasione è di destra». Senza se e senza ma, per Bacco. A sentir queste parole parrebbe di capire che la propensione a evadere sia un correlato genetico dell'uomo di destra. Esempio fulgido ne sarebbero i veneti. «Un popolo per natura antistatalista», ebbe a dire nel 2007 l'inventore del Grande Fratello fiscale che ficca il naso nel nostro conto in banca e in tutte i meandri della nostra vita. Ma il social-moralismo di Visco e dei suoi fans è una brutta bestia: l'etica e l'estetica (come la fisica) si fondano su schemi e tesi soggettive che l'esperienza spesso si incarica di smentire. E questo è il caso del nostro ex ministro che ha parlato proprio nel giorno nel quale a Gino Paoli è stata contestata una presunta evasione fiscale di 800mila euro per aver trasferito 2 milioni di euro in Svizzera senza dichiararlo. Le ironie sul web si sono sprecate (tipo «Il cielo in una banca, quattro amici al bar e due milioni in Svizzera») nei confronti dell'attuale presidente della Siae nonché ex deputato Pci che poi s'è giustificato pure affermando «alle feste dell'Unità ero costretto a prendere i soldi in nero» e, dunque, voleva rimpatriare i capitali non scudati in maniera regolare. Ecco, basterebbe già questo forse per dimostrare che un'icona della musica italiana e santino della sinistra (come tutta la scuola cantautorale genovese) non sia poi moralmente e geneticamente diverso da tutti gli altri. Però, se si analizzano alcuni fatti di cronaca più o meno recenti, non è che nelle citazioni si ritrovino solo personaggi con la tessera di Forza Italia o della Lega Nord negli elenchi, come Visco vorrebbe darci a intendere. Tornando indietro di qualche giorno, nelle dichiarazioni dell'inventore del Premio Grinzane Cavour, Giuliano Soria, emerge uno spaccato non proprio edificante del rapporto tra sinistra politico-intellettuale e il vil danaro. «Ho sostenuto l'allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha dichiarato ai giudici della Corte d'Appello aggiungendo che la ex presidente della Regione Mercedes Bresso «lo usava per le sue attività». Soldi per tutti giornalisti, attori e artisti. «Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace», ha aggiunto specificando che «partivo per Stresa con 100mila euro per gli attori», tra i quali viene citata Stefania Sandrelli, oltre che ex compagna di Gino Paoli nonché attiva partecipante ad alcune iniziative di Ds e Margherita. Tutti coloro che sono stati citati da Soria hanno respinto al mittente le accuse definendole calunnie. Sarà il magistrato a stabilire e ad accertare. Ma non si può non rilevare come il governatore piemontese, Sergio Chiamparino, abbia una storia tutta interna alla sinistra. E così pure per Corrado Augias che ogni giorno su Repubblica offre ai lettori la sua Weltanschauung. A proposito di Repubblica. Al gruppo Espresso, del quale è presidente la tessera numero uno del Pd Carlo de Benedetti, è stata contestata una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Un po' troppo per un editore che in tutti questi anni ha imputato a Silvio Berlusconi di aver corrotto la morale degli italiani. Ma, si sa, in Italia c'è chi è «inagibile» e chi invece ha la fortuna di battere strade meno impervie. Eppure per lanciare una fatwa bisognerebbe essere sopraffini esegeti, ma probabilmente nei testi sacri dell'Ingegnere manca qualche pagina. Idem per il direttore del quotidiano di Largo Fochetti, Ezio Mauro, «pizzicato» qualche anno fa a pagare parzialmente in nero (circostanza mai smentita) un immobile a Roma. Anche il noto giornalista utilizza spesso toni moraleggianti. Più che di etica della sinistra si potrebbe parlare di etica luterana. Pecca fortiter sed crede fortius , diceva l'eretico tedesco, ossia «Pecca fortemente, ma credi con ancora maggior vigore». Basta strologare sulla destra e si è perdonati. Qualche atto di contrizione in più dovrà recitarlo l'ex governatore sardo ed europarlamentare piddino, Renato Soru, alias Mister Tiscali. All'imprenditore, in quanto presidente del gruppo tlc, è stata attribuita una presunta evasione su un'operazione di prestito con una controllata britannica. Il dibattimento inizia il 6 marzo, ma intanto sul buon Soru pende una cartella Equitalia da 9 milioni dopo aver disatteso un accordo con il fisco. Lo dicevamo all'inizio, essere di «sinistra» in Italia è come avere uno speciale passaporto per l'oblio di tutto ciò che non è bellezza, rigore, solidarietà, misura, amore per il prossimo, impegno. Vale per Lorenzo «Jovanotti» Cherubini, referente ideologico del veltronismo che nel 1999 patteggiò una condanna per il reato di frode fiscale con un'ammenda di 1,2 milioni di vecchie lire: meno di 600 euro per chiuderla con un'omessa dichiarazione di circa ventimila euro. «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Chissà se l'avrà cantata anche Pierino Tulli, imprenditore romano a capo di un gruppo di cooperative al quale è stata contestata una maxievasione da 1,7 miliardi. E dire che Veltroni lo voleva presidente della Lazio al posto di Claudio Lotito.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

Il testo di “Bella Ciao”.

Una mattina mi son svegliato,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

Una mattina mi son svegliato

e ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

O partigiano, portami via,

ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E se io muoio da partigiano,

tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E seppellire lassù in montagna

sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E le genti che passeranno

Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

«È questo il fiore del partigiano

morto per la libertà!»

I testi di Faccetta nera e Giovinezza che mai faranno cantare a scuola.

FACCETTA NERA

Se tu dall'altopiano guardi il mare,

moretta che sei schiava tra gli schiavi,

vedrai come in un sogno tante navi

e un tricolore sventolar per te.

Faccetta nera, bell'abissina

aspetta e spera che già l'ora s'avvicina

quando saremo vicino a te

noi ti daremo un'altra legge e un altro Re.

La legge nostra è schiavitù d'amore

il nostro motto è libertà e dovere

vendicheremo noi camice nere

gli eroi caduti liberando te.

Faccetta nera, bell'abissina...

Faccetta nera, piccola abissina,

ti porteremo a Roma liberata

dal sole nostro tu sarai baciata

sarai in camicia nera pure tu.

Faccetta nera sarai romana,

la tua bandiera sarà sol quella italiana,

noi marceremo insieme a te

e sfileremo avanti al Duce, avanti al Re.

GIOVINEZZA testo del 1922

Su, compagni in forti schiere,

marciam verso l'avvenire

Siam falangi audaci e fiere,

pronte a osare, pronte a ardire.

Trionfi alfine l'ideale

per cui tanto combattemmo:

Fratellanza nazionale

d'italiana civiltà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Non più ignava nè avvilita

resti ancor la nostra gente,

si ridesti a nuova vita

di splendore più possente

Su, leviamo alta la faccia

che c'illumini il cammino,

nel lavoro e nella pace

sia la vera libertà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Nelle veglie di trincea

cupo vento di mitraglia

ci ravvolse alla bandiera

che agitammo alla battaglia.

Vittoriosa al nuovo sole

stretti a lei dobbiam lottare,

è l'Italia che lo vuole,

per l'Italia vincerem.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Sorgi alfin lavoratore

giunto è il dì della riscossa

ti frodarono il sudore

con l'appello alla sommossa

Giù le bende ai traditori

che ti strinsero a catena;

Alla gogna gl'impostori

delle asiatiche virtù.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà 

GIOVINEZZA testo successivo

Salve o popolo di eroi,

salve o Patria immortale,

son rinati i figli tuoi

con la fe' nell'ideale.

Il valor dei tuoi guerrieri

la virtù dei pionieri

la vision dell'Alighieri

oggi brilla in tutti i cuor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

del Fascismo è la salvezza per la nostra libertà.

Dell'Italia nei confini

son rifatti gli Italiani,

li ha rifatti Mussolini

per la guerra di domani

Per la gloria del lavoro

per la pace e per l'alloro

per la gogna di coloro

che la Patria rinnegar.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

I poeti e gli artigiani

i signori e i contadini,

con orgoglio di Italiani

giuran fede a Mussolini.

Non v'è povero quartiere

che non mandi le sue schiere,

che non spieghi le bandiere

del fascismo redentor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Bella Ciao. A 4 anni. Stamattina sono andato alla festa di fine anno dell’asilo di mio figlio qui a Milano, scrive Nicola Porro. Ha quattro anni e come i suoi coetanei ha indossato una maglietta colorata. Mi siedo e ascolto i cori che fanno le diverse classi: canzonette regionali rappresentative dell’unità d’Italia. Il tema generale erano i 150 anni dell’Italia e i bambini erano vestiti con magliette che formavano il tricolore. La recita va avanti con un repertorio di classici: Va pensiero, il Piave. E finalmente, si fa per dire, arriva Bella ciao. Si finisce poco dopo con l’inno d’Italia. Vi devo dire che non è mi è piaciuta. Che razza di scuola insegna ad un bambino di 4 anni, Bella Ciao?

Polemiche alle elementari di Porta Nuova sulla decisione di far cantare agli alunni un ritornello ispirato all' inno partigiano. Bella ciao a scuola. «E noi disertiamo la festa». Alcuni genitori minacciano di boicottare la recita di fine anno. Il preside: non è un canto sovversivo, scrive Sacchi Annachiara su “Il Corriere della Sera”. Canteranno in coro « Scuola ciao » . Per salutare i bambini di quinta elementare e dare l' arrivederci a compagni e insegnanti. Si metteranno in ordine per classe, come hanno imparato durante le prove. Il ritornello farà così: « Scuola ciao, scuola ciao, scuola c i a o c i a o ciao » , sulle note della canzone partigiana Bella ciao . E, a quel punto, un gruppetto di genitori minaccerà di andarsene. Portandosi via anche i figli. Festa di fine anno con polemica, quella di oggi alle elementari dei Bastioni di Porta Nuova. L' inno della Resistenza, scelto come « base » per il commiato dei bambini, ha incontrato prima qualche perplessità tra alcuni docenti e genitori per scatenare, poi, una vera e propria ostilità. « Le maestre sono state povere di idee: potevano scegliere qualsiasi altro motivo » . A parlare è la mamma d i uno dei 260 bambini iscritti. « Sono di origini friulane, per me quella canzone ha un significato forte. Certo, qui a Milano non ci sono ricordi drammatici come i nostri, ma è stato comun que un errore clamoroso, una grave leggerezza. E la cosa peggiore è che questa vicenda sarà strumentalizzata politicamente » . Polemiche o no, i bambini canteranno comunque. La festa seguirà fedelmente il programma: giochi all' aperto, mostra di manufatti e il grande coro finale. Lo ha deciso il preside dell' istituto, Alberto De Donno: « Bella ciao non è un canto sovversivo o anticostituzionale, fa parte della tradizione popolare. Certo, forse si poteva scegliere Ciao Mare , ma in ogni caso il nostro è un messaggio di auguri. Lo ripeto: non c' è nessuna volontà di dividere o di colorare politicamente la festa dei bambini. Il brano è stato scelto perché è molto orecchiabile » . Parole ribadite in una lettera scritta dal preside a insegnanti e famiglie: « È un canto innocente » . E per una nuova polemica ne riaffiora un' altra passata, quella sul presepe. « Sotto Natale, all' ultimo minuto - è la replica di alcune mamme - ci è stato spiegato che il presepe poteva offendere i bambini di religione non cristiana . Risultato: non si è fatto. Ma se siamo noi quelli offesi, allora non succede niente » . Sospira i l preside: « L' anno prossimo cercheremo di rendere più unita la scuola: questi, evidentemente, sono segnali di sofferenza. Sono dispiaciuto perché la festa voleva unire, non dividere. Speriamo solo che i genitori non ritirino i bambini al momento del canto » .

Il caso segnalato da “La Gazzetta di Modena”. “A scuola no ai canti di natale ma via libera a Bella Ciao?”. Barcaiuolo (Fratelli d’Italia) incredulo: «"Bella Ciao" insegnata ai bambini delle elementari dove invece è vietato insegnare canti natalizi o pasquali di matrice religiosa. Siamo in Italia o in Corea del Nord?». È quanto si chiede incredulo Michele Barcaiuolo capogruppo Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide. «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi , che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S. Natale e la S. Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, sopratutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva "non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile , in questi giorni si sta facendo di peggio : in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che e' stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano) ;ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non e' il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate?

“Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”. Autore Giampaolo Pansa. Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.

Dalla piazza greca di Tsipras alla Francia di Charlie Ebdo, dalle manifestazioni antigovernative in Turchia a quelle contro Yanukovich in Ucrainia, fino ai cortei di Occupy Hong Kong. Bella Ciao viene cantata in tutto il mondo. Ma come è nata? Quando? Perché è diventata globale?

Tutto il mondo (Italia esclusa) canta in piazza Bella ciao. La storia Da Atene a Parigi, da Istanbul a Hong Kong, la canzone della Resistenza diventa inno di libertà. Mentre nel nostro Paese è ritenuta a torto solo un manifesto comunista, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica” A Parigi l'emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d'espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna l'utopia populista di Tsipras, a Hong Kong scandisce l'opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l'Islam autoritario di Erdogan. Solo in Italia Bella Ciao è all'indice, confusa con Bandiera rossa e L'Internazionale , e mai cantata, come si dovrebbe, con l'alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a ballata dei trinariciuti, a manifesto del Soviet italiano. E invece, nel mondo, la canzone della Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole "ciao" e "bella" che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per "la rossa primavera" della falce e martello e neppure per il sol dell'avvenire della filosofia classica tedesca. Insomma Bella ciao ce l'ha fatta a riaccendere le emozioni originarie che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento , proprio perché, "era più ecumenica ". E la sua storia e la sua memoria "la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia" ha scritto Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia ( Laterza, 2005). Fu insomma la canzone delle forze politiche costituenti, tutte laburiste antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica. E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su Repubblica. it tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono "Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l'invasor". Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando "sotto l'ombra di un bel fior" con gli evviva alla memoria degli artisti di Charlie Hebdo, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda. Ed è emozionante la compostezza del coro un po' stonato di Istanbul con tutti quei turchi che battono il tempo con le mani: "E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir " diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all'oscurantismo religioso. È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l'epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina. Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: "Oh mamma che tormento / io mi sento di morir". E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese Ma, come accade talvolta in filologia, le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu comunista, cattolica e azionista, come la Costituzione. Ed è, Bella ciao, come "la ballatetta" di Guido Cavalcanti, che "va leggera e piana" e "porterà novelle di sospiri ... quando uscirà dal core ". Il dolce stil novo sapeva già, prima del pop, che la canzonetta è una febbre musicale, e come l'acqua fresca sembra niente ma è tutto, e se c'è nebbia fa vedere il sole, e dà coraggio a chi ha paura. E, infatti, fischiettata o cantata in coro, Bella ciao ha sconfitto quell'altra Bella Ciao , spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia , ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio, "Su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera", e alle canzoni dolenti degli anarchici, "Addio Lugano bella / o dolce terra mia", e all'orrendo inno che la Dc fece suo: "O bianco fiore / simbolo d'amore / con te la pace / che sospira il core". I comunisti risposero: "Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana ". Ecco, Bella ciao è un'altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone ...) proibirono di suonarla il 25 aprile. E Berlusconi, più potente, tentò di abolire la festa della liberazione dal nazifascismo sostituendola con la festa della liberazione da tutte le dittature. E gli pareva che "Forza Italia/ perché siamo tantissimi " fosse più nazionalpopolare di "È questo il fiore / del partigiano / morto per la libertà". Le ha proprio viste tutte, la nostra Bella ciao . È stata persino stonata in tv da Michele Santoro dopo l'editto bulgaro che lo cacciava dalla Rai con Biagi e Luttazzi. In quell'Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell'Unità suonando a Sanremo sia Bella ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza- contrapposizione con l'apologia del fascismo, suonata per par condicio... Ebbene Bella ciao ha superato anche quell'oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l'Italia.

Il fenomeno. "Bella ciao", da canto partigiano a inno globalizzato. Dalla campagna elettorale di Tsipras alla solidarietà a Charlie Hebdo, la canzone folk più nota della Resistenza varca i confini e si fa sempre più attuale, scrive “la Gazzetta di Reggio”. "Bella ciao" eterna, anzi sempre più attuale. La canzone folklorica cantata dai simpatizzanti del movimento partigiano italiano durante e dopo la seconda guerra mondiale, che combattevano contro le truppe fasciste e naziste, si è trasformata negli ultimi anni in un inno alla libertà, risuonato un po' ovunque: dalle piazze in rivolta ai funerali, dalle manifestazioni di piazza agli studi televisivi. Solo in Italia, scrive Repubblica in articolo di Francesco Merlo, il canto è ancora oggi etichettato come un "manifesto comunista". La circolazione di Bella ciao, durante la Resistenza è documentata e sembra circoscritta soprattutto in Emilia. Dopo la Liberazione la versione partigiana di Bella Ciao venne poi cantata e tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni partecipanti al Primo festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell’estate 1947, dove andarono giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”, dove inventarono il tipico ritmico battimano.

Giovanna Marini ricorda che tutto nacque a Reggio Emilia, dalla mondina Giovanna Daffini. Nelle scorse ore, "Bella ciao" ha chiuso ad Atene la campagna elettorale per le elezioni politiche di Alexis Tsipras, nella versione dei Modena City Ramblers. «Siamo sempre molto colpiti dall'entusiasmo che suscita Bella Ciao anche fuori dall'Italia. È la canzone che porta con sé valori molto forti e sinceri». E se Tsipras dovesse vincere, la folk band modenese annuncia che «canteremo Bella Ciao in greco». La famosissima versione dei MCR era stata suonata anche all'ultima edizione di Festareggio al Campovolo. Come inno alla libertà, "bella ciao" è stata rispolverata anche all'indomani degli attentati terroristici di Parigi, ecco christophe Aleveque che la canta in una trasmissione tivu di solidarietà a Charlie Hebdo e alle sue vittime. A Istanbul, "Bella ciao" è risuonata in piazza nell'ottobre 2013, adottata da Occupy Gezi: cantata in turco, ma con il ritornello in italiano. E sempre nella capitale turca, ecco la band rivoluzionario-socialista Yorum che la suona dal vivo con decine di artisti sul palco. Persino a Hong Kong, il canto è stato rispolverato dalla Rivoluzione degli ombrelli, cantato dal prete italiano Franco Mella.

Bella Ciao? Oggi la potrebbe cantare anche Marine Le Pen, scrive Stefano Baldolini su L'Huffington Post. Cantata in piazza Omonia dai sostenitori del divo Tsipras, a Parigi dai cittadini colpiti a morte dalla strage di Charlie, "Bella Ciao" è tornata. O meglio (fortunatamente?) non se n'è mai andata. Protagonista anche in passato, in luoghi e situazioni improbabili e molto lontane tra loro, ma oggi la coincidenza è evidente. È un destino dei classici esser rivisitati e non perdere colpi, assumere connotati e senso diverso in funzione del contesto e del tempo. È stato così anche per il nostro inno di Mameli, tabù della sinistra negli anni in cui i nazionalismi erano tutti di destra e oggi intonato nei comizi e nelle direzioni del Pd. Vittima del frullatore post ideologico, "Bella Ciao" può essere cantata e strattonata da tutti, è talmente intensa e diretta da non finire sgualcita. Ma cosa reclama "Bella Ciao" oggi? Certo, non può prescindere da un afflato di libertà che è sempre preceduta da forme vitali di resistenza e protesta ("È questo il fiore del partigiano Morto per la libertà"). Solo, che oggi, da piazza Taksim a Occupy Wall Street, da Charlie a piazza Omonia, l'inno partigiano è rivendicazione - in primis - di sovranità. Di rivendicazione della propria sovranità di cittadini e popoli contro scelte imposte da altri, potenti con nome e cognome o istituzioni senza volto. Erdogan o i lupi di Wall Street, i terroristi integralisti che vogliono occupare lo spazio libero delle idee, la Bce. Chiunque attenti all'occupazione - percepita come abusiva - dello spazio individuale e collettivo, mentale o fisico, è considerato invasore. Da cacciare, da respingere. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci se un giorno, vicino o lontano, un'esponente come Marine Le Pen, potrebbe cantarla. Non suoni come mera provocazione, ma solo come una logica conseguenza. Non foss'altro per semplice proprietà transitiva: se Marine Le Pen simpatizza per Tsipras e i sostenitori di Tsipras cantano Bella Ciao, il passo successivo è nelle cose. Perché l'obiettivo è lo stesso: quello di recuperare la sovranità del popolo contro "l'invasore" sovra-nazionale. L'ha cantata, per scherno e impropriamente, Matteo Salvini, contro "l'invasione degli immigrati", ma lo potrebbe fare - persino con maggiore legittimità - la sua amica leader del Front National.

LIBERTA'. TERMINE VACUO. PATRIA, ORDINE E LEGGE: SLOGAN CHE UNISCE DESTRA E SINISTRA.

Patria-ordine-legge lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

Taormina condannato per aver detto “Non assumo gay”, libertà d’opinione a rischio, scrive  Riccardo Ghezzi su “Quelsi” L’avvocato Carlo Taormina è stato condannato a pagare 10.000 euro di danni per una frase pronunciata durante una trasmissione radiofonica. A comminarla è stato il giudice del lavoro di Bergamo, Monica Bertoncini. Una notizia anomala, che crea pure un precedente nebuloso. Intanto non è chiaro per quale motivo sia stato messo in mezzo un giudice del lavoro, visto che non sussiste un caso di mobbing o di licenziamento per ingiusta causa. Proprio per questo non si capisce chi sia davvero la parte lesa. Andiamo con ordine: durante la trasmissione “La Zanzara”, condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo, l’avvocato Taormina aveva definito i gay insopportabili, fastidiosi e contro natura, sottolineando che non ne avrebbe mai assunto uno per farlo lavorare nel proprio studio. Attenzione però: non ha licenziato un gay solo a causa della sua omosessualità. Ha semplicemente formulato un’ipotesi, esprimendo un’opinione. Taormina quindi è stato condannato per un reato d’opinione, tipico dei paesi autoritari. Ma neppure per diffamazione, ma da un giudice del lavoro. Dovrà pagare 10.000 euro. A chi? Al gay che ha licenziato? No, perché non esiste. La parte lesa è “Avvocatura per i diritti Lgbt – Rete Lenford”, una delle tante associazioni gay-friendly che strizzano l’occhio alla sinistra, ma che forse proprio per questo si dimenticano di quelle libertà individuali che dovrebbero far parte del loro patrimonio e dei loro ideali. Associazioni che chiedono e rivendicano spesso giusti diritti, ma pretendono di farlo cancellando la libertà di opinione e mettendo bavagli. Appurato che iniziative giudiziarie di questo tipo sono utili anche a fare arricchire tali associazioni, grazie a giudici compiacenti che gli danno ragione e condannano i malcapitati querelati, proviamo ad analizzare quali sarà il reale impatto della sentenza del giudice del lavoro:

1) Taormina continuerà a non voler assumere gay, essendo questo il suo orientamento. E probabilmente non ne assumerà mai qualcuno. Semplicemente, d’ora in poi eviterà di dirlo in pubblico. Non a caso si chiamano “reati di opinione”.

2) L’omofobia vera o presunta continuerà a esistere. I gay potrebbero continuare a essere discriminati all’interno del mondo del lavoro, ma se non sono appoggiati dall’associazionismo di sinistra non ne caveranno un ragno dal buco. Mentre i gay vengono discriminati, ardite associazioni lgbt chiedono risarcimenti danni a personaggi pubblici che parlano in radio ma non è dimostrato che facciano veramente ciò che dicono. A meno che la Rete Lenford e il giudice del lavoro di Bergamo non abbiano le prove che Taormina abbia discriminato omosessuali sul posto del lavoro. 3) Si può ipotizzare che un gay che dichiari di non voler assumere eterosessuali non verrebbe mai querelato né condannato, perché certe discriminazioni vere o presunte non smuovono il magico mondo dell’associazionismo
4) Un datore di lavoro che non assume gay o li discrimina sul posto di lavoro, ma evita di dirlo in radio, continuerà a passare inosservato e ad apparire come una persona di larghe vedute.

Ci sono poi risvolti “tecnici”. Ad ipotizzarli è il sito Horsemoon Post, secondo cui Taormina potrà chiedere il risarcimento per dolo o colpa grave. Il giudice del lavoro di Bergamo non solo non ha tenuto conto dell’articolo 21 della Costituzione italiana, ma ha del tutto frainteso il concetto di discriminazione. A questo punto poco importa se Taormina abbia agito con scienza e coscienza per tendere un trappolone alla magistratura usando i gay come “cavallo di Troia”, come ipotizzato dall’Horsemoon Post, oppure se abbia espresso una sua reale opinione, discutibile e antipatica finché si vuole, e solo ora s’è accorto di poter diventare il paladino della libertà di opinione. Quello che conta è che questa sentenza potrebbe fare storia, con implicazioni pesanti anche su quella che è la responsabilità civile dei magistrati.

«Non assumo gay», Taormina condannato per discriminazione. La difesa del noto avvocato: «Esiste la libertà d’espressione, sancita dalla Costituzione», scrive “Il Corriere della Sera”. Condanna per discriminazione anche in appello per l’avvocato Carlo Taormina. La Corte d’appello di Brescia ha infatti confermato la condanna che nell’agosto scorso il tribunale di Bergamo aveva inflitto all’ex parlamentare: risarcimento di 10mila euro ad un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali e pubblicazione sul Corriere della Sera della sentenza. Nell’ottobre del 2013, durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio 24, alla domanda del conduttore Giuseppe Cruciani se avrebbe mai assunto un omosessuale nel suo studio, l’avvocato Taormina aveva risposto «sicuramente no», precisando anche che «nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo che questo non accada». Anche nel caso si fosse presentato nel suo studio un laureato a Yale, per Taormina non avrebbe potuto lavorare nel suo studio: «Perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede», ha detto durante la trasmissione. L’associazione «Avvocatura per i diritti Lgbti», rappresentata dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso, aveva denunciato per discriminazione Taormina e in primo grado aveva vinto. Ora la conferma della condanna in appello. Secondo i giudici bresciani l’avvocato Taormina «ha manifestato, pubblicamente, una politica di assunzione discriminatoria» e «si tratta quindi di espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Il fatto poi che Taormina sia famoso e’ un’aggravante: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni, e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Taormina nel ricorso in appello ha sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un’opinione e che la libertà di espressione è sancito dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, «è pure vero che l’articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale. E’ quindi evidente che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati». «Particolarmente contenta del risultato raggiunto». Così Maria Grazia Sangalli, Presidente dell’associazione avvocatura per i diritti lgbti, associazione difesa dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso. L’avvocato Caput ricorda come i giudici abbiano affermato che l’articolo 21 «non può spingersi a violare altri principi costituzionali che ha individuato nell’articolo 2 (tutela del singolo cittadino nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, ovvero il luogo di lavoro), 3 (principio di uguaglianza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del lavoro). La Corte ha interpretato le norme anti-discriminatorie alla luce della stessa normativa europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, mentre in Italia, caso unico in Europa, si fatica ancora ad approvare una legge che sanzioni penalmente i reati d’odio verso le persone omosessuali e transessuali e a dare riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso».

Omofobia, l'avvocato Taormina condannato anche in appello: "Niente gay nel mio studio". La Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza del giudice del lavoro di Bergamo. Il legale dell'Avvocatura per i diritti Lgbt: "Finora in Italia non avevamo registrato decisioni analoghe", scrive Ilaria Carra su “La Repubblica”. L'avvocato Carlo Taormina «Niente omosessuali nel mio studio», aveva detto l’avvocato Carlo Taormina. E anche in secondo grado i giudici lo condannano per discriminazione. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza con la quale, nell’agosto scorso, il giudice del lavoro di Bergamo aveva imposto all’ex parlamentare di Forza Italia un risarcimento di 10mila euro a un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali. «Se la tenga lei l’omosessualità... io non ne ho alcune né in simpatia né in antipatia, non me ne frega niente, l'importante è che non mi stiano intorno (...). Mi danno fastidio. (...) Parlano diversamente, si vestono diversamente, si muovono diversamente, è una cosa assolutamente... eh... assolutamente insopportabile, guardi. È contro natura»: sono alcuni stralci delle affermazioni che Taormina aveva rilasciato il 16 ottobre 2013 rispondendo alle domande di Giuseppe Cruciani e David Parenzo, conduttori della trasmissione radiofonica La Zanzara in onda su Radio24. Frasi nelle quali, secondo i giudici bresciani, manifestano «pubblicamente una politica di assunzione discriminatoria», «espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Aggrava il fatto che Taormina sia noto al pubblico: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Esulta l’avvocato Alberto Guariso (Avvocatura per i diritti Lgbt): «È un bel risultato, una sentenza importante perché sancisce la tutela generalizzata delle persone che possono subire uno svantaggio anche da semplici dichiarazioni. Annunci pubblici che secondo il giudice hanno un effetto di limitare un’opportunità di lavoro, oltre che di una umiliazione personale. Sono due gradi di giudizio conformi: sentenze analoghe in Italia finora non ce n’erano». Come riporta il partale Redattore sociale, Taormina nel ricorso in appello ha

sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un'opinione e che la libertà di espressione è sancita dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, invece, "è pure vero che l'articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale".

La reazione dei lettori de Il Giornale alla condanna di Taormina, scrive “Gay Burg”. Un tribunale ha condannato Carlo Taorima per discriminazione nei confronti dei gay, ma i lettori de Il Giornale pare non l'abbiano presa molto bene.
Ed è così che ch'è chi accusa la giustizia di voler imporre che i gay debbano piacer per forza, chi invoca la responsabilità civile dei giudici per chiedere la condanna chi ha emesso la sentenza o chi sostiene che non si sia nulla di discriminatorio nel dire che «non si assumerebbero fr*ci». Qualcuno aggiunge: «Ancora non esiste la legge contro la cosiddetta omofobia e già c'è chi la applica?», lasciando evidentemente intendere che quegli insulti dovrebbero rientrare nella tanto sventolata «libertà d'opinione». Non manca poi chi sottolinea che lo studio dell'avvocato sia privato e rivendica come «in casa sua uno possa decidere chi fare entrare». «Questi magistrati non hanno altro da fare? -scrive un altro- Mi pare che ci siano cose ben più gravi da perseguire». Già... perché perdere tempo con una causa in difesa dei gay quando la si potrebbe lasciar andare in prescrizione per occuparsi delle più meritevoli cause lanciate dai Giuristi per la Vita contro chiunque osi parlare di omosessualità? A coronare il quadro non poteva mancare chi si dice pronto a sostenere che i gay si auto-discrimino per il solo fatto di esistere: «Fino a prova contraria -dice- chi ha fatto della "discriminazione" il suo verbo sono i gay. Sono loro che si discriminano esattamente come afferma Taormina col loro modo i esprimersi, col loro vestire, con le loro pagliacciate che vanno sotto il nome di gaypride e l'elenco potrebbe continuare. L'orientamento sessuale dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima, lo sbandierare la propria omosessualità facendone un vanto è un insulto al buon gusto prima ancora che all'intelligenza. Ma evidentemente è di moda e sopratutto "rende", infatti ogni gay deve essere considerato come un discendente diretto di Pico della Mirandola se non si vuole essere subito tacciati di omofobia. Ormai i gay hanno ragione a prescindere e se sul lavoro sono nulli vietato dirlo e rimarcarlo». Non è bello far notare le cose, ma quest'ultimo personaggio dovrebbe forse notare come con il suo messaggio stia sbandierando la sua eterosessualità che, stando al suo ragionamento, dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima...Ma più di tutto è sempre interessante notare come a scrivere queste frasi inaccettabili siano le stesse persone che si dico convinte che la legge contro l'omofobia sia superflua dato che in Italia non c'è né omofobia, né discriminazione.

Difesa liberale di Taormina dal gay-correct, scrive di Corrado Ocone su “L’Intraprendente”. C’è da restare allibiti. Non ho altre parole per commentare la sentenza di condanna dell’avvocato Carlo Taormina a 10.000 euro di multa per aver affermato, nell’irriverente trasmissione radiofonica La zanzara, che nel suo studio non avrebbe mai assunto gay perché la loro è una tendenza sessuale “contro natura”. Sia beninteso, sono anche allibito del fatto che qualcuno pensi seriamente queste cose oggi, nell’anno di grazia 2014. Ma a parte il fatto che la vita è bella perché è varia, dovrebbe essere chiaro che la libertà di opinione è un valore non negoziabile, è la libertà senz’altro. Ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole e come vuole. E, se non si è d’accordo con le idee di qualcuno, le si può sempre criticare. O, al limite, evitare di andare a cena con lui. È l’abc del liberalismo e dell’Occidente, direi. Tutto il resto è chiacchiera che lascerei alle Boldrini di turno. Ma già sento l’obiezione dei moralisti e quella dei legulei appellantesi ad una legge realmente esistente e voluta da alcuni sciagurati rappresentante di un Parlamento già da tempo delegittimato. Costoro si appelleranno alla legge contro la “discriminazione” e affermeranno che una cosa è avere un’opinione e altra cosa metterla in atto favorendo nel mercato del lavoro un determinato tipo di persone. Quasi come se il mercato del lavoro, così come ogni altro mercato, non fosse un luogo di libera contrattazione ove tutti volta a volta produciamo, acquistiamo o vendiamo prodotti o servizi in base ai nostri gusti e preferenze. Che se sono contrarie alle idee dell’avvocato Taormina possono sempre censurarle nell’unico modo possibile in un regime di libertà: non acquistando da lui i suoi servizi legali, anche se (è da dimostrare) fossero efficaci. Il fatto è che qui, in questo caso da manuale, si saldano in una miscela esplosiva tutti i vizi italici: l’odio per il privato (ognuno dovrebbe essere libero di fare quel che vuole a casa sua, in questo caso nel suo studio di avvocato); una concezione sostanzialistica della giustizia, a cui non viene semplicemente affidato il compito di far rispettare poche leggi formali e universali ma addirittura quello di cambiare il mondo e di punire per educare; una legislazione demagogica e velleitaria, volta a soddisfare ipocritamente il moralismo di un’opinione pubblica spesso immatura; il protagonismo di certi magistrati. È con l’acquiescenza stupida di un’opinione pubblica che, quando non è immatura, è sicuramente dormiente, che, poco alla volta, ci costruiamo le catene che limiteranno sempre più in futuro la nostra libertà. Sarebbe necessario fermarsi, ora che siamo ancora in tempo..

Libertà di pensiero. Anche per Carlo Taormina. Fatali le frasi contro i gay pronunciate a Radio24, scrive Alessandro Mlòn su “Il Tempo”. E' partita la caccia al Taormina. Brutto, sporco e cattivo. E pure razzista, becero e discriminante. Sarà. Forse sì. O magari no. Sta di fatto che la condanna da 10.000 euro inflitta all'Avvocato Professore, già Principe di Filettino, è ridicola e grave al tempo stesso. Ridicola, perchè Taormina ha espresso un'opinione prettamente personale, senza passare ai fatti. Grave, perchè crea un pericoloso precedente in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi e di natura sessuale. O presunti tali. Le affermazioni del Proff - pronunciate a La Zanzara il 26 ottobre 2013 (Niente omosessuali nel mio studio) - seppure condite dall'oramai consueta ed inconfondibile coloratissima irriverenza del Taormina 2.0 - non possono e non debbono in alcun modo rappresentare prova inconfutabile di reato per chicchessia cittadino del Belpaese. Incluso il Principato di Filettino. Perchè basterebbe semplicemente addurre che l'avvocato non è in alcun modo passato ai fatti per contraddire e confutare l'assoluta ipocrisia di una condanna che ha tutte le sembianze di esser stata più punitiva che legislativa. Come aver voluto dare una bella e sana lezione morale ed educativa al malvagio e disumano professor Carlo. Mentre una norma si applica a rigor di legge, in punta di codice, e attraverso il tanto acclamato e propagandato Stato di diritto. Non certamente perchè un individuo, tanto discutibile e spietato per quanto l'opinione pubblica possa dipingerlo, risulti simpatico od antipatico, buono o cattivo, liberale o conservatore, pro o contro i gay. Questo è il punto, cara giudice del lavoro di Bergamo Monica Bertoncini, che ne ha ordinato l'irrisoria e simbolica ammenda (roba che se voleva dar l'esempio almeno 100.000 dovevano essere, gli euri) e pure lei, cara Associazione per i diritti Lgbt-Rete Lenford, cui vanno i diecimila danari, oggi così trionfalista e su di giri per questa illusoria quanto controproducente vittoria anti-omofobia. Il punto è che anche il cittadino privato Carlo Taormina ha l'assoluta facoltà di esprimere la sua. Potendo in tutta libertà pronunciarsi su qualsivoglia argomento, dal calcio alla politica, dall'economia alle case chiuse, dalle lesbiche ai transessuali. E' ha tutto il fottutissimo diritto di aborrare i matrimoni gay, di schifare con tutta l'anima il Gay Pride, di ritenere gli omosessuali malati e contro natura, e pure di dichiarare al mondo intero di non voler assumere lavoratori omosex. Con buona pace del più esimio ed autorevole Ordine professionale, e anche delle infinite sigle d'associazionismo gay. Perchè Carlo Taormina è un privato cittadino, e non deve dare ne' fornire alcun esempio morale od educativo, se non nel rispetto della propria deontologia professionale. Perchè Carlo Taormina ha lo stesso potere di parola ed espressione che ha ogni altro libero cittadino italiano. Incluso quello di dire e manifestare la propria ripugnanza ed abominio, o quello che ai più viene considerato una sparata, una boiata pazzesca, una mostruosità. E, ancora, perchè Carlo Taormina ha detto semplicemente ciò che pensava, e che pensa. Senza sbatter la porta in faccia ad alcun gay. Senza pestare due uomini che si baciavano. Senza bloccare o fermare alcun carneval pride. E questo, Signori della Corte, si chiama libera manifestazione del proprio pensiero. E non può essere considerato reato. Perchè non rappresenta reato. Questa  condanna, da ascrivere in toto alla più classica ed insopportabile ipocrisia made in Italy, rischia seriamente (eufemismo) di sortire l'effetto opposto ai sensi della lotta all'omofobia che le associazioni gay si prefiggono. Primo, perchè viene fatta pubblicità gratuita alle frasi di Taormina, che ora può avvalersi di tutto lo spazio possibile per rilanciare, passando da carnefice a vittima predestinata del sistema. Secondo, perchè comunque l'avvocato potrà sempre 'respingere' le candidature gay che si presentano nel proprio studio, adducendo le più svariate e plausibilissime giustificazioni, senza che nessuno, tanto meno Grillini & co., possa venirne a conoscenza, e senza che ciò costituisca in alcun modo discriminazione alcuna. Terzo, perchè alle parole si risponde con le parole, mai con le sentenze. Ultimo, ma non per importanza, perchè tutto questo ennesimo non richiesto polverone sulle presunte questioni omofobe, non fa altro che discriminarli, i gay. Perchè la legge li considera 'hors categorie'. Perchè così appiano come una lobby, o ancora peggio come una casta. E perchè gli si toglie la loro legittima e sudatissima conquistata normalità. Etichettandoli dentro un ghetto giuridico e morale che anche loro - siamo pronti a scommetterci - rifiutano e combattono quanto noi. 

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

La sinistra si batte per eliminare ogni simbolo che inneggia all'italica tradizione ed appartenenza in nome di una sudditanza ideologica e strumentale.

Storia del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane di Rosci Valentina su “Diritto”. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche viene disposta mediante circolare con riferimento alla Legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è data con ordinanza ministeriale 11 novembre 1923 n. 250, nelle aule giudiziarie con Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”, che recita: “Prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari art. 118 Regio Decreto n. 965 del 1924 (relativamente agli istituti di istruzione media) e allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367 del 1967, il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985 n.121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocefisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il Consiglio di Stato: premesso che “il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare – continua il Consiglio di Stato – che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale delle suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. L’art. 190 stabilisce che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie. Nessun riferimento al crocifisso. Sicchè si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297/ 94 regola l’intera materia scolastica. Tuttavia restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico  vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali “arredi” ovvero “arredamenti” contenute negli artt. 107, 159 e 190 concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il “crocifisso”. Così si può affermare che le disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici. Conclusivamente, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e quelle allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione (Sez. III, 13-10-1998) ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: “Il principio della libertà religiosa, infatti, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quando la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l’espressione di detta libertà: condizione questa, non ravvisabile nella fattispecie”, nella quale si discuteva della lesività del principio di libertà religiosa proprio ad opera dell’esposizione del crocifisso nell’aula scolastica adibita a seggio elettorale. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Escluso che l’articolo 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica – in cui la Repubblica italiana prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” – possa costruire idoneo fondamento normativo alla prassi amministrativa in materia, la Suprema Corte rigetta anche la “giustificazione culturale”, contraddicendo espressamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in un ufficio pubblico, questa scelta può offendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad una confessione religiosa contraria a tale simbologia? L’esposizione contraddice la “laicità dello Stato”? E a che tipo di simbologia deve essere ascritto il crocifisso: identità religiosa o culturale? Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, domanda all’insegnante della scuola di Ofena (in provincia di L’Aquila), frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in subordine, di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnante accondiscende a questa seconda richiesta, ma viene smentita dal dirigente scolastico il quale impone di rimuovere il quadretto. Assistito da un avvocato, Adel Smith ricorre al Tribunale di L’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di una misura di carattere inibitorio idonea ad interferire nella gestione del servizio scolastico, dal che la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La rimozione del crocifisso scatena un’aggressiva polemica pubblica e una vera e propria campagna per il rilancio del crocifisso così che la maggior parte degli italiani hanno fatto questo tipo di ragionamento: “L’offesa è grande. Insopportabile. Una prevaricazione. Un esproprio. Un Tizio entra nel tuo alloggio, si accomoda in poltrona, ha libero accesso al frigorifero, usa il tuo bagno e invece di ringraziare per l’ospitalità, ti ingiunge di togliere dalla parete quel “coso” lì. Sarà anche un coso ma permetti decido io se deve restare lì o sparire”. Un ragionamento un po’ rozzo ma tale vicenda ci fa comprendere che oggi la questione dei simboli religiosi, a partire dal sostrato argomentativo connesso alla rivendicazione della libertà di coscienza e della neutralità dello Stato, può trasformarsi in un momento di “scontro tra religioni e civiltà”. Una questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal TAR del Veneto, avente ad oggetto gli artt. 159 e 190 del d. lgls. n. 297 del 1994, come specificati dall’art. 119 allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 e dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi scolastici, nonché l’art. 676 d.lgs. 297/94, nella parte in cui conferma la vigenza degli artt. 119 allegato C del R.D. 1297/28 e 118 del R.D. 965/24. Il Tribunale remittente sostiene che il crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale, che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità, desunto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio. La Corte Costituzionale con ordinanza 389/2004 ha ritenuto di non doversi pronunziare in quanto le norme in esame hanno natura regolamentare, norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né conseguentemente, un intervento interpretativo. In questa prospettiva, l’ordinanza della Corte, con le sue argomentazioni tecniche, pare suggerire un inasprimento di toni senza rinunciare a continuare ad interrogarsi. Tuttavia il dibattito in corso sull’esposizione del crocifisso pare sempre meno legato alla religione, alla religiosità e alla fede e invece strumentalizzato dai politici di destra e di sinistra. 

Crocifisso a scuola, assolta l'Italia. Ribaltata la condanna del 2009. Chi ha ragione? si chiede G. Galeazzi su su “La Stampa”. Il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con una sentenza definitiva della Grande Camera, votata da 15 giudici su 17, ha dichiarato che la presenza in classe di questo simbolo non lede nè il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, nè il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. Per il governo italiano e il fronte pro-crocefisso è una vittoria a tutto campo. Nel motivare la sua decisione la Corte afferma come il margine di manovra dello Stato in questioni che attengono alla religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Ma i quindici giudici che hanno votato a favore della piena assoluzione delle autorità italiane sono andati oltre. Nella sentenza si legge infatti come la Corte non abbia trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. E come nonostante la presenza del crocefisso (definito simbolo passivo) conferisca alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, questo non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. Si sottolinea infatti che nel giudicare gli effetti della maggiore visibilità data al cristianesimo nelle scuole si deve tener conto che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Nessun commento dall’avvocato Nicolò Paoletti, difensore di Soile Lautsi, la cittadina italiana di origini finlandesi che aveva presentato ricorso alla Corte. Dichiarazioni euforiche, invece, di coloro che hanno strenuamente difeso l’importanza della presenza del crocifisso nelle scuole italiane. «È una pagina di speranza per tutta l’Europa», ha commentato monsignor Aldo Giordano appena il presidente della Corte di Strasburgo, Jean Paul Costa, è uscito dall’aula dopo la lettura della sentenza. Il rappresentante della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi sottolineato come la Corte abbia preso una posizione coraggiosa e abbia tenuto conto delle preoccupazioni che in questo momento gli europei esprimono nei riguardi delle loro tradizioni, dei loro valori e della loro identità. Gli ha fatto eco il vice ministro della giustizia russo, Georgy Matyushkin, che è intervenuto davanti alla Grande Camera in favore dell’Italia ed è volato appositamente da Mosca per assistere alla lettura della sentenza. Il minisro russo si è detto «molto soddisfatto per l’approccio della Corte». Ma anche il direttore dello European Centre for Law and Justice, Gregor Puppinck, ha definito la sentenza «un colpo che mette un freno alle tendenze laiciste della Corte di Strasburgo e che costituisce un cambiamento di paradigma». Lo European Centre for Law and Justice era una delle organizzazioni no profit che si erano costituite parte terza a favore dell’Italia nel procedimento. Alla lettura della sentenza, che è avvenuta in un’aula piena di studenti e funzionari del Consiglio d’Europa, erano presenti anche l’ambasciatore italiano Sergio Busetto, oltre agli ambasciatori cipriota e greco e ai rappresentanti della diplomazia armena, lituana, e di San Marino. Tutti Paesi che assieme a Bulgaria, Romania, Malta e Principato di Monaco erano intervenuti a favore dell’Italia. La sentenza emessa oggi mette la parola fine al ricorso «Lautsi contro Italia». Un fascicolo che fu aperto dalla Corte nel 2006 e che nel 2009, con una sentenza in primo grado a favore delle tesi della ricorrente, suscitò una vera alzata di scudi contro la Corte. L’indignazione fu tale che il governo italiano ricorse immediatamente, chiedendo e ottenendo la revisione del caso da parte della Grande Camera. In questo suo appello, andato a buon fine, l’Italia ha potuto contare non solo sui dieci Paesi che «ufficialmente» si sono presentati come parti terze davanti alla Corte, ma anche sul contributo di diverse ong, di parlamentari italiani ed europei e del lavoro diplomatico condotto dal rappresentante della Santa Sede. «Esprimo profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese», ha dichiara il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. «Il Crocifisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. È un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia nè alla laicità dello Stato, nè alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini», ha concluso il ministro.

Toglie il crocifisso dall’aula. «Non me ne faccio nulla». Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere sella Sera”. Il caso di un’insegnante in una prima elementare. Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà». Via un altro. L’ennesimo. Tolto dalla parete a cui era appeso da anni. E scoppia la polemica. C’è chi parla di «strage dei crocifissi». E chi, più laicamente, si rifugia nel concetto di tolleranza e invita al reciproco rispetto. Siamo a Bologna, nella scuola elementare «Bombicci», classe prima B. Il simbolo religioso scompare pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni. Qualcuno, probabilmente dall’interno della scuola, avverte l’ex parlamentare pdl Fabio Garagnani, personaggio piuttosto combattivo in materia, che parte in quarta, informando della rimozione il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il vicedirettore regionale dell’ufficio scolastico, Stefano Versari. Per nulla scandalizzato invece il preside del comprensivo di cui fa parte la scuola, Stefano Mari: «Non esiste alcuna legge dello Stato che impone l’obbligo di ostensione del crocifisso, ma solo un regolamento del 1928 sugli arredi scolastici, poi superato nel 1999 da norme che conferiscono autonomia ai singoli istituti: dipende dalla sensibilità dei docenti». A riprova di ciò, prosegue il dirigente, «negli istituti che fanno parte del mio comprensivo, che riunisce 1.400 studenti tra elementari e medie, in moltissime aule il crocifisso non c’è mai stato o è stato tolto, mentre in altre è presente». Un processo graduale, aggiunge, «avvenuto negli ultimi anni e quasi passato inosservato in un clima di reciproca tolleranza tra chi lo avrebbe voluto e chi no». Fino ad oggi. Ora la polemica rischia di montare. Il giornale dei vescovi, Avvenire , censura l’episodio, ricorda l’ordinanza del 2011 della Corte di Strasburgo che impose a una scuola media di Abano Terme (Padova) di riappendere il crocifisso, ma soprattutto riporta le parole di un calibro da novanta come il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, il cui parere giuridico è agli antipodi di quello del preside Mari: «Non è rimesso alla scelta di qualcuno se togliere o meno il crocifisso - afferma il giurista -, non ci possono essere interpretazioni da scuola a scuola. Se è vero che la regolamentazione vigente sui simboli religiosi, che li vuole affissi nelle aule, può sembrare datata, è altrettanto vero che, chiamato a esprimersi, il Consiglio di Stato ne ha riaffermato la validità». Ma il preside insiste: «Credo che la questione vada risolta a livello amministrativo, è finito il tempo in cui tutto veniva deciso centralmente dal ministero». L’insegnante che ha tolto il crocifisso preferisce non esporsi. Raccontano che a chi le chiedeva spiegazioni sulla rimozione del simbolo avrebbe sbrigativamente risposto «di non farsene nulla». Il preside fa da scudo: «È inevitabile che sia turbata dalle polemiche, ma continua il suo lavoro e per ora non si registrano proteste dalle famiglie degli alunni». Ma Garagnani incalza: «È un problema di libertà, i genitori non si facciano intimidire».

Ma non solo oil crocifisso si vuol togliere. Anche il Presepe.

Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni".  Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.

Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.

La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.

La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa.   Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. “Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: “Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.

Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito).  Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.

E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.

E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla  tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.

Liberateci da Peppa Pig: sta rovinando i nostri bambini, scrive di Lucia Esposito su “Libero Quotidiano”. C'era una volta Heidi che faceva "ciao" alle caprette e aiutava l'amica Clara in carrozzina, c'erano i Barbapapà animalisti ed ecologisti che ci lasciavano di stucco coi loro "barbatrucchi" e le trasformazioni più improbabili. C'era Winnie the Pooh, l'orsetto grasso che lievitava all'ombra del bosco dei cento acri bevendo ettolitri di miele ma capace di grandissimi gesti di amicizia. C'era la cagnetta Pimpa che perdeva per strada le sue macchie rosse ma che faceva la felicità del suo padrone Armando… Mai si erano visti in televisione dei maiali che ruttano senza ritegno, grugniscono in continuazione, si rotolano nel fango allegramente e che, quando ridono, si ribaltano sul pavimento sbellicandosi come idioti. Liberatemi, vi prego, dalla famiglia Pig. Qualcuno mi spieghi cosa c'è di educativo in questo cartone che sta lentamente trasformando mio figlio di tre anni in un suino. «Tu sei mamma Pig», mi dice quando si sveglia. «No, Francesco io non sono un maiale», gli rispondo piccata. Lui arriccia il naso, dice «oink» e scappa via. Quando al mattino va a scuola, si guarda attorno con la stessa attenzione con cui un bracco ungherese cerca i tartufi nel bosco e, appena intercetta una pozza d'acqua, si fionda per saltarci dentro. «Come Peppa Pig» salta e ride mentre i suoi occhi roteano come biglie per individuare un altro specchio d'acqua fangoso in cui rotolarsi come un porcellino. Inutile provare a spiegargli che i maialini sono sporchi e puzzano e che la loro casa, il porcile, è un posto lurido e nauseabondo. Lui dice che «Patata City» (la città in cui vive la maledetta famiglia Pig) è bella e pulita. Per non parlare del rutto tra una portata e l'altra, diventato la colonna sonora dei miei pasti. Davvero non so come sia capitato ma lo spirito della famiglia Pig si è impossessato di lui e viene fuori senza alcun ritegno proprio quando tutti tacciono e non si può far finta di non aver sentito. «Non si fa, i maiali lo fanno» e lui: «Ma io sono Peppa Pig». Allontanarlo dal tavolo non fa che scatenare il processo di identificazione con la famiglia di suini perché invece di piangere, invece di starsene umiliato in camera, va in bagno, prende il braccio della doccia fa cadere acqua sul pavimento e si mette a saltare nella pozza. Per chi è fuori da questo incubo perché non ha figli tra i due e gli otto anni, Peppa Pig è un cartone animato che ogni sera ipnotizza mezzo milione di bimbi. È la storia di una famiglia di maiali (mamma Pig, papà Pig, il fratellino George di due anni e la protagonista Peppa di quattro anni). I suini non vivono in un porcile ma, pur mantenendo comportamenti propri della specie, sono umanizzati. Il povero signor Pig, il padre, è un pasticcione inetto, incapace di fare qualsiasi cosa (in un episodio per piantare un chiodo, fa crollare una parete) che si fa prendere in giro dai figli senza dire un «oink» sia perché è più grasso del normale sia perché è un fallimento che cammina. Lui e sua moglie non sono in grado di dare una sola regola comportamentale ai figli e, quando ci provano, non sono credibili. Non si fanno rispettare. Peppa e George fanno quello che vogliono, inzozzano di fango la casa, rompono il pc con cui la mamma lavora. Viziati e ribelli, trasmettono ai bambini l'idea che tutti sono uguali, che la loro parola-grugnito vale quanto quella dei genitori. Vogliamo poi parlare di George? A due anni dice solo e sempre «dinosauo», attaccato come una cozza al suo peluche verde ripete ossessivamente le stesse cose da centinaia di puntate senza che nessuno (tranne Peppa Pig che lo chiama «tontolone») si faccia delle domande sull'evoluzione del linguaggio del piccolo, senza che nessuno gli spieghi che si dice «dinosauro» e gli dia qualche informazione in più sull'animale preistorico. I dialoghi sono semplici, il vocabolario basico, i personaggi ripetono sempre le stesse parole, il disegno dei cartoni è elementare, eppure i bambini sono pazzi di questi porcellini. Molti esperti dicono che Peppa Pig piace tanto perché riproduce un modello di “famiglia normale”: i genitori che vanno al lavoro, i figli affidati ai nonni, le gite della domenica, i capricci a cui non seguono punizioni... Adesso, gli psicologi avranno anche le loro ragioni ma io da un po' ho vietato al mio bimbo di vedere «Peppa Pig»: perché per me non è normale che a cena rutti con lo stesso orgoglio di chi prende dieci in pagella. Ridatemi i barbatrucchi di Barbapapà!

E poi Peppa Pig è un maiale e non è corretto parlarne in un'Italia Islamica voluta dalla sinistra contro gli italiani cattolici.

Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.

Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.

I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.

I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.

Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...

I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...

La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.

Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.

Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.

La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.

Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?

Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.

La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.

L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.

La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.

Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.

Quanti sono i bambini soldato nel mondo. Il report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di minori arruolati sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso” Il fenomeno dei bambini soldato pesa sempre di più, ma non si può contare. Le stime riportate da Amnesty International parlano di 300 mila bambini coinvolti in conflitti armati nel mondo, il 40% dei quali sarebbero bambine. L'Onu ne stima 250 mila. Se si cerca di definire con maggior dettaglio i contorni del fenomeno, il profilo diventa infatti subito sfumato. UNICEF, Human Right Watch, Child Soldier International, Amnesty International, le Nazioni Unite e molte altre realtà che si occupano di salvaguardare le condizioni dei minori nelle aree colpite dalla guerra, riportano la presenza ancora oggi come cinquant'anni fa, di bambini soldato, maschi e femmine, in molti paesi del mondo, dall'Africa al Sud America, al Medio Oriente. Secondo le stime UNICEF per esempio sarebbero 9000 i bambini soldato coinvolti in Sud Sudan, 2500 in India e addirittura 10000 quelli che avrebbero abbracciato le armi nella Repubblica Centrafricana. Tuttavia non ci sono dati certi e le stime spesso divergono di molto fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno. Ogni anno infatti vengono effettuati numerosi raid fra la popolazione civile, più o meno noti alle milizie internazionali, dove vengono reclutati nuovi bambini da inserire nelle file degli eserciti, governativi e non. Al tempo stesso però altri vengono sottratti alle forze armate grazie all'azione di realtà come le Nazioni Unite. Il bilancio è dunque difficile. Il punto di riferimento più recente e più dettagliato in questo senso è un Report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Children and armed conflict, che prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di bambini soldato sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013. Come emerge dalla mappa però, solo per una parte di questi paesi, quelli evidenziati in rosso, le Nazioni Unite sono in grado di fornire dei numeri. Per gli altri, quelli colorati in nero, la presenza di bambini soldato per quanto accertata, non è quantificata con esattezza.

Armi giocattolo e fiabe sui martiri, niente tv. Ecco come si educa un bambino al jihad. Nel manuale per la donna jihadista, i consigli pratici per diventare la mamma perfetta. E insegnare ai figli ad essere «combattenti e ad avere paura solo di Allah: la chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli», scrive Daniele Castellani Perelli “L’Espresso”. Niente tv. Sì a pistole giocattolo e freccette. E prima di andare a nanna una bella favola sul jihad. Queste sono solo alcune delle regole che deve seguire una mamma perfetta per educare un piccolo jihadista. Il testo è uno di quelli per cui un mese fa Runa Khan, una donna di Luton, mamma di 6 bambini, è stata condannata in Inghilterra a cinque anni per aver incitato su Facebook al terrorismo. Fa parte di un vero manuale per la donna jihadista, chiamato “Il ruolo della Sorella nel Jihad”. Ma la sezione più interessante è sicuramente quella dedicata all'educazione dei bambini, una specie di “Emilio” rousseauiano pensato per il jihad. Lo è alla luce del ruolo centrale che i bambini sembrano avere nella strategia e nella propaganda dei terroristi islamici, quasi fossero impegnati nella costruzione di un uomo nuovo, fin dai primi anni. Lo confermano ora due notizie macabre degli ultimi giorni: il video del bambino kazako che, puntando una pistola, ucciderebbe per lo Stato Islamico due presunte spie russe e poi festeggia il suo gesto (in realtà dal video non è dmostrato che sia stato lui a ucciderli), e l'uso di almeno una bambina ricoperta di esplosivo per degli attentati compiuti da parte dell'organizzazione nigeriana Boko Haram. Ma già in precedenza erano note le tante foto di bambini vestiti con i simboli dell'Isis che circolano da tempo su Twitter e gli altri social media, tra cui quelle del britannico Siddhartha Dhar in posa con neonato e fucile, ma anche quella di Ismail, di Longarone, in Veneto, che il padre Ismar Mesinovic ha portato con sé in guerra strappandolo alla madre cubana. Alla stessa Runa Khan, 35 anni, sono state trovate foto dei figli con pistole e spade, ma aveva anche indicato dettagli del modo in cui raggiungere la guerra in Siria dall'Inghilterra e su un sito per estremisti si era augurata che un giorno suo figlio diventasse un jihadista. Il manuale era già noto da qualche anno agli specialisti, ma secondo l'istituto americano Memri (Middle East Media Research Institute) ora è tornato particolarmente in auge proprio per l'Isis. Lo dimostra lo stesso caso di Runa Khan, che quel testo l'ha pubblicato su Facebook nel settembre del 2013. Ma cosa dice esattamente il manuale? Nel capitolo “Come educare bambini mujahid (combattente nel jihad, ndr)” si descrive questo compito come «forse il più importante per le donne». Si deve insegnare ai bambini, che siano maschi o femmine, «ad avere paura solo di Allah»: «La chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli. Non aspettate che raggiungano i sette anni, potrebbe essere troppo tardi!». Poi ecco i consigli: «Racconta loro storie della buonanotte che parlino dei martiri e dei mujahideen. Sottolinea che non devono colpire i musulmani, anzi perdonarli, e che devono esprimere la loro rabbia sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Magari crea un surrogato di nemico, ad esempio un sacco da colpire, e incoraggia i bambini, specialmente i maschi, a usarlo, a costruire la propria forza così come a imparare a controllarsi e a saper dirigere la propria rabbia». E per quanto riguarda lo svago? «Elimina se puoi completamente la tv, che perlopiù insegna cose senza vergogna, anarchia e violenza casuale. Inoltre la tv instilla pigrizia e passività, e contribuisce a un abbandono mentale e fisico. Se non puoi proprio eliminarla, usala per video che trasmettano l'amore per Allah e per il jihad. Ce ne sono alcuni anche sull'addestramento militare». Per i videogiochi il discorso è simile. Meglio di no, ma se proprio non può farne a meno allora sì a quelli militari. Il manuale invita poi a comparare «queste caratteristiche con gli aspetti salutari del gioco e dello sport, da cui può trarre beneficio in termini di disciplina e forza fisica». Qualche esempio? Il tiro al bersaglio con armi giocattolo, il tiro con l'arco e le freccette, «che permettono di sviluppare un buon coordinamento mano-occhio», e giochi militari che siano divertenti. Quanto agli sport, sì a arti marziali, nuoto, equitazione, ginnastica, sci, e poi altre attività come la guida di veicoli, l'orientamento nei boschi, il campeggio e l'addestramento per la sopravvivenza. Ci sono anche consigli di lettura, ovvero libri militari («meglio se con le figure») e siti web, il tutto già a partire da quando il bambino ha «due anni o anche meno»: «Non sottovalutate l'effetto duraturo di ciò che quelle piccole orecchie e quei piccoli occhi possono assimilare nei primi anni di vita!». Il manuale ricorda che «i bambini imitano quello che fanno gli adulti», e invita a iniziare sin dai primi anni perché così «non affronteranno poi battaglie interne quando diventeranno più grandi e saranno più coinvolti nel mondo». Ma a giudicare dalle notizie degli ultimi giorni bisogna dire che questo è un testo a suo modo moderato, laddove ad esempio raccomanda di non tenere le armi vere alla portata dei bambini, e di non usarle davanti a loro, oppure di non uccidere altri musulmani. Vuol dire che Isis e Boko Haram hanno alzato ancora più in là l'asticella. È la conferma che il jihadista di oggi è ancora più spietato di quello di ieri. È una nuova generazione.

Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.

I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità , perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».

"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".

Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri).

"La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista". Benito Mussolini. Il fascismo, fin dai primi anni in cui prese il potere si preoccupò di rafforzare le proprie basi ideologiche e il consenso sociale. Uno dei mezzi utilizzati era l'indottrinamento ideologico a partire dalla scuola. Dal neo-governo fascista venne, infatti, approvata la Riforma Gentile che proponeva una nuova forma di organizzazione scolastica, con l'introduzione dell'Esame di Maturità e la Religione come materia obbligatoria. Il partito si preoccupò anche di garantire un'impostazione dei vari programmi secondo un criterio nettamente di parte, introducendo testi scolastici come il noto libro di testo unico per le Elementari. All'organizzazione scolastica si aggiungevano varie forme di indottrinamento legate soprattutto all'attività fisica e alle parate.

Poi le cose son cambiate. E’ nato l’indottrinamento comunista e di sinistra in generale.

Scrive Giorgio Israel. Un ragazzino di 13 anni mi dice di detestare la letteratura. Il suo sguardo scettico, mentre gli vanto la bellezza dei classici e gli parlo della Divina Commedia, mi spinge a una sfida temeraria: «Te ne leggo un canto». Procedo temerariamente, aspettandomi sbadigli e il rigetto finale condito del tipico insofferente sarcasmo adolescenziale. E invece funziona. Tanto funziona che il ragazzino mi chiede se non potremmo fare altri incontri e continuare, e poi chiede: «Ma perché a scuola non ci fanno leggere testi così? Guarda invece cosa mi è toccato in questi giorni». È un brano di Gino Strada sugli “effetti collaterali delle guerre”. Lo leggo tutto e non ha niente di letterariamente valido: è una predica ideologica noiosa scritta in modesto italiano. Colgo l’occasione per sfogliare l’antologia del ragazzino: c’è da restare a bocca aperta. Al brano di Strada seguono due pagine di “competenze di lettura” dove l’alunno deve mostrare di aver capito il testo apponendo crocette nelle caselle giuste. Seguono pagine di indottrinamento sotto il titolo “che cosa succede nei paesi dove c’è la guerra”; poi ancora competenze di lettura e scrittura “contro la guerra”, per finire con una pagina incredibile. Contiene una serie di immagini, per lo più banali o stucchevoli, come quella di un gruppo di bambini a cavalcioni su un cannone, e prescrive il seguente compito: «osserva i cartelli contro la guerra, poi scrivi per ognuno una frase-slogan»…

Come la dobbiamo chiamare? Competenza di manifestazione di piazza? È finita qui?

Niente affatto. Seguono le “competenze grammaticali”, in cui l’alunno è invitato a mostrare di saper far uso della locuzione “sarebbe meglio”: riempi lo spazio con i puntini nella frase «Invece di fare la guerra, sarebbe meglio…», e così via. Seguono le “competenze di cittadinanza attiva”, in cui l’alunno deve dar prova di aver assimilato i concetti di conflitto, guerra e pace, costruendo una “mappa concettuale” sul tema. E, come se non bastasse, l’acme di un tormentone di decine di pagine è una “verifica di fine unità” e… una prova Invalsi. Non capisco in base a quale diritto la scuola pretenda di indottrinare i ragazzi all’idea che tutte le guerre siano egualmente sporche. Dovrei forse accettare che i miei figli considerino la guerra di liberazione dal nazifascismo – grazie alla quale sono potuti venire al mondo – alla stregua della guerra scatenata dalle armate hitleriane? Non saprei immaginare una prepotenza più oscena. Ma andiamo avanti. Ometto di fare un elenco completo degli autori che popolano l’antologia, per non offendere nessuno, anche se credo che né Jovanotti né Luciano Violante abbiano mai compreso nelle loro aspirazioni quella di competere con Tolstoj e Pirandello. Consiglio di sfogliare alcune delle antologie che circolano nelle nostre scuole per constatare che ormai questa è la concezione della letteratura che le ispira. E pongo alcune semplici domande.

Qualcuno può davvero seriamente pensare che questo sia un modo valido per instillare l’interesse per la letteratura, per la lettura, per la scrittura? Non è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla deriva che sta prendendo la funzione istituzionale dell’istruzione?

L’attuale dibattito sulla vicenda della lettura del romanzo di Melania Mazzucco in un liceo romano è tutto centrato attorno al dilemma se sia giusto o no scegliere dei testi adatti a combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere o se tale scelta sia mera pornografia. Pare che per molti, inclusi alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, la funzione della scuola sia ormai meramente ideologica. Si dirà che Melania Mazzucco è una vera scrittrice a differenza di Strada ma, la vera questione è se, a fronte del panorama sterminato di letteratura di livello indiscutibilmente alto, e con cui si potrebbero riempire decine di antologie, si preferisce cancellare Leopardi a vantaggio di testi il cui unico indiscutibile merito è di avere una funzione ideologica. Le denunce legali, che finiranno puntualmente nel nulla, sono un’azione senza senso. È più appropriato denunciare (in termini non legali) la deriva di una scuola che sta rinunciando all’educazione al bello, e la guarda con sarcasmo come se fosse orpello di altri tempi; che rinuncia ad appassionare i ragazzi al piacere di leggere prose e poesie di valore universale, a discuterli in classe senza questionari di competenze e senza pagine pieni di imbecilli quesiti a crocette; lasciando che la determinazione di posizioni su temi come il sesso, la famiglia, la guerra o l’ambiente, sia conseguenza della formazione libera di una personalità strutturata sull’amore per la conoscenza, la cultura, la bellezza artistica in tutte le sue forme. La scuola non dovrebbe impicciarsi di imbastire “lotte” contro questo o quello, di educare a pensare in questo o quel modo, di insegnare a compilare cartelli da portare in piazza, selezionando la letteratura su questi criteri. Perché, così facendo, la sua funzione educativa si trasforma in ciò che vi è di più brutto: l’indottrinamento ideologico. Brutto e diseducativo, perché è caratteristico delle società totalitarie e come tale stimola le peggiori forme di intolleranza.

Non potrò mai dimenticare che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, Alberto Lecco, un grande romanziere dimenticato – dal cui capolavoro “Anteguerra” si potrebbero trarre brani antologici ben più validi di quelli che vengono propinati – fece questo commento: «Il comunismo finito? Comincia solo adesso…». Aveva ragione. Il comunismo dei soviet, dei comitati centrali e delle commissioni centrali di controllo è finito da un pezzo. Ma il comunismo come costruttivismo sociale, come aspirazione a una società basata sull’indottrinamento ideologico, è più vivo che mai, metastatizzato nella forma del “politicamente corretto” che, sotto la veste di una bontà ipocrita e falsa, propina incessantemente le prescrizioni soffocanti di un conformismo sociale costruito a tavolino, in cui non c’è più spazio per il libero sviluppo della personalità.

L’intellighenzia sinistra non finisce mai di stupire, scrive “Il Fazioso”. Certi professoroni dei nostri licei, dopo l’abituale giro in sezione, si impegnano al massimo per trovare occasioni per fare della sana propaganda nelle scuole. E sono veramente fantasiosi se per il loro scopo piazzano a tradimento persino delle versioni di latino contro Berlusconi. Ora la prof mattacchiona tenta di difendersi in ogni modo, spiegando l’alta importanza didattica della versione. Il preside difende la docente parlando di tentativo di incuriosire gli studenti con l’attualità, ovviamente nessuno ha pensato all’opportunità di una versione palesemente contro il premier. Ma che sarà mai? Ci spiegheranno che non c’è dietrologia politica ma piuttosto educazione d’avanguardia. Il prossimo passo è portare Berlusconi nella matematica con qualche problema sul suo patrimonio finanziario (ovviamente condito da qualche passaggio denigratorio). Quanto sono furbi questi sinistri.

Istruzione o Indottrinamento? Si chiede David Icke su “Crepa nel Muro”. La "istruzione" esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba o il crematorio. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che "la istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola." Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè la università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che la intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa ... Una sera mi trovavo in discoteca, e la pista da ballo era vuota perché il DJ aveva messo su della musica che le persone non volevano ascoltare. Questo insopportabile egocentrico si rifiutò di cambiarla, e io chiesi se fosse una scelta così intelligente, date le circostanze. Quello si indignò. Aveva la prova di essere intelligente, avendo un diploma! Che ridere. La intelligenza fondamentalmente consiste nel rendersi conto che le persone non ballano perché la musica fa schifo, e nel mettere al suo posto qualcosa che piaccia; un diploma consiste nel dire al sistema ciò che esso ti ha detto di dire. Cosa c’è di intelligente in questo? Il sistema relativo alla istruzione, o Programma di Distribuzione Automatico di Salsicce è parte essenziale dello ipnotismo sistemico. Il programma della istruzione è organizzato in modo sistematico con tre principali obiettivi:

1 – Impiantare nella realtà un convincimento in linea con la illusione della Matrice. Questo è abbastanza semplice. Non devi fare altro che offrire agli studenti la versione ufficiale della scienza, della storia, della religione e del mondo in generale. Questo viene fatto programmando gli insegnanti attraverso la scuola, la università e la facoltà di magistero; poi li si manda fuori a programmare la generazione successiva con le stesse fesserie che è stato detto loro di insegnare e di credere. Come disse Oscar Wilde: “Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni una citazione.” La maggior parte degli insegnanti, come anche dei medici, degli scienziati, della gente del mondo della informazione, e così via,è ciò che il mio amico Mark Lambert definisce ‘i ripetitori’. Essi non fanno che ripetere ciò che qualcun altro ha detto loro, invece di accedere attraverso la coscienza alla propria verità. Si tratta di una realtà di seconda mano. Il procedimento è simile a quello dello scaricamento di informazioni su disco (insegnante) seguito dalla sua riproduzione in un gran numero di copie (ragazzi e studenti). Nell’ambito di scuole e istituti superiori si ha il permesso di discutere poco o nulla che esuli da questa versione convenzionale della vita, e i punti di riferimento alternativi dai quali osservare questa realtà indottrinata da una altra prospettiva sono scarsi, sempre ammesso che ve ne siano. I ragazzi passano attraverso questo distributore automatico mentale e nel frattempo vivono con adulti (altri ripetitori) che hanno già assorbito la stessa programmazione, e in più guardano mezzi di informazione (altri ripetitori) che ripete a pappagallo la stessa storia ‘ufficiale.’ Non c’è da meravigliarsi se i ragazzi credono che la illusione sia reale quando ogni fonte di ‘informazione’ dice loro che è così.

2 – Trasformare i ragazzi in robot che seguano gli ordini dell'insegnante (sistema). Ciò richiede il Programma del Bastone e della Carota. Si rende molto più facile ai ragazzi la accettazione del volere degli insegnanti (personificazione del sistema), piuttosto che il mettere in discussione la autorità ed i concetti in cui essi dicono di credere. Ricompensa uno e punisci l’altro. "Fa come ti dico e credi a ciò che ti racconto" viene instillato fin dalla più tenera età in quello indottrinamento che chiamiamo scuola, istituto superiore e università. Gli esami rappresentano il sistema che richiede di sentirsi dire ciò che ti hanno detto che devi pensare. Sono la prova che conferma se un download sia andato o meno a buon fine. Quando fate il download di qualcosa su un computer, appare un piccolo box con la scritta: "Vuoi aprire questo file adesso?" Voi lo aprite per assicurarvi che i dati siano stati scaricati correttamente. E’ questo che sono gli esami. I bambini indipendenti, che rifiutano il download, vengono considerati una influenza distruttiva. Avete notato che – mentre possono esserci disaccordi su come si insegna ai ragazzi – raramente vi sono discussioni su cosa viene loro insegnato? Questo perché la Matrice ha una tale presa sulla realtà umana che il cosa venga insegnato è accettato pressoché universalmente. In verità, se le scuole introducessero corsi sulla spiritualità in relazione alla Unità di tutto e alla illusione della forma, i genitori controllati dal Programma Divino protesterebbero furiosamente contro questa offesa alla loro fede cristiana, islamica, ebraica, ecc. ai bambini non solo viene somministrato del veleno per bocca, ma anche attraverso la mente.

3 – Soffocare nella popolazione/bersaglio (ragazzi) qualsiasi idea di unicità e spontaneità. Le scuole sono per lo più zone proibite alla spontaneità e al libero pensiero perché sono consumate dalle regole. Questa è una perfetta preparazione al mondo degli adulti, il quale è strutturato nello stesso modo. La unica differenza è che gli insegnanti per adulti si chiamano agenti di polizia, funzionari statali, ispettori del fisco, più tutti gli altri cloni - per la maggior parte ignari – al servizio della Matrice. Stavo leggendo che in Inghilterra, in una scuola secondaria, è stato proibito agli alunni di tenere per mano o abbracciare il proprio fidanzatino / fidanzatina allo interno dello edificio. Il preside si è giustificato dicendo che un tale comportamento non sarebbe stato consentito ad adulti sul luogo di lavoro. I ragazzi vengono plasmati per diventare una mente collettiva ad alveare, piuttosto che espressioni di unicità. Comportatevi allo stesso modo, e credete allo stesso modo. Un’ultima cosa: perché agli adulti non dovrebbe essere permesso di baciarsi e abbracciarsi sul luogo di lavoro? Accidenti, solo nella matrice lo affetto poteva essere sottoposto ad un regolamento.

Come ottenere l’obbedienza. L'indottrinamento scolastico, scrive Corrado su “Scienza Marcia”. Immaginiamo una ristretta cerchia di persone, un’oligarchia, che voglia mantenere il proprio potere politico/economico sopra una nazione sfruttandone il popolo: quali sono i metodi migliori per consolidare tale potere e renderlo inattaccabile? I metodi sono diversi, anche perché ci sono due strategie di fondo per mantenersi al potere:

1) Quella di esercitare il potere in maniera ferrea e dittatoriale, mostrando palesemente che chi si oppone rischia di venire incarcerato, torturato, ucciso;

2) Quella di fingere di fare tutto il possibile per il popolo, peccato che ci siano i nemici esterni, i nemici interni, le calamità naturali, le crisi ricorrenti del sistema economico, le recessioni, fattori difficilmente controllabili che vanificano gli sforzi che il potere fa “per il bene del popolo”.

Ovviamente questi sono due schemi di massima, che in realtà non si realizzano mai in maniera “pura”. Anche le dittature esplicite nel corso della storia hanno cercato di presentarsi di volta in volta come “necessarie per il bene del popolo, della repubblica, del regno, della nazione” ed hanno cercato di fingere di fare del bene per i propri sudditi. Anche le dittature implicite (come le odierne “democrazie”) pur fingendo di agire per il bene dei sudditi utilizzando il pungo duro con gli avversari più irriducibili, quelli che hanno capito l’ipocrisia del sistema politico e la denunciano, la combattono. Anche nelle nostre finte democrazie che si oppone radicalmente al sistema di potere smascherandone le menzogne rischia di essere incarcerato, torturato, ucciso. In tutti i casi però ci sono degli strumenti che vengono utilizzati da quasi tutte le oligarchie/dittature (esplicita o implicita) per mantenersi saldamente al potere:

- la creazione di finti nemici;

- la divisione del popolo in due o più fazioni che si contrappongono su tematiche di poca importanza (come dicevano i romani “divide et impera” ossia “dividi e governa”);

- il grande risalto dato a manifestazioni di nessun valore, giochi, sport, intrattenimenti futili (ai tempi dei romani c’erano i “circenses”, ossia i giochi del circo);

- la garanzia della sopravvivenza alimentare, senza la quale si rischia una seria rivolta (per governare i romani distribuivano “panem et circenses”, “pane e giochi circensi);

- l’infiltrazione nei movimenti di opposizione di massa per manovrarli a loro insaputa;

- l’utilizzo di tecniche di controllo di massa (tramite l’applicazione delle più raffinate tecniche derivate dallo studio della psicologia di massa, della sociologia);

- il controllo dell’emissione della moneta;

- il controllo sulla formazione della cultura;

- il controllo della scuola;

- il controllo dell’informazione (il cui utilizzo distorto serve anche a nascondere agli occhi della gente la maniera in cui si utilizzano tutti gli altri strumenti di controllo).

Quando avrò più temo forse mi metterò a dimostrare che le nostre “democrazie” sono oligarchie mascherate, che i veri poteri forti che stanno dietro ai burattini che siedono in parlamento non hanno scrupolo ad usare le peggiori forme di violenza e di coercizione contro chi si oppone ad essi. Basterebbe ricordare il clima di violenza e di repressione totalitaria che si è respirato a Genova nel 2001 (governo di destra), e a Napoli pochi anni prima (governo di sinistra) in occasione di due manifestazioni dei no-global per rendersi conto che il potere che comanda le nostre “democrazie” è violento per natura (detto questo non mi confondete con un aderente ai movimenti no-global per carità, non rientro né in quella né in altre etichette). Quando avrò più tempo mi impegnerò a dimostrare come i governi utilizzino tutte le strategie sopra elencate. Per adesso mi limito ad una sola affermazione: sarebbero stupidi se non le utilizzassero. Volete che governi che utilizzano le migliori e più raffinate tecnologie scientifiche (ad esempio per spiare e controllare tutto e tutti) e non usino le più sottili e raffinate strategie di controllo sociale, pensate davvero che si astengano dall’infiltrarsi nei gruppi di opposizione per pilotarli nascostamente ed utilizzarli per i propri fini? Non vi rendete conto che il leader della cosiddetta “opposizione no-global” è un medico che porta acqua al mulino del Nuovo Ordine Mondiale diffondendo il pregiudizio che l’AIDS sia causato dall’HIV? Non vi ricordate di quando il TG della RAI disse che “i servizi segreti italiani erano a conoscenza del piano per il rapimento di Aldo Moro due settimane prima che avvenisse la strage di Via Fani?”. Non vi ricordate di come in quei giorni arrivò una soffiata sul posto in cui era nascosto Moro e di come la polizia evitò di controllare l’informazione? Lo so, l’informazione dei mass-media non aiuta certo a ricordare certi “dettagli” di fondamentale importanza. Se riuscirò un giorno parlerò di come vengono utilizzate tutte queste tecniche di manipolazione/controllo/dominio, ma oggi voglio parlarvi di una di esse in particolare, perché ci lavoro: la scuola. Cosa c’è di meglio della scuola per indottrinare le persone? Se n’era accorta subito la chiesa quando lo Stato Italiano ha deciso di istituire una scuola elementare pubblica. “Orrore! Orrore! - hanno gridato il papa e tutti i preti in coro - sacrilegio! L’istruzione l’abbiamo sempre gestita noi fino ad ora, guai a chi la sottrae al nostro controllo”. Con questo non voglio certo affermare che lo stato abbia inaugurato una scuola pubblica incentrata sulla libertà, perché se l’educazione gestita dai preti era sicuramente di parte, anche la scuola pubblica serviva ad inculcare nei futuri cittadini tutta una serie di idee preconcette: “lo stato è buono”, “il potere è buono”, “il re è buono”, “il re è bello”, “il papa è santo”, “è giusto morire per la patria”, “non ribellarti al potere”. Un tipico esempio è quello della Germania/Prussia ai tempi di Bismarck , il quale affermò senza giri di parola che voleva utilizzare la scuola per infondere uno spirito militaresco nei allievi. A giudicare dai risultati che si sono ottenuti nel giro di 50 anni (Hitler, il nazismo, la seconda guerra mondiale) bisogna dire che quell’indottrinamento militare è stato decisamente “proficuo”. Cosa pensate che sia cambiato da quei lontani termini? La forma sì, certamente la forma è cambiata, ma la sostanza? Nel 2001 ad esempio è stato decretato dal ministro dell’istruzione Moratti l’osservanza di tre minuti di silenzio per commemorare i morti delle torri gemelle a New York, squallida manovra per indurre un’approvazione della guerra USA contro l’Afghanistan e della partecipazione Italiana al conflitto (sebbene in una maniera minore e molto subdola, inviando un contingente al comando degli USA solo dopo l’occupazione militare di quella Nazione e la caduta del vecchio governo). Forse qualcuno pensa che la scuola, almeno quella pubblica, garantisca un confronto fra diversi modi di pensare, diverse opinioni politiche, idee contrapposte. In realtà questo succede limitatamente al fatto che i professori e i maestri hanno diversi orientamenti politici, votano per partiti differenti, e quindi si lasciano sfuggire discorsi e battute contro questo o quell'uomo politico. Per il resto l'omologazione all'interno della classe docente é fortissima, soprattutto quando entrano in gioco la storiografia e la scienza ufficiale, oppure il "sentimento religioso" ed il cosiddetto "amor patrio" (che raramente coincide con il vero amore per la propria terra e per i propri connazionali, mentre troppo spesso é bieco nazionalismo). In tutti questi casi non solo vi é un quasi totale allineamento dei docenti sulle stesse posizioni, ma chi tenta di esprimere il suo dissenso viene spesso trattato come un folle o come un fastidioso rompiscatole. Nei primi anni del 2000 nella scuola italiana (a partire dal già menzionato episodio relativo ai morti dell’11 settembre 2001) si é preso il brutto vizio di indire dei minuti di silenzio per commemorare la morte di alcune persone, facendo così una ben curiosa distinzione fra morti da commemorare e su cui riflettere, e morti su cui é meglio non soffermarsi col pensiero. A quanto pare qualcuno vuole inculcare nelle menti delle persone, e dei alunni in particolare, l'idea che le vite degli esseri umani non abbiano tutte uguale dignità e valore. Per due volte l'iniziativa é stata imposta direttamente dal governo, ma le altre volte sono stati i singoli dirigenti scolastici a decidere "autonomamente" (le virgolette sono dovute al fatto che lo hanno fatto praticamente tutti adeguandosi ad un andazzo nazionale). Di conseguenza l'istituzione scolastica ha cercato di imporre una particolare visione politica della realtà secondo la quale, ad esempio, i 3000 morti delle torri gemelle sono da ricordare e commemorare e sono più importanti sia del milione di iracheni uccisi dalla guerra e dall'embargo negli anni '90, sia dei 3000 bambini che muoiono di fame ogni giorno. Alla stessa maniera i militari italiani (superpagati e volontari) morti a Nassirya sono da ricordare e commemorare per il loro "sacrificio per la pace" a differenza degli operai (sottopagati e sfruttati) che muoiono quotidianamente negli incidenti sul lavoro. In quell'occasione una mia timida espressione di dissenso é stata stigmatizzata dal preside (che era persino contrario alla guerra in Iraq). Non credo che abbia capito che, per quanto mi dispiacesse per la morte di quelle persone, non ritenevo opportuno che la scuola venisse utilizzata per imporre simili commemorazioni dal fine prettamente politico. Avete mai visto una simile commemorazione quando sono morti 10 operai di una fabbrica? A quanto pare per i mass media e per le istituzioni, scuola compresa, la vita di un operaio é meno importante di quella di un militare. Per altro molti militari inviati in Iraq facevano sfoggio nei loro alloggi di simboli fascisti, ed é quindi più che legittimo dubitare del fatto che fossero lì a rischiare la vita per la pace; forse molti di loro si sono ritrovati in Iraq perché attratti dall'alta paga e dalla voglia di un'avventura esotica. Ma la scuola con le sue commemorazioni calate dall'alto impone implicitamente un punto di vista, ed invece che organizzare una riflessione sul conflitto iracheno, una discussione sull'opportunità di quella missione militare all'estero, fa semplicemente da grancassa al trambusto mediatico, e contribuisce al risorgere di quel discutibile "sentimento della patria" che nasconde il rilancio della funzione offensiva dell'esercito; un esercito che, in barba alla costituzione, è stato impiegato in 15 anni per ben 4 volte in operazioni militari al seguito delle guerre statunitensi. Anche quando c'è stata la strage dei bambini in una scuola della Cecenia si è ripetuta a scuola la commemorazione silenziosa; curiosamente questa volta non é stata imposta direttamente dal governo, ma organizzata dal solito trambusto dei mass-media. Ma il copione non è per questo cambiato di molto: siccome i terroristi Ceceni venivano presentati come islamici e siccome gli USA ed i loro alleati erano impegnati in una serie di guerre contro il “terrorismo islamico” qualcuno deve avere deciso di utilizzare anche questo triste avvenimento per orientare la coscienza delle masse, e degli alunni in particolare. E che dire del Papa commemorato col solito minuto di silenzio e ricordato come "uomo di pace"? Proprio lui che col riconoscimento precipitoso delle repubbliche secessioniste della ex-Jugoslavia aveva accelerato un processo che avrebbe portato alla guerra fratricida? Proprio lui che dei preti uccisi nella guerra civile spagnola, aveva beatificato solo quelli fedeli al fascista Franco? E non parliamo delle sue discutibili scelte in ambito religioso per evitare di scrivere un trattato sull'argomento. Intendiamoci, non mi interessa in questa sede discutere sulla bontà o sulla presunta santità del defunto Papa Giovanni Paolo II, quello che intendo rilevare é che la scuola rendendo omaggio alla memoria di alcune persone e dimenticandosi invece di altre, fa una scelta che ha dei significati politici ben precisi, e che puzza tanto di indottrinamento. "La scuola dell'indottrinamento scientifico". Quanto al resto, o meglio, per quanto riguarda tutti gli aspetti controversi della cultura ufficiale che vengono esaminati in questo sito, di confronto e di contrapposizione ce n'é ben poca, ma quello che é peggio è che il confronto o viene vietato o viene ostracizzato in ogni maniera. Se é comprensibile il fatto che i docenti siano stati ingannati da un certo sistema di gestione del potere e della cultura e che quindi non discutano quasi mai argomenti che mettano in dubbio certe presunte verità (in particolare sull'affidabilità della medicina ufficiale, sugli espianti, sull'aids, sulla psichiatria, sulla preistoria), ben diverso é il fatto che quando ci si prova a prospettare un confronto su questi tempi si scatenino i peggiori isterismi che portano perfino a vietare l'approfondimento di certe tematiche controverse. La mia pluriennale esperienza di docente nella scuola superiore mi ha permesso purtroppo di verificare che su certe questioni l'atteggiamento di rifiuto del dissenso e di condanna di chi esprime opinioni difformi é del tutto generalizzato. Ecco un primo esempio.

Espianti e trapianti. Liceo scientifico di Caravaggio, agli inizi del 2000, su proposta di una professoressa la scuola approva una visita ad un ospedale per andare ad assistere in diretta ad un'operazione di trapianto. Al di là del fatto che una simile iniziativa si potrebbe subito giudicare di cattivo gusto, la cosa peggiore è stata la maniera in cui la scuola ha reagito alle proteste contro tale iniziativa. In seguito ad un volantinaggio di protesta della "Lega nazionale contro la predazione degli organi" che cosa ha pensare di fare l'istituzione scolastica per garantire una serena discussione di approfondimento su questo tema controverso? Semplice, ha chiamato un medico favorevole ai trapianti per tenere una conferenza rivolta soprattutto agli alunni delle ultime classi, senza pensare minimamente a prevedere alcun contraddittorio. Come lo volete chiamare questo? … "orientamento guidato"? ...Il caso ha voluto che il giorno stesso in cui era prevista quelle conferenza a favore dei trapianti io fossi stato invitato nella stessa scuola a tenere una relazione sull'embargo in Iraq. Si trattava di iniziative all'interno di quella che viene (spesso impropriamente) chiamata "autogestione", uno spazio di alcuni giorni dedicato a dibattiti, discussioni, approfondimenti su tematiche sociali e politiche di attualità. Finita la mia relazione sull'Iraq sono venuto a sapere che subito dopo iniziava la conferenza sui trapianti. Allora ho chiesto ad alcuni alunni responsabili dello svolgimento di quella "autogestione" se potevo partecipare alla conferenza per esprimere pareri opposti a quelli del conferenziere e permettere un contraddittorio. Per essere corretto non sono entrato nella sala in cui si svolgeva la conferenza prima di chiedere ed ottenere un permesso. Risultato: dopo 10 minuti in cui ho contestato alcune affermazioni del relatore ufficiale arriva il vicepreside ha "espellermi". Ma come, non era un'autogestione? No, risponde il vicepreside, in realtà si trattava di una "co-gestione", ossia un'iniziativa gestita dalla direzione scolastica in collaborazione con gli studenti, ed il mio intervento non era previsto. L'idea di approfittare della presenza di un esperto che potesse ravvivare il dibattito e creare un contraddittorio é ovviamente fuori dalla portata di certe persone. Dopo qualche anno è successo il bis in una scuola in cui insegnavo, quando con una collega di Italiano abbiamo affrontato il tema dei trapianti, facendo leggere articoli pro e contro la donazione degli organi (da notare che la mia collega è moglie di un medico che ha lavorato in rianimazione e certificato alcune “morti cerebrali”), ed a fine anno abbiamo pure organizzato una presentazione ai genitori ed alla scuola il lavoro da noi svolto. In questo “happening di fine anno” sono stati anche presentati i dati:

fra gli alunni di quella classe (primo liceo) che hanno approfondito l’argomento, nonché fra i genitori che erano stati coinvolti nella discussione, l’80% era contrario alla “donazione degli organi”;

fra gli alunni di un’altra classe (sempre una prima liceo), che non aveva mai approfondito la tematica, nonché fra i loro genitori, l’80% era favorevole alla “donazione degli organi”.

In quell’occasione io ho anche espresso (cercando persino di moderarmi a causa della mia “veste istituzionale”) alcune mie perplessità sulla donazione degli organi, mentre un dottore (il marito della mia collega) ha espresso la sua convinzione sulla correttezza della dichiarazione di “morte cerebrale” pur facendo alcuni distinguo sulle modalità con cui avveniva la “donazione”. Risultato: il preside mi ha additato al pubblico disprezzo come indottrinatore durante una riunione collegiale dei docenti della scuola (lo ringrazio per avermi considerato così bravo da indottrinare e convincere non solo i miei alunni ma persino i loro genitori che hanno solo ricevuto dei materiali di opposte tendenze sul trapianto e la donazione degli organi). Come se non bastasse durante un colloquio personale mi ha precisato che i docenti che avevano fatto propaganda esplicita alla donazione degli organi hanno agito bene, mentre io che ho provato (con tutti i miei limiti) ad informare sul pro e sul contro della questione ho agito male ed ho indottrinato gli studenti !!! Ah dimenticavo, il mio preside si vantava di “essere di sinistra” (e che vuol dire)? Ah dimenticavo, due anni dopo hanno fatto in un’altra classe un lavoro di ricerca sui trapianti, avendolo saputo mi sono offerto come collaboratore per contribuire ad una informazione non settaria. Non solo mi hanno escluso, ma nei lavori dei ragazzi non ho visto traccia del dubbio, nemmeno del dubbio, che trapianti/espianti potessero essere poco utili e poco etici. Avete capito come funziona la scuola?

E poi c'è ancora un'altra storia.

"Raccogliamo soldi contro il cancro". Sempre nella stessa scuola mi sono opposto alla raccolta di fondi per un’associazione che “lotta contro la leucemia”, che sostiene i trapiantati di midollo (e che quindi propaganda, sebbene indirettamente, il trapianto di midollo). Ho provato per 4 anni a chiedere su quali basi scientifiche si potesse affermare che il trapianto di midollo fosse utile nella cura della leucemia, e devo dire che a volte ho litigato ferocemente con alcuni docenti (povero me, com’ero ingenuo a quei tempi!). Per 4 anni mi hanno detto che “le prove ci sono”, “te le porteremo prima o poi”. Poi ho chiesto per telefono all’associazione “contro la leucemia” e avessero tali dati. “Non ne abbiamo - è stata la risposta - si rivolga ai medici dell’Ospedale”. Poi finalmente mi sono rivolto a Internet (perché non ci ho pensato prima?) e ho scoperto che la mortalità per leucemia è del 67%, quella per trapianto di midollo … indovinate! Intorno al 66% (con la maggior parte dei decessi nei primi due anni dal trapianto). Un’ottima cura quella del trapianto non c’è che dire, tanto è vero che in quella scuola si usava raccogliere fondi per “la lotta alla leucemia” in memoria di una ragazza leucemica che era stata trapiantata ben due volte ed era morta. Due insuccessi non sono bastati per aprire gli occhi. E adesso cosa credete che sia successo quando ho stampato quei dati (presi dal sito del ministero della sanità e dal sito dell’Istituto nazionale dei tumori) e li ho mostrati ai miei colleghi? Niente, niente di niente, tutto come prima. E si continuano a raccogliere fondi. Avete capito come funziona la scuola?

No, no, non è finita, perchè è la volta del'AIDS!

AIDS: Vietato dissentire. Sempre la solita scuola, propongo di realizzare in alcune classi un lavoro di confronto pro e contro l'ipotesi che l'HIV causi l'AIDS, mi riesco persino a procurare due medici relatori di opposte tendenze. Inizio ad approntare il materiale di studio, pro e contro, presento il progetto in presidenza (anche per i finanziamenti, per quanto piccoli, del caso), e per correttezza lascio (con grande anticipo) una copia del progetto ai colleghi di scienze per stimolare il dibattito e per verificare se da parte loro ci fossero eventuali perplessità. Risultato: i colleghi di scienze non dicono niente fino alla riunione del collegio docenti in cui si discutono i vari progetti ... poi d'improvviso in quell'occasione esplodono tuonando contro di me e dicendo che il mio progetto è pericoloso. E d'altronde come dargli torto? Sì, è pericoloso, i ragazzi potrebbe iniziare a pensare con la loro testa. Ma di cosa avevano paura? Se l'AIDS fosse sicuramente una malattia virale ci vorrebbe poco a smontare le tesi di chi pensa che siano altri i fattori che scatenano tale mortale sindrome. Se fosse tutto così vero, così sicuro, un approfondimento tematico da parte degli studenti, persino un confronto coi fautori di teorie differenti li rassicurerebbe sul fatto che l'AIDS è una malattia infettiva e che bisogna difendersi con ogni mezzo dal contagio dell'HIV. Eppure ... vietato, sissignori, vietato! I dogmi sull'AIDS non si possono discutere. Ovviamente tutti i colleghi intimoriti dalla levata di scudi del team di scienze cosa pensate che abbiano votato? Vietato, vietato, proposta da bocciare! Però questa volta c'è il lieto fine. Uno dei colleghi di scienze ha avuto il coraggio di approfondire la questione, leggere i libri dei "dissidenti" e degli "eretici", confrontare le loro tesi con quelle ufficiali, e poi alla fine dell'anno dichiarare di fronte ai docenti tutti che si era convinto che l'AIDS non fosse una malattia infettiva. Un'altra collega a fine anno mi ha confessato che aveva più dubbi che certezze sull'argomento. Due docenti di scienze su 5 non è poco, specie se sono gli unici che si mettono in discussione, perchè in tal caso la percentuale sale al 100%. Poi ho scopeto che una docente di scienze era particolarmente contraria al mio progetto: aveva lavorato come volontaria in Africa per "curare i malati di AIDS"! Penso proprio che non avrebbe mai accettato di mettere discussione il proprio operato.

Ooops, non è finita! Che ne dite di Telethon?

Soldi per la ricerca genetica. A me non piace per niente (a dire poco) perchè finanzia la vivisezione, perchè la ricerca genetica credo abbia finalità ben diverse da quelle dichiarate, perchè i geni sono solo una parte del problema ma è fondamentale l'interazione con l'ambiente: ci sono diversi casi di malattie "genetiche" che non si manifestano se si segue una certa alimentazione. Ma la lista sarebbe è lunga. Per farla breve, in un'altra scuola (tanto il problema è sempre lo stesso) l'anno scorso si sono raccolti fondi per Telethon, io ero contrario, ho comunicato la mia contrarietà ai docenti che hanno sostenuto l'iniziativa (tali iniziative ovviamente non vengono discusse in nessuna sede, vengono approvate tout court!) e al preside. Dietro mia richiesta e insistenza l'unica motivazione che sono riusciti a produrre per una tale raccolta di fondi è che "si spera che queste ricerche alla fine producano qualche risultato positivo". Qualcuno mi ha detto che però "i ragazzi sono stati informati", non hanno donato soldi a scatola chiusa. "Informati come?" chiedo io. "Con gli opuscoli Telethon!" è l'ingenua risposta. A quanto pare quando si parla di medicina la par condicio non esiste, la scienza ufficiale non si tocca. Avete capito come funziona la scuola?

“Si cambia partendo dai bambini”: prove tecniche di indottrinamento? Scrive il Comitato Articolo 26. Prima di questo, si consiglia di leggere l’articolo precedente (200 milioni per l'educazione di genere) per comprendere i presupposti a partire dai quali vengono sviluppati i ragionamenti qui riportati.

Istruzione: 200 milioni per l’educazione di genere! Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università  è il nome di una nuova proposta di legge che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di prevenire  il femminicidio e di combattere le discriminazioni. Cosa ci potrai mai essere di male in una iniziativa simile e chi potrebbe non condividere finalità così nobili? Per esempio chi, informandosi e approfondendo, ha visto cadere il velo dell’apparenza e ha ormai chiaro che per “genere” non si intende (solo) il sesso femminile contrapposto al maschile, ma tutta una concezione della sessualità e della persona.  Al contrario, chi si limiterà a restare in superficie accontentandosi di qualche slogan senza volersi affacciare ai contenuti più profondi della “rivoluzione gender”, forse continuerà a ritenere le voci critiche come posizioni incomprensibili e reazionarie, ma con il rischio concreto di venire manipolato da un’ideologia che cerca di far credere che neppure esista. L’attuale classe politica avrà una responsabilità enorme nel caso in cui voglia volgere lo sguardo altrove per non vedere che dietro ai concetti di “educazione alla parità” o di “decostruzione degli stereotipi sessisti”, in realtà si cela una visione radicale ed inaccettabile della persona, dell’identità sessuale e della famiglia. Lo ripetiamo: se l’unica finalità di questi programmi fosse educare al rispetto tra maschi e femmine, valorizzare il ruolo delle donne nella storia o criticare l’oggettivazione dei corpi femminili nelle pubblicità, ne saremmo tutti ben lieti. Ma come è ormai manifesto nelle gender theories, come viene recepito da svariati documenti internazionali e poi messo in pratica anche in molte scuole di casa nostra, educare “alle differenze di genere” troppo spesso sottintende condurre i giovani all’indifferentismo sessuale e al non concepirsi come donne o uomini, ma come individui per i quali la caratterizzazione sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono fluidi, continuamente modificabili e in fin dei conti irrilevanti. E’ emblematico il fatto che quando si parla di  stereotipi di genere, si finisca sempre a parlare di stereotipi in base all’orientamento sessuale (come del resto fa anche la risoluzione n.2011/2116 per l’eliminazione degli stereotipi di genere in Europa, che la suddetta proposta di legge richiama). Il percorso classico è partire sottolineando le differenze individuali (una donna camionista o un ragazzo amante del  cucito) per arrivare ad affermare che le differenze non esistono affatto, vale a dire che non esiste un quid che sostanzia naturalmente l’umanità come divisa in maschi e femmine. Cosa ne deriva? Che non solo sarebbe indifferente come nasciamo, ma anche il nostro orientamento sessuale, pena il diventare discriminanti. E a partire da questo presupposto, la mamma che fa la torta o la bambina che culla la bambola diventano immagini che indurrebbero ad una disparità tra maschi e femmine e alimenterebbero una cultura misogina: ecco quindi che vanno eliminate dalle teste (e dai testi) degli studenti. Un esempio di educare alle differenze sarebbe il libro “Mi piace Spider Man”, che viene consigliato alla scuola materna dai 4 anni (?!?). La piccola protagonista deve combattere non pochi “stereotipi” per conquistare la sua cartella “da maschio” che le piace tanto. E va bene; ma perché qualche pagina dopo, le fanno dire – a lei che di anni ne avrebbe sei – che ha capito che “da grande potrà avere un fidanzato o una fidanzata”? A sei anni? Come ha scritto pochi giorni fa Karen Rubin su “Il Giornale” a tal proposito,  non si considera che “di un universo femminile che contempla più volti, i bambini piccoli conoscono solo la parte che li riguarda… Poco importa che faccia l’astronauta o la dottoressa: la mamma il piccolo la vorrebbe sempre con sé. E’ degradante tutto ciò?… Si sogna una società dove padri e madri siano interscambiabili e le torte non siano più menzionate, neanche fossero droghe pesanti… C’è un errore in tutto questo. La mamma che cucina e la bambina che culla la bambola non sono stereotipi, sono ruoli di genere che si legano strettamente all’identità di ogni essere umano. Se la mamma prepara il cibo per il suo piccolo non trasmette debolezza ma amore. Se il padre è virile perché protegge i figli e la moglie manda un messaggio di forza e coraggio. Se invece picchia la sua compagna non è una questione da ridurre a stereotipi”. E come conclude la Rubin “duecento milioni di euro – questo l’esborso per questa riforma scolastica a carico nostro, che siamo abituati ad autotassarci per dotare di carta igienica le scuole  dei nostri figli - sono davvero sprecati per censurare le immagini. Usiamoli per educare gli uomini e lasciamo in pace i bambini“.

In un paese democratico sui banchi di scuola ci si dovrebbe sedere per imparare l’arte lunga e difficile della vera libertà, e non per subire un indottrinamento, che appoggia per altro su discutibili basi filosofico-teoretiche spacciate per scientifiche. Da quanto si evince da una recente intervista apparsa su La Repubblica, non la pensa così Valeria Fedeli, PD, vicepresidente del Senato, che parla proprio di un insegnamento che si vuole rendere normativo e vincolante e il cui contenuto ormai dichiarato è l’ideologia gender. In questa intervista con poche parole viene liquidata un’intera civiltà, basata sulla legge di natura e sulla forma corrispondente di razionalità: “i luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi, che ignorano quanto l’altra metà del cielo ha fatto in tutti campi”. Come se la porzione più consistente di questi importanti conseguimenti femminili non fosse stata realizzata all’interno della suddetta civiltà. Ci viene da chiederci se la Fedeli si renda conto che la società che programma di decostruire partendo dalla scuola è proprio quella che l’ha condotta a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Senato (mentre una donna presiede la Camera e si riscontra una parità tra ministri di sesso maschile e femminile); citando delle frasi della sua intervista ci viene da tranquillizzarla, perché i fatti già dicono altro: oggi parlare come fa lei di passività delle donne può giusto essere un vecchio ricordo stereotipato, mentre il tempo di crisi che le famiglie concrete stanno affrontando ha già messo in fuga tutti i principi azzurri su piazza, per cui i sogni delle femminucce si sono adeguati diventando molto più a buon mercato. L’educazione di genere – che dando credito a qualcuno neppure esisterebbe, quasi fosse una teoria del complotto di pochi reazionari – verrebbe così introdotta tramite un apposito disegno di legge nelle scuole e nelle università nell’intento di spazzare via, in nome di una libertà banalizzata,  l’inaccettabile adeguarsi alla verità dei programmi educativi tradizionali, elaborati dalla razionalità del buon senso naturale e presupponenti la differenza sessuale come dato di fatto autoevidente ed  inamovibile. E’ incredibile il prezzo che si è disposti a pagare pur di distorcere la realtà. E’ impressionante il modo semplicistico con il quale il sistema scolastico venga etichettato come anticaglia da cestinare: le elementari vengono banalizzate come fucina di storielle discriminatorie e non come primo stadio della scolarizzazione, più che mai rispettoso della differenza sessuale, non in nome di un’ideologia conservatrice, ma perché indirizzato ad esseri umani, molto vulnerabili e manipolabili, che trovano in tale differenza il loro primo solido orientamento identitario. Nell’intervista della Fedeli si parla di parità, di uguaglianza, di rispetto, di libertà. Parole altisonanti, politicamente corrette, che incantano lettori ed ascoltatori, che mettono d’accordo tutti, ma lasciate come sono del tutto prive di contenuto, diventano oggetto di una manipolazione semantica gravissima, venendo in modo subdolo riempite di contenuti razionalmente inaccettabili. Ma la cosa più paradossale è che questo peana per la libertà si conclude, nel massimo dispregio del principio di non contraddizione, con un’affermazione programmatica dal sinistro tenore totalitario e liberticida: “si cambia partendo dai bambini, gli uomini di domani“. L’avrebbe condivisa Pol Pot. Si parte dai bambini, arrivando a sottrarne l’educazione sessuale ai violenti e retrogradi genitori, perché solo in esseri indifesi e non ancora formati dal punto di vista razionale può sperare di attecchire in profondità una visione dell’uomo tanto priva di base scientifica e per questo lontana dalla realtà come quella propugnata dall’ideologia ipersessualizzata del gender. E vorremmo chiudere permettendoci una riflessione, un appello che speriamo che la prima firmataria della legge voglia ascoltare: è stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne è fortemente connesso al fenomeno dell’ipersessualizzazione della società e del mondo maschile? Domanda: siamo certi che l’investimento dei 200 milioni di euro per tirare la volata al gender e agli standard OMS con la loro sovra-esposizione al sesso fin dalla più tenera età non si riveli un doloroso boomerang proprio per il mondo femminile che si vorrebbe proteggere?

L’ideologia oggi è la mancanza di serietà. Una prof racconta, scrive Marina Valensise su “Il Foglio”. Anna Maria Ansaloni è una prof un po’ speciale, è vero. Insegna al Leonardo da Vinci-Duca degli Abruzzi, il liceo tecnico di via Palestro, quartiere centrale. E’ convinta che la scuola non debba fare quello che “vogliono le famiglie”, ma “formare il cittadino”, e pensa anzi che le famiglie oggi siano spesso ignare dei veri problemi della scuola. Ma su un punto conviene con l’allarme lanciato dal presidente del Consiglio, quando difende l’insegnamento libero contro l’indottrinamento ideologico. “I genitori sanno che i loro figli escono dalla scuola sprovvisti delle competenze che invece loro avevano alla stessa età. Per questo, insistono perché la scuola sia più seria, più attenta alle conoscenze di base, più centrata sulla disciplina e sul rigore”. Anna Maria Ansaloni è un’entusiasta, è un’insegnante che adora insegnare. E’ convinta che l’egemonia di sinistra non sia altro che un ricordo sbiadito: “E’ semplicemente morta. La sinistra non esiste più, nel mondo della scuola è irrilevante, mi pare. Tieni conto che la maggioranza degli insegnanti oggi quarantenni ha vissuto gli ultimi vent’anni con Berlusconi. L’ideologia semmai sopravvive come abitudine di costume, nell’occupazione, che non è un fatto politico, ma un rituale di passaggio”. La prof Ansaloni insegna Italiano e storia in una seconda e terza classe, ha le idee chiare e i mezzi per realizzarle: “Il vero dramma è la scuola media, dove i ragazzi disimparano ciò che apprendono alle elementari. Vedo ragazzi che scrivono a matita perché poi così possono cancellare, ma scrivono compiti di otto pensierini che non sono da scuola superiore. Io perciò lavoro molto sul costruire le regole. I ragazzi purtroppo sono molto lenti e disordinati. Vanno educati a un certo ordine nell’esporre gli argomenti, a una notevole quantità di compiti sistematicamente valutati e compresi, alla chiarezza dal punto di vista linguistico. Fraintendimento e intendimento per loro sono la stessa cosa. Per lavorare sul senso delle parole e sulla forma scritta, devi tornare ai testi appresi a memoria, perché senza chiarezza non c’è conoscenza. Devi fargli capire che la fatica è inevitabile, mettere sanzioni chiare e rispettarle”. La professoressa Ansaloni, dunque, ha rafforzato i programmi di lettura. Una volta al mese riunisce gli studenti di 14 e 15 anni nella biblioteca della scuola per discutere con signore di 60 o 70 anni dello stesso libro, e a volte incontrare l’autore. “Mi piace tantissimo parlare con queste signore, mi ha detto un ragazzino, non sono mica come mia madre. Non è l’alunno a parlare, ma il lettore e il lettore è trasversale”. In questo modo si accrescono le competenze linguistiche, si supera un problema didattico. “Noi adottiamo libri di testo inadeguati ai ragazzi” dice infatti la prof Ansaloni. “Per capirli devi decodificarli, e per questo cerco di costruire una sintesi, di fare scrivere i miei allievi su quel testo, di fargli poi valutare cosa realmente ne hanno capito. Dobbiamo ampliare il lessico. Una volta i nostri figli parlavano con 300 parole, ora ne usano 50. Perciò io punto a rafforzare il programma scolastico col lavoro di lettura e di scrittura e la verifica attraverso i questionari. E’ vero che molti miei colleghi non mi seguono, "lasciami stare, mi dicono, con 1.600 euro al mese, per mantenere moglie e due figli devo fare tre lavori". Ma risultati ci sono. Se dico ai miei ragazzi, guarda, quel tizio non ha né artigli né zanne, loro continuano, sì però non voleva essere sbranato. Vuol dire che qualcosa dei ‘Promessi Sposi’ è rimasto: il lessico e la lettura gli si è sedimentata dentro e in modo naturale”. C’è anche un altro handicap dei giovani d’oggi: nessuno scrive più in corsivo. “Il corsivo è scomparso. Abituati col computer e l’sms scrivono tutti in stampatello, alcuni non sanno più come si scrivono certe maiuscole in corsivo. Non è solo una questione di grafia o calligrafia. In stampatello, usano frasi sintetiche di comunicazione, non di espressione: vado, vengo, anziché – penso di venire, avrei intenzione di andare, con una struttura della frase paratattica, senza principali e secondarie, ma con una sfilza di principali spesso con la stessa forma verbale. Il corsivo invece prevede un certo tempo in cui pensi, elabori, unisci le lettere, ti dà una capacità riflessiva, permette un’elaborazione concettuale che implica l’uso di articoli, aggettivi, la punteggiatura, la varietà di forme verbali e l’espressione di sé. Oggi i ragazzi è proprio questo che vogliono evitare:  non sanno né vogliono scrivere di sé, esprimere emozioni, anche se ce le hanno dentro. Allora devi aiutarli. Io per esempio quando leggiamo un sonetto di Dante, ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’, chiedo ai ragazzi di cercare dei raffronti con l’immensità, con Dio, con la spiritualità. Loro li trovano nelle canzoni di Vasco Rossi o Jovanotti, e per me è un successo”. La maggiore soddisfazione, però, Ansaloni dice di averla “tutti i giorni quando entro in classe, perché insegnare mi diverte da morire, quando i ragazzi trascorrono un’ora senza rendersene conto, quando vedo all’intervallo quello con la cresta che ti cita una frase di Manzoni. Adesso sta leggendo il ‘Postino di Neruda’ di Skármeta, e una sua allieva rumena, brava e determinata, che dopo la scuola lavora come babysitter, quasi non ci crede: ‘Professoressa, le metafore le possiamo fare anche noi…’”.

Scuola: arriva il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica. Chi sgarra sarà sospeso. Un deputato del Pdl ha proposto un'aggiunta al testo unico sulla scuola per impedire agli insegnanti di fare propaganda politica. Secondo lui questo avverrebbe soprattutto in Emilia Romagna. A vigilare dovranno essere i dirigenti scolastici, scrive Marta Ferrucci su “Studenti”. Fabio Garagnani, deputato del Pdl, ha proposto una aggiunta al testo unico sulla scuola: il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica.  Dovranno essere i dirigenti scolastici a vigilare e per chi sgarra è prevista la sospensione da 1 a 3 mesi. "L'importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori". Per quanto riguarda le sanzioni queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge. La propaganda politica" -secondo garagnani- "non può trovare tutela nel principio della libertà dell'insegnamento enunciato dall'Articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un'altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica". E sarebbero molti i casi in cui i professori oltrepassano questo limite; per Garagnani accade soprattutto in Emilia Romagna, tra i professori iscritti alla Cgil". Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil si tratta di una proposta "delirante" ed ha aggiunto che "gli insegnanti educano, non inculcano". Ha ragione Garagnani o si tratta di una proposta "delirante"?

"Troppi libri comunisti a scuola", Pdl: Ci vuole una commissione d'inchiesta, scrive Agenzia Dire su “Orizzonti Scuola” - Iniziativa di 19 deputati guidati da Gabriella Carlucci, all'indice i testi di storia: "Gettano fango su Berlusconi". Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero "tentativi subdoli di indottrinamento" per "plagiare" le giovani generazioni "a fini elettorali" dando "una visione ufficiale della storia e dell'attualità asservita a una parte politica", il centrosinistra, "contro la parte politica che ne è antagonista", ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita "vergognosa", secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento "non può far finta di non vedere" e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta "sull'imparzialità dei libri di testo scolastici". Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio 2011  e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell'avvio dell'esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: "Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?" E la "battaglia partigiana", secondo il firmatari, viene messa in atto "osannando l'attuale schieramento di sinistra" e "gettando fango sui loro avversari". Per "capire la gravità del problema", sostengono i 19 deputati, "basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli". Scopo della Commissione d'inchiesta? "Verificare quali sono i libri faziosi - spiega Barbieri interpellato dalla Dire - e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero...". Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette all'indice i libri di testo definiti "partigiani", sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi incriminati, specificando che "in Italia, negli ultimi cinquant'anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico" retaggio "dell'idea gramsciana della conquista delle casematte del potere" che "si è propagato attraverso l'insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole". Si cita La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive "tre personaggi storici: Palmiro Togliatti, un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali; Enrico Berlinguer, un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi, uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica". Ma anche Elementi di storia di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, reo, ad avviso del Pdl, di sostenere che "l'ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo". E ancora, la Storia, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 "l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche". E si arriva ai tempi più recenti. "Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'ideologia comunista in Italia - si precisa nella premessa alla proposta - i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali" e anzi "si rafforzano e si scagliano" contro "la parte politica che oggi è antagonista della sinistra", quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d'inchiesta per verificare "l'imparzialità dei libri di testo scolastici", la messa all'indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l'era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, "osanna" agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: "Il Pds - è scritto - intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane" con "un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese". Si tira poi in ballo la descrizione che L'età  contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: "Dopo aver abbandonato l'esercizio della magistratura per passare all'attività politica nel partito democristiano" si è segnalato "per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari". Ma il testo che più si distingue "per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche" è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l'attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la "combattiva europarlamentare" che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad "allontanare dalle cariche di partito" tutti "i propri esponenti inquisiti". E come viene descritto l'antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, "con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro". Secondo gli autori, "l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese". L'elenco dei libri "naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione".

Bagnasco contro i "campi d'indottrinamento" gender. Scrive Massimo Introvigne su “La Nuova BQ”. Lunedì 24 marzo 2014, aprendo il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che la presiede ha affrontato con grande determinazione la problematica della famiglia e dell’ideologia di genere. «La preparazione alla grande assise del sinodo sulla famiglia, che si celebrerà in due fasi nel 2014 e nel 2015, nonché il recente concistoro sul medesimo tema – ha detto Bagnasco – hanno provvidenzialmente riposto l’attenzione su questa realtà tanto “disprezzata e maltrattata”, come ha detto il Papa: commenterei, “disprezzata” sul piano culturale e “maltratta” sul piano politico». Il cardinale ha inquadrato la natura ideologica del problema: la famiglia è diventata il nemico da abbattere. «Colpisce che la famiglia sia non di rado rappresentata come un capro espiatorio, quasi l’origine dei mali del nostro tempo, anziché il presidio universale di un’umanità migliore e la garanzia di continuità sociale. Non sono le buone leggi che garantiscono la buona convivenza – esse sono necessarie – ma è la famiglia, vivaio naturale di buona umanità e di società giusta». Il cardinale è andato oltre: non è rimasto sul generico, ma ha citato come esempio dei maltrattamenti che la famiglia subisce un episodio specifico, su cui – lo ricordiamo per la cronaca, senza rivendicare primogeniture – per prima «La nuova Bussola quotidiana», nel silenzio generale, aveva attirato l’attenzione. «In questa logica distorta e ideologica – ha detto Bagnasco –, si innesta la recente iniziativa – variamente attribuita – di tre volumetti dal titolo “Educare alla diversità a scuola”, che sono approdati nelle scuole italiane, destinati alle scuole primarie e alle secondarie di primo e secondo grado. In teoria le tre guide hanno lo scopo di sconfiggere bullismo e discriminazione – cosa giusta –, in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre… parole dolcissime che sembrano oggi non solo fuori corso, ma persino imbarazzanti, tanto che si tende a eliminarle anche dalle carte». Durissimo il commento del presidente dei vescovi italiani «È la lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga». Parole chiarissime: altri vescovi prendano esempio. La strategia enunciata esplicitamente da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – il Papa di certe questioni, comprese quelle (citate in nota nel documento come esempio delle «questioni» cui si allude) della famiglia e del gender, non parla, chiede che siano gli episcopati nazionali a intervenire – non piace a tanti nostri lettori, e dalle strategie, che non sono Magistero neppure ordinario, si può certo legittimamente dissentire. Però qualche volta le strategie funzionano: dove tace il Papa, i vescovi parlano. È successo negli Stati Uniti, in Polonia, in Croazia, in Portogallo, in Slovacchia. Ora succede anche in Italia, e non si può non ricordare che – come sempre avviene nel nostro Paese – prima di aprire con questa relazione il Consiglio Permanente della CEI venerdì scorso Bagnasco è andato in udienza dal Papa, cui questi testi sono di regola previamente sottoposti. Vediamo se questa rondine farà, come ci auguriamo, primavera.

Genitori, reagite all'imposizione dell'ideologia gender!. L'edizione di domenica di RomaSette, il settimanale della diocesi di Roma, evidenzia e valorizza l'azione del Comitato Articolo 26 contro i molteplici tentativi di introdurre nelle scuole l'ideologia gender, scrive Giuseppe Rusconi su Zenit.org. Per questa domenica iniziale d’Avvento RomaSette - l'inserto settimanale di Avvenire - ha scelto come articolo di apertura un testo sull’ormai allarmante dilagare anche nelle scuole romane – dagli asili nido in poi - dell’imposizione dell’ideologia del gender, secondo la quale la differenza tra maschile e femminile è solo una costruzione culturale e dunque va “decostruita” nel senso che ognuno non è quel che è e si vede, ma ciò che si sente e pensa di essere. Il titolo è “Gender a scuola. La protesta dei genitori”. In un box si danno indicazioni su un modulo, da inviare al dirigente scolastico dell’istituto dei propri figli, per la richiesta di consenso informato sulle iniziative ‘educative’ improntate all’ideologia del gender. Nella stessa pagina, appare su quattro colonne anche un articolo molto chiaro dal titolo: “Strategia Lgbt, i consulenti sono a senso unico”, accompagnato dall’occhiello: “Ventinove associazioni del mondo gay a fianco dell’Unar (Ndr: il noto Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la formazione, otto nei progetti finanziati dalla Regione Lazio. Proposta politica con una bozza di ordine del giorno per il Consiglio comunale: indottrinamento tra i banchi”. Si noterà qui subito che proprio la Regione Lazio – retta da Nicola Zingaretti - ha sborsato 120mila euro per i progetti pro-gender, mentre non si risparmia neppure la giunta Marino di Roma Capitale, grazie anche al sostegno entusiasta dell’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi, che ha affidato all’associazione lgbt “Scosse” la formazione delle educatrici degli asili nido e delle scuole materne comunali della città. Nell’articolo di Roma Sette si ricorda il caso scoppiato presso l’asilo nido comunale “Castello Incantato”, in zona Bufalotta, laddove ai pargoli si legge ad esempio la “Piccola storia di una famiglia” (casa editrice Stampatello): tale cosiddetta “famiglia” comprende due donne che si fanno donare il “semino” necessario alla procreazione da una clinica olandese, tanto che alla fine la nascitura avrà “due mamme: solo una l’ha portata nella pancia, ma entrambe, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori”. E’ proprio dal tristo episodio del “Castello Incantato” che ha preso spunto l’idea di alcuni genitori di costituire il “Comitato Articolo 26”. Perché 26? Ci si riferisce all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Il Comitato è aperto a genitori, docenti, professionisti dell’educazione, di diverso credo religioso e filosofico, che “rifiutano con decisione l’indottrinamento gender nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e che rivendicano, in maniera costruttiva, la priorità delle famiglie in tema di affettività e sessualità”. Tra gli obiettivi “diffondere un’informazione oggettiva e scientifica in merito alla cosiddetta ideologia gender”, “vigilare e segnalare gli aspetti ideologici pedagogicamente infondati e pericolosi, di progetti educativi e scolastici relativi a educazione sessuale e/o affettività, educazione alle differenze, lotta alla discriminazione tra bambini e bambine, lotta all’omofobia e/o al bullismo omofobico”, “sostenere e accompagnare il diritto dei genitori ad affermare e perseguire la priorità della propria missione educativa nei confronti dei figli”. Nell’articolo di Roma Sette sulla strategia Lgbt si ricorda inoltre che “a livello nazionale è in piena attuazione” tale strategia triennale, partorita due anni fa dall’Unar “istituito in seno al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio”. Era il tempo di Monti, poi venne Letta e la strategia andò avanti, così come con Renzi. Del resto è dei giorni 26 e 27 novembre 2014 il corso per dirigenti scolastici organizzato a Roma dal ministero dell’Istruzione e dall’Unar con la collaborazione del Servizio lgbt di Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Il Gruppo nazionale di lavoro è composto da 29 associazioni di settore, tutte rigorosamente lgbt. Il 23 febbraio scorso, il settimanale della diocesi di Roma aveva già dedicato quasi tutta la prima pagina all’ “operazione ideologica” del “gender in classe”, con un editoriale chiaro, pacato e fermo di don Filippo Morlacchi, in cui il direttore dell’Ufficio pastorale scolastica del Vicariato scriveva: “Anche in altri Paesi europei la potente minoranza favorevole al gender ha dettato l’agenda degli impegni scolastici; ma le associazioni di genitori hanno alzato la voce e prodotto agili pubblicazioni per avvertire le famiglie del fenomeno. Forse è tempo che anche in Italia non solo i cattolici, ma tutti gli uomini convinti della bontà della famiglia naturale si esprimano pubblicamente”. Un auspicio che è stato concretizzato in questi mesi da diverse associazioni e comitati a livello cittadino, regionale, nazionale (in primis la Manif pour tous Italia e le Sentinelle in piedi), in buona parte nell’area cattolica ma aperte a tutti. A livello di diocesi, ricordiamo poi l’esemplare "Nota su alcune urgenti questioni di carattere antropologico ed educativo" dei vescovi del Triveneto per la Giornata della vita 2014, la grave preoccupazione della Conferenza Episcopale toscana e di alcuni altri vescovi. Nelle ultime settimane sono successi altri fatti gravi, oltre alle intimidazioni fisiche e verbali con cui sono state bersagliate in diverse città le Sentinelle. Ad esempio una docente di religione cattolica dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri è stata fatto oggetto ingiustamente di una pesantissima campagna di stampa originata dalle affermazioni (pare del tutto inventate) di uno studente attivista lgbt. Esposta al pubblico ludibrio dai mass-media, nelle prime reazioni a caldo non è stata certo difesa neppure dall’estemporaneamente remissivo arcivescovo di Torino. Grazie ad Avvenire è stata poi ristabilita la verità almeno per i lettori del quotidiano della Cei, oltre che per l’ambiente locale. La diocesi di Milano dal canto suo è incappata in un paio di decisioni che hanno destato molta perplessità tra non pochi cattolici: le scuse ufficiali per un’indagine statistica non certo segreta (rivolta a oltre seimila docenti di religione cattolica) e la negata solidarietà per un docente di religione (sospeso dalla scuola, con l’Ufficio scuola della Curia che ha aperto un procedimento di verifica) colpevole di aver mostrato a nove alunni di una terza liceo un documentario molto realistico, “L’urlo silenzioso”, su quel che succede durante un aborto. E’ stata la fiera dell’ipocrisia interessata, se si pensa alle tante immagini crude sfornate da tg e trasmissioni varie per ragione di audience. Intanto, in pieno sviluppo dell’applicazione della strategia totalitaria lgbt, l’Unione degli atei e agnostici razionali (Uaar), l’Arcigay, la Rete degli studenti medi ha trovato modo il 18 novembre di inviare una lettera allarmata al Ministro dell’Istruzione, all’Unar e alla Presidenza del Consiglio per denunciare che “stiamo assistendo ad un vero e proprio attacco nei confronti degli studenti e del sistema scolastico tutto, da parte di una frangia conservatrice e omofoba del nostro Paese”. Proclamano e minacciano i firmatari: “Il Ministero, e il Governo tutto, devono avere il coraggio di superare i tabù e di non fare della battaglia alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale un mero spot propagandistico. Riteniamo che il Ministero debba adoperarsi affinché tutte le scuole prevedano programmi didattici strutturati, destinati agli studenti, sull’educazione alle differenze, in cui si parli di identità di genere, orientamento sessuale e sesso biologico, e che investa nella formazione degli insegnanti, fornendo loro gli strumenti necessari così da evitare che casi come quelli sopracitati si ripetano”. Non è finita. Tuonano infatti atei, “studenti medi” e Arcigay: “Chiediamo, infine, di coinvolgere nei tavoli ministeriali le realtà sociali, le associazioni e le organizzazioni studentesche che da anni combattono le discriminazioni e l’omofobia e di far sì che questi percorsi producano finalmente soluzioni concrete”. La lettera contiene poi già una velata minaccia per gli istituti cattolici paritari, che certamente la lobby sogna costretti ad accettare l’auspicato indottrinamento oppure a chiudere. Nel resto d’Europa tentativi di tal genere sono già in corso, come in Gran Bretagna o sono minacciati, come in Francia. Insomma: la legge “antiomofobia” a firma Scalfarotto ancora non è stata approvata e già produce i suoi effetti liberticidi, dato che – oltre alle intimidazioni continue – i propugnatori dell’ideologia del gender si fanno sempre più sfrontati. Il rischio è che, considerato quanto è successo fin qui, molti scelgano il silenzio per evitare di essere lapidati dai media della nota lobby. Quel che è capitato del resto a Guido Barilla è estremamente significativo. Sbilanciatosi l’anno scorso in favore della famiglia del ‘Mulino Bianco’, è stato coperto di insulti e minacce; ha così ritenuto molto opportuno profondersi in mille scuse e agire in modo tale che oggi la Barilla è pienamente riabilitata. Come scrive il Washington Post  ha ottenuto 100/100 nella classifica delle imprese gay-friendly, avendo in un anno fatto “una marcia indietro radicale, aumentando i benefit sanitari per i dipendenti transgender e le loro famiglie, donando soldi per le cause dei diritti gay", oltre che ingaggiare consulenti come il “gay più potente d’America”, David Mixner, fiero dei risultati ottenuti. Ora per la Barilla del Guido rieducato mancano solo gli spot con protagoniste coppie omosessuali. Non temete, verranno presto. Si dovrà poi vedere se qualcuno non preferirà a quel punto assaporare un altro tipo di pasta.

L’ISLAM NON SI TOCCA.

L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».

Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.

Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.

Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.

Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.

Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola. “I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.

Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto ai bambini Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà di espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».

Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.

Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.

E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.

Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?

«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».

Lei l'ha conosciuta?

«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».

Fu una visione? O udì una voce?

«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».

Che cosa sa della mistica?

«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».

Ma che ha di speciale L'Evangelo ?

«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».

L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.

«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».

Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.

«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».

L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».

«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».

Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.

«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».

È vero che Pio XII stimava la Valtorta?

«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».

Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?

«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».

Sorprendente.

«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».

Perché me lo racconta?

«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

Papa Francesco condanna la strage di Charlie Hebdo, ma "non si può insultare la fede", scrive “Libero Quotidiano”. "È una aberrazione uccidere in nome di Dio" ma "non si può insultare la fede degli altri". Con queste parole, pronunciate a bordo dell’aereo diretto nelle Filippine e riferite da Radio Vaticana, Papa Francesco interviene sull’azione dei terroristi islamici a Parigi contro Charlie Hebdo. "Non si può prendere in giro la fede", avverte il Papa.  "C’è un limite, quello della dignità di ogni religione". Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata "sono due diritti umani fondamentali". Alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva "fino a che punto si può andare con la libertà di espressione", il Pontefice ha chiarito: sì alla libera espressione "ma se il mio amico dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Questo il limite che secondo il Papa regola la libertà religiosa: "Non si giocattolizza la religione degli altri", dice Bergoglio. Francesco ha ricordato che la "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure, dice il Papa, "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza". Poi ha spiegato, "senza mancare di rispetto a nessuno" che "dietro ogni attentato suicida c'è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano". In una nota diramata subito dopo la strage Bergoglio aveva condannato "ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". Il Papa aveva precisato che "qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile e la vita e la dignità di tutti vanno garantire e tutelate con decisione. Ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato". E ancora: tre giorni fa Bergoglio, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, aveva detto che "la tragica strage avvenuta a Parigi" è una dimostrazione che "gli altri non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti: l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro e perfino di forme fuorviate di religione". Rispetto alle minacce dirette dai terroristi fondamentalisti di matrice islamica contro il  Vaticano e il pontefice, Papa Francesco assicura di affrontare questo pericolo "con una buona dose di incoscienza". Il Papa - come riferisce ancora Radio Vaticana - afferma semmai di "temere soprattutto per l’incolumità della gente", con migliaia di fedeli che tradizionalmente affollano le sue udienze generali in piazza San Pietro e gli ’Angelus’ dal Palazzo Apostolico e sottolinea che "il miglior modo per rispondere alla violenza è la mitezza".

Ferrara su Papa Francesco: "Le sue parole su Charlie non sono una gaffe. Sono molto peggio", scrive “Libero Quotidiano”. "Se dici una parolaccia su mia mamma ti devi aspettare un pugno", ha detto ieri Papa Francesco a proposito della libertà di espressione e della blasfemia. "È aberrante uccidere in nome di Dio", ha detto il gesuita Bergoglio, ma è sbagliato anche "insultare le religioni". Parole molto forti pronunciate mentre era in aereo in volo verso le Filippine che hanno in qualche modo hanno stupito cattolici e non. E proprio a quelle parole Giuliano Ferrara dedica oggi il suo editoriale sul Foglio sottolineando che "il fantasma di Voltaire e della sua irrisione delle religioni, dai maomettani ai papisti agli ebrei, il fantasma di un Charlie del Settecento, è ancora troppo vivo, nonostante si faccia finta di averne cancellato anche il ricordo con il Concilio ecumenico vaticano II". "Perché il Papa ha parlato in modo da essere identificabile come il tutore dell' autodifesa della dignità delle religioni invece che come il custode della sacralità della vita umana e del diritto alla libertà d' espressione?", si chiede il direttore del Foglio. La risposta arriva un paragrafo più sotto: "Non credo sia una gaffe, modalità a parte, ché il magistero posta aerea è effettivamente un po' troppo colloquiale per valere erga omnes. Non ha perso la brocca, il Papa, il che sarebbe umano, possibile, riparabile. C' è dell'altro. C'è la convinzione, comune al Papa e a molta cultura irenista occidentale, che si debba convivere con l'orrore, che il distacco concettuale e spirituale dell'islam dalle pratiche violente del jihad è una conquista che spetta eventualmente all'islam di realizzare, che non esiste alternativa alla sottomissione o all'abbandono al dialogo interreligioso". Del resto, spiega Ferrara nell'articolo firmato con l'elefantino rosso, "per quanto si voglia essere Papa del secolo e nel secolo, per quanti omaggi si facciano, anche per i creduloni, alla libertà piena di coscienza come fondamento della fede, della possibilità della fede, alla fine quel che conta è non perdere il contatto con l'universo islamico, e la chiesa sa bene, ben più e meglio di altri, che il nemico violento non è il terrorismo ma l'idea coranica radicalizzata di cui il terrorismo è il frutto". "Parole e gesti del Papa, le risate risuonate nella carlinga del suo aereo, la metafora del pugno risanatore che colpisce e ripara l'offesa alla dignità, la declamazione tra pause teatrali del concetto "è normale, è normale", tutto questo non è gaffe", conclude Ferrara. "E' di più e peggio". "La piazza araba militante, gli imam che predicano nelle moschee e riluttano a un rigorosa condanna della decimazione con fucile a pompa di redazioni di giornale e negozi ebraici, da ieri si sentono meno isolati, meglio protetti dalla convergenza con il Papa di Roma".

Giuliano Ferrara: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly, vi spiego perché provo pena e ammirazione per gli stragisti di Parigi", scrive “Libero Quotidiano”. Controcorrente. Sempre. Sin dal principio della questione, che ne è anche il presupposto, ossia quell'idea di essere in "guerra santa" contro l'islam gridata negli studi di Servizio Pubblico, idea espressa pochi minuti dopo l'attacco al Charlie Hebdo in un videoeditoriale sul sito del Il Foglio. "Guerra santa", appunto, il presupposto di Giuliano Ferrara, un concetto rifiutato con sdegno da gran parte dell'auditorio, da chi opera dei distinguo forse necessari, ma non per l'Elefantino. E sul tema, Ferrara, ci torna nel suo editoriale su Il Foglio di lunedì, pur prendendolo da una prospettiva diametralmente opposta che emerge sin dal - controverso - titolo: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly: ecco perché". Il direttore parafrasa lo slogan #JeSuisCharlie e lo dedica ai tre protagonisti dell'orrore di Parigi, ai tre terroristi islamici. Ferrara spiega nell'attacco: "Una pena profonda e un'ammirazione per il loro fanatico coraggio mi legano ai nemici, ai fratelli Said e Sherif Kouachi e Amely Coulibaly. In un certo senso di origine cristiana, #JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly". L'Elefantino prosegue: "Hanno assassinato persone più o meno come me, libertini della mia razza culturale e civile, gente che disegnava e rideva e sbeffeggiava, con una tinta blasfema che non ho ma che comprendo perfettamente nella dismisura anarchica e fragile e folle del loro essere artisti in una società secolarizzata e nihilista". Il direttore traccia nitidamente i contorni del suo sentimento, della "pena" e dell'"ammirazione", e sottolinea: "Mi vengono non da quella abbondanza di misericordia e di accoglienza che è diventata una pappa senza intimo rigore logico, senza giustizia linguistica, senza verità che non sia sentimentale. Non dal cuore ma dalla testa. Perché non è vero che tutto questo, come ha infelicemente detto Francois Hollande e come ripete lo stolto collettivo sul teatro mondiale della correttezza politica, non ha nulla a che fare con l'islam". I dettagli multiculturali - Ferrara nel suo editoriale si addentra nel "diritto come sharia, come legge divina", parla di Egitto, di Torquato Tasso dell'eroe cristiano Tancredi. Un lungo presupposto per rimarcare come "i dettagli meno multiculturali della storia tragica di Parigi sono come scomparsi". E secondo lui, senza comprendere a fondo quei "dettagli", non si può comprendere a fondo l'intera vicenda, che come Ferrara ha ripetuto negli ultimi giorni non è "terrorismo", bensì "guerra santa". Tornando sui terroristi, l'Elefantino ricorda come "hanno scelto di eseguire un ordine divino che impone di castigare la blasfemia come è accaduto a Charlie Hebdo". E ancora: "Hanno scelto la morte degli altri, e la loro, in un rito culturale di conversione e arruolamento, di esecuzione della legge coranica, al quale hanno saputo corrispondere fino alla fine nella follia della testimonianza di gioventù, uscendo allo scoperto e sparando all'impazzata davanti alla falange dei gendarmi di cuoio, oppure pregando alle cinque, ora del blitz, e correndo poi verso l'esecuzione nel negozio kosher". I dettagli, appunto. Ferrara insiste ancora sui dettagli, e nella conclusione dell'articolo di fondo ribadisce: "Sono dettagli importanti, sono il punto di vista che conta, più della rapida capacità di allineamento menzognero al mainstream politico islamo conformista di un capo Hezbollah o di un presidente iraniano che si dissociano a sorpresa". Il punto, per il direttore, è che il pensiero buonista e dominante rischia di far perdere il fuoco dell'obiettivo. Così Ferrara sottolinea, riferendosi ai terroristi: "Se li degradate a lupi, degradate voi stessi. Disconoscete il nemico. Non sarete mai capaci di combatterlo né di amarlo. Al posto del vangelo, libro eccelso, primitivo e terribile e selvaggio, metterete il prontuario della cultura del piagnisteo, una specie di ideologia che fa dello scontro di religione e di civiltà in atto una storiaccia di cronaca nera e di impazzimento terrorista". Ma per Ferrara, bene ribadirlo ancora una volta, è tutt'altro: è "guerra santa".

Mario Giordano: Basta, ecco perché non posso più dire "Je suis Charlie Hebdo", scrive su “Libero Quotidiano”. Scusate, ma devo dire una cosa un po’ difficile, forse persino un po’ dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Je ne suis pas Charlie. Je ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po’. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico. Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlie, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po’. Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radical-nullista, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l’esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l’idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po’ schifo. E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamico diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterci in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell’Occidente. Non un foglio che l’Occidente, al contrario, lo disprezza. Invece si sta compiendo proprio questo. Un po’ per interesse (operazione Hollande), un po’ per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell’Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l’errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterci sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterci imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.

Dopo Charlie Hebdo: perché bisogna fermare la censura dei buoni. Si comincia a ritenere che chi critica vignette blasfeme sia contro la libertà. E chi ha una posizione culturale ben definita ostacoli l'integrazione, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Temo che dalla grandiosa marcia parigina nasca un nuovo tipo di censura. La censura dei buoni. La censura di quelli che vogliono abbassare i toni; quelli che se dici che siamo di fronte ad una guerra e non a dei terroristi, fomenti l’odio; quelli che sanno ciò che è opportuno dire e cosa no e se non collabori, allora sei un guerrafondaio, un estremista, un fondamentalista anche tu. Oppure un cretino. La censura dei buoni è funzionale al disegno del potere: nessun leader europeo (Hollande è scusato) ha osato esprimere un’opinione diversa dal “sono terroristi, la religione non c’entra” e così i assassini diventano “sedicenti islamici” e a chi fa notare che mentre macellavano innocenti gridavano “Allah Akbar” viene tacciato di perseguire lo scontro di civiltà. Ecco perché i terroristi sono diventati "sedicenti islamici". Davanti a chi ha una posizione diversa i buoni sono pronti a sventolare il ditino inquisitore spiegando che così non si fa il bene dell’umanità che consiste nell’integrazione e nel dialogo. E siccome l’ostacolo maggiore al dialogo sarebbe avere una posizione culturale, religiosa, sociale ben definita, allora la colpa della mancata integrazione è tua. L’unica posizione culturale accettata diventa così quella laica che, indifferente a tutto, non fomenta l’odio. Perciò bisogna, adesso più di prima, stare attenti a non cadere nell’eccesso contrario facendo passare l’idea che Charlie Hebdo è un giornale di anarchici scapigliati e va difeso mentre chi ritiene le sue vignette volgari, blasfeme e ripugnanti sta armando le mani degli assassini. Bisogna stare attenti a non accusare chi esercita la propria libertà di critica di intelligenza con il nemico. Bisogna vigilare, perché questo tipo di censura dei buoni è in grado di devastare lo spazio pubblico togliendo libertà a chi non è allineato con il pensiero mainstream. Quello secondo il quale solo chi non crede in niente accetta tutto ed è pronto a dialogare con chiunque. Per dirsi cosa, poi, non si sa. La censura dei buoni è quella che pensa che la pace nel mondo, che si raggiunge con l’integrazione, è un fine talmente nobile che della libertà della singola persona si può anche fare a meno.

Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo , che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?

Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.

Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.

L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di “pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis  pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).

Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebberosequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”

Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.

Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.

Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto  che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo:  ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.

15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia.  Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.

Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due giovanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto pericolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarisce che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non fronteggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.

Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.

Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………

Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi? ? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.

Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.

Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.

Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.

Giuseppe T. Che se le tenessero!

Giulio S. Tenetevele.

Donatella N. Ah si? Tenetevele.

Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.

Angelo M. Per queste due nessuna pietà. ….all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto. ….tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.

Michele C. Ma fanculo stateve a casa.

Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.

Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.

Bartolomeo A. …. due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…

Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!

Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.

Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!

Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese , dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.

Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.

….. qualche timida voce fuori dal coro si trova ….

Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.

Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.

Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…

Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.

Marianna L. Cercasi umanità

Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.

“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.

Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse ( m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari,da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata,chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No,erano sicure:avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad,e loro stavano coi buoni,i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa:a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.

La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network.  "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali delle possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.

Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.

Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.

Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’ intelligence , come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.

Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l' esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell' Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".

Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.

Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy».Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.

Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.

Greta e Vanessa, due ingenue o due fiancheggiatrici del terrorismo? Si chiede Milano Post. Greta e Vanessa, due ragazze ventenni, lombarde volontarie del Progetto Horryaty, una Onlus fondata da Roberto Andervill poche settimane prima del presunto rapimento delle due cooperanti. Progetto Horryaty opera in maniera del tutto svincolata dalle varie Ong presenti in territorio siriano e, stando alle dichiarazioni ufficiali dei responsabili della Onlus, in Italia si occupano di raccolta fondi e sensibilizzazione, in Turchia comprano gli aiuti, teoricamente materiale sanitario, che vengono poi distribuiti in zone diverse della Siria. Questo ufficialmente, scavando e cercando la verità troviamo un Roberto Andervill nel cui profilo Facebook, al momento chiuso, si leggevano frasi di odio verso i presidenti delle Comunità Ebraiche italiane, contro Magdi Allam e, giusto per non deludere la sua sinistra ideologia, messaggi di pace (eterna) verso gli Ebrei. Detto questo passiamo direttamente ad osservare Greta e Vanessa e vi siete mai chiesti cosa c’è scritto sul cartello che reggono in quella famosa foto in cui vengono ritratte avvolte dalla bandiera siriana in Piazza Duomo?

Sveliamo l’arcano, il quel cartello c’è scritto:” Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se D-o vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Chi sono gli eroi di Liwa Shuhada? Presto detto: Liwa Shuhada Al-Islam, in italiano Brigata dei martiri dell’Islam, è un’organizzazione, secondo i maggiori esperti di terrorismo internazionale, terroristica di stampo jihadista, molto vicina al Fronte Al-Nusra, il nome di Al-Qaeda in Siria per intenderci, e responsabile di numerosi attentati a Damasco. Inoltre, stando alle ultime indiscrezioni, pare, dalle varie intercettazioni in mano ai R.O.S., che le due ragazze avesse già intessuto da tempo rapporti con cellule del fronte anti-Assad, in Italia, cellule che oggi chiamiamo “foreign fighters” e che in Francia hanno seminato morte e terrore pochi giorni fa. Quindi ho forti dubbi che si trattasse di due ventenni ingenue e sprovvedute, considerato che erano già state in Siria, che avevano già dato aiuti ai “guerriglieri” e che si stavano recando ancora in Siria per distribuire kit di pronto soccorso ai membri della Brigata dei Martiri dell’Islam, probabilmente gli stessi che le hanno “rapite”, o sarebbe meglio dire nascoste da occhi indiscreti, messe all’ingrasso per poi richiedere il solito riscatto per la “liberazione” dei presunti ostaggi. Certo però che rispetto alle due Simone, in Iraq, e della Sgrena, Greta e Vanessa sono state decisamente più “professionali”. Mentre le prime hanno fruttato alla causa del terrorismo “solo” undici milioni di dollari (5 per le due cooperanti e 6 per la Sgrena), Greta e Vanessa hanno da sole fatto regalare ai terroristi ben 12 milioni di dollari, anche se negati dal ministro degli Esteri Gentiloni, si sa che Italia, Francia, Germania e Spagna preferiscono pagare. “Non c’è nulla per cui si debba chiedere scusa” queste le parole del padre di Vanessa. Eh no caro signore, c’è invece da chiedere scusa. Sua figlia e la sua amica devono chiedere scusa ai cittadini italiani, visto che i soldi pagati per “liberarle” da una prigionia a pane e kebab, provengono dalle tasse che egli italiani pagano. Devono porgere le loro scuse, implorando il perdono, a tutte quelle famiglie che perderanno un loro caro ed a tutte le innocenti vittime che quei 12 milioni di dollari, regalati al terrorismo islamico, causeranno in Medio Oriente o in Europa.

Vanessa e Greta, cosa non torna nella loro storia: le quattro accuse di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Il governo si è dato da fare per smentire di aver pagato un riscatto in cambio della liberazione di Vanessa e Greta. «Solo illazioni» ha dichiarato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il quale subito dopo ha però aggiunto che nel caso delle due cooperanti italiane l’esecutivo si è comportato come i precedenti (che infatti pagavano), precisando che per Palazzo Chigi e dintorni dà la priorità al salvataggio di vite umane (tradotto: pazienza se ci sono costate 12 milioni, tanto sono soldi dei contribuenti). Con il rientro delle due ragazze e le rassicurazioni del ministro si vorrebbe così chiudere la faccenda, mettendo una pietra sopra l’imbarazzante trattativa con i terroristi. Si dà il caso che però la vicenda sia tutt’altro che archiviabile ma necessiti di ulteriori approfondimenti, soprattutto dopo la rivelazione di una serie di antefatti. Ieri in un articolo del Fatto quotidiano si dava conto dell’esistenza di una informativa dei Ros sulla missione siriana di Vanessa e Greta. Non un rapporto compilato dopo la sparizione delle due ragazze, ma una nota predisposta prima della partenza. Quanto prima? Leggendo l’articolo non è dato sapere, ma si capisce che la relazione del reparto operativo dei carabinieri risale al periodo in cui le due giovani lombarde stavano organizzando il viaggio. Vi state chiedendo perché l’Arma si occupasse di due esponenti di un’organizzazione non governativa intenzionate a partire per la Siria? Perché le due entrano in contatto con un pizzaiolo emiliano che i Cc tengono d’occhio ritenendolo un militante islamico. Così, per caso, intercettano Vanessa e Greta che si mettono d’accordo con il tipo e a lui raccontano nel seguente ordine due cose: di voler partire per la Siria per consegnare kit di pronto soccorso alla popolazione civile ma anche ai combattenti islamici, così che gli oppositori al regime di Assad possano curarsi in caso di ferite. Secondo, Greta in una conversazione spiega di godere di una specie di lasciapassare, in quanto sostenitrice della rivoluzione e protetta dall’Esercito Libero. La ragazza non dice al telefono di essere in contatto con gente dello stato islamico, anzi, assicura che quelli dell’Esercito Libero non impongono neppure il velo alle donne. Come è finita si sa, con un sequestro che le ha consegnate nelle mani di una banda vicina ad Al Qaeda, cioè l’organizzazione che poi l’avrebbe rapita. Nell’articolo si fa cenno anche a un universitario in collegamento con i ribelli ed anche ad un medico. Risultato: leggendo il Fatto si apprendono le seguenti informazioni. La prima, forse scontata ma fino a ieri non molto documentata, è che sul territorio italiano operano dei militanti che inviano denaro e aiuti ai combattenti islamici. Due: Vanessa e Greta non sono partite per la Siria per andare ad aiutare i bambini, per lo meno non solo: in Siria sono andate per consegnare kit di pronto soccorso ai miliziani, che se non è un aiuto a chi combatte poco ci manca. Tre: le giovani appoggiavano la rivoluzione e consegnando i medicinali volevano contribuire materialmente a sostenerla. Quattro: se sono finite nelle mani di tagliagole che le hanno rapite e segregate per più di cinque mesi, liberandole solo in cambio di un riscatto multimilionario, è perché qualcuno dei loro amici le ha tradite. Ne consegue che i carabinieri sapevano tutto, del viaggio e anche dei contatti con i militanti islamici, ma nessuno ha fatto niente, lasciando partire le ragazze e dunque facendole finire nelle mani dei rapitori. Non solo: qualcuno in Italia si dà addirittura da fare per agevolare la partenza e poi forse per agevolare anche il sequestro, così che la fiorente industria dei rapimenti ad opera dei militanti islamici possa prosperare e soprattutto finanziare la guerriglia e il terrorismo. Infine, come spiegava ieri il nostro Francesco Borgonovo, risulta evidente da questo rapporto che molte delle organizzazioni non governative in apparenza dicono di voler aiutare chi soffre, ma nella sostanza hanno rapporti poco trasparenti con chi combatte. Altro che ragazzine finite in un gioco più grande di loro. Greta e Vanessa pensavano di fare la rivoluzione e invece sono finite in una prigione dalle parti di Aleppo, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala e se poi è islamica si va a pranzo con il boia. Risultato: la faccenda è tutt’altro che chiusa e il governo non può pensare di cavarsela con l’intervento reticente del ministro Gentiloni. Essendoci di mezzo la sicurezza nazionale (la gente che aiuta i combattenti l’abbiamo in casa) e soprattutto i soldi dei contribuenti vorremmo andare fino in fondo. E state sicuri che per quanto ci riguarda faremo di tutto per farlo.

Crolla l'alibi pacifista. Ecco tutte le prove delle amicizie jihadiste. Altro che pacifiste: i kit di pronto soccorso portati in Siria somigliano più a quelli militari. Ed erano destinati a gruppi di combattimento, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Il ministro Paolo Gentiloni, protagonista in Parlamento di una difesa a spada tratta di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbe fatto meglio a consultarsi prima con i carabinieri del Ros. Carabinieri che, magari, avrebbero potuto mostrare pure a lui le intercettazioni delle telefonate, pubblicate da Il Fatto Quotidiano , tra le due suffragette lombarde e alcuni fiancheggiatori dei gruppi jihadisti siriani. Telefonate assai scomode e imbarazzanti. Telefonate da cui emerge con chiarezza come le due ragazzine non ambissero al ruolo di crocerossine neutrali, ma piuttosto a quello di militanti schierate e convinte. Militanti tradite dai propri stessi «amichetti» e riportate a casa solo grazie al trasferimento nella cassaforte della formazione al qaidista di Jabat Al Nusra, o di qualche altro gruppetto jihadista, di una decina di milioni di euro sottratti ai cittadini italiani. Milioni con cui i fanatici siriani, o quelli europei passati per le loro fila, potrebbero ora organizzare qualche atto di terrorismo in Italia o altrove nel Vecchio Continente.

Che Greta e Vanessa progettassero di mettere in piedi qualcosa di diverso da una normale organizzazione umanitaria, Il Giornale lo aveva intuito subito dopo il sequestro. Esaminando su Facebook le gallerie fotografiche di «Horryaty» - l'associazione creata assieme al 46enne fabbro di Varese Roberto Andervill - quel che più saltava agli occhi era l'aspetto chiaramente «militare» dei «kit di pronto soccorso» distribuiti da Greta e Vanessa in Siria. I kit, contenuti in tascapane mimetici indossabili a tracolla, assomigliavano più a quelli in dotazione a militanti armati o guerriglieri che non a quelli utilizzati da infermieri o personale paramedico civile. Anche perché la prima attenzione di medici e infermieri indipendenti impegnati sui fronti di guerra non è quella di mimetizzarsi ma piuttosto di venir facilmente identificati come personaggi neutrali, non coinvolti con le parti in conflitto. Un concetto assolutamente estraneo a Greta Vanessa. Nelle telefonate scambiate prima di partire con Mohammed Yaser Tayeb - un 47enne siriano trasferitosi ad Anzola in provincia di Bologna ed identificato nelle intercettazioni del Ros come un militante islamista - Greta Ramelli spiega esplicitamente di voler «offrire supporto al Free Syrian Army», la sigla (Esercito Libero Siriano) che riunisce le formazioni jihadiste non legate al gruppo alaaidista di Jabat Al Nusra o allo Stato Islamico. L'acquisto dei kit di pronto soccorso mimetici da parte di Greta e Vanessa è documentato dalle ricevute pubblicate sul sito di Horryaty il 12 maggio di quest'anno, subito dopo la prima trasferta siriana delle due «cooperanti». La ricevuta, intestata a Vanessa Marzullo, certifica l'acquisto in Turchia di 45 kit al costo di 720 lire turche corrispondenti al cambio dell'epoca a circa 246 euro. La parte più interessante è però la spiegazione sull'utilizzo di quei kit. Nel rapporto pubblicato su Horryaty, Greta e Vanessa riferiscono con precisione dove hanno spedito o portato latte, alimenti per bambini, medicine e ogni altro genere di conforto non «sospetto». Quando devono spiegare dove sono finiti quei tascapane mimetici annotano solo l'iniziale «B.» facendo intendere di parlare di un avamposto militare dei gruppi armati il cui nome completo non è divulgabile per ragioni di sicurezza. Nelle telefonate con l'«amichetto» Tayeb registrate dai Ros, Greta Ramelli si spinge invece più in là. In quelle chiacchierate Greta spiega che i kit verranno distribuiti «a gruppi di combattimento composti solitamente da 14 persone». Spiegazione plausibile e circostanziata visto che in ambito militare una squadra combattente, dotata di uno specialista para-medico, conta per l'appunto dalle 12 alle 15 unità. L'elemento più inquietante, annotato dai Carabinieri del Ros a margine delle intercettazioni, sono però i contatti tra l'«amichetto» Tayeb e Maher Alhamdoosh, un militante siriano iscritto all'Università di Bologna e residente a Casalecchio del Reno. Con Maher Alhamdoosh s'erano coordinati - guarda un po' il caso e la sfortuna - anche Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabous, i giornalisti italiani protagonisti nella primavera 2013 di un reportage in Siria conclusosi anche in quel caso con un bel sequestro. Un sequestro seguito da immancabile ed esoso riscatto pagato, anche allora, dai generosi contribuenti italiani. Quel silenzio su Giovanni Lo Porto rapito tre anni fa in Pakistan. Il cooperante palermitano sparito il 19 gennaio 2012 durante una missione per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Oggi 19 gennaio 2015 sono tre anni che Giovanni Lo Porto è sparito. Era arrivato da tre giorni in Pakistan per fare il suo lavoro - ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione del 2010 - per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Il 19 gennaio 2012 l’hanno rapito insieme al collega Bernd Muehlenbeck, che lo scorso ottobre è stato liberato dalle forze speciali di Berlino: si sa che non era più insieme a Giovanni da un anno e nulla di più. Intorno al cooperante palermitano, un silenzio che ha oscillato tra la prudenza d’obbligo e la reticenza pelosa. Il governo chiede il basso profilo, parenti e amici non ci stanno e lanciano appelli che raccolgono migliaia di adesioni. Un segnale è arrivato finalmente dal ministro degli Esteri, che rispondendo venerdì in Parlamento su Greta e Vanessa ha ricordato sia padre Dall’Oglio sia Giovanni, «due vicende alle quali lavoriamo con discrezione giorno per giorno». Lo Porto ha un profilo inattaccabile perfino dagli sciacalli del web: 40 anni, studi solidi tra Londra e Giappone, esperienze sul campo in Croazia, Haiti e anni prima nello stesso Pakistan, dove nel 2012 era tornato con un progetto finanziato dall’Ue. Insomma, tutto fuorché un avventuriero. Gentiloni va preso alla lettera, fino a prova contraria: l’Italia non lascia indietro nessuno dei suoi cittadini e per nessuno lesina mezzi. Tre anni dopo, è il minimo che si deve a Giovanni Lo Porto.

Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa  che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".

"Pagato riscatto da 12 milioni" Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times , Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».

Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta! 

Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.

Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.

5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?

2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?

3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).

4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.

5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette. 

In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica , afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.

Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.

L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.

Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell' Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».

De Luca, quando la rivolta è un "marchio" da vendere. Dopo decenni di marxismo, sopravvive l'idea che uno scrittore debba essere militante. Ma di tanto impegno restano solo narcisismo e nostalgia attira-lettori, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. L'hashtag è #iostoconerri, e ci mancherebbe non stessi con lui, processato per essersi pronunciato contro la TAV e aver detto che secondo lui sabotarla è giusto. Uno potrà dire quello che vuole? Si può dire che gli Stati Uniti si sono abbattuti le Torri Gemelle da soli, si può essere perfino pro-Isis, Giulietto Chiesa è ancora stalinista, e portiamo in tribunale Erri De Luca? E poi sfiliamo con i cartelli Je suis Charlie? Ecco, Je suis Errì. Oddio, che effetto. E però che bello. È uno di quegli scrittori che invidio, e in Italia ce ne sono tantissimi. Non hanno bisogno di scrivere grandi opere, neppure opere medie. Errì poi scrive dei librini così tascabili che in tasca ce ne vanno venti, una pacchia. L'ultimo di Errì si intitola La parola contraria . Quattro euro e ve lo portate via, generosa la Feltrinelli. Piccolo ma denso: dentro c'è tutta la coscienza contraria di Errì. Per esempio Errì spiega che «può darsi che nella mia educazione emotiva napoletana ci fosse la predisposizione a una resistenza contro le autorità». Una cosa tipo: «Io i tass' nun le pag, ma vattenne và, accà niusciun'è fess». Oppure: «Chiust'o tren' che sa vò muov' veloce sa da fermà, compà». Je suis Errì, e un'altra cosa assurda è l'accusa di istigazione: ma vi pare che Errì possa aver istigato qualcuno a fare qualcosa? Casomai è stato istigato lui a diventare Errì. Come sono istigati tutti gli scrittori italiani, convinti da centocinquant'anni di marxismo intellettuale che si debba essere impegnati civilmente per essere intelligenti. Anzi peggio ancora: intellettuali. Non per altro perfino Aldo Busi, che non è di Napoli ma di Montichiari, su Alias denuncia il progresso tecnologico e rimpiange i casellanti. E Antonio Moresco, che non è di Napoli ma di Mantova, ha organizzato una nuova marcia della nota serie Cammina Cammina, la Repubblica Nomade, per essere tutti migranti. Che cagate. No, pardon, Je suis Errì. Che figate. Je suis Errì, e quanto erano belli i tempi di Lotta Continua. Dove c'erano tutti i migliori intellettuali, scrive Errì. Anche Pasolinì. E lo stesso Errì. Io non sono mai stato di Lotta Continua, neppure a favore di Lotta Continua, ma poi per caso ho scoperto che il mio amore Sasha Grey si è dichiarata simpatizzante di Lotta Continua. E quindi perfetto, je suis Errì, non voglio più essere Parente, che schifo. «Voglio essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino». Uno di quegli scrittori «che fa alzare d'improvviso e lasciare il libro perché è montato il sangue in faccia, pizzicano gli occhi e non si può continuare a leggere». E io che pensavo fosse l'allergia e stavo cercando un antistaminico. Invece è perché je suis Errì, il libro sta cominciando a fare effetto, mi sto trasformando in un giovane cittadino con dei sentimenti di giustizia e un'educazione emotiva napoletana con il sangue montato in faccia. A questo serve la letteratura. Per cui, siccome je suis Errì, ho buttato il libro e mi sono messo a protestare contro uno che ha parcheggiato sulle strisce pedonali, per sentimento di giustizia. Però poi mi sono accorto che il proprietario della macchina era negro, pardon di colore, e siccome je suis Errì mi sono scusato, sarà arrivato sicuramente da Lampedusa, e Errì dice che «dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi». Ma come gli vengono, a Errì, questi giochi di parole? Val di Susa/Lampedusa, un genio. E poi ho pensato: chissà cosa succederebbe a scaricare qualche migliaio di profughi al mese direttamente da Lampedusa in Val di Susa, chissà dove lo manderebbero Errì, i valsusini. Ma poi ho pensato che era una malignità, i valsusini accoglierebbero tutti con rose e fiori e canti popolari e cantantando je suis Errì. Perché, questo il senso profondo delle parole del libro di Errì, «a ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro».

E quando avrete finito di leggere il libro avrete una bellissima mescola, vi assicuro. E anche voi potrete dire: Je suis Errì.

LE CROCIATE: ORGOGLIO CRISTIANO!

La legittimità storica, religiosa e morale delle crociate. Ultimamente - per ovvie ragioni - girano vari articoli e interventi sulle crociate, scrive Massimo Viglione il 25 agosto 2014 su “Il Giudizio Cattolico”. Ci permettiamo allora di riproporre un articolo specificamente incentrato sulle ragioni della legittimità storica, religiosa e morale delle crociate, che speriamo possa essere utile per rispondere alle usuali accuse. E lo facciamo nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria di san Luigi IX Re di Francia, il Re crociato per antonomasia, che di crociate ne fece di sua iniziativa addirittura due, trovando la morte nella seconda (1270). Per la formulazione di un giudizio idealmente e storicamente corretto sul fenomeno delle crociate nel suo insieme e sull’idea di Crociata in sé, occorre a monte richiamarsi ad alcuni princìpi imprescindibili e attenersi a dati storici precisi: I territori di quella che per gli ebrei prima di Cristo era la “Terra Promessa” appartenevano appunto agli ebrei dai tempi di Mosè. I vari conquistatori (e per ultimi i Romani), nel corso dei secoli, non avevano intaccato questo principio: sebbene sotto conquista straniera, la Palestina/Israele era di fatto e di diritto la terra degli ebrei, il Regno di David, l’unico ricevuto e consacrato da e a Dio. Da un punto di vista religioso e cristiano, gli ebrei, non riconoscendo – e condannando a morte – il Messia, perdettero per sempre il ruolo di “popolo eletto”, e, di conseguenza, il diritto a possedere la Terra Promessa, non essendo e costituendo più di fatto la “sinagoga/Chiesa” di Dio. Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme (unico centro religioso e civile degli ebrei) ad opera dei Romani (Tito, 70 d.C.) e con la loro cacciata definitiva dalla Palestina (Adriano, 132 d.C.), cambia per sempre la situazione: gli ebrei dovettero in massa abbandonare la loro terra (diaspora), di cui di fatto (cioè storicamente e politicamente) persero il controllo e il possesso. Nel frattempo, la Palestina (non più Israele) da un lato continuò per secoli ad essere una provincia romana, dall’altro divenne per i cristiani la “Terra Santa” per eccellenza, dove il Figlio di Dio era nato, vissuto, aveva patito ed era morto e risorto per il riscatto di ogni uomo dal male e dal peccato, divenendo il Salvatore dell’umanità. Ciò significava, idealmente e in concreto, che la Palestina era ora appunto la “Terra Santa” in quanto terra di salvezza di ogni battezzato al mondo. Ciò fu ancora più evidente a tutti quando nel 380 d.C. l’Imperatore Teodosio a Tessalonica proclamò il Cristianesimo “Religione dell’Impero”. Roma si era fatta cristiana e lo stesso Vicario di Cristo risiedeva a Roma: era chiaro insomma che la Terra Santa apparteneva a Roma non più solo politicamente e militarmente, ma anche spiritualmente. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), la Terra Santa rimase ancora per due secoli provincia dell’Impero Romano d’Oriente, quindi “romana” e “cristiana” allo stesso tempo. Nella prima metà del VII secolo nasce una nuova religione, l’Islam, e nella seconda metà i musulmani conquistano la Terra Santa. Ora, è evidente a tutti che quella che era stata prima la Terra Promessa per gli ebrei, poi il Regno di Israele, poi provincia romana, infine la Terra Santa dei cristiani, nulla aveva a che vedere con gli arabi-islamici, se non per diritto di violenza. L’avevano conquistata manu mulitari, e perseguitavano i cristiani ivi residenti e i pellegrini.  Questa premessa era necessaria per chiarire due principi a monte: 1) l’inesistenza assoluta da parte islamica di un diritto al possesso della Terra Santa, se non la mera forza della violenza; 2) la perduta legittimità da parte ebraica al possesso della Terra Santa, con il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento. Questa premessa era necessaria per chiarire due principi a monte: 1) l’inesistenza assoluta da parte islamica di un diritto al possesso della Terra Santa, se non la mera forza della violenza; 2) la perduta legittimità da parte ebraica al possesso della Terra Santa con il passaggio dall’antico al nuovo Testamento. 2) la perduta legittimità da parte ebraica al possesso della Terra Santa, con il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento. A tali questioni di principio, occorre poi unire il dato storico degli eventi dei secoli susseguenti, vale a dire il fatto che dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica. Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jahad  (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

COME GLI STORICI ARABI RACCONTARONO LE CROCIATE. Ho letto libri e notizie sulle Crociate ma gli avvenimenti storici sono sempre visti dal lato cattolico. Esistono libri sullo stesso argomento in cui la vicenda è vista da storici islamici? Scrive Giuseppe Santarelli su “Il Corriere della Sera” il 5 agosto 2012. Caro Santarelli, N el 1829 apparve a Parigi un libro intitolato Chroniques arabes. Era opera di un grande arabista francese, Joseph Toussaint Reinaud, e presentava al lettore un’antologia di brani tratti da opere di cronisti arabi dell’epoca delle crociate. Reinaud fu maestro di Michele Amari (ministro della Pubblica istruzione dal 1862 al 1864, autore di una Storia dei musulmani in Sicilia) e aveva lungamente lavorato per la sua opera su manoscritti arabi conservati nella Biblioteca del Re. Più tardi, fra il 1872 e il 1906, molti testi integrali apparvero in un grande Recueil des historiens des Croisades a cura di Charles Barbier de Meynard. Fu allora possibile leggere le cronache di molti storici noti nel mondo arabo fra cui Ibn al-Athir, Bahà ad-din, Abu Shama, Abu l-Fidà. Ho tratto queste notizie dalla introduzione di Francesco Gabrieli (uno dei maggiori arabisti italiani del secolo scorso) a un libro, Storici arabi delle Crociate, apparso presso Einaudi nel 1963. Gli autori scelti e tradotti da Gabrieli sono quindici fra cui Imàd ad-din al-Isfahani che fu segretario del Saladino e autore di una storia della conquista di Gerusalemme continuata sino alla morte del grande combattente curdo. I toni e gli accenti delle storie arabe non sono diversi da quelli delle storie cristiane: lo stesso ardore religioso, lo stesso amore per i propri luoghi santi (il Santo Sepolcro per gli uni, la Santa Roccia da cui Maometto salì in cielo per gli altri), la stessa caratterizzazione spregiativa dei nemici: cani saracini nelle cronache cristiane, porci cristiani nelle cronache arabe. Fra i testi tradotti da Gabrieli vi è quello di una delle molte tregue che furono firmate dai contendenti durante le loro interminabili guerre. Si compone di due documenti paralleli nei quali ciascuno dei due firmatari invoca tre volte il proprio Dio, i propri sacri testi, il proprio messia e promette di punire se stesso, se romperà la tregua, con una stessa penitenza: trenta pellegrinaggi alla Mecca per il negoziatore arabo, trenta pellegrinaggi a Gerusalemme per il negoziatore cristiano. Ciascuno dei due negava la verità della fede professata dall’altro, ma entrambi accettavano un patto in cui ogni firmatario aveva giurato in nome del proprio Dio. Non si combattevano, in altre parole, perché erano radicalmente diversi. Si combattevano perché erano straordinariamente simili. 

"Le crociate non furono aggressione colonialista ma legittima difesa", scrive Dino Messina su "Il Corriere della Sera” il 16 settembre 2008.  La rivista <storia in rete> pubblica un estratto dal libro di Robert Spencer edito da Lindau (pagina 336, euro 19) intitolato <Guida (politicamente scorretta) all’Islam e alle Crociate>. L’autore elenca una serie di aggressioni compiute dai musulmani ai danni dei cristiani già a partire dal VII secolo: la conquista islamica di Gerusalemme nel 638, le violenze contro i pellegrini cristiani come quelli giustiziati dal governatore musulmano di Cesarea; il saccheggio del monastero di San Teodosio a Betlemme avvenuto nel 789 con la decapitazone di diversi religiosi; la jihad invocata dal califfo di Baghdad per rispondere all’avanzata dei bizantini guidati da Niceforo Foca, eccetera. Nel 1009, scerive Spencer, il califfo al-Hakim <pronunciò contro i cristiani la sua più clamorosa disposizione: ordinò la distruzione della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme insieme a quella di molte altre chiese>. Dopo grandi affermazioni e conquiste al-Hakim allentò la presa ma gli scontri proseguirono dopo la sua morte. Nel 1071 i musulmani sbaragliarono i bizantini a Manzicerta e fecero prigioniero l’imperatore Romano IV Diogene. <Le porte dell’intera Asia Minore – scrive Spencer – si spalancarono e l’avanzata dei musulmani divenne inarrestatibile. Nel 1076 conquistarono la Siria, nel 1077 Gerusalemme>.  Fu in questa situazione che maturò l’apello lanciato da Alessio I Comneno (1081-1118) , al quale papa Urbano II (nell’immagine) rispose nel 1095 al Concilio di Clermont bandendo la Prima crociata. Nell’appello del papa non si faceva riferimento a conversioni forzate o a espansioni territoriali ma soltanto a riconquistare terre in precedenza cristiane. Non tutti i crociati, osserva Spencer, erano mossi dalle migliori intenzioni. Però è falso <il dogna politicamente corretto secondo cui le crociate sarebbero ingiustificate azioni imperialiste contro una pacifica popolazione indigena di religione musulmana (…) e più che un’autentica ricerca storica riflette una certa ripugnanza per la civiltà occidentale>.

Così Obama offende la storia. Sostenere che i terroristi islamici e i crociati cristiani siano la stessa cosa, significa essere ignorante della realtà dell'islam, scrive Magdi Cristiano Allam Sabato 07/02/2015 su “Il Giornale”. Obama ci odia. Sostenere che i terroristi islamici e i crociati cristiani siano la stessa cosa, significa sia essere ignorante della realtà dell'islam arrivando a glorificarlo, sia coltivare un pregiudizio nei confronti del cristianesimo arrivando a criminalizzarlo. Nel suo intervento alla Casa Bianca in occasione della «Preghiera nazionale», Obama ha detto che «durante le Crociate e l'Inquisizione la gente ha commesso atti terribili in nome di Cristo», e che «nel nostro Paese la schiavitù e Jim Crow (leggi sulla segregazione razziale) troppo spesso sono state giustificate nel nome di Cristo». Per contro Obama ha assolto l'islam, affermando che «coloro che perpetrano la violenza e il terrore sostenendo di farlo nel nome dell'islam, in realtà tradiscono l'islam». È del tutto evidente che Obama non sa che Allah nel Corano legittima il terrorismo, la decapitazione e le mutilazioni corporee al punto da rivendicarne la paternità: «Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi! (...) Non siete certo voi che li avete uccisi, è Allah che li ha uccisi» (8, 12-17). Così come non sa che Maometto in un suo detto, confessa: «Ho vinto grazie al terrore» (Bukhari 4:52.220). Soprattutto non sa che Maometto praticò il terrorismo partecipando di persona alla decapitazione di circa 800 ebrei della tribù dei Banu Qurayza nel 627 alle porte di Medina. Giustamente il senatore repubblicano Jim Gilmore ha detto che Obama «ha offeso ogni credente cristiano negli Stati Uniti. Siamo arrivati al punto che Obama non crede nell'America né condivide i valori che noi tutti condividiamo». Ricordiamo che Obama è di famiglia islamica, il suo secondo nome è Hussein, ha un fratellastro, Malik Obama, che è un sostenitore dei Fratelli musulmani che si sono infiltrati nella sua amministrazione. Il 13 maggio 2004 Benedetto XVI, quando era ancora il cardinale Joseph Ratzinger, fece una lucida e profetica descrizione del suicidio dell'Occidente che calza a pennello all'Obama relativista e islamofilo: «C'è qui un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l'Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro». Proprio ieri il vescovo armeno-cattolico di Aleppo, monsignor Boutros Marayati, ha lanciato una pesante accusa: «Noi, come cristiani, abbiamo questo sentimento: che siamo dimenticati, siamo tralasciati, siamo traditi dall'Occidente». A parte il fatto che le Crociate, combattute tra l'XI e il XIII secolo, furono sferrate tre secoli dopo l'invasione violenta della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo e la sottomissione forzata all'islam dei cristiani che rappresentavano il 99% della popolazione, e dopo la conquista islamica della Spagna e della Sicilia, così come furono concepite come una guerra di liberazione del Santo Sepolcro, ebbene nessun crimine commesso dai cristiani può essere legittimato sulla base delle opere di Gesù o dei testi dei Vangeli. All'opposto i crimini perpetrati dagli islamici sono legittimati da Allah, dal Corano e da Maometto. Consigliamo ad Obama, prima di reiterare l'esaltazione dell'islam, di leggersi il Corano. Ed è la cura che consigliamo a tutti coloro che amano a tal punto i musulmani da finire per odiare se stessi.

Se l'espressione "crociato" diventa simbolo di vergogna. Il ministro degli Esteri Gentiloni obbedisce ciecamente alla vulgata dei nemici della cristianità. Ma quei cavalieri rischiavano vita, soldi e prestigio grazie a una fede oggi inconcepibile, scrive Camillo Langone Giovedì 19/02/2015 su “Il Giornale”. «Non siamo crociati» dice il ministro Paolo Gentiloni. Purtroppo, dico io. Storicamente per farsi crociati bisognava avere molta fede, molta speranza e molto denaro: basta questo per escludere la possibilità che gli italiani di oggi, increduli, depressi e squattrinati, possano imbarcarsi in simili vaste operazioni. «Intraprendete questo cammino in remissione dei vostri peccati», disse Papa Urbano II nel famoso appello di Clermont, rivolgendosi a una cristianità che in quel tempo al peccato ci credeva davvero, e capisco che la cosa sia difficile da comprendere per un tardo sessantottino come Gentiloni, cresciuto politicamente nel Movimento studentesco di Mario Capanna e poi nel Pdup, il Partito di unità proletaria, non so se mi spiego. Le crociate non furono quindi solo spedizioni militari ma anche espiazioni e pellegrinaggi. Pellegrinaggi armati, certo, perché allora, come del resto oggi, nelle terre sottomesse al Corano i cristiani rischiavano la pelle. Qualche esempio: all'inizio dell'ottavo secolo sessanta pellegrini vennero crocefissi; pochi anni dopo uno dei soliti sciagurati califfi fece marchiare sulla mano tutti gli ebrei e tutti i cristiani di Gerusalemme, anticipando così la famigerata stella gialla di hitleriana memoria; la domenica delle Palme del 937 i musulmani distrussero le chiese del Calvario e della Resurrezione; eccetera. Libertà di religione, questa sconosciuta. Fra un bagno di sangue e l'altro, e quindi nei momenti in cui al potere c'erano i musulmani cosiddetti moderati, i cristiani venivano semplicemente taglieggiati, tartassati, forzati alla conversione, impossibilitati a trasmettere la fede ai propri figli. Robe così. Ho detto che i crociati erano animati da una fiducia in Cristo talmente forte da essere oggi inconcepibile non solo da un Gentiloni ma anche da un cattolico praticante medio, e poi dalla speranza di una ricompensa ultraterrena, e infine da una notevole capacità di spesa. Non c'erano voli low cost, il viaggio era lunghissimo e ognuno doveva armarsi a proprie spese: avete idea di quanto costasse un'armatura? Le corazze erano gli F-35 dell'epoca, altissima ed esosa tecnologia. Goffredo di Buglione, che non era uno scalzacani bensì un potente signore feudale i cui possedimenti andavano dal Lussemburgo a Bruxelles, il cuore dell'odierna Europa atea e inerte, dovette vendere o più probabilmente svendere buona parte delle sue terre. Altro che occasione di arricchimento, per tanti partecipanti le crociate significarono la rovina economica. E pure politica: i pochi cavalieri che fecero ritorno in Europa, i pochi sopravvissuti ai disagi, alle malattie e alle scimitarre, si trovarono soppiantati nelle posizioni di potere dall'emergente borghesia urbana. Insomma i crociati erano dei nobili idealisti che difendevano, con i metodi spicci propri dell'epoca, i pellegrini e la libertà religiosa, eppure Gentiloni con loro non vuole mescolarsi. Io dico che, se fosse vivo, Riccardo Cuor di Leone non vorrebbe mescolarsi con lui. Il nostro ministro degli Esteri, cuor di renziano e quindi propenso ai machiavellismi più che agli eroismi, riguardo alla crisi libica ha detto alla Camera che «l'unica soluzione possibile è quella politica». Come dire che non c'è soluzione alcuna e che dobbiamo rassegnarci a venire invasi da Sud. Secondo lui dovremmo mediare, dialogare, negoziare: ma con chi? Per interloquire bisogna avere di fronte un interlocutore e in Libia gli interlocutori sono centomila e nessuno. Non c'è nemmeno un Saladino con cui tentare di venire a patti: solo bande di tagliagole barbuti e governicchi che non governano nemmeno le periferie delle città in cui hanno sede. E meno male che, secondo un collega piddino, il titolare della Farnesina è «uno sgobbone, uno che approfondisce i dossier fino all'ultima pagina». Pare fosse studiosissimo anche ai tempi della scuola, del prestigioso liceo Tasso e della Sapienza, ma i libri non bisogna soltanto leggerli e magari ripeterli a pappagallo il giorno dell'esame, bisogna anche capirli. Un ministro europeo non dovrebbe aderire così ciecamente, così masochisticamente alla vulgata antieuropea del nostro nemico. Qualcuno dovrebbe avvisarlo che nel XII secolo lo scrittore musulmano Ibn Jubayr osservò che i musulmani preferivano vivere nelle terre amministrate dai crociati piuttosto che nei vari califfati: proprio come oggi molti musulmani preferiscono vivere nella civile Europa anziché in Siria o in Irak. La smettesse di vituperare qualcosa che non conosce, Gentiloni, e comunque si rassicuri: no, noi non siamo crociati, non siamo degni delle Crociate noi.

Le crociate? I buoni eravamo noi, scrive Rino Cammilleri Lunedì 29/03/2010 su “Il Giornale”. Chi ha visto il film di Ridley Scott Le crociate è stato confermato nell'idea che dall'Illuminismo in poi l'Occidente ha sul tema: a) i crociati erano rozzi e crudeli, mentre gli islamici erano raffinati e tolleranti; b) l'imperialismo europeo attaccò senza provocazione i pacifici musulmani; c) Saldino era un galantuomo e i crociati dei farabutti; d) da allora i musulmani ci odiano con ragione. Questo mucchio di corbellerie è ribaltato nel più bel libro che mai sia stato scritto sull'argomento: Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate (Lindau, pagg. 365, euro 24,5) di Rodney Stark. Sì, perché è vero l'esatto contrario di tutti i punti summenzionati. Innanzitutto, i musulmani cominciarono a interessarsi alle crociate solo quando l'Occidente le mise loro in testa, cioè alla fine del XIX secolo. Non solo gli arabi contemporanei quasi non se ne accorsero, perché si trattava solo di invasioni periodiche durate poco e per nulla rivolte contro l'islam in quanto tale. Anzi, i musulmani sudditi dei regni latini di Palestina e Siria erano pure contenti perché i cristiani non li consideravano dhimmi (diversamente da quanto facevano i governanti islamici con cristiani ed ebrei) e le tasse che pagavano erano più leggere che nei circostanti regni musulmani. «Per molti arabi, inoltre, le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi». Infatti, fu quando arrivarono, a mano armata, i turchi - che massacravano i pellegrini - che ebbero inizio le crociate. Le quali ebbero il merito, per la civiltà europea, di fermare l'espansionismo turco per due secoli, dopo i quali l'Europa si ritrovò a doversi difendere fin dentro casa per i successivi quattro. Per quanto riguarda il Saladino, il romanticume sulla sua figura ammaliò anche il Kaiser, Guglielmo II, il quale depose sulla sua tomba una corona bronzea d'alloro (che poi Lawrence d'Arabia, come tutti gli arabi nemico dell'Impero ottomano, fece sparire). Nel film succitato il giudizio è identico. Eppure, dopo la disfatta inflitta ai cristiani ad Hattin, così il suo segretario, Imad ad-Din, descrisse quel che fu fatto ai templari e agli ospitalieri catturati: «Ordinò che fossero decapitati, preferendo l'ucciderli al farli schiavi. C'era presso di lui tutta una schiera di dottori e sufi, e un certo numero di devoti e asceti: ognuno chiese di poterne ammazzare uno», cosa che Saladino concesse volentieri. Non è vero che mandò liberi tutti gli abitanti di Gerusalemme: metà di questi non poté pagare l'esoso riscatto e fu venduta schiava. Stark dice la sua anche sulla famosa Quarta crociata, quella che conquistò Costantinopoli anziché la Terrasanta. E anche qui rimette le cose a posto. Fin dalla prima spedizione, i bizantini avevano sempre mantenuto un atteggiamento sleale nei confronti dei crociati, tradendoli a più riprese. Addirittura, l'imperatore Isacco II si era alleato col Saladino contro i latini per favorire i greco-ortodossi; presa la Terrasanta, Saladino, secondo i patti, aveva consegnato a questi ultimi ogni chiesa latina. Ora, ancora un volta, la richiesta d'aiuto era partita da Costantinopoli e ancora una volta gli europei avevano risposto. E ancora una volta, giunti sul posto, erano stati traditi. Così, stimarono che l'unico sistema per non essere pugnalati alle spalle era insediare uno di loro a Costantinopoli. Un'altra leggenda nera da sfatare è il massacro seguito alla presa di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione alla prima crociata: la città conteneva sui diecimila abitanti, dei quali caddero solo duemila. Nulla a che vedere con i massacri indiscriminati compiuti dai musulmani, specialmente quelli di Baibars e dei mamelucchi, che causarono la fine dei regni latini in Oriente. Massacri, per giunta, tutti compiuti in dispregio della parola data: ambasciatori decapitati, i monaci del Monte Carmelo interamente trucidati, eccetera. Il «peggiore massacro dell'intera epoca delle crociate» fu quello di Antiochia, perpetrato dal musulmano Baibars. Eppure, eccone il ricordo da parte degli storici occidentali: «Steven Runciman gli dedica ben otto righe; Hans Eberhard Mayer una; Cristopher Tyerman, che si era dilungato per molte pagine sugli efferati dettagli del massacro di Gerusalemme nella prima crociata, liquida la carneficina di Antiochia in quattro parole; Karen Armstrong riserva dodici parole al resoconto della strage, di cui attribuisce poi la colpa agli stessi crociati, poiché era stata la loro minaccia a creare un "nuovo islam"». Perché fallirono le crociate? Dopo aver fatto presente che i regni latini d'Oltremare pur ebbero la stessa durata degli odierni Stati Uniti, Stark punta il dito sulle tasse: mantenerli dissanguava l'Europa. Circondati dalla marea ostile, lontani migliaia di chilometri da casa, richiedevano continui rifornimenti di uomini e mezzi, nonché spedizioni ricorrenti per difenderli o riconquistarli. La fede (sì, la fede) aveva reso sopportabile ogni sacrificio e ogni defaillance era stata imputata ai peccati dei cristiani. Ma quando un santo come Luigi IX vi fallì (e morì) nel corso di ben due delle spedizioni in assoluto meglio organizzate, i cristiani si chiesero se davvero «Dieu le volt» o non era il caso di lasciare per sempre i Luoghi Santi al loro destino.

“No alla damnatio memoriae sulle crociate”. Parla lo storico Tyerman, scrive Giulio Meotti il 15 Ottobre 2012 su “Il Foglio”. Per i crociati sembra non valere neppure il detto “de mortuis nihil nisi bonum”. Non è un caso che la magnifica trilogia di Sir Steven Runciman, la bibbia della storiografia crociata adottata dalle università di mezzo mondo, sia stata pubblicata negli anni della decolonizzazione del medio oriente. Fu allora che il senso di colpa divenne un ottimo combustibile anche nella scrittura sulle crociate. Da allora una letteratura ostile a tutta quell’epopea storica si radicò nell’immaginazione occidentale. Riccardo Cuor di Leone, Tasso, i romanzi di Walter Scott e i drammi di Paul Claudel sono stati ridotti al rango di pizzi elisabettiani. Ma adesso arriva uno storico di Oxford, il medievista Christopher Tyerman, che in Italia esce per le edizioni Einaudi con “Le guerre di Dio”. Il libro è frutto del meglio della storiografia anglosassone: potenza stilistica e sintesi paziente delle fonti storiche. “Ogni tipo di storiografia è ‘postmoderna’ per definizione, costruita dagli osservatori anziché sulla realtà”, dice Tyerman al Foglio. “Tuttavia, sulle crociate ci sono stati quasi soltanto stereotipi come il binomio arabi civilizzati contro cristiani barbari. C’è stata una damnatio memoriae. I protestanti del XVI secolo condannarono le crociate come un esempio della corruzione della fede cattolica, gli illuministi le videro come esempio di ignoranza e di superstizione, mentre i materialisti del XIX secolo hanno visto le crociate come una forma di imperialismo occidentale ante litteram. Con questo studio ho voluto combattere i molti miti e pregiudizi”. Il mito prevalente, dice Tyerman, è che “le crociate fossero un assalto barbarico su un islam pacifico, superiore e sofisticato, una forza benigna rovinata da questi maligni di occidentali. E’ un non senso. Le guerre della croce sono divenute un cattivo odore persistente in una dimora di lusso appena restaurata”. In questo le crociate sono state svilite “come un fenomeno puramente distruttivo”, frutto di un modo di pensare post illuministico secondo Tyerman, che deriva “dall’incomprensione che ha fatto seguito all’illuminismo sul ruolo pubblico della religione”. Dietro alle crociate c’era “una visione idealizzata della chiesa, l’idea che la corruzione avesse consentito la conquista dei luoghi cristiani da parte dell’islam, la riconquista delle terre perse in Spagna, Sicilia e mediterraneo orientale e il rinnovamento attraverso la grazia”. Le crociate non furono “un’eccentrica barbarie”, dice lo storico, ma “un momento rivelativo per la fiducia della civiltà occidentale”. Tyerman non vuole certo esaltarle, ma riportarle al loro contesto originario. “E’ necessario tornare a valorizzare la dimensione religiosa e spirituale delle crociate senza appiattirle sul fenomeno puramente materiale”. Che significa? “Non c’era ragione strategica per i cavalieri occidentali di andare nelle colline della Giudea, erano là per ragioni ideologiche e religiose. Degli aristocratici un terzo morì in battaglia, altri dicono fino al settanta per cento. Il loro profitto, almeno così lo vedevano, erano l’indulgenza spirituale e la prospettiva del paradiso, non la terra. Se pensiamo alle crociate di Gerusalemme e a quelle sul Baltico, i principi non avevano alcun interesse economico per lanciarsi alla conquista di quelle terre, reclutare truppe, fondi e armi. Se volevano delle terre, i principi non avevano che da scegliere fra quelle vicine alla propria città. Molti dei finanziatori delle crociate persero intere fortune in guerra”. Non solo, ma secondo lo storico “le crociate, lungi dall’essere un anacronismo, furono uno stimolo all’epoca europea della scoperta”. Tyerman biasima dunque questo “multiculturalismo storiografico” che ha alimentato un senso di colpa. “E l’enfasi sulla colpa ha spinto i cristiani a un atteggiamento remissivo sul proprio passato, quando ci troviamo di fronte a un ideale che fu capace di ispirare sacrifici di portata e intensità a volte quasi inimmaginabili”.

Nel nono centenario della conquista di Gerusalemme, la "Civiltà Cattolica" si dissocia dai "mea culpa" della Chiesa: "Quante interpretazioni superficiali". I gesuiti: "Le Crociate, una storia da rivalutare". Messori: "Finalmente" Cardini: "Dal ' 700 troppi equivoci". In coincidenza con il nono centenario della conquista cristiana di Gerusalemme, avvenuta nel 1099, con la vittoriosa conclusione della prima spedizione in Terrasanta condotta da Goffredo di Buglione (il "difensore del Santo Sepolcro"), La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, rivaluta le Crociate. Questa non sarebbe una notizia, se la Chiesa Cattolica negli ultimi tempi non avesse mostrato segni di "pentimento" nei confronti degli attacchi medievali contro i musulmani, nel corso di quella che e' stata definita la "cristianizzazione armata". Il mea culpa sulle crociate non e' una posizione isolata della Chiesa, ma fa parte di una linea che nel suo percorso tocca eretici come Savonarola e Giordano Bruno, le vittime dell'Inquisizione e gli ebrei. Ecco perchè l'attuale pensiero della Compagnia di Gesù sulle spedizioni in Terrasanta suona come una inversione di tendenza. "Ben lungi dall'essere state inutili o nefaste, le Crociate contribuirono a creare situazioni storiche positive, che sfociarono in processi internazionali tuttora aperti e di vitale importanza", si legge su Civiltà Cattolica, la quale critica le valutazioni "troppo superficiali sull'evento storico" e invita gli studiosi ad accostarvisi liberi dai condizionamenti ideologici. E' il gesuita Carmelo Capizzi, docente di storia medievale alla Pontificia Università Gregoriana a "riscattare" le Crociate da quella che egli considera una storiografia d'impronta laicistica e perciò fortemente condizionata. Ci furono degli errori, ammette Capizzi, ma essi non giustificano la condanna delle Crociate, che, a suo parere, sono da considerare un fattore di progresso sociale e culturale. "Sbagliano", conclude Capizzi, "coloro i quali attribuiscono alla Crociata finalita' che essa non si propose mai, come ad esempio quella di propagandare la fede a mano armata". "Era ora", commenta sarcastico lo scrittore cattolico Vittorio Messori. E spiega: "Siamo al paradosso. Ormai tutta la Chiesa è in ginocchio a chiedere perdono perchè esiste ancora, promettendo di essere più buona. Dal Papa al vice parroco sono lì a battere il vestra culpa sul petto di coloro che non possono più difendersi". Messori è esplicito: "Siamo indignati e scandalizzati per le Crociate, mentre si dimentica che a Gerusalemme quando vi arrivarono i musulmani vi abbatterono tutte le chiese della cristianità, così come fecero nel Nord Africa, in Turchia, nella parte di Spagna che occuparono per ottocento anni. Ora perfino i gesuiti si sono accorti che a chiedere scusa non devono essere i cristiani, ma altri, quelli che dove sono arrivati hanno distrutto la cristianità". Per lo storico Franco Cardini gli equivoci su questo problema nascono da una visione riduttiva della storia: "Si enuclea il fatto militare (la Crociata) da un contesto profondamente denso e positivo". Per meglio valutare la questione, aggiunge Cardini, "bisognerebbe reinserirla nel suo contesto storico e allora molte polemiche non avrebbero più ragione d'essere". "D'altra parte", spiega lo storico medievalista, "la parola Crociata è un'espressione moderna che, sistematicamente, si usa soltanto dal XVIII secolo. Fino ad allora c' erano termini che definivano il "crociato", ma non esisteva la parola astratta. Questo significa che parlando di Crociate dal 1700 a oggi si e' fatta tutta una serie di generalizzazioni ingannatorie". Matteo Collura

E in Israele l'intellettuale Meron Benvenisti ridimensiona l'importanza delle truppe di Goffredo di Buglione "I soldati del Papa? Furono solo turisti" Meron Benvenisti la chiama "la strumentalizzazione paradossale delle Crociate". E la riassume così: "Gli arabi portano ad esempio la caducità dell'invasione cristiana per dire che l’impresa sionista farà la stessa fine. Gli israeliani, al contrario, esaltano gli 88 anni della presenza crociata a Gerusalemme e quasi 200 nella regione per dimostrare che questa è stata una terra di continue invasioni e relativizzare così i 1.400 anni di dominio musulmano". E' l'ennesima provocazione di questo intellettuale che fu vicesindaco di Gerusalemme nei primi anni Settanta, ma è conosciuto soprattutto per i suoi libri di denuncia delle ingiustizie ai danni della popolazione araba e contro l'occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza. Ma è anche un esperto del periodo crociato e ne ha scritto sul quotidiano Ha' arez denunciando lo "stravolgimento dei fatti avvenuti 900 anni fa". Vuol dire che i crociati furono molto meno importanti per la storia del Medio Oriente di quanto venga presentato oggi? "Mi limito a sottolineare l'uso e l'abuso, magari non intenzionale, che una parte dei nostri storici fa delle Crociate. La loro è spesso una lettura funzionale al progetto sionista. Mirano cioè a dimostrare che questa terra dalla distruzione del Secondo Tempio nel 70 dopo Cristo al Mandato britannico è stata costantemente invasa da popolazioni straniere. In questo modo gli ebrei appaiono come i legittimi proprietari della regione che, scacciati dai vari invasori per 2.000 anni, adesso tornano a casa". Aggiunge Benvenisti: "Si tende anche a dimenticare che decine di palazzi e castelli indicati da noi come "crociati" esistevano già, oppure vennero in seguito ampliati dai musulmani. Anche nel periodo d'oro dei regni crociati i loro abitanti cristiani non furono mai più di 120.000 e oltre 400.000 i musulmani. Così larga parte della città di Cesarea e del celebre castello di Belvoir sono indicati dalle nostre guide turistiche come tipicamente crociati: in realtà esistevano sul posto monumentali strutture del primo periodo musulmano, ma gli archeologi le distrussero perchè non disturbassero la loro lettura storica". Anche da parte araba c'è una strumentalizzazione per sottolineare la caducità della presenza ebraica in Palestina. "Sì, è una lettura popolare del passato, ma nessun vero storico le dà credito. Non ha senso paragonare Israele al regno crociato: i crociati qui rimasero sempre dei turisti, una presenza temporanea incapace davvero di assimilarsi nella regione. Nulla a che vedere con Israele". Lorenzo Cremonesi

Ma la liberazione del sepolcro di Gesù provocò troppi lutti e distrusse una cultura Fra Roma e Bisanzio s'ingaggia una battaglia costante, che colorerà di sangue l'Europa nei secoli, a partire dai primi dissapori: i Pontefici strappano a uno a uno i caratteri politici specifici dell'Impero romano, anche i più maledetti dai cristiani. Bisanzio resterà nello scontro secolare sempre sconfitta e ingannata. Smarrirà via via le sue province e quando le sarà sottratto il dominio politico, ben presto la Chiesa romana imporrà la sua liturgia, strappando il cuore alla Messa bizantina: il suo aspetto segreto ed esoterico, dove si celebra un richiamo alla formazione del cosmo dietro l'iconostasi. La storia della Calabria fu uno strappo crudele delle liturgie bizantine, fino alla loro pressochè totale scomparsa, perfino fra gli Albanesi venuti profughi dopo la conquista turca. Il culmine si celebrerà quando i Franchi conquisteranno Bisanzio stessa nel secolo decimo quarto, occupando Santa Sofia e oltraggiandola. Furti spaventosi spoglieranno la grande capitale. Venezia si ornerà di statue bizantine. Gerusalemme aveva subito la conquista turca nel 1073 e la popolazione restò esterrefatta dinanzi alla loro mitezza esemplare: riedificarono la chiesa sul luogo natale di Maria. Venne allora a Gerusalemme il sommo teologo al - Ghazzalì, convertito al sufismo, e vi scrisse la "Vivificazione delle scienze religiose". Accanto a lui visitò Gerusalemme al - Arabi e vi si trattenne per tre anni, partecipando con entusiasmo ai dialoghi che vi si accendevano fra islamici, cristiani ed ebrei. Quando scoppiarono scontri violenti nel 1077, egli annotò che "nella moschea di Al Aqsa nessuna discussione si interruppe". Ma nel giugno 1099 l'esercito di Goffredo di Buglione circondava con cieco furore ed esultanza le mura di Gerusalemme. Anche in questa novità era lo scontro fra Roma e Bisanzio che si esprimeva. L' imperatore di Bisanzio Alessio I Comneno calcolava che con una campagna adeguata avrebbe potuto strappare Gerusalemme ai Turchi. Commise l'errore di ricorrere al Pontefice romano Urbano II all'inizio del 1095 per ottenere dei mercenari normanni. Ma Urbano II, invece, al concilio di Clermont esortò clero, poverelli e cavalieri a marciare su Gerusalemme e a liberare il sepolcro di Gesù. La folla gridò "Dio lo vuole!", innamorandosi di colpo dell'idea. Nacquero le Crociate. Racconta con arte questa svolta fondamentale Karen Armstrong in "Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam". Una torma di predicatori accese gli animi percorrendo l'Europa intera suscitando la mobilitazione improvvisa di cinque eserciti, quasi sessantamila uomini. Giunsero in parte a Bisanzio, dove la principessa Anna Comnena annotava sgomenta come tutta l'Europa, dall' Adriatico alle Colonne d' Ercole, irrompesse così in Asia. L'imperatore restò sgomento ancor più di lei: aveva chiesto alcuni mercenari normanni e la Chiesa gli rovesciava addosso uno stuolo incalcolabile di uomini. In autunno un esercito ancor più numeroso s'era radunato, accompagnato da una quantità di sacerdoti. Il sepolcro di Gesù aveva acceso l'entusiasmo delle centinaia di migliaia di crociati. Molti di loro, percorrendo la Germania, avevano sterminato le comunità ebraiche a Spira, Worms e Magonza. Era la prima volta che tale eccidio diventava una "necessita" sentimentale: il sangue ebreo accendeva di entusiasmo le folle di cristiani erranti. Ma, quando l'esercito maggiore giunse a Bisanzio, si offrì di combattere per l'Impero d'Oriente. Attraversò l'Anatolia, sconfisse i piccoli eserciti islamici che incontrò a Nicea e a Dorileo. Strinse d'assedio Antiochia nell'inverno 1097 - 8 e vi subì la perdita d'un settimo dei membri; metà, inoltre, disertò. Alla fine però Antiochia fu conquistata e data in feudo al normanno Boemondo d'Altavilla. I Turchi a Gerusalemme provvidero alla difesa, e ben poco avrebbero potuto fare i crociati se le navi genovesi attraccate a Giaffa non avessero travolto le difese islamiche e permesso a Goffredo di Buglione l'occupazione della città il 15 luglio 1099. La furia dei cristiani fu raccapricciante: ammazzarono tutti gli islamici, uomini e donne, e tutti gli ebrei. Scrisse un crociato: "Nel tempio e nel portico di Salomone si cavalcava nel sangue fino alle ginocchia e alle briglie. Senza dubbio fu una punizione giusta e splendida che questo luogo fosse cosi' ricolmo del sangue dei non credenti, dopo aver sofferto così a lungo dei loro atti blasfemi". I Franchi erano il nuovo popolo di Dio. Roberto il Monaco dichiarò che questo era stato l'evento maggiore dopo la crocifissione: presto sarebbe arrivato l'Anticristo e avrebbe suscitato la battaglia finale. Chi si spingeva in quei primi tempi a Gerusalemme rimaneva soffocato dal fetore dei cadaveri. I cavalieri elessero Goffredo di Buglione a difensore del sacerdote latino, massima autorità. Doveva arrivare ben presto un emissario del Pontefice romano, che avrebbe scacciato dalla chiesa del sepolcro i cristiani ortodossi armeni, greci, georgiani, nestoriani, giacobiti. Incominciava un'epoca nuova, la dominazione romana di Gerusalemme. Elemire Zolla a * Il libro: "Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam", di Karen Armstrong, Mondadori, 456 pagine, 60.000 lire.

Collura Matteo, Cremonesi Lorenzo, Zolla Elemire Pagina 35 (16 luglio 1999) - Corriere della Sera.

Domenica 15 novembre 2015, Massimo Giletti, conduttore de L'Arena su Rai 1 in riferimento al massacro di Parigi: «Non è più il tempo delle marce, del Je Suis Charlie, ma non abbiamo più il coraggio di essere cristiani, di prendere la nostra identità e affermare con forza contro questa barbarie». «Basta marce e hashatag, qui bisogna fare una riflessione molto più profonda». «Un'Europa che fa fatica ad avere una via unica e che non può più eludere la domanda su da che parte stiamo? Quello che è successo a Parigi era imprevedibile?».

Gli dèi del caos vogliono Roma. È questa la storia della Chiesa, scrive il 16 Novembre 2015 Daniele Guarneri su “Tempi”. Un libro per ricordarci che sopra la tomba di Pietro si combatte una battaglia secolare. E che dalla libertà del Santo Padre dipende la nostra. Parla Angela Pellicciari. Nel poema La ballata del cavallo bianco Chesterton scrive: «Gli dèi del caos urlano per la caduta di Roma». E gli dèi del caos urlano da un paio di millenni e oltre, aggiungiamo noi. Da che Cristo ha messo piede su questo mondo. Lo evidenzia bene Una storia della Chiesa (Cantagalli) di Angela Pellicciari. Certo, l’autrice non intende risolvere duemila anni di storia in 350 pagine. Ma traccia una sintesi che aiuta a comprendere le principali sfide e difficoltà che la Chiesa si è trovata ad affrontare nel corso del tempo. Ed è sorprendente accorgersi delle analogie, non esplicitate nel testo ma che ognuno può scoprire, con ciò che sta accadendo oggi alla Chiesa e al suo popolo, dal Medio Oriente fino a Roma. Perché parliamo di Roma? Perché, lo vedremo, tutto il mondo è terra di Roma, e se qualcuno vuole sottomettere i popoli, prima deve conquistare la città, casa della cristianità. «Come i pagani presero spunto dal sacco di Roma per incolpare i cristiani e il loro Dio, così avviene oggi: ai fedeli di Cristo vengono imputate tutte le colpe, come se loro fossero la causa dei mali di tutto il mondo. Ma questo è falso, lo dice la mia esperienza, io sono stata salvata dalla Chiesa. La discrepanza tra quello che viene detto e la mia vita mi ha portato a scrivere questo ultimo libro», dice a Tempi Angela Pellicciari. Ieri come oggi, Satana combatte la Chiesa su due fronti, spiega l’autrice: «La terrorizza con lo spettro della persecuzione e attacca il magistero petrino cercando di corromperne la dottrina». L’attacco, come vedremo, può arrivare dall’esterno ma anche dall’interno. Può essere fisico ma pure materiale. La prima persecuzione imperiale ai cristiani è quella di Nerone, nel 46, ma il primo martire è santo Stefano, lapidato nel 36. Anche i giudei per motivi religiosi e i pagani per ragioni economiche si accanirono contro i seguaci del nazareno. Poi fu il turno degli islamici, che «reiteratamente applicano alla lettera quello che c’è scritto nel Corano. Quello che accade oggi in Siria e Iraq per mano dell’Isis, è già accaduto in maniera non meno violenta in passato: la data non è sicura, ma, molto probabilmente nel 1091, l’imperatore Alessio Comneno scrive a Roberto I, conte di Fiandra, per raccontare qualcosa di quello che succede ai cristiani che vivono sotto il dominio turco o che vanno in Terra Santa come pellegrini: “Essi circoncidono i ragazzi e (…) in disprezzo di Cristo versano il sangue della circoncisione nei battisteri, e poi li costringono a urinare negli stessi; li trascinano nelle chiese e li costringono a bestemmiare il nome e la fede della Santa Trinità. Coloro che si rifiutano li affliggono con innumerevoli pene e alla fine li uccidono. (…) Corrompono turpemente le vergini, ponendole in faccia alle loro madri, e le costringono a cantare canzoni viziose e oscene, finché non hanno terminato i loro vizi; uomini di ogni età e ordine, ragazzi, adolescenti, giovani, vecchi, nobili, servi, e, ciò che è peggio e più vergognoso, chierici e monaci, e – che dolore! – ciò che dall’inizio dei tempi non è stato mai detto o sentito, vescovi, sono oltraggiati con il peccato di Sodoma, e un vescovo sotto questo osceno peccato perì. Contaminano e distruggono i luoghi sacri in innumerevoli modi, e ne minacciano altri di peggiore trattamento. E chi non piange di fronte a ciò? Chi non ne prova orrore? Chi non prega? (…) Agite pertanto finché avete tempo, per non perdere il regno dei cristiani e, ciò che è più grande, il Sepolcro del Signore, e quindi abbiate non il giudizio eterno, ma la giusta ricompensa nei cieli. Amen”». Ciò che l’autrice ha voluto evidenziare è che l’opera di Satana è cominciata fin da subito: la Chiesa, anche quando non contava nulla, non aveva uno Stato, i suoi fedeli erano nemmeno un centinaio, cioè nulla considerata l’estensione dell’impero romano, anche allora era perseguitata. Perché? «Perché la Chiesa è il corpo di Cristo e Satana lo odia, quindi fin dall’inizio la perseguita, non c’entra se è grande o piccola, se i fedeli sono tanti o pochi. Satana fin dall’inizio combatte il corpo di Cristo». Oltre al terrore portato da imperatori, barbari e islamici, l’attacco a Cristo arriva anche dall’interno della stessa Chiesa con le eresie che cercano di corromperne la dottrina. «Fin dall’inizio gli apostoli mettono in guardia i fedeli dal male che può arrivare dall’interno. San Matteo scrive: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in vesti di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”; san Paolo: “Persino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare perverse dottrine”; san Pietro: “Ci saranno in mezzo a voi falchi”». Vale la pena riportare quello che l’autrice scrive nel libro, a proposito di queste eresie, per parlare di Lutero: «Da cinquecento anni, a partire dal libero esame di Lutero che esalta la relazione individuale con Dio a scapito di quella comunitaria, la modernità punta sulla centralità dell’individuo con i suoi desideri, le sue necessità e i suoi bisogni, col risultato che l’uomo è solo. Ma “Non è bene che l’uomo sia solo”, scrive la Genesi. La comunità cristiana è il gioiello pensato da Dio per dare speranza e consolazione al mondo. E la Chiesa riparte. Anno dopo anno la virata del pontefice la scuote, la certezza della verità la muove e lo Spirito Santo le ridona coraggio». «Oggi a forza di esaltare libertà e diritti individuali non siamo forse arrivati alla disintegrazione della persona?», aggiunge Pellicciari. «Mentre la Chiesa ripropone l’unico modello che rende felice l’uomo: la famiglia, la comunità. È la comunità cristiana che dà la forza ai fratelli di resistere alle persecuzioni, perché la bellezza della proposta di Dio passa dalla comunità, non può finire con l’individuo». In una delle sue prime lettere Giovanni scrive: «Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi: sono usciti di mezzo a noi ma non erano dei nostri». Oggi i lupi rapaci vogliono tutto dalla Chiesa. Gli slogan che quotidiani e televisioni ripetono da un paio di settimane non fanno altro che ricordare agli uomini di Chiesa che Cristo è nato e morto povero, mentre ci sono vescovi e cardinali che vivono nel lusso. È evidente che un po’ di sobrietà in alcuni casi non guasterebbe, ma è altrettanto chiaro che questi attacchi alla Santa Sede (uno degli stati più antichi al mondo, che ha regnato su Roma per oltre mille anni) servono a screditarla agli occhi dei fedeli e del mondo intero. Per magari farle perdere i suoi beni preziosi. È già accaduto anche questo in passato. «Nel Risorgimento in nome della purezza della fede e della vera morale, in nome di Gesù nato e morto povero, moltissimi ordini religiosi sono stati soppressi e la Chiesa è stata espropriata di palazzi, conventi, chiese, oggetti d’arte, biblioteche, terreni. Pio IX, ha ripetutamente ricordato ai fedeli le ragioni che rendono importante, per la Chiesa, il possesso di uno Stato. Nell’allocuzione Quibus quantisque, redatta nel 1849 da Gaeta mentre a Roma infuria la repubblica, il Papa scrive: “I fedeli, i popoli, le nazioni e i regni non presterebbero mai piena fiducia e rispetto al Romano Pontefice se lo vedessero soggetto al dominio di qualche Principe o Governo, e non già pienamente libero. Ed invero i fedeli, i popoli ed i regni non cesserebbero mai dal sospettare e temere assai che il Pontefice medesimo non conformasse i suoi atti al volere di quel Principe o Governo nel cui Stato si trovasse, e perciò, con questo pretesto, sovente non avrebbero scrupolo di opporsi agli stessi atti”». Nel 1872, a Papa ridotto a prigioniero in Vaticano, Pio IX indirizza al segretario di stato Antonelli la lettera “Costretti nelle attuali tristissime circostanze” in cui scrive: «La libertà religiosa dei cattolici ha per condizione indeclinabile la libertà del Papa, ne segue che se il Papa, giudice supremo ed organo vivo della fede e della legge dei cattolici, non è libero, essi non potranno giammai rassicurarsi sulla libertà ed indipendenza dei suoi atti». Ecco perché è così importante che ancora oggi il Papa possieda uno Stato: il minuscolo ma importante stato del Vaticano. C’è un ultimo particolare di Una storia della Chiesa. Il libro della Pellicciari, a parte al principio dove si parla di Gerusalemme come luogo della manifestazione di Dio, poi si concentra su Roma, perché tutto il mondo è terra di Roma, scrive Chesterton all’inizio del XX secolo. «L’intuizione del poeta inglese che collega a Roma il cuore della battaglia fra luce e tenebre, ordine e caos, vita e morte, esplicita il filo conduttore che accompagna la cultura cristiana durante i secoli», spiega Pellicciari. «La Chiesa è romana. L’attacco a Pietro è a Roma. E Roma, all’epoca è il mondo. La Chiesa di Roma è sempre stata attaccata nel corso dei secoli e ancora lo è. Ma qual è la caratteristica che differenzia i cattolici dall’islam, dal protestantesimo, dalla massoneria? Che Cristo vince in croce. Mentre gli altri vogliono dominare il mondo, la Chiesa no. La Chiesa sa che Cristo ha vinto in croce, quindi ai suoi fedeli tocca la testimonianza fino al sangue. San Giovanni Paolo II lo ha fatto fino alla sua ultima ora. Non si può sottomettere il mondo se non si domina Roma, perché lì c’è Pietro. Ci hanno provato i protestanti, i massoni, i comunisti che sono arrivati ad attentare alla vita di Giovanni Paolo II. L’islam è da 1.500 anni che afferma di voler conquistare Roma, lo ha dichiarato anche l’Isis. Anche gli jihadisti lo sanno bene: senza sconfiggere Roma e quindi la Chiesa, il mondo non sarà mai sottomesso. Cristo ci ha insegnato che il potere non è la risposta alla vita. E questo insegnamento è più efficace delle spade».

Ecco chi occuperà il vostro vuoto. «I musulmani sono convinti che vi conquisteranno con fede e fecondità», scrive il 16 Novembre 2015 Rodolfo Casadei su “Tempi”. Parla il patriarca maronita Bechara Rai: «Per i musulmani il matrimonio è un’istituzione divina, e Dio è per la procreazione». «Al Sinodo l’ho detto: “I problemi del matrimonio e della famiglia di cui sento parlare in tanti interventi, da noi non esistono. I nostri problemi sono totalmente diversi”. L’uomo orientale e l’uomo occidentale restano molto differenti. Da noi il matrimonio continua a essere un’istituzione divina: è quello che pensano sia i musulmani sia i cristiani. Per noi si tratta di un sacramento, per i musulmani di un’istituzione divina, perciò le legislazioni salvaguardano il matrimonio come realtà religiosa: da noi non esiste nemmeno il matrimonio civile, figuriamoci le convivenze e i matrimoni fra persone dello stesso sesso!». Bechara Boutros Raï, da quattro anni Patriarca di Antiochia dei Maroniti e da tre cardinale, è uomo che conosce il mondo. Quando va in Francia – e succede spesso – il presidente François Hollande lo riceve quasi come un capo di Stato. Come tutti i libanesi, soprattutto quelli cristiani, vive a cavallo fra Oriente e Occidente e pertanto è ambasciatore naturale fra i due mondi. «L’uomo in astratto non esiste, esiste l’uomo concreto condizionato dalla cultura religiosa e civile del luogo in cui vive. La cultura delle persone che vivono nel Vicino Oriente è determinata da una componente musulmana e da una componente cristiana. Per gli orientali la persona umana è totalmente definita dalla sua religione, e questo si riflette sul matrimonio: questioni come la custodia dei figli, i diritti ereditari, eccetera, sono definiti dal diritto familiare confessionale. Le convivenze fuori dal matrimonio e l’omosessualità sono semplicemente problemi morali, sono eccezioni che nulla hanno a che fare con l’istituzione familiare». Il patriarca ovviamente non si esprime solo come antropologo culturale, ma come pastore: «All’assemblea sinodale dell’anno scorso ho detto: “Gli stati legiferano senza alcun riguardo per la legge divina: né per quella rivelata, né per quella naturale; e poi la Chiesa deve raccogliere i cocci dei danni che queste leggi producono! Facciamo un appello agli stati perché rispettino la legge naturale”. Ammetto che fra i cristiani molti sono influenzati dal secolarismo, nel loro intimo vorrebbero quel tipo di libertà che vedono in Occidente riguardo ai rapporti affettivi e sessuali, ma le leggi in vigore li trattengono, e noi come Chiese lavoriamo per ricondurli ai valori cristiani». L’uomo orientale, ancor oggi antropologicamente diverso dall’uomo occidentale, in maggioranza aderisce all’islam. «I musulmani sono convinti che conquisteranno l’Occidente, anche quelli fra loro che non sono jihadisti o estremisti. Gliel’ho sentito dire molte volte: “Conquisteremo l’Europa con la fede e con la fecondità”. Professare la fede per loro è il principio essenziale della vita, nessuno che appartenga a una religione può astenersene. Che da parte loro la professione sia genuina o puramente sociologica è questione controversa, ma un fatto è certo: è generalizzata, nessuno può astenersene. Allora quando vengono in Europa e vedono le chiese vuote, e constatano l’incredulità degli europei, immediatamente pensano che loro riempiranno quel vuoto. Poi c’è la questione della natalità: per i musulmani il fatto che il matrimonio sia un’istituzione divina significa che la volontà di Dio è la procreazione. Perciò le famiglie devono essere numerose. In Europa vedono che i matrimoni e le nascite sono sempre meno, e questo li convince che loro prenderanno il vostro posto. I musulmani non concepiscono il celibato, nemmeno quello consacrato: considerano ogni forma di celibato scandalosa, perché contraria alla volontà di Dio, che vuole la procreazione». Ma i cristiani con cui i musulmani entrano più spesso a contatto non sono quelli europei, bensì quelli dei loro stessi paesi. «È un rapporto più complesso di quello che molti di voi immaginano», spiega il patriarca maronita. «Nel loro intimo, i musulmani pensano che i cristiani debbano fare il passo che li porterebbe a diventare musulmani: nel disegno divino il cristianesimo doveva soppiantare l’ebraismo, e l’islam è l’ultima rivelazione, quella che soppianta il cristianesimo. Perciò i cristiani non sono mai veramente accettati come tali. Eppure nella vita quotidiana i musulmani hanno più fiducia in noi che negli altri musulmani. Ci apprezzano per il nostro livello culturale, per le nostre capacità professionali e per le nostre qualità morali. Siamo ricercati per queste caratteristiche. Nei paesi del Golfo i lavoratori immigrati che ricoprono i posti di maggiore responsabilità sono cristiani, orientali od occidentali: gli emiri e gli altri dirigenti sanno che siamo professionalmente qualificati, onesti e non ci immischiamo nelle questioni politiche. Per loro è cosa pacifica: i cristiani sono “migliori” di loro sotto tutti gli aspetti. Quando la realtà non corrisponde alle aspettative, reagiscono molto male. Un’altra situazione nella quale noi cristiani orientali ci troviamo in difficoltà, è quando ci sono tensioni fra i paesi musulmani e gli Stati Uniti o i paesi europei: allora le politiche dell’Occidente vengono etichettate come “cristiane”, e noi veniamo tacciati di essere i resti dei crociati e del colonialismo, anche se in realtà eravamo già lì alcuni secoli prima che apparisse l’islam!». Ma pare che ci sia una questione, molto recente, per la quale i musulmani vanno dai cristiani col cappello in mano. «La maggioranza dei musulmani è moderata, posso dirlo perché ne conosco tanti sia fra le autorità religiose sia fra la gente comune. Lo avete visto anche voi in Egitto: quando i Fratelli Musulmani hanno cominciato a governare, la gente s’è stancata subito. Però difficilmente prendono posizione contro gli estremisti. Qualche tempo fa c’è stato un intervento autorevole di condanna delle azioni dell’Isis, ma non tanto forte. Per due ragioni. La prima è che per loro l’appartenenza religiosa viene prima di quella al paese, e quindi se c’è una motivazione religiosa musulmana negli atti di qualcuno, non se la sentono di condannare. La seconda è che, almeno in Libano, i musulmani sunniti hanno i loro referenti nell’Arabia Saudita e nei paesi del Golfo, gli sciiti nell’Iran, perciò non prendono posizioni se non arrivano direttive. Alla fine succede che molti leader religiosi musulmani vengono da noi e ci chiedono di dichiarare pubblicamente le cose che loro vorrebbero ma non possono dire». Naturalmente la cosa che preoccupa di più il patriarca è la guerra nella confinante Siria e in Iraq, e le sue conseguenze. «Tutta la comunità internazionale deve attivarsi per mettere la parola fine a queste guerre. Si discute di come ripartire il flusso dei profughi fra i paesi europei, ma non si discute di come chiudere il rubinetto che produce quel flusso! Se continua l’esodo, se ne andranno le forze migliori dal Vicino Oriente, se ne andranno i cristiani e resteranno solo gli estremisti. Senza cristiani l’Oriente perde lo strato più profondo della sua identità, questo lo sanno anche i musulmani». «Dovete aiutarci a restare, non a emigrare! Questa omissione di interventi efficaci ci fa sospettare che esista un piano di distruzione del mondo arabo. Com’è possibile che dopo dieci anni di guerra in Iraq e quattro in Siria ancora non si cerchi una soluzione politica, ma si insista con quella militare? L’ho detto apertamente agli ambasciatori di alcuni paesi arabi a proposito del conflitto siriano: dove volete arrivare? Perché siete disposti a pagare qualsiasi prezzo per eliminare Bashar el Assad? State spendendo 100 mila dollari per qualcosa che ne vale mille! Il Libano è il paese più minacciato dalla crisi, perché ormai un abitante su quattro da noi è un profugo siriano. La pressione sull’economia, sui servizi, sulle infrastrutture sta diventando insopportabile». Gli si fa presente che il Libano ha anche un problema istituzionale: dal maggio 2014 il paese non ha un presidente. Tempo di riformare la costituzione nazionale? «No», risponde. «La costituzione è già stata riformata nel 1989, in concomitanza con gli accordi per la fine della guerra civile. Adesso al massimo servirebbe qualche ritocco. Ma tutto è bloccato a causa della rivalità regionale fra Arabia Saudita e Iran, che sono le due potenze dietro alle due principali coalizioni politiche libanesi: la “14 marzo” e la “8 marzo”. Non solo il futuro della Siria, anche quello del Libano dipende dall’esito di quella rivalità».

Una frattura generazionale nelle moschee. Molti giovani disertano quella nel cuore della capitale dove gli imam predicano la moderazione e si ritrovano nei capannoni trasformati in sale di preghiera. E qui domina lo spirito salafita, scrive Domenico Quirico su “La Stampa” il 16 novembre 2015. Sono venuto in questa strada dieci anni fa: allora adolescenti incendiavano le notti delle periferie, bruciando le vecchie auto dei padri, assaltando le mediocri ricchezze di supermercati discount. Ho ritrovato ancora sui muri di La Courneuve manifesti che ricordano l’anniversario: «Dalla rivolta delle banlieues alla rivoluzione mondiale», inneggiava, ottimista, «il blocco rosso-maoista»! La Francia conserva davvero tutto, mette sotto naftalina i muri la cultura i ricordi gli uomini. Dieci anni dopo altri ragazzi giovanissimi imbracciano fucili, uccidono a qualche isolato da qui sognando un remoto califfato universale. Sì, quella di dieci anni fa fu davvero l’occasione perduta. Una generazione musulmana chiese, disperatamente, che ci si accorgesse di lei, urlò la propria emarginazione, il dispetto e la voglia di sfidare quello Stato onnipotente che la ignorava. Come i loro coetanei musulmani dall’altra parte del mare, le primavere arabe, altre rabbie, le stesse illusioni. Anche loro sono diventati islamisti, per rabbia, soldati in Siria e in Iraq lo stesso destino.  Demolita l’integrazione nei quartieri di periferia si è diffuso il radicalismo basato sulla religione. Nel 2006 erano poche decine i francesi partiti per l’Iraq e la guerriglia contro gli americani. Ora sono centinaia. E tornano. Il cuore del problema francese è a qualche fermata di metrò dal centro, non in Siria o nel Sahel. Sono andato in rue Daubenton, alla grande moschea della capitale. Il centro teologico, la scuola: tutto è chiuso, i corsi annullati. Ma nel piccolo giardino gli uccellini ti assordano dolcemente e il tè servito dai camerieri è ben zuccherato: come sempre. Questo è il cuore dell’islam alla francese, che dovrebbe invitare cinque, sei milioni di musulmani alla tavola della République: l’islam del Consiglio del culto fatto di notabili, di dotti, annunciato come miracoloso concordato tra religione e laicità, una scorciatoia per annegare la differenza nella burocrazia della preghiera, tenere le moleste periferie sotto il travettismo di notabili coccolati e controllabili, spegnere i sussulti del fondamentalismo nei cunicoli di una piramide amministrativa. Nei capannoni trasformati in sale di preghiera non si udivano prediche moderatissime e obbedienti ripaganti la fiducia governativa. Risuonavano le sillabe perniciose del «tabligh», movimento pietista e settario che descrive il mondo con strutture paranoico-persecutrici; e i salafiti che predicano il loro ritorno alle origini, anticamera spirituale del califfato totalitario.  Nel piccolo giardino della moschea l’unico musulmano è un vecchio signore che estrae da una borsa una piccola biblioteca di libri e giornali, la mette in ordine e inizia a leggere un libro che conosco, l’autobiografia di Hamid Abu Zaid, studioso egiziano del Corano accusato di apostasia negli anni novanta, vittima degli oscurantisti. Parliamo: l’emigrazione della sua famiglia dall’Algeria non ha conosciuto barconi e clandestinità, aveva documento di lavoro e poi cittadinanza: «Eppure questi ragazzi che uccidono sono nostri figli… noi siamo colpevoli, portiamo la responsabilità per quello che sono diventati... non la Francia i bianchi, noi che li abbiamo allevati… ognuno cerca di aggrapparsi a qualcosa, tutti corrono per non essere quello che rimane senza posto…». La superba Francia delle librerie dei salotti dei bistrot delle languide bellezze bionde che occhieggiano dai tavolini dei caffè: immobile, capace di avvolgere i suoi vizi e le sue tarlature, gigantesco museo di se stessa: il Califfo, per fortuna si illude, non riuscirà a metterle il turbante, a creare l’emirato della Senna. L’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese può assopire qualsiasi Jihad. Eppure a La Corneuve scopri che il popolo musulmano vive in un altrove. L’anima, il di dentro, la fodera è quello che sfugge tenacemente alla integrazione, che l’ha fatta fallire. Gli uomini appartengono alle abitudini, dove sono le loro memorie. È quella la loro casa. Ogni cinque negozi c’è una macelleria «euroafricana», halal: giganteschi murales mostrano trionfalmente animali lobotomizzati, impressionanti nature morte. Al «mercato delle quattro strade» mele angurie banane gigantesche dipinte con colori iperrealisti: come nei mercati di Bamako e di Niamey. I confini più complicati sono quelli che non si vedono, che non hanno garitte gendarmi filo spinato controllo di passaporti. Esci in rue Jaurés, quattro passi appena… e ti sei lasciato dietro la Francia. L’ha scrupolosamente inghiottita un lento quotidiano terremoto, bruciata dallo zolfo del tribalismo, fatta e pezzi e trasferita in qualche altro continente, il nord Africa, l’islam. Non vedo tricolori a mezz’asta qui. Poi in un negozio di alimentari… ecco: pende una piccola bandiera a cui hanno aggiunto un nastro nero. Entro: sono indiani. Tutto è islamico: la gente i negozi i caffè i barbieri le abitudini i vizi e le virtù. Attenzione: ho incontrato solo un barbuto apostolo maomettano con i regolari pantaloni sopra la caviglia, molti moltissimi veli ma nessun burqa. Nessuno mi ha minacciato, questo non è un jihadistan. Semplicemente un altro mondo. Il francese è rimasto pateticamente aggrappato ai nomi delle strade: rue Rimbaud, rue Danton, rue Maurice Bureau. Sui marciapiedi ogni tanto incroci qualche povero bianco, sopravvissuti del naufragio: da questi quartieri nessuno ha cacciato nessuno, la semplice, implacabile omogeneizzazione delle abitudini, del modo di vivere, giorno dopo giorno i musulmani sono diventati maggioranza. Sui muri intristiscono manifesti elettorali per le regionali, un deputato Dupont -Aignan promette di prendersi cura degli automobilisti «maltrattati». C’era già dieci anni fa: come Sarkozy, Hollande… La strategia del ghetto usata dai radicali ha funzionato: allargare la fenditura tra i musulmani e la Francia fino a farli scoprire estranei e nemici. Entro in un bistrot dal nome evocativo: Medina. Il proprietario alla cassa ha un’aria lesta ma non quella di un fanatico. Solo uomini ai tavoli, anzi ragazzi: nessuno sembra aver qualcosa da fare, tutti sembrano presi nel circolo vizioso di una inedia quasi totale. Come ad Algeri o Marrakesh: i caffè arabi, dove nessuno spende, la gente sembra lì solo per chiacchierare. I ragazzi accanto parlano un arabo dialettale, dove spuntano, affiorano parole francesi come relitti di un naufragio linguistico. Capisco che parlano di me: «céfran, céfran», che vuol dire francese e giù, rovesciano ghignando insulti su antenati e eredi, ma non è odio, sembra più un gioco greve di adolescenti. Alla televisione scorrono immagini: dieci iman che cantano la marsigliese davanti al luogo dell’attentato e parlano di «Islam patriottico», e scende un gran silenzio. E poi immagini dell’arresto dei parenti di uno dei kamikaze in un’altra cité: «schifosi flic» dice un ragazzo, le voci si alzano. Il padrone del bar cambia perentorio canale. Adesso ci sono le immagini della serie «cucine da incubo». «Noi siamo algerini, algerini e musulmani - dice quello dall’aria più ribalda - hai capito? E viviamo da algerini e musulmani. I francesi sono stati un secolo da noi, hai mai sentito dire che vivessero da algerini? Qui nessuno fa la guerra». La chiesa di Saint Yved è una brutta costruzione novecentesca come avverte l’inevitabile targa. È domenica ma è vuota. Il prete allarga le braccia: questa è terra di missione…».

Ecco la lista dei crimini per i quali il califfato ci vuole uccidere. Cosa stavano facendo di così offensivo nei confronti dell'Islam le persone falcidiate dai fondamentalisti negli ultimi anni? Il periodico americano The Atlantic ha provato ha stilare una lista, parziale, di ciò che per l'Is merita la morte, scrive F.S su “L’Espresso” il 15 novembre 2015. Quali sono i "crimini" per i quali gli islamisti fanatici del Califfato hanno deciso fosse legittimo uccidere? Al di là delle cause profonde, che lasciamo agli storici e agli esperti, cosa stavano facendo di così offensivo nei confronti dell'Islam le persone falcidiate dai fondamentalisti negli ultimi anni? Il magazine Atlantic ha provato a stilare una lista provvisoria di questi "gravissimi" comportamenti. Come ogni lista, è parziale. Ma questa, in particolare, qualcosa ci dice: che i cristiani, gli ebrei, gli induisti, gli atei, le donne, i gay, e i milioni di musulmani che rifiutano il dettato conservatore del Corano interpretati da al Qaeda e Isis, possono essere puniti se guardati con gli occhi di chi vorrebbe riportare il Medioevo al mondo. Ecco dunque la lista dei "crimini" che sono valsi la pena di morte:

Andare in vacanza in Egitto

Fare shopping a Nairobi 

Andare in ufficio a New York 

Volare in aeroplano negli Stati Uniti 

Muoversi in treno a Madrid 

Muoversi in bus a Londra

Partecipare a un matrimonio ad Amman

Custodire un memoriale in Canada

Pregare in una moschea non approvata 

Essere ebrei

Visitare una discoteca a Bali

Andare a scuola in Russia

Andare a scuola a Peshawar

Disegnare vignette

Essere un giornalista del Wall Street Journal in Pakistan

Parlare liberamente in Bangladesh

Essere un ingegnere francese in Pakistan

Lavorare in banca a Istanbul

Muoversi in traghetto nelle Filippine

Bere un caffè a Mumbay

Realizzare un film critico sull'atteggiamento dell'Islam nei confronti delle donne

Pubblicare bibbie in Turchia

Dormire in hotel a Islamabad

Stare fuori una stazione di reclutamento a Little Rock

Pregare in Chiesa in Egitto

Fare shopping per i regali di Natale in Svezia

Comprare pesce in Nigeria

Fare un pellegrinaggio in Iraq

Guardare la maratona di Boston 

Essere una ragazza cristiana in Nigeria

Prendere il sole in Tunisia

Fare il giornalista

E i crimini delle persone che sono state uccise a Parigi venerdì: ascoltare la musica, bere, mangiare.

La Musica, l'Islam, la strage di Parigi e il Rock, scrive Ernesto Assante su “La Repubblica” il 15 novembre 2015. La strage al Bataclan merita particolare attenzione. Perchè se gli attacchi allo stadio e ai ristoranti hanno fatto vittime "casuali", al contrario le vittime del concerto dei californiani Eagles od death metal non erano affatto casuali. Perché per l'Islam ascoltare musica rock è peccato. Anzi, ascoltare gran parte della musica è peccato. Suonare musica è peccato. Vale la pena leggere quanto scrive Mufti Muhammad Ibn Adam al-Kawthari, lo trovate facilmente su Internet, il testo completo è ancora più interessante di questo piccolo estratto: "Musica e Canto? Il caso è lo stesso con la musica ed il canto illecito. Essi sono stati definitivamente proibiti nella Shari`ah, come dimostreranno le prove citate più avanti. Eppure vi sono persone non pronte a credere che sia Haram. Nell’epoca moderna, la musica si è diffusa al punto tale che nessuno ne è libero. La gente si trova ad affrontare situazioni in cui è costretta ad ascoltare musica. E’ accesa in quasi tutti i centri commerciali e supermercati. Se ti siedi in un taxi, fai una telefonata o anche solo cammini per la strada, non sarai al sicuro da questo male. Certi giovani musulmani guidano le loro auto con la musica a tutto volume. La crescente popolarità della musica, comune nella nostra società, rappresenta una grande minaccia per i musulmani. La musica è un chiara stratagemma dei non Musulmani. Una delle principali cause del declino dei Musulmani è il loro coinvolgimento in intrattenimenti inutili. Vediamo oggi che i musulmani sono coinvolti, e forse in prima linea, in molte immoralità e mali. La forza spirituale che era un tempo la peculiarità del Musulmano non si vede da nessuna parte. Uno dei motivi principali di ciò è la musica e l’intrattenimento inutile". I terroristi che sono andati a uccidere i ragazzi al concerto al Bataclan non hanno scelto a caso il luogo dove andare a uccidere, non solo gli "infedeli", i "crociati", ma i peccatori in blocco, i ragazzi che ascoltano rock, l'intrattenimento inutile. La pensano così anche in Iran, tanto per dire di uno stato che, a quanto pare, sta schierando i soldati contro l'IS ma che al tempo stesso vieta gran parte della musica entro i suoi confini, "musica che non è compatibile con i valori dell'Islam", dice l'ayatollah Khamenei. Bene hanno fatto gli U2, il cui concerto parigino è stato cancellato, ad andare a deporre fiori davanti al Bataclan, magnifico è stato il musicista che ha portato il pianoforte in strada per suonare Imagine. Così come all'indomani della strage nella redazione di Charlie Hebdo era (ed è) importante dire che ogni matita può essere un'arma che combatte in favore della libertà, oggi è importante dire che ogni chitarra, ogni strumento musicale, è un'arma che combatte in favore della libertà. E contro chi pensa che la musica corrompa l'anima e il corpo e che per questo debba essere vietata.

Perchè la sinistra parteggia per l'islam contro la cristianità? Perchè....

L'Isis è l'ultima forza anticapitalistica del mondo. La teocrazia islamica è antimoderna. E qualcuno, anche in Occidente, ne sente il fascino, scrive Vittorio Macioce - Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. L'Isis lo sa come si frantuma l'Occidente, conosce i suoi punti deboli. La prima strategia è seminare paura, nei luoghi della vita quotidiana, il ristorante, il teatro, lo stadio, le strade, i supermercati, fin sotto casa. Non sarete mai più tranquilli. Come se tutti le terre aliene allo Stato islamico fossero Israele, vivere come a Gerusalemme, quando la mattina ti svegli e non sai se tornerai a casa. Questo significa seminare paura. Ma per l'Occidente c'è qualcosa in più, una crepa, un fantasma sul quale fare sponda. L'Isis ti vuole convincere di una cosa: la colpa è vostra, di quello che siete. Il guaio è che ci sta riuscendo, senza neppure tanti affanni. Lo senti nelle parole di alcuni opinionisti in tv, prima con imbarazzo e sottotono, poi via via sempre con più convinzione e netti e chiari nei social network. È vero questi sparano, ammazzano, con una decimazione che lascia alla sorte la sopravvivenza o la morte, ma in fondo ce la siamo cercata. È colpa dell'America, è colpa dell'Europa, è colpa soprattutto di una civiltà malata di denaro, di individualismo, di valori corrotti, della caccia al petrolio, dei padroni del mondo, avidi e incappucciati. Come se noi, povera gente, e i fondamentalisti islamici fossimo vittima di uno stesso complotto. Quelli che ammazzano sono carnefici ma in qualche modo vittime come noi. E qui si arriva a indicare il vero male. Di chi è la colpa di tutto questo? Facile, del capitalismo, sempre lui. Quello che per i nemici non è mai stato solo un sistema di produzione, ma il Satana dei valori degenerati. È quel capitalismo che bene o male ha fatto deragliare l'Occidente dalle società tradizionali. È quella divergenza nella storia, che parte dai mercanti delle città medievali italiane, lì dove si fuggiva dal feudo in cerca di libertà e passa per la prima e seconda rivoluzione industriale, per arrivare qui e adesso. È quel capitalismo sopravvissuto alle profezie di Marx e all'utopia del comunismo. È lo stesso capitalismo che odiavano gli studenti del '68 nel nome del libretto rosso di Mao. È una vecchia storia, insomma. I nemici del capitalismo in fondo hanno sempre avuto nostalgia di una società non corrotta dalla modernità. È lo stesso sogno di Platone e di Rousseau, siccome la storia è decadenza bisogna tornare a una società arcaica, dove la morale non è corrotta dal denaro. L'ideologia di una teocrazia islamica in fondo, a modo suo, promette proprio questo. È per questo che l'odio contro il capitalismo può diventare l'alleato più profondo dell'Isis.Eppure se gente con il Kalasnikov entra in un ristorante e spara non è colpa dell'Occidente. Se in nome di un dio seminano e onorano la morte e si fanno profeti del nulla, bé neppure questo è colpa dell'Occidente. Se invece riusciamo a non rinnegare Voltaire il merito è, questa volta sì, dell'Occidente. Allora bisogna scegliere: cosa propone come alternativa chi condanna l'Occidente? Il califfato come disperata nuova utopia.

Islam assassino: non ci arrendiamo. È una guerra contro il nostro stile di vita e la libertà. E per difenderci ora dobbiamo attaccare, scrive Alessandro Sallusti - Domenica 15/11/2015 su “Il Giornale”. La parola «guerra» rimbalza da Parigi nelle capitali europee. Si mobilitano servizi segreti, polizie e, per la prima volta in Italia, si mette in allerta l'esercito. I morti di Parigi scuotono un'Europa che da tempo assiste compiaciuta al suo decadimento, che ha commesso l'errore fatale di dare il via libera a una invasione ostile (uno dei terroristi di venerdì era sbarcato da un barcone come profugo poche settimane fa) e che poi si è più preoccupata di mettere a tacere le presunte «destre xenofobe» piuttosto che combattere l'Islam assassino. La vera «emergenza umanitaria» del nostro tempo non sono le ondate di clandestini che ci arrivano addosso ma la difesa delle nostre vite di occidentali e cristiani, di quelle dei nostri figli da ieri mai più al sicuro nelle loro città, nei loro stadi, teatri, ristoranti, sugli aerei. La vera «umanitá» in pericolo siamo noi. Invece le sinistre e la burocrazia europea hanno azzerato le nostre difese con leggi permissive, hanno emesso sentenze giudiziarie che introducono le «attenuanti culturali» per giustificare crimini commessi da una civiltà inferiore, quella islamica, in nome di un dio, Allah, feroce e spietato, hanno fatto chiudere le nostre mostre d'arte con opere a sfondo cristiano e cancellato il Natale per non offendere il conquistatore. E adesso piangiamo, da veri coccodrilli, la morte dei nostri figli e amici, in una escalation di orrore che, come giurato ieri dall'Isis, è solo all'inizio. In dieci mesi si è passati dai dodici morti di Charlie Hebdo, ai duecento dell'aereo russo partito da Sharm, ai 129 (bilancio provvisorio) della notte di Parigi. Quanti saranno quelli della prossima strage, e dove? Impossibile dirlo, il fronte di questa guerra non è un confine, siamo noi, ovunque ci troviamo. Ragazzi kamikaze contro ragazzi che bevono una birra a casa loro. Non c'è storia, vinceranno loro questa guerra impari fatta di agguati e di attese tra una strage e l'altra. Colpire con missioni suicide e poi sparire è una tecnica militare sperimentata dai vietcong in Vietnam e dai talebani in Afghanistan, contro la quale non hanno potuto nulla i più potenti eserciti del mondo, quello americano e quello sovietico, usciti sconfitti dall'estenuante confronto. Figuriamoci cosa possono fare forze dell'ordine eroiche ma sottodimensionate, male attrezzate e poco pagate, spesso imbrigliate da regole di ingaggio e leggi che sembrano fatte per favorire il nemico.L'unico spiraglio di salvezza ora sta in quella parola «guerra» pronunciata ieri sia dal presidente Hollande che da Papa Francesco, entrambi in ritardo rispetto ai profetici scritti di Oriana Fallaci, fatta passare anche per questo per una pazza visionaria. Se è vero che c'è una guerra in corso bisogna essere conseguenti, sia sul piano delle relazioni internazionali (per esempio la Russia di Putin sarebbe un alleato decisivo e non un nemico da punire con sanzioni) che sul fronte interno, europeo e nazionale. Dalla libera circolazione tra stati alle politiche sull'accoglienza, tutto va rivisto in chiave emergenziale, sospendendo se è il caso anche alcune libertà o principi democratici come accadde in America all'indomani degli attacchi alle Torri Gemelle. In guerra, il nemico - dichiarato o potenziale - lo si tiene fuori dai confini, non lo si fa circolare liberamente per casa, non lo si aiuta a mettere radici. Se qualcuno trova tutto questo esagerato lo invito ad ascoltare e riascoltare gli audio - disponibili su internet - del fragore delle bombe che esplodono allo stadio di Parigi, le urla dei ragazzi trucidati nel teatro. Domani - che Dio non voglia - potrebbero essere le voci dei nostri figli e nipoti. Per questo noi non ci arrendiamo all'Islam assassino né ai suoi sciagurati complici occidentali, che negando l'evidenza ci mettono tutti a rischio. Siamo in guerra e combattiamo con l'arma che abbiamo in dotazione: la libertà di dire ciò che pensiamo.

Quegli "islamici moderati" che giustificano i terroristi. Nelle comunità delle nostre città dominano distinguo, condanne tiepide e c'è chi dà persino la colpa agli "infedeli". Una zona grigia di omertà e di complicità, scrive Fabrizio De Feo Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. Uscire dalla zona grigia, esprimere la propria dissociazione in maniera decisa, senza «se» e senza «ma», dimostrare di non condividere nulla della jihad, mostrare un volto diverso dell'Islam.

È questa la richiesta-appello che - ogni qualvolta il terrorismo di matrice islamica torna a colpire il mondo occidentale - viene indirizzata verso le comunità musulmane presenti in Europa. Le risposte non sempre sono convincenti, soprattutto quando si va a indagare negli umori popolari. L'ultimo servizio che ha provato a sondare le opinioni della comunità islamica presente in Italia è stato quello messo in onda da Porta a Porta due sere fa. Francesca Ronchin è andata per le strade di Tor Pignattara, quartiere romano con la maggiore concentrazione di stranieri e di persone di religione islamica, per chiedere cosa pensassero del feroce attacco subito da Parigi. Il risultato? Deludente, anche a detta di Bruno Vespa che al ritorno in studio ha rinviato la palla al presidente di Ucoii, Izzedin Elzir, schierato su una posizione di ferma condanna della strage avvenuta nella capitale transalpina. I commenti raccolti dalla giornalista si attestano su un crinale scivoloso e incerto. Di certo, come sottolinea Elzir - che è anche l'Imam di Firenze - in parte contribuisce il fattore della lingua, la scarsa conoscenza dell'italiano che non favorisce l'articolazione compiuta di alcune opinioni. Per questo Elzir invita tutti gli islamici presenti in Italia a imparare bene la nostra lingua e chiede di non dare giudizi sommari sull'insieme della comunità. In altri casi, però, dominano i distinguo, le condanne tiepide o l'omertà, con molti «se» e molti «ma». «Non so se avete sentito di questo attentato a Parigi che ha provocato più di 120 vittime?» chiede la giornalista di Porta a Porta. «No, dove?», la prima risposta. «A Parigi». «Dov'è Parigi?». Il secondo intervistato si attesta sulla stessa linea. «Non ho sentito nulla». Più articolato il pensiero del successivo che mette sullo stesso piano l'America e l'Isis. «Se vogliono risolvere il problema devono sapere chi finanzia e chi dà armi. La colpa è dell'America che compra il petrolio dall'Isis. L'Isis e l'America hanno la stessa radice». Un altro intervistato ammette, dissociandosi da loro, che «tante persone sono contente di quello che è successo in Francia». Un altro assume una posizione più netta: «Io sono un vero musulmano e un vero musulmano non uccide i bambini». Un altro ammette che «è difficile da islamico vivere in un Paese democratico», tra «gli infedeli». E c'è anche chi condanna, ma risponde «sì» alla domanda se si possa a volte uccidere in nome della religione.Un servizio dai contenuti simili, firmato da Alessio Fusco, va in onda anche durante Quinta Colonna di Paolo Del Debbio. Interviste citate anche da Massimo Giletti che nella puntata di ieri de L'Arena si è schierato in maniera forte contro ogni ambiguità. «Ho ascoltato quanto detto da cittadini di religione islamica sia da Vespa che da Del Debbio» spiega a il Giornale. «Di fronte a una strage di quella portata, al dolore di centinaia di persone innocenti non ho visto l'atteggiamento che mi sarei aspettato, non ho letto sulle labbra di chi ha parlato la solidarietà che sarebbe stata opportuna. Avrei voluto sentir dire di fronte a questa tragedia immane che è una vergogna che i terroristi usino l'Islam come copertura di una follia. Io sono stanco delle marce, delle candele, degli slogan. Sono stato in Irak due mesi fa e ho raccolto le testimonianze tragiche di chi vive sotto l'Isis, è un'esperienza che mi ha cambiato. I raid aerei occidentali finora sono stati limitatissimi. Oggi le parole non contano più. Siamo in una situazione di guerra ed è necessario procedere a una vera opera di prevenzione a tutti i livelli, mettendo da parte anche la nostra privacy. Oggi è giusto anche sospendere alcune libertà o principi democratici come accadde negli Stati Uniti dopo l'11 Settembre. Dobbiamo farlo, prima che sia troppo tardi».

Massimo D'Alema: "Dobbiamo schiacciare l'Isis", scrive “Libero Quotidiano” il 15 novembre 2015. Massimo D'Alema non ha dubbi: "Bisogna schiacciare l'Isis". Lo dice ai microfoni del Tg3 ricordando anche l'aereo russo abbattuto qualche giorno fa.  er D’Alema la risposta deve quindi essere dura, perché "a minaccia non può essere contenuta. È in corso una guerra e quando c’è una guerra bisogna organizzarsi per vincerla". D'Alema indica anche la strada: "Credo che prima di tutto bisogna avere un'idea chiara di chi è il nostro nemico che va individuato con precisione e non in modo confuso". Spiega le differenze tra Al Qaeda e l'Isis e prosegue spiegando che "bisogna cercare la collaborazione con tutti quelli disposti a combattere questi nemici".  L'Isis si differenzia da al Qaeda per "l’ambizione territoriale, l’esistenza di alcuni nuclei di califfato che hanno peraltro una forza di attrazione e mobilitazione anche sui giovani europei. Una parte dell’Iraq, una parte della Siria, una piccola parte della Libia. Lì c’è l’Isis, lì bisogna schiacciarli, non con bombardamenti, ma eliminandoli da questi territori". Quando gli fanno notare che è la stessa posizione di Matteo Salvini lui ribadisce di pensarla nella sostanza come lui, che i problemi con l'Isis vanno risolti con la forza, ma spiega anche che "la discriminante è nell'uso della politica e dell'intelligenza". E ancora: "Quando si fanno le guerre, ci si mette attorno a un tavolo, si elabora una strategia lo scenario non è quello dell’occidente che combatte l’Isis, ed è quindi fondamentale che ci siano i musulmani, per non cadere nella trappola della guerra di religione". 

Se l'intellettuale di sinistra ha belle idee di destra. Dopo anni di accuse e invettive, le tesi della Fallaci e le battaglie sull'Islam della Le Pen o di Salvini vengono riprese da chi le condannava. Ovviamente cambiando le parole e facendo finta di niente, scrive Luigi Mascheroni - Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. È già da tempo che, lentamente, a volte con imbarazzo altre con improvvisi salti della barricata, pezzi più o meno piccoli della sinistra benpensante cominciano a rivedere le proprie convinzioni in tema di Islam, scontro di civiltà, integrazione. E, pur senza prendere tessere politiche o ideologiche nel campo avversario, finiscono per scivolare su posizioni che qualcuno per comodità tende a definire reazionarie e altri per semplificare «di destra». È il progressismo che vira verso la conservazione. L'utopia rivoluzionaria che si piega al pragmatismo del buon senso. E così l'intellighenzia si scopre a confessare a denti stretti che forse, però, in fondo (certo condannando sempre con fermezza la xenofobia e il razzismo!) tutto sommato quelle teste calde che in tempi non sospetti mettevano in guardia dai rischi del fondamentalismo religioso e preannunciavano che il confronto fra Occidente liberale e il fanatismo islamico si sarebbe trasformato in guerra, ecco a ben guardare non avevano poi tutti i torti. Succede da tempo e tanto più succede ora, dopo i sanguinosi fatti si Parigi. Accade in Francia, che ha già pagato sulla sua pelle l'illusione di un convivenza pacifica e di una reciprocità dei diritti tra l'Europa laico-capitalista e l'Islam radicale. E accade in Italia, che non è ancora stata colpita in casa ma sente la minaccia sul collo. Da noi capita sempre più spesso di ascoltare politici e intellettuali di solidissima fede democratica dire (attenzione, ecco il trucco, con parole diverse) le medesime cose che da anni in maniera magari meno elegante e più di pancia ripete la Lega o una certa destra. Era un po' curioso e un po' comico, sabato sera, a 24 ore dalla strage di Parigi, ascoltare a Otto e mezzo Massimo Cacciari e Gianni Letta sostenere - salvo irriderlo per le sue semplificazioni e grossolanità - ciò che Matteo Salvini ripete da anni, a partire dalla necessità di un intervento militare internazionale contro l'Isis fino all'ammissione che sui barconi di profughi diretti in Europa dall'Africa e dal Vicino Oriente ci siano anche potenziali terroristi. Così come capita di trovare persino su un sito come l'Huffington Post Italia articoli (vedi quello di sabato di Giuseppe Fantasia e relativi commenti di decine e decine di lettori) che celebrano «la Cassandra dell'Informazione» Oriana Fallaci, riscoperta come «profetessa» da una parte di quella sinistra che per un quindicennio l'ha derisa e ghettizzata. Ieri, sul Corriere della sera, Pierluigi Battista, dopo aver letto forse l'Huffigton forse altri siti, ha scritto un pezzo intitolato «Scusaci Oriana, avevi ragione», Il risarcimento postumo è online. E se la vecchia pazza - si chiedono molti democratici cittadini in Rete - non fosse così pazza? Battista, peraltro, è uno che non deve scusarsi di nulla, avendo più volte, anche a costo di pesanti attacchi, difeso e citato i libri della scrittrice toscana. Più sorprendente, forse, poche pagine dopo sullo stesso quotidiano, l'articolo La lezione da apprendere del teatro Bataclan firmato da Paolo Mieli, il quale, in maniera molto lucida ma un po' in ritardo rispetto a centinaia di pezzi scritti da esempio sul Giornale da anni, scoperchia l'ipocrisia di tanti #JeSuisCharlie dalla memoria corta e denuncia i danni micidiali che causa il «politicamente corretto» applicato all'islam radicale. Benvenuto nel club di chi crede che il buonismo è solo una forma perversa della cattiveria.Tutto ciò capita, finalmente, anche in Italia. E capita da tempo, ben prima del massacro di due giorni fa, in Francia. Dove a suo tempo editori come Gallimard e Grasset si rifiutarono di pubblicare La Rage et l'Orgueil della Fallaci, considerata fascista, razzista e xenofoba. E dove oggi, mentre il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq si rivela profetico tanto quanto i pamphlet della Fallaci - sono sempre di più i Maître à penser della gauche sedotti dalla destra radicale. Come il filosofo Michel Onfray, alfiere della sinistra laica, o come l'economista di estrema sinistra Jacques Sapir, o l'ex sessantottino Alain Finkielkraut che invoca l'identità nazionale davanti all'invadenza del velo islamico... Certo, non danno i loro voti al Front National, ma spesso danno ragione a Marine Le Pen. Quando parla di Europa, di Islam e di immigrazione.

Asilo e sussidi ai terroristi. Il lungo suicidio dell'Europa. L'Italia è stata il primo Paese a considerare "rifugiato" un capo di Al Qaida. E da vent'anni il buonismo permette ai jihadisti di scorrazzare indisturbati, scrive Fausto Biloslavo Lunedì 16/11/2015 su "Il Giornale”. Da una parte ci tagliano la gola o predicano la guerra santa. Dall'altra sfruttano il buonismo europeo incassando sussidi di stato e ottenendo l'asilo politico. Decine di terroristi o cattivi maestri, in Italia e negli altri paesi europei, hanno fatto finta di essere agnellini perseguitati. Almeno uno dei kamikaze di Parigi aveva il passaporto di un rifugiato sbarcato in Grecia pochi mesi fa e passato per la Serbia dove ha chiesto asilo politico. Abdul Rahman Nauroz è un islamista già in carcere per altri reati spuntato nell'inchiesta che questa settimana ha scoperchiato la rete jihadista europea guidata daL mullah Krekar. Nauroz viveva a Merano dove aveva ottenuto l'asilo politico e gli erano stati garantiti un appartamento ed il sussidio versato dalla provincia di Bolzano. L'appartamento di Merano era pagato dai servizi sociali. Lo stesso capo rete, mullah Krekar, era arrivato in Norvegia nel 1991 dal nord dell'Iraq ottenendo lo status di rifugiato e la cittadinanza per moglie e figli. Solo 11 anni dopo gli è stato revocato l'asilo per il suo coinvolgimento nella guerra santa.L'Italia si fece fregare da un pezzo grosso della costellazione jihadista, Es Sayed Abdelkader, referente di Al Qaida nel nostro paese a fine anni Novanta. A Roma era arrivato il 24 maggio '98 dove ottenne lo status di rifugiato «rendendo alle autorità italiane dichiarazioni mendaci o incomplete sulla sua situazione di perseguitato politico», secondo un rapporto della Digos di Milano. Non sapendo di essere intercettato Abdelkader raccontava ridendo ad un compagno di lotta di aver trasformato «un semplice incidente stradale», nel quale sarebbe morta sua figlia, in un attentato dei servizi segreti egiziani. In seguito partito per l'Afghanistan sarebbe morto sotto i bombardamenti Usa dopo l'11 settembre.Un'altra figuraccia buonista l'abbiamo fatto con i terroristi tunisini Sami Ben Khemais Essid e Mehdi Kammoun. I due erano finiti in una famosa inchiesta sul terrorismo dell'allora pm Stefano Dambruoso. Fra il 2008 e 2009 sono stati entrambi espulsi verso la Tunisia. Il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia perché li abbiamo spediti a casa loro dove vige la pena di morte. Diverse organizzazioni come Amnesty International hanno duramente protestato con il governo italiano denunciando il rischio che gli espulsi jihadisti venissero torturati. In realtà lo scoppio della primavera araba a Tunisi li ha rimessi in libertà. E dal 2012 hanno continuato a cavalcare la guerra santa. I due terroristi sono stati immortalati in una famosa foto con alle spalle la bandiera nera dello Stato islamico assieme ad Abu Iyad, fondatore di Ansar al Sharia, l'organizzazione integralista messa fuori legge in Tunisia. L'Inghilterra aiuta tutti a cominciare dalle sue serpi in seno. Abu Anas Al Liby, il terrorista catturato dagli americani a Tripoli lo scorso anno, poi morto in carcere, aveva ottenuto asilo politico a Londra nel 1995. Peccato che dopo fece i sopralluoghi fotografici per far saltare in aria le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania tre anni più tardi. Abu Hamza, il predicatore radicale con l'uncino, perché aveva perso un braccio ed un occhio combattendo in Afghanistan, otteneva il sussidio per le menomazioni di guerra dal governo inglese. Abu Qatada, ispiratore di terroristi kamikaze, ha vissuto con i sussidi di povertà fino al 2001 quando gli hanno scoperto un conto di oltre 262mila euro utilizzato per finanziare se stesso e la guerra santa internazionale. Nel 2005, dopo il secondo attacco alla metropolitana di Londra, Hamdi Adus Issac, uno dei terroristi falliti, è stato arrestato a Roma. Dalle casse britanniche fra assegni di disoccupazione, appartamenti gratis, benefit per la moglie ed i figli riceveva oltre 32mila euro l'anno. Gli altri 4 componenti della cellula africana ottenevano in sussidi un totale superiore ad 84mila euro l'anno.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano del 16 novembre 2015, dopo la strage di Parigi la loro ferocia, la nostro viltà. Confesso che la strage di Parigi non mi ha affatto sorpreso. Sono uno dei tanti che guardano con realismo al conflitto tra l'Occidente e quello che chiamiamo lo Stato islamico. Una entità statuale con molti protagonisti, a cominciare dall' Isis, il Califfato nero. Non abbiamo di fronte soltanto un terrorismo di tipo nuovo, connotato da una ferocia che in altre epoche non si è rivelata in tutta la sua geometrica potenza. Siamo alle prese con una guerra che non abbiamo mai dichiarato, ma che i combattenti abituati ad andare all' assalto urlando «Allah è grande!», stanno da tempo conducendo contro di noi. Esiste una verità che è da suicidi fingere di non vedere. Gli islamici sono in vantaggio perché possiedono un'arma che noi non abbiamo: la ferocia, anche contro se stessi, come confermano i tanti kamikaze. Noi siamo sconfitti, almeno per ora. Poiché il nostro connotato è la viltà, con tutto quello che segue: le divisioni, le incertezze, le beghe fra stati, l'egoismo, la pavidità. L'arma numero uno del nuovo terrorismo è il fattore umano. E la sua determinazione di distruggerci, anche a prezzo di rimetterci la vita. L' ho compreso sino in fondo leggendo sulla Stampa del 12 novembre un lungo colloquio fra un jihadista quasi professionale e un giornalista che stimo molto. È Domenico Quirico, 64 anni, astigiano, un reporter, ma forse è meglio definirlo un inviato speciale di grande coraggio e forte esperienza. Tanti giovani colleghi forse lo riterranno un vecchio signore, senza rendersi conto che è un loro maestro. Abituato a inoltrarsi in territori che i media odierni osservano soltanto da lontano. Quirico l'ha fatto di continuo. È già stato sequestrato due volte: nel 2011 mentre tentava di arrivare a Tripoli e nel 2013 in Siria. In entrambi i casi, l'ha scampata, la seconda volta dopo una brutta detenzione durata cinque mesi. Perché quel suo articolo mi ha colpito? Perché ci mette di fronte a un problema dal quale possono dipendere le nostre vite. Lui scrive: «Ci sono professionisti della guerra santa che con la violenza stanno scardinando il mondo e che noi non conosciamo. Riempiono i giornali, le televisioni e la Rete, e non li conosciamo. Ci prepariamo a combatterli, forse, e non li conosciamo». Il jihadista che Quirico ha interrogato è un tunisino quarantenne, Abu Rahman che si è arruolato con Al Quaeda, prima in Iraq e adesso in Siria. Ha famiglia, un mestiere, il commerciante, ma il suo scopo esistenziale è combattere gli infedeli: «Uccido in nome di Dio, per dovere e non per scelta. Così aiuto i fratelli musulmani». Abu chiede a Quirico: «Vuoi sapere che cosa provo a uccidere? E se ricordo chi è il primo che ho ammazzato? È stato in Iraq, al tempo degli americani. Ho detto: grazie, Dio. Ti ringrazio perché hai guidato la mia mano». «Dopo quattro mesi trascorsi in Siria, sono passato con Al Nusra, gli uomini di Al Quaeda. Quelli sono i veri combattenti. I loro emiri sono grandi uomini. Guerrieri puri, i migliori, i più dotti nell' islam. La Siria è piena di gruppi di banditi, gente che dice di essere musulmana, ma in realtà cerca denaro e traffici. Non ci sono pensieri impuri in quelli di Al Nusra. Hanno molta forza, altrimenti non saprebbero reggere alle difficoltà della guerra santa». «La jihad è dura! Non c' era nulla da mangiare, spesso per giorni. Eravamo assediati, abbiamo mangiato l'erba come le bestie e i frutti verdi degli alberi. Uno di noi era un contadino e ha impiantato un piccolo orto. Per bere raccoglievamo l'acqua piovana. Faceva freddo su quelle montagne, le montagne dei curdi dannati, c' era un freddo da morire e noi non avevamo vesti pesanti. In tutto il villaggio esisteva un solo televisore. E quando non cadevano le bombe, noi si andava a vedere Al Jazeera». «Tu mi chiedi della jihad. Per me è un dovere. Non c' è scelta. La terra musulmana è in mano ai senza Dio, agli sciiti infami. Dobbiamo riprendercela. Per questo la guerra santa viene prima dei figli, del mangiare, della casa, del paese. Devi combattere gli sciiti con la parola, i soldi, le armi, le leggi. Morire, vivere… Parole! Ci sono mujaheddin che combattono da trent' anni e sono ancora vivi, altri che sono morti dopo un'ora. A decidere è Dio. Quello che voi occidentali non potete capire. Avete perso la voglia di combattere per la fede. La religione per voi funziona come per me il commercio». «Voi occidentali siete più forti per il denaro, i mezzi, le armi che possedete. Ma proprio per questo avete paura di morire. E volete vivere a tutti i costi. Noi no. Vedi la saggezza di Dio? Attraverso la debolezza, lui ci rende più forti di voi». «Sai perché sono venuto via dalla Siria e non sono rimasto lì a morire, come è successo al mio amico Adel Ben Mabrouk, una delle guardie del corpo di Bin Laden, sopravissuto a otto anni di carcere duro a Guatanamo? Perché è arrivato Isis, il Califfato nero. I loro capi non sono veri musulmani come siamo noi. Sono ex funzionari dei servizi segreti di Saddam Hussein o ex ufficiali dell'esercito iracheno. Non vogliono concorrenti. Ma se decidi di lasciarli, ti uccidono. I loro emiri non sanno nulla del Corano, sono ignoranti. Anche i combattenti dell'Isis sono giovani ignoranti, affascinati dalla loro propaganda». «Ecco perché sono venuto via dalla Siria. Non posso stare in un posto, e morire, dove i sunniti, la gente di Dio, combattono non contro gli sciiti e gli americani, ma tra di loro. Non so se tornerò, forse andrò da un'altra parte. Voglio combattere per far nascere un governo islamico in Siria. E dopo andremo a liberare la Palestina dai giudei. I russi ci bombardano? Che importa. Noi combattiamo per una fede, loro no. Per questo perderanno». Così parlava a Quirico Abu Rahman, guerrigliero o terrorista islamico. E noi occidentali, noi italiani siamo disposti a batterci? E per che cosa? Se penso all' Italia del 2015 mi sento tremare. Vedo nel mio paese un governo che non sa domare neppure i califfi di casa nostra. Guidato da un ceto politico che vuole soltanto accrescere il potere del proprio cerchio magico. Vedo il dilagare del menefreghismo, della corruzione, dell'evasione fiscale, dell'assenteismo. Vedo maestroni incapaci di trasmettere ai giovani un po' di moralità, di abnegazione, di rinunce. Vedo un territorio sfasciato, scuole che vanno in pezzi, città senza acqua potabile. Vedo finti statisti e aspiranti dittatori. Vedo montagne di promesse a vuoto. Vedo molta boria, e ras arroganti che spingono sulla scena battaglioni di cortigiani. Vedo penalizzare la competenza e mettere da parte l'esperienza onesta. Gli altri, quelli di Allah è grande, sono feroci. Hanno scatenato la guerra a Parigi. E prima o poi tenteranno di portare il terrore anche in Italia. Del resto, il Califfato nero l'ha già annunciato. Il loro obiettivo è di arrivare a Roma. Il Vaticano è un piatto prelibato che vogliono mangiarsi. Il vicino Giubileo della misericordia è una grande torta che attirerà nugoli di uccelli feroci. Il Vaticano di papa Bergoglio si affanna a inseguire chi ha ispirato due libri che ritiene degni di essere messi all' indice. Ma ben altro è il pericolo che minaccia San Pietro. Il vero rischio è di cadere nell'orrore scatenato a Parigi la sera di un tranquillo venerdì di novembre. Giampaolo Pansa

Magdi Allam su “Il Giornale” del 15 novembre 2015: L’invasione è già iniziata: la civiltà europea va difesa. Per fronteggiare il terrorismo islamico è necessario chiudere le moschee illegali, bloccare ai confini i clandestini e abrogare lo ius soli. Poi potenziare e addestrare le forze dell’ordine. Siamo in guerra. Parigi è stata trasformata in un campo di battaglia. Dopo toccherà a Roma. È una guerra scatenata dal terrorismo islamico, ormai autoctono ed endogeno. Una guerra intestina, europei musulmani contro europei miscredenti, che si consuma in Europa. Una guerra che registra il fallimento dello Stato, dei suoi servizi segreti e della magistratura, che non hanno saputo elaborare una strategia politica, prevenire e reprimere il terrorismo islamico. Una guerra dove in realtà il principale nemico da combattere siamo noi stessi, la nostra ingenuità, la nostra ignoranza, la nostra paura, il condizionamento degli interessi materiali, la collusione ideologica di una maggioranza che concepisce l’islam come una religione di pace e immagina i terroristi islamici come una scheggia impazzita che tradirebbe il «vero islam». Inevitabilmente il trauma prodotto da terroristi islamici che si fanno esplodere, che massacrano e che giustiziano uno ad uno i nemici dell’islam, ci costringe a prendere atto che siamo in guerra. Ma non abbiamo la lucidità intellettuale e il coraggio umano di affermare che i terroristi che perpetrano degli efferati crimini invocando «Allah è il più grande», sono i musulmani che più di altri dicono e fanno alla lettera e nella sua integralità quanto Allah ha prescritto nel Corano, quanto ha detto e ha fatto Maometto. Un attimo dopo aver toccato con mano le atrocità dei terroristi islamici archiviamo il fatto nei meandri impenetrabili della ragione.

Perché abbiamo paura di guardare in faccia la realtà. Quanti continueranno a occuparsi delle stragi di Parigi tra una settimana o dieci giorni? La verità è che temiamo di prendere atto che la radice del male è l’islam, ritenendo che dovremmo scontrarci con tutti i musulmani, moderati, integralisti e terroristi che, con modalità diverse, difendono la bontà dell’islam. Ebbene non si tratta di fare la guerra a un miliardo e mezzo di musulmani, ma di salvaguardare il nostro legittimo dovere, prima ancora che diritto, di difendere la nostra civiltà per essere pienamente noi stessi dentro casa nostra. Cosa dovremmo fare concretamente? Se fossi il ministro dell’Interno, nell’ambito della proclamazione dello stato d’emergenza indispensabile per fronteggiare la guerra del terrorismo islamico, attuerei immediatamente i seguenti provvedimenti:

1) chiudere le moschee illegali, a partire da quelle che sono registrate come centri culturali, le moschee e i siti jihadisti collusi con il terrorismo, che legittimano nel nome di Allah l’odio, la violenza e la morte nei confronti di ebrei, cristiani, atei, apostati, adulteri e omosessuali.

2) Bloccare le frontiere all’ingresso dei clandestini, che sono in stragrande maggioranza giovani musulmani che arrivano dalle coste libiche, filtrati dal terrorismo islamico, ponendo fine all’attività della criminalità organizzata straniera e italiana che lucra con il traffico e l’accoglienza dei clandestini. L’Italia non può continuare a essere l’unico Stato al mondo che legittima la clandestinità e che investe le proprie risorse per l’auto invasione di clandestini.

3) L’adeguamento delle Forze dell’ordine assumendo 40mila giovani che riequilibrino l’organico e consentano di abbassare l’età media che è di 45 anni; avviare un corso di formazione anti terrorismo per almeno 12mila agenti; l’ammodernamento delle armi e dei mezzi; l’aumento sostanziale delle retribuzioni che sono mediamente di 1.350 euro; la tutela giuridica che favorisca le forze dell’ordine nell’esercizio del loro dovere di garantire la sicurezza dei cittadini e la difesa delle istituzioni.

4) Abrogare lo ius soli e limitare la concessione della cittadinanza agli stranieri che abbiano dimostrato con i fatti di rispettare le leggi, di condividere i valori della sacralità della vita di tutti, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta compresa la libertà del musulmano di abiurare l’islam senza essere automaticamente condannato a morte per apostasia e, soprattutto, di operare concretamente per costruire un’Italia migliore.

Chiedo al ministro dell’Interno Alfano di smetterla di dirci che non ci sono riscontri dell’imminenza di attentati. Con questo terrorismo islamico microcellulare, dove 8 terroristi sono stati in grado di mettere a soqquadro la capitale di un importante Stato europeo, non ci saranno mai riscontri che consentano di prevenire gli attentati. Alfano deve ugualmente smetterla di fare proclami altisonanti per l’espulsione di singoli imam violenti. Sono la punta dell’iceberg, è una mera operazione mediatica. Solo scardinando l’iceberg, la filiera che attraverso il lavaggio di cervello trasforma le persone in robot della morte, potremo vincere la guerra del terrorismo islamico. È questa la specificità e la vera arma del terrorismo islamico. Oggi tutte le nostre istituzioni sono inadeguate a fronteggiare la guerra del terrorismo islamico. Dobbiamo cambiare. Fortificarci dentro. Subito. Quando conteremo i nostri morti sarà troppo tardi. Siamo in guerra. O combattiamo per vincere o saremo sconfitti e sottomessi all’islam.

FRANCIA: ALMENO SMETTIAMOLA CON LE CHIACCHIERE. Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali, scrive Fulvio Scaglione il 15 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava. Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente. Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’Europa. Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità. Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni. Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia. Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia. Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza. Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più.

Rondolino, rissa con Emergency: "Boicottiamola" e sul web si scatena la tempesta di insulti, scrive “Libero Quotidiano” il 15 novembre 2015. È scoppiata una rissa di tweet tra Fabrizio Rondolino, oggi collaboratore de l'Unità, e i sostenitori di Emergency. A onor del vero a cominciare è stato il giornalista del giornale Dem che su Twitter ha scritto: "Emergency è un'organizzazione politica antioccidentale mascherata da ospedale ambulante. Va isolata e boicottata". I sostenitori dell'associazione di Gino Strada ha voluto dimostrare a Rondolino tutta la propria stima per le opinioni diverse dalle proprie, così lo hanno devastato di insulti e minacce. Fino all'ultima, quella di farlo cacciare con una petizione dell'Unità. Tanto che lo stesso Rondolino ha scritto, con un tag a Cecilia Strada: "Per aver twittato l'ovvio (Emergency fa politica contro l'Occidente) da ieri i piccoli talebani di Cecilia Strada urlano di cacciarmi dall'Unità". La Strada è stata più volte tirata in ballo anche dai suoi stessi followers, ma è stata lei a snobbare la vicenda: "Ho cose più serie da fare".

Emergency fa cassa con i morti: chiede le eredità dei sostenitori. E nel bilancio Gino Strada può sorridere, scrive “Libero Quotidiano” il 3 marzo 2015. A Emergency fanno cassa anche sui morti. La nuova iniziativa dell'organizzazione sanitaria non governativa fondata nel 1994 da Gino Strada e operante in zone di guerra tra Africa e Medio Oriente, è una vera e propria campagna testamenti che punta su uno slogan ad effetto: "Guarda al futuro anche dopo di te". Come sottolinea il Giornale, la strategia (condivisa anche da altre aziende) è chiaro: invitare i sostenitori e i simpatizzanti a devolvere i loro lasciti ed eredità ad Emergency affinché "i tuoi valori possono continuare a vivere nel lavoro dei nostri medici e dei nostri infermieri". Iniziativa peraltro non nuova, visto che già nel 2013 Strada aveva lanciato il medesimo appello riscuotendo un grande successo. Tutti i numeri dell'azienda Strada - Nel 2013, anno dell'ultimo bilancio disponibile, Emergency ha incassato 31,2 milioni di euro, (2,4 in più rispetto al 2012), con risultato di esercizio di 3,4 milioni. Si è trattato della "raccolta fondi più alta di sempre", hanno fatto sapere da Emergency. Un incremento legato "principalmente alle maggiori entrate ricevute nell'anno dai contributi del 5 x 1000 (11 milioni, in aumento rispetto ai 10,7 del 2012, ndr), dai fondi istituzionali (governativi e non) e dai lasciti testamentari". Ecco, appunto, oltre alle donazioni e iniziative private (che hanno fruttato 10,2 milioni rispetto ai 9,9 del 2012) ci sono i lasciti, che hanno fatto guadagnare a Strada e compagni 1,9 milioni di euro (il 30,5% in più rispetto agli 1,4 del 2012). Parallelamente, i testamenti sono cresciuti come incidenza sugli incassi, rappresentandone nel 2013 il 6,03% contro il 5% del 2012.

Cecilia Strada: "Pago le tasse, perchè dovrei ospitare a casa un immigrato?" Scrive “Libero Quotidiano” il 14 giugno 2015. In questi giorni di emergenza immigrati, in molti sui social network devono averle chiesto, magari in modo provocatorio, come mai lei non ospitava un profugo a casa sua. Per via del padre Gino, che di aiuto ai profughi ha fatto una missione nella vita e una professione. Figura "ingombrante", un padre così. E forse per questo oggi Cecilia Strada, la figlia del fondatore di Emergency, ha voluto replicare: "Risposta collettiva per tutti quelli che 'perché non ospiti i profughi a casa tua, eh?' ha esordito la figlia di Gino Strada sul suo profilo Facebook. "E perché dovrei? Vivo in una società e pago le tasse. Pago le tasse così non devo allestire una sala operatoria in cucina quando mia madre sta male. Pago le tasse e non devo costruire una scuola in ripostiglio per dare un'istruzione ai miei figli". E continua: "Pago le tasse e non mi compro un'autobotte per spegnere gli incendi. E pago le tasse per aiutare chi ha bisogno. Ospitare un profugo in casa è gentilezza, carità. Creare - con le mie tasse - un sistema di accoglienza dignitoso è giustizia. Mi piace la gentilezza, ma preferisco la giustizia".

La Francia e la guerra: Nostradamus aveva predetto tutto. Ecco le sue parole. "La grande guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, lunga e terribile essa sarà per tutti… poi finalmente verrà la pace ma in pochi ne potranno godere". Così parlò Nostradamus nel suo libro, e l'eco sinistra di quelle parole si sovrappone alle immagini tremende degli eccidi di Parigi di venerdì scorso. Secondo un altro passo del volume Le Profezie, il libro più famoso astrologo francese, attivo nel 1500, ecco cosa succede: "Ci saranno tanti cavalli dei cosacchi (popolazioni nomade tartare che abitavano nelle steppe russe) che berranno nelle fontane di Roma". Non solo: "…Roma sparirà e il fuoco cadrà dal cielo e distruggerà tre città. Tutto si crederà perduto e non si vedranno che omicidi; non si sentirà che rumori di armi e bestemmie. I giusti soffriranno molto. (…) Roma perderà la fede e diventerà il seggio dell’Anticristo. I demoni dell’aria, con l’Anticristo, faranno dei grandi prodigi sulla terra e nell’aria e gli uomini si pervertiranno sempre di più…"

Dialogo con un mussulmano in Italia.

«Perché tu sei così radicale?

Perché non abiti in Arabia Saudita???

Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?

Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.

Emigrate per la libertà …

per la giustizia …

per il benessere …

per l’assistenza sanitaria ...

per la tutela sociale …

per l’uguaglianza davanti alla legge …

per le giuste opportunità di lavoro …

per il futuro dei vostri figli …

per la libertà di espressione ...

quindi non parlate con noi con odio e razzismo ...

Noi vi abbiamo dato quello che non avete …

Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».

Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.

Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.

Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!

Vittorio Sgarbi: "Come il Nazismo e noi siamo gli ebrei". Puntata molto accesa, quella del 15 novembre 2015, a Domenica Live. Barbara d'Urso dedica l'intera puntata al terrorismo dell'Isis e agli attacchi a Parigi. Sono ospiti, tra gli altri, Matteo Salvini, Magdi Allam e Vittorio Sgarbi. Quest'ultimo, dopo che la d'Urso dice "pace, pace, pace", attacca: "La religione islamica è intollerante, vuole che tutto il mondo sia convertito. L'Islam non ha in sè il male ma vuole solo Allah. Hanno lo stesso atteggiamento di Hitler con gli ebrei, e noi siamo gli ebrei". E ancora: "Da 40 anni Israele si difende con la forza. Oggi tutta l'Europa è come Israele che deve difendersi. Gesù non ha mai ucciso. Maometto ha ucciso, ha sterminato, io non sono un uomo di Maometto". La d'Urso non gradisce le frasi di Sgarbi e commenta: "Non sono musulmani quelli che hanno attaccato, lo capisci questo?". E dice: "Basta bombe, basta bombe, basta bombe".

Niente paura, leggete il Corano Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam Lunedì 02/03/2015 su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.

Magdi Allam alla libreria Postumia di Piacenza ha presentato nel tardo pomeriggio del 13 novembre 2015 il suo ultimo libro "Siamo in guerra. L'Islam non è una religione moderata". Solo poche ore dopo, alle 21.30, Parigi era sotto attacco dell'Isis. In tutto 128 i morti e centinaia i feriti, scrive Renato Passerini il 14 Novembre 2015 su “Il Piacenza”. Magdi Allam alla libreria Postumia di Piacenza ha presentato nel tardo pomeriggio del 13 novembre il suo ultimo libro "Siamo in guerra. L'Islam non è una religione moderata". Solo poche ore dopo, alle 21.30 Parigi era sotto attacco dell'Isis. In tutto 128 i morti e centinaia i feriti. L'ultima fatica dello giornalista scrittore inviso ai musulmani per ciò che da anni sostiene, edito da Il Giornale e distribuito da Mdf, è stato presentato in città dopo una breve introduzione di Maurizio Dossena. Allam in questo saggio sociopolitico non concede nulla al buonismo di maniera e alla voglia di rassicurazione. La sua analisi sull’attacco dell’Islamismo alla nostra civiltà si sviluppa su 290 pagine con titoli rivelatori quali “La terza guerra mondiale, ’Islam è fisiologicamente violento, Il suicidio dell’Occidente che odia se stesso, L’Islamizzazione demografica, La resa della chiesa all’Islam”. Nel suo percorso di critica radicale indica l’Islam quale responsabile di avere scatenato la Terza guerra mondiale e instaurato un clima di terrore e sottomissione. È fondamentale riconoscere che c’è un solo Islam e che legittima l’odio, la violenza e la morte contro i “miscredenti”, ovvero tutti i non musulmani. Anche  i sedicenti musulmani “moderati” perseguono l’obiettivo di sottometterci costruendo delle roccaforti Islamiche dentro casa nostra - ha insistito richiamando anche i recenti fatti di Merano crocevia di aspiranti jihadisti - attraverso il riconoscimento dell’Islam come religione di pari valore del Cristianesimo, la diffusione delle moschee, il condizionamento della finanza Islamica, l’Islamizzazione demografica, l’invasione di clandestini musulmani, la codificazione del reato di Islamofobia. L’Italia non ha una presenza Islamica di entità pari a quella che c’è in Francia o in Gran Bretagna, ma è egualmente a rischio. Rimane, nel nostro, come in altri Paesi europei, un problema fondamentale di compatibilità tra culture finché i musulmani non cominceranno a fare riferimento, non solo al Corano, ma anche al valore della laicità dello Stato che è a fondamento della nostra società. L’Occidente ha follemente scatenato le guerre in Iraq, Libia e Siria, per rimuovere dei regimi laici e sostituirli con delle dittature Islamiche, ora vede l’Europa invasa da centinaia di migliaia di clandestini, in gran parte musulmani. Gli abitanti dei 29 Paesi membri dell'Unione Europea sono circa 500 milioni e solo il 16 per cento, pari a 80 milioni di abitanti, hanno meno di 30 anni.  Viceversa su circa 500 milioni di abitanti della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo (sommando le popolazioni dei 22 Stati arabofoni più quelle della Turchia e dell'Iran) ben il 70 per cento ha meno di 30 anni, pari a 350 milioni di abitanti. Quando si mettono su un piatto della bilancia 80 milioni di giovani europei, cristiani in crisi d'identità con una consistente minoranza musulmana, e sull'altro 350 milioni di giovani mediorientali, al 99 per cento musulmani, convinti che l'Islam è l'unica «vera religione» che deve affermarsi ovunque nel mondo, il risultato indubbio è che gli europei sono destinati ad essere sopraffatti demograficamente e colonizzati ideologicamente dagli Islamici. A un certo punto i musulmani non avranno più bisogno di farci la guerra o ricorrere al terrorismo. Potranno sottometterci all'Islam limitandosi ad osservare le regole formali della nostra democrazia, che premia il soggetto politico più organizzato e influente, in grado di condizionare e di accaparrare il consenso della maggioranza, astenendosi dall'entrare nel merito dei contenuti delle ideologie e delle religioni, soprattutto dell'Islam. L’Italia è l’unico stato al mondo che ha legittimato la clandestinità e con le missioni nel Mediterraneo ed è l’unico stato che promuove l’autoinvasione, dando privilegi agli immigrati e li neghiamo agli italiani. Se perdiamo in controllo del territorio, cessiamo di essere padroni in casa nostra.  La conclusione di Allam: dobbiamo scegliere se vogliamo combattere per difendere le nostre libertà, essere padroni in casa nostra, essere consapevoli che, o si combatte per vincere, o finiremo sottomessi all’Islam. Magdi Cristiano Allam è nato al Cairo nel 1952 ed è cittadino italiano dal 1986. Da musulmano, per 56 anni, ha creduto in un “Islam moderato”, fino a quando non è stato condannato a morte sia dai terroristi Islamici sia dai “musulmani moderati”. Nel 2008 si è convertito al cattolicesimo e nel 2013 si è dissociato dalla Chiesa per la sua legittimazione dell’Islam. È editorialista del Giornale e autore di libri di successo sul terrorismo Islamico. È stato il primo giornalista a subire un procedimento disciplinare per “Islamofobia” da parte dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e a vincerlo, facendo trionfare il principio che è lecito criticare l’Islam.

Dobbiamo chiamarlo Stato Islamico, Isis o Daesh? L’Occidente non ha deciso come combatterlo, ma neanche come nominarlo. Dall’appellativo che gli diamo, dipende anche il ruolo che gli riconosciamo, scrive Francesco Zaffarano su “La Stampa” il 16/11/2015. L’Occidente non ha ancora deciso come combatterlo, ma se è per questo non sa neanche come chiamarlo. Sulle pagine di questo giornale abbiamo sempre usato il termine Isis, ma questa fetta di radicalismo islamico non ha un solo nome. Scegliere come chiamarlo non è un aspetto superfluo: saper dare un nome alle cose è il primo passo per capirle. La disputa, in questo caso, è tra chi lo chiama Stato Islamico e chi preferisce il termine Daesh.  Nel primo gruppo c’era il Dipartimento di Stato americano, che dal 2014 ha deciso di usare Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome del gruppo; nel secondo, tra gli altri, c’è il presidente Francois Hollande, che ha usato il termine Daesh parlando dei responsabili degli attentati di Parigi. Barack Obama ha sempre utilizzato il primo nome: da qualche giorno, invece, il segretario di stato John Kerry ha iniziato ad usare il termine Daesh. 

STATO ISLAMICO. Quando parliamo di Stato Islamico (vale anche per le varianti Is, Isis, Isil) ci riferiamo a uno Stato a tutti gli effetti, come almeno pretende di essere quello guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il cosiddetto Isis, un tempo, era una sezione irachena di al-Qaida, diventata poi Stato Islamico in Iraq, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria e, infine, autoproclamatasi Stato Islamico. L’appiattimento del nome fino ad arrivare al semplice Stato Islamico è semplicemente un tentativo di rimuovere le particolarità geografiche, fornendo una sola entità Stato. Basti pensare che un altro modo per indicare lo Stato Islamico è al-Dawla, letteralmente «Lo Stato». Peccato che questo Stato non abbia dei veri e propri confini omogenei, né un territorio unito. Non a caso, i nomi precedenti all’autoproclamazione voluta da Abu Bakr al-Baghdadi nel 2014 comprendono specifiche aree geografiche, come Stato Islamico in Iraq e al-Sham (termine arabo che si può tradurre con Grande Siria) o come quel Isil in cui la “L” sta per Levante, cioè potenzialmente anche i territori di Israele, Palestina, Giordania e Libano. 

DAESH. Come Isis, anche Daesh è un acronimo: significa al-Dawla al-Islāmiyya fī ʿIrāq wa l-Shām, cioè “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, o “della Grande Siria”. Apparentemente il significato è lo stesso ma l’accezione attribuita a Daesh (oʿish, per essere precisi) è spesso dispregiativa, perché somiglia a un altro termine arabo che significa «portatore di discordia». Secondo il The Guardian , addirittura, la Francia avrebbe preferito il termine Daesh perché simile al francese dèche, cioè «rompere». Che il termine sia disprezzato dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi è confermato anche dalle testimonianze di chi racconta di punizioni corporali per chi utilizza pubblicamente il nome Daesh

MA QUINDI? Decidere tra Stato Islamico e Daesh significa dare forma a quella realtà. Praticamente tutte le testate giornalistiche optano per Isis, per una questione di semplicità e di uniformità. Ma a suggerire una risposta, dopo gli attentati del 13 novembre, è stato Enrico Letta, ex premier italiano e attuale direttore dell’Istituto di studi politici di Parigi. Letta: «Smettiamola di chiamarlo Stato Islamico, sono terroristi e come tali vanno trattati #Daesh».

Un nemico, tanti nomi. Era Isis, adesso è Daesh. Ecco perché Hollande e Obama preferiscono usare un'altra definizione per lo Stato islamico, scrive Andrea Cuomo Venerdì 20/11/2015 su “Il Giornale”. Non esistono più i nemici di una volta. Per dire: i nazisti o i comunisti. Un bel nome definito, da scolpire nel marmo dell'odio e del disprezzo, da pronunciare trattenendo il fiato. Ora invece chi ci uccide e ci minaccia, come si chiama? Is, Isis o Daesh? Sono la stessa cosa o sono cose diverse? Abbiamo o non il diritto di saperlo? La questione non è di lana caprina. Dare il nome alle cose è il primo passo per identificarle e conoscerle. E conoscerle serve quindi, magari, combatterle. Il fatto che i terroristi islamici cambino ragione sociale in continuazione come fossero una pizzeria di quartiere o una ditta ci spiazza e ci smarrisce, non ci dà punti di riferimento, rende tutto più oscuro, più minaccioso. Facciamo chiarezza. La nuova definizione con cui stiamo appena prendendo confidenza è Daesh. L'hanno usata il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian all'indomani dgli assalti di Parigi, lo stesso presidente francese François Hollande, il segretario di stato Usa John Kerry, perfino il presidente americano Barack Obama. Tutti si riferivano a quella entità che fino a ieri eravamo abituati a chiamare Isis. Anche Daesh è una sigla: riassume in una parola spendibile nei titoli (e con qualche aggiustamento nella traduzione e nella traslitterazione) la formula araba al Dawla al Islamiya fi al Iraq wa al Sham. Che vuol dire «Stato islamico dell'Irak e del Levante», locuzione quest'ultima che si ricollega al toponimo che veniva usato un tempo per indicare quella regione chiamata anche grande Siria e che comprende il Sud Est della Turchia, la Siria, la Giordania, la palestina, Israele e il Libano. Un retaggio coloniale che contiene peraltro un ulteriore sfregio per l'islam in arme. Non molto diverso da Isis, sigla questa volta inglese della locuzione «Stato islamico dell'Irak e della Siria». e allora perché Daesh? Per due ragioni: perché adottare una sigla di una frase in arabo rende meno «agibile» il concetto di Stato islamico, un po' come prendere le distanze da una definizione che, in quanto tale, può sembrare una legittimazione. E poi perché Daesh ha un suono che, per gli arabi, richiama il concetto di distruzione, calpestìo, sbattere contro qualcosa. Un po' come chiamare qualcosa «Crash». E si sa, dare un brutto nome a qualcosa è già quasi come condannarla alla «damnatio memoriae». Non è un caso che, come ha riferito l'Associated Press, a Mosul, città siriana controllata dall'Isis (o comunque vogliamo chiamare i simpatici seguaci del Califfo) alcuni miliziani avrebbero minacciato di tagliare la lingua a quanti usino la parola Daesh in riferimento allo Stato islamico. Adotteremo anche noi in Italia questo disprezzo onomastico? Ci proveremo, forse. Ma con un po' di rammarico. Si sa, noi siamo abitudinari. C'eravamo appena abituati all'Isis, e alcuni di noi già si sgomentano quando sui giornali leggiamo la sigla accorciata Is, quella in cui scompare ogni riferimento geografico. Sigla peraltro prediletta dai tagliagole, che vedono così esaltato l'aspetto istituzionale della loro esistenza.A complicare tutto esistono poi altre sigle. Ad esempio Isil, usata da molti giornati americani, che altro non è che la traduzione inglese di «Stato islamico dell'Irak e del Levante». Poi c'è Sid: Stato islamico del Califfato, scelto in alcune occasione dai jihadisti per definirsi. E poi ecco comparire Nins, una sigla acronimo di «Not Islamic not State» (traduzione: non-Stato-non-islamico»), scelta negazionista fatta da Ban Ki-moon, segretario generale dell'Onu, che per la verità non ha conosciuto alcuna fortuna. Anzi, ha finito per generare ulteriore confusione.

Lettera sull'Islam a Oriana Fallaci di Magdi Allam prima della sua conversione al cristianesimo. «La tesi secondo cui esisterebbe solo un islamismo integralista fa in realtà il gioco dei terroristi. I fermenti democratici in Medio Oriente dimostrano che quelli come me non sono minoranza».

Per la prima volta Magdi Allam racconta se stesso, musulmano laico nato e cresciuto nell'Egitto di Nasser ed emigrato in Italia nel 1972: "Partendo dal mio vissuto posso testimoniare che soltanto quarant'anni fa la situazione in Medio Oriente era radicalmente diversa. La società e le istituzioni erano laiche. La cultura dell'odio e della morte, che l'Occidente oggi associa ai musulmani, non è nel Dna dell'islam". Allam, in questo libro, ha deciso di togliersi tutti i "sassolini", denunciando apertamente sia gli integralisti che l'hanno condannato come "nemico dell'islam", sia i loro complici occidentali che alimentano uno scenario di scontro e di odio. Una testimonianza forte, sofferta, estrema. Di Magdi Allam. Il 31 maggio 2006 arriva in libreria “Vincere la paura” di Magdi Allam (Mondadori). Panorama ne anticipa un capitolo. "Cara Oriana, finora mi sono sempre astenuto, sotto l'impulso di un rispetto reverenziale che nutro nei confronti delle persone a cui ho voluto bene e che ho stimato, dal formulare dei giudizi netti sulle tue idee sull'Islam e sui musulmani che, piacciano o no, meritano la massima attenzione perché hanno plasmato il sentimento e forgiato il pensiero di milioni di italiani. Ma non avrei potuto esimermi dal farlo qui e ora, mentre mi accingo a scrivere sulla paura dell'Islam, dei musulmani e della loro eterogenea quinta colonna insediata anche in Occidente, una paura di cui il mio animo tracima, che domina la mia mente, che condiziona pesantemente la mia vita, che pervade e viola come un cancro inguaribile e inarrestabile l'esistenza di gran parte dell'umanità contemporanea. (...) Sono convinto che hai svolto un ruolo straordinario nel contribuire a formare un sentimento di riscossa civile e di orgoglio nazionale nell'era della guerra globale del terrorismo islamico, dell'ideologismo nichilista all'insegna dell'antiamericanismo e dell'antiebraismo, del pacifismo militante, pregiudiziale, egoistico e perfino violento, dell'Italia in preda ai teatranti della politica. In qualche modo hai suonato forte il campanello d'allarme facendoti interprete di una necessità collettiva che si sprigiona da un profondo malessere di cui i più sono incapaci di decifrare le cause e individuare la via d'uscita. Ti sei assunta il ruolo dell'avanguardia rivoluzionaria che sprona le masse a ribellarsi alle forze del male, a prendere nelle proprie mani il proprio destino, ammonendo contro le tragiche conseguenze di un eventuale cedimento. Ti sei offerta fino in fondo agli italiani e molti di loro l'hanno capito, hanno contraccambiato con sincero affetto e ti hanno manifestato una immensa gratitudine. (...) Sono felice di averti conosciuta. Mi sono sentito colmo d'orgoglio quando mi hai cercato telefonicamente nell'estate del 2003, mentre eri immersa nella scrittura di La forza della ragione, per chiedermi ragguagli e dibattere sulla tematica dell'integralismo e del terrorismo islamico, partendo dai miei articoli pubblicati prima sulla Repubblica e poi sul Corriere della sera. Eri discreta, tenera, piena di premure nei miei confronti. (Continua)Mi sono commosso leggendo i tuoi affettuosissimi messaggi che talvolta suonavano come un «testamento» di stima e amicizia eterna: «Davvero, quando avrò (bene o male) concluso questo lavoretto, la primissima copia sarà per te. Più ti leggo, più ci penso, più concludo che sei l'unico su cui dall'alto dei cieli o meglio dai gironi dell'inferno potrò contare. (Bada che t'infliggo una grossa responsabilità)». L'ho considerato un attestato di simbiosi spirituale e intellettuale che conserverò nel mio cuore. Ti ho voluto veramente bene, ti ho abbracciata intensamente, ti ho accolta pienamente nel mio animo. Ma, cara Oriana, io sono costretto a fermarmi qui. Non potrei, come immaginano di fare taluni, andare oltre. Passando dal risentimento all'odio, dallo sdegno alla mobilitazione, dalla denuncia alla ribellione, dalle parole ai fatti. Perché significherebbe suicidarmi. Come potrei scagliarmi contro l'Islam che mi ha generato, che volente o nolente rappresenta il mio riferimento identitario, immaginandolo come il Male incontrovertibile e irrecuperabile? Come potrei infierire contro me stesso, io che sono musulmano, percependomi come figlio naturale e degenere del Male? Sai bene che non condivido la tesi dell'Islam come blocco monolitico, con un'anima integralista e che permane immutato nel tempo. All'opposto sono convinto che l'Islam, e ancor più i musulmani come persone, sono realtà che si coniugano al plurale sul piano della fede, dell'ideologia, della politica, della cultura, delle tradizioni nazionali e del vissuto individuale che, pur nella similitudine, assicura l'unicità del singolo. Amorevolmente, nella breve stagione in cui ci siamo incontrati, conosciuti, voluti bene e reciprocamente stimati, tu mi hai offerto una via d'uscita, hai individuato per me la porta della salvezza: «Tu sei un laico, tu non sei un vero musulmano». Una possibilità di redenzione dal Male di cui potrebbe fruire una minoranza di eletti, personalità straordinarie che si riscattano grazie alla fortunosa concomitanza di virtù personali e circostanze ambientali. Cara Oriana, non capisci che in realtà mi hai offerto una mela avvelenata? Che dalla porta che mi spalanchi si intravedono non la Luce e la Vita, bensì il Buio e la Morte? Al di là delle buone e amorevoli intenzioni che ti inducono a concedermi la grazia, il tuo ragionamento finisce per risultare simmetrico a quello degli integralisti islamici che mi hanno condannato a morte e dei terroristi islamici che mi danno la caccia. Anche loro dicono: «Magdi Allam non è un vero musulmano». E mentre tu aggiungi con tono positivo e con una finalità costruttiva: «Tu sei un laico e hai diritto di cittadinanza nella comune civiltà dell'uomo» loro sentenziano con tono negativo e con una finalità distruttiva: «È un apostata che merita la morte per ordine di Allah», «È un nemico dell'Islam che va eliminato e spedito all'inferno». La simmetria del ragionamento risiede nel fatto che, sia tu sia i nostri nemici, intendo i miei ma anche i tuoi nemici perché siamo comunque sulla stessa barca, partite da una ideologia ammantata di religione anziché dal vissuto della persona. Immaginate che il musulmano sarebbe una sorta di clone prodotto in serie in modo automatico e acritico da una interpretazione ideologica dell'Islam assurta a Verità assoluta, universale ed eterna. Di fatto la vostra percezione dell'Islam e dei musulmani cancella la realtà storica di secoli di civiltà islamica, umana, prospera e costruttiva, nega la più recente realtà di stati nazionali musulmani moderni, così come sconfessa la realtà del vissuto di masse di musulmani che per millenni sono stati sostanzialmente laici. Ma ti rendi conto cara Oriana che la tesi secondo cui esisterebbe un solo Islam o comunque un solo modo di interpretare il Corano e secondo cui, quindi, i veri fedeli sarebbero solo gli integralisti e gli estremisti islamici, mentre i non praticanti, i moderati, i laici, gli agnostici sarebbero dei falsi musulmani, si traduce nella mia condanna a morte? Certamente nel mio ostracismo identitario e civile che comunque farebbe di me un dead man walking, un morto vivente? Nella versione più edulcorata io sarei un orfano, un figlio di nessuno rimasto senza radici; nella versione più infamante sarei un rinnegato, un traditore che ha sconfessato la propria fede. Il punto è che non si tratta affatto di un caso personale e singolo. Bensì della realtà della maggioranza dei musulmani che probabilmente in modo non sempre cosciente, esplicito e libero testimonia un vissuto sostanzialmente laico. Pensa agli straordinari fermenti di democrazia liberale e laica che si registrano in Medio Oriente, dall'Iraq al Marocco, che smentiscono il luogo comune sull'Islam e il pregiudizio sui musulmani che li vuole incompatibili con il sistema di valori fondanti della civiltà occidentale. Che vogliamo fare di questa maggioranza di musulmani che non corrisponde in tutto e per tutto al cliché dell'integralista e dell'estremista islamico? Vogliamo costringere 1 miliardo 300 milioni di musulmani a rinnegare la loro fede in Allah e nel profeta Mohammad, magari per diventare cristiani o, perché no, atei? Vogliamo dichiarare guerra a un quinto dell'umanità perché sarebbe geneticamente ostile e irrimediabilmente perso? Vogliamo massacrarli in massa come hanno fatto i terroristi islamici in Algeria e come vorrebbero fare in Iraq? (Continua)Comprendi che questa visione manichea, che non ammette un «Islam buono» ed esclude «un vero musulmano buono», finisce per fare il gioco di Osama Bin Laden che nella sua perfidia e follia si è arrogato il ruolo di novello califfo dell'Islam e ha diviso l'umanità in musulmani veri e miscredenti? Mettiti nei panni della maggioranza di musulmani: da un lato sono fisicamente aggrediti dai kamikaze e dai tagliatori di teste islamici, così come sono costretti a subire il lavaggio di cervello dell'ideologismo comunque nichilista dei regimi teocratici e autocratici al potere; dall'altro si sentono additati in modo indistinto e acritico come il nemico e il pericolo mortale per l'umanità dal resto del mondo. Ebbene cosa dovrebbe fare questa maggioranza di musulmani: stare inerte in mezzo a due fuochi fino alla sua totale eliminazione? (...) Tu stessa, nella tua recente opera L'Apocalisse, ammetti l'esistenza di una «minoranza esigua» di musulmani moderati, tra cui citi Abdel Rahman al-Rashed, direttore della televisione di sole news Al Arabiya, perché in un coraggioso editoriale pubblicato sul quotidiano saudita Asharq Al-Awsat ha denunciato il fatto che «anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte (e non “tutti”) dei terroristi sono musulmani». Ebbene ti invito a riflettere sul fatto che al-Rashed, che leggo avidamente tutti i giorni e come me fanno tantissimi arabofoni, scrive in lingua araba, pubblica su un quotidiano arabo, è letto da un pubblico arabo, è stato scelto come miglior giornalista arabo dalle masse arabe. Al-Rashed non è insomma un pesce fuor d'acqua, perché diversamente non potrebbe godere del prestigio e dell'ampio seguito che si è conquistato. Casomai è la punta di un iceberg di una immensa voglia di libertà e di civiltà umana che lentamente trapela, si intravede e si afferma tra le maglie dell'oppressione politica e dell'oscurantismo ideologico a cui per troppo tempo sono stati costretti i popoli musulmani. Se oggi Al Arabiya, schierandosi apertamente a favore dei popoli iracheno e libanese in lotta contro il terrorismo e per la libertà, ha superato il record di ascolti di Al Jazeera, che è diventata il megafono dell'estremismo islamico e dell'oltranzismo ideologico, la lezione da trarre è che il direttore al-Rashed ha avuto l'intelligenza e il coraggio di far emergere ciò che cova nell'animo e nella mente delle masse, rappresentando mediaticamente la realtà ideale e politica della maggioranza dei musulmani. Al-Rashed non è come tu immagini l'esponente di una «minoranza esigua» di musulmani moderati, addirittura «non un vero musulmano (il corsivo è mio), un tipo come me, un fuorilegge, un eretico»; all'opposto egli è l'interprete e il precursore della maggioranza di musulmani moderati. La verità è che ti sei innamorata del personaggio di al-Rashed, così come era successo anche con me. Ma non ho dubbi che il tuo idillio con l'uomo al-Rashed non andrebbe oltre l'effimero battito d'ali di una farfalla, così come è successo con me. Perché tu semplicemente non ti confronti, non sei interessata a confrontarti su un piede di parità con le persone in carne e ossa, nella loro dimensione globale e nel loro processo di continua evoluzione. Il mondo è fatto di persone, nella vita ci si confronta con persone. Il risultato è che tu non conosci correttamente l'ampia e complessa realtà odierna del vissuto dei musulmani. (Continua)Comunque dovresti sapere che non è sufficiente fare copia e incolla dalle pagine dei giornali, condendo il tutto con sarcasmi e malignità, per rappresentare onestamente la realtà di tanti esseri umani in carne e ossa. E in ogni caso dovresti quantomeno porti il problema delle conseguenze concrete che le tue parole potrebbero avere sulla vita dei tuoi tanti affezionati lettori e dei non pochi bersagli designati. Ci vorrà sicuramente del tempo. Il parto della democrazia liberale in terra islamica non sarà né rapido né indolore. Ci sono tante forze ostili, annidate anche in seno all'Occidente, che vorrebbero arrestare e far fallire il processo dei musulmani verso la libertà e la civiltà umana. In questo difficile contesto storico, i giornalisti e gli intellettuali musulmani laici e liberali sono nell'occhio del mirino degli integralisti, dei terroristi islamici e dei loro complici. Ecco perché cara Oriana io mi attenderei da te e da tutti i sinceri amici la massima solidarietà. Non le malcelate critiche e gli irriguardosi sarcasmi che mi hai riservato nella tua Apocalisse, senza avere il coraggio di chiamarmi con nome e cognome. Io che ho già collezionato una serie di minacce e di condanne a morte, da parte dei terroristi islamici e della loro quinta colonna, e che ciononostante continuo a stare in mezzo alla gente e non mi sottraggo al dialogo e al confronto, non ho alcuna remora a dirti in faccia per filo e per segno che cosa penso di te nel bene e nel male. Quando il tuo discorso scivola nel qualunquismo, spoglio di un contesto etico, quando arrivi a immaginare che solo tu capisci e sei legittimata a emettere sentenze, mentre tutti gli altri, indistintamente, sarebbero degli sciocchi, degli ingenui, dei buffoni, dei traditori, dei demoni, allora tutto si riduce a un cumulo di parole vane, più o meno sarcastiche, più o meno lecite, più o meno dannose. Permettimi di aggiungere che c'è una bella differenza tra l'elaborazione di un pensiero astratto che vaga dalle pagine di un giornale o di un libro all'altro (parole ammirevoli e altisonanti che si confrontano e si ritengono appagate dal riferimento a parametri logici, culturali e religiosi che appartengono alla nostra civiltà, intendo la comune civiltà dell'uomo incentrata sul rispetto del valore della sacralità della vita di tutti) e il vissuto di una persona musulmana perbene, che è costretta volente o nolente a confrontarsi con altre persone musulmane tutt'altro che perbene, cresciute in contesti assai diversi, portatrici di altri parametri spesso illogici, fautrici di un ideologismo che esalta la cultura della morte. So bene che fino a quando la salute te l'ha permesso, e ti auguro di cuore di averne ancora tanta, sei stata in prima fila nei fronti caldi delle crisi internazionali. Anch'io ho apprezzato e imparato dalle tue molteplici testimonianze, pur esercitando il legittimo diritto alla critica. Tuttavia un conto è prestarsi pro tempore per adempiere la nobile missione di osservatore e commentatore dei grandi eventi che segnano il nostro tempo, anche rischiando in prima persona ma riservandosi sempre la facoltà di tirarsi fuori quando lo si ritiene opportuno, e un conto è essere dentro uno specifico contesto di conflitto religioso, politico, ideologico e terroristico senza avere la possibilità di sottrarvisi. Perché vedi cara Oriana io non sono un visitatore esterno, casuale, provvisorio della realtà dell'integralismo e del terrorismo islamico, bensì un protagonista impegnato, come giornalista e come uomo, a testimoniare gli orrori della cultura dell'odio e della morte, a favorire l'affermazione della comune civiltà dell'uomo anche, ma non solo, tra i popoli e le comunità musulmane. Il mio pegno non è la penna ma tutto me stesso, in gioco non c'è la carriera professionale ma la mia vita.

Magdi Cristiano Allam: "Rovinato da giudici e islamici, mi vogliono muto", scrive "Libero Quotidiano" il 29 luglio 2015. Lui la chiama "Jihad by Court", guerra santa in tribunale. Lui è Magdi Cristiano Allam, che è stato rovinato dai tribunali. Negli ultimi giorni l'ultima condanna per diffamazione, per le toghe avvenuta nel corso della trasmissione Porta a Porta e nei confronti del presidente dell'Unione comunità islamiche d'Italia (Ucoi), Ezzedinz Elizr. Una condanna in primo grado, che però lo costringe a pagare, subito, 18mila euro. Così, negli ultimi tre anni, il totale sale a 70mila euro per cause civili. "Sono vittima della persecuzione giudiziaria da parte degli estremisti islamici taglia-lingue - spiega Allam -, coloro che ti condannano se dici, scrivi o fai qualcosa che urta la loro suscettibilità, che si scontra con la loro strategia di islamizzazione subdola, strisciante e inarrestabile dell'Italia e dell'Europa". La storia - Allam ha abbandonato la fede islamica a 56 anni, quando nel 2008 si è convertito al cattolicesimo. Quindici anni fa è entrato nel mirino dell'islam, attirandosi anche una condanna a morte firmata da Hamas. Nel suo passato è stato inviato de La Repubblica, vicedirettore del Corriere della Sera e parlamentare europeo dell'Udc, e oggi è editorialista de Il Giornale. Nel corso della sua battaglia contro l'estremismo islamico si è attirato minacce di morte e denunce. Spiega sempre Allam: "Prima erano denunce penali, ora solo civili. Per loro sono un nemico da eliminare in quanto apostata e traditore. L'arma prediletta è il denaro: ti denunciano per farti pagare più possibile fino a costringerti alla resa, mettendoti con le spalle al muro. Investono un fiume di denaro per zittirmi. Mobilitano avvocati nostrani che spulciano ogni minima sfumatura dei miei interventi pubblici, andando a ritroso nel tempo fino a quando non subentra la prescrizione". L'ultima causa persa, simile a tante altre, è stata intentata perché Allam sostiene che l'Ucoii rappresenta in Italia i Fratelli Musulmani, proprio come fa Hamas nei territorio palestinesi. Per aver affermato questa sua teoria in tv è stato (nuovamente) bastonato), anche se, sottolinea, "lo ho fatto in modo argomentato, riferendomi a posizioni assunte dall'Unione". Un tempo, Magdi, anche grazie allo stipendio di parlamentare riusciva a far fronte ai risarcimenti da decine di migliaia di euro che gli venivano imposti in tribunale. Ora però i tempi sono cambiati, e le difficoltà sono cresciute. Così ha fondato l'Associazione "Amici di Magdi Cristinao Allam", chiedendo aiuto finanziario per lui e per chi è nelle sue stesse condizioni, per chi subisce quello che definisce "il ricatto del denaro". Allam conclude: "Sono stato il primo giornalista in Italia a subire una denuncia dell'avvocato degli islamici e un provvedimento disciplinare per islamofobia dall'Ordine nazionale dei giornalisti. Vorrebbero impormi il bavaglio, ma non ho intenzione di tacere".

Giudici e islamici hanno rovinato Magdi "Mi vogliono muto". La sua battaglia gli è valsa un mare di denunce dai musulmani. E sentenze sempre punitive. Condannato a pagare oltre 70mila euro di danni, scrive Anna Maria Greco Mercoledì 29/07/2015 su “Il Giornale”. La guerra santa islamica si fa anche tramite i tribunali, parola di Magdi Cristiano Allam. Lui la chiama «Jihad by Court», come dicono negli Stati Uniti. In questi giorni ha subito l'ennesima condanna per diffamazione nella trasmissione tv «Porta a porta» del presidente dell'Ucoi (Unione comunità islamiche d'Italia) Ezzedin Elzir e, pur essendo in primo grado, dovrà subito pagare ben 18 mila euro. Negli ultimi anni ne ha sborsati circa 70 mila per cause civili tutte di questo tipo, molti di più complessivamente da quando, 15 anni fa, è entrato nel mirino dei musulmani che attaccava duramente, attirandosi anche una condanna a morte di Hamas. «Sono vittima della persecuzione giudiziaria - dice - da parte degli estremisti islamici taglia-lingue, coloro che ti condannano se dici, scrivi o fai qualcosa che urta la loro suscettibilità, che si scontra con la loro strategia di islamizzazione subdola, strisciante e inarrestabile dell'Italia e dell'Europa». Allam, giornalista e scrittore egiziano naturalizzato italiano, già inviato de La Reubblica, vicedirettore del Corriere della Sera, parlamentare europeo con l'Udc e ora editorialista de Il Giornale, ha abbandonato la fede musulmana dopo 56 anni per convertirsi nel 2008 al cattolicesimo, pur criticando poi aspramente la Chiesa per la sua «legittimazione dell'Islam come vera religione». Da quando ha iniziato la sua «crociata» si è attirato pesanti minacce e un mare di denunce. «Prima - spiega - erano penali, ora solo civili. Per loro sono un nemico da eliminare in quanto apostata e traditore. L'arma prediletta è il denaro: ti denunciano per farti pagare più possibile fino a costringerti alla resa, mettendoti con le spalle al muro. Investono un fiume di denaro per zittirmi. Mobilitano avvocati nostrani che spulciano ogni minima sfumatura dei miei interventi pubblici, andando a ritroso nel tempo fino a quando non subentra la prescrizione». L'ultima causa persa ne ricalca tante altre, perchè Allam sostiene che l'Ucoii rappresenta in Italia i Fratelli Musulmani, come fa Hamas nei territori palestinesi. É per aver detto questo in tv, che è stato condannato ancora una volta. «L'ho fatto in modo argomentato - afferma -, riferendomi a posizioni assunte dall'Unione, comunicati stampa a favore di Hamas e contro Israele. Nessuna diffamazione, ma è stata interpretata come calunnia personale del presidente, lesione della sua onorabilità. Purtroppo in Italia certi magistrati anche di fronte a documenti che attestano la correlazione con i Fratelli musulmani condannano, mentre altri considerano le affermazioni libera espressione del pensiero». Il fatto è che una volta, anche per lo stipendio di parlamentare, Allam riusciva a far fronte ai risarcimenti di decine di migliaia di euro per cause perse a volte in contumacia, ma ora i tempi sono cambiati e ha molte difficoltà in più. Così, ha fondato l'Associazione «Amici di Magdi Cristiano Allam», chiedendo aiuto finanziario non solo per lui ma per altri nelle stesse condizioni, che subiscono ciò che chiama il «ricatto del denaro». «Sono stato il primo giornalista in Italia - ricorda- a subire una denuncia dell'avvocato degli islamici e un procedimento disciplinare per islamofobia dall'Ordine nazionale dei giornalisti. Vorrebbero impormi il bavaglio, ma non ho intenzione di tacere».

Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto, scrive “Libero Quotidiano” il 10 gennaio 2015. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella boglia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.

Divina Commedia: Inferno Canto XXVIII. Cenni sul Canto XXVIII. Il ventottesimo canto dell’Inferno è dedicato alla descrizione della nona bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i seminatori di discordia e scismi: come in vita divisero persone e famiglie, separarono fazioni politiche e crearono scismi religiosi, ora sono mutilati da un diavolo armato di spada, che provvede a riaprire le ferite non appena si sono rimarginate. Dante comincia sottolineando l’impossibilità di descrivere la condizione dei dannati e si serve di una lunga similitudine: non si riuscirebbe a eguagliare la situazione della bolgia nemmeno radunando tutti i morti e i feriti delle guerre che hanno straziato il sud Italia nei tempi antichi e moderni. Dopodiché, Dante inizia la descrizione dei singoli dannati. Il primo che prende in esame è Maometto, che, secondo ciò che si pensava nel Medioevo, aveva compiuto uno scisma all’interno del Cristianesimo. Maometto ha un lungo taglio dal mento all'ano, che apre con le mani per impietosire il poeta, facendo fuoriuscire tutti gli organi interni, descritti in modo alquanto volgare. Una volta saputo che Dante è ancora vivo, il dannato gli affida un messaggio per Fra Dolcino: se non vuole essere sconfitto dai Novaresi, da cui era braccato, durante il ritiro sul monte Rubello dovrà rifornirsi di molti viveri, per passare indenne il rigido inverno. Detto questo, Maometto si avvia lungo la bolgia, accompagnato da Alì, il califfo che proseguì la sua opera, che infatti ha un taglio sul viso, dal mento alla fronte, proseguimento di quello di Maometto. L’attenzione di Dante ora è attirata da un dannato, a cui sono stati tagliati il naso e un orecchio, che ha un grosso buco in gola dal quale può parlare senza muovere le labbra, schizzando però molto sangue in giro. È Pier da Medicina, che affida al poeta un altro messaggio per il mondo dei vivi: dovrà avvisare Guido del Cassero e Angioliello da Carignano che il tiranno di Rimini, Malatestino Malatesta, ha intenzione di assassinarli con l’inganno, usando la scusa di invitarli a un incontro diplomatico. Su richiesta di Dante, Pier da Medicina svela l’identità di un altro dannato lì presente, menzionato poco prima in relazione alla terra di Rimini: in una scenetta tragicomica, Pier afferra la testa del dannato e gli apre forzatamente la bocca, mostrando al poeta la sua lingua mozzata. Il peccatore in questione è Gaio Scribonio Curione, che convinse Giulio Cesare a marciare contro Roma. A questo punto entra in scena un altro dannato, Mosca de’ Lamberti, che agita verso Dante i polsi monchi e grondanti sangue, imbrattandosi tutta la faccia. Mosca ricorda il suo peccato, cioè l’aver messo l’una contro l’altra le famiglie dei Buondelmonti e degli Amidei, ed è immediatamente zittito da Dante con una risposta per le rime, che lo fa allontanare. L’ultimo dannato presentato in questa bolgia è anche quello più importante, una figura così terrificante che Dante ha paura di non essere creduto nel raccontarla: è un corpo decapitato che tiene per i capelli la sua testa mozzata, come normalmente si tiene una lanterna. Per parlare con Dante la solleva in alto, verso di lui, e rivela la sua identità. Si tratta di Bertran de Born, e il suo contrappasso è tanto grave quanto la sua colpa: in vita aveva spinto Enrico III, principe d’Inghilterra, a ribellarsi contro suo padre, il re Enrico II.

Testo del Canto XXVIII. Canto XXVIII, nel quale tratta le qualita di de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.

...Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com' io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e 'l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m'attacco,

guardommi e con le man s'aperse il petto,

dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!

vedi come storpiato è Mäometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,

fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma

fuor vivi, e però son fessi così....

"No allo studio di Dante nelle scuole. È islamofobo". Un'associazione vuole abolire la Divina Commedia nelle scuole: "Nel XXVIII canto dell'Inferno si diffama Maometto", scrive Nino Materi Lunedì 19/01/2015 su “Il Giornale”. A due settimane da quel maledetto mercoledì 7 gennaio, nelle scuole italiane l'attentato contro Charlie Hebdo rimane una ferita aperta. Di cui discutere. Magari scontrandosi. Com'è accaduto in un'aula di un istituto tecnico di Faenza, dove una volantino di solidarietà per le vittime di Parigi è stato stracciato da uno studente di fede islamica. Quella che si «combatte» tra i banchi non è una guerra di religione - Bibbia contro Corano -, ma i sintomi di un disagio crescente si notano eccome. I giovani musulmani che frequentano le medie e le superiori nel nostro paese sono aumentati negli ultimi 5 anni di circa il 20%. Anche la nostra sta diventando (e non da oggi) una scuola sempre più multietnica e questo sarebbe positivo in uno Stato che vedesse nella Pubblica Istruzione un'OPA su sui investire in termini di crescita culturale ed educazione civica; ma questo, purtroppo, non è il caso dell'Italia, dove la scuola è da sempre considerata l'ultima ruota del carro. Sarà per questo che la nostra scuola nel bene (poco) e nel male (tanto) rimane lo specchio fedele di un Paese sempre più afflitto dalla «sindrome del gambero», tra continui passi indietro perfino sul fronte di quelle che dovrebbero essere le nostre più radicate tradizioni in termini di civiltà cattolica. E invece in Parlamento è tutto un fiorire di proposte di segno opposto: come ad esempio il progetto di sostituire l'ora di religione con una nuova materia, Storia delle religione, nel tentativo demagogico di garantire la «par condicio» con le altre fedi. È di pochi giorni fa la notizia di una lettera scritta da vari storici delle religioni per chiedere un tavolo di confronto alla ministra dell'Istruzione, Stefania Giannini «al fine di valutare la possibilità di introdurre la materia da loro insegnata all'interno dell'ordinamento scolastico italiano». Un'apertura che, fatte salve le buone intenzioni di quanti la auspicano, rischia di generare mostri. Come dimostra l'associazione Gherush92 che chiede di censurare lo studio dei Dante in quanto «discriminatorio e offensivo». Il capolavoro di Dante conterrebbe - a giudizio di Gherush92, cui aderiscono molti docenti - «accenti islamofobici»: «Nel canto 28° dell'Inferno - si legge in articolo del Corriere.it ripreso dal sito studentesco Scuolazoo -, Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa». Intanto è notizia di ieri che nella Scuola Svizzera di Bergamo l'ora di religione cattolica è stata cancellata: al suo posto si studierà «etica». Una novità che ha sorpreso genitori e Diocesi: «Questa decisione è un clamoroso errore». La Scuola Svizzera è l'unica scuola plurilingue di tutta la Bergamasca (comprende classi medie, elementari, e dell'infanzia) dove una metà degli iscritti è italiani e l'altra metà è straniera. In nome di Dio. Allah permettendo.

La tomba di Dante nel mirino dell'Isis: il poeta nemico del Califfato. Il monumento dedicato al padre della Divina Commedia nella lista di luoghi sensibili stilata dal Viminale, scrive Carola Parisi - Martedì 14/07/2015 su “Il Giornale". C'è anche la tomba di Dante tra i possibili obiettivi dell'Isis. Sembrerebbe quasi uno scherzo. Eppure, nella nota riservata del capo della polizia Alessandro Pansa, datata 7 luglio ed inviata alle questure più importanti d’Italia, c'è una lista dei monumenti e luoghi d’arte che i combattenti islamici potrebbero prendere di mira dopo l’escalation di violenza contro gli occidentali in Medioriente e in nord Africa. E, dopo l'attentato al consolato italiano del Cairo, i controlli aumentano. Tra i luoghi maggiormente sotto il controllo delle autorità, compare anche la tomba di Dante Alighieri. Il mausoleo si trova nel cuore di Ravenna, nella "zona del silenzio" che va da piazza San Francesco ai chiostri francescani. Dante sarebbe considerato un nemico dal Califfato per il trattamento offensivo riservato a Maometto nella Divina Commedia. Il Profeta compare nel canto XXVIII dell’Inferno fra i seminatori di discordia e di scisma insieme col genero e cugino Ali, ed il castigo al quale è sottoposto è la mutilazione. In effetti, un diavolo scatenato, con un colpo di spada, lo spacca dal mento fino all’addome, perché in vita ha spaccato e diviso la religione cristiana.

Tutti i luoghi nel mirino dei tagliagole del Califfo. I terroristi punterebbero sulla tomba di Dante a Ravenna, San Petronio a Bologna e Palazzo Pitti a Firenze. Il motivo? Offendono Maometto, scrive Simone Di Meo Domenica 12/07/2015 su “Il Giornale”. Povero Dante. I tagliagole del Califfo Al Baghdadi non gli perdonano il sacrilegio di aver ridicolizzato il Profeta nel XXVIII canto dell'Inferno, raffigurandolo squartato a metà da un diavolo armato di spada perché «seminator di scandalo e di scisma». E a distanza di sette secoli e mezzo, i demoni della Sharia vogliono vendicarsi della Divina Commedia. Nell'unico modo che conoscono. La tomba del Sommo Poeta, a Ravenna, è in pericolo. Il capo della polizia Alessandro Pansa, in una nota riservata del 7 luglio scorso, inviata agli uffici info-investigativi delle Questure più importanti d'Italia, ha stilato un elenco dei luoghi d'arte che la follia islamista potrebbe prendere di mira dopo l'escalation di violenza contro gli occidentali in Medioriente e in nord Africa. Dante deve pagare per quelle terzine sul Profeta che, tra le fiamme della IX Bolgia, gli va incontro insieme al genero Ali aprendosi il petto e mostrandogli le interiora che gli pendono tra le gambe. Il suo monumento funebre è un'offesa al popolo di Allah che dev'essere lavata col sangue. Ma sono tutte le «decorazioni e le raffigurazioni» di Maometto e le scene dei «trionfi degli eserciti cristiani» sui musulmani che preoccupano gli analisti del Dipartimento di pubblica sicurezza. Affreschi, quadri e dipinti sacri che, per l'iconoclastia dell'Isis, rappresentano un oltraggio insopportabile così come le miniature e le illustrazioni su «turchi e islamici» dannati nel giorno del Giudizio universale, conservati in biblioteche e musei. Bisogna aumentare il livello di controllo su questi obiettivi sensibili, ordina Pansa. Elencandoli uno a uno, da Nord a Sud: la Basilica di San Marco a Venezia, il Palazzo del Principe a Genova, la tomba di Dante a Ravenna, appunto; la Basilica di San Petronio a Bologna, Palazzo Pitti a Firenze, il Santuario del Sacro Speco a Subiaco (Roma), il Vaticano e l'Oratorio del Rosario di S. Cita a Palermo. Le immagini dei terroristi dell'Isis che radono al suolo le antiche abbazie cristiane in Siria, polverizzando un patrimonio storico-archeologico unico al mondo perché appartenente ai « kafir », i miscredenti, hanno allarmato le agenzie di sicurezza occidentali che temono azioni dimostrative da parte di «lupi solitari» interessati a conquistare il sogno dell'immortalità con un gesto eclatante. Tant'è che, negli ambienti dell'intelligence, cresce la preoccupazione anche per la città di Pompei, nel Napoletano. Il sito archeologico più visitato del pianeta e dimora del Santuario dedicato alla Madonna che ogni anno accoglie decine di migliaia di fedeli per il mese mariano. Il luogo dove sacro e profano convivono pacificamente. Il posto perfetto per colpire. L'Italia è uno dei temi ricorrenti della propaganda jihaidista. Ne parla la combattente italiana convertita Maria Giulia Sergio su Skype coi genitori prima del loro arresto, promettendo che le armate di Allah arriveranno nella Città Eterna. Sui social network dei terroristi viaggiano i fotomontaggi del Colosseo in fiamme. E la copertina di «Dabiq», la rivista ufficiale dello Stato Islamico, qualche tempo fa ha immaginato la bandiera nera del Califfato issata sull'obelisco di piazza San Pietro. L'inferno islamista è alle porte ma non è quello di Dante. E non basterà una Beatrice per salvarsi.

La censura talebana all’inferno di Maometto, scrive Vittorio Sgarbi Lunedì 30/07/2007 su "Il Giornale". È vero che l'abitudine alla violenza e all'orrore, se non scalfisce l'indignazione, ci rende però meno sensibili e meno disponibili allo stupore; ma, quando mi sono state fatte conoscere le dichiarazioni di un importante esponente della Quercia (benché indebolita) bolognese, e di un autorevole docente della Facoltà di Scienza delle Comunicazioni, sono rimasto molto colpito e, oltre che indignato, incredulo. Già più di dieci anni fa qualche esponente della comunità musulmana aveva, non senza destare preoccupazione in tempi meno difficili di questi, manifestato l'intenzione di cancellare, nella Basilica di San Petronio, l'affresco di Giovanni da Modena in Cappella Bolognini, ove si vedeva Maometto mortificato e umiliato da un diavolo intento a deturpargli il volto, come descritto nel canto XVIII dell'Inferno. La protesta e la minaccia avevano determinato unanimi reazioni di sdegno e di tutela non solo dei valori cristiani, ma soprattutto di quelli artistici. E io ricordo di aver manifestato con altri, oltre al cardinal Biffi, la più ferma condanna per un atteggiamento di cui non avevo memoria prima di allora. Assai difficile pensare che per ragioni religiose si potesse pensare di distruggere un'opera d'arte con la sensibilità moderna così attenta alla conservazione del patrimonio artistico. Ma ancora più sorprendente che, dopo la crescita esponenziale della violenza, motivata da fanatismo religioso, le stesse dichiarazioni, lo stesso atteggiamento distruttivo e iconoclastico dei musulmani sia sostenuto da due intellettuali italiani con i medesimi argomenti. Merighi ha dichiarato che milioni di musulmani sono insultati da quest'opera e Roberto Grandi ha confermato la legittimità delle osservazioni di Merighi. Fatico a credere che persone con responsabilità politiche e istituzionali come Merighi e Grandi abbiano potuto senza vergogna pensare e dire che l'affresco con l'immagine di Maometto in San Petronio a Bologna è offensivo per milioni di musulmani e merita di essere censurato o distrutto. Questa pratica della censura per una ragione o per l'altra e sempre con una motivazione religiosa, in Occidente e in Italia, mi sembra inquietante. Cancellare, negare la storia, ferire o alterare una parte della mirabile Basilica di San Petronio è comunque un gesto barbaro, a metà strada tra il comportamento dei nazisti e quello dei talebani. Tutto ciò che sta in San Petronio è consegnato alla storia, che non si può processare, ma semplicemente osservare con il diverso spirito dei tempi. La condanna di una espressione artistica, ispirata all'inferno di Dante, non è comprensibile né accettabile nella colta e civile città di Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli, Ezio Raimondi, Carlo Volpe, Angelo Guglielmin che hanno educato all'arte e alla storia. La prospettiva dei musulmani rispetto all'argomento, di per sé fallace, e adottata da due intellettuali occidentali (e cittadini bolognesi) appare mostruosa, come di chi non patisca ma faccia un attentato. Distruggere l'affresco di San Petronio, con le motivazioni di Merighi e di Grandi, equivale a un atto di terrorismo. Non si può censurare il passato. Non si può processare la storia. Tutto ciò che è nella Basilica di San Petronio, come in tutte le chiese italiane, non ha soltanto un significato religioso e un rilievo storico artistico, ma è consegnato alla storia e deve essere rispettato e considerato come testimonianza di un'epoca. Misurarlo con la sensibilità di oggi, non considerarne il collegamento con le posizioni di Dante (a cui l'affresco bolognese è ispirato) significa assumere la posizione dei barbari e ancor peggio di chi crede di potere agire contro l'uomo e contro il pensiero dell'uomo in nome di Dio. I tempi ci avrebbero preparati anche a questo inaccettabile fanatismo. Ne rimane terribile testimonianza nell'immagine esibita provocatoriamente dei Buddha di Bamyan fatti saltare con l'esplosivo dai talebani, per dimostrazione e disprezzo e di insensata potenza. Un gesto dimostrativo, gratuito, non essendovi più un solo buddista in tutto l'Afghanistan. Soltanto un relativismo idiota, da parte di due occidentali (ma ci provò anche Rondolino) per insensatezza può trovare giustificazioni e anzi motivazioni ad atteggiamenti e comportamenti come questi. Essi, con diverse motivazioni, hanno lo stesso fondamento della violenza nazista. Come pensare che due ragionevoli occidentali, educati nelle scuole italiane, con alte responsabilità possano essere arrivati alle stesse posizioni dei nazisti e dei talebani? Abbiamo motivate ragioni di essere turbati e preoccupati.

Gli antagonisti attaccano Quinta Colonna: minacce a giornalisti e residenti, scrive Franco Bianchini martedì 17 novembre 2015 su "Il Secolo d’Italia". Un’altra prova della “democrazia” a uso e consumo dei centri sociali. Quinta Colonna è un programma che dà fastidio? Bisogna bloccarlo con la violenza, così come si fa con le manifestazioni del centrodestra o con qualunque cosa non sia in linea con i diktat degli antagonisti. Ecco allora che la giornalista Nausicaa Della Valle, inviata della trasmissione condotta da Paolo Del Debbio, è rimasta bloccata all’interno di un bar nel quartiere di Centocelle, a Roma, proprio per l’irruzione di un gruppo di giovani appartenenti ai centri sociali. Nel mirino anche i cittadini che dovevano prendere la parola nei collegamenti di Quinta Colonna. «Durante la diretta con il programma di Retequattro – dice una nota – una cinquantina di persone ha inveito contro la giornalista e i suoi ospiti, abitanti della zona, insultandoli e obbligandoli a interrompere il collegamento». «Solidarieta a Nausicaa Della Valle, collega di Quinta Colonna, che non ha potuto svolgere un collegamento in esterna in diretta da Roma perché minacciata da alcuni antagonisti» è stata espressa da Pierfrancesco Gallizzi, consigliere della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, a nome del Movimento Liberi Giornalisti. «Inammissibile e inaccettabile – aggiunge Gallizzi – che non si possa svolgere il proprio lavoro perché un gruppo di violenti decide di “interrompere le trasmissioni”. La libertà d’espressione e il diritto di cronaca non possono essere un optional». Tra gli ospiti in studio della puntata c’era Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, che su facebook aveva ribadito: «Per sconfiggere i terroristi islamici bisogna combatterli militarmente nei loro covi in Libia, Siria e Iraq, così come dobbiamo scardinale i loro luoghi fisici e virtuali, che significa moschee e siti jihadisti, dove si pratica il lavaggio di cervello che trasforma le persone in robot della morte».

Le vignette arabe sulla strage di Parigi: così sfottono Francia ed Europa, scrive “Libero Quotidiano" il 16 novembre 2015. Se si osservano le vignette satiriche sui quotidiani arabi, sarà praticamente impossibile trovare traccia di solidarietà alla Francia o magari, così anche di sfuggita, un cenno di condanna per gli attacchi terroristici a Parigi che hanno ammazzato almeno 129 persone. Per i disegnatori arabi è l'occasione per pungolare la Francia e l'Occidente sulla "doppia morale", come scrive Maurizio Molinari su La Stampa, cioè su quanto siano stati ben più gravi i fatti di sangue avvenuti negli anni nei Paesi arabi, rispetto alla tragedia parigina. C'è per esempio il vignettista Ala al-Luqta che vede la Francia come un signore grasso con una freccia infilzata nella schiena, seguito da un palestinese colpito da una decina di frecce e che alza un po' scocciato un cartello con la scritta: "Rifiutiamo il terrorismo a Parigi". Oppure ci sono vignette che raffigurano la Francia ferita a un dito, ricoverata in ospedale nella stessa stanza della Siria ferita a morte. Rincara la dose Arab21News che pubblica una vignetta con la Morte che bussa alla porta dell'Unione Europea portando un carico di teschi, restituendoli al mittente.

I vignettisti arabi sfottono la Francia piagnucolosa, scrive Maurizio Molinari su "La Stampa", lunedì 16 novembre 2015. Solidarietà per la Francia aggredita da Isis, ma anche ironia, sarcasmo e una raffica di accuse di doppio standard morale nel giudicare vittime musulmane e occidentali: sono le vignette pubblicate da numerosi giornali del Medio Oriente per descrivere le reazioni al massacro di Parigi, spesso segnate da critiche assai aspre. Per il vignettista giordano Osama Hajjaj la Francia è una bella donna afflitta dal pianto per l’aggressione subita, con sullo sfondo la Torre Eiffel che su «Al Araby» è raffigurata come la vittima dell’abbraccio violento di una kamikaze. Ma si tratta di eccezioni. Per il vignettista Ala al-Luqta la Francia è piuttosto un panciuto signore europeo con un’unica freccia nella schiena seguito da un palestinese bersagliato da dozzine di frecce che innalza controvoglia il cartello «rifiutiamo il terrorismo a Parigi» in un’evidente immagine di umiliazione per tutti gli arabi. È un messaggio simile a quello delle vignette che paragonano la Francia ad un ferito ad un singolo dito, ricoverata nella stessa corsia di un ospedale dove si trova la Siria ridotta in fin di vita. Per suggerire la sproporzione dell’Occidente nel valutare le differenti tragedie. «Arab21News» si spinge fino a descrivere i killer di Parigi come una Morte che bussa alla porta dell’Unione europea con il suo carico di teschi sulle spalle, recapitandoli al mittente. E Carlos Latuff, noto disegnatore arabo-brasiliano, chiama in causa il presidente Hollande, raffigurandolo mentre dà fuoco alla Siria innescando l’incendio che produce il genio malefico dell’Isis che accoltella la Francia. Per l’iraniano Al-Alam la lettura invece è tutta anti-saudita perché il titolo della vignetta sull’attacco alla Francia è «Il terrore wahhabita colpisce Parigi». Ovvero: Isis è un prodotto dei rivali sunniti del Golfo.

Siamo (quasi) tutti Valeria. La studentessa uccisa dalle bestie. Tutti solidarizzano, ma chi non vuole denunciare la barbarie islamica non la commemora e non può nemmeno restare tra noi, scrive Alessandro Sallusti Lunedì 16/11/2015 su “Il Giornale”. Adesso è ufficiale. Valeria Solesin, 28 anni, è tra le vittime - unica italiana - delle stragi parigine. Lo diciamo con sincerità e senza retorica: oggi siamo tutti Valeria, morta innocente come nelle guerre convenzionali accadeva ai civili sotto i bombardamenti. Il fatto che la ragazza fosse stata un'attivista dell'organizzazione pacifista Emergency di Gino Strada rende la sua morte ancora più assurda e paradossale, ed è la prova della ferocia di un nemico al quale non interessa neppure distinguere per appartenenza ideologica o politica. Siamo tutti bersagli in quanto occidentali, in quanto infedeli. Per questo il nostro «siamo tutti Valeria» ha bisogno di qualche delimitazione per evitare ipocrisie e complicità. Al di là di come la pensasse la ragazza, oggi non può dirsi Valeria chi crede che gli attentati di Parigi siano l'inevitabile risposta a presunte nefandezze dell'Occidente. In particolare non sono Valeria quei numerosi islamici moderati che, interpellati in queste ore dai giornalisti per strada e all'uscita delle moschee, riempiono di «se» e di «ma» la loro già tiepida presa di distanza dai terroristi che hanno ucciso in nome di Allah. Ieri abbiamo scritto: se è vero che siamo in guerra è necessario adottare misure straordinarie a costo di sospendere alcune garanzie oggi scontate. Per esempio, penso che si debba ritirare il permesso di soggiorno a chi solidarizza direttamente o indirettamente con chi uccide i nostri figli. Se mettiamo in galera cittadini italiani per l'ambiguo e discusso reato di concorso esterno in associazione mafiosa (è sufficiente avere avuto contatti con persone mafiose) non vedo perché non si debba introdurre lo stesso trattamento nei confronti di chi strizza l'occhio a degli assassini che ci hanno dichiarato guerra. In queste ore c'è il sacro terrore a parlare di guerra di religione. Ma siccome, purtroppo, è così, non si può più accettare la commistione tra islamici moderati e islamici radicali che, come dimostrano numerose inchieste giudiziarie, avviene quotidianamente in molte moschee e comunità di immigrati. Quando si è in guerra bisogna scegliere senza «se» e senza «ma»: o di qua, o di là. E chi è di là, ovviamente, non può essere con Valeria né con noi. Di più: non può stare tra noi.

Mandiamo Di Battista e Boldrini a trattare con l’ISIS. Caro Beppe e cari Italians, ricordate “Je suis Charlie”? E le fiaccolate nelle vie delle città per onorare quella dozzina di morti? E le interminabili e inconcludenti tavole rotonde? E le condanne “decise e sdegnate” di governi e istituzioni? E le prediche del Papa che scomunicava a largo spettro ed implorava l’intervento di Dio? E oggi? Siamo puntualmente daccapo. Anzi, ancora peggio. Oggi ripartiamo dalle centinaia di morti e dalla litania del “Je suis Paris”. Probabilmente aspettando le incoming entries “I’m London” e “Noi siamo Roma”. Ma davvero qualcuno pensa che con quelle bestie che decapitano e macellano uomini e donne in quanto “infedeli”, e ci avvertono che questo è solo l’inizio, esista uno spiraglio di trattativa? Era nel giusto Di Battista quando ci bacchettava perché non ci sforziamo di capire le loro ragioni? O la Boldrini che inorridisce all’idea di reagire con la forza perché, come dimostra la sua apodittica analisi storica, “i bombardamenti non hanno mai risolto nessun problema”? Io proverei galileianamente a sperimentare l’efficienza della logica buonista dei nostri “onorevoli”. Potremmo incaricarli, a nome del popolo italiano, di contattare direttamente l’ISIS. Se riuscissero a convincerli che forse il totale genocidio degli infedeli non è propriamente una cosa politically correct, al loro rientro in patria li accoglieremmo con il dovuto trionfo e con la perenne gratitudine nostra e dei nostri figli. E se non tornassero? Beh, sperando che l’ISIS, riconoscente, abbia risparmiato loro la vita, cercherei di farmi una ragione di quell’insopportabile distacco da noi. Lorenzo Basano su “Italians" de “Il Corriere della Sera”.

La verità scomoda di Putin: “All’Isis soldi da Paesi del G20”. Il leader russo mette in imbarazzo sauditi, Qatar, Emirati e Turchia. Finanziamenti “privati” e complicità nel traffico illegale di petrolio, scrive Maurizio Molinari su “La Stampa” il 17/11/2015. «Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20»: Vladimir Putin sceglie la chiusura del summit di Antalya per far sapere ai leader attorno al tavolo che la forza dello Stato Islamico è anche in una zona grigia di complicità finanziarie che include cittadini di molti Stati. Con un colpo di teatro, sono gli sherpa russi a consegnare alle altre delegazioni i «dati a nostra disposizione sul finanziamento dei terroristi». Si tratta di informazioni che il Dipartimento del Tesoro di Washington raccoglie dal 2013 ed hanno portato, nella primavera 2014, a pubblicare un rapporto che chiama in causa «donazioni private» da parte di cittadini del Qatar e dell’Arabia Saudita trasferite a Isis «attraverso il sistema bancario del Kuwait». Un rapporto della «Brookings Institution» di Washington indica nei carenti controlli delle istituzioni finanziarie del Kuwait il vulnus che consente a tali fondi «privati» di arrivare a destinazione «nonostante i provvedimenti dei governi kuwaitiano, saudita e qatarino per bloccarli». Fuad Hussein, capo di gabinetto di Massoud Barzani leader del Kurdistan iracheno, ritiene che «molti Stati arabi del Golfo in passato hanno finanziato gruppi sunniti in Siria ed Iraq che sono confluiti in Isis o in Al Nusra consentendogli di acquistare armi e pagare stipendi». «Una delle ragioni per cui i Paesi del Golfo consentono tali donazioni private - aggiunge Mahmud Othman, ex deputato curdo a Baghdad - è per tenere questi terroristi lontani il più possibile da loro». David Phillips, ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa ora alla Columbia University di New York, assicura: «Sono molti i ricchi arabi che giocano sporco, i loro governi affermano di combattere Isis mentre loro lo finanziano». L’ammiraglio James Stavridis, ex comandante supremo della Nato, li chiama «angeli investitori» i cui fondi «sono semi da cui germogliano i gruppi jihadisti» ed arrivano da «Arabia Saudita, Qatar ed Emirati». L’Arabia Saudita appartiene al G20 ed è dunque probabile che la mossa di Putin abbia voluto mettere in imbarazzo il re Salman protagonista di una dichiarazione pubblica dai toni accesi contro i «terroristi diabolici da sconfiggere». Ma non è tutto perché fra i «singoli finanziatori di Isis» nelle liste del Cremlino c’è anche un cospicuo numero di turchi: sono nomi che in parte coincidono con quelli che le forze speciali Usa hanno trovato nella casa-bunker di Abu Sayyaf, il capo delle finanze di Isis ucciso in un raid avvenuto lo scorso maggio. Abu Sayyaf gestiva la vendita illegale di greggio e gas estratti nei territori dello Stato Islamico - con entrate stimate in 10 milioni al mese - e i trafficanti che la rendono possibile operano quasi sempre dal lato turco del confine siriano. Ankara assicura di aver rafforzato i controlli lungo la frontiera ma un alto ufficiale d’intelligence occidentale spiega che «la Turchia del Sud resta la maggior fonte di rifornimenti per Isis». «Ci sono oramai troppe persone coinvolte nel business nel sostegno agli estremisti in Turchia - conclude Jonathan Shanzer, ex analista di anti-terrorismo del Dipartimento del Tesoro Usa - e tornare completamente indietro è diventato assai difficile, esporrebbe Ankara a gravi rischi interni». Lo sgambetto di Putin è stato dunque anche a Recep Tayyp Erdogan, anfitrione del summit. 

Tutti per Parigi, nessuno per i morti del jet russo. Quei morti, colpevoli di avere un passaporto russo, hanno suscitato una minore empatia, scrive Annalisa Chirico - Martedì 17/11/2015 su “Il Giornale”. Il mio profilo Twitter è fermo al 13 novembre, me ne accorgo soltanto ora. All'indomani della carneficina francese non ho sillabato cinguettii virtuali, non ho postato una foto della Marianne lacrimante, non ho ritwittato il simbolo della pace con la torre Eiffel al centro, non ho rilanciato l'hashtag #PrayforParis. Mi sono astenuta. Non è stata una scelta deliberata ma un moto spontaneo e inconsapevole. Il tempo delle preghiere è terminato. Le parole sono esaurite. Rimane il dolore per le persone ingiustamente strappate alla loro esistenza dalla furia jihadista. Rimane il silenzio, rabbioso, per la nostra libertà definitivamente perduta, per le nostre vite irrimediabilmente cambiate. Fino a quando sopporteremo? Quanti fratelli e sorelle dovremo piangere prima che l'Europa si desti dal vile torpore? La scia di sangue è lunga. Lo scorso 31 ottobre un aereo civile russo esplode nei cieli del Sinai. A bordo ci sono 224 persone uomini e donne, famiglie, bambini, professionisti e studenti che da Sharm-el-Sheikh si dirigono verso San Pietroburgo. C'è chi legge un libro, chi conversa con il vicino, chi ascolta la musica. All'improvviso un boato, non hai il tempo di prendere coscienza che sei risucchiato nel vuoto. È ormai certo che l'autore della strage sia il leader egiziano di una formazione islamica integralista attiva nel Sinai e legata all'Isis. Ammettiamolo: la strage aerea russa non ha suscitato un tripudio di solidarietà neppure paragonabile. Le manifestazioni di vicinanza a vittime e familiari sono state centellinate, su Twitter non è circolato l'hashtag #PrayforMoscow. Conta certamente l'ostilità verso lo zar Putin che governa la Russia con il pugno di ferro e contro l'Isis non si limita a dichiarazioni ma manda armi e truppe per fare la guerra. Quei morti, colpevoli di avere un passaporto russo, hanno suscitato una minore empatia. Era forse la prima volta che contavamo i corpi carbonizzati dal jihad islamico? Nel 2004 piangiamo i 192 morti di Madrid, insieme a duemila feriti, dispersi su binari e treni regionali a seguito dello scoppio delle bombe jihadiste. L'anno dopo le bombe scoppiano a Londra: 52 pendolari restano uccisi in quattro attentati suicidi presso tre stazioni della metropolitana e su un autobus. Stati Uniti e Gran Bretagna, si dice allora, guidano la coalizione dei volenterosi in Irak e Afghanistan, in fondo se la sono cercata. Lo scorso anno un ex militare francese legato all'Isis uccide a colpi di kalashnikov quattro persone al museo ebraico di Bruxelles. Pochi mesi dopo, il parlamento del Canada è assediato, un soldato di guardia viene ucciso: ha solo 24 anni, è più giovane di Valeria Solesin, l'italiana che voleva abbracciare la vita crudelmente interrotta al Bataclan da una mitragliata alle spalle. All'inizio dell'anno assistiamo alla mattanza nella redazione di una rivista satirica colpevole di blasfemia. Il coro globale del «Je suis Charlie» è interrotto dalle pallottole di un commando armato che irrompe ad un convegno sulla libertà d'espressione a Copenaghen. La violenza nel nome di Allah colpisce poi un volo aereo colmo di turisti e, da ultimo, un teatro della movida parigina. Che cos'è se non un bollettino di guerra? Perdonateci se non abbiamo più lacrime, le parole scarseggiano, le marce simboliche ci risultano indigeste, la voglia di pregare si è dileguata e i tweet... al diavolo i tweet.

Una data lega i terroristi da Charlie Hebdo al Bataclan, scrive Pierangelo Maurizio su “Libero Quotidiano” il 16 novembre 2015. Va bene Je suis Paris e Je suis qualunque cosa, ma forse non basta. E le scritte pacifiste a piazza Farnese a cornice dell'immensa corona di fiori forse dimostrano che non abbiamo le idee chiare. Una cosa soprattutto è ormai insopportabile. Apprendere tutte le volte che i massacratori risultino essere conosciuti dai servizi di sicurezza di Parigi che però sono sempre colti alla sprovvista. Non è credibile. Basta fare una piccola ricostruzione di 3 anni di stragi jihadiste in Francia e i risultati sono sconcertanti. Morale, i servizi francesi non ce la raccontano giusta. Certo, c' è sempre da capire quale - tra le mille segnalazioni - è quella attendibile. La Francia ha il problema della comunità musulmana più grande d' Europa. Ma non basta a spiegare i flop d' Oltralpe. Uno dei macellai di venerdì è un francese di 30 anni, «conosciuto dai servizi». È stato identificato dalle impronte digitali. Schedato dalla Dgsi, la Direction generale de la securité interieure, dal 2010: occhio all' anno. Sarebbe bastato intercettare lui. Senza contare il "profugo" siriano - un pericolo ovvio denunciato allo sfinimento da Libero, una delle poche voci - tra i carnefici, tre attentatori che vengono dallo stesso quartiere degli stragisti di gennaio nonché la pista belga già emersa allora. Non proprio fantasmi. Anche l'autore degli attentati di Tolosa e Mountaban (tre militari uccisi) e della strage alla scuola ebraica (4 morti) nel marzo 2012 era «conosciuto dai servizi». A Mohamed Merah si è risaliti grazie alla targa di uno scooter e all' ip del computer di una donna, madre di «due sospetti già sotto osservazione dei servizi antiterrorismo». E pure i killer di Charlie Hebdo, Said e Chérif Kouachi, e il complice Adamy Coulibaly dell'assalto al supermercato kosher (7-9 gennaio 2015) «erano conosciuti dai servizi». Uno dei fratelli Kouachi, Chérif, era stato arrestato nel 2008 come membro di un gruppo che reclutava combattenti da mandare in Iraq. I due fratelli Kouachi riescono ad addestrarsi in Yemen nel 2011 quando sono «persi di vista dai servizi». Coulibaly dall' età di 17 anni finisce in gattabuia cinque volte per rapina e spaccio. Una perizia psichiatrica ne evidenzia «la personalità immatura e psicopatica», «scarse capacità di introspezione». Nel 2010 - ancora - viene arrestato perché implicato nel tentativo di far evadere il terrorista Smain Ait Alit Belkacem (un simpaticone che nel '95 voleva far saltare il metrò di Parigi). Indagini che hanno coinvolto anche i Kouachi. Tutti con una sfilza di precedenti per reati comuni "politicizzatisi" in carcere (dunque facilmente agganciabili e controllabili). Tutti scarcerati poco dopo le condanne per terrorismo. Coulibaly e i fratelli Kouachi, grandi amici, sono conosciuti con altri come "quelli di Buttes-Chaumont", dal Parco dove si ritrovano e si allenano in esercizi para-militari. En plein air. Non proprio dei grandi cospiratori. A Coulibaly mancava solo di scriverlo sul biglietto da visita, che voleva andare a combattere in Siria. E gli attentati del dicembre 2014 - un automobilista si butta col furgone sui passanti, un altro assalta con un coltello un commissariato - (14 feriti), antipasto di quello che verrà a gennaio, a sua volta antipasto di quello che è arrivato venerdì sera? L' autore dell'assalto al posto di polizia, ucciso dopo aver ferito tre agenti, Betrand Nzohabonayo, passa per uno squilibrato. Però fratello di un «radicale islamista», che aveva cercato di andare in Siria, e due giorni prima sulla sua pagina facebook ha pubblicato la bandiera nera dell'Isis. Anche loro due «erano conosciuti». No, i servizi francesi non ce la raccontano giusta. Non è verosimile che gli 007 di Parigi, tra i migliori del mondo e con una delle storie più blasonate, ogni volta «si facciano sorprendere» e facciano acqua da tutte le parti. Non è pensabile. Questo è un dato di fatto. Trovare una risposta è più difficile. La più probabile è che queste cellule facciano parte del network infiltrato e di cui i francesi si sono serviti per fare il lavoro sporco in Siria, in Libia come in Iraq. Poi sono sfuggite di mano. Qualcosa tipo Bin Laden e gli Usa, giusto per capirci. A rafforzare l'ipotesi, gli assassini, da Coulibaly all' attentatore di venerdì, sono schedati dal 2010, come fosse una stessa "nidiata". Andare fino in fondo con le indagini o anche solo con una versione credibile significherebbe con buona probabilità far emergere la rete della barbe finte - cosa che nessuna intelligence può permettersi - ma anche responsabilità non solo politiche. Al governo di Parigi non si può certo chiedere - e ora poi - di mettere a repentaglio la propria sicurezza nazionale. Ma i fratelli francesi facciano almeno ammenda sugli errori - tragici - compiuti in Libia per detronizzare Gheddafi, ai quali ha tentato di opporsi solo un Berlusconi ormai troppo indebolito, e per destabilizzare la Siria di Assad. Poi, con la massima solidarietà, si faccia la guerra vera al terrore islamico. Giocarci, con questa guerra, per interessi e fini di parte è molto pericoloso. In gioco ormai sono la sicurezza di tutti i giorni, le vite dei nostri figli, il futuro dell'Europa.

L'antica liaison tra Francia e mondo arabo, scrive il 16 novembre 2015 Toni De Santoli su “La Voce di New York”. Poteva gli attentati di Parigi essere evitati? Poteva essere evitato l’avvento dell’integralismo islamico? Il problema è che stiamo parlando di mandanti ed esecutori cresciuti nel più assoluto oscurantismo, allevati nell’odio cieco e schiavi inconsapevoli di se stessi, che nulla sanno dell’antica liaison tra Francia e universo arabo...Che i francesi detestino gli arabi, o i musulmani in generale, è uno dei luoghi comuni più triti e ritriti in assoluto, come quello della “freddezza” inglese, della “pigrizia” italiana, della “ingenuità” americana. La Storia degli ultimi centocinquanta o centosessanta anni dimostra il contrario: verso il mondo musulmano, verso il mondo arabo, la Francia ha sempre nutrito un profondo interesse culturale, attratta com’era dalla “psiche” algerina, tunisina, marocchina e, in secondo luogo, siriana. Ne è dimostrazione una pubblicistica sterminata, nella quale campeggiano scritti di Camus, Malraux, Gide, di altri autori francesi ancora. La Francia sedotta, eccome, dalla comunicativa araba, dalla luminosità araba, dall’imperscrutabilità araba. La resistenza stessa dei conservatori francesi (ma anche di parecchi socialisti) alla lotta indipendentistica algerina intendeva sostenere l’istanza di una fratellanza comune in un solo Stato, in una sola Nazione, “da Calais a Tamanrasset”, come recitava uno slogan nazionalista assai in voga fra il 1959 e il 1962; vale a dire “un solo” popolo dal porto francese sulla Manica all’angolo meridionale dell’Algeria. Alla quale Algeria nel 1962 Charles De Gaulle, Presidente della Repubblica, volle concedere l’indipendenza poiché quell’indipendenza doveva essere concessa. Nemmeno la massiccia immigrazione nordafricana in Francia, con la conseguente nascita delle “banlieue”, ha saputo spezzare il legame creatosi fra francesi e musulmani nordafricani: nei “bistrò” parigini, nelle “brasserie” del Quartiere Latino, di Saint-Cloud, Montmartre, Madeleine, Havre-Caumartin, “rive gauche” o “rive droite” già quaranta o cinquant’anni fa incontravamo francesi che flirtavano con arabe, arabi che flirtavano con ragazze francesi. La musica che piaceva ai francesi di pelle bianca era la stessa che elettrizzava giovani nordafricani: la musica della Piaf, di Gilbert Bècaud, Charles Aznavour, Mireille Mathieu. Il marocchino Bob Zagouri, che sposò Brigitte Bardot, divenne seduta stante una celebrità in tutta la Francia e non solo in Francia: nessuno ebbe da ridire sulla decisione di “Babette”. Liberi professionisti, bianchi e cristiani, avevano la loro “brava” amante araba, così come la signora parigina di Place des Vosges o di Avenue Hoche poteva contare su bei virgulti arrivati dall’Atlante marocchino o da Algeri, Bona, Tunisi…. Figlie di piccoli proprietari terrieri dell’Alvernia o del Poitou-Charantes sposavano arabi di belle promesse, rampolli di famiglie parigine o marsigliesi sposavano bellezze berbere o tunisine. Il Cinema francese s’interessava al mondo arabo, giovani arabi s’iscrivevano in università francesi e non inglesi, non americane, non italiane, neppure olandesi o tedesche o austriache; salvo casi rari. In anni ancor più recenti, nessun ateneo francese ha mai respinto uno studente perché arabo, perché musulmano, perché “diverso”. Ma venerdì 13 novembre 2015, come il 7 gennaio 2015 (strage nella redazione del periodico satirico Charlie Hebdo), la furia arabo-musulmana s’è abbattuta sulla Francia: s’è ancora una volta abbattuta su Parigi. Non a caso gli attentatori hanno scelto come obiettivi due luoghi di notevole significato, ma l’uno diverso dall’altro: “La Bastille” (undicesimo “arrondissement”), in quanto emblema della Francia moderna, quella nata appunto dalla Rivoluzione del 1789; della Francia egalitaria, sì, giacobina, ma ancor più espansionistica di quella di Re Sole; e Place des Vosges, quartiere residenziale, perciò assai chic, il quartiere dei ricchi, il quartiere delle signore francesi che commettono adulterio con la stessa facilità con cui a colazione consumano caffellatte e croissants. Mandanti ed esecutori comunque nulla sapevano dell’antica “liaison” fra la Francia e l’universo arabo: quello che intendevano appunto colpire con ancor più veemenza di prima era la nazione considerata quale carceriera, sfruttatrice, padrona delle masse islamiche d’un tempo e tuttora una delle punte di diamante dell’Occidente “anti-musulmano”. Mandanti ed esecutori cresciuti nel più assoluto oscurantismo. Allevati nell’odio cieco. Schiavi inconsapevoli di se stessi. Squallide entità tuttavia capaci di commettere atroci delitti. Ma poteva tutto questo essere evitato? Poteva essere evitato l’avvento dell’integralismo islamico con la presa del potere in Iran da parte dell’ayatollah Khomeini nel 1979, presa del potere ispirata e favorita dagli Stati Uniti sotto l’influenza delle solite “teste d’uovo”? Non c’è nulla di inevitabile nella Storia, assolutamente nulla: ci si sarebbe dovuti chiedere a che cosa si sarebbe andati incontro col rovesciamento dello Scià di Persia, Rheza Palhevi…. Da allora non assistiamo che all’incalzare continuo, martellante, sanguinario dell’estremismo islamico. Ma, attenzione: oggi come oggi ogni musulmano sotto i quarant’anni d’età è un potenziale agente e strumento del terrorismo. Oggi Parigi, ancora una volta Parigi; e domani? Domani potrebbe toccare a Roma. Stalin chiederebbe, con tagliente ironia: “Di quante Divisioni dispone il Papa?

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

Parigi, 13 novembre 2015: il racconto della strage. La storia della Francia e dell'Europa è cambiata in 40 minuti. E' passata una settimana, 130 innocenti uccisi in sei attacchi, anche i jihadisti sono morti. Resta però il mistero su uno di loro. Ecco la cronaca di una notte che nessuno potrà dimenticare, scrivono Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Daniele Mastrogiacomo, Fabio Tonacci, su “La Repubblica” il 20 novembre 2015.

La chiamano l'Estate di san Martino. E la sera di Parigi è mite. La temperatura è di 15 gradi. Assenza di vento. Allo Stade de France, banlieue nord di Saint-Denis, è in programma alle 21.00 l'amichevole Francia-Germania. I caffè hanno i tavolini all'aperto. Nella città che non ha terrazzi, le chiamano terrasse. Il cartellone del teatro Bataclan, al 50 di Boulevard Voltaire, ha in programma il concerto degli "Eagles of Death Metal", gruppo garage rock californiano. Prima tappa di una tournée che deve toccare altre città della Francia. Da settimane non si trova più un solo biglietto.

Alle 19.30 il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve è a Montrouge, periferia sud di Parigi, per consegnare le onorificenze agli agenti della polizia municipale che, l'8 gennaio, ventiquattro ore dopo la strage di Charlie Hebdo, hanno per primi intercettato Amedy Coulibaly, l'assassino della vigilessa Clarissa Jean-Philippe, impedendogli di consumare una carneficina che, purtroppo, avverrà il giorno successivo.

Alle 20.30, il ministro è di ritorno a Place Beauveau, sede del Ministero dell'Interno. I giorni di Charlie sono lontani. O almeno così sembra. Cazeneuve discute brevemente con i suoi collaboratori dei due falsi allarmi terrorismo della giornata. Alla Gare de Lyon, in parte evacuata, e al "Molitor", vecchio hotel art decò sulla riva sinistra della Senna che ospita la nazionale tedesca. Non c'è motivo di ansia. "#Diemannschaft ist zuruck im Hotel. Voller Fokus auf #Frager", "Siamo tornati in albergo. La testa è solo alla Francia", twitta la nazionale tedesca. A duecento metri da Place Beauvau, il presidente François Hollande sta lasciando l'Eliseo diretto allo stadio. I titoli del telegiornale danno notizia dello sciopero dei medici contro la riforma del Governo e dell'annunciata uccisione di Jihadi John in Siria. Consigliano di anticipare i regali di Natale, annunciano la riapertura del museo Rodin e l'attesa per la partita della sera. "Il primo match contro la Germania dopo l'eliminazione ai quarti nel mondiale del Brasile". Almeno nove uomini si salutano per l'ultima volta e salgono su tre macchine di colore nero. Una Volkswagen Polo, una Seat Leon, una Renault Clio. Hanno tutte e tre targa e immatricolazione belga. Sono state affittate pochi giorni prima in un'agenzia di noleggio auto di Bruxelles a nome Salah Abdeslam e Ibrahim Abdeslam. Due fratelli residenti nel quartiere Kareveld di Molenbeek. Sono arrivate a Parigi giovedì sera a distanza di dieci minuti l'una dall'altra, in convoglio. Hanno depositato i loro passeggeri in un appartamento di Bobigny affittato per una settimana attraverso il sito homeholidays e in due stanze al terzo piano del residence Apart'City Paris di Alfortville. In avenue Jules Rimet, il vialone che costeggia il settore est dello Stade de France, un giovane siriano è chiuso in un bomber nero. Ha un passaporto in cui dice di chiamarsi Ahmad Almohammad, nato il 10 settembre 1990 a Edlib, Siria. Ha raggiunto l'Europa cinque settimane prima. Il 3 ottobre, un barcone di profughi lo ha sbarcato sull'isola di Leros. Le autorità greche lo hanno fotografato, gli hanno preso le impronte digitali e riconosciuto un lasciapassare temporaneo nello spazio di Schengen. Un timbro che gli ha consentito di raggiungere la Serbia e, da lì, la Croazia. L'ultimo tratto di strada verso i fratelli che lo aspettano a Molenbeek, Bruxelles, Belgio. La città di Abdelhamid, di Salah, di Ibrahim. La porta verso il Paradiso. Ahmad non ha il biglietto. La partita Francia-Germania è cominciata da 10 minuti. Il risultato è sullo 0-0. Hollande, in tribuna, contempla lo spettacolo degli 80 mila dello Stade. Ahmad ha caldo. È fradicio di sudore. Entra nei bagni della birreria di fronte al cancello D. Il bomber che nasconde la cintura imbottita di perossido di acetone (Tatp) e bulloni lo soffoca. Si dirige verso i lavabi. Si appoggia con le braccia tese di fronte allo specchio. Incrocia lo sguardo di Blay Mokono, un uomo di colore. Il cronometro del tabellone segna il minuto 10 della partita. Blay recupera il figlio tredicenne Ryan e l'amico Rashid al bancone della birreria. Sono in ritardo. Devono entrare. Ahmad lo urta con la spalla. Non chiede scusa. Prosegue verso i tornelli e la biglietteria del cancello D. Lo affronta con garbo uno degli steward. "Non può entrare, monsieur ". Ahmad rincula. Ma non si dà per vinto. Avanza di nuovo di qualche passo. "Monsieur, le ho già detto che non può entrare senza biglietto". Ora il tabellone indica il minuto 16 e 24 secondi. Sull'ala sinistra, lavora il pallone Martial con un profondo retropassaggio. Il boato è avvertito in tutto il catino ed è confuso con un petardo. Un innocente è morto in un lampo di fuoco e bulloni. Si chiama Manuel Dias. Ha 63 anni. E' il primo di 130 vittime. La folla ondeggia in una ola. Sulle tribune si alzano felici i 1.000 impiegati della compagnia aerea GermanWings in trasferta premio, per cancellare il lutto dello schianto sulle Alpi francesi. Il pallone ora è dei tedeschi. Un rimpallo lo riconsegna a Evra. Diciannovesimo minuto e 35 secondi. Di fronte al cancello H, lungo le vetrine di Decathlon, in corrispondenza dell'insegna Gaumont, un altro "fratello" muove i suoi ultimi passi. Un secondo boato. Un uomo della sicurezza presidenziale si avvicina in tribuna ad Hollande. Si china leggermente e sussurra all'orecchio del Presidente. "Monsieur le Président le Quick a sauté". Il presidente sa cosa significa. Per sessanta secondi fissa il vuoto. Quindi si alza senza una parola. Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco seduto alla sua sinistra, lo insegue con lo sguardo mentre prende la via dei sotterranei. Un corteo di macchine nere esfiltra Hollande verso Place Beauvau. Dieci chilometri lo separano dal bunker del ministero dell'Interno.

21.53. A Bilal Hadfi resta l'ultimo giro di orologio dei suoi vent'anni. In piedi, sotto un palo arrugginito fissa le indicazioni stradali. Autostrada A86, La Courneuve centre, Aubervilliers, S33. Lo stadio è un rumore di fondo lontano un chilometro. Quasi quanto il ricordo dei mesi da foreign fighter in Siria. Bilal pigia l'interruttore che lo spegne per sempre. Un brandello di carne e sangue imbratta le indicazioni per la S33. Negli spogliatoi dello Stade, Sebastian Lowe, ct della Germania e Didier Dechamps, collega francese, annuiscono uno di fronte all'altro con accanto i funzionari Uefa e agenti della polizia. Ora sanno. Ma non devono dire. Ne va della vita degli 80mila. Per nessuna ragione al mondo devono sapere. La partita deve continuare. All'angolo tra rue Bichat e rue Alibert, Ouidad Bakkali, 29 anni, assessore alla cultura di Ravenna, marocchina di seconda generazione nata in Italia, ordina una birra. Intorno a lei, ai tavolini del "Carillon" una folla di universitari ride tra uno "waikiki" e l'altro di rhum e pera. Shot da due euro a bicchierino. Tra Bastille e canale Saint Martin, questo spicchio dell'undicesimo arrondissement non parla più della sapienza dei faubourg artigiani. Ha la gioia e l'energia della movida e la più alta densità di locali della città. Nella Seat Leon nera con targa belga GUT 18053, tre uomini hanno di fronte 4 chilometri, 15 minuti e 39 vite umane da prendersi. Una vita ogni 100 metri. Al tavolo di Ouidad e del suo fidanzato sono arrivate le birre. Accanto ai due ragazzi, una coppia sta litigando. Una macchina fa manovra in corrispondenza dell'ingresso del locale. È una mamma con la bambina sul sedile posteriore. Deve togliersi di mezzo. Non fa in tempo. Il calibro 7.62 del kalashnikov imbracciato dall'uomo sceso dalla Seat le stacca la testa. Ouidad pensa a un petardo. Poi sedie e tavolini cominciano a volare. I ragazzi urlano. Il sangue imbratta l'asfalto. Le rose delle raffiche sono ad alzo zero. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sull'altro lato della strada, il proprietario del "Petit Cambodge" tira furiosamente giù la saracinesca e invita tutti a stendersi a terra dentro il locale. L'uomo col fucile si avvicina. Le raffiche sbriciolano il cartongesso del muro. Ouidad vede cadere due ragazze come fantocci. Prega e piange. La Seat riparte sulla rue Alibert lasciando dietro di sé 100 bossoli e 15 cadaveri.

21.32. In rue della Fontaine au Roi, ai piccoli tavoli della pizzeria "Casa Nostra", la pioggia di schegge di vetro anticipa di qualche secondo la morte che porta la Seat. Una donna, seduta all'esterno, si rannicchia a terra. "C'est pour la Syrie", sente gridare. L'uomo che le si avvicina alza il kalashnikov e lo rivolge verso il basso. Appoggia la canna al cranio della donna. Tira il grilletto. Una, due volte. L'arma è inceppata. Risale in auto. Non c'è tempo. E cinque cadaveri possono bastare.

21.36. Nella sua casa dell'undicesimo arrondissement, il primo ministro Manuel Valls ha appena chiuso la telefonata che lo avvisa che qualcuno ha dichiarato guerra alla Francia. Che il Presidente sta raggiungendo il bunker del ministero dell'Interno e che si sta sparando nel quartiere in cui il premier abita. Ancora. Ancora una volta a dieci mesi di distanza da quella mattina di Charlie Hebdo. Stesso quartiere. Stesso odio. In rue de Charonne, alla "Belle Equipe" si festeggia Houda Saadi. Compie 36 anni e si è presa una sera fuori. I suoi bambini sono a casa. Al tavolo con lei, insieme alla sorella, c'è, con altri amici, Ludovic Bombasse. Ha 40 anni, è nato in Congo, ama i libri e gli restano pochi secondi di vita. La Seat è alla sua ultima stazione di morte. Houda non ha il tempo di capire. Né lo ha sua sorella. Ludovic decide di fare scudo a Chloé, una ragazza che conosce appena e che le siede affianco. Nascosto dietro il bancone, Gregory Reibenberg, il proprietario del locale, stringe a sé sua moglie Djamila. La sente andarsene via, trafitta da una raffica. Lei è musulmana. Lui ebreo. La contabilità dell'orrore ha spuntato la sua trentanovesima vita. All'esterno della "Belle Equipe", una ragazza è seduta al tavolino. Nella mano stringe un calice di vino. La testa è reclinata sul tavolo. Come dormisse. La Seat nera è ripartita. Un poliziotto di quartiere corre con la pistola in pugno verso quel tavolo. E' del commissariato dell'undicesimo. Lo stesso che è intervenuto la mattina di Charlie. Il poliziotto si china sulla ragazza, che ha ancora gli occhi sbarrati. Crolla in ginocchio. Piange. Sul maxi-schermo televisivo del "Comptoir Voltaire", il rumore delle raffiche nel quartiere non ha fatto in tempo ad arrivare, né a farsi strada tra le risate e il vociare che accompagnano le immagini della partita. Ibrahim Abdeslam è sceso per l'ultima volta dalla Seat che prosegue verso Montreuil. E per l'ultima volta ha guardato negli occhi suo fratello Salah. Si siede a un tavolo.Catherine, la cameriera, gli chiede cosa gradisca. Ibrahim non muove un muscolo. Non le risponde. Si alza lentamente e dopo due passi salta in aria. C'è sangue dappertutto. La tv continua ad andare. Ha segnato Giroud. Da qualche minuto, in Rete, gira il tweet con la foto delle luci del caffè "Comptoir Voltaire". E' un'immagine singolare e sgranata. Scattata dal tetto di un edificio che guarda boulevard Voltaire e postata, alle 21.16, dal profilo twitter "OP_IS90". L'acronimo è corredato da una foto di al-Zarqawi, il macellaio di Falluja. In una Polo nera con targa belga, parcheggiata di fronte al teatro "Bataclan", degli uomini sono chiusi da due ore dentro l'abitacolo. I due sui sedili anteriori smanettano sul cellulare. E' arrivato il tweet di "OP_IS90". Si chiamano Ismael Mostefai, 29 anni e Samy Amimour, 28. Hanno lo stesso passaporto francese. Sono nati nella stessa città, Parigi, ma in due banlieue diverse. Hanno avuto due vite diverse. Samy, nel 2013, è fuggito dalla Francia verso i campi di Daesh. Non fuma più. Ha sposato la donna che le ha assegnato il Califfato. L'ultima volta che ha visto il padre, un venditore ambulante di vestiti, era ancora in Siria e gli ha riconsegnato la lettera con cui la madre lo implorava di tornare e i 100 euro che quella lettera nascondeva. "Non ne ho più bisogno", ha detto. Anche Ismael ha toccato l'orrore siriano. Ma, al contrario di Samy, che è inseguito da un mandato di cattura internazionale per terrorismo, lui è un invisibile. Dai tavoli del ristorante "Cellar", Cristophe continua a osservare quella Polo, dentro vede quattro ragazzi. Due ore prima ha chiesto loro di spostarla. Ma non ha avuto neppure risposta. Li ha fissati per un attimo negli occhi e ha avuto la sensazione di aver incrociato lo sguardo vuoto di zombie. Non ha insistito più. Anche se non può fare a meno di chiedersi per quale diavolo di motivo, da due ore, quella macchina in sosta abbia le luci spente ma il motore sempre acceso. Cristophe guarda per l'ultima volta l'orologio. Sono le 21.30. Decide di andarsene. È la migliore decisione della sua vita. Nella sala del Bataclan il concerto è cominciato. Da mezz'ora Jesse Hughes pesta sulla sua chitarra. La folla è felice. In mille e cinquecento tra platea e galleria ondeggiano e ballano facendo tremare le strutture in legno di questo bizzarro edificio dell'Ottocento. Una guazzabuglio architettonico che incrocia suggestioni cinesi. I flash dei cellulari che scattano selfie lampeggiano insieme alle luci stroboscopiche del palco. La band è su di giri come chi ascolta. Jesse ha piantato un coltello in uno degli amplificatori. Il rock degli Eagles and Death Metal è anche questa roba qui.

21.42. Il motore della Polo in sosta in boulevard Voltaire si spegne. I quattro uomini scendono dall'auto. Il cellulare torna a illuminarsi. Il messaggio ha 18 battute di testo. "On est parti. On commence". Siamo partiti. Cominciamo. Il destinatario del messaggio è Abdelhamid Abaaoud. Il mastermind della cellula. Lo psicopatico di origini marocchine con passaporto belga che trascina cadaveri nel deserto di Raqqa con il suo fuoristrada. L'uomo sfuggito in gennaio all'operazione che ha smantellato la cellula di Verviers. Quello che la Francia dà per certo in Siria, ma che in Francia è tornato per chiudere il conto. "Vite, vite! Partez, ça tire". Veloci, veloci, sparano. "Didi" è un'istituzione al Bataclan. Un po' buttafuori, un po' butta dentro, un po' angelo custode per chi, a notte, non si regge più in piedi per l'alcool. Ne ha viste tante. Non le ha viste tutte. Non quello che gli si è appena parato di fronte agli occhi. Due ragazzi usciti per fumare sono stati giustiziati da quei cavalieri dell'Apocalisse che ora puntano a passo svelto verso l'interno del teatro. Sono pochi passi. Tra la strada e la "fosse" dove si balla, si grida, si suda, sono pochi metri. Una porta a vetri, il guardaroba, due ante girevoli. "I meet the Devil and this is his song". Incontro il Diavolo e questa è la sua canzone, canta Jesse Hughes annunciando una delle loro hit, "Kiss the devil". Bacia il diavolo. La prima raffica sulla platea ne falcia una decina, ma suona come un effetto speciale. La seconda mette in fuga Hughes, mentre il chitarrista, Dave Catching, continua ancora per qualche istante a tenere il centro della scena. Poi, l'intera band si rifugia nel retro palco. La musica si interrompe e ora si sentono solo grida. Di dolore, di terrore, di implorazione. Le raffiche non cessano un solo istante. Chi non è riuscito a fuggire usando le uscite di emergenza sui lati della platea ora è sdraiato a terra. Sono centinaia. Qualcuno si finge morto. Qualcuno si copre con i morti. Altri strisciano in un lago di sangue e brandelli di carne. Gli uomini del commando hanno il volto di bambini e la voce da orchi vendicatori. "Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui". "È colpa del vostro presidente Hollande". In due, cominciano ad aggirarsi tra i corpi stesi. "Se qualcuno muove il culo, lo ammazziamo". Ma è una minaccia infame. Perché loro ammazzano anche chi resta immobile. Con un piede colpiscono chi è a terra per verificare se sia in vita o meno. E al primo cenno di reazione fanno fuoco alla nuca. Chi non è più in platea è in cerca di un qualunque nascondiglio. Le intercapedini del teatro, i camerini, i bagni, i locali della attrezzeria. In una delle toilette, un gruppo di ragazzi e ragazze sfonda il controsoffitto e si infila nei condotti della areazione. Una donna incinta si appende ad una delle finestre. Qualcuno salta giù chiudendo gli occhi fracassandosi gambe e bacino. Una colonna umana riesce ad arrampicarsi fino ai sottotetti. Qualcuno, guadagnate le scale antincendio, raggiunge il tetto del teatro e di lì salta sul palazzo prospiciente. Bussa disperatamente a porte e finestre.

22.01. Bfm, la televisione all news francese, annuncia: "Una sparatoria a colpi di kalashnikov ha provocato diversi morti in un ristorante nel decimo arrondissement di Parigi".

22.18. L'agenzia di stampa Reuters batte il primo take che annuncia l'orrore fuori dai confini del Paese. "Two dead, seven wounded in shooting in restaurant in central Paris". Due morti, sette feriti in sparatoria nel centro di Parigi. Nessuno immagina. Nessuno sa. Tranne chi è dentro il teatro e chi verso il teatro sta correndo impugnando una pistola. È un commissario di quartiere che ha raccolto il primo allarme e che resterà un angelo senza nome. Entra nell'edificio scavalcando decine di cadaveri. E nella hall distingue la sagome di uno dei macellai. Lo protegge soltanto un giubbotto antiproiettile. E quando le raffiche cominciano a raggiungerlo risponde al fuoco. Uno dei tre con il kalashnikov salito sul palco, crolla. Gli altri due fuggono verso la galleria. All'esterno del Bataclan arriva il furgone blindato nero della BRI la "Brigade recherche intervention", l'unità di élite della polizia giudiziaria. Gli uomini che ne scendono sono al comando di Christophe Molmy. È uno sbirro che, dieci mesi prima, ha condotto il blitz all'Hypercacher di Porte de Vincennes dove si era asserragliato Amedy Coulibaly. Ha scritto un romanzo, Loups blessés, lupi feriti, sull'umanità storta che ha combattuto per una vita: banditi, tossici, rapinatori. Gli mancano i martiri di Allah. Li ha trovati. Molmy è un uomo colto. Sa dare alle cose il loro nome. "E' l'inferno di Dante ", comunica alla centrale dall'interno del teatro. Pile di corpi smembrati, lamenti. Un silenzio di morte bucato dal concerto di decine di suonerie di cellulari che squillano a vuoto accanto a ragazze e ragazzi che non possono più rispondere. I due martiri in galleria si sono barricati in un locale con venti ostaggi. Vorrebbero negoziare. O almeno così dicono. Ma non si capisce cosa. Né a che prezzo. Molmy e le teste di cuoio che sono salite in galleria dove tutto è ancora buio e le uniche luci sono quelle dei puntatori laser dei fucili di precisione della BRI, raggiungono la porta che li separa dai due terroristi e dagli ostaggi. Uno di loro grida "Fermatevi o ci uccideranno tutti!". Convincono gli assediati a prendere un cellulare attraverso cui comunicare con il negoziatore della BRI. Lo stesso che aveva inutilmente trattato per ore con Coulibay. Con i due martiri va ancora peggio. Non riesce neppure il primo degli step del protocollo del negoziatore. Quello che impone di stabilizzare l'interlocutore. Raffreddarlo. Sgonfiarlo di adrenalina. Riportargli i battiti cardiaci a una condizione di lucidità. Dall'altra parte della porta si farfuglia soltanto di Siria e Hollande. Si minacciano decapitazioni e non si negozia nulla. Molmy capisce che i 20 ostaggi non sono e non saranno moneta di scambio. Sono solo animali sacrificali. E anche per questo quando i due provano a chiamare Bfm fanno cadere la linea del cellulare. Non vogliono che quello che sta per accadere vada in diretta televisiva e in mondovisione. Sono le 23.45. Negli ospedali di Parigi sono stati riaperti tutti i blocchi operatori d'emergenza e tutti i chirurghi richiamati. Dalle ambulanze vengono sbarcate lettighe su cui sono stesi uomini e donne che sembrano usciti da una trincea. Sul marciapiede di boulevard Voltaire il prefetto di Parigi Michel Cadot è in linea con Hollande e il ministro dell'Interno Cazeneuve. Il presidente ha appena parlato in tv alla nazione, visibilmente sconvolto. "Quello che vogliono è farci paura". Al telefono il Prefetto Cadot annuisce. La decisione è presa. Si dia l'assalto. Anticipate da lunghi minuti di scambio di fuoco, due deflagrazioni scuotono il piano superiore del Bataclan. È finita. Bisogna solo evacuare i feriti e contare i morti. Ottantanove. Ai tavolini del "Les Béguines", un pub nel cuore di Molenbeek, Bruxelles,Mohamed Hamri e Hamza Attou stanno fumando l'ennesima canna e buttando giù l'ennesima birra. Il locale ha riaperto da qualche giorno dopo essere stato chiuso dalla polizia belga per droga. Da due anni il proprietario èIbrahim Abdeslam. Da qualche ora, di quel proprietario è rimasto un tronco d'uomo carbonizzato in boulevard Voltaire. Ma questo Mohamed e Hamza non lo sanno. O, almeno, racconteranno di non saperlo. Squilla il cellulare. E' Salah, il fratello di Ibrahim. Chiama da Parigi. "Dimmi fratello". "Sono qui a Parigi. Ho bisogno che tu mi venga a prendere. Ora. Pago io la benzina e l'autostrada. Ti aspetto. Ci vediamo a Barbès", il quartiere arabo del diciottesimo arrondissement, dove verrà ritrovata la terza auto. La Clio nera. Alle tre del mattino una Volkswagen Golf 3 grigia targata ILJV 973 che percorre l'autostrada A2 Bruxelles-Parigi passa la frontiera tra il Belgio e la Francia. A bordo, Mohamed e Hamza, che dell'auto è il proprietario. Non c'è ombra di gendarme lungo la strada. La Francia ha appena annunciato la chiusura delle frontiere, ma il dispositivo fatica a mettersi in moto. Alle 5, la Golf è a Parigi e carica Salah.

Alle 9,15 del mattino di sabato 14 novembre, la Golf grigia va in senso inverso. All'altezza di Cambrai, accosta all'invito di una pattuglia della Gendarmerie francese. I quattro uomini mostrano i documenti. L'agente li controlla al terminale della banca dati del ministero dell'Interno. Tra le mani si ripassa il documento di quell'uomo indicato come Salah Abdeslam. Risultano precedenti per furto e spaccio di droga. Il gendarme torna alla Golf e restituisce i documenti ai tre uomini. "Bon voyage Monsieur".

L'attacco agli Usa dell'11 settembre 2001: gli schianti, il fumo e le vittime che cadono dal cielo, scrive la Redazione di Tiscali L'America subiva il peggior attacco della sua storia. E oggi quell'11 settembre del 2001 è ancora vivo perché alimentato da nuovi timori. Ecco la successione, minuto per minuto, della tragedia che ha cambiato anche gli equilibri politici internazionali. L'ora indicata è quella di New York e Washington, indietro di sei ore rispetto a quella italiana.

7.59 - Il volo American Airlines 11 decolla dal Logan International Airport di Boston. Sul Boeing 767, diretto a Los Angeles, vi sono 95 persone.

8.14 - Il volo United Airlines 175 decolla dallo stesso aeroporto con 65 persone a bordo. Anche questo è un Boeing 767 e anche questo è diretto a Los Angeles.

8.15 - Primo segnale di allarme. Il volo AA11 non rispetta le disposizioni dei controllori di volo.

8.15 - Il volo American Airlines 77 decolla dal Dulles Airport di Washington. E' un Boeing 757 con 64 persone a bordo, diretto a Los Angeles.

8.40 - Boston informa il Norad (North American Aerospace Defense Command) che il volo AA11 è stato probabilmente dirottato.

8.42 - Il volo UA93 decolla da Newark (New Jersey) alla volta di San Francisco. E' un Boeing 757, con a bordo 44 persone.

8.43 - La Faa (Federal Aviation Administration) notifica al Norad che anche il volo UA175 è stato dirottato.

8.46 - Il volo AA11 si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Il Norad ordina il decollo immediato di due caccia F-15 dalla base di Falmouth (Massachusetts).

8.49 - La Cnn interrompe le trasmissioni. "Un aereo ha colpito una delle torri del World Trade Center".

8.50 - La prima autopompa dei vigili del fuoco giunge al Wtc.

9.00 - Il presidente George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota (Florida), viene informato dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice che un aereo ha colpito un grattacielo del Wtc.

9.03 - Il volo UA175 colpisce la Torre Sud.

9.07 - Bush è informato dal capo di gabinetto Andrew Card che "un secondo aereo ha colpito la seconda torre".

9.16 - La Faa informa il Norad che anche il volo UA93 è stato dirottato.

9.21 - Le autorità di New York chiudono i ponti e i tunnel di accesso a Manhattan.

9.24 - Il Norad apprende che anche il volo AA77 è stato dirottato.

9.26 - La Faa ordina il blocco di tutti i decolli negli aeroporti Usa.

9.30 - Bush in Florida: "L'America è sotto attacco".

9.32 - Wall Street interrompe le operazioni.

9.37 - I controllori di volo di Washington avvertono che un aereo non identificato è diretto verso la capitale.

9.43 - Il Volo AA77 colpisce il Pentagono.

9.45 - La Casa Bianca viene evacuata. Il vicepresidente Dick Cheney è portato nel bunker blindato sotto la residenza. La Faa blocca il traffico aereo sugli Usa.

9.55 - L'Air Force One con a bordo Bush decolla dalla Florida. Bush telefona a Cheney e ordina l'allerta delle forze militari Usa nel mondo.

9.58 - I passeggeri del volo UA93, informati di quanto accaduto agli altri velivoli, si scagliano contro i dirottatori per prendere il controllo dell'aereo.

9.59 - Crolla la Torre Sud.

10.03 - Il volo UA93 precipita in un campo della Pennsylvania, nei pressi di Shanksville.

10.28 - Crolla anche la Torre Nord.

10.45 - Le autorità ordinano l'evacuazione di tutti gli edifici federali di Washington.

12.36 - Bush parla alla nazione da Barksdale, Indiana. "La nostra libertà è stata attaccata da un codardo senza volto. La determinazione della nostra grande nazione è stata messa alla prova. Supereremo questa prova".

13.02 - Il sindaco di New York Rudolph Giuliani ordina l'evacuazione di Manhattan a sud di Canal Street.

13.27 - Dichiarato lo stato di emergenza a Washington.

14.50 - Bush si sposta in aereo al quartier generale del Comando Strategico Usa nella base aerea Offut (Nebraska) dove presiede una video-conferenza con i membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Washington.

17.20 - Crolla anche il Seven World Trade Center, un edificio di 47 piani.

18.45 - Bush rientra alla Casa Bianca.

20.30 - Il presidente parla a reti unificate alla nazione. "I responsabili la pagheranno. L'America non farà distinzioni tra i terroristi e coloro che li ospitano".

21.00 - Bush torna a riunirsi con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Viene discusso anche un primo piano di rappresaglia militare contro i terroristi.

Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.

I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.

Le puntualizzazioni saccenti della sinistra a sinistra.

DISINFORMAZIONE. Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Doppia disinformazione: da una parte una frase associata ad Oriana Fallaci, ma non è sua, mentre il contenuto di quella frase è stato alterato riportando una considerazione errata sul terrorismo, scrive il 18 novembre 2015 David Tyto Puente su “Bufale”. Da qualche giorno, ma già a inizio 2015 in seguito all’attentato terroristico contro Charlie Hebdo, viene largamente condivisa questa frase associata erroneamente ad Oriana Fallaci e citata da Giuliano Ferrara durante una puntata di Servizio Pubblico: Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. In realtà si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed (all’epoca direttore della televisione Al Arabiya) tratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”: Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani. Tornando alla frase diffusa online e citata da Ferrara a inizio 2015, in questo articolo raccoglieremo qualche esempio di terrorismo di matrice non islamica.

Che cos’è il terrorismo? Prima di parlare di terroristi bisogna capire che cos’è il terrorismo: Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione diazioni criminali violente, premeditate ed atte a suscitare clamore come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ai danni di enti quali istituzioni statali e/o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi. Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo è definito come terrorista, termine che in storiografia indica un membro del governo in Francia durante il periodo del Regime del Terrore. In realtà non esiste una definizione accettata da tutti del terrorismo, ma ne è stata data una, nel 1937, dalla Società delle Nazioni: “fatti criminali diretti contro lo Stato in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone”. Fatti criminali in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone. Teniamolo a mente.

Le statistiche. Secondo gli studi svolti dall’FBI, nell’arco di tempo tra il 1980 e il 2005, il 94% degli atti terroristici negli Stati Uniti non sono di matrice islamica. In questo grafico possiamo vedere che il 6% è di matrice islamica, il 7% di matrice ebraica, il 42% dei latinos e via dicendo. È innegabile il fatto che il numero di vittime dell’11 settembre sia ben superiore rispetto agli altri episodi. Ricordiamo che per atti terroristici non si considerano solo esplosioni o kamikaze. Ecco le tipologie di atti terroristici registrati dallo studio dell’FBI: Tutti i terroristi sono musulmani è come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. Tra tutti i pregiudizi che calano sugli italiani il peggiore è senz’altro l’assioma “italiani=mafiosi”. All’estero incontriamo sempre qualcuno che appena sa che siamo italiani casca in questo luogo comune che, in un modo o nell’altro a seconda della pazienza di ognuno di noi, ci fa imbarazzare per la sua stupidità. Sentirci dare dei “mafiosi” è un insulto, per molti anche molto grave. Per chi non se ne è reso ancora conto, la Mafia è un gruppo terroristico a tutti gli effetti e di certo non è di religione musulmana.

Il terrorismo in Italia – Gli “anni di piombo”. La storia del terrorismo italiano è ben impressa nella memoria del nostro Paese, terrorismo ad opera degli stessi italiani nostri connazionali. Il periodo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta viene ricordato con il nome “anni di piombo” di cui ricordiamo la “strategia della tensione” (strategia politica da realizzare mediante un disegno eversivo, tesa alla destabilizzazione o al disfacimento di equilibri precostituiti). Non possiamo assolutamente dimenticarci le stragi di quei periodi:

Strage di piazza Fontana a Milano (diciassette vittime e ottantotto feriti);

Strage di Gioia Tauro (sei vittime e sessantasei feriti);

Strage di Peteano a Gorizia (tre vittime e due feriti);

Strage della Questura di Milano (quattro vittime e una quarantina di feriti);

Strage di Piazza della Loggia a Brescia (otto vittime e centodue feriti);

Strage dell’Italicus (Strage sull’espresso Roma-Brennero, dodici vittime e centocinque feriti);

Strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti);

Così come non possiamo dimenticarci le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.

Il terrorismo in Italia – La Mafia. Come dicevamo in precedenza, non si può negare in alcun modo che la mafia sia un gruppo terroristico a tutti gli effetti, la storia ne è testimone. Non bisogna dimenticare le stragi compiute ad atto della malavita organizzata:

Strage del Rapido 904 (17 morti e 267 feriti);

Strage di Pizzolungo (l’obiettivo era il magistrato Carlo Palermo, ma invece vennero uccisi una donna e dei suoi due figli gemelli);

Strage di via dei Georgofili (cinque morti e una quarantina di feriti);

Strage di via Palestro (cinque morti);

La strage di Capaci (dove rimasero uccisi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre una decina di persone restarono ferite);

La strage di via d’Amelio (dove rimasero uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta, mentre ventitré persone restarono ferite).

Il terrorismo cristiano. Nella storia non esistono solo terroristi di religione islamica o ebraica, ma anche di fede cristiana: Il Terrorismo Cristiano comprende atti di terrorismo compiuti da gruppi o individui che citano obiettivi o motivazioni da loro interpretati come "cristiani", o entro un contesto di base di violenza tra diverse fazioni e/o pregiudizi quali l’intolleranza religiosa. Come altre forme di terrorismo religioso, i terroristi cristiani hanno indicato interpretazioni di principi di fede – in questo caso interpretazioni del Vecchio Testamento (bibbia) – come propria ispirazione per giustificare violenza e omicidi.

Il massacro di Utøya. Non possiamo dimenticarci del Massacro di Utøya, in Norvegia, ad opera del terrorista cristiano protestante Anders Behring Breivik, dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Lui stesso si autodefinisce “salvatore del Cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950“. Il suo gesto portò alla morte ben 77 persone, ma l’obiettivo di Breivik fu quello di mandare un segnale al popolo norvegese contro il Partito Laburista e fermare la distruzione della cultura norvegese causata dall’immigrazione musulmana.

Il movimento ultracattolico Christian Identity e il gruppo Army of God. Un gruppo ultracattolico che ritiene i cattolici ariani la “Razza Eletta del Signore”, guidati dal terrorista Eric Robert Rudolph (foto sotto), furono i colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 (111 feriti ed un morto), della bomba contro la clinica per aborti ad Atlanta ed il bar Otherside Lounge (bar frequentato da clientela lesbica) nel 1997, della bomba contro la clinica per aborti di Birmingham nel 1998. Negli Stati Uniti d’America è presente anche un gruppo terroristico chiamato “Army of God“, a cui era associato anche il terrorista Eric Robert Rudolph, i quali rivendicarono gli attentati del 1997 contro le cliniche per aborti ed inviarono oltre 500 lettere contenenti polvere bianca, spacciata per antrace, a 280 operatori nel 2001. Nel 1999 furono arrestati e deportati da Israele i membri del gruppo ultracristiano Concerned Christians grazie all’operazione “Operation Walk on Water”, la quale aveva sventato il loro attentato contro la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Il gruppo terroristico ultracristiano era convinto di compiere un atto necessario per il ritorno di Gesù Cristo. Da non dimenticare il famoso gruppo terroristico americano Ku Klux Klan. Il gruppo terroristico americano giustificava la sua azione contro i neri e contro gli ebrei attraverso l’interpretazione di alcuni versetti della Bibbia tra cui quello della Genesi 9, 24-27: «Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli! Disse poi: Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» Per quanto possa sembrare strano, nella simbologia del KKK c’era anche la croce che brucia, simbolo usato per indurre terrore.

Il terrorismo ebraico. Non bisogna dimenticare il gruppo paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi giudicato terrorista dal Regno Unito che operò durante il controllo britannico della Palestina dal 1931 al 1948, anno in cui il gruppo fu disciolto e i suoi membri vennero integrati nelle neo-costituite Forze Israeliane di Difesa. Da citare anche il gruppo paramilitare sionista Lohamei Herut Israel (chiamato dai britannici Banda Stern), di cui bisogna ricordare il massacro di Massacro di Deir Yassin, dove vennero uccise più di 100 arabi costringendo i superstiti a lasciare l’insediamento. Da non dimenticare l’attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946 (foto sotto), dove vennero uccise 91 persone di varie nazionalità. L’Italia se li dovrebbe ricordare soprattutto per l’attentato compiuto a Roma il 31 ottobre 1946, dove tre giovani terroristi attaccarono l’ambasciata britannica situata presso Porta Pia facendo esplodere due ordigni che causarono la totale distruzione dell’edificio.

L’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda. Non tutti conoscono l’esistenza dell’Esercito di resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana (che opera anche nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana). Il gruppo è guidato da Joseph Kony (foto sotto), il quale si dichiara fondamentalista cristiano contro all’Islam e a favore della creazione di una teocrazia basata sui Dieci Comandamenti.

I massacri degli islamici in Africa centrale. Parliamo dei massacri ad opera dei cristiani ed animisti anti-Balaka nello Stato di Centr’Africa, dove la minoranza musulmana viene massacrata. Nel solo mese di gennaio 2014 vi furono circa 1000 vittime, ma il conflitto dura da anni. A denunciare questi massacri fu Amesty International nel 2014. Ciò causò la fuga di numerosi credenti musulmani verso i paesi vicini.

Libano e Palestina. Non bisogna dimenticare il Lebanese Phalanges Party, il “partito delle falangi” di matrice cristiana, le cui milizie compirono i massacri di Sabra e del campo profughi di Shatila ai danni delle popolazioni musulmane e palestinesi durante la guerra civile libanese (1975-1990).

Eppure Ayman Al-Zawahiri, terrorista egiziano, leader di Al-Qā'ida: ha pronunciato queste frasi:«Il nostro messaggio per voi è chiaro, forte e definitivo: non vi sarà alcuna salvezza fino a quando non vi ritirerete dalla nostra terra, smetterete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse, porrete fine al vostro supporto agli infedeli e alla corruzione dei governanti....E' un fatto certo che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto certo, ed eccezionalmente doloroso, che quasi tutti i terroristi sono musulmani.....Siamo una nazione fatta di pazienza. E noi resisteremo per combattervi, se Dio vorrà, fino all'ultimo minuto....Dobbiamo dissanguare economicamente l'America provocandola, in modo che continui a spendere massicciamente sulla sicurezza. [Dichiarazione del 13 settembre 2013].

Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” del 19 novembre 2015: invece di denunciare l'Isis manifestano contro di noi. La Francia ieri si è svegliata con le notizie del blitz delle teste di cuoio contro i terroristi islamici e in tutta Europa, Italia compresa, si è seguito in tv l'evolversi dell'assedio di Saint Denis. Tuttavia, mentre in ogni diretta televisiva si parlava dell'azione delle forze speciali francesi e di quella ragazza che ha scelto di farsi esplodere per evitare l'arresto, Maryan Ismail si preoccupava di far sapere a tutti di aver organizzato a Milano una fiaccolata sotto la sede di Libero. Sì, avete letto bene. Un raduno davanti alla redazione perché io e i colleghi chiedessimo scusa ai musulmani per il titolo di sabato scorso, «Bastardi islamici». Mentre in Europa ci sono tizi che, nel nome di Allah, vanno in giro ad ammazzare centinaia di persone colpevoli di vivere in Occidente - e dunque di andare allo stadio, a teatro o al ristorante -, la signora Ismail si preoccupava del titolo di Libero. Non chiedeva a ogni islamico di condannare gli attentatori, di invitare ogni imam a tenere un sermone contro gli assassini, di lanciare una fatwa contro il califfo Al Baghdadi e i suoi seguaci. Domandava a noi di scusarci con i musulmani per aver accostato ai bastardi che hanno sparato contro giovani inermi il riferimento all'islam. Vi chiedete chi sia Maryan Ismail? La signora, di cui fino a ieri ignoravo l'esistenza, è nata a Mogadiscio, in Somalia, ma da anni vive a Milano. Figlia di un diplomatico e politico somalo, è arrivata in Italia in qualità di rifugiata politica e la politica da quel che si capisce è la sua passione, tanto da averla indotta a iscriversi al Pd, entrando a far parte della segreteria cittadina del partito. (...) La sua biografia l'ho desunta da Internet, dove tra l'altro si trova una sua polemica a proposito della costruzione della moschea nel capoluogo lombardo. A Maryan non va giù l'idea che il comune, guidato come è noto da un sindaco sostenuto dal Pd, abbia fatto un bando per assegnare un lotto di terreno su cui edificare il luogo di preghiera degli islamici locali. La signora avrebbe preferito che l'amministrazione comunale invece di cedere a questa o a quella associazione la costruzione e la gestione della moschea, gestisse in proprio il sito, in modo da averne il controllo. Fosse passata la sua tesi, oltre agli asili e alle scuole comunali, a Pisapia sarebbe toccato pure fare l'imam o il muezzin, chiamando a raccolta i fedeli. Perfino i suoi, cioè quelli del Pd, l'hanno giudicata una follia, al punto che il segretario cittadino le ha risposto un po' piccato, facendole capire che la moschea non è l'Atm e non tocca all'amministrazione municipale occuparsi del servizio. La sensazione è che Maryan sia in cerca di un po' di visibilità, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali, quando cioè in primavera si dovrà eleggere il nuovo sindaco. E allora, cosa c'è di meglio se non organizzare una bella fiaccolata in nome della pace per fare la guerra a Libero? Di certo sfilando in piazza dichiarandosi vittime di un'offesa a mezzo stampa non si rischia una pistolettata. Per quanto le nostre parole e i nostri titoli non piacciano, mi risulta che non abbiano ancora ammazzato nessuno. Cosa ben diversa invece è contestare integralisti e terroristi, che come si sa, e come si è visto in questi giorni, non vanno troppo per il sottile, anche con quelli che in apparenza dovrebbero essere fratelli. Come ha scritto l'altro ieri Ernesto Galli della Loggia, nel mondo islamico, anche quello moderato che non si riconosce nelle tesi più radicali e nello Stato islamico, si fa molta fatica a condannare senza se e senza ma le fazioni più estremiste che si ispirano al Corano. A parte le dissociazioni post attentati, non esistono infatti prese di posizione nette contro gli integralisti. Ho provato anche a chiedere a Stefano Dambruoso, uno che da pm si è occupato di terrorismo, quante volte gli sia capitato di ricevere da appartenenti alla comunità islamica delle denunce contro persone sospette di predicare odio o di intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. La risposta è stata: mai. A volte si ottiene qualche confidenza, nella speranza che si chiuda un occhio su altre faccende, ma vere e spontanee dichiarazioni all'autorità neppure il magistrato che per primo si è occupato di integralisti ne ha mai ottenute. E allora siamo sempre al punto di partenza: ci si indigna per un titolo che associa i terroristi e gli islamici, ma anche tra chi si dichiara moderato si fa poco o nulla per fermare i soggetti più pericolosi. Per certi versi par di vedere l'atteggiamento della sinistra ai tempi degli anni di piombo, quando qualcuno sosteneva che i brigatisti erano sedicenti. Vedrete, tra un po' ci diranno che anche quelli del Bataclan sono sedicenti islamici. Eh sì, sta a vedere che i jihadisti invece che figli di Maria sono figli della Cia.

Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".

Giorgia Meloni su “Libero Quotidiano” del 17 novembre 2015, perché difendo il titolo di Libero: dagli altri giornali l'Islam è sparito. "Caro direttore, leggo delle polemiche scatenate da "Bastardi islamici", titolo di apertura del suo giornale all' indomani degli attentati di Parigi. C' è chi è arrivato a chiedere le sue dimissioni, altri hanno paventato denunce. L' hanno insultata, chiesto la sua radiazione dall' ordine dei giornalisti, qualcuno ha addirittura invocato la galera. Ma sono la sola ad aver visto dietro quel titolo, che colpisce come un pugno perché appare come un insulto sfrontato, un significato molto più profondo di quello che gli è stato attribuito da chi si lascia condizionare dai pregiudizi della propria visione ideologica? Perché personalmente ho interpretato quel «bastardi» come illegittimi, fasulli, impostori: «Bastardi islamici» ovvero «Impostori islamici», islamici deviati. Un messaggio che addirittura potrebbe piacere ai fan del politicamente corretto. Per intenderci, se lo stesso titolo lo avesse pubblicato il manifesto gli stessi che oggi attaccano Libero starebbero plaudendo al genio comunicativo. A proposito del manifesto, titoli ad effetto come questo che colpiscono allo stomaco e costringono a riflettere, ne fa parecchi (il titolista non lo conosco ma è un genio vero). Mi viene in mente il titolo «Niente asilo» sopra la foto del piccolo Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge turche. Il messaggio era chiaro: gli è stato negato il diritto di asilo politico, e ora che è morto non potrà andare all' asilo come gli altri bambini. Nessuno è stato così idiota da credere che il manifesto stesse facendo sarcasmo o insultando un bambino morto. Lo stesso sforzo di perspicacia non guasterebbe anche per cercare di capire i titoli (choc) dei quotidiani vicini alla destra. E quindi, col solito anticonformismo che ci contraddistingue, le scrivo direttore per esprimere a lei e al suo giornale la nostra solidarietà. Piuttosto approfitterei per fare una riflessione su titoli e prime pagine di altri quotidiani, come ad esempio Repubblica: non troverete mai le parole «islam» e «musulmani», quasi che gli attacchi a Parigi fossero stati compiuti da indefiniti gruppi terroristici di matrice sconosciuta. Ma questa è un'altra storia (e un altro giornalismo). Giorgia Meloni

E LI CHIAMANO MODERATI...Islam, sondaggio tra i musulmani in Italia: il 20% non condanna la strage di Parigi, scrive “Libero Quotidiano" il 20 novembre 2015. Qual è la reazione dei musulmani (moderati) alla strage di matrice islamica di Parigi. Bruno Vespa oggi su Il Giorno illustra un sondaggio che ha mostrato a Porta a porta condotto da Ipr su un campione dei due milioni di musulmani residenti in italia (di cui 800mila ormai cittadini italiani). Di questi, l'80% condanna la strage di Parigi, il 12% la giustifica e l'8% dice di non avere una opinione in merito. Il 75% degli intervistati dice che i terroristi si comportano male, il 15% sostiene che sbagliano, ma li comprende e un 5% dice che agiscono bene, perché bisogna combattere la cultura occidentale. Secondo il sondaggio, un musulmano su 4 pensa che la colpa degli attacchi sia degli occidentali e meno della metà dice che si tratta di singoli terroristi che non hanno niente a che fare con la religione islamica. Il 40% ritiene che Francia sbaglia a reagire e ad attaccare militarmente "perché così si fomenta il terrorismo". Ma voi denuncereste un terrorista o qualcuno che lo favorisce? Il 70% risponde di sì. Quanto all'integrazione, il 25% non si sente parte del tessuto italiano, mentre la metà non ha alcuna intenzione di farlo.

Portavoce Ppe: "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Fratoianni: "Frase gravissima". L'articolo sul sito internet del Partito popolare europeo che attacca la sinistra. L'esponente di Sinistra Italiana contro le affermazioni di Monika Hohlmeier: "L'eurodeputata tedesca sfrutta le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei". Forenza (L'Altra Europa con Tsipras): "Ci aspettiamo delle scuse", scrive Monica Rubino su “La Repubblica” 19 novembre 2015. Sul sito del Partito popolare europeo, nella sezione "Comunicati stampa", c'è un articolo dal titolo "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Il pezzo riferisce che l'eurodeputata tedesca Monika Hohlmeier, coordinatrice del Comitato delle Libertà civili degli Affari Interni al Parlamento Europeo, ha criticato i colleghi di sinistra per il loro atteggiamento "lassista" nei confronti del terrorismo. Segue poi un virgolettato della Hohlmeier, che giustifica il titolo del comunicato: "Sembra che per i socialisti, i liberali, i verdi e i comunisti - sostiene l'esponente del Ppe - non ci sia nessuna lezione da trarre dagli attacchi di Parigi. Questi gruppi di sinistra invitano i terroristi a sfruttare le lacune della nostra legislazione sulla sicurezza al fine di perpetrare altri attentati". Per poi concludere: "Le buone intenzioni per prevenire il terrorismo non sono più sufficienti, è necessario cambiare le leggi". Il nesso stabilito dalla Hohlmeier fra i terroristi e il "lassismo della sinistra", come lei stessa dichiara, ha mandato su tutte le furie Sinistra Italiana, che interviene per bocca del deputato Nicola Fratoianni: "Trovo gravissime le affermazioni di Monika Hohlmeier  - afferma l'esponente di SI - La deputata tedesca afferma senza vergogna che i terroristi voterebbero allegramente la sinistra, ed utilizza i morti e le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei, il respingimento dei profughi che scappano da Daesh, la chiusura delle frontiere. Esattamente le stesse posizioni che hanno i terroristi che insanguinano il Medioriente e le nostre città". "La destra estrema - prosegue il coordinatore di Sel - evidentemente ha fatto egemonia all’interno del Ppe. Quello che mi impressiona di più è quanto le posizioni della destra europea finiscano per fare il gioco dei terroristi, che nella loro agghiacciante propaganda scommettono proprio su questo: ridurci alle leggi speciali, alla paura, all’indifferenza verso chi soffre. I terroristi stanno già votando la destra estrema in Europa, a suon di morti e paura. Perchè odiano la democrazia. La signora Hohlmeier - conclude Fratoianni - farebbe bene a pensarci prima di parlare”. "Le parole della collega deputata europea Monika Hohlmeier – dichiara Eleonora Forenza, capodelegazione dell’Altra Europa con Tsipras al Parlamento europeo – sono inaccettabili. Da militante di sinistra ed europarlamentare del gruppo Gue/Ngl, voglio dire all’esponente popolare che noi siamo da sempre, e realmente, contro i terroristi, contro ogni forma di terrorismo: perchè lavoriamo per politiche di pace e giustizia sociale, difendiamo i diritti dei migranti, siamo contro chi usa la paura e l’odio per affermare la propria idea di società. Anche per queste ragioni ci opponiamo alle politiche della grande coalizione di cui fa parte il Ppe: fondare l’Europa sul neoliberismo e sulla solidarietà militare. Mi aspetto da Hohlmeier delle scuse per questa indecente dichiarazione, che strumentalizza in modo bieco e maldestro il dramma di Parigi".

Toni Capuozzo: "L'islam moderato non esiste", scrive Alessandra Menzani su “Libero Quotidiano” del 30 novembre 2015. Ex operaio a Marghera, ex contestatore, ex Lotta Continua, figlio di un poliziotto, friuliano, Toni Capuozzo oggi è un cane sciolto che attacca la destra per i Marò e la sinistra sulla guerra in Siria. Non ha bandiera né etichette. Fa fatica a stare fermo. Al lavoro di redazione preferisce quello sul campo, per questo ha raccontato, da inviato, quasi tutte le guerremoderne o i conflitti, dalle Falkland nel 1982 all'ex Jugoslavia, dall'America Latina all'Afghanistan. Le sue sono le occhiaie più famose della tv. Dal 2001 conduce Terra, l'approfondimento che prima era delTg5, di cui era vicedirettore, e oggi va in onda su Rete4. Stasera, per l'ultimo appuntamento della stagione, parla dei cristiani perseguitati in Siria e Iraq.

Perché questa puntata?

«Perché non se ne parla abbastanza. La Siria oggi è il buco nero del mondo, crea e distrugge alleanze. In Iraq, nella regione del nord, fino a Massul che è nelle mani dell'Isis, intere famiglie scappano ma vivono un conflitto: andiamo in Europa o restiamo? Il dilemma dilania la comunità cristiana, una minoranza, perché chi fugge vivrà un esilio per sempre».

Quanto all'Islam, pensa che esista quello moderato?

«No. È una contraddizione in termini. È ovvio che non tutti gli islamici sono terroristi ma non si può parlare di Islam moderato. Ha mai sentito parlare di cattolico moderato o di protestante moderato? È come dire che si può essere molto islamici o poco islamici. I fratelli musulmani sono moderati? No. Hamas lo è? No».

Gli islamici «buoni», chiamiamoli così, potevano essere più decisi nel dissociarsi dagli attentati di Parigi?

«Io parlo con molti musulmani e sento le solite litanie: colpa degli occidentali, colpa di Israele, l'Isis è stata finanziata dagli Usa. Parole per nulla moderate, o no? I terroristi uccidono nel nome di Allah. Faccio un esempio. Se tuo figlio violenta una ragazza è ancora tuo figlio. Il vostro rapporto diventa difficile, ti chiedi dove hai sbagliato come genitore, ma è sangue del tuo sangue. Troppo comodo dire che è colpa di altri se ha sbagliato».

Il Papa dice che questa è una Guerra mondiale a puntate. Se è vero, quale sarà la prossima?

«Temo ancora per l'Europa. Come possiamo difenderci? Con la forza, la fantasia e la lucidità di immaginare un nuovo assetto mediorientale».

Cameron promette le bombe, la Merkel manda le truppe, Putin è il più bellicoso. La risposta cauta dell'Italia come la giudica?

«Se facciamo egoisticamente i codardi diminuiamo il rischio di attentati in Italia. Questo è ovvio. Certo non è una gran soddisfazione. Quello che può consentire all'Italia di salvare la faccia è di prendersi più responsabilità in Libia che è di fronte a casa e fa parte della piccola sfera di influenza italiana. Comunque la vigliaccheria italiana di non mandare aerei è la vigliaccheria internazionale di non fare la guerra di terra e far fare ai curdi il lavoro sporco».

Tra tutte le guerre che ha seguito per lavoro, dall'ex Jugoslavia all'Afghanistan, quale le ha lasciato il ricordo più doloroso?

«Quella dei Balcani. La più vicina a noi. Nel cuore dell'Europa. Quando una guerra è lontana pensi che noi siamo riparati, protetti. "Da noi queste cose non si fanno". Invece sì: assedi, stupri, pulizia etnica. L'assedio di Sarajevo è durato quattro anni».

E poi ha anche un ricordo molto personale.

«Un figlio, lo chiamo così. Portai un bambino piccolo via da Sarajevo assediata, l'ho nascosto in una macchina. Aveva perso la mamma, non aveva una gamba, e l'ho tenuto 5 anni. Poi è tornato là. È quasi più figlio degli altri, è come se l'avessi partorito io. Adesso ha 22 anni e attraversa un periodo difficile».

Quanti altri figli ha?

«Due. Il ragazzo, il più piccolo, studia. Mia figlia è laureata in marketing e lavora nel settore turistico a Londra».

È stato un padre assente?

«Un po'. Stare lontano per lunghi periodi a volte complica, a volta facilita le cose. Certo, salti qualche compleanno, qualche pagella scolastica. Quando sono piccoli i figli ti vedono come la persona più forte del mondo. Crescendo il rapporto diventa più complesso. Oggi è decisamente buono. Sono felice che non facciano i giornalisti, comunque. Con la mia ex moglie ho un rapporto bellissimo, oggi sono legato da otto anni a un'altra donna che fa l'ufficio stampa».

È difficile essere fidanzata con Toni Capuozzo?

«Non più che stare con un impiegato di banca… È vero che ogni tanto si vogliono cambiare gli altri, ma ho sempre fatto questa vita, sono sempre stato così. E poi a parte il lavoro faccio una vita tranquilla, il massimo dell'evasione per me è andare allo stadio nella bella stagione a vedere il Milan».

Dice che è felice che i suoi figli non facciano i giornalisti. Oggi - con Twitter, i blog, Youtube - ha ancora senso un lavoro come il suo? L'inviato, il giornalismo di guerra?

«Le cose non si escludono. La rete ha portato una ventata di aria fresca e di democrazia ma allo stesso tempo la professionalità, la ricerca dei fatti, la garanzia di un lavoro artigiano, contano molto. A volte la rete è come il cesso di un autogrill. Nessuno ha mai telefonato a Samantha il cui numero appare nel cesso di un autogrill. Perché sai che è uno scherzo. Nell'anonimato ti muovi con circospezione. Un giornalista invece ha quella tracciabilità che a volte garantisce autorevolezza».

Però lei ama scrivere su Facebook.

«Ci sono le risposte, i feedback, è divertente anche se non è pagato. Quando avevo la rubrica sul Foglio era una specie di confessionale in cui avevo una libertà maggiore rispetto alla tv, in cui è giusto tenere un maggiore equilibrio. In televisione parlo a gente che non c'è, che non vedo. Su Facebook mi esprimo, c'è un dibattito».

Nell'ultimo libro, Il segreto dei Marò, edito da Mursia, scrive la sua convinzione innocentista. Perché è sempre rimasta una voce tutto sommato isolata?

«Il sentire comune è fortemente influenzato dall'informazione, l'informazione è influenzata dalla classe politica. E la politica sui Marò ha fatto una figuraccia. Nemmeno il centrodestra se la cava. Quella dei due fucilieri è la storia di un insuccesso italiano. Come dicevo l'informazione ha fatto la sua parte, non ho mai visto Bruno Vespa con il plastico dell'Oceano Indiano o Nuzzi e Sottile interpellare psicologi sul caso. Meglio parlare di Meredith…».

Perché si è appassionato tanto al caso Marò? 

«Per motivi personali e giornalistici. Conoscevo Latorre dal 2006, quando a Kabul aveva comandato una scorta che mi accompagnava durante un servizio in elicottero. Un professionista serio, non un Rambo che spara a inermi pescatori scambiandoli per pirati. Poi volevo ricondurre tutti ai fatti, vedere i documenti dell'inchiesta indiana, parlare del caso in modo oggettivo e senza pregiudizi politici».

Come definirebbe il suo rapporto con la politica?

«Come quello dell'ex alcolista con il vino: non ne sopporto la vista. Non voto da un quarto di secolo. Non è un messaggio, non ne sono fiero. L'ho anche tenuto nascosto a mia figlia per lungo tempo».

Quali altri sono i suoi difetti, se si possono chiamare così?

«Fumo, in modo accanito. Odio la vita d'ufficio. Non tengo la foto dei figli sulla scrivania. Non faccio selfie, tranne l'altro giorno con Gerry Scotti: lui mi è simpatico e ho messo la foto su Facebook. Non ho il gusto per il potere. Non sono portato per l'organizzazione, soprattutto del lavoro altrui. Quando ero vice direttore del Tg5 dicevo che avevo solo potere su me stesso. Non frequento stanze dei bottoni o salotti importanti».

Ma scusi, le sembrano difetti?

«Ora che mi ci fa pensare più che difetti sono pregi».

Oriana Fallaci, l'ultima lezione: "Non esiste un Islam moderato. Il Corano è il loro Mein Kampf" su "Libero Quotidiano dell'1 settembre 2014. Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, pubblichiamo l'ultima parte del discorso che Oriana Fallaci tenne nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. "...Punto numero tre. Soprattutto non credo alla frode dell'Islam Moderato. Come protesto nel libro Oriana Fallaci intervista sé stessa e ne L'Apocalisse, quale Islam Moderato?!? Quello dei mendaci imam che ogni tanto condannano un eccidio ma subito dopo aggiungono una litania di «ma», «però», «nondimeno»? È sufficiente cianciare sulla pace e sulla misericordia per essere considerati Mussulmani Moderati? È sufficiente portare giacche e pantaloni invece del djabalah, blue jeans invece del burka o del chador, per venir definiti Mussulmani Moderati? È un Mussulmano Moderato un mussulmano che bastona la propria moglie o le proprie mogli e uccide la figlia se questa si innamora di un cristiano? Cari miei, l'Islam moderato è un'altra invenzione. Un'altra illusione fabbricata dall'ipocrisia, dalla furberia, dalla quislingheria o dalla Realpolitik di chi mente sapendo di mentire. L'Islam Moderato non esiste. E non esiste perché non esiste qualcosa che si chiama Islam Buono e Islam Cattivo. Esiste l'Islam e basta. E l'Islam è il Corano. Nient'altro che il Corano. E il Corano è il Mein Kampf di una religione che ha sempre mirato a eliminare gli altri. Una religione che ha sempre mirato a eliminare gli altri. Una religione che si identifica con la politica, col governare. Che non concede una scheggia d'unghia al libero pensiero, alla libera scelta. Che vuole sostituire la democrazia con la madre di tutti i totalitarismi: la teocrazia. Come ho scritto nel saggio Il nemico che trattiamo da amico, è il Corano non mia zia Carolina che ci chiama «cani infedeli» cioè esseri inferiori poi dice che i cani infedeli puzzano come le scimmie e i cammelli e i maiali. È il Corano non mia zia Carolina che umilia le donne e predica la Guerra Santa, la Jihad. Leggetelo bene, quel «Mein Kampf», e qualunque sia la versione ne ricaverete le stesse conclusioni: tutto il male che i figli di Allah compiono contro di noi e contro sé stessi viene da quel libro. È scritto in quel libro. E se dire questo significa vilipendere l’Islam, Signor Giudice del mio Prossimo Processo, si accomodi pure. Mi condanni pure ad anni di prigione. In prigione continuerò a dire ciò che dico ora. E continuerò a ripetere: «Sveglia, Occidente, sveglia! Ci hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra bisogna combattere». Visto? Potrei andare avanti per sempre quando sermoneggio di queste cose. Così la smetto e dico: caro David, caro Daniel, caro Robert, cari compagni d'arme con cui condivido questo premio, cari amici del Center for the Study of Popular Culture: davvero noi esercitiamo un dovere molto faticoso e molto doloroso. Il dovere di raccontare la verità. E, raccontando la verità, dar voce a chi non ha voce. Alla gente male informata o nient'affatto informata. Alla gente che dorme o non pensa con la propria testa e che tuttavia, quando viene informata, bene informata, si sveglia e pensa con la propria testa (anzi si accorge di pensare ciò che non sapeva di pensare ma pensava già). O alla gente che pur pensando non parla per inerzia o timidezza o paura. Non siamo molti, lo so. Ma esistiamo. Siamo sempre esistiti. E sempre esisteremo. Sotto ogni fascismo, ogni nazismo, ogni bolscevismo, ogni islamismo, ogni maccartismo, ogni cancro del cervello, ogni cancro dell'anima. E nonostante gli insulti, le messe alla gogna, le persecuzioni, le beffe, le galere, i gulag, le forche che stroncano il corpo non l’anima. Ah! Per quanto sia amaro considerarci fuorilegge-eretici-dissidenti in una società che a parole si definisce libera e democratica, noi siamo davvero i nuovi eretici. I nuovi fuorilegge. I nuovi dissidenti. Quindi lasciate che mi congedi con la seguente confessione. Io non sono giovane ed energica come voi. Non ho la salute che spero voi abbiate. A dirla in modo brusco e brutale, sono disperatamente malata. Ho raggiunto ciò che i dottori chiamano la Fine della Strada, e non durerò a lungo. Ma sapere che voi fate quello che fate, pensare che voi sarete qui quando io non ci sarò più, mi aiuta parecchio a esercitare quel dovere contro il nemico. A non dargli pace finché avrò un filo di fiato. Meglio: come ho detto quando ho incominciato a parlare, io non accarezzo affatto l'idea di imitare Annie Taylor. Mica son pazza. Ma se necessario, proprio necessario, davvero necessario, bé… tirerò un gran respiro, chiuderò gli occhi, forse mi farò il segno della Croce, (non si sa mai), e salterò anche sopra le Cascate del Niagara. Ok? Grazie per avermi ascoltato. Oriana Fallaci

Marco Travaglio: "Oriana Fallaci non era una grande giornalista", scrive “Libero Quotidiano il 27 novembre 2015. "Chiedere scusa a Oriana Fallaci? No. Era una grandissima scrittrice, ma non una grande giornalista, perché aveva un rapporto con la verità piuttosto soggettivo". Così Marco Travaglio nel corso di Otto e Mezzo su La7. Il direttore del Fatto Quotidiano ha risposto così ad Alessandro Sallusti, che nel corso della puntata aveva chiesto a Marco Manetta di scusarsi per le accuse di "islamofobia" rivolte alla Fallaci. Nessuna scusa, però. Anzi, un nuovo insulto, reso ancor più grottesco dal fatto che sia Travaglio a parlare di "obiettività". "Non c'era un intervistato di Oriana Fallaci che si riconoscesse nelle sue interviste - ha aggiunto -. Perché lei intervistava sempre se stessa. Scriveva sicuramente da Dio, il che l'autorizzava a dire anche delle cose molto iperboliche".

Beppe Grillo: meglio la Fallaci che i «fighetti del giornalismo» (tipo Severgnini e Riotta), scrive Beppe Severgnini su Italians de “Il Corriere della Sera” del 19 settembre 2006. Ciao Beppe! Nel caso ti fosse sfuggita, ecco questa «perla» del blog di Beppe Grillo. «Morta Oriana Fallaci quanti giornalisti liberi di nazionalità italiana rimangono in giro? La Fallaci ha scritto cose che non condividevo e altre su cui ero d'accordo. Ma si è presa sempre dei rischi. Diceva la sua verità, ci metteva la sua faccia. Lascia, più che un vuoto, un baratro nel giornalismo italiano. Fare il giornalista non è facile, ci vuole il protettore. Giornalisti senza padroni non ce ne sono più, e quelli che resistono sono sempre più anziani. E anche ripetitivi, ma non ditelo a Eugenio Scalfari. Bisogna andare nella biblioteca comunale e leggersi vecchi pezzi di Montanelli per tirarsi un po' su. E Travaglio? Mi si chiederà. Ma Travaglio non è un giornalista. Essere giornalista e non anche servo è una questione di astuzia. Io comunque preferisco il giornalista schierato senza se e senza ma. E' più pulito, mi è quasi simpatico. Anche se nessuno lo prende sul serio, come un ubriaco al bar, e tutti gli vogliono bene. Fa la pubblicità, ma non è una pubblicità ingannevole. Feltri, Fede, Ferrara, Rossella, la vecchia guardia, gente semplice, una razza in estinzione. Insidiata dagli opinionisti che hanno, soprattutto, una grande opinione di se stessi. I fighetti del giornalismo, intellettualmente onesti, con la cravatta giusta e la rubrica. Leggi i loro articoli e alla fine ti rimane un senso di vuoto. Non hanno più bisogno di mentire per coprire i fatti. Li annullano con il nulla. E non fanno neppure fatica. I Riotta, i Severgnini, Mentana. Oriana, ci mancherai».

La grande balla dell'islamofobia, scrive di Francesco Borgonovo su “L’Intraprendente del 1 dicembre 2015. Pubblichiamo un estratto di Tagliagole, Jihad corporation di Francesco Borgonovo (Bompiani, pagg. 684, 15 euro). L’autore, caporedattore di Libero e autore de La Gabbia, effettua un’ampia ricognizione sul fenomeno del terrorismo islamico e in particolare dell’Isis, analizzando tra l’altro le abilità propagandistiche dell’esercito del Califfo, capace di attirare aspiranti jihadisti da tutto il mondo. “L’islamofobia aiuta a rafforzare lo Stato islamico”, ha dichiarato durante un intervento nella sede del parlamento europeo a Strasburgo re Abd Allah II di Giordania. A sua altezza verrebbe da rispondere, con il massimo rispetto ovviamente, che le cose non stanno così. Piuttosto, ad aiutare lo Stato islamico è chi continua a sostenere che l’islamofobia non solo esiste, ma è pure in aumento. In tutti i documenti propagandistici diffusi sul web, i tagliagole dell’Isis insistono sul fatto che i musulmani nel mondo vengono perseguitati. In Black Flags from Rome – in cui si promette, fra le altre cose, l’invasione dell’Italia – compare un capitolo abbastanza corposo dove si spiega come l’Europa sia sprofondata in una “età oscura” e come, per far sfogare la popolazione esasperata dalla crisi, si organizzino campagne discriminatorie nei confronti dei musulmani. In nome dell’islamofobia sono stati portati in tribunale anni fa Oriana Fallaci e Michel Houellebecq, colpevoli soltanto di avere espresso le loro opinioni. Di islamofobia sono stati accusati i redattori di Charlie Hebdo. Da vittime di una strage assurda sono diventati colpevoli. Il giornale satirico è diventato, appunto, il simbolo dell’islamofobia occidentale. Peccato che si tratti di una menzogna. Che cosa sia la cosiddetta “islamofobia” lo spiega bene lo storico Walter Laqueurin un saggio intitolato Gli ultimi giorni dell’Europa, che si presenta come “epitaffio per un vecchio continente”, tanto per restare in tema di morti viventi. Come ricostruisce bene lo studioso, il termine islamofobia “cominciò a essere usato correntemente nel 1998 dopo la pubblicazione di un rapporto del Runnymede Trust, una fondazione inglese che ha la missione di combattere la discriminazione razziale e di mantenere buone relazioni fra le minoranze etniche. Il gruppo di lavoro che affrontò il problema della paura e dell’odio per l’islam e i musulmani era guidato dal professor Gordon Conway, biologo, vicerettore dell’Università del Sussex e poi presidente della Rockefeller Foundation”.

L’idea è che esisterebbe, in Occidente, un odio diffuso nei confronti dei musulmani, che sarebbero discriminati in virtù della loro appartenenza religiosa. Da questo presupposto deriva un’ulteriore convinzione, pericolosissima. Ovvero che, sentendosi sotto pressione e odiati nei Paesi in cui vivono, i musulmani siano spinti a radicalizzarsi. Questo presupposto è alla base del romanzo Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid, da cui è stato tratto il film omonimo di Mira Nair. Il protagonista, Changez, di origini pakistane, si laurea a Princeton e, grazie alle sue indubbie capacità professionali, trova un impiego in una società prestigiosa di analisi finanziarie. Ma ecco che interviene l’islamofobia: dopo l’11 settembre, il giovane sente nei suoi confronti una crescente diffidenza da parte dei colleghi e, più in generale, da parte degli americani. Non potendone più di sopportare i pregiudizi, torna in patria e diviene un professore universitario. Non solo: si radicalizza, come se le pressioni subite da parte degli occidentali ne avessero provocato l’esplosione. Il pensiero che permea il romanzo di Hamid è lo stesso che il re di Giordania ha sintetizzato nel suo intervento al parlamento europeo. L’islamofobia diventa così una scusa per giustificare i radicali e gli estremisti. È per via delle stupidaggini che si raccontano a proposito dell’“odio per i musulmani” che, come ho raccontato in precedenza, c’è persino chi ha la faccia tosta di giustificare un macellaio come Jihadi John, come ha fatto Asim Qureshi della fondazione britannica Cage. Grazie al discorso sull’islamofobia, si sposta l’attenzione dalle vere vittime – per esempio i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo massacrati senza pietà o gli ostaggi sgozzati – e la si concentra su vittime presunte, arrivando perfino a giustificare un assassino seriale. Grazie al discorso sull’islamofobia, inoltre, si autorizzano associazioni musulmane più o meno radicali a dire le cose più atroci. Per evitare di passare per islamofobi, governi come quello inglese o quello francese (che pure, storicamente, si è sempre mostrato incredibilmente tollerante e inclusivo nei confronti degli islamici) hanno appaltato interi quartieri, lasciandoli nella mani dei predicatori estremisti o favorendo di fatto l’instaurazione della shari’a nel cuore di metropoli come Londra. Che la questione dell’islamofobia sia una montatura a uso e consumo degli estremisti (o semplicemente di chi vuole imporre la propria cultura senza rispetto) lo dimostra il semplice buon senso. La vicenda del processo a Houellebecq, che ho già citato, è chiarissima. L’islamofobia, tanto per cominciare, non è razzismo. Perché se davvero ci fosse un odio diffuso nei confronti degli islamici, allora ne sarebbero vittime tutti i convertiti, che abbiano o meno la barba e che indossino o meno palandrane. Se esiste un atteggiamento di timore, semmai, è nei confronti degli arabi o di quei musulmani che, in virtù del loro aspetto, possono venire inquadrati come radicali. Ammesso che questo timore esista e sia diffuso, si tratta comunque di un sentimento che poggia su presupposti per lo meno comprensibili. Lo spiega bene Laqueur: “Se in anni recenti c’è stata in Europa una ostilità nei confronti dei musulmani, essa non è stata in risposta alla loro religione, ma al fatto che per lo più gli attentati terroristici sono stati compiuti da musulmani: ‘terrorofobia’ sarebbe un termine più esatto. Se quelli che sono stati coinvolti in atti di terrorismo fossero stati eschimesi, l’orrore e la paura sarebbero stati diretti a loro, anche se la maggioranza degli eschimesi non fosse stata coinvolta. È naturalmente sleale generalizzare a un intero gruppo etnico la condanna meritata da pochi, ma probabilmente ciò è inevitabile, specialmente se una porzione significativa del gruppo non prende chiaramente le distanze dagli ‘attivisti’ né si esprime contro la violenza, ma al contrario sostiene o almeno dichiara comprensione per i terroristi”. Ed è difficile negare che quest’ultimo sia stato l’atteggiamento tenuto da una larga fetta del mondo musulmano (islamici che vivono in Europa e America compresi). “Nel 2006”, scrive ancora Laqueur, “una ricerca del Pew Research Center ha concluso che in Paesi prevalentemente musulmani gli abitanti sono molto più critici degli occidentali di quanto accada in senso opposto in Occidente, e che lo stesso vale, anche se in misura minore, per le comunità musulmane in Europa: in altre parole, c’è molto più una fobia antioccidentale che una islamofobia”.

Eppure…

Terrorismo, per Laura Boldrini l'Isis siamo noi: "Abbiamo seminato odio", scrive su “Libero Quotidiano” di Enrico Paoli il 19 novembre 2015. L’Europa parla di guerra, di attacco senza precedenti. Ed è un linguaggio che non è più isolato, fuori sincrono rispetto alle scene che ci passano davanti agli occhi nei telegiornali e nei servizi dedicati alla Francia. È semplicemente la dura realtà che i fatti di Parigi hanno messo al centro del dibattito politico di tutti i Paesi. Eppure l’illuminata e progressista presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha sentito ancora una volta l’urgenza, se non proprio l’impellenza, di marcare il proprio territorio, di mettersi fuori dal coro. Come se starci dentro fosse un problema, un neo da rimuovere. Quando il neo in questione, a dire il vero, è il fenomeno del terrorismo con tutte le sue complicazioni. Ma la Boldrini è così, un eterno salmone anche quando la storia richiederebbe ben altro. In una lunga intervista al settimanale L’Espresso, in edicola oggi, la terza carica dello Stato sostiene che la guerra all’Isis si combatte «con la politica», dialogando con gli attori in campo, esclusa ovviamente la stessa Isis». La presidente della Camera fa notare che «dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente», sostiene la Boldrini, «ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia». «La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento», sostiene l’inquilina di Montecitorio, «abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica». Insomma, le forze della coalizione, la stessa Europa, l’America in particolare, avrebbero provocato il processo di reazione che si sta traducendo in atti terroristici, in stragi che colpiscono i civili nella loro quotidianità. La colpa è nostra, sembra essere la sintesi estrema del ragionamento fatto dalla Boldrini. Non solo. La presidente della Camera, sottolineando come la sua sia «una posizione realista, non buonista», rimarca il fatto di non essere mai stata «contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio», sostiene la Boldrini, «fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa». Tutte belle ricette, tutte belle idee, ma che fanno drammaticamente a cazzotti con la realtà. Nel momento in cui prendi uno schiaffo, non puoi fermarti a chiedere perché, puoi solo reagire, con una forza simile se non addirittura superiore. Poi arriva il momento del dialogo, dunque della politica. Perché veniamo attaccati, perché hanno insanguinato Parigi è già passato. Le domande riguardano già il futuro. L’Europa, in questo momento non ha tutto questo tempo. Parigi ha dimostrato che siamo in una fase di emergenza. Soprattutto di carattere tecnico militare, inteso come sicurezza dei cittadini. E poi c’è il capitolo socio-economico, che la Boldrini ama in modo particolare. «I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica protezione», sostiene la terza carica dello Stato, «chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori», fa notare la Boldrini, «invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi». Ecco, se le cose stanno esattamente così, è evidente la contraddizione in termini contenuta nel ragionamento della Boldrini, che spegne le ipotesi di risposta militare come soluzione ma parla di nemico già presente in casa nostra. Dobbiamo tenercelo? «Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole che condivido. Sulla lotta al terrorismo», ribadisce la Boldrini, «serve senso di responsabilità da parte di tutti». Già, la responsabilità. Noi riflettiamo, loro attaccano. Ancora. 

Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.

Il Movimento 5 Stelle, da sempre dalla parte del terrorismo, scrive “Il Corriere del Giorno” il 16 novembre 2015. Degli attivisti del Movimento5Stelle dal baso della loro evidente “ignoranza” ci accusano di percepire contributi dello Stato, quando in realtà chi viene retribuito con i soldi pubblici (ed altro che gli sbandierati e promessi 2.500 euro in campagna elettorale!) sono i loro deputati e consiglieri comunali e regionali, ed i loro “portaborse”, che spesso sono loro parenti diretti o indiretti! Ma questa volta vogliamo ricordarvi alcuni comportamenti dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.

Era il 12 novembre 2013 e la deputata Emanuela Corda, esponente del Movimento 5 Stelle, non poteva trovare giorno migliore… per commemorare a modo suo, l’attentatore kamikaze che ha ucciso 19 Carabinieri a Nassiriya. Infatti quel giorno, 12 novembre, ricadeva il decennale di quella strage. Con squallido e volgare tempismo, l’onorevole “grillina” ha voluto spendere parole d’affetto e di comprensione nei confronti del giovane attentatore. Nel suo discorso, pronunciato davanti agli attoniti colleghi deputati, Emanuela Corda ha ricordato, dopo una doverosa introduzione in memoria dei 19 italiani e 9 iracheni uccisi: “Nessuno ricorda il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage. Quando si parla di lui se ne parla come di un assassino, e non anche come vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice”. Parole squallide, allucinanti, quasi incredibili, cui la deputata grillina sembra porre rimedio: “Una ideologia criminale l’aveva convinto che quella strage fosse un gesto eroico e lo aveva mandato a morire“, ma l’apparente rinsavimento durò poco, perché Emanuela Corda continuò così: “e non è escluso che quel giovane come tanti kamikaze islamici fosse spinto dalla fame, dalla speranza che quel suo sacrificio sarebbe servito per far vivere meglio i suoi familiari, che spesso vengono risarciti per il sacrificio del loro caro“. Avete letto bene. Si lo ha giustificato in quanto “spinto dalla fame”. Come se per logica conseguenza si potesse uccidere per fame. Anche il giovane marocchino, ricordato “affettuosamente” dalla deputata grillini, è stato una vittima. Vero, è morto anch’egli nell’attentato. Ma ha scelto di uccidere 28 persone. Commemorarlo in un giorno come questo, in ricordo delle vittime di Nassiriya, appare tanto fuori luogo quanto di cattivo gusto. Ancor più in una istituzione come il Parlamento italiano. Cosa ne penseranno i delusi dalla politica, che votando Movimento 5 Stelle hanno contribuito a portare persone come Emanuela Corda in Parlamento?

Il 12 novembre 2014, l’anno successivo e questa volta, sempre in occasione della ricorrenza dell’anniversario di Nassirya, è stato un consigliere regionale (candidato Governatore) della Regione Lazio per il M5S, a manifestare la sua “vicinanza” ideologica al terrorismo. Infatti, durante il minuto di silenzio che il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodorifece osservare, tutti i consiglieri si sono alzati in piedi tranne quello del M5S, Davide Barillari. Il consigliere del Ncd, Giuseppe Cangemi, tra l’altro ex paracadutista, subito dopo gli si e” fatto sotto e stava per attaccarlo fisicamente se non fosse stato trattenuto da alcuni consiglieri, tra i quali Gino De Paolis di Sel e Daniele Mitolo di Per il Lazio. Barillari provo a replicare: “Vorrei alzarmi per ogni morto che abbiamo nel Lazio, in ogni scenario di lotta, comprese le morti bianche. Dovremmo alzarci continuamente. Semmai è questione di chiedersi perchè muoiono queste persone. Queste persone sono morte a causa di una guerra”. Le reazioni “Il consigliere Barillari si dovrebbe vergognare: rimanere seduto durante il minuto di silenzio per l’undicesimo anniversario della strage di Nassiriya e per la Giornata del ricordo dei caduti nelle missioni internazionali è una provocazione inaccettabile”. E’ quanto dichiarò Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. “Il consigliere grillino- aggiunse- ha oltraggiato la memoria dei militari che hanno perso la vita, dileggiato la sofferenza delle loro famiglie e offeso tutti gli italiani che si sono inchinati davanti alle bare dei nostri caduti a Nassiriya. Barillari dovrebbe chiedere scusa oppure dimettersi”. Lo sdegno nei confronti dell’esponente del M5S fu “bipartizan”. Marco Vincenzi, presidente del gruppo del Partito democratico al termine del minuto di silenzio per commemorare l’eccidio dei militari italiani a Nassiriya, dichiarò: “Il consigliere del M5SBarillari questa mattina si e” reso responsabile di un gesto grave che offende l’istituzione regionale, l’Italia e l’intera comunità internazionale. I nostri militari caduti a Nassiriya, e in altri teatri di guerra, erano in missione di pace, impegnati a difendere la popolazione civile. Strumentalizzare come ha fatto il consigliere Barillari, la barbarie di Nassiriya, rappresenta uno dei peggiori episodi per l’Aula consiliare della Regione Lazio che stigmatizzo e condanno con forza. Desidero esprimere, infine, a nome del gruppo del Partito democratico, solidarietà e vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per l’impegno quotidiano a difesa della pace nelle missioni internazionali”.

Era il 13 agosto 2014 ed i deputati “grillini” della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico. “Mogherini e Pinotti giocano a fare la guerra in Iraq senza aver consultato il Parlamento preventivamente. Si fermino e vengano a riferire in Aula prendendosi le loro responsabilità di fronte al Paese. Bombardamenti e forniture di armi non fanno altro che alimentare gli stessi fenomeni che si vogliono contrastare. Praticamente è come curare un diabetico con iniezioni di glucosio. “Il duo Ue-Usa decide di bombardare per mettere pace, con la giustificazione che tutto ciò serva a prevenire il genocidio, mentre per uguali situazioni nel vicinissimo Medio oriente non si procede certo con misure analoghe – concludevano – Violenza genera violenza e l’articolo 11 della costituzione non è un optional.” Una posizione molto netta, ribadita anche dal capogruppo M5S in commissione Esteri alla Camera Manlio Di Stefano in un’intervista a La Stampa: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono.” Di Stefano attaccò anche gli Stati Uniti e il loro “interventismo accanito contro alcuni territori e il totale oblio di altri territori” (il riferimento era alla Palestina, ndr). Come soluzione, propose “un intervento diplomatico forte”, o al massimo interventi di corpi non armati e interventi umanitari, invece dei “bombardamenti veri e propri” che “polarizzano ulteriormente le divisioni”. “Vero, sono terroristi – concludeva Di Stefano – Ma siamo sicuri che ogni terrorista morto non ne nascano altri cento? Quella provocazione del Califfato di arrivare fino a Roma significa questo: più voi intervenite, più noi reagiremo.” Solo pochi giorni prima Di Stefano era stato al centro di una polemica politica dopo aver attaccato Israele, definendo “genocidio” quello in atto in questi mesi a Gaza. Contro di lui si erano espressi portavoce delle comunità ebraiche e anche l’ambasciata d’Israele in Italia.

Era il 16 agosto 2014 ed un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, i cui proventi pubblicitari non entrano nelle casse del M5S ma del loro “padre-padrone-comico-guru”, il deputato Alessandro Di Battista scriveva: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione”. Non a caso in quei giorni i deputati grillini della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico invitando alla “calma” e al “rispetto” per capire “fenomeni radicali come Isis“, adesso è la volta di Di Battista che nel post pubblicato sul blog di Grillo scriveva: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale, ha una sua logica“. Ma l’apice del lunghissimo post arrivava quando il grillino parlava del terrorismo: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore”, scriveva Di Battista. Non era la prima volta che il M5S difende le posizioni più estreme dell’Islam. Ancor prima di impegnarsi attivamente in politica Beppe Grillo, durante i suoi spettacoli, attaccava le politiche occidentali e giustificava quelle islamiche. Fino ad arrivare all’intervista del 2012 a un giornale israeliano in cui si prodigava in una strenua difesa dell’Iran di Ahmadinejad: “Quelli che scappano, sono oppositori. Ma chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all’estero. L’economia lì va bene, le persone lavorano. È come il Sudamerica: prima si stava molto peggio. Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati”. Non contento…. il deputato M5s disse la sua anche sull’11 settembre : “L’attentato alle Torri Gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano. Forse anche a New York qualcuno “alle 3 e mezza di mattina rideva dentro il letto” come capitò a quelle merde dopo il terremoto a L’Aquila. Quei 3.000 morti americani vennero utilizzati come pretesto per attaccare l’Afghanistan, un paese con delle leggi antitetiche rispetto al nostro diritto ma che con il terrorismo internazionale non ha mai avuto a che fare”.  Quelle parole di Di Battista riuscirono ad unire tutta la politica italiana, accomunata dallo sdegno: da Forza Italia al Partito Democratico, passando per l’Udc e Scelta Civica. Il coro fu unanime: “Siamo al game over per la credibilità e per il margine di tollerabilità del Movimento 5 Stelle” (Forza Italia).  “Di Battista a ferragosto deve aver preso un brutto colpo di sole” (Italia dei Valori), “l’ignoranza di Di Battista fa pena” (Ncd). Ma questa volta, alla luce dell’attentato di Parigi, riecheggiano le parole di Di Battista.  Ma cosa aspettarsi da uno che ha un padre che partecipando ad una manifestazione dei grillini, dichiarò: “Io di destra? Sono fascista, è un’altra cosa”. Ecco, cari lettori, da chi è composto il Movimento 5 Stelle. Con loro l’Italia ha definitivamente toccato il fondo.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 20 novembre 2015 umilia Vauro: "Coniglio e bastardo: ti spiego pure perché". Allora sei un bastardo anche tu, Vauro Senesi, e di che religione non importa, anzi sei un coniglio, un coniglio mannaro, uno che mette sullo stesso piano i lettori di Libero e i plauditori della strage di Parigi, uno che ha trovato la soluzione allo scontro di civiltà, e cioè questa: arrestare Maurizio Belpietro e le sue sporche truppe. Ma prego, Vauro, a te la parola, come hai fatto nella mattinata di ieri nel vacuo parolaio che è L' aria che tira su La7: avevano appena trasmesso un servizio su un islamico di Catania (uno tutto contento per i morti di Parigi) e poi eccoti: «Sono il primo a condannare il pazzo che a Catania dice quelle cose, però...». C' è un però: «Quando quel pazzo lì sarà arrestato, perché è un fomentatore di odio, ma allora: il signor Belpietro? Quando lo arrestiamo il signor Belpietro, che scrive un titolone così "Bastardi islamici?"». Perché, che ha fatto in concreto Belpietro? «Il signor Belpietro mette a rischio la mia sicurezza, e la sicurezza di ognuno di noi, perché al pari - che non è al pari, perché quello è un poveraccio ignorante, mentre il signor Belpietro dovrebbe essere un intellettuale (voci che si sovrappongono, ndr) ... è criminale, mette in pericolo la vita dei nostri figli, perché se domani un cretino fomentato dal titolo di Belpietro prende a accoltella il primo che incontra... (voci che si sovrappongono, ndr) ... la paura che ho, è che quelli che ci dovrebbero difendere dal terrorismo sono gli stessi che hanno creato il terrorismo». Riassunto: il terrorismo l'ha creato Belpietro o quelli come lui, il quale, non pago, vuole altro sangue e allora aizza gli islamici col titolo «Bastardi islamici» dopo che degli islamici (bastardi) hanno fatto a pezzi dei civili; Belpietro dunque mette in pericolo i figli di Vauro e tutti gli altri. Parentesi: è record, perché l'altro giorno Giafar al Siqilli (come si è ribattezzato ridicolmente Pietrangelo Buttafuoco) aveva scritto sul Fatto che «se il musulmano è un bastardo, un coltello prima o poi se lo ritrova», ora invece arriva Vauro e aggiunge che lo stesso titolo «mette in pericolo la vita dei nostri figli». Insomma, con un solo titolo fai fuori tutti. Ecco spiegata vignetta che Vauro ha piazzato in prima pagina sul Fatto di lunedì: la scritta «Il sangue non si è ancora asciugato» e Belpietro e Salvini che dicono «possiamo sguazzarci». Ma dicevamo de La7 e de L' aria che tira: nel bailamme a quel punto interveniva la conduttrice Myrta Merlino (le cui pettinature sono l'unica giustificazione all' esistenza dell'Isis) e con vacuo cerchiobottismo cercava di sedare: «Belpietro ha fatto un titolo sbagliato, ma...». Ma. Però. Tuttavia. È anche vero che. Insomma, povero Vauro, forse no, forse non sei un bastardo: mettere sullo stesso piano Libero e gli assassini di Parigi è da bastardi e basta, ma è solo che hai una fottuta paura. Ce l'avevi nel 2006, quando attaccasti le vignette danesi anti-Maometto perché, detto con parole tue, «messaggi violenti provocano reazioni violente». Poi però andasti da Santoro con la maglietta di solidarietà, che nel tuo caso avrebbe dovuto essere: «Siano tutti Charlie, da oggi». E poi via, al calduccio a fare vignette su Berlusconi e su Renzi. Ti teneva compagnia Maurizio Crozza, secondo il quale era meglio sfottere il Papa o Bush «perché loro influenzano il nostro modo di vivere». I bastardi musulmani, in effetti, influenzano il nostro modo di morire.

Niente Adeste Fideles a scuola: "È troppo cristiana". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie, scrive Mario Valenza Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie. Una presa di posizione, quella della preside, che naturalmente non ha mancato di suscitare polemiche nel paese bergamasco. "Cosa significa “troppo cristiano”?", sbotta qualche anziano nella piazza all’ombra del campanile della chiesa. "Dovremo forse chiedere il permesso a qualcuno per intonare i nostri canti di Natale? E un concerto di Natale se non è cristiano cosa è?". Secondo la dirigente Savio, bisogna attingere a un repertorio meno legato alla sensibilità cristiana, visto che l’istituto è frequentato anche da figli di immigrati. Una spiegazione che tuttavia appare poco convincente. Così come la preside appare più realista del re, visto che nessuno tra le famiglie degliu alunni aveva sollevato il problema. "Ci è stato fatto presente - dice Silvia Micheli, 28enne componente del consiglio direttivo della banda al Giorno - che, siccome Casazza è un paese multiculturale, occorre non urtare la sensibilità di nessuno. La richiesta ci ha un po’ sorpresi perché noi siamo una banda parrocchiale. In ogni caso, essendo ospiti, abbiamo deciso, senza polemica, di optare per “Jingle bell rock”, meno connotato". Infine il consigliere regionale della Lega Nord, Silvana Santisi Saita, ha subito rilanciato la notizia sulla propria pagina Facebook rilevando che "La scuola, che dovrebbe formare e integrare, dopo il Presepe adesso censura anche la musica".

Altro che corano: citiamo il Padre Nostro. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità, scrive Alessandro Sallusti Sabato 21/11/2015 su "Il Giornale". E tre. Dopo l'aereo russo e la notte di Parigi, lo stragismo islamico fa tappa in Africa, a Bamako, capitale del Mali. Nel grande hotel degli occidentali si contano i morti e in Europa si rinnova la falsa indignazione di chi a parole fa il duro ma in realtà si tiene ben alla larga dall'affrontare il nemico come si dovrebbe in una situazione come quella che stiamo vivendo. Fa paura pensare che una religione dichiari guerra agli infedeli, ma - coerentemente con quanto scritto nel Corano - è esattamente quello che sta accadendo. Che non si tratti di tutto l'islam o solo di una parte, non so quanto minoritaria, è rebus che lasciamo agli esperti di statistica. Perché, per quanto riguarda la sostanza, i fatti parlano sempre più chiaro. Ieri a Bamako è successo che i terroristi hanno sottoposto 170 ostaggi all'esame di Corano: chi sapeva recitare i versetti del profeta ha avuto salva la vita, chi no è finito nella lista dei condannati a morte. In questa tragedia c'è una beffa atroce, perché se i terroristi islamici avessero voluto - per paradosso - graziare anche i conoscitori dei vangeli, credo che in pochi l'avrebbero scampata, tanta è l'ignoranza di un Occidente che si è voluto auto-scristianizzare in nome del multiculturalismo, fenomeno bello in astratto ma, nei fatti, bomba (in tutti i sensi) pronta a esplodere quando meno te lo aspetti, come infatti sta accadendo. Non parlo della mancanza di fede, che è fatto personale. Parlo della consapevolezza della storia che ci ha generato, che invece dovrebbe essere patrimonio collettivo e collante di civiltà. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità. Se non altro per dimostrare a questa gentaglia «come muore un occidentale» o «come muore un cristiano», sulla scia della celebre frase pronunciata in faccia al boia da Fabrizio Quattrocchi durante la guerra in Irak. Ma forse è chiedere troppo. In un Paese dove Laura Boldrini è presidente della Camera non è tempo di eroi, è il tempo di coccole per i 200mila immigrati islamici «moderati» che in cuor loro tifano Isis. Che brutti tempi.

In Europa crescono i crimini legati all'odio contro i cristiani. È questo uno dei trend che emerge dai dati sugli "hate crimes" diffusi dall'Osce/Odihr per l'anno 2014: in Europa sempre più spesso ad essere colpiti da questo tipo di crimini sono gli appartenenti alla maggioranza della comunità, scrive Alessandra Benignetti Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Chi lo ha detto che sono solo le minoranze ad essere perseguitate? Dal rapporto dell’OSCE/ODIHR, che qualche giorno fa ha reso pubblici i dati del 2014 sui cosiddetti“hate crimes” in 46 paesi del mondo, compresa l’Italia, emerge un quadro ben diverso. Uno dei dati più interessanti di questo rapporto infatti, che ogni anno raccoglie dati sugli "hate crimes", ovvero quei crimini contro persone o beni che sono motivati da un pregiudizio o discriminazione, è infatti quello sui crimini contro i cristiani negli stessi Stati europei. Questo trend è evidenziato dai dati collezionati dall’Osce attraverso un duplice sistema di raccolta informazioni, che coinvolge, da un lato i punti di contatto nazionali ufficiali di 43 Paesi, e dall’altro le segnalazioni di 122 ONG legate alla società civile. Secondo i dati forniti da questi diversi attori, si evince che almeno in tre grandi Stati dell'Europa occidentale, come Francia, Germania ed Italia, le aggressioni fisiche e materiali con alla base pregiudizi contro la fede cristiana, supererebbero in certi casi sia quelle nei confronti di altri gruppi religiosi, sia quelle derivanti da pregiudizi di altra natura. In Italia, infatti, nel 2014 gli “hate crimes” a sfondo religioso, anche contro i Cristiani, vengono subito dopo quelli legati alla xenofobia. A confermare questo trend si aggiungono anche i dati che riguardano, ad esempio, gli “hate crimes” in Francia nell’anno 2013, dove si sono registrati 602 casi di crimini motivati da pregiudizio contro i Cristiani, tra cui 197 casi di profanazione di cimiteri e 405 casi di danneggiamento di chiese. Nello stesso anno in Francia, “solo” 301 sono stati invece, secondo l’Osce/Odihr, gli “hate crimes” contro i musulmani. Anche i dati che riguardano la Germania per il 2014 riportano centinaia di casi di violenza nei luoghi di preghiera, nelle chiese, la profanazione di un cimitero e, nel 2013, anche alcuni casi di aggressione fisica. "Benché i dati pubblicati dall'OSCE/ODIHR siano tra i più completi a livello internazionale, certamente vi è un ampio numero oscuro di “hate crimes” non registrati”, ha commentato Mattia Ferrero, delegato per le attività internazionali dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, sentito al telefono da ilGiornale.it, “tuttavia, è possibile svolgere alcune considerazioni sui trend riscontrabili”. “Uno degli aspetti di maggiore interesse consiste nel fatto che gli “hate crimes” colpiscono tanto le minoranze, quanto le maggioranze. In particolare, gli “hate crimes” contro i Cristiani, anche e soprattutto nell'Europa occidentale, rappresentano un numero molto significativo, comparabile, se non superiore in alcuni casi, a quelli nei confronti di altre comunità religiose” continua l’avvocato Ferrero, “in secondo luogo, essendo gli “hate crimes” motivati da odio religioso, principalmente degli atti di violenza contro luoghi di culto e non violenze contro le persone, le vittime e le autorità sono portati a sottovalutarli, ed è quindi necessario aumentare l'attenzione, sia a livello politico e di opinione pubblica, sia da parte delle autorità, verso gli “hate crime” anticristiani”. Inoltre il delegato dell’Unione Giuristi Cattolici ha sottolineato come occorra “valutare con molta attenzione gli "hate crimes" più ricorrenti, ovvero quelli motivati da odio etnico, razziale, nazionalistico e religioso, perché si tratta di fenomeni che sono in grado di portare ad un escalation di violenza a livello interno ed internazionale”. “La prevenzione di conflitti ed instabilità dell'area europea passa anche attraverso la prevenzione e lotta di questo tipo di hate crimes" ha affermato l’avvocato. Un altro trend che emerge dai dati del report, è quello che vede, in quasi tutti i Paesi esaminati, i casi di hate crimes contro persone LGBT, sottostare in valore numerico ai casi di violenza motivati da odio etnico e religioso, che sono invece predominanti. È quanto ha evidenziato in una nota stampa l’associazione Pro Vita Onlus, tramite il portavoce dell’associazione Alessandro Fiore. “Alcune associazioni e molti organi di stampa presentano il fenomeno dei crimini d'odio contro persone LGBT come un'assoluta emergenza nazionale, i dati oggettivi a nostra disposizione ci restituiscono un quadro diverso”, ha dichiarato il portavoce. Come ha affermato l’Osce nella decisione di Atene n.9 del 2009, quindi, anche gli individui appartenenti alla maggioranza della comunità possono essere vittime di “hate crimes”, ed è importante per questo, si legge nella decisione della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, contrastare i crimini di odio a tutti i livelli. Sono soprattutto questo tipo di crimini spesso, infatti, a minacciare la “sicurezza dei singoli e la coesione sociale”, fino a sfociare in “conflitti e violenza su larga scala”.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 21 novembre 2015 umilia Antonio Di Pietro: ecco la prova, parla arabo. Islam moderato, titoli moderati: trovare un linguaggio comune è la cosa più importante. Chi meglio di Antonio Di Pietro? Ecco il suo contributo (iperstestuale) espresso ieri mattina a «Coffee Break», su La7: «Guardi, si fa presto a riempirsi la bocca... ehm... di... ergh... agenti segreti, la sicurezza, la la... il controllo del territorio... tra i dire e il fare non è mica facile, eh, perché prendi case di questo genere, per poi accorgersi semplicemente quando è già fatta la frittata, non è facile andare all’interno... ma prevenire: bisogna prevenire, ma bisogna anche avere il senso del... ergh... la responsabilità di dire fino a che punto è possibile, ecco perché io ritengo, quel che sta succedendo, che succederà questa manifestazione che fanno... Ergh… domani, sia importante per un motivo molto semplice: perché deve far capire al popolo italiano che... l’islam è una cosa... bh... è una cosa, ebeh... l’Isis è un’altra, che... ergh... la religione musulmana è una cosa, che coloro che... usz.. zhezhe... si riempono la bocca di questa parola ma che in realtà... ergh... sono problemi psichiatrici, sono problemi mentali, sono problemi che... per risolverli bisogna semplicemente isolarli e cercare che qualcuno dica di chi li conosce, di chi ha rapporti con lui, ci dica qualchecosa. Ecco perché sotto questo aspetto io ritengo che il messaggio che viene mandato in questo momento dalle istituzioni, anche dal governo Renzi che io ho sempre contrastato con tante altre (incomprensibile) sia un messaggio corretto... in questo momento dobbiamo stare tutti uniti. Questo momento cominciare a fare polemica quello non va bene quello non va bene quello non va bene, serve semplicemente a creare confusione... il... quel che a me preoccupa qual è? È il proselitismo... quel che a me preoccupa è che ci sono menti malate che vedendo tutto quel che sta vedendo, lo voglio fare anch’io, lo voglio fare anch’io. Perché viene in mente a fare tutto questo. Ecco, in questo senso che cosa può avvenire? Il controllo del territorio siamo innanzitutto noi stessi, senza stare seduto sulla sedia e pensare: perché quello non ha fatto quello? Ma mica è Mandrake, il poliziotto, bisogna che qualcuno glielo dico, e allora quando succedono queste cose, come quelle che avete visto adesso in questa ragazza, sicuramente, nel suo entourage, nel suo ambiente, nel suo territorio, tante persone hanno capite che qualcosa non andava, e allora facciamo una cosa: d’ora in poi ogni volta che capiamo qualcosa che non va, meglio una una segnalazione in più, magari sbagliata... non chiudiamoci... perché i migliori agenti in sicurezza di noi stessi siamo noi stessi. Dobbiamo essere tutti partecipi tutti insieme. Io mi metto a dire male del governo Renzi perché poteva mettere più poliziotti: ma se ci stai pure tu a vederle e segnala il fatto, no?». Così disse il noto moderato Antonio Di Pietro: perché trovare un linguaggio comune - tra l’italiano e l’arabo - è la cosa più importante.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.

I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.

L’Islam è generato da un profeta guerriero ed il suo fine è la morte. I suoi adepti uccidono in nome di Allah materialmente o apologicamente con il loro sostegno o con il loro silenzio. Tutti seguaci di un Dio cattivo perché permette morte, sofferenza, odio, ignoranza, disuguaglianza, intolleranza e retrogradia. Una religione che nega ogni piacere terreno ed ogni libertà. Alle donne non è riconosciuto un paradiso paritario in cielo ed in terra condannate all’inferno: assoggettate all’uomo solo come strumento di piacere ed utilità. Per i diversi non c’è scampo. Imposizione della loro fede e rifiuto di reciprocità di libertà religiosa. Quando un mussulmano uccide gli innocenti, e lo fa spesso con viltà usando il terrorismo, lo fa gridando “Allah akbar” (Dio è il più grande). Il progresso è usato solo come strumento di morte (vedi il nucleare). La cultura dell’Islam è solo la conoscenza del Corano e la divulgazione in tutti i modi del suo messaggio. Prima annettono e poi annientano ogni traccia o testimonianza o storia di altre culture. Il loro strumento di morte è il terrorismo. Viatico di viltà, non di sacrificio.

Il cristianesimo è nato con l’avvento di Gesù Cristo: per alcuni, un profeta di pace; per altri, Dio buono e figlio di un Dio buono che aborra violenza e morte. Un credo per la vita, la libertà e la felicità. I cristiani hanno i loro peccati: veniali e capitali. Mai nessuno, però, ha mai ucciso in nome di Cristo, ricevendo approvazione da parte degli altri cristiani, se non in un’epoca oscura ed oggi rinnegata come quella dell’inquisizione. I sedicenti cristiani hanno ucciso con terrorismo e genocidio, ma non in nome della fede, ma solo in nome di una ideologia: indipendentismo e colonialismo in minima parte; per il restante, totalitarismo di sinistra: nazista, fascista e comunista. I cristiani hanno ucciso mussulmani, affianco ed alleati di mussulmani, ma solo per ritorsione e fanno la guerra a viso aperto. Non usano il terrorismo. Le Crociate sono l’orgoglio dei cristiani veri. Strumento di liberazione di luoghi santi e difesa dei fedeli in quei luoghi trucidati per la loro confessione religiosa. Le crociate hanno scaturito solo progresso e libertà. La cultura occidentale è rappresentare in ogni modo tutte le manifestazioni del creato. Per questo è immensa e sublime. La scienza e la tecnica sono strumenti di vita, benessere e progresso. Le armi di distruzioni di massa, da sempre, sono solo strumento di dissuasione o usati a fine di pace come nella seconda guerra mondiale.

Io da parte mia ho scritto “Culturopoli. L’Italia della Discultura e dell’Oscurantismo”. Sta ai mussulmani ed ai sinostroidi, attingere un po’ di sapere per aprirsi la mente e vedere il mondo da un’altra prospettiva.

Parigi. 13 novembre 2015, ore 21 circa. Attacco all’occidente.

Attentati Parigi: 129 morti e 352 feriti, Isis rivendica. «Più di cinque arresti» in Belgio. Hollande: «Atto di guerra». Quattro italiani feriti. Sette terroristi morti, hanno agito in tre team. L'esplosivo la «Madre di Satana». Perquisizioni e arresti a Bruxelles. Valls: «È guerra, ci saranno altri attacchi». Evacuato volo Air France ad Amsterdam. Un francese arrestato a Londra, scrive "Il Corriere della Sera” il 14 novembre 2015. Il clima di paura che attanaglia Parigi dopo la serie di attentati di venerdì notte non si è quietato nemmeno a 24 ore di distanza dalla carneficina. Sabato sera la polizia ha fatto evacuare la zona della Tour Eiffel e decine di poliziotti hanno circondato e ispezionato l'Hotel Pullman, proprio accanto alla celebre attrazione, comunque chiusa dopo gli attacchi della vigilia. Chiusa anche la vicina stazione della metropolitana e della ferrovia Champ de Mars in quello che, però, si è rivelato un falso allarme bomba, ma che è un chiaro segnale della tensione che attanaglia la Francia. La capitale francese si è svegliata sabato mattina in un clima spettrale dopo la tragedia in quello che sembrava un venerdì di divertimento, spensieratezza e di sport. La puntuale rivendicazione da parte dell’Isis (è «solo l’inizio della tempesta»), arrivata sabato mattina e che la Casa Bianca ritiene attendibile, ha contribuito ad abbattere il clima. «Quello che è successo venerdì a Parigi è un atto di guerra commesso da un’armata jihadista contro i valori che noi difendiamo e che siamo: un Paese libero», ha detto il presidente François Hollande in un discorso televisivo. «La Francia è stata aggredita in modo vergognoso e violento, sarà spietata contro la barbarie dello Stato islamico, agirà con tutti i mezzi, sul fronte interno ed esterno». Sabato sera il primo ministro Manuel Valls, in diretta su Tf1, ha ribadito la posizione di Hollande: «Siamo in guerra. Sarà lunga e difficile. E per questo dico che dobbiamo attenderci altri attacchi». Il procuratore di Parigi non ha escluso che alcuni terroristi siano sfuggiti e siano in fuga e in un’operazione legata agli attentati «almeno 5 arresti» sono stati effettuati in Belgio. L'esplosivo usato è stato il Tatp, perossido di acetone, un potente esplosivo primario talmente instabile da essere soprannominato «la madre di Satana». Si tratta dello stesso tipo di esplosivo impiegato anche negli attacchi di Londra che, il 7 luglio 2005, causarono 52 vittime su metropolitane e autobus. Una miscela di acqua ossigenata, acetone e acido solforico o acido cloridrico, sostanze facilmente reperibili in commercio, che risulta molto sensibile al calore, all'attrito e agli urti, come spiega il Centro nazionale antiterrorismo americano. Il bilancio, «sfortunatamente ancora provvisorio e in continua evoluzione», è pesantissimo: 129 morti e 352 feriti, di cui 99 in stato di urgenza assoluta, 177 in urgenza relativa, ha riferito il procuratore della Repubblica François Molins. Delle vittime, 89 provengono solo dalla sala concerti Bataclan. Sette i terroristi morti e non otto, come affermato in un primo momento. Di questi sei sono riusciti ad azionare i detonatori delle loro cinture esplosive, uno è stato invece ucciso dalla polizia. Nella capitale francese sabato le scuole di ogni ordine e grado, i musei e gli istituti di cultura, ma anche i luoghi simbolo come la Tour Eiffel o il parco di Eurodisney sabato sono rimasti chiusi. Con loro i principali grandi magazzini. Undici stazioni del metrò sono rimaste chiuse, tra queste lo snodo di Place de la République presso i luoghi delle principali sparatorie. Se le scuole - sospese in tutto lo Stato - dovrebbero riaprire lunedì, per i luoghi culturali non è ancora stata presa una decisione. Inoltre, diversi eventi musicali e mondani sono stati cancellati dalle star: gli U2, che avrebbero dovuto suonare sabato sera all’Accorhotels Arena e in diretta tv, hanno rinviato il concerto; Natalie Portman non sarà più alla prima del film «Jane got a gun»; è stato cancellato il photo call di «Bridge of spies» con Steven Spielberg, Mark Rylance e Amy Ryan, previsto domenica; i Foo Fighters, che avrebbero dovuto suonare sabato sera a Torino e lunedì a Parigi, hanno addirittura annullato la tournée. Gli attentatori «Erano bianchi, erano giovani sui 25 anni». E ancora: «Sembravano soldati delle forze speciali». Tra loro potrebbe esserci una donna. Ecco le prime informazioni fornite da alcuni testimoni sull’identità degli attentatori di Parigi che sarebbero arrivati in auto sui luoghi delle stragi. Di certo hanno agito «quasi sicuramente» in tre squadre d’attacco, ha spiegato Molins, invocando «Siria e Iraq» sia all’interno del Bataclan sia negli scambi con le forze dell’ordine. Indossavano tutti cinture esplosive che contenevano anche bulloni per massimizzare il numero di vittime. Di certo uno degli assalitori, che ha agito al teatro Bataclan, si chiamava Ismaël M., aveva 30 anni ed era di nazionalità francese, residente a Chartres, nel centro del Paese. Ma soprattutto era schedato negli archivi dei servizi di informazione francesi dal 2010 per «radicalismo». Aveva avuto problemi di giustizia, ma per reati di tipo comune. «Non era mai stato incarcerato». In serata fonti vicine all'inchiesta hanno riferito che il padre e il fratello di uno dei kamikaze sono sotto custodia: secondo l'Agenzia France Presse sono in corso perquisizioni presso i domicili dei due, a Romilly-sur-Seine e a Bondoufle. Anche in questo caso sarebbero parenti di un cittadino francese, non è stato chiarito se si tratti di Ismaël M. Un altro terrorista, di cui non sono ancora stati resi noti nome e nazionalità, aveva tentato di entrare dentro lo Stade de France, dove stava per iniziare l’amichevole Francia-Germania, con la cintura esplosiva sotto ai vestiti. Sarebbe stato fermato all’ingresso dagli addetti ai controlli e avrebbe fatto detonare l’esplosivo. Lo riferisce il Wall Street Journal. Altri tre sarebbero stati belgi, provenienti dal quartiere di Molenbeek di Bruxelles, zona già interessata dai blitz in Belgio seguiti alle stragi di gennaio a Charlie Hebdoe nel supermercato Hyper Kosher. Un’operazione di polizia è stata effettuata a Bruxelles nel quartiere di Molenbeek e «più di cinque arresti» sono stati effettuati, secondo il ministro della Giustizia belga Koen Geens. Il premier Charles Michel ha poi precisato che uno dei fermati venerdì sera era a Parigi. La pista belga è nata a caldo, visto che già venerdì sera, in alcune testimonianze, si parlava di due auto nere, con alla guida 18-20enni: una delle due vetture, una Polo con targa appunto belga, sarebbe stata ritrovata con nel cruscotto biglietti per il parcheggio del quartiere di Molenbeek a Bruxelles. L’uomo che l’aveva presa a noleggio, un cittadino francese residente in Belgio, è stato arrestato al confine tra i due Paesi. È invece confermata la notizia del ritrovamento di un passaporto siriano sul corpo di uno dei kamikaze morti allo Stade de France: si tratta di un uomo «nato nel settembre 1990 in Siria, non noto ai servizi di informazione francese». Il documento appartiene a un rifugiato registrato sull'isola di Lero, in Grecia lo scorso 3 ottobre, secondo quanto riferito dal ministro dell’Interno di Atene Nikolaos Toskas. E sono sempre le autorità greche a far sapere che anche un altro degli attentatori è probabile sia entrato in Europa passando dalla Grecia. Sono state le autorità francesi, chiedendo l'identificazione attraverso le impronte digitali, a chiedere informazioni ad Atene a riguardo. Secondo l'emittente Mega si tratterebbe di un uomo arrivato in agosto, sempre a Lero. Prende forza un possibile legame con un arresto effettuato il 5 novembre scorso in Baviera. Un uomo era stato arrestato durante un controllo di routine in autostrada e nell’auto sono stati trovati «esplosivi, molte mitragliatrici e pistole». Si tratta di un montenegrino di 51 anni in viaggio proprio per Parigi che, per il premier del Land tedesco Horst Seehofer, ci sarebbe regione di ritenere legato alle stragi di Parigi. Il ministro degli interni tedesco Thomas de Maizière ha spiegato che «ci sono indagini in corso su un’eventuale connessione», precisando che l’arresto era stato segnalato alle autorità francesi. Falso, invece, l’allarme di sabato mattina per un’automobile con quattro persone armate a bordo che avrebbe forzato un casello autostradale nelle Yvelines, a sud-ovest di Parigi. Tra le vittime risultano diversi non francesi: due sorelle tunisine; una cittadina americana; due romeni; due belgi; uno spagnolo; un portoghese; un bulgaro. Il Regno Unito ha fatto sapere che un suo cittadino è stato identificato, ma che teme che tra le vittime ce ne siano altri. Diverse persone, tra cui almeno uno svedese, risultano dispersi. Tra loro c’è un’italiana, Valeria Solesin. Tra i feriti non gravi anche quattro giovani italiani: i fratelli Andrea e Chiara Ravagnani, di Dro, in Trentino, che erano con Soresin, e Massimiliano Natalucci e Laura Appolloni di Senigallia, in provincia di Ancona. In questo caso la donna è stata raggiunta alla spalla da una scheggia o da un proiettile ed è già stata operata, Natalucci è stato medicato. Ambedue non sono in pericolo di vita. Tra i feriti anche un cittadino della Romania. Gli attacchi sono avvenuti negli stessi minuti in diversi luoghi diversi della capitale: cinque nella parte est tra il X e l’XI arrondissement nella zona tra Place de la Republique e la Bastiglia (una delle aree più affollate del divertimento parigino del venerdì sera), un altro nei quartieri settentrionali all’esterno dello Stade de France mentre si stava svolgendo l’incontro amichevole di calcio Francia-Germania, alla presenza di Hollande e del ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier). Questa la cronologia:

21,20: un primo kamikaze si fa esplodere in Avenue Jules Rimet, la strada che fiancheggia lo Stade de France: morta una persona oltre all’attentatore. L’esplosione è udita distintamente all’interno, la partita viene momentaneamente sospesa poi prosegue fino la termine.

21,25: sparatoria nelle terrazze dei ristoranti Le Carillon e Le Petit Cambodge, nel X arrondissement tra Rue Bichat e Rue Alibert provoca almeno quindici morti e dieci feriti.

21,30: un secondo kamizake si fa esplodere in Avenue Jules Rimet fuori dallo stadio: anche qui morto un passante e l’attentatore.

21,32: un’altra sparatoria in un ristorante vicino al primo causa almeno cinque morti: si tratta della birreria À la Bonne Bière in Rue de la Fontaine au Roi, XI arrondissement: 5 morti, 8 feriti gravi.

21,36: al bar La Belle Équipe all’incrocio di Rue de Charonne con Rue de Faidherbe nell’XI arrondissement una nuova sparatoria provoca 19 morti, nove feriti gravi.

- 21,40 circa: un kamikaze si fa saltare in aria dentro al ristorante «Le Comptoir Voltaire» sul boulevard Voltaire, sempre nel XI, ferendo gravemente una persona.

- 21,40: tre terroristi armati entrano nella sala di concerti Le Bataclan mentre è in corso il concerto della band americana Eagles of Death Metal: qui avviene la peggiore strage, 89 morti, centinaia di feriti (tra i quali i due italiani). Qui, secondo alcuni testimoni, avrebbe agito anche una donna. Nel contrattacco delle forze di sicurezza i tre terroristi vengono uccisi: due sono riusciti ad azionare le loro cinture esplosive.

- 21,53 un terzo terrorista si fa esplodere presso il McDonald’s che si trova nei pressi dello Stade de France: oltre al jihadista muore un passante.

- 00,20 del 14 novembre: le forze di sicurezza lanciano il blitz al Bataclan cercando di liberare gli ostaggi. Un terrorista viene ucciso, gli altri due si fanno saltare in aria.

Il presidente Hollande è stato subito portato via dallo Stade de France e ha raggiunto immediatamente l’Eliseo, dove ha presieduto una riunione di emergenza del governo nella quale è stata decisa la dichiarazione dello stato di emergenza e la chiusura delle frontiere. Poi l’Eliseo ha precisato meglio le parole del presidente: le frontiere non sono chiuse ma saranno aumentati i controlli. Le procedure Schengen erano infatti già state sospese dal 13 novembre al 13 dicembre per il vertice sul clima Cop21 di Parigi. «La Francia è più forte e può essere ferita, ma oggi si rialza. Difendiamo la nostra patria, ma anche i valori dell’umanità: la Francia saprà assumersi le sue responsabilità». Il presidente ha annunciato che si rivolgerà alle Camere in seduta congiunta a Versailles, una procedura prevista dalla Costituzione francese per situazioni eccezionali. Hollande ha anche annunciato che non parteciperà al G20 in programma in Turchia nel fine settimana. Sempre sabato mattina a Londra il terminal nord dell’aeroporto di Gatwick è stato evacuato per «misura precauzionale» a causa di un pacchetto sospetto, riprendendo le attività solo intorno alle 16 (le 17 italiane). Un francese di 41 anni, originario di Vendôme (Loira), è stato fermato perché avrebbe compiuto gesti che hanno insospettito le forze di sicurezza e sarebbe stato trovato in possesso di un’arma.

Dal comunicato dell’Isis sulla rivendicazione degli attacchi di Parigi è possibile capire molto sul linguaggio dell’organizzazione terroristica. È Repubblica a fare un’analisi del bollettino di guerra che si apre con la sura Al-Hasr, il bando che fa riferimento all’elemento sorpresa che recita: “quelli fra la gente della Scrittura che erano miscredenti. Voi non pensavate che sarebbero usciti, e loro credevano che le loro fortezze li avrebbero difesi contro Allah. Ma Allah li raggiunse da dove non se lo aspettavano e gettò il terrore nei loro cuori: (…). Traetene dunque una lezione, o voi che avete occhi per vedere”. Non si parla dunque di non attaccare luoghi noti, ma i più nomali, dove loro “non se lo aspettano” come per esempio il Bataclan, un luogo, secondo i terroristi, si teneva “una festa della perversione” dove c’erano “centinaia di idolatri”. I bersagli sono stati scelti “minuziosamente” anche se poco importa che tipo di musica si stesse suonando in quel momento, l’importante era colpire la cultura occidentale. È proprio questa precisione che fa ritenere alla polizia francese che tra i terroristi vi fossero pure dei francesi già schedati come potenzialmente pericolosi. Il comunicato, poi, prosegue con l’elogio ai martiri che si sono fatti esplodere allo stadio dove si giocava l’amichevole Francia-Germania, a cui assisteva “l’imbecille” Hollande. Paesi come la Francia che lottano con ijihadisti nelle zone calde saranno “i principali bersagli dello stato islamico” e sentiranno ancora ‘l’odore della morte’ per aver insultato il Profeta, con un nuovo sottile riferimento implicito a Charlie Hebdo. L’attacco alla laicista Francia, rivendica il documento, è una ripercussione per aver bombardato lo Stato islamico, un atto che non è servito a nulla “quando l’attacco è stato portato nelle maleodoranti strade di Parigi”. Un bollettino che si chiude col versetto 8 della sura 63: “La potenza appartiene ad Allah, al Suo Messaggero e ai credenti, ma gli ipocriti non lo sanno”, con chiaro riferimento a quei musulmani moderati che credono solo a parole.

"Libero Quotidiano" 14 novembre 2015: Bastardi islamici. Maurizio Belpietro: "Altro che siamo tutti Charlie Hebdo: siamo tutti in pericolo, perché il terrorismo islamico non fa distinzione tra uomini e donne, fra combattenti e innocenti. Il terrorismo islamico vuole non solo uccidere, terrorizzare, colpire chiunque sia ritenuto un infedele. Il 2015 è cominciato a Parigi sotto i peggiori auspici, con l’irruzione di due fratelli imbottiti di armi e di odio religioso. E a distanza di meno di un anno il 2015 si conclude nello stesso modo: con un’irruzione in un ristorante, in una sala da concerti e persino allo stadio, con ostaggi e altri morti. La contabilità delle vittime a notte non è ancora nota, ma si parla di decine di cadaveri, né è conosciuta con chiarezza la dinamica, quanti siano i terroristi in campo, di quali fazioni si professino militanti, da dove vengano e come siano potuti sfuggire ai controlli dell'antiterrorismo. Ma in fondo che serve sapere tutto ciò? L'unica cosa che c'è da sapere e che serve a qualcosa è che l'Occidente ha sbagliato tutto e continua a sbagliare".

Maurizio Belpietro e i bastardi: ecco perché difendo quei titoli. Ieri sul titolo di Libero "Bastardi islamici" ha scatenato una serie di polemiche e accuse. Oggi, nel suo editoriale il direttore Maurizio Belpietro difende la scelta e si difende dalle accuse partendo soprattutto dalla lingua italiana. "È come se un cattolico uccidesse delle persone e qualcuno scrivesse bastardi cattolici, ci è stato obiettato. Non tutti gli islamici sono terroristi, non tutti i cattolici sono persone pacifiche. Vero. Ma noi non abbiamo scritto che tutti gli islamici sono terroristi né lo abbiamo pensato (...) Noi non abbiamo insultato gli islamici in generale", scrive Belpietro.  E ancora: "Noi abbiamo scritto: Bastardi (sostantivo) islamici (aggettivo). La lingua italiana è chiara, non lo è solo per chi è in malafede e non vuole vedere la realtà". 

Querelati dal genero di Gino Strada. Pirla on line, tutti gli insulti: farete la fine di Charlie. Il rosario d'insulti è lungo quanto una quaresima, scrive "Libero Quotidiano" il 15 novembre 2015. Ce n'è per tutti i gusti e, soprattutto, è stato saccheggiato l'intero vocabolario delle parolacce. Ovviamente all' appello non mancano quelli che incitano alla violenza pura. Anzi, all' azione fisica. Come fa Alessandro Guerri che su Facebook scrive: «Io li ammazzerei tutti, come quelli di Charlie, d' altronde mica si può scrivere quel che si vuole...poi sai che belle magliette con su scritto Je suis Libero, me comprerei non una ma due». Prego, si accomodi pure. Però il top lo toccano il giornalista Maso Notarianni, genero di Gino Strada, che ha deciso di denunciare il direttore di Libero. Sulla stessa lunghezza Hamza Roberto Piccardo, tra i fondatori dell'Unione delle Comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Intervistato dal quotidiano on line Lettera43, diretto da Paolo Madron, ha affermato di provare «nausea, schifo, dolore più che rabbia», per il titolo di Libero. «Non si rendono conto del male che stanno facendo», chiosa Piccardo, «questi vogliono la guerra civile per interessi politici». Resta uno solo enorme dubbio: contro gli assassini c' è la stessa vibrata indignazione? A volte il dubbio diventa certezza, vista la rapidità dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia. Il presidente, Gabriele Dossena, ha segnalato il titolo «Bastardi islamici», al Consiglio di disciplina territoriale perché faccia una approfondita valutazione del caso e per verificare se ci siano state o no violazioni delle Carte deontologiche della professione giornalistica. E poi c' è la rete che non si smentisce mai. Su Twitter Barbara Collevecchio chiede di dare a quelli dell'Isis «l' indirizzo di Belpietro». E saremmo noi i «seminatori d' odio». Andrea Giambartolomei, invece, «30 anni, scrivo per @ilfattoquotidiano. Frequento tribunali e librerie. Le opinioni sono mie. Rt#endorsement. info sul blog», tocca l' apice: «Se dovesse succedere qualcosa a Maurizio Belpietro non scriverò mai qualcosa tipo #jesuisBelpietro. Ecco». Vorremmo tanto sapere come la pensano al Fatto Quotidiano di personaggi così. E siccome è sempre meglio esagerare una giornalista del Tg2, Chiara Prato, Chiarap su Twitter, oltre a mostrare la prima pagina di Libero ripresa da un sito arabo non ufficialmente Isis ma «simpatizzante», arriva al punto di sostenere che saremmo addirittura «complici dei terroristi». Se qualcuno vuol confondere le idee ai lettori e ai telespettatori ci riesce benissimo. Per fortuna Giuseppe Cruciani, conduttore de La Zanzara su Radio 24, prova raddrizzare la barra. «Non tutti gli islamici sono bastardi, ma quelli che ammazzano sono islamici bastardi», scrive sul social network dei cinguettii. Sempre su Twitter, dove in queste ore «#Libero» è trend topic, si legge: «#Libero sciacallo: persona che per rubare approfitta delle disgrazie altrui», attacca un utente, accusando Belpietro. «Come aggiungere odio all' odio #Libero #vergogna», aggiunge Carlotta. Tanti chiedono poi di intervenire contro Belpietro: «Prima pagina di #Libero su #ParisAttacks. Ma come vi salta in mente? Radiare Belpietro dall' ordine dei giornalisti. Subito», scrive Stefano Sanguineti. Ma c' è anche chi difende la scelta di Libero. «Per la #fecciarossa il vero problema è il titolo di #Libero», ribatte un altro utente. Mentre un secondo scrive: «Non sarà censurando #Libero che si vincerà la guerra in atto contro l'#ISIS».

Per farsi notare denuncia Belpietro per “istigazione all’odio religioso”, scrive Francesco Severini sabato 14 novembre 2015 sul “Il Secolo D’Italia”. Maurizio Belpietro, direttore di Libero, è stato denunciato dal giornalista Maso Notarianni, ex caporedattore del quotidiano di Rifondazione comunista, Liberazione, per il titolo della prima pagina di oggi, Bastardi islamici, riferita agli attentati di Parigi. Un titolo volutamente “forte”, frutto di una corale indignazione ma che ha suscitato non poche polemiche. Un dibattito, quello sul linguaggio da utilizzare in situazioni tragiche come quelle che l’Occidente sta vivendo, passato in secondo piano dinanzi alle drammatiche notizie che arrivano da Parigi. Un dibattito che sicuramente tornerà a fare capolino anche se sarebbe utile che tutte le energie intellettuali disponibili, anche quelle di Notarianni, siano spese per approfondire e comprendere la fase che stiamo vivendo anziché ingaggiare una guerra delle parole con il direttore di un giornale evidentement sgradito agli esponenti della sinistra. “La legge italiana stabilisce dei confini per la libertà di satira e di stampa, io – spiega Notarianni – credo quel titolo sia un’istigazione all’odio religioso con l’aggravante dell’insulto a una religione. Quel tipo di comunicazione è pericolosa oltre che criminale, credo sia stato sensato fare una denuncia”. Ora, mentre il mondo si interroga sulle strategie da adottare per fronteggiare la bestialità dei jihadisti, il pericolo è davvero rappresentato dai titoli, sia pure opinabili, di Maurizio Belpietro? “Qualcuno ci dà degli ignoranti – replica Belpietro – per il titolo Bastardi islamici. Ignoranti son quelli che non sanno che bastardo significa figlio illegittimo”. A Belpietro ha risposto, tra gli altri, Cecilia Strada: “Unghie sugli specchi a parte, siete seminatori di odio. Che genera odio. Non ve l’ha insegnato la mamma? Siete pericolosi”. Pericolosi, dunque, sarebbero i giornalisti di Libero. Su altri e ben più concreti pericoli, invece, meglio sorvolare. Questa è la logica di una sinistra sempre più disconnessa dalla realtà.

La sinistra non condanna l’estremismo islamico, ma attacca la destra. La colpa degli attentati di Parigi è dell’Islam, perché islamici i suoi esecutori. Ma se il centrodestra lo dice, per la sinistra sta facendo sciacallaggio. Loro lo chiamano sciacallaggio, noi buonsenso. Condannare l’Islam, tutto l’Islam, per i terribili attentati di Parigi non significa cavalcare “i corpi ancora caldi”. I tweet di Salvini, quelli di Daniela Santanché, le condanne del centrodestra a un’Europa che si è svegliata schiava del buonismo sono segno di ragionevolezza. Non opportunismo politico. Per l’intellighenzia radical-chic, invece, no. Nemmeno il tempo di dormire qualche ora con le immagini del massacro ancora davanti agli occhi, ed ecco che l’Espresso pubblica in pompa magna un articolo in cui anziché biasimare l’Islam attacca il centrodestra. La sua colpa, secondo i signori buonisti, è quella di avere “il tweet già salvato da qualche parte, pronto in canna per essere lanciato al momento opportuno”. Certo. Non è l’islamismo il problema, non lo sono le bombe né i 128 morti. Il problema sono i tweet di Salvini, i titoli dei giornali di centrodestra. “La serie di attentati che ha sconvolto Parigi – scrive su l’Espresso Mauro Munafò – è diventata l’occasione perfetta per i politici italiani di Lega e destra per riversare il loro odio su social network, prendendosela genericamente con tutto l’Islam, attaccando chiunque chiedesse di ragionare prima di sparare a zero, appoggiando interventi e soluzioni rapide giusto per fare incetta di like e, nelle loro speranze, voti”. Maledetto prosciutto negli occhi. Nemmeno di fronte al fatto compiuto riescono ad ammettere che le porte aperte, il relativismo, la favola della differenza tra Islam radicale e moderato hanno generato un mostro, quotidianamente allattato. Uno sgorbio ormai troppo grande da estirpare. “Buonisti=complici”, ha scritto ieri sera Matteo Salvini. “L’Islam festeggia i nostri morti”, aggiungeva Daniela Santanché. E la sinistra, lei sì sciacalla, affonda il colpo. Cosa c’è di sbagliato, ci chiediamo. L’Islam “moderato” ha dimostrato di non essere all’altezza. Non esiste nessuna “degenerazione” o “follia” jihadista. I terroristi hanno agito con cognizione di causa, sapevano dove colpire. Sapevano cosa colpire: i luoghi dello svago, il tempo del calcio. L’Europa si è di fatto sottomessa a tutto questo. Accettando finanche di limitare la propria libertà pur di affermare l’ideologia buonista. Crocifissi nell’urina e mostre cristiane negate sono solo la punta dell’iceberg. La guerra è brutta, ma il pacifismo, ormai, è inutile. Il centrodestra da tempo ha lanciato l’allarme. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Fonte: il giornale.

Così la sinistra radical-chic del web insulta la Fallaci. C'è chi la paragona al vitel tonné e chi attacca Salvini per aver proposto la lettura obbligatoria dei suoi libri nelle scuole, scrive Francesco Curridori Sabato 14/11/2015 su “Il Giornale”. Sui social, a distanza di anni, si rende il dovuto tributo alla scrittrice Oriana Fallaci, vista come un'infallibile Cassandra. Ma non mancano quelli che bistrattano i suoi lettori come degli ignoranti che condividono acriticamente i suoi pensieri. Proprio sulla pagina Facebook dell'Espresso, come testo di accompagnamento a un articolo sui fatti di Parigi, si può leggere: “Prima di condividere acriticamente citazioni di Oriana Fallaci e status di Salvini, leggete questo - dal blog Il Paese che non ama". In molti, poi, ricordano la lettera che Tiziano Terzani gli indirizzò che terminava con queste parole: "La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte". Altri utenti di Facebook scrivono: "Aveva ragione Oriana Fallaci", su internet tornano le frasi della scrittrice fiorentina. "Certo, non basterà un #JeSuisParis a risolvere i problemi. Ma citare i deliri razzisti di Oriana Fallaci peggiora solo la situazione" oppure di Twitter: "La Fallaci viene citata da chi dubito l'abbia mai letta. Io invece spero che ragione, eguaglianza e voglia di creare un mondo migliore vincano su paura del diverso, ignoranza e violenza". Una delle frasi più offensive forse è questa: "Oriana Fallaci è come il Vitel Tonné a Capodanno: a nessuno piace, ma qualcuno insiste sempre a tirarlo fuori per l'occasione". Le più politicamente rilevanti però sono i tweet che i followers di Matteo Salvini hanno scritto in risposta all'invito di rendere obbligatoria la lettura dei libri della Fallaci. Il commento più significativo viene dal matematico e filosofo Francesco Maria Fontana: "Salvini ha torto. E Fallaci ha grandi responsabilità: ha predicato l'odio razziale e religioso. E l'odio genera odio".

Gli attentati di Parigi e la Fallaci. «Scusaci Oriana, avevi ragione». Il risarcimento postumo è online. Aspra ma vera, violenta ma realista. Fallaci protagonista su Facebook e Twitter, scrive Pier Luigi Battista su “Il Corriere della Sera” del 15 novembre 2015. Su Twitter, su Facebook, sui social network, dopo l’apocalisse di Parigi è tutto uno «scusaci Oriana». Anzi, tutto no. La parte opposta se la prende aspramente, rancorosamente, con «il delirio della Fallaci», con «l’odio fallaciano». Uno ha scritto, come in una disputa teologica, contro il «fallacianesimo». Ma insomma, da una parte e dall’altra fioriscono le citazioni di Oriana Fallaci. Si vede nel massacro di Parigi il frutto della «profezia di Oriana». Si citano brani interi de La rabbia e l’orgoglio, un libro che ha venduto un numero incalcolabile di copie, che ha intercettato un umore popolare, che ha dato voce a un sentimento diffuso. E oggi, dopo anni di dimenticanza e di marginalizzazione, lo «scusaci Oriana» sembra essere la ricompensa postuma, il risarcimento per una sordità, quasi a considerare Oriana Fallaci come una intrattabile estremista. Mentre ora si vede che le sue diagnosi non erano poi così insensate. Un passo della Fallaci molto citato: «Intimiditi dalla paura di andar controcorrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione». «Brava Oriana», «Scusaci Oriana», «Non ti hanno voluto ascoltare Oriana», si batte e si ribatte sui social network. E giù anche con gli improperi di Oriana Fallaci sull’Italia molle e arrendevole, «l’avamposto che si chiama Italia» come lo definiva beffardamente lei: «avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». E sulla «coglioneria» s’alza la standing ovation dei fallaciani dell’ultimissima ora, o forse della prima perché compravano avidamente i suoi libri ma non avevano il palcoscenico di Internet sul quale esibirsi. E la profezia della Fallaci che viene rilanciata, e poi contestata, e poi brandita come un’arma della guerra culturale, e poi vituperata, e poi sventolata come una bandiera: «Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi». E poi, la previsione più precisa, geograficamente circostanziata, in perfetta connessione con l’orrore che ha scosso la Francia: «Parigi è persa, qui l’odio per gli infedeli è sovrano e gli imam vogliono sovvertire le leggi laiche in favore della sharia». La Francia che non ha mai amato Oriana Fallaci. E bisognerebbe anche ricordare che in Francia la Fallaci, assieme a Michel Houellebecq molto prima che uscisse Sottomissione, fu messa sul banco degli accusati con l’imputazione, che assomiglia a una scomunica ideologica, di «islamofobia»: un’impostura intellettuale che diventa reato e che in Francia, nella Parigi che ieri è stata sconvolta dalla follia fanatica dei combattenti jihadisti, è diventata un’arma di ricatto per tacitare la «parola contraria», come direbbe Erri De Luca in un contesto peraltro completamente diverso. La Fallaci del dopo 11 settembre ha sempre diviso l’opinione pubblica: l’hanno amata e l’hanno odiata, hanno comprato milioni di suoi libri e l’hanno bollata come fanatica al contrario, come guerrafondaia scatenata, come una pericolosa incendiaria quando descriveva Firenze assediata e violentata dagli immigrati che orinavano sul sagrato del Duomo, con un’immagine aspra, violenta. Senza che nessuno si chiedesse: aspra ma vera? Violenta ma corrispondente alla realtà? Oggi, dopo il massacro di Parigi, quelle domande tornano di attualità e vengono assorbite e fagocitate da quel grande mostro onnivoro che è il mondo dei social network. «Scusaci Oriana» su Twitter. Neanche una «profezia» della Fallaci poteva arrivare a tanto.

Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista. La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno, scrive Claudio Magris su “Il Corriere della Sera” del 15 novembre 2015. Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato. In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati. Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -- anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene. È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb. A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo. È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati, perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana. La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente - esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano, purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato.

Non è solo terrorismo, l'Islam integralista dell'Isis è come il nazismo. Dobbiamo affermare che non è più tempo di sentirsi in colpa e fare distinguo tenendo solo presente che l'Islam non è il terrorismo così come il cristianesimo non era la sant'inquisizione ma che l'isis è come il nazismo, scrive Marco Carrai il 15 Novembre 2015 su “Il Foglio”. Le immagini di Parigi di venerdì notte hanno forse tolto l'ultimo velo alle profetiche parole pronunciate da Papa Francesco qualche tempo fa e nuovamente ieri: siamo pienamente dentro la terza guerra mondiale. Immagini che eravamo abituati a vedere da decenni in luoghi come Kabul, Beirut, Baghdad sono piombate dentro le nostre case, le nostre vie, i nostri ristoranti, i nostri luoghi di spensierato intrattenimento e ci hanno improvvisamente svegliato dal torpore talvolta buonista talvolta integralista che ci ha avvolto da anni. La Francia - paese che, anche grazie alle sue storiche rivoluzioni ha portato la modernità e la libertà che oggi sentiamo minacciate - è stata attaccata con atti di guerra terroristica e ha risposto con la chiusura delle frontiere. Questa scelta è emblematica di quanto ancora non si sia capito che il nemico lo abbiamo in casa. Coltivato dal buonismo che ha fatto dell'accoglienza senza se e senza ma un mantra e da un altrettanto uguale sentimento di intolleranza che ha messo ai margini non integrandoli generazioni di immigrati che hanno costruito città con proprie regole, dentro città che da 400 anni vivono invece con regole di libertà. Se ancora oggi non possiamo non dirci tutti francesi allora diciamolo fino in fondo ma traiamone le conseguenze. La rivoluzione francese nasce per l'eliminazione di privilegi e per costituire uno stato che abbia una sua propria costituzione dentro la quale i cittadini si riconoscono. E' come il figlio di una famiglia adottiva. Ha un genitore naturale ma, cresciuto da un'altra famiglia vive, convive ed accetta gli insegnamenti della sua famiglia adottiva. Quando non è così succedono solo disastri. Se è vero che nessuna cultura è superiore ad altre, è anche vero che le culture subiscono mutamenti e sarebbe solo falso buonismo non affermare con forza che 400 anni della recente storia ha permesso all'occidente di costruire una piattaforma tollerante di cittadinanza mentre ancora qualcuno decide di uccidere in nome di Dio. Oggi più che mai, dobbiamo riporre la nostra fiducia nella nostra Intelligence e capacità di prevenzione anche a costo di veder ridurre momentaneamente - ma solo momentaneamente perché altrimenti avrebbero vinto loro - alcuni nostri diritti. Ma qualsiasi attività preventiva seppur fatta al meglio non servirà da sola se non capiamo che i pazzi non possono trovare posto nella nostra civiltà e nei nostri Paesi. Forse, anzi di sicuro, con tutta la forza dobbiamo affermare che non è più tempo di sentirsi in colpa e fare distinguo tenendo solo presente che l'Islam non è il terrorismo così come il cristianesimo non era la sant'inquisizione ma che l'isis è come il nazismo. Noi siamo più forti solo perché abbiamo le nostre regole e le nostre libertà. In definitiva la nostra cultura. Che va difesa. Ad ogni costo. Così come altre volte è successo nella storia del 900. 

Basta buonismo: fuori le palle, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale” il 14 novembre 2015. L’Occidente è sotto attacco. Siamo tutti sotto attacco. Parigi, Madrid, Londra o Casalpusterlengo. Poco cambia. Ai loro occhi siamo tutti uguali. Siamo noi che ci sentiamo tutti diversi e andiamo avanti in ordine sparso. La mattanza di Parigi è l’11 settembre – l’ennesimo – dell’Europa. È una carneficina che macella la nostra carne, le nostre vite e la nostra sgangherata società. Ci odiano. Ci vogliono annientare. Chiunque essi siano. Questi bastardi che agiscono in nome di Allah. Non c’è un criterio, non c’è una scelta nella loro follia. Non c’è niente. Solo la voglia di sangue. Loro sono colpevoli. Ma hanno dei complici. Oggi è schiantato il multiculturalismo, il sogno dell’integrazione, l’illusione lisergica del melting pot, la retorica bavosa e cattocomunista delle porte aperte, l’ipocrisia del terzomondismo col culo degli altri. Poi c’e l’iniquità politica dell’Europa, che essendo un’Europa delle banche e degli affari se ne fotte dei cittadini e di quello che gli succede. Non fa politica estera, al massimo fa commercio estero. E Obama? Questo premio Nobel per la pace sulla fiducia, questo pessimo politico favorito dalla pigmentazione della sua pelle, non esiste. È un fantasma. Persevera in una politica estera nella quale il limite del globo è l’ombelico dell’America. L’11 settembre 2001 siamo stati tutti americani, non solo nelle parole, anche nei fatti. Anche nelle guerre sbagliate. Sbagliatissime. Ma nessuno, mai, in questi anni si è sentito veramente europeo davanti all’orrore del terrorismo. Nè gli americani, nè gli europei. Poi c’è il governo italiano. Che ha il potere, la sovranità, le qualità di un’amministrazione condominiale e la lungimiranza di una talpa. Siamo nelle mani di Renzi e di Alfano. E tra meno di un mese c’è un Giubileo che ci stamperà sulla fronte i cerchi concentrici del bersaglio. Comunque vada, e speriamo bene, dobbiamo sapere che al momento abbiamo perso. Avremo paura a prendere la metropolitana, ad andare al lavoro, a girare per Roma e per Milano. Il terrorismo ci ha mangiato il mondo, lo ha ridotto, ristretto. Facciamo un discorso stupido: pensate in quanti posti non andreste in vacanza ora? Egitto e Tunisia. Probabilmente Marocco e Turchia. Iraq, Afganistan e Siria sono ovviamente impraticabili. Ma anche Parigi e tutte le capitali europee. Tra poco avremo paura a prendere l’aereo, il treno, l’autobus. Ieri sera sono morti degli innocenti seduti in un ristorante e in un teatro. Senza colpa. Senza motivo. Stavano facendo le cose di tutti i giorni. Vogliono rinchiuderci in casa, toglierci la libertà, vietarci il mondo, impedirci la vita se non ce la fanno a togliercela. Siamo dei bersagli. Non è più il momento dell’ipocrisia, delle belle parole, dell’altruismo, dell’accoglienza per tutti. Abbiamo bisogno di un po’ di egoismo. Siamo in tempo di guerra. E dobbiamo farla. Anche al buonismo che ci impedisce di difenderci. O saremo sottomessi.

Maometto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) è stato il fondatore e, per i musulmani, l'ultimo profeta dell'Islam. Considerato dai musulmani di ogni declinazione - ad eccezione degli Ahmadi - l'ultimo esponente di una lunga tradizione profetica all'interno della quale occupa una posizione di assoluto rilievo, Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti, sarebbe stato incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo tra gli Arabi.

Prima della Rivelazione. Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato") nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a alīma bt. Abī Dhuʿayb, della tribù dei Banū Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei hanīf, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un hanīf e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahīra - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sīra) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Isāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fātima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthūm e Fāima, detta al-Zahrāʾ (tutte premorte al padre, salvo l'ultima) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.

Rivelazione. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam) significa semplicemente "Iddio". Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto ajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ʿArafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta ʿumra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Kaʿba. Maometto, come altri anīf, era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrāʾīl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasūl) di Allah con le seguenti parole: « (1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva». Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (anīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.

È ancora oggetto di disputa la questione riguardante l'analfabetismo di Maometto. Si nota come la sua professione di commerciante abbia potuto portarlo in contatto con altre lingue e altre culture, e come sia intervenuto, secondo una tradizione riportata da Tabari, per apportare una correzione riguardante la sua firma nel Trattato di udaybiyya. Ci sarebbe poi una lettera autografa, conservata nel museo Topkapi di Istanbul. Secondo alcuni, tutto deriverebbe da un equivoco riguardante l'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Altre fonti fanno notare come le personalità in grado di leggere e scrivere, nel periodo precedente all'Egira, fossero una quindicina, tutte conosciute per nome, e in effetti il Corano sarebbe il più antico libro arabo in prosa. Studiosi occidentali fanno notare come le tribù nomadi, compresa quella di Maometto, disprezzassero la scrittura, privilegiando la trasmissione orale delle conoscenze. La maggior parte dei musulmani propende per un analfabetismo del loro Profeta, escludendo pertanto radicalmente che egli abbia potuto leggere la Bibbia o altri testi sacri, che del resto sarebbero comparsi in forma scritta solo diverso tempo dopo la sua morte. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara al-mubashshara). La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ʿUthmān b. ʿAffān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).

Gli ultimi anni a Mecca e l'Egira. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿĀʾisha bt. Abī Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, trecentoquaranta chilometri più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.

La Umma e l'inizio dei conflitti armati. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo aīfa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi. L'ostilità di Maometto nei confronti dei suoi concittadini si concretizzò nel primo vittorioso scontro armato ai pozzi di Badr, alla successiva disfatta di Uud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro i politeisti Quraysh che lo avevano inutilmente assediato.

L'atteggiamento verso gli ebrei. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʿ e dei Banū Naīr, mentre dopo la vittoria nella cosiddetta "battaglia" del Fossato (Yawm al-Khandaq), i musulmani decapitarono tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù dei Banū Qurayza, arresasi ai seguaci del Profeta in conseguenza del fallimento dell'assedio dei Quraysh e dei loro alleati arabi, protrattosi per 25 giorni. Le loro donne e i loro bambini furono invece venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La cruenta decisione fu probabilmente la conseguenza dell’accusa di intelligenza col nemico durante l’assedio ma la sentenza non fu decisa da Maometto che invece affidò il responso sulla punizione da adottare a Saʿd b. Muʿādh, sayyid dei Banū ʿAbd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws e un tempo principale alleato dei B. Quraya. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per quella soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quraya che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ijāz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che, nel suo Muhammad and the believers (Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 74), afferma « dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, p. 76-77). » Una minoranza di studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente ritenendo che Ibn Ishaq, il primo biografo di Maometto, abbia presumibilmente raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Qurayza. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli dell'incidente prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana.

La conquista dell'Arabia e la morte. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banū Hawāzin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.

Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fāima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī ālib, madre dei suoi nipoti al-asan b. ʿAlī e al-usayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

Origine del nome. "Maometto" è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome "Muhammad", utile semplificazione della pronuncia. La parola araba "muhammad", che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare). Secondo lo studioso francese Michel Masson], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo (e da ciò deriverebbero, a suo dire, il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo si esprimono alcuni scrittori italiani che ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto", volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam.

Maometto secondo i non musulmani. Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato dalla Cristianità occidentale e orientale, come una delle tante eresie del Cristianesimo nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono sovente il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, e mossero critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada. Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto, per l'influenza su di lui esercitata dal suo Maestro Brunetto Latini, che riteneva Maometto un chierico cristiano di nome Pelagio, appartenente al casato romano dei Colonna - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di scandalo e di scisma nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:« ...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero... » in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani. È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi. Il motivo per cui Dante lo colloca tra i seminatori di discordie e non tra gli eresiarchi è probabilmente dovuto a una leggenda medievale che parla di Maometto come vescovo e cardinale cristiano, che poi avrebbe rinnegato la propria fede, deluso per non aver raggiunto il papato o per altra ragione e avrebbe creato una nuova religione «mescolando quella di Moisè con quella di Cristo». Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.

Si può ridere di Dio? Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura, scrive Paolo Pegoraro su  “Aleteia”. Ricordiamo tutti il monaco cieco che, ne Il nome della rosa, avvelena quanti si avvicinano al prezioso scritto nel quale Aristotele difende la commedia e il riso. È vero che la tristezza intossica, meno che il Medioevo sia stato un’epoca di cupa e triste penitenza. Eric Auerbach, nel suo immortale studio Mimesis, ha documentato che la struttura portante della narrativa cristiana, a partire dai Vangeli, è proprio la commedia… non la tragedia. E Dante, con la sua Comedìa, ne è la pietra miliare. Lo affianca il prologo che Francois Rabelais – frate francescano (a suo modo), monaco benedettino (a suo modo), parroco diocesano (a suo modo) – antepone al Gargantua et Pantagruel: «Altra cosa non può il mio cuore esprimere / vedendo il lutto che da voi promana: / meglio è di risa che di pianti scrivere, / ché rider soprattutto è cosa umana». Altrettanto si potrebbe dire per il suo predecessore padano, il monaco, poi ex monaco, infine di nuovo monaco Teofilo Folengo. La tradizione del grottesco e del caricaturale crebbe febbrilmente in Occidente: dalle deformi statue gotiche alle pagine grottesche di Flannery O’Connor fino al caricaturale Vangelo secondo Biff di Christopher Moore. Per contrapporsi e disgregare le istituzioni, si dirà. Fosse pure, il fatto è che la tradizione comico-grottesca crebbe qui come non altrove. Prolificò qui un umorismo religioso, dissacrante, talora perfino blasfemo. Nessuna sorpresa: le barzellette più sconce vengono bisbigliate in sacrestia. Come si rapporta, allora, Dio con il ridere? Il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh espose il suo pensiero in maniera convincente nella composizione A View of God and the Devil (Una visione di Dio e del Diavolo – traduzione dell’autore).

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Ho incontrato Dio Padre sulla strada e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: divertente, sperimentale, irresponsabile sulle frivolezze. Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio né impressionerebbe un vescovo o un circolo di artisti. Non era splendido, spaventoso o tremendo e neppure insignificante. Questo era il mio Dio che fece l’erba e il sole e i ciottoli nei ruscelli in aprile; questo era il Dio che ho incontrato in una vecchia cava colma di denti-di-leone. Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino mentre vagavo per strade inconsapevoli. Questo era il Dio che covò sui campi erpicati di Rooney accanto alla statale Carrick il giorno che i miei primi versi furono stampati io lo conobbi e mai ebbi paura di morte o dannazione e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.

Il Diavolo anche il Diavolo ho incontrato, e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: solenne, noioso, conservatore. Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio, sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo, assomigliava a un artista. Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani andava in collera quando qualcuno rideva; era grave su cose senza peso; dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità perché era consapevole di non essere creativo.

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Colpisce che il primo aggettivo scelto da Kavanagh per descrivere il “suo” Dio sia proprio amusing (“divertente”) in opposizione a quel povero diavolo che «andava in collera quando qualcuno rideva». Perché rideva proprio di lui, probabilmente, abituato a prendersi “dannatamente” sul serio. Mentre il divino sa essere irresponsabile «sulle frivolezze», il demoniaco è grave «su cose senza peso». Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura. Mentre il divino umorismo ha mille sfumature, la “dannata” serietà è monolitica e monotona. Il Dio di Kavanagh è un Dio autoironico. Non è possibile deriderlo semplicemente perché è Lui il primo a ridere di se stesso. Non si può ridere “di” Dio semplicemente perché si può ridere soltanto “con” Lui. Proprio perché così prolificamente creativo (egli “cova” i campi come una chioccia) e fantasioso, non sorprenderebbe se fosse Lui in persona l’autore delle migliori storielle su se stesso. Se il demoniaco rivela il proprio «complesso d’inferiorità» irrigidendosi di continuo, nel vano tentativo di nascondere la propria sterilità, per contro il sigillo della creatività senza limiti è l’umiltà (umile, yet not insignificant!). E, fra tutte, l’autoironia è la forma di umiltà più bella. Perché l’autoironia è una forma di umiltà così autentica che proprio non ci riesce, a prendersi sul serio.

Chiunque sa ridere degli altri, basta avere un granello d'intelligenza; ma per ridere con loro di se stessi, occorre un'oncia di santità.

Divina Commedia. Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella bolgia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.

Dante, Maometto e Charlie Hebdo, scrive “Biuso”.

«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi e con le man s’aperse il petto,

dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”

vedi come storpiato è Mäometto!’»

(Inferno, XXVIII, 22-31).

Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i più pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […]  Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).

«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).

«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).

«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).

Dante e l’Islam. È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (“La escatologia musulmana en la Divina Comedia”) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’inferno e al paradiso. Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante. Si stava per celebrare il sesto centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “extracomunitari” straccioni? Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Ormai è assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba. Sono la “Vita di san Maccario romano”, il “Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre”, la “Visione di Tugdalo”, sino alla leggenda del pozzo di san Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo. E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel “Libro della Scala”, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese. Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta? Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una “Collectio toledana”, dove Pietro il Venerabile, abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici - tutto questo prima della nascita di Dante. E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca. Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi “Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta”, con una prefazione di Cesare Segre. Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios. Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale. Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luini ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di “Dante e l’Islam”, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1993. Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.

Maometto prima di Dante all'inferno. Un viaggio miracoloso che precede e forse ispira la «Commedia». Ma è solo apologetico, scrive Segre Cesare su “Il Corriere della Sera”. Nei suoi ultimi dieci anni Maria Corti era tutta presa dal problema dei contatti arabo-cristiani nella letteratura medievale. Punti di riferimento, sostanzialmente due: il tema del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole, forse derivato da tradizioni arabe, e gli eventuali contatti fra la Commedia e un testo musulmano, il Libro della Scala, che narrava il miracoloso viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme e la sua successiva visita nei regni oltramondani. Per i due protagonisti, Ulisse e Dante, l'obiettivo è il mondo dei morti: sfiorato da Ulisse, attraversato da Dante. Le ricerche della Corti diedero spunto ad articoli e conversazioni, dibattiti, interviste. Ci si potrebbe stupire di tanto interesse per problemi che non trovarono del tutto le soluzioni desiderate, ma davvero stimolante per il lettore era già la possibilità di immergersi in problematiche di ricerca sempre più raffinate, che, indipendentemente dalle auspicate conclusioni, attraversavano punti nodali della cultura del Medioevo.Si sa che fra cultura musulmana e cultura occidentale esisteva una notevole interrelazione, che l'intensa attività traduttoria rese ancora più stretta. Si traduceva, naturalmente, dall'arabo al latino e alle lingue romanze, e non viceversa. Tra le opere tradotte, c'è il cosiddetto Libro della Scala: l'originale arabo è perduto, così come la sua prima versione spagnola, opera di un medico ebreo legato al re di Castiglia Alfonso el Sabio, ma rimangono due traduzioni, una latina e una francese, derivate dalla versione spagnola e da ascrivere (sicuramente la prima, forse la seconda) a un notaio toscano, Bonaventura da Siena, esule, dopo il 1260, presso Alfonso.Il Libro della Scala è forse la traduzione dall'arabo che ha suscitato più interesse, ma non tanto nel mondo medievale, quanto semmai presso i lettori moderni, e per una ragione molto semplice: le sue vere o apparenti rassomiglianze con la Commedia. Che Dante abbia conosciuto e imitato il popolare libro arabo?La prima curiosità per l'opera si era manifestata dopo l'edizione del testo latino pubblicata da Enrico Cerulli (1949): nella postfazione, Cerulli insisteva sul problema dei rapporti tra Libro e Commedia, riferendosi ai concetti di plagio e di imitazione (due concetti, sia detto per inciso, che ora noi trattiamo diversamente, parlando piuttosto di intertestualità e interdiscorsività). Poi tutto si calmò, almeno fino agli studi della Corti. Ora, una nuova edizione del Libro ci consente di riprendere il discorso, alla luce anche di nuove scoperte e prospettive. Il problema non è più analizzare le affinità, ma distinguere tra ciò che accomuna le due opere perché elemento diffuso nella cultura del tempo, e ciò che è stato trasposto di proposito dall'una all'altra narrazione. Si tenga conto che nel Medioevo lo scambio d'invenzioni e d'immagini era frequentissimo, anche tra gli apologeti delle tre fedi monoteistiche.La nuova edizione che ci propone Anna Longoni, allieva della Corti (Il libro della Scala di Maometto, Bur, pp. 368, ? 13), ha come pregio maggiore quello di offrirci un'edizione filologica della versione (o riscrittura) latina, testimoniata da due manoscritti, uno vaticano, dell'inizio del XIV secolo, e l'altro conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, affiancata da una precisa traduzione in italiano moderno. Ma non vanno trascurati né l'Introduzione, molto informata, né, in appendice, la ristampa del principale articolo della Corti su Dante e la cultura islamica.In partenza, direi che gli elementi congiuntivi tra Libro e Commedia sono soprattutto la strutturazione dei regni ultraterreni e la descrizione delle pene dei dannati, mentre quello disgiuntivo è lo spirito completamente diverso che anima le due opere. La Commedia ha finalità didattiche, filosofiche e narrative, in fondo anche autocelebrative; il Libro della Scala è l'esaltazione di Allah e della sua potenza, e la consacrazione di Maometto come profeta. In più, la Commedia è primariamente un'opera d'arte, mentre il Libro della Scala è opera eminentemente apologetica. Ma ciò che allontana la Scala dalla Commedia è la diversissima tradizione che caratterizza le due opere. Perché i temi del «viaggio notturno» e dell'«ascensione al cielo» di Maometto, di cui il Libro della Scala presenta una redazione particolare, sono maturati attraverso il tempo: concepiti già all'epoca di Maometto (VII secolo), sono stati rielaborati precocemente (dice la tradizione) da Ibn'Abbas, cugino del Profeta, riscritti nel IX secolo. E continuano tuttora a circolare, anche a livello popolare (in proposito, si può leggere l'edizione del Viaggio di Ibn'Abbas a cura di Ida Zilio-Grandi, Einaudi 2010). Della Commedia viceversa sappiamo tutto, o quasi, dato che ci è noto chi l'ha scritta e quando. Nel tessuto dello stesso Libro è evidente la bipartizione tra il «viaggio notturno» di Maometto per andare dalla Mecca a Gerusalemme su una specie di ippogrifo, e il «Libro della scala», in senso stretto, che prevede l'ascensione di Maometto, attraverso la scala di Giacobbe, dall'inferno al paradiso, sino all'incontro con Allah. A un certo punto le due parti sono state cucite assieme: si tenga conto che si tratta di un'opera a tradizione orale, dunque aperta a qualunque contaminazione, anche se va riconosciuto che il contenuto rimane in fondo unitario. Ma Dante come avrebbe potuto conoscere il Libro della Scala? S'era inventata una favola ingegnosa, senza prove: Brunetto Latini, ambasciatore dei guelfi fiorentini alla corte di Alfonso el Sabio, una volta tornato a Firenze, avrebbe potuto riassumere al suo discepolo Dante il Libro, o qualche sua parte. Ma oggi gli studi sull'islamismo medievale sono molto più approfonditi, e sappiamo persino di vere scuole di arabo, in Inghilterra, a Hereford, o nel Convento di Miramar a Maiorca, oltre naturalmente alla scuola di Toledo. Il prodotto più consistente di questi circoli di studiosi è la Collectio Toletana, un'antologia di testi arabi, tra cui il Corano, tradotti in latino, e ampiamente diffusi nell'Europa medievale. Anche la convinzione che in Italia il Libro fosse sconosciuto, già smentita dai versi di Fazio degli Uberti, che nel Dittamondo (1336) cita un «Libro che Scala ha nome» e riassume in qualche verso i costumi musulmani, è ora solennemente confutata (2011) da Luciano Gargan, che ha trovato il Libro citato in un catalogo bolognese del 1312, che elenca i libri di un frate domenicano, Ugolino.Ma insomma Dante ha conosciuto o no il Libro della Scala? Tutti i critici, anche la Corti e la Longoni, hanno cercato, con equilibrio, le prove più consistenti. Certo, Dante, come tutti i grandi, è capace di trovare spunti e suggerimenti ovunque, e può aver raccattato qualcosa anche da lì. Però bisogna rendersi conto delle sue prospettive e delle sue presupposizioni culturali. Cosa poteva trovare in un libro nettamente popolare, dove il gusto dell'iperbole («misura in lunghezza quanto potrebbe percorrere un uomo in cinquecento anni»; «ognuno di questi serpenti ha in bocca diciottomila denti, ciascuno dei quali è grande tanto quanto una di quelle piante chiamate palme») si mescola con quello dei colori, sicché Maometto avanza tra quinte di veli colorati? C'è qualche scena grandiosa, ma l'unico sentimento che suscita è lo stupore. Noi siamo vittime del gusto moderno per il primitivo, e abbiamo tutto il diritto di accostare il Libro della Scala alla Commedia. Ma quanto a metterli sullo stesso piano, a qualcuno è lecito essere riluttante.

«Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici». L'accusa di Gherush92 organizzazione di ricercatori consulente dell'Onu, scrive “Il Corriere della Sera”. in alternativa alcune parti del capolavoro andrebbero espunte dal testo. La Divina Commedia deve essere tolta dai programmi scolastici: troppi contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici. La sorprendente richiesta arriva da «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti.

ANTISEMITISMO - «La Divina Commedia - spiega all'Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo». Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore» (così scrive De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è poi esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. «Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». E ancora, prosegue l'organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti».

MAOMETTO - Ma attenzione. Il capolavoro di Dante conterrebbe anche accenti islamofobici. «Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perchè il corpo "rotto" e "storpiato" di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa».

OMOSESSUALI - Anche gli omosessuali, nel linguaggio dantesco i sodomiti, sarebbero messi all'indice nel poema dell'Alighieri. Coloro che ebbero rapporti «contro natura», sono infatti puniti nell'Inferno: i sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. «Non invochiamo nè censure nè roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono».

CRIMINI - «Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. È nostro dovere segnalare alle autoritá competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti». Certo c'è da chiederci cosa succederebbe se il criterio proposto da «Gherush92» venisse applicato ai grandi autori della letteratura. In Gran Bretagna vedremmo censurato «Il mercante di Venezia» di Shakespeare? O alcuni dei racconti di Chaucer? Certo è che il tema del politicamente corretto finisce sempre più per invadere sfere distanti dalla politica vera e propria. Così il Corriere in un articolo del 1996 racconta come, al momento di scegliere personaggi celebri per adornare le future banconote dell'euro, Shakespeare fu scartato perchè potenzialmente antisemita Mozart perché massone, Leonardo Da Vinci perché omosessuale. Alla fine si decise per mettere sulle banconote immagini di ponti almeno loro non accusabili di nulla.

Dante "razzista", follia Onu: bandire Divina Commedia. L'associazione Gherush92, consulente delle Nazioni Unite: "Offende ebrei, musulmani, gay. Non va studiata a scuola", scrive di Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. L’hanno recitata a migliaia, ovunque nel mondo; l’hanno citata, letta, studiata, commentata in milioni di volumi e per intere generazioni. È persino diventata una sorta di fenomeno sociale, dopo che Vittorio Sermonti prima e Roberto Benigni poi l’hanno declamata a un pubblico sempre più numeroso, fino ad approdare in tv. Ma nessuno, fino a oggi, si era mai immaginato di poter parlare della Divina Commedia in questi termini: ossia come un’opera piena di luoghi comuni, frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. Definisce così il contenuto di numerose terzine dantesche “Gherush92”, organizzazione  di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e   che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia. E proprio secondo questa organizzazione il poema di Dante andrebbe eliminato dai programmi scolastici o, quanto meno, letto con le dovute accortezze. Sotto la lente censoria sono finiti, in particolare, i canti dell’Inferno XIV, XXIII, XXVIII e XXXIV. Il canto XXXIV, spiega l’organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell’apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico   pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio,   persona infida, traditore». Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo. E ancora, prosegue l’organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù;  i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti». Il poema, spiega  Valentina Sereni,  presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra  miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno  Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi   considerati un’offesa». La stessa Sereni, da noi ricontattata, ci spiega che lo studio sulla Divina Commedia è stato eseguito dai ricercatori  di Gherush92 «dopo alcuni mesi di riflessione». Il gruppo «si finanzia con le quote dei soci iscritti». Alla domanda se esistono nuovi studi su altre opere letterarie, risponde: «Ci stiamo lavorando e più avanti saranno diffusi». Nessun timore che, utilizzando simili criteri di analisi, tutta la letteratura italiana delle origini possa essere considerata razzista, omofoba e antisemita? «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente  razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che deve essere contestualizzato e siccome viene insegnata e proclamata oggi, il contesto è oggi. Oggi possiamo e dobbiamo fare queste osservazioni sul razzismo nella Divina Commedia e in altre opere d’arte. D’altra parte il razzismo contro le stesse entità esisteva tanto allora quanto oggi». Tutto chiaro e preciso. Ma pur essendo Gherush92 consulente dell’Onu, status di tutto rispetto e cosa che non è concessa proprio a tutte le organizzazioni, la sede a Roma, segnalata  nel sito dell’United Nations Department of Economic and Social Affairs, è inesistente: a quell’indirizzo non risulta nessuna organizzazione. Lo abbiamo scoperto personalmente. Una zona di quasi campagna, nella periferia nord della Capitale, tra villette e piccoli capannoni aziendali. Il numero civico non corrisponde, anzi non esiste. Chiediamo in giro. «Associazione Gherush92? Mai sentita, qui non c’è», risponde una ragazza che esce da un cancello. In effetti, ci viene confermato dalla stessa associazione che quell’indirizzo non è valido e non ce n’è un altro cui fare riferimento...

Il nemico che trattiamo da amico. (Questo articolo fu pubblicato sul Corriere della Sera il 16 luglio 2005). All’indomani dell’attentato terroristico di matrice islamica che ha insanguinato la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriscono nel dibattito pubblico di queste ore, le riflessioni di Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e Occidente. L’articolo fu scritto dopo la strage alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 da Oriana Fallaci.

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell' Europa. Un' Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell' evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi terroristi vogliono distruggere i nostri valori, che questo stragismo è di tipo fascista ed esprime odio per la nostra civiltà».

Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall'antiamericanismo all'antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine che esaspera i toni della Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch'io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un' identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».

Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell' estrema sinistra inglese, che assolveva l'apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il criminale, il più grande criminale della Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l'11 settembre la guerra in Iraq non c'era. L'11 settembre la guerra ce l'hanno dichiarata loro. Se n'è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l'attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all'Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l'Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la magnifica varietà che Allah ha creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non trovi un inglese nemmeno a pagarlo oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se ci trovi una bionda con gli occhi azzurri è una circassa». (Davvero?!? Chi l' avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).

Continua anche la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d'Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l'assessore all'urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell' arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l' espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell' 8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all'ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora ci lasci lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.

La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c'è il terrorismo, c'è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha fatto benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell' Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l'Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l'illusione dell'Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un' esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.

Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'avevamo in casa l'11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l'avevamo in casa l'11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l' avevamo in casa l'1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l'avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s'eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell' umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest'anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l'imam.

Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l' esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l'Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l' alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s'intende, dell' arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all'Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).

Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s'intende, dell'arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un'infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.

L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l' esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l'indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irriducibile volontà di sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Tutte e tre basate sul concetto del Dio Unico, tutte e tre ispirate da Abramo. Il buon Abramo che per ubbidire a Dio stava per sgozzare il suo bambino come un agnello. Ma quale patrimonio in comune?!?

Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l' amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell' amore insegna l' odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli. Quindi come si fa a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l' islamismo, come si fa a onorare in egual modo Gesù e Maometto?!? Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell' immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l' errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l' essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell' Islam. Io in questi quattr' anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell' impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell' impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell' ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...

Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama il nemico tuo come te stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l' altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell' autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l' assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l' immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell' autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l' intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti? Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d' accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l' Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no.

La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D' ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim' ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant' Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.

La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all' Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l' esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi costringerete i romani alla resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l' imbarazzo della scelta».

Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all' erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d' arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d' essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall' indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l' autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d' essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l' attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa degli americani, colpa di Bush.

Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all' attacco contro l' Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s' intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s' intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro di Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d' arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.

Oriana Fallaci a una terrorista. «Un neonato per te è un nemico?». La giornalista e scrittrice nel 1970 intervistò Rascida Abhedo, palestinese, che fece esplodere due bombe in un mercato di Gerusalemme provocando una carneficina, scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista del 1970 all’attentatrice palestinese Rascida Abhedo.

Sembrava una monaca. O una guardia rossa di Mao Tse-tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta sebbene fosse tutt’altro che brutta. Il visino ad esempio era grazioso: occhi verdi, zigomi alti, bocca ben tagliata. Il corpo era minuscolo e lo indovinavi fresco, privo di errori. Ma l’insieme era sciupato da quei ciuffi neri, untuosi, da quel pigiama in tela grigioverde, un’uniforme da fatica suppongo, di taglia tre volte superiore alla sua: quella sciatteria voluta, esibita, ti aggrediva come una cattiveria. Dopo il primo sguardo, ti apprestavi con malavoglia a stringerle la mano, che ti porgeva appena, restando seduta, costringendoti a scendere verso di lei nell’inchino del suddito che bacia il piede della regina. In silenzio bestemmiavi: «Maleducata!». La mano toccò molle la mia. Gli occhi verdi mi punsero con strafottenza, anzi con provocazione, una vocetta litigiosa scandì: «Rascida Abhedo, piacere». Poi, rotta dallo sforzo che tal sacrificio le era costato, si accomodò meglio contro la spalliera del grande divano in fondo al salotto dove occupava il posto d’onore. Dico così perché v’erano molte persone, e queste le sedevan dinanzi a platea: lei in palcoscenico e loro in platea. Una signora che avrebbe fatto da interprete, suo marito, un uomo che mi fissava muto e con sospettosa attenzione, un giovanotto dal volto dolcissimo e pieno di baffi, infine Najat: la padrona di casa che aveva organizzato l’incontro con lei. Come lei, essi appartenevano tutti al Fronte Popolare, cioè il movimento maoista che da Al Fatah si distingue per la preferenza a esercitare la lotta coi sabotaggi e il terrore. Però, al contrario di lei, eran tutti ben vestiti, cordiali e borghesi: invece che ad Amman avresti detto di trovarti a Roma, tra ricchi comunisti à la page, sai tipi che fingono di voler morire per il proletariato ma poi vanno a letto con le principesse. La signora che avrebbe fatto da interprete amava andare in vacanza a Rapallo e calzava scarpe italiane. Najat, una splendida bruna sposata a un facoltoso ingegnere, era la ragazza più sofisticata della città: in una settimana non l’avevo mai sorpresa con lo stesso vestito, con un accessorio sbagliato. Sempre ben pettinata, ben profumata, ben valorizzata da un completo giacca-pantaloni o da una minigonna. Non credevi ai tuoi orecchi quando diceva: «Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla perché il Kalashnikov rincula in modo violento». Stasera indossava un modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la monaca in uniforme risultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina. Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la cafeteria della Università Ebraica. Era colei che per tre mesi aveva mobilizzato l’intera polizia israeliana e provocato Dio sa quanti arresti, repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola. La fotografia appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La patente di eroe. Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione di gran sufficienza: la stessa che certe dive esibiscono quando devono affrontare i giornalisti curiosi. Mi accomodai accanto a lei sul divano. Lasciai perdere ogni convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida. Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che fai». Alzò un sopracciglio ironico, tolse di tasca un fazzoletto. Si pulì il naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola. Sospirò. Rispose.

«Sono nata a Gerusalemme, da due genitori piuttosto ricchi, piuttosto conformisti, e assai rassegnati. Non fecero mai nulla per difendere la Palestina e non fecero mai nulla per indurmi a combattere. Fuorché influenzarmi, senza saperlo, coi loro racconti del passato. Mia madre, sempre a ripetere di quando andava a Giaffa col treno e dal finestrino del treno si vedeva il Mediterraneo che è così azzurro e bello. Mio padre, sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un braccio e me nell’altro braccio. E poi a dirmi dei partiti politici che c’erano prima del 1948, tutti colpevoli d’aver ceduto, d’aver deposto le armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi la nostra vecchia casa al di là della linea di demarcazione, in territorio israeliano. Si poteva vederla dalle nostre finestre e penso che questo, sì, m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a Natale guardavo gli arabi che si affollavano al posto di blocco per venire dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano brutti, senza orgoglio, e ti coglieva il bisogno di fare qualcosa. Questo qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento nazionale arabo, il Fronte Popolare di oggi. Avevo quindici anni, non dissi nulla ai miei genitori. Si sarebbero spaventati, non avrebbero compreso. Del resto si faceva poco: riunioni di cellula, corsi politici, manifestazioni represse dai soldati giordani» .

Come eri entrata in contatto con quel movimento?

«A scuola. Cercavano adepti fra gli studenti. Poi venne il 1967: l’occupazione di Gerusalemme, di Gerico, del territorio a est del Giordano. Io in quei giorni non c’ero, ero nel Kuwait: insegnavo in una scuola media di una cittadina sul Golfo. C’ero stata costretta perché nelle scuole della Giordania c’era poca simpatia pei maestri palestinesi. L’occupazione di Gerusalemme mi gettò in uno stato di sonnolenza totale. Ero così mortificata che per qualche tempo non vi reagii e ci volle tempo perché capissi che agli altri paesi arabi non importava nulla della Palestina, non si sarebbero mai scomodati a liberarla: bisognava far questo da soli. Ma allora perché restavo in quella scuola a insegnare ai ragazzi? Il mio lavoro lo amavo, intendiamoci, lo consideravo alla stregua di un divertimento, ma era necessario che lo abbandonassi. Mi dimisi e venni ad Amman dove mi iscrissi subito al primo gruppo di donne addestrate dall’FPLP. Ragazze tra i diciotto e i venticinque anni, studentesse o maestre come me. Era il gruppo di Amina Dahbour, quella che hanno messo in prigione in Svizzera per il dirottamento di un aereo El Al, di Laila Khaled, che dirottò l’aereo della TWA, di Sheila Abu Mazal, la prima vittima della barbarie sionista» .

La interruppi: anche questo nome m’era familiare perché ovunque lo vedevi stampato con l’appellativo di eroina e sui giornali occidentali avevo letto che era morta in circostanze eccezionali. Chi diceva in combattimento, chi diceva sotto le torture.

Rascida, come morì Sheila Abu Mazal?

«Una disgrazia. Preparava una bomba per un’azione a Tel Aviv e la bomba scoppiò tra le sue mani» .

Perché?

«Così» .

Raccontami degli addestramenti, Rascida.

«Uffa. Eran duri. Ci voleva una gran forza di volontà per compierli. Marce, manovre, pesi. Sheila ripeteva: bisogna dimostrare che non siamo da meno degli uomini! E per questo in fondo scelsi il corso speciale sugli esplosivi. Era il corso che bisognava seguire per diventare agenti segreti e, oltre alla pratica degli esplosivi, prevedeva lo studio della topografia, della fotografia, della raccolta di informazioni. I nostri istruttori contavano molto sulle donne come elemento di sorpresa: da una ragazza araba non ci si aspettano certe attività. Divenni brava a scattar fotografie di nascosto ma specialmente a costruire ordigni a orologeria. Più di ogni altra cosa volevo maneggiare le bombe, io sono sempre stata un tipo senza paura. Anche da piccola. Non m’impressionava mai il buio. I corsi duravano a volte quindici giorni, a volte due mesi o quattro. Il mio corso fu lungo, assai lungo, perché dovetti anche imparare a recarmi nel territorio occupato. Passai il fiume molte volte, insieme alle mie compagne. A quel tempo non era difficilissimo perché gli sbarramenti fotoelettrici non esistevano, ma la prima volta non fu uno scherzo. Ero tesa, mi aspettavo di morire. Ma presto fui in grado di raggiungere Gerusalemme e stabilirmici come agente segreto» .

Dimmi delle due bombe al supermarket, Rascida.

«Uffa. Quella fu la prima operazione di cui posso rivendicare la paternità. Voglio dire che la concepii da sola, la preparai da sola, e da sola la portai fino in fondo. Avevo ormai partecipato a tanti sabotaggi del genere e potevo muovermi con disinvoltura. E poi avevo una carta di cittadinanza israeliana con cui potevo introdurmi in qualsiasi posto senza destare sospetto. Poiché abitavo di nuovo coi miei genitori, scomparivo ogni tanto senza dare nell’occhio. L’idea di attaccare il supermarket l’ebbi quattro giorni dopo la cattura di Amina a Zurigo, e la morte di Abdel. Nella sparatoria con l’israeliano, ricordi, Abdel rimase ucciso. Bisognava vendicare la morte di Abdel e bisognava dimostrare a Moshe Dayan la falsità di ciò che aveva detto: secondo Moshe Dayan, il Fronte Popolare agiva all’estero perché non era capace di agire entro Israele. E poi bisognava rispondere ai loro bombardamenti su Irbid, su Salt. Avevano ucciso civili? Noi avremmo ucciso civili. Del resto nessun israeliano noi lo consideriamo un civile ma un militare e un membro della banda sionista» .

Anche se è un bambino, Rascida? Anche se è un neonato? (Gli occhi verdi si accesero d’odio, la sua voce adirata disse qualcosa che l’interprete non mi tradusse, e subito scoppiò una gran discussione cui intervennero tutti: anche Najat, anche il giovanotto col volto dolcissimo. Parlavano in arabo, e le frasi si sovrapponevan confuse come in una rissa da cui si levava spesso un’invocazione: «Rascida!». Ma Rascida non se ne curava. Come un bimbo bizzoso scuoteva le spalle e, solo quando Najat brontolò un ordine perentorio, essa si calmò. Sorrise un sorriso di ghiaccio, mi replicò).

«Questa domanda me la ponevo anch’io, quando mi addestravo con gli esplosivi. Non sono una criminale e ricordo un episodio che accadde proprio al supermarket, un giorno che vi andai in avanscoperta. C’erano due bambini. Molto piccoli, molto graziosi. Ebrei. Istintivamente mi chinai e li abbracciai. Ma stavo abbracciandoli quando mi tornarono in mente i nostri bambini uccisi nei villaggi, mitragliati per le strade, bruciati dal napalm. Quelli di cui loro dicono: bene se muore, non diventerà mai un fidayin. Così li respinsi e mi alzai. E mi ordinai: non farlo mai più, Rascida, loro ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro. Del resto, se questi due bambini morranno, o altri come loro, mi dissi, non sarò stata io ad ammazzarli. Saranno stati i sionisti che mi forzano a gettare le bombe. Io combatto per la pace, e la pace val bene la vita di qualche bambino. Quando la nostra vera rivoluzione avverrà, perché oggi non è che il principio, numerosi bambini morranno. Ma più bambini morranno più sionisti comprenderanno che è giunto il momento di andarsene. Sei d’accordo? Ho ragione?»  

No, Rascida.

La discussione riprese, più forte. Il giovanotto dal volto dolcissimo mi lanciò uno sguardo conciliativo, implorante. V’era in lui un che di straziante e ti chiedevi chi fosse. Poi, con l’aiuto di alcune tazze di tè, l’intervista andò avanti.

Perché scegliesti proprio il supermarket, Rascida?

«Perché era un buon posto, sempre affollato. Durante una decina di giorni ci andai a tutte le ore proprio per studiare quando fosse più affollato. Lo era alle undici del mattino. Osservai anche l’ora in cui apriva e in cui chiudeva, i punti dove si fermava più gente, e il tempo che ci voleva a raggiungerlo dalla base segreta dove avrei ritirato la bomba o le bombe. Per andarci mi vestivo in modo da sembrare una ragazza israeliana, non araba. Spesso vestivo in minigonna, altre volte in pantaloni, e portavo sempre grandi occhiali da sole. Era interessante, scoprivo sempre qualcosa di nuovo e di utile, ad esempio che se camminavo con un peso il tragitto tra la base e il supermarket aumentava. Infine fui pronta e comprai quei due bussolotti di marmellata. Molto grandi, da cinque chili l’uno, di latta. Esattamente ciò di cui avevo bisogno» .

Per le bombe?

«Sicuro. L’idea era di vuotarli, riempirli di esplosivo, e rimetterli dove li avevo presi. Quella notte non tornai a casa. Andai alla mia base segreta e con l’aiuto di alcuni compagni aprii i bussolotti. Li vuotai di quasi tutta la marmellata e ci sistemai dentro l’esplosivo con un ordigno a orologeria. Poi saldai di nuovo il coperchio, perché non si vedesse che erano stati aperti e...»  

Che marmellata era, Rascida?

«Marmellata di albicocche, perché?»

Così... Non mangerò mai più marmellata di albicocche. . (Rascida rise a gola spiegata e a tal punto che le venne la tosse).

«Io la mangiai, invece. Era buona. E dopo averla mangiata andai a dormire» .

Dormisti bene, Rascida?

«Come un angelo. E alle cinque del mattino mi svegliai bella fresca. Mi vestii elegantemente, coi pantaloni alla charleston, sai quelli attillati alla coscia e svasati alla caviglia, mi pettinai con cura, mi truccai gli occhi e le labbra. Ero graziosa, i miei compagni si congratulavano: «Rascida!». Quando fui pronta misi i bussolotti della marmellata in una borsa a sacco: sai quelle che si portano a spalla. Le donne israeliane la usano per fare la spesa. Uh, che borsa pesante! Un macigno! L’esplosivo pesava il doppio della marmellata. Ecco perché negli addestramenti ti abituano a portare pesi» .

Come ti sentivi, Rascida? Nervosa, tranquilla?

«Tranquilla, anzi felice. Ero stata così nervosa nei giorni precedenti che mi sentivo come scaricata. E poi era una mattina azzurra, piena di sole. Sapeva di buon auspicio. Malgrado il peso della borsa camminavo leggera, portavo quelle bombe come un mazzo di fiori. Sì, ho detto fiori. Ai posti di blocco i soldati israeliani perquisivano la gente ma io gli sorridevo con civetteria e, senza attendere il loro invito, aprivo la borsa: «Shalom, vuoi vedere la mia marmellata?». Loro guardavano la marmellata e con cordialità mi dicevano di proseguire. No, non andai dritta al supermarket: dove andai prima è affar mio e non ti riguarda. Al supermarket giunsi poco dopo le nove. Che pensi? (Pensavo a un episodio del film La battaglia di Algeri, quello dove tre donne partono una mattina per recarsi a sistemare esplosivi su obiettivi civili. Una delle tre donne è una ragazza che assomiglia straordinariamente a Rascida: piccola, snella, e porta i pantaloni. Passando ai posti di blocco strizza l’occhio ai soldati francesi, civetta. Chissà se Rascida aveva visto il film. Magari sì. Bisognava che glielo chiedessi quando avrebbe finito il racconto. Ma poi me ne dimenticai. O forse volli dimenticarmene per andarmene via prima). Pensavo... a nulla» .

Cosa accadde quando entrasti nel supermarket, Rascida?

«Entrai spedita e agguantai subito il carry-basket, sai il cestino di metallo dove si mette la roba, il cestino con le ruote. Al supermarket c’è il self-service, ti muovi con facilità. La prima cosa da fare, quindi, era togliere i due bussolotti di marmellata dalla mia borsa e metterli nel carry-basket. Ci avevo già provato ma con oggetti più piccoli, non così pesanti, coi bussolotti grandi no e per qualche secondo temetti di dare nell’occhio. Mi imposi calma, perciò. Mi imposi anche di non guardare se mi guardavano altrimenti il mio gesto avrebbe perso spontaneità. Presto i bussolotti furono nel carry-basket. Ora si trattava di rimetterli a posto ma non dove li avevo presi perché non era un buon punto. Alla base avevo caricato i due ordigni a distanza di cinque minuti, in modo che uno esplodesse cinque minuti prima dell’altro. Decisi di mettere in fondo al negozio quello che sarebbe esploso dopo. L’altro, invece, vicino alla porta dove c’era uno scaffale con le bottiglie di birra e i vasetti» .

Perché, Rascida?

«Perché la porta era di vetro come le bottiglie di birra, come i vasetti. Con l’esplosione sarebbero schizzati i frammenti e ciò avrebbe provocato un numero maggiore di feriti. O di morti. Il vetro è tremendo: lanciato a gran velocità può decapitare, e anche i piccoli pezzi sono micidiali. Non solo, la prima esplosione avrebbe bloccato l’ingresso. Allora i superstiti si sarebbero rifugiati in fondo al negozio e qui, cinque minuti dopo, li avrebbe colti la seconda esplosione. Con un po’ di fortuna, nel caso la polizia fosse giunta alla svelta, avrei fatto fuori anche un bel po’ di polizia. Rise divertita, contenta. E ciò le provocò un nuovo accesso di tosse» .

Non ridere, Rascida. Continua il tuo racconto, Rascida.

«Sempre senza guardare se mi guardavano, sistemai i due bussolotti dove avevo deciso. Se qualcuno se ne accorse non so, ero troppo concentrata in ciò che stavo facendo. Ricordo solo un uomo molto alto, con il cappello, che mi fissava. Ma pensai che mi fissasse perché gli piacevo. Te l’ho detto che ero molto graziosa quella mattina. Poi, quando anche il secondo bussolotto fu nello scaffale, comprai alcune cose: tanto per non uscire a mani vuote. Comprai un grembiule da cucina, due stecche di cioccolata, altre sciocchezze. Non volevo dare troppi soldi agli ebrei» .

Cos’altro comprasti, Rascida?

«I cetriolini sottaceto. E le cipolline sottaceto. Mi piacciono molto. Mi piacciono anche le olive farcite. Ma cos’è questo, un esame di psicologia?»

Se vuoi. E li mangiasti quei cetriolini, quelle cipolline?

«Certo. Li portai a casa e li mangiai. Non era un’ora adatta agli antipasti e mia madre disse, ricordo: «Da dove vengono, quelli?». Io risposi: «Li ho comprati al mercato». Ma che te ne importa di queste cose? Torniamo al supermarket. Avevo deciso che l’intera faccenda dovesse durare quindici minuti. E quindici minuti durò. Così, dopo aver pagato uscii e tornai a casa. Qui feci colazione e riposai. Un’ora di cui non ricordo nulla. Alle undici in punto aprii la radio per ascoltar le notizie. Le bombe erano state caricate alle sei e alle sei e cinque, affinché scoppiassero cinque ore dopo. L’esplosione sarebbe dunque avvenuta alle undici e alle undici e cinque: l’ora dell’affollamento. Aprii la radio per accertarmene e per sapere se... se erano morti bambini nell’operazione» .

Lascia perdere, Rascida. Non ci credo, Rascida. Cosa disse la radio?

«Disse che c’era stato un attentato al supermarket e che esso aveva causato due morti e undici feriti. Rimasi male, due morti soltanto, e scesi per strada a chiedere la verità. Radio Israele non dice mai la verità. La verità era che le due bombe avevan causato ventisette morti e sessanta feriti fra cui quindici gravissimi. Bè, mi sentii meglio anche se non perfettamente contenta. Gli esperti militari della mia base avevano detto che ogni bomba avrebbe ucciso chiunque entro un raggio di venticinque metri e, verso le undici del mattino, al supermarket non contavi mai meno di trecentocinquanta persone. Oltre a un centinaio di impiegati» .

Rascida, provasti anzi provi nessuna pietà per quei morti?

«No davvero. Il modo in cui ci trattano, in cui ci uccidono, spenge in noi ogni pietà. Io ho dimenticato da tempo cosa significa la parola pietà e mi disturba perfino pronunciarla. Corre voce che ci fossero arabi in quel negozio. Non me ne importa. Se c’erano, la lezione gli servì a imparare che non si va nei negozi degli ebrei, non si danno soldi agli ebrei. Noi arabi abbiamo i nostri negozi, e i veri arabi si servono lì» .

Rascida, cosa facesti dopo esserti accertata che era successo ciò che volevi?

«Dissi a mia madre: «Ciao, mamma, esco e torno fra poco». La mamma rispose: «Va bene, fai presto, stai attenta». Chiusi la porta e fu l’ultima volta che la vidi. Dovevo pensare a nascondermi, a non farmi più vedere neanche se arrestavano i miei. E li arrestarono. Non appena il Fronte Popolare assunse la paternità dell’operazione, gli israeliani corsero da quelli che appartenevano al Fronte. Hanno schedari molto precisi, molto aggiornati: un dossier per ciascuno di noi. E tra coloro che presero c’era un compagno che sapeva tutto di me. Così lo torturarono ma lui resistette tre giorni: è la regola. Tre giorni ci bastano infatti a metterci in salvo. Dopo tre giorni disse il mio nome, così la polizia venne ad arrestarmi ma non mi trovò e al mio posto si portò via la famiglia. Mio padre, mia madre, mia sorella maggiore e i bambini. Mia madre e i bambini li rilasciarono presto, mio padre invece lo tennero tre mesi e mia sorella ancora di più. Al processo non ci arrivarono mai perché in realtà né mio padre né mia sorella sapevano niente» .

E tu cosa facesti, Rascida?

«Raggiunsi una base segreta e preparai la bomba per la cafeteria dell’Università Ebraica. Questo accadde il 2 marzo e purtroppo io non potei piazzare la bomba, che non ebbe un esito soddisfacente. Solo ventotto studenti restaron feriti, e nessun morto. In compenso le cose peggiorarono molto per me: la mia fotografia apparve dappertutto e la polizia prese a cercarmi ancor più istericamente. Fu necessario abbandonare la base segreta e da quel momento dovetti cavarmela proprio da me. Mi trasferivo di casa in casa, una notte qui e una notte là, per strada mi sembrava sempre d’esser seguita. Un giorno un’automobile mi seguì a passo d’uomo per circa due ore. Esitavano a fermarmi, credo, perché ero molto cambiata e vestita come una stracciona. Riuscii a far perdere le mie tracce e, in un vicolo, bussai disperatamente a una porta. Aprì un uomo, cominciai a piangere e a dire che ero sola al mondo: mi prendesse a servizio per carità. Si commosse, mi assunse e rimasi lì dieci giorni. Al decimo, giudicai saggio scomparire. Ero appena uscita che la polizia israeliana arrivò e arrestò l’uomo. Al processo, malgrado ignorasse tutto di me, fu condannato a tre anni. È ancora in prigione» .

Te ne dispiace, Rascida?

«Che posso farci? In carcere ce l’hanno messo loro, mica io. E io ho sofferto tanto. Tre mesi di caccia continua» .

Ci credo, avevi fatto scoppiare tre bombe! E come tornasti in Giordania, Rascida?

«Con un gruppo militare del Fronte. Si passò le linee di notte. Non fu semplice, dovemmo nasconderci molte ore nel fiume e bevvi un mucchio di quell’acqua sporca. Sono ancora malata. Ma partecipo lo stesso alle operazioni da qui e l’unica cosa che mi addolora è non poter più mettere bombe nei luoghi degli israeliani» .

E non vedere più i tuoi genitori, averli mandati in carcere, ti addolora?

«La mia vita personale non conta, in essa non v’è posto per le emozioni e le nostalgie. I miei genitori li ho sempre giudicati brava gente e tra noi c’è sempre stato un buon rapporto, ma v’è qualcosa che conta più di loro ed è la mia patria. Quanto alla prigione, li ha come svegliati: non sono più rassegnati, indifferenti. Ad esempio potrebbero lasciare Gerusalemme, mettersi in salvo, ma rifiutan di farlo. Non lasceremo mai la nostra terra, dicono. E se Dio vuole...»  

Credi in Dio, Rascida?

«No, non direi. La mia religione è sempre stata la mia patria. E insieme a essa il socialismo. Ho sempre avuto bisogno di spiegare le cose scientificamente, e Dio non lo spieghi scientificamente: il socialismo sì. Io credo nel socialismo scientifico basato sulle teorie marxiste-leniniste che ho studiato con cura. Presto studierò anche Il Capitale: è in programma nella nostra base. Voglio conoscerlo bene prima di sposarmi» .

Ti sposi, Rascida?

«Sì, tra un mese. Il mio fidanzato è quello lì» . (E additò il giovanotto dal volto dolcissimo. Lui arrossì gentilmente e parve affondare dentro la poltrona).

Congratulazioni. Avevi detto che nella tua vita non c’è posto per i sentimenti.

«Ho detto che capisco le cose solo da un punto di vista scientifico e il mio matrimonio è la cosa più scientifica che tu possa immaginare. Lui è comunista come me, fidayin come me: la pensiamo in tutto e per tutto nel medesimo modo. Inoltre v’è attrazione fra noi ed esaudirla non è forse scientifico? Il matrimonio non c’impedirà di combattere: non metteremo su casa. L’accordo è incontrarci tre volte al mese e solo se ciò non intralcia i nostri doveri di fidayin. Figli non ne vogliamo: non solo perché se restassi incinta non potrei più combattere e il mio sogno più grande è partecipare a una battaglia, ma perché non credo che in una situazione come questa si debba mettere al mondo bambini. A che serve? A farli poi morire o almeno restare orfani?»

(Allora si alzò il fidanzato, che si chiamava Thaer, e con l’aria di scusarsi venne a sedere presso di me. Guardandomi con due occhi di agnello, parlando con voce bassissima, dolce come il suo viso, disse che conosceva Rascida da circa tre anni: quando lei insegnava nel Kuwait e lui studiava psicologia all’università. «Mi piacque come essere umano, pei suoi pregi e i suoi difetti. Dopo la guerra del 1967 le scrissi una lettera per annunciarle che sarei diventato fidayin, per spiegarle che l’amavo, sì, ma la Palestina contava più del mio amore. Lei rispose: “Thaer, hai avuto più fiducia in me di quanta io ne abbia avuta in te. Perché tu m’hai detto di voler diventare fidayin e io non te l’ho detto. Abbiamo gli stessi progetti, Thaer, e da questo momento mi considero davvero fidanzata con te”.» «Capisco, Thaer. Ma cosa provasti a sapere che Rascida aveva ucciso ventisette persone senza un fucile in mano?» Thaer prese fiato e congiunse le mani come a supplicarmi di ascoltarlo con pazienza. «Fui orgoglioso di lei. Oh, so quello che provi, all’inizio la pensavo anch’io come te. Perché sono un uomo tenero, io, un sentimentale. Non assomiglio a Rascida. Il mio modo di fare la guerra è diverso: io sparo a chi spara. Ma ho visto bombardare i nostri villaggi e mi sono rivoltato: ho deciso che avere scrupoli è sciocco. Se invece d’essere uno spettatore obbiettivo tu fossi coinvolta nella tragedia, non piangeresti sui morti senza il fucile. E capiresti Rascida.») Certo è difficile capire Rascida. Ma vale la pena provarci e, per provarci, bisogna avere visto i tipi come Rascida nei campi dove diventano fidajat: cioè donne del sacrificio. Lunghe file di ragazze in grigioverde, costrette giorno e notte a marciare sui sassi, saltare sopra altissimi roghi di gomma e benzina, insinuarsi entro reticolati alti appena quaranta centimetri e larghi cinquanta, tenersi in bilico su ponticelli di corde tese su trabocchetti, impegnarsi in massacranti lezioni di tiro. E guai se sbagli un colpo, guai se calcoli male il salto sul fuoco, guai se resti impigliato in una punta di ferro, guai se dici basta, non ce la faccio più. L’istruttore che viene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Cina, non ha tempo da perdere con le femminucce: se hai paura, o ti stanchi, ti esplode una raffica accanto agli orecchi. Hai visto le fotografie. Ch’io sappia, neanche i berretti verdi delle forze speciali in Vietnam, neanche i soldati più duri dei commandos israeliani vengono sottoposti ad addestramenti così spietati. E da quelli, credi, esci non soltanto col fisico domato ma con una psicologia tutta nuova. Dice che in alcuni campi (questo io non l’ho visto) le abituano perfino alla vista del sangue. E sai come? Prima sparano su un cane lasciandolo agonizzante ma vivo, poi buttano il cane tra le loro braccia e le fanno correre senza ascoltarne i guaiti. Dopo tale esperienza, è dimostrato, al dolore del corpo e dell’anima non badi più. Al campo Schneller conobbi una fidajat che si chiamava Hanin, Nostalgia. La intervistai e mi disse d’avere venticinque anni, un figlio di sei e una figlia di due. Le chiesi: «Dove li hai lasciati, Hanin?». Rispose: «In casa, oggi c’è mio marito». «E cosa fa tuo marito?» «Il fidayin. Oggi è in licenza.» «E quando non c’è tuo marito?» «Qua e là.» «Hanin, non basta un soldato in famiglia?» «No, voglio passare anch’io le linee, voglio andare anch’io in combattimento.» Poi ci mettemmo a parlare di altre cose, del negozio di antiquariato che essi possedevano a Gerusalemme, del fatto che non gli mancassero i soldi eccetera. La conversazione era interessante, si svolgeva direttamente in inglese, e io non mi curavo del lieve sospiro, quasi un lamento, che usciva dalle pieghe del kaffiah. I grandi occhi neri erano fermi, la fronte era appena aggrottata, e pensavo: poverina, è stanca. Ma poi l’istruttore chiamò, era giunto il turno di sparare al bersaglio, e Hanin si alzò: nell’alzarsi le sfuggì un piccolo grido. «Ti senti male, Hanin?» «No, no. Credo soltanto d’essermi slogata un piede. Ma ora non c’è tempo di metterlo a posto, lo dirò quando le manovre saranno finite.» E raggiunse le compagne, decisa, col suo piede slogato. Per capire Rascida, o provarci, bisogna anche avere visto le donne che hanno fatto la guerra senza allenarsi: affrontando di punto in bianco la morte, la consapevolezza che la crudeltà è indispensabile se vuoi sopravvivere. In un altro campo conobbi Im Castro: significa Madre di Castro. Im essendo l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano per le donne, e Castro essendo il nome scelto da suo figlio maggiore: fidayin. Im Castro era un donnone di quarant’anni, con un corpo da pugile e un volto da Madonna bruciata dalle intemperie. Acqua, vento, sole, rabbia, disperazione, tutto era passato su quei muscoli color terracotta riuscendo a renderli più forti e più duri anziché sgretolarli. Contadina a Gerico, era fuggita nel 1967 insieme al marito, il fratello, il cognato, due figli maschi e due femmine. Qui era giunta dopo Karameh e qui viveva sotto una tenda dove non possedeva nulla fuorché una coperta e un rudimentale fornello con due pentole vecchie. Le chiesi: «Im Castro, dov’è tuo marito?». Rispose: «È morto in battaglia, a Karameh». «Dov’è tuo fratello?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dov’è tuo cognato?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dove sono i tuoi figli?» «Al fronte, sono fidayin.» «Dove sono le tue figlie?» «Agli addestramenti, per diventare fidajat. » «E tu?» «Io non ne ho bisogno. Io so usare il Kalashnikov, il Carlov, e queste qui.» Sollevò un cencio e sotto c’era una dozzina di bombe col manico. «Dove hai imparato a usarle, Im Castro?» «A Karameh, combattendo col sangue ai ginocchi.» «E prima non avevi mai sparato, Im Castro? » «No, prima coltivavo grano e fagioli.» «Im Castro, cosa provasti ad ammazzare un uomo?» «Una gran gioia, che Allah mi perdoni. Pensai: hai ammazzato mio marito, ragazzo, e io ammazzo te.» «Era un ragazzo?» «Sì, era molto giovane.» «E non hai paura che succeda lo stesso ai tuoi figli?» «Se i miei figli muoiono penserò che hanno fatto il loro dovere. E piangerò solo perché essendo vedova non potrò partorire altri figli per darli alla Palestina.» «Im Castro, chi è il tuo eroe?» «Eroe è chiunque spari la mitragliatrice.» Le guerre, le rivoluzioni, non le fanno mai le donne. Non sono le donne a volerle, non sono le donne a comandarle, non sono le donne a combatterle. Le guerre, le rivoluzioni, restano dominio degli uomini. Per quanto utili o utilizzate, le donne vi servono solo da sfondo, da frangia, e neanche la nostra epoca ha modificato questa indiscutibile legge. Pensa all’Algeria, pensa al Vietnam dove esse fanno parte dei battaglioni vietcong ma in un rapporto di cinque a venti coi maschi. Pensa alla stessa Israele dove le soldatesse son così pubblicizzate ma chi si accorge di loro in battaglia se non sono una figlia di Moshe Dayan. In Palestina è lo stesso. Dei duecentomila palestinesi mobilitati da Al Fatah, almeno un terzo son donne: intellettuali come Rascida, madri di famiglia come Hanin, signore borghesi come Najat, contadine come Im Castro. Però quasi tutte sono in fase di riposo o di attesa, pochissime vivono nelle basi segrete, e solo in casi eccezionali partecipano a un combattimento. È indicativo, ad esempio, che tra i fidayin al fronte non ne abbia incontrata nessuna e che l’unica di cui mi abbian parlato sia una cinquantaquattrenne che fa la vivandiera per un gruppo di Salt. È indiscutibile, inoltre, che l’unica di cui si possa vantare la morte sia quella Sheila cui scoppiò una bomba in mano. A usare le donne nella Resistenza non ci sono che i comunisti rivali di Al Fatah i quali le impiegano senza parsimonia per gli atti di sabotaggio e di terrorismo. La ragione è semplice e intelligente. In una società dove le donne hanno sempre contato quanto un cammello o una vacca, e per secoli sono rimaste segregate al ruolo di moglie di madre di serva, nessuno si aspettava di trovarne qualcuna capace di dirottare un aereo, piazzare un ordigno, maneggiare un fucile. Abla Taha, la fidajat di cui si parlò anche alle Nazioni Unite per gli abusi che subì in prigione sebbene fosse incinta, racconta: «Quando mi arrestarono al ponte Allenby perché portavo esplosivo, gli israeliani non si meravigliarono mica dell’esplosivo. Si meravigliarono di scoprirlo addosso a una donna. Per loro era inconcepibile che un’araba si fosse tolta il velo per fare la guerra». La stessa Rascida, del resto, spiega che al corso di addestramento le donne venivano incluse come «elemento di sorpresa ». Il discorso cui volevo arrivare, comunque, la morale della faccenda, non è questo qui. È che la sorpresa su cui gli uomini della Resistenza palestinese contavano per giocare il nemico, ha colto di contropiede anche loro. «Tutto credevamo,» mi confessò un ufficiale della milizia fidayin «fuorché le donne rispondessero al nostro appello come hanno fatto. Ormai non siamo più noi a cercarle, sono loro a imporsi e pretendere di andare all’attacco.» «E qual è la sua interpretazione?» gli chiesi. L’ufficiale non era uno sciocco. Accennò una smorfia che oscillava tra il divertimento e il fastidio, rispose: «Lo sa meglio di me che l’amore per la patria c’entra solo in parte, che la molla principale non è l’idealismo. È... sì, è una forma di femminismo. Noi uomini le avevamo chiuse a chiave dietro una porta di ferro, la Resistenza ha aperto uno spiraglio di quella porta ed esse sono fuggite. Hanno compreso insomma che questa era la loro grande occasione, e non l’hanno perduta. Le dico una cosa che esse non ammetterebbero mai in quanto è una verità che affoga nel loro subcosciente: combattendo l’invasore sionista esse rompono le catene imposte dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli. Insomma dal maschio». «E sono davvero brave?» «Oh, sì. Più brave degli uomini, perché più spietate. Abbastanza normale se ricorda che il loro nemico ha due facce: quella degli israeliani e la nostra. » «E crede che vinceranno?» «Non so. Dipende dal regime politico che avrà la Palestina indipendente. Capisce cosa voglio dire?» Voleva dire ciò che dice, silenziosamente, Rascida. La società araba non è una società disposta a correggere i suoi tabù sulla donna e sulla famiglia. Le tradizioni mussulmane sono troppo abbarbicate negli uomini del Medio Oriente perché a scardinarle basti una guerra o il progresso tecnologico che esplode con la guerra. Finché dura l’atmosfera eroica, lo stato di emergenza, può sembrare che tutto cambi: ma, quando sopraggiunge la pace, le vecchie realtà si ristabiliscono in un battere di ciglia. Lo si è visto già in Algeria dove le donne fecero la Resistenza con coraggio inaudito e dopo ricaddero svelte nel buio. Chi comanda oggi in Algeria? Gli uomini o le donne? Che autorità hanno le Rascide che un tempo piazzavano le bombe? Perfino gli ex guerriglieri hanno quasi sempre sposato fanciulle all’antica, senza alcun merito militare o politico. Maometto dura: dura più di Confucio. Sicché tutto fa credere che i palestinesi, pur essendo tra gli arabi più europeizzati e moderni, commettano in futuro la stessa scelta o ingiustizia degli algerini: «Brave, bravissime, sparate, aiutate, ma poi via a casa». Ma, sotto sotto, le loro donne lo sanno e, poiché la Storia non offre solo l’esempio dell’Algeria, corrono fin da ora ai ripari. Come? Buttandosi dalla parte di coloro che abbracciano l’ideologia della Cina maoista: cioè il Fronte Popolare di George Abash. In Cina le donne non sono mica tornate a lavare i piatti; stanno anch’esse al potere, hanno vinto. Per vincere è necessario annullare ogni sentimento, incendiare le case dei vecchi, gli ospedali dei bambini, il più innocuo supermarket? E va bene. Per vincere è necessario imbruttirsi, sacrificare i genitori, credere nel socialismo scientifico, rendersi odiose? E va bene. Ciò che conta è non ricadere nel buio come le algerine, quando la pace verrà. Ciò che conta è non rimettere il velo quando gli uomini saranno in grado di cavarsela, come sempre, da soli. Può sembrare un paradosso, e forse lo è. Ma vuotando quei due bussolotti di marmellata e ficcandoci dentro esplosivo, Rascida non fece che comprarsi il domani. In fondo le ventisette creature che essa maciullò a Gerusalemme morirono perché lei si togliesse per sempre il velo e lo trasferisse sul volto dolcissimo del suo fidanzato, l’ignaro Thaer. Amman, marzo 1970 (Tratto da Intervista con il potere, Rizzoli 2009)

"Decapitazioni e orrore, Medusa tra di noi". Il sentimento di Marco Belpoliti per il 2015. Il suo sguardo era scomparso da secoli dall’iconografia collettiva, ma le immagini con le decapitazioni dell’Isis lo hanno fatto tornare. E di nuovo ci pietrifica. Lo scopo dei carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo. Esattamente come accadeva nei supplizi precedenti l’Illuminismo, scrive Marco Belpoliti “L’Espresso” Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati un altro reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita l’intera platea televisiva occidentale. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Basta? No. Pochi giorni fa la notizia che un commando di talebani pakistani entra in una scuola a Peshawar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, per poi essere a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. L’orrifico è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso da due secoli almeno dalle piazze del Vecchio Continente ha fatto così la sua cruenta riapparizione - per quanto negli ultimi anni ci siano state molte altre decapitazioni, per esempio nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia così come in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: ma non sempre furono così platealmente visibili all’opinione pubblica, e soprattutto non prevedevano la “serializzazione” che caratterizza orrendamente le decapitazioni di oggi. Che appaiono quasi come puntate di una atroce serie, in cui ciascun episodio contiene l’annuncio del successivo. All’inizio del suo volume “Sorvegliare e punire” (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese. Nel sistema giuridico americano, dove tutt’ora esiste la pena di morte cancellata invece in Europa, ha ricordato di recente Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel Paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’Isis proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Uganda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti. In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’Isis sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Questo nonostante che nella nostra tradizione iconografica sia ben presente l’immagine della decollazione, quella di san Giovanni Battista, o quella di Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in “La testa senza il corpo” (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese. Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo pochi giorni fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino. L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’Isis vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Caravero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il suo tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio, a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro “Orrorismo” (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo che colpiscono chi è esposto a spettacoli orripilanti. Primo Levi, all’inizio della “Tregua”, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura, una forma di ribrezzo che in un libro, “Poteri dell’orrore” (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso - gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio - viene trasformato in roccia. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’Isis sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Caravero, che non il terrore. C’è un’altra figura mitologica che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei, che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una fuga dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava. Non conteneva gioielli o oggetti, ma il cadavere di suo figlio. Sebald riporta altri casi in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi dai bombardamenti. Nella disperazione, scrive l’autrice, in cui l’orrore le aveva immerse, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione. Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto – non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricordato Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi.

Fatwa e morte. Così uccidono la satira, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Si dice che quando l'uomo con la penna incontra l'uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Si dice, però. Perché la scia di sangue che ha macchiato libri, pellicole e paginate di giornale fresche d'inchiostro è ben più lunga di quella freschissima lasciata sulle vignette di Charlie Hebdo. Il settimanale che, ironia del destino, nel 2006 aveva deciso di mandare in edicola per solidarietà, insieme a numerosi quotidiani europei, anche italiani, le caricature di Maometto pubblicate l'anno prima sul quotidiano danese Jyllands-Posten e successivamente sul giornale norvegese Magazinet. In uno dei disegni, il profeta dell'Islam era raffigurato con una bomba al posto del turbante (il vignettista Kurt Westergaard da allora vive sotto costante protezione della polizia e solo per miracolo i tentativi di assassinio ai suoi danni non sono riusciti). Alla pubblicazione di quelle immagini, successe il finimondo: dall'Africa, al Medioriente, all'Afghanistan, all'Indonesia esplosero le proteste di piazza. In Nigeria morirono 130 persone negli scontri. A quel punto, il premier norvegese Anders Fogh Rasmussen all'inizio del 2006 raggiunse un accordo con la Lega Araba per la distribuzione di una lettera che era sostanzialmente di scuse e che, pur difendendo il principio della libertà di espressione, stigmatizzava la «demonizzazione» di alcuni gruppi in base all'appartenenza religiosa ed etnica. Il 30 gennaio giunsero le scuse anche del direttore del Jyllands-Posten. L'8 febbraio, una provocazione dell'allora ministro leghista Roberto Calderoli legata alle vignette incriminate, portò ad una violenta protesta in Libia e ad un attacco al consolato italiano di Bengasi, nel quale morirono 11 manifestanti. Ancor prima, il 2 novembre del 2004, c'era stato l'omicidio di Theo van Gogh, il regista olandese di “Submission”, un cortometraggio che aveva fatto scandalo nel mondo islamico per la scelta di scrivere dei versi di una sura del Corano sulla schiena della protagonista. L'assassino, Mohammed Bouyeri, in possesso della doppia cittadinanza olandese e marocchina, intercettò van Gogh nel centro di Amsterdam, esplodendo contro di lui otto colpi di pistola. Gli tagliò anche la gola e gli piantò nella pancia due coltelli, in uno dei quali era conficcato un documento contenente minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, deputata di origini somale ed autrice del film insieme a van Gogh. Il film fu ritirato e anche il produttore, Gijs van Vesterlaken, subì gravi minacce. Fino ad allora, l'unica condanna a morte nei confronti di un intellettuale inviso al regime islamico risaliva al 1989 ed era stata spiccata nei confronti dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, all'epoca già una star affermata della narrativa internazionale. Nel suo libro, “I versetti satanici”, aveva fatto allusivamente riferimento alla figura del profeta Maometto. Fu per questo che a febbraio di quell'anno l'ayatollah Khomeini emanò una fatwa nella quale condannava a morte Rushdie, colpevole, a giudizio della massima autorità iraniana, di bestemmia. I killer non riuscirono a trovarlo ma nel 1991, fu accoltellato a morte da uno sconosciuto il traduttore giapponese dell'opera, Hitoshi Igarashi; e nello stesso anno, fu ferito anche il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre nel 1993 fu la volta dell'editore norvegese del libro. Dopo la morte di Khomeini, la fatwa fu confermata nel 2005 dall'ayatollah Ali Khamenei, ma lo stesso Rushdie ammise che la condanna a morte aveva ormai un valore più retorico che reale. Anche se, nel 2012, lo scrittore fu costretto a rinunciare alla partecipazione al festival internazionale di letteratura di Jaipur, in India. I fanatici della Mecca erano tornati a farsi vivi.

Giannelli: «Non sapremo reagire La nostra società si è assuefatta al peggio», scrive “Luca Rocca su “Il Tempo”. L’uccisione dei giornalisti satirici del Charlie Hebdo, a Parigi, non sorprende Giannelli. Di una cosa il vignettista appare certo: stanno cercando di intimidirci. Ed è anche convinto, inoltre, che l’Occidente sia così assuefatto al peggio, che neanche di fronte a una strage di questa portata sarà in grado di reagire.

Giannelli, tre terroristi imbracciano un kalashnikov e colpiscono al cuore la nostra libertà.

«In questo mondo non mi stupisce più niente. La barbarie del nostro tempo supera qualsiasi immaginazione. Chi mai, fino a pochi anni fa, poteva immaginare che saremmo entrati in un tunnel così buio? Bisognerebbe scavare a fondo alla vicenda, capire le radici di questo odio, da dove proviene».

Nella sua carriera, si è mai imbattuto nell’intolleranza dell’Islam?

«Tanti anni fa, quando collaboravo con Repubblica, io e Forattini fummo convocati da Eugenio Scalfari, il quale ci raccomandò di andarci cauti con le vignette sull’Islam. Ho pensato che avesse ricevuto messaggi allarmanti. Personalmente però non ho mai ricevuto minacce».

Perché colpire la satira?

«L'integralismo islamico è intolleranza all'ennesima potenza, non riguarda solo la satira. Ma è vero che verso lo humor l’Islam ha una chiusura ermetica. Credo, però, che un attacco come quello al Charlie Hebdo rappresenti soprattutto un’intimidazione. Dopo una strage come quella avvenuta in Francia, infatti, anche se inconsciamente, prima di pubblicare un'altra vignetta contro Maometto, ci pensi due volte».

Saremo capaci di reagire?

«Io sono vecchio, ero ottimista e non lo sono più. Ho la sensazione che le reazioni della nostra società siano sempre meno frequenti. Siamo capaci di assuefarci a tutto. Ciò che un tempo ci sarebbe sembrato enorme, adesso ci appare quasi accettabile».

Quello di ieri è l’11 settembre della stampa?

«In un certo qual modo è così, ma non vedremo la stessa reazione vista dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle. E sa perché? Perché sono passati più di 10 anni, e lentamente ci siamo abituati a ogni efferatezza».

Krancic: «Per proteggere l’Islam l’Occidente si sta suicidando» , scrive “Il Tempo”. È una tappa del suicidio dell’Occidente. A dirlo, nel giorno in cui gli integralisti islamici assaltano il cuore dell’Europa uccidendo dei disegnatori di satira che la loro «libertà di matita» la indirizzavano anche contro Allah, è uno dei maggiori vignettisti italiani, Alfio Krancic, che si dice sconvolto.

Qual è stato il suo primo pensiero alla notizia della la strage nella redazione del Charlie Hebdo?

«Sono ancora frastornato. Aver colpito un settimanale simbolo della trasgressione satirica, è indicativo del clima di odio che si è scatenato verso le manifestazioni di libertà dell'Occidente».

Lei ha mai realizzato vignette sull'Islam?

«Certo, anche sull’Isis e il “califfo nero” al Baghdadi, prendendo sempre le parti di Assad, Gheddafi, Saddam. Meglio quei regimi arabi laici che salvaguardano le altre religioni e ci proteggono dal fanatismo islamico. Perché quando in quei paesi le dittature cadono, non arriva la democrazia. E lo dimostra anche l'attentato in Francia».

Hai ricevuto minacce per quelle vignette?

«No. In Italia, fortunatamente, la minaccia islamica non ha mai preso di mira la satira, ma qualche giornalista, come Magdi Allam, o qualche politico, come Roberto Calderoli, rei di avere idee non in linea con il pensiero islamico e di manifestarle come desiderano».

Perché la satira sull’Islam provoca morte?

«La colpa è anche del politicamente corretto. Corretto unilateralmente, visto che protegge alcune espressioni religiose, come l'Islam, ma non la nostra religione, il cristianesimo. Una forma sadomasochistica ha pervaso le menti dell'Occidente. Siamo persino arrivati a contemplare il reato di islamofobia. L'Occidente si sta suicidando».

Un massacro come quello di ieri può segnare la fine del multiculturalismo in Europa?

«È molto difficile. Le forze culturali e intellettuali che dominano in Europa sono troppo forti. Impediranno ad alcuni movimenti politici e culturali di prendere il sopravvento sul multiculturalismo. Al contempo, però, la strage inevitabilmente aumenterà l'intolleranza verso gli intolleranti».

Vauro: «Difendo il diritto al gioco della libertà e alla libertà del gioco», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. «La satira è tale perché da sempre sbeffeggia i potenti ed i prepotenti». Vauro, vignettista e satirico a sinistra da una vita (da Il Manifesto a Servizio Pubblico, su La7) - che trent'anni e passa fa, come racconta a Il Tempo, «ha lavorato pure al Charlie Hebdo» - il giorno dopo l'attentato dei fondamentalisti islamici al giornale satirico francese, è sconvolto ed addolorato. «Sono fuori di me, perché la satira è la libertà assoluta e nessuno deve violentarla. Mai. Perché la satira è da sempre contro tutti i tipi ed ogni forma di fondamentalismi».

Gli chiediamo cosa, secondo lui, toscano che attinge la propria ironia da Cecco Angiolieri in avanti, rappresenti per le nostre libertà ciò che è successo a Parigi.

«Si è colpita un'arte – risponde –, la satira, che è la cosa meno violenta che si possa immaginare perché qualsiasi tema affronti è sempre un gioco. C'è sempre un elemento di gioia e di poesia nell'ironia satirica e l'irruzione di una violenza così assurda e demente incarna un attentato contro la fantasia degli uomini e delle donne. È come se i terroristi assassini avessero fatto irruzione durante l'ora di ricreazione in una scuola, compiendo una strage efferata di bambini, Erodi contro ogni libertà, perché vede, la satira ha sempre una propria componente infantile. E poi devo dirle che che c'è un'altra cosa, ancora, che mi preoccupa...».

Che cosa?

«Quello che mi preoccupa è che sento già parlare di scontri e di guerre di religione. Io – aggiunge – vorrei sperare che la satira non diventi arruolabile da nessuno, mai. Vede, sui social media ieri mi sono arrivati inviti a fare vignette contro Maometto, per dimostrare di avere le palle. Ma io non credo si possa fare satira per dimostrare di avere le palle, perché la forza del ridere deve essere più forte della fine, anche della morte. Quello che voglio ostinatamente difendere, continuare a difendere, è il diritto al gioco della libertà ed alla libertà del gioco. Perché dopo l'attentato vigliacco di Parigi al Charlie Hebdo siamo tutti meno liberi. Ed anche meno felici».

Vincino: «L’Islam non c’entra? Certi soloni vadano a quel paese», scrive ancora Lenzi. «La cosa tragica e divertente, sa quale è? È ascoltare certi Soloni dire che l'Islam non c'entra niente, perché è buono e non c'entra che i killer, uccidendo, hanno gridato di vendicare Maometto, con la frase di rito "Allah akbar": ma andate tutti quanti a quel paese, ipocriti!». Vincino, vignettista de Il Foglio ed anticonformista da una vita intera, non si rassegna all'ecatombe delle libertà che si è consumata ieri nel cuore di Parigi, e alla mollezza di certe reazioni italiane ed occidentali. «Ieri hanno centrato ed ucciso un posto come verità, e non come simbolo. Perché il Charlie Hebdo era il luogo dove è nata la libertà di satira in Europa, ed anche la mia. "Il Male" con i suoi autori nacque anche grazie a loro, tutte la rubriche delle copertine rifiutate ad esempio, una colonna straordinaria con 4 vignette terribili in cui potevi mettere le cose più libere ed inimmaginabili». Poi Vincino si sofferma sulle persone, e spiega che «all'interno di Hebdo trovavi poeti veri, come Georges Wolinski, figlio di un polacco e di un'italiana emigrati in Tunisia, un poeta dell'amore e del sesso. E vedere Wolinski morire durante una riunione di satira mi commuove». Perché Vincino, sulla satira, come spiega al nostro giornale, «ha fatto un festival, a Roma, all'epoca di Nicolini. Wolinski era come tutti i veri umili, semplice e generoso. Ma liberi totalmente. E questo vale per il Charlie Hebdo, che perciò va a cozzare con le religioni. Sempre. Poi, oggi, ci sono le religioni che sono un po' più buone ed altre in alcune parti del mondo, più cattive. Cattivissime. L'Hebdo non ha mai ceduto un centimetro sulla vivisezione delle religioni, sia cattolica che islamica. Avevano capito per primi la questione della libertà poste dalle vignette pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten su Maometto, e seguite da mobilitazione contro nei paesi arabi. Roberto Calderoli, una vignetta se la mise su una maglietta sotto la giacca. Noi, comunque sia, speriamo di non finire mai in una maglietta di Calderoli ma quello che ieri è stato attaccato sono l'illuminismo e la nostra civiltà».

Ecco i nomi delle dodici vittime dell'attacco del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo:

- Stephane Charbonnier, alias Charb, vignettista e direttore;

- Georges Wolinski, vignettista;

- Jean Cabut, alias Cabu, vignettista;

- Bernard Verlhac, alias Tignous, vignettista;

- Philippe Honoré, vignettista;

- Bernard Maris, economista ed editorialista;

- Elsa Cayat, psicologa e giornalista;

- Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand;

- Mustapha Ourrad, correttore di bozze;

- Fréderic Boisseau, addetto alla portineria;

- Franck Brinsolaro, poliziotto;

- Ahmed Merabet, poliziotto.

Decapitato l’umorismo francese. Quattro celebri vignettisti tra le vittime: Charb, Cabu, Tignous e Wolinski Sull’ultimo numero la caricatura di un terrorista: «Gli auguri entro gennaio», scrive Antonio Angeli su “Il tempo”. Cinque minuti di puro terrore, un muro di piombo e fuoco: alla fine in terra, senza vita, restano in 12. Parigi e il mondo piangono il più grave e sanguinoso atto di terrorismo degli ultimi anni: sono rimasti uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite della redazione e il portiere dello stabile. Delle vittime alcuni sono celebri: vignettisti, inguaribili umoristi, di quelli che se cerchi di mettergli il bavaglio diventano più tenaci, e gli è costata cara, soni diventati bersaglio di una violenza inaudita; una strage che ricorda quella all’inizio di un vecchio film di spionaggio: «I tre giorni del Condor».

Ucciso il direttore del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo», Stéphane Charbonnier detto «Charb» , celebre disegnatore satirico, classe 1967, in passato già minacciato più volte per le vignette su Maometto, e per questo messo sotto la protezione della polizia. Non gli è servito, non è stato sufficiente. Nel numero uscito proprio la scorsa settimana c’è la sua ultima vignetta, profetica e agghiacciante, ora che si è consumato il massacro. Il titolo dell’illustrazione: «Ancora nessun attentato in Francia», sotto il pupazzetto che raffigura un terrorista islamico, con la barba e il mitra sulle spalle, che dice: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Caduti sotto il fuoco dei terroristi i tre più importanti vignettisti della testata: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia, da anni. Nell’attentato è rimasto ucciso anche l’economista Bernard Maris, azionista della testata parigina.

Jean Cabut meglio noto come Cabu , 76 anni, antimilitarista e di spirito anarchico, ha collaborato con tutte le principali testate francesi come caricaturista e disegnatore di fumetti. Attualmente disegnava sia per «Charlie Hebdo» che per il suo principale concorrente, «Le Canard Enchainé». Per «Pilote», una delle principali riviste francesi di fumetti, aveva creato il personaggio del «Grand Duduche», liceale maldestro. Era il padre del cantante Mano Solo, morto di malattia nel 2010. Charb, 47 anni, disegnatore satirico, collaborava anche con il quotidiano del partito comunista «L’Humanité» e due delle principali riviste francesi di fumetti, «Fluide Glacial» e «L’Echo des Savanes». Sue le strisce, irriverenti e al limite del pornografico, del cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Ucciso anche Bernard Verlhac, detto Tignous , 57 anni. I suoi disegni venivano pubblicati da «Charlie Hebdo», «Marianne» e «Fluide Glacial».

E poi c’era il più famoso di tutti, fumettista e vignettista noto, non solo in Francia, ma anche in Europa, per il suo caratteristico taglio caustico nel rappresentare la quotidianità. È Georges Wolinski , con «Charlie Hebdo» collaborava da anni. Nato a Tunisi il 28 giugno del ’34, Wolinski aveva esordito come disegnatore per la rivista «Hara-Kiri», dalla quale era poi passato a «Action», «Paris-Presse», «Hara-Kiri Hebdo», «L’Humanité», e infine «Paris-Match». Attualmente era anche capo redattore di «Charlie Mensuel». Wolinski aveva ottenuto la popolarità con i fatti del maggio del ’68, attraverso la rivista «Action». La sua cifra stilistica era costituita dalla capacità di porre l’accento sui personaggi, dall'ampio uso di doppi sensi, anche sessuali - tanto da farlo conoscere a molti come l'umorista del sesso - e dal taglio caustico nel rappresentare il cinismo quotidiano. Il fumettista era anche noto per avere collaborato, negli anni ’70, con Georges Pichard creando il personaggio di Paulette.

Bernard Maris era invece un professore d’economia allo Iep di Tolosa e attualmente insegnava anche all’Istituto di studi europei dell’università Parigi-VIII. Il 68enne era anche una firma per diversi giornali, come «Le Monde», «Le Figaro Magazine» e «Le Nouvel Observateur». Del settimanale satirico era stato uno dei fondatori, con l’11% delle azioni, e fino al 2008 direttore aggiunto. Era uno dei principali studiosi della globalizzazione «etica e sociale». Un grande intellettuale francese, tra le sue attività, anche la scrittura, con la pubblicazione di diverse opere letterarie.

Non tutte le firme del settimanale satirico sono state messe a tacere. È una carneficina che «ha decapitato» il settimanale, come succede in «Siria e in Iraq»: così ha reagito Bernard «Willem» Holtrop, vignettista di «Charlie Hebdo», scampato all’assalto che ricorda che le vittime «non sono dei colleghi, sono degli amici». E la carneficina del settimanale parigino ha scatenato una silenziosa, gigantesca reazione, a livello mondiale. In Francia tantissime persone sono scese in strada con un cartello: «JeSuisCharlie», «Io sono Charlie», con il chiaro riferimento alla testata. L'ambasciata americana a Parigi ha anche cambiato la sua icona Twitter in #JeSuisCharlie, in segno di sostegno alla Francia. «La libertà di espressione è un diritto umano», ha twittato Amnesty Italia.

Charlie Hebdo, una storia di satira irriverente. La testata è nota per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo, scrive “Il Tempo”. Charlie Hebdo è un settimanale satirico di tradizione libertaria, dal tono irriverente e anticonformista. Il giornale difende le libertà individuali e ha un orientamento di sinistra, fortemente anti religioso. Charlie Hebdo è noto per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. Anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia neanche i partiti di sinistra francesi. Secondo l'attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette "tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell'astensionismo".

Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Nella settimana precedente le illustrazioni avevano suscitato proteste in alcuni Paesi musulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta.

Nel 2011 la sede del giornale venne colpita da alcune bombe molotov; l'attacco fu lanciato prima dell'uscita nelle edicole di un numero con in copertina un'altra vignetta satirica con Maometto. Il sito web del settimanale fu invece preso di mira da hacker. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni '60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi "un giornale stupido e cattivo".

La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, a novembre del 1970 la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina "Bal tragique à Colombey - un mort", ossia 'Ballo tragico a Colombey, un mortò, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell'Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì.

Matite satiriche. Satiriche come le penne di sinistra che alzano le sopracciglia quando si parla di satira di destra.

Charlie Hebdo, parlano Staino, Altan, Vauro e Makkox: «La satira non si fa intimidire». Dopo l'attentato al giornale satirico francese, che ha causato dodici vittime, parlano alcuni dei più celebri fumettisti italiani. Che piangono gli amici scomparsi e dicono: "Questi omicidi devono far crescere la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo", scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. Hanno la voce rotta. Cercano le parole giuste. Promettono che nulla cambierà nel loro lavoro, ma temono che niente sarà più come prima. Alcuni dei più noti vignettisti italiani, da Staino a Altan, da Vauro a Makkox, commentano al telefono con “l'Espresso” la tragedia parigina, l'assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”.

Il dolore più grande è quello di Sergio Staino, che nell'attacco ha perduto un amico, il disegnatore Georges Wolinski. «La mia prima reazione è stata di andare a vedere se tra le vittime ci fosse Georges. Lo reputavo improbabile, visto che non lavora all'interno della redazione. E invece hanno ammazzato anche lui, significa che sapevano che oggi era prevista la riunione», racconta Staino: «Avevo conosciuto Wolinski all'inizio degli anni Ottanta, quando ero andato a visitare la redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi. Poi era stato più volte mio ospite, e aveva anche partecipato a un mio film del 1992, “Non chiamarmi Omar”, con Ornella Muti, ricordo che si era innamorato di Stefania Sandrelli». Staino, storico disegnatore dell'“Unità”, ha fatto vignette su Hamas e l'Islam politico, ma mai sulla religione musulmana in sé. Tuttavia ha sempre difeso il diritto alla libertà di espressione, anche quando, dice, «le vignette erano artisticamente di scarso valore, come quelle su Maometto, una peggiore dell'altra, pubblicate in Danimarca dallo“Jyllands Posten”». La cosa che più lo colpisce è che i terroristi abbiano voluto colpire i più deboli: «Non sono andati a colpire che ne so la Cia, ma dei vignettisti. È come attaccare la Croce Rossa, è una cosa da vigliacchi». E ora? Cambierà qualcosa nel mondo della satira? I vignettisti si autocensureranno? «No, non succederà mai», risponde Staino: «La nostra molla sono la ricerca della verità, lo sberleffo dei fondamentalisti, il dubbio, l'antidogmatismo. Questi omicidi accresceranno la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo». 

È d'accordo anche Vauro, storica matita del “Manifesto” prima e di “Servizio pubblico” e “Annozero” poi. «Non credo che reagiremo con quella forma tremenda di censura che è l'autocensura. Noi che viviamo di satira siamo, che piaccia o no, degli istintivi. In noi domina quell'elemento ludico, infantile, anche inopportuno come spesso sono inopportuni i bambini, un elemento che non si fa intimorire dalle minacce di un gruppo di intolleranti». Vauro conosceva Wolinski, e dice di essere rimasto annichilito davanti alla notizia dell'attacco. Lo hanno colpito molto anche certi inviti che gli sono arrivati sui social network, che gli dicevano «Ora disegna Maometto se hai le palle». «Io ho disegnato Maometto, e ho anche “affrescato” i muri dell'ospedale di Emergency a Kabul al tempo dell'oscurantismo talebano. Non mi farò fermare dai fondamentalisti islamici, ma non devo neanche dimostrare niente a nessuno».

Anche Francesco Tullio Altan, storico vignettista di “Espresso” e “Repubblica”, ha perso degli amici oggi. Non nasconde che ora possa diventare più difficile, per un vignettista, ironizzare sull'Islam, ma non crede che l'attacco sia da intendersi contro il mondo della satira: «Come gli attentati alle metropolitane o ai treni, questo non è che un episodio della grande guerra contro la libertà in generale». 

Makkox, infine. Il disegnatore del “Post” e di “Gazebo” ammette di aver sentito crescere in sé una rabbia davanti alla notizia. «Quei nomi, quei colleghi di cui a casa ho i libri...», dice incredulo, per poi confessare il suo tormento interiore: «Oggi cambia tutto. Questo attacco ci radicalizzerà tutti, spingerà tutti noi a essere manichei, è come una chiamata alle armi. Il discorso pubblico verrà sconvolto. Da un lato vorrei dire liberamente che non mi piacciono le vignette contro Maometto o Gesù, che non le trovo efficaci, che il problema sono l'Isis e i preti pedofili e non le religioni, però poi penso subito che un'opinione così non potrò più esprimerla, perché potrei essere accusato di stare dalla parte dei “nemici”. Dall'altra la rabbia che provo mi spinge a prendere posizione, a non tirarmi indietro». La satira si farà più cauta? «Sì farà magari meno cauta, si radicalizzerà, il rischio è che perderemo tutti un po' il senso critico, vincerà l'estremista che è in noi, mentre proprio ora avremmo bisogno di essere razionali». 

Tutti sono consapevoli dei tanti rischi che si aprono. Dice Vauro: «Quello che è successo a Parigi, una vera azione militare, non deve innescare nuove guerre, non dobbiamo inventare nuovi nemici dove non ce ne sono e generare nuovi conflitti armati». Guardando all'Italia, Staino aggiunge: «Il pericolo è ora che nella vicenda inzuppino il pane i fondamentalisti di casa nostra, la destra becera e intollerante. A destra come a sinistra abbiamo bisogno che le persone più illuminate guidino il dibattito, e aiutino la parte migliore del mondo musulmano a farsi sentire».

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Charlie Hebdo siamo tutti noi. La strage nel giornale parigino è un attacco alla nostra stessa idea di civiltà. Una sfida portata dall’estremismo fondamentalista che l’occidente deve affrontare e vincere. Perché in gioco c’è il nostro modello di convivenza, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Hanno sparato e ucciso nella sede del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ma è come se lo avessero fatto nelle case di noi tutti. Perché quelle pallottole sono idealmente indirizzate contro uno dei valori su cui si regge la nostra idea di civiltà, progresso, democrazia. È un pilastro fondativo della modernità occidentale il considerare che la satira è, deve essere, libera e nessun potere, fosse anche un potere che fa ascendere la propria fanatica legittimità direttamente da un dio, si può arrogare il diritto di imbrigliarla. “Charlie hebdo” ha avuto il coraggio di ribadirlo, nella sua gloriosa e travagliata storia (irridente anche nei confronti dei regnanti di Francia), davanti alle minacce per i titoli, gli editoriali e le vignette che hanno avuto come bersaglio l’Islam e Maometto (l’ultima, pubblicata sul sito pochi minuti prima dell’assalto, la vedete qua sotto). La vignetta di “Charlie Hebdo” con il califfo che augura: “e soprattutto la salute”Ma l’estremismo fondamentalista non tollera lo sberleffo, mette al bando il sorriso. Vuole pervadere di cupezza censoria e regolare nei dettagli la vita di sudditi da ridurre all’obbedienza. Tutto il contrario di quanto l’Europa e i suoi cittadini hanno deciso per se stessi, almeno dai Lumi in poi, da quando la libertà di espressione è diventata un diritto inalienabile accanto agli altri che definiscono la dignità degli umani. Che l’attacco a queste conquiste, a questo modo di intendere la partecipazione alla vita pubblica, avvenga a Parigi, aggiunge una suggestione simbolica che rende ancor più potente l’atto e chiama a una reazione altrettanto decisa e coesa. La capitale francese è il luogo dove i valori alla base della nostra convivenza hanno trovato la culla. Anche quello dove la laicità si è declinata in quella dottrina dell’assimilazionismo per cui coloro che abitano nel Paese sono perciò “citoyen de la République”, tutti uguali davanti alla legge secolare, con l’opportunità di esercitare il culto che preferiscono a patto che non interferisca coi supremi diritti dello Stato. Un modello di integrazione che ha coinvolto mezzo milioni di ebrei, cinque milioni di musulmani e recentemente entrato in sofferenza anche, e soprattutto, a causa di una crisi economica che ha contrapposto immigrati vecchi e nuovi e francesi delle classi meno agiate. Mai tuttavia, nemmeno nelle rivolte delle banlieue datate 2006, era stato messo in discussione l’ordine dei valori. Anzi: i disperati rivoltosi chiedevano di essere “più francesi”, di avere le stesse chance degli altri “citoyen”. ma ora che il conflitto si è radicalizzato in Medioriente, ora che lo Stato Islamico offre una terra, un credo e un irresistibile richiamo alla violenza nichilista, ecco che alcune frange esportano la guerra in Europa in un furore iconoclasta che ha l’obiettivo di radere al suolo, e a casa nostra, ciò che rende l’occidente un originale e riuscito paradigma di emancipazione. Non siamo ancora a quella catarsi catastrofista che lo scrittore Michel Houellebecq tratteggia nel suo ultimo romanzo “Sottomissione”, ma il livello dello scontro col fanatismo islamista si è alzato con “Charlie Hebdo” e merita che si aprano finalmente gli occhi. Ci si renda conto della realtà emergenziale e si chiami alla comune difesa di un modo di vivere a cui non vogliamo rinunciare, gli stessi fratelli islamici europei non infatuati del Jihad. Per fortuna, la stragrande maggioranza.

1. MOSTRARE O CENSURARE I DISEGNI DI CHARLIE HEBDO: ORA I MEDIA SI DIVIDONO. Enrico Franceschini per “la Repubblica”. Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo. «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times, definisce «editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma: «Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei redattori?».

2. MA PER L’AMERICA I DISEGNI SUL PROFETA MANCANO DI RISPETTO. Paolo Mastrolilli per “La Stampa”. L’attacco terroristico di Parigi sta spaccando i media americani. Non nella condanna dell’attentato, ovviamente unanime, ma nella opportunità di ripubblicare le vignette del periodico Charlie Hebdo, che hanno provocato la furia degli estremisti. I grandi giornali come New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e Usa Today hanno scelto di non farlo. La linea usata dai loro direttori è abbastanza simile: non pubblichiamo immagini che sono state pensate con lo scopo dichiarato di offendere la religione e mancarle di rispetto. Descriverle basta, per compiere il servizio di informazione dovuto al lettore. Questa posizione per certi versi si riflette nella prudenza che la stessa Casa Bianca aveva usato nel settembre del 2012, quando la diffusione di un video giudicato offensivo verso Maometto aveva generato proteste in molti Paesi del Medio Oriente. Era seguito poi l’assalto al consolato americano di Bengasi, che però in seguito si è scoperto essere un’operazione premeditata di un gruppo terroristico. Allora il portavoce del presidente Obama, Jay Carney, aveva commentato proprio alcune vignette pubblicate da Charlie Hebdo, dicendo che non metteva in discussione il diritto di stamparle, ma il giudizio della direzione che aveva deciso di farlo. In altre parole, la libertà di espressione andava sempre difesa, ma forse si potevano evitare le provocazioni. Più dura ancora è stata la reazione ieri del gruppo cattolico conservatore Catholic League. Il suo direttore, Bill Donohue, ha detto che «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati». Naturalmente Donohue non giustifica l’attentato, però aggiunge che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo». Questa linea non è stata condivisa da tutti, nelle redazioni dei giornali americani. La pagina degli editoriali del Washington Post, che nella tradizione dei media Usa ha una gestione separata e autonoma dalla direzione, ha pubblicato una vignetta di Charlie Hebdo, e lo stesso ha fatto l’edizione online del Wall Street Journal. Usa Today invece ha optato per mettere le altre vignette che hanno condannato l’attacco di Parigi, mentre diversi giornali hanno stampato foto in cui si vedono i disegni contestati del periodico francese. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha commentato così: «Se qualcuno vuole ammazzarti per una cosa che vuoi dire, significa che quella cosa va detta». Il dibattito dunque è aperto, fra l’opportunità di prendere decisioni editoriali che non siano apertamente mirate a creare guai, e il dovere di evitare sempre la censura e difendere la libertà.

3. PLANTU: “CONTINUEREMO A PRENDERE IN GIRO. CON LE MATITE DENUNCIAMO LE VIOLENZE”. Cesare Martinetti per “la Stampa”. E adesso? «Il faut continuer se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni. Dunque la satira vive, a Parigi, a cominciare dal grande bureau di Jean Plantu, al settimo piano di Le Monde. Il suo studio è una foresta popolata dalle sagome dei suoi personaggi, la sua scrivania un accumulo di bruillon, schizzi, prove, colori. Plantu ci mostra la vignetta che ha appena concluso per il giornale di oggi: una macchia rossa in strada, il tricolore a mezz’asta sulla tour Eiffel, la bandiera di Charlie Hebdo sull’ingresso dell’Eliseo, una Marianna in lacrime, due barbuti che si allontanano con il kalashnikov sulle spalle e il topolino (l’alter ego del disegnatore) che li guarda reggendo un cartello: «gros connards», diciamo grandi bastardi.

Plantu dal 1985 disegna la vignetta sulla prima pagina di Le Monde e dieci anni fa ha creato «Cartoonist for peace». Che fate?

«Cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati».

Nel vostro programma c’è l’impegno ad essere rispettosi dei credenti. Ci riuscite sempre?

«Ci sono mille modi di raccontare le cose, ho passato la notte qui al giornale a ricevere disegni dal medioriente, dal maghreb di tutte le religioni. C’è l’immagine seria e rispettosa e ci può essere quella un po’ folle. E noi vogliamo tentare di essere più forti degli intolleranti, essere impertinenti senza offendere i credenti. Bisogna continuare la battaglia avendo rispetto per il dolore delle persone che vivono in Iraq o in Afghanistan e smettere di dire che la guerra è lontana. No è qui, a casa nostra».

Ma se c’è di mezzo la religione tutto si complica. Come si superano queste divisioni?

«A noi non interessa sapere se Gesù Cristo ha camminato sulle acque o cosa ha fatto Maometto. Quello che ci interessa è: c’è una donna lapidata? Non è un problema di religione ma di diritti umani, e prendiamo matite e pennarelli per denunciare le violenze. E capita che ci riusciamo perché l’arte e la creatività sono sempre più forti dell’intolleranza».

Lei ora si sente un bersaglio?

«Non lo considero un problema. Io lavoro molto con le scuole. Un disegno è qualcosa che ognuno vede, se ne appropria, ci si può esprimere in mille modi, lascio la mia matita a qualcun altro. Oggi siamo con tutto il cuore con Charlie Hebdo e tutti possono firmare questo disegno, la mano è anonima».

A Charlie Hebdo qualcuno aveva passato il segno del rispetto?

«Io penso che gli artisti abbiano tutti i diritti, di disegnare e fare il ritratto di chiunque. Ciò detto siamo nel 2015, e bisogna fare attenzione perché laggiù all’angolo della strada c’è un mascalzone che aspetta soltanto che gli facciamo un regalo per liberare la sue folle armate di kalashnikov e granate. Abbiamo creato l’associazione dieci anni fa per battere l’imbecillità dei farabutti».

I quattro di Charlie erano nell’associazione?

«Solo Tignous».

4. LA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Francesco Merlo per “la Repubblica”. Non ci piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hebdo , anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo pieno diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta e disinteressata, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze dinanzi al quale, scriveva Italo Calvino «mi faccio piccolo piccolo». «Perché — aggiungeva — supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, confinando con una concezione tragica del mondo». E tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione, anche se, sbeffeggiando il profeta Maometto, più che bestemmia in senso stretto quelle caricature erano empietà aggressiva in una città, Parigi, dove tantissime jeunes filles musulmane passeggiano per gli Champs-Élysées con i capelli al vento. A Parigi sono musulmane le studentesse universitarie, le impiegate, le giornaliste, e sono arabi musulmani i grandi chirurghi e i piccoli venditori di frutta, le star del pop e i professori universitari, gli edicolanti e i camerieri dei ristoranti. Tutti laici come i calciatori eredi di Zidane e come il poliziotto finito con un colpo di Kalashnikov dal fanatico terrorista, con un accanimento selvaggio che offende tutti i codici militari e in nome di un Dio killer che svilisce qualsiasi Dio. Di sicuro al Dio macellaio la stragrande maggioranza dei musulmani francesi non crede e non crederà mai. Dunque sono un pretesto le vignette blasfeme. Se Charlie Hebdo non fosse mai esistito i terroristi avrebbero sparato in un bar, in una stazione del metrò o in un aeroporto. Le vignette sono l’alibi dell’attacco e del ricatto all’Occidente, più insidioso per noi, spaventati da una violenza irriducibile dalla quale è difficile difendersi, che per le frustrazioni nazionaliste, etniche e religiose di quella minoranza di profughi ribelli e di barbuti arrabbiati e confusi dalla quale provengono i terroristi in cerca di una scusa per uccidere. Dal punto di vista militare questo nuovo terrorismo diffuso prova a rilanciare, a partire dalla città più civile tollerante e laica d’Europa, il famoso scontro di civiltà. Ma la strage nella sede di un giornale rischia di armare di più i francesi tentati da Marine Le Pen che i francesi musulmani che, per la verità, non sono tentati né dallo Stato Islamico né da Al Qaeda. La bestemmia diventa così uno di quei dispositivi accidentali della storia, come il naso di Cleopatra per esempio. E basta guardare la felicità dei leghisti italiani e le reazioni scomposte dei fanatici delle Leghe Sante. I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane. La paura sui cui soffiano è quella dall’islamizzazione immaginata nel romanzo Sottomissione da Houellebecq, preso in giro proprio dalla copertina di Charlie Hebdo: «Le predizioni del mago Houellebecq: “Nel 2015 perdo i denti... ” (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e “nel 2022, faccio il Ramadan!”». La verità è che persino la rabbia delle squadracce di banlieue a Parigi, anche se araba e violenta, non è governata dagli integralisti islamici. E in fondo questi terroristi così barbari sono quelli che non ce l’hanno fatta, gli scarti feroci di un’integrazione che è invece riuscita, non solo in Francia. E sono due volte disadattati, sia in Francia sia nelle milizie islamiche dove devono sempre conquistarsi i quarti di nobiltà terrorista sgozzando e massacrando più degli altri. Ieri a caldo una vignetta di Charlie Hebdo mostrava un energumeno tutto bardato di nero incappucciato e sudato che entrava in Paradiso mitragliando e gridando: «dove sono le mie vergini?». Riceveva questa risposta al tempo stesso canzonatoria e malinconica: «Sono nel paradiso dei vignettisti ». Disadattato anche là. È già stato scritto che Charlie Hebdo aveva deriso, e certamente avrebbe continuato a farlo, anche i simboli delle altre religioni. E ricordo bene le natiche del Papa, il matrimonio omosessuale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la masculinità di Shiva, senza risparmiare neppure Buddha, un dio “parzialmente scremato”. Si rideva forte e facile con Charlie Hebdo, perché la scurrilità di Maometto, raffigurato prono con le stelline sulle terga, quando ti arriva sotto gli occhi, è più veloce del pensiero. E certo è ancora libertà d’espressione la violazione dei codici del rispetto delle religioni. Ma non avere stampato le bestemmie è stato il nostro codice di libertà di espressione, coniugata, ancora di più adesso che siamo tutti sotto choc, con il controllo degli istinti. La laicità e la secolarizzazione comportano infatti anche un governo dell’invocazione e dell’imprecazione: della preghiera, che non è un selvaggio rito collettivo, e della bestemmia, soprattutto del Dio altrui. Ma viviamo in una parte del mondo — ecco la differenza — dove la libertà è la cosa più importante. Non conta che gli altri la pensino come me: ma che siano liberi di pensare e di esprimere le loro idee con il solo limite del rispetto delle leggi. Ecco perché difendiamo la libertà di Charlie di esprimersi secondo la sua natura e le sue modalità, le sue libere scelte, anche quando non sono le nostre. Facciamo sapere a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunzieremo alla critica e alla satira, anche delle religioni, e non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione fisica delle bestemmie, al medioevo islamico. Anche se non diventeremo mai, come vorrebbero gli estremisti islamofobi, tutti sbeffeggiatori di Maometto.

Terrorismo islamico a Parigi: massacro al giornale Charlie Hebdo. Due terroristi fanno irruzione nella redazione di Charlie Hebdo armati di kalashnikov, poi fuggono a Reims. Tra i dodici morti c'è il direttore Charb. Un poliziotto giustiziato per strada, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Armati di kalashnikov due terroristi hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo. Cinque minuti di sangue e quello che è l'attentato più cruento commesso in Francia dal 1961, ai tempi della guerra di Algeria, fa ripiombare Parigi e l'intera Europa nell'incubo del fondamentalismo islamico. Al grido di "Vendicheremo il Profeta" due uomini incappucciati e vestiti di nero hanno fatto irruzione nella reception del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. A terra i cadaveri crivellati di colpi di dodici persone. Tra questi il direttore Stephane Charbonnier, che firma le vignette Charb, e altri sette giornalisti. Una raffica di colpi, almeno una trentina, con i mortali AK47. Dodici morti a terra e i giornalisti in fuga sui tetti. Un assalto che porta la firma della jihad islamica. La colpa di Charb e dei disegnatori di Charlie Hebdo? Aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Già nel 2011 la redazione fu distrutta da una molotov. L’attentato, che non provocò vittime, avvenne nel giorno dell'uscita del numero speciale dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia. Il titolo "Maometto direttore responsabile di Charia Hebdo" era un gioco di parole sulla sharia. Anche nell'ultimo numero non è mancata la provocazione: in copertina campeggia una foto dello scrittore Michel Houellebecq, al centro di polemiche per il romanzo Sottomissione che racconta l’arrivo al potere in Francia di un presidente islamico. A fare irruzione è stato un commando armato formato da Said e Cherif Kouachi, due fratelli franco-algerini di 32 e 34 anni legati alla rete terrorista yemenita e da poco tornati dalla Siria. Oltre a Charb i due hanno ammazzato otto giornalisti (tra questi Jean Cabut detto Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Bernard Maris e Philippe Honoré), il poliziotto Franck D., un ospite della redazione (Michel Renaud) e il portinaio. Tra gli undici feriti c'è il giornalista Philippe Lançon. Dopo il blitz sono scappati a bordo di una Seat guidata dal 18enne Hamyd Mourad. Durante la fuga hanno investito un passante e hanno ingaggiato un secondo scontro a fuoco con le forze di polizia. Immagini di violenza inaudita che sono state riprese dai tetti: l'agente Ahmed Merabet è stato giustiziato con un colpo alla testa mentre si trovava, inerme, ferito a terra. Solo dopo diverse ore le teste di cuoio dei reparti Raid sono riuscite a localizzarli a Reims. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di "attentato terroristico di eccezionale barbarie, un attentato alla nostra libertà". Un attentato che arriva a stretto giro da altri tre inquietanti attacchi al grido "Allah hu Akbar". Il 22 dicembre a Nantes, nella Francia nord occidentale, un camion è stato lanciato sul tradizionale mercatino natalizio ferendo undici persone. Nemmeno ventiquattr'ore prima a Digione, nel nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio aveva travolto la folla mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di "Allah hu Akbar". Vicende troppo simili e troppo vicine per non metterle in relazione tra loro. A queste va poi aggiunta una terza, quella di Jouè-lès-Tours dove un convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. Una scia di sangue nel nome di Allah.

Dal direttore Charb al mitico Wolinski, la strage della satira nella redazione di Charlie Hebdo. Tra le dodici vittime dell'assalto anche cinque celebri vignettisti: il direttore, il vecchio e storico creatore di "Paulette", Cabu, Tignous e Honoré, scrive Francesco Fasiolo su “La Repubblica”. Un giornale satirico simbolo della libertà di stampa e di espressione. Questo è diventato Charlie Hebdo nel corso degli anni. E per questo è tragicamente divenuto anche l'obiettivo simbolo del terrorismo. Dieci collaboratori uccisi in redazione, tra loro alcuni dei grandi vignettisti famosi ben oltre i confini francesi. Una storia cominciata nel 1960, quando nacque Hara-Kiri, definito dai suoi fondatori (tra cui Cabu e Georges Wolinski, tra le vittime dell'attentato) "un giornale stupido e cattivo", da subito protagonista di innumerevoli battaglie e censurato un paio di volte dalla magistratura francese. E' nel 1970 che lo stesso gruppo, dopo l'ennesimo scandalo (una copertina che ironizzava sulla morte di Charles De Gaulle e che costò al giornale il blocco delle pubblicazioni) diede vita al "Charlie Hebdo", riferimento al celebre Charlie Brown dei Peanuts. Da allora sono stati attacchi, sarcasmo e ironie contro la destra, ma anche la gauche, su tutti i fronti e tutti i temi.

Vignette su Maometto. È però nel 2006 che l'Hebdo diventa noto al pubblico internazionale con la scelta di ripubblicare le dodici controverse vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Immediate arrivarono le proteste di esponenti del mondo islamico, il giornale fu incriminato per razzismo e l'allora direttore Philippe Val fu assolto nel 2008 da un tribunale francese. Nel novembre 2011 esce "Charia Hebdo", il numero speciale dedicato alla vittoria degli islamisti in Tunisia. In copertina una immagine di Maometto che promette "Cento frustate se non morite dal ridere". Prima che l'edizione arrivasse nelle edicole, la sede della rivista viene distrutta da un incendio provocato da un lancio di molotov. Il numero vende 400.000 copie, il direttore Charb viene minacciato di morte e messo sotto protezione.

Le vittime. Charb era il nome d'arte di Stéphane Charbonnier, 47 anni, alla guida del settimanale dal maggio 2009. Insieme a lui, nell'attentato sono morti anche altri quattro vignettisti: Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski. E' proprio quest'ultimo il nome più noto anche fuori dalla Francia. Controcorrente e provocatorio Wolinski, nato a Tunisi nel 1934, lo è sempre stato. Gli italiani lo hanno conosciuto sin dagli anni 70, quando leggevano su Linus le sue storie dissacranti. Disegnatore e sceneggiatore, con Georges Pichard crea il personaggio di Paulette, inizialmente su Charlie Mensuel e poi protagonista di pubblicazioni autonome. La protagonista è una giovane ricchissima, che ha almeno due particolarità: è di sinistra e appare spesso, in pratica sempre, nuda o seminuda. Le sue storie sono sempre in bilico tra l'erotico e il politico, perché la ragazza, in opposizione con la sua vantaggiosa situazione economica e sociale, è pienamente calata nel clima degli anni '70, tra lotte studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, suggestioni hippy. Se in passato Wolinski è stato al centro di polemiche, accusato di immoralità o pornografia per le nudità e le tematiche trattate (tra i suoi libri "Il porcone maschilista" e "Le donne pensano solo a quello") , a 80 anni era uno dei nomi più importanti del fumetto mondiale. Una fama che gli è stata riconosciuta nel 2005, con la vittoria del Grand Prix di Angouleme, in pratica l'equivalente nel mondo dei comics dell'Oscar alla carriera, e con una grande retrospettiva del 2012 alla Bibliotheque Nationale de France, dove sono custoditi tutti i suoi archivi.  Cabu, vero nome Jean Cabut, 76 anni, era uno dei pilastri di Charlie Hebdo, sin dalla fondazione di Hara-Kiri. Il suo nome era rimbalzato sui media di tutto il mondo quando nel febbraio 2006, in piena polemica per le vignette danesi su Maometto, disegnò in copertina il Profeta che insultava i fondamentalisti. Tra i suoi lavori, molto famoso in Francia è "Mon Beauf", serie su un francese medio, razzista e maschilista. Bernard Verlhac era invece il vero nome di Tignous, 57 anni, che lavorava anche per Fluide glacial, storicamente uno dei più importanti magazine francesi di fumetti. Al suo attivo otto libri. Il più recente, intitolato "5 ans sous Sarkozy" (Cinque anni sotto Sarkozy) è stato pubblicato nel 2011. Fa venire i brividi oggi l'ultima vignetta di Charb, pubblicata sull'ultimo numero di Charlie Hebdo, mostrava un terrorista islamico sotto la scritta: "Ancora nessun attentato in Francia". "Aspettate" diceva l'uomo armato "Abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri".

Il dissacrante Charlie Hebdo, nato alla sinistra della sinistra, scrive Anna Maria Merlo su “Il Manifesto”. Il settimanale. Da sempre indipendenti, dagli industriali e dalla pubblicità. Vignette e reportage corrosivi. Non solo contro l’islam: il primo bersaglio sono state la chiesa cattolica e l’estrema destra. Cabu e Wolinski, che sono stati assassinati ieri assieme al più giovane Charb, nell’attentato che ha fatto 12 vittime nella redazione del settimanale Charlie Hebdo, sono stati protagonisti fin dagli anni ’60 dell’avventura, iniziata con Hara-Kiri, della stampa satirica libertaria francese della seconda metà del XX secolo. All’inizio, c’erano personalità come Topor, Reiser, lo scrittore François Cavanna, che hanno l’idea di pubblicare la versione francese di Linus italiano. Nel ’70, dopo varie censure di cui è vittima Hara-Kiri – l’ultima, a novembre, dopo la morte di De Gaulle, per un titolo dissacrante – il gruppo fonda Charlie Hebdo (dal nome di un personaggio di Schultz e con un riferimento ironico a Charles De Gaulle). Della prima versione di Charlie Hebdo usciranno, fino all’81, 580 numeri. Un altro numero uscirà nell’82. Nel ’92, la testata rinasce. Fa effetto oggi, di fronte agli avvenimenti, ricordare che la società costi­uita allora per il rilancio si chiamava Les Etitions Kalachnikof. Nel ’92 partecipa già Charb, che dal 2009 era diret­ore della pubblicazione. Charlie Hebdo ha radici nella sini­tra della sinistra, ma non ha mai avuto una linea editoriale precisa. La sua storia è fatta di battaglie, di scontri, di abbandoni, di ostracismi, di ritorni. E di molte polemiche, anche interne alla redazione: nel 2002, un articolo a difesa del libro La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, viene subito criticato. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ci sono prese di posizione conflittuali contro una parte dell’estrema sinistra, accusata di non aver condannato gli islamisti per antiamericanismo. Philippe Val, che all’inizio degli anni 2000 diventa direttore della pubblicazione, accusa Tariq Ramadan di essere un propagandista antisemita. Val nel 2005 difende il «sì» al referendum sul Trattato costituzionale europeo, altri difendono il «no» – che sarà vitto­rioso – sulle pagine del settimanale. Charlie Hebdo non si limita alla satira, ma pubblica anche reportage sulla società e sulle grandi questioni dell’attualità mondiale (in particolare, alla fine degli anni ’70, importanti inchieste sull’estrema destra). Oncle Bernard (l’economista Bernard Maris, assassinato anch’egli ieri) ha firmato cronache economiche sempre di grande interesse. La caratteristica di Charlie Hebdo, con le sue vignette corrosive che molto spesso hanno disturbato, è sempre stata l’indipendenza, dalle ideologie come dal denaro. «Non vogliamo ricchi industriali come azionisti – aveva detto Charb nel 2010 – e non vogliamo neppure dipendere dalla pubblicità. Non prendiamo quindi gli aiuti di Stato che vanno ai giornali cosiddetti “di deboli introiti pubblicitari”, visto che non abbiamo pubblicità. L’indipendenza, l’indipendenza totale, ha un prezzo». Charlie Hebdo ha sempre lottato contro tutti i fanatismi. Il primo bersaglio è stata la chiesa cattolica, in quanto religione maggioritaria in Francia. Le vignette sono state sempre corrosive, a volte anche con una certa pesantezza. Il settimanale molte volte è stato denunciato, dai politici, dai cattolici, di recente dai musulmani. Charb ha sempre precisato: la critica è sull’«alienazione delle fede», qualunque essa sia. Nel 2006, Charlie Hebdo pubblica le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten, arricchite da altre vignette firmate dai disegnatori del settimanale. Il Consiglio francese del culto musulmano chiede la censura del numero e sporge denuncia. L’allora presidente, Jacques Chirac, condanna le «provocazioni manifeste». Ne seguirà un processo nel 2007, dove ha testimoniato, a favore della libertà di stampa, anche François Hollande, non ancora presidente. La storia delle caricature di Maometto, che sembra all’origine del massacro di ieri, era già stata la causa di un incendio criminale di cui era stata vittima la sede di Charlie Hebdo nel novembre 2011. La redazione, allora, era stata ospitata per due mesi da Libération. Altre caricature di Maometto susciteranno polemiche e denunce nel 2012. La copertina in edicola di Charlie Hebdo questa settimana prende in giro lo scrittore Michel Houellebecq, di cui ieri è uscito l’ultimo libro, Soumission, che racconta dell’elezione di un islamista alla presidenza della Repubblica francese nel 2022.

L'attentato che spazza via le certezze della sinistra. L'attentato terroristico di Parigi è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani hanno fallito: ha risvegliato la coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Tutto, compreso quello moderato, scrive Roberto Bettinelli su “L’Informatore”. Il massacro nella redazione del giornale satirico Charles Hebdo è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani in tutto il mondo hanno fallito: ha risvegliato l’ottusa coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Michele Serra su Repubblica ha evocato «la terza guerra mondiale» sentenziando che «esiste un fanatismo islamista terrificante contro il quale l’Islam per primo è chiamato a mobilitarsi». Fino ad ora nessuno mai nel campo della sinistra, e men che meno un esponente illustre della sua intellighenzia come l’ex direttore di Cuore, si era spinto fino a pronunciare una condanna che per la prima volta varca il confine fra l’Islam moderato e l’Islam dei terroristi. Serra l’ha fatto, e nel farlo, ha sicuramente interpretato lo stato d’animo di gran parte del popolo della sinistra che è stato scosso in profondità e con una forza mai provata in precedenza dalla ferocia di un fondamentalismo che ha preso di mira un valore intoccabile come la libertà di stampa e di satira. Una reazione inedita che rivela come per la cultura politica che anima Repubblica esista una gerarchia delle libertà. E fra queste la libertà di stampa e di satira, uno dei generi prediletti dalla sinistra, siano da collocare su un gradino più alto della libertà di religione. La prova che non ci sbagliamo è che in questa occasione Serra e il giornale più letto e autorevole della sinistra italiana hanno preso posizione contro tutto l'Islam, anche quello moderato, rompendo con la lettura ideologica che li separa nettamente e che non è disposta a tollerare nessuna sovrapposizione. E sono stati costretti a farlo da una macabra beffa che cade tragicamente a poche settimane dalla risoluzione del parlamento europeo che ha riconosciuto, per iniziativa del Pse, il diritto alla Palestina di costituire uno stato autonomo. Un'azione diplomatica che sembrava assicurare la pace ma che ha contribuito a innescare la risposta dei terroristi che hanno attaccato il giornale diretto da Stephan Charbonnier, colpevole di aver ripetutamente pubblicato vignette e fumetti contro Maometto e Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo scenario non poteva essere più chiaro. Da un lato l'Europa che, sulla spinta di un’adesione incondizionata e irresponsabile al dogma del multiculturalismo, riconosce il diritto palestinese di formare un proprio stato nonostante la massiccia presenza di formazioni legate ad Al Quaeda nella striscia di Gaza e in Cisgiordania; dall’altro il terrorismo islamico che colpisce a morte una delle capitali più importanti dell’Unione Europea, uccide 12 persone tra giornalisti e poliziotti, getta nell’incubo perenne degli attentati l’intero occidente. Adesso che i ‘lupi solitari’ hanno travolto con la loro furia omicida un simbolo della libertà di stampa e di satira come Charles Hebdo, la sinistra insorge e attacca l’Islam, tutto, che dovrebbe ribellarsi e comportarsi «come fece la sinistra con le Brigate Rosse». Così suggerisce Serra stabilendo un parallelo fra quello che avrebbe fatto il Pci negli anni di piombo e quello che dovrebbero fare oggi i mussulmani che non si riconoscono nella brutalità di Al Quaeda e dell’Isis. Il consiglio di Serra è apprezzabile, ma ha l’odore fastidioso dell’ipocrisia. A sconfiggere le Brigate Rosse non fu il Pci ma furono i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa. L’Italia divenne il teatro di uno scontro spietato. Vinse lo Stato. E per un solo motivo: fra i due contendenti fu il più duro e implacabile. Lo stesso deve valere per i terroristi che ammazzano e muoiono nel nome di Allah. Ci saranno altri attentati e altri morti. L’alleanza dell’Islam moderato può essere utile ai fini della vittoria finale. Ma non può bastare. L’Europa e l’occidente, se non vogliono soccombere, non hanno altra scelta che porre fine alle illusioni di un multicuralismo che è l'esatto contrario del rispetto delle identità dei popoli. Ma soprattutto devono accettare di avere di fronte un nemico che vuole la loro fine con tutti i mezzi disponibili. E fare altrettanto. 

Charlie Hebdo, quella satira “cattiva” che disturbava i perbenisti. Il giornale francese è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani per le sue vignette su Maometto. Venne più volte chiuso e poi riaperto, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Un simbolo del giornalismo francese, un giornale nato e cresciuto negli anni 70, che si autodefiniva con ironia “bete e méchant”, bestiale e cattivo, iconoclasta, un giornale che disturbava l’opinione pubblica perbenista, capace anche di ironizzare su Charles De Gaulle il giorno della sua morte e che per questo chiuso per un po’. Nato dalle ceneri di Hara-Kiri, lanciato da Georges Bernier e François Cavanna, Charlie Hebdo è un giornale a fumetti satirico che ha fatto della provocazione la sua cifra costituente. “Journal bete et méchant”, secondo l’autodefinizione degli autori. Vi hanno lavorato negli anni caricaturisti come Francis Blanche, Topor, Fred, Reiser, Wolinski, Gébé, Cabu. Più volte chiuso e poi riaperto in seguito a denunce e a crisi editoriali. Il nome Charlie viene scelto nel 1969 quando il giornale appare sostanzialmente come versione francese dell’italiano Linus e come quest’ultimo prendi il nome da un personaggio dei Peanuts (Charlie Brown). Nel 1992 assume l’attuale identità. Il giornale è sostanzialmente espressione di una sinistra culturale. Tuttavia vi si trovano le opinioni e le posizioni più diverse e anche contrapposte. Nel 2002 aveva preso posizione a favore di Oriana Fallaci quando venne pubblicata in Francia “La rabbia e l’orgoglio”, il suo pamphlet contro i cedimenti occidentali all’islamismo. Nel 2006 CB pubblicò le famose vignette di satira su Maometto e i costumi musulmani che erano uscite sul settimanale danese Jyllands-Posten provocando manifestazioni violente di protesta in tutto il mondo islamico. Disegnatori e giornalisti danesi vennero minacciati ripetutamente. Charlie Hebdo scelse di pubblicare quelle vignette aggiungendone altre francesi per solidarietà e per marcare una linea di libertà di espressione contro tutte le intolleranze religiose. La pubblicazione provocò proteste nella comunità musulmana francese, il Consiglio del culto musulmano chiese che il giornale venisse sequestrato, lo stesso presidente della Repubblica Jacques Chirac censurò la scelta di Charlie Hebdo. Da allora il giornale – che pure tratta con articoli e vignette tutti i temi di società - è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani. Da allora un presidio di polizia era stato istituito davanti alla sede del giornale.

Charlie Hebdo, la storia della rivista già colpita per le vignette su Maometto. Il settimanale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. Pubblicato la prima volta nel 1970, scatena subito polemiche all'indomani dei funerali del generale Charles de Gaulle. Nel 2011 la sede viene incendiata, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Satirico, irriverente e anticonformista. E’ questo lo spirito di Charlie Hebdo, il settimanale francese che questa mattina è stato preso di mira da un commando di terroristi armati che hanno compiuto una strage nella sede parigina. Il giornale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. E si pone l’obiettivo di difendere le libertà individuali. La rivista è soprattutto nota per le sue vignette e illustrazioni politicamente scorrette, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. E anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia i partiti di sinistra francesi. Secondo l’attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette “tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell’astensionismo”. Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten e vendendo 400.000 copie. In Italia le vignette vennero riprese dal ministro delle Riforme Roberto Calderoli che in un’intervista televisiva indossò una maglietta con le illustrazioni, un episodio che scatenò forti reazioni popolari nel mondo arabo, culminate con alcuni morti in Libia. Il numero di Charlie Hedbo incendiò proteste violente nei Paesi mussulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta. A fine 2011, la redazione venne completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale venne attaccato dagli hacker dopo un numero speciale denominato Sharia Hebdo. Attacchi di matrice islamica, secondo gli inquirenti. Temporaneamente, la redazione si trasferì nei locali del quotidiano Liberation, per poi migrare in nuovi locali; l’attacco fu lanciato prima dell’uscita nelle edicole di un numero con in copertina un’altra vignetta satirica con Maometto. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni ’60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi “un giornale stupido e cattivo”. La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, uscì in edicola per la prima volta nel 1970, ispirato a Charlie Brown. A novembre dello stesso anno la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina ‘Bal tragique à Colombey – un mort’, ossia ‘Ballo tragico a Colombey, un morto’, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell’Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì, ha una tiratura media settimanale di 100.000 copie, con 15.000 abbonati.

Giuliano Ferrara alza i toni l’8 gennaio 2015 durante «Servizio Pubblico» su La7. Il direttore de Il Foglio ritiene che la strage di Parigi non sia "terrorismo" ma che faccia parte di un'ampia strategia voluta dal mondo islamico per «andare contro l'Occidente cristiano-giudaico». «Questa è una Guerra Santa, se non lo capite siete dei coglioni!», tuona Ferrara.

Vietato parlare di Islam, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dopo la strage di Parigi esiste ancora la libertà di stampa? Si può ancora pubblicare oppure no un’opinione anche quando questa è politicamente scorretta? Ieri tutti i quotidiani traboccavano di articoli di fondo inneggianti alla libertà minacciata dall’assassinio a sangue freddo del direttore e dei principali collaboratori di Charlie Hebdo. E però gli stessi quotidiani si guardavano bene dal prendere di petto la questione, preferendo nascondere se non cancellare la parola islam. Sulla prima pagina del Corriere per trovarla ci si doveva sottoporre a una vera caccia al tesoro. Il titolo a tutta pagina non parlava di strage islamica o di terrorismo islamico, ma di «Attacco alla libertà. Di tutti». Ah sì? E da parte di chi? Per scoprirlo bisognava leggere il sommario su una colonna: «Al grido di “Allah è grande” tre terroristi assaltano il giornale delle vignette satiriche su Maometto: 12 vittime». Per capire poi che l’islam c’entra qualcosa, l’occhio doveva cascare sull’occhiello sfumato (una colonna) che sovrastava l’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia: «Islam, la vera questione». Ecco, la notizia era lì, nell’occhiello. Solo allora si scopriva che l’islam c’entra qualcosa in quello che è accaduto a Parigi, perché Galli della Loggia scriveva che esiste un problema islam, «un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani dove nel complesso (nel complesso perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo». Questo è il punto. Ma il Corriere ha pensato bene di nasconderlo il più possibile, titolando sull’11 settembre dell’Europa, di cui peraltro nell’articolo non si fa nemmeno cenno e che comunque sarebbe sbagliato perché l’Europa ha già avuto i suoi 11 settembre con le bombe nel metrò di Londra (52 morti) e sui treni alla stazione di Madrid (191 morti). 

Vietato illudersi: l'islam è il nemico, continua Belpietro. "È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità". Sono passati dieci anni da quando Oriana Fallaci scrisse queste frasi sulla prima pagina del Corriere. La più conosciuta e stimata giornalista italiana era appena stata denunciata per vilipendio all’Islam, perché nei suoi libri e nei suoi articoli si era permessa di metterci in guardia contro il Mostro, così lo chiamava, e di mettere in dubbio la fandonia dell’Islam buono contro quello cattivo. Oriana si opponeva alla nascita della moschea di Colle val d’Elsa, sosteneva che il mondo occidentale era in guerra e doveva battersi, attaccava il multiculturalismo, la teoria dell’accoglienza indiscriminata, la dottrina cattolica che insegna ad amare il nemico tuo come te stesso. E per questo, per quel che scriveva, fu considerata pazza dall’intellighezia progressista mondiale, quasi che l’integralista fosse lei, lei armata di penna e taccuino e non gli islamici armati di esplosivi, coltelli e kalashnikov che noi abbiamo invitato nelle nostre case e nelle nostre città, consentendo loro - in virtù della libera circolazione imposta dal trattato di Schengen - di viaggiare a loro piacimento, senza controlli e con la possibilità di organizzare qualsiasi massacro. Oriana è morta da anni, ma le sue nere profezie si stanno realizzando puntuali come erano state previste. Quel che è accaduto ieri nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, una delle poche testate che anni fa difesero nel silenzio generale il coraggio della scrittrice toscana, è esattamente ciò che lei aveva immaginato.

Il lungo incubo di Coco: «Ho aperto quella porta e hanno sparato a tutti». Parla la vignettista che per prima ha incontrato i due attentatori del «Charlie Hebdo» I due boia incappucciati le hanno puntato i kalashnikov alla testa, scrive Elisabetta Rosaspina “Il Corriere della Sera”. «Faccio attenzione quando si tratta di religione. Ci penso due volte prima di fare un disegno. Ma non mi autocensuro, è fuori questione» garantiva tre anni fa «Coco» al sito della cittadina di Carquefou (Loira Atlantica) dove ogni anno, dal 2000, si organizza il festival dei caricaturisti. Era stata lei, Corinne Rey, giovane disegnatrice, allora non ancora trentenne, ma già affermata nel mondo della stampa, a disegnare il manifesto dell’happening del 2011. Un signore dalle grandi fauci che inghiotte il mondo infilzato su uno stecchino, come fosse un’oliva. È lei, Corinne Rey, la mamma cui mercoledì mattina, sotto gli uffici di Charlie Hebdo , a Parigi, i due boia incappucciati hanno puntato i kalashnikov alla testa, ingiungendole di comporre il codice d’ingresso alla sede della redazione, l’ultimo ostacolo tra i killer e le loro prede. Gli assassini non l’hanno riconosciuta come una delle firme del settimanale e, forse, l’hanno risparmiata per questo. O perché, come invece ha ipotizzato lei, non si sono accorti che scivolava al riparo di una scrivania. Ma quella carneficina resterà negli occhi della giovane donna per sempre. «Superato l’ingresso hanno sparato a Wolinski poi a Cabu. Erano seduti uno accanto all’altro. Tutto è durato cinque minuti, forse anche meno. Una pioggia di colpi», ha rivissuto poco dopo il suo incubo, parlando al telefono con i colleghi de «L’Humanité ». Sotto choc, ma anche sotto protezione, come testimone diretta e ravvicinata di quel bagno di sangue, Coco si è salvata perché era andata a prendere la figlioletta all’asilo. Come lei, è scampata al massacro anche un’altra disegnatrice della redazione decimata, Catherine Meurisse, arrivata in provvidenziale ritardo alla riunione settimanale. Catherine ha fatto in tempo a incrociare i due uomini mascherati mentre fuggivano dal palazzo e ha intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. Anche se qualche altro passante si era fermato incuriosito, convinto che si stesse girando un film d’azione. È salva Coco, anche se ha visto e sentito morire i suoi colleghi e se non potrà più togliersi dalle orecchie e dalla memoria le urla di soddisfazione dei carnefici che gridavano i nomi delle loro vittime mentre sparavano, come in un sordido appello: «Pagherete per aver insultato il Profeta».

Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», E questo è il suo vero obiettivo finale. L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa, in particolare, tiene il piede in due scarpe, scrive  di Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.

Domanda. Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?

Risposta. Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.

D. Vale a dire?

R. Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.

D. Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?

R. Centra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.

D. Ma a quale trionfalismo si riferisce?

R. Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.

D. Si riferisce a quel dibattito piuttosto animato che ha avuto in dicembre durante una puntata di Announo (in cui Luttwak, collegato dagli Usa, si toglieva l'auricolare quando parlava una giovane esponente musulmana in studio, ndr)?

R. Non mi riferisco a niente in particolare. Dico che queste persone vendono falsità a cominciare dall'etimologia stessa di Islam, che vuol dire «sottomissione», mentre loro dicono che significhi «amore».

D. Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?

R. No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.

D. Non c'è possibilità di discussione, quindi?

R. È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.

D. Sfrondare come?

R. Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.

D. Nessuno la fa, secondo lei?

R. Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.

D. E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?

R. L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.

D. Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?

R. Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.

D. Di chi parliamo?

R. Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.

D. Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?

R. Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.

Macellai islamici. Una dichiarazione di guerra all'Europa e alla libertà. Ma noi #nonabbiamopaura, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è guerra. Altro che islam buono e islam cattivo, altro che multiculturalismo come risorsa e porte aperte all'immigrazione come dovere, altro che «cani sciolti». Hanno fatto strage di giornalisti nel cuore di Parigi, cioè nel cuore dell'Europa, in nome di Allah. Qualcuno li ha addestrati, qualcuno li ha istruiti, qualcuno li ha mandati a sparare agli inermi colleghi del settimanale satirico Charlie Hebdo (la cui testata oggi è affiancata alla nostra in segno di solidarietà). E siccome loro hanno urlato, tra una raffica e l'altra, che il mandante è Allah, ecco allora io dico: per loro Allah è il capo dei terroristi che vogliono sopprimere le basilari libertà dell'Occidente. Dico che l'immigrazione selvaggia è il grimaldello per entrare nella nostra storia, nelle nostre città. Dico che non ci sarà mai possibilità di integrazione, perché come scriveva Oriana Fallaci «non è vero che la verità sta sempre nel mezzo, a volte sta da una sola parte». E non ho dubbi che la parte giusta è la nostra, quella di una «civiltà superiore» (sempre per citare Oriana) che mai si sognerebbe di alzare un dito su Crozza per le sue imitazioni satiriche di Papa Francesco. Abbiamo un problema di polizia, di servizi segreti che fanno acqua, ma prima ancora abbiamo un problema politico e culturale di soggezione (vero presidente Boldrini?) nei confronti dei nostri carnefici, passati (vedi le scuse per Guantanamo), presenti (le cautele e i distinguo di oggi) e futuri. Io odio questa gente, così come gli uomini liberi hanno odiato nazisti e stalinisti. Il problema non è farsi ammazzare, ma farlo in silenzio. È spalancare le porte di casa senza nulla chiedere in cambio al nemico che si presenta con la faccia affamata e sofferente del profugo. È rinunciare a crocefissi, presepi e tradizioni per non offenderli. È inculcare - anche da parte di eminenti cardinali della Chiesa - nei nostri bambini l'idea che Gesù e Allah pari sono. È stato rinunciare - e lo dico da laico - a inserire le «radici cristiane» nella Costituzione europea. È non capire che siamo sull'orlo di una guerra civile europea tra islamici di passaporto europeo e il resto d'Europa. Non kamikaze invasati, ma banditi con tecniche brigatiste che vogliono salvare la loro vita, togliendola agli altri in nome di Allah. Per ribadire la nostra libertà, oggi ripubblichiamo quelle vignette che sono costate la vita ai colleghi francesi, senza che una sola di esse violasse le leggi di quel Paese. A noi i terroristi non hanno mai fatto paura. Ci fanno più paura le «attenuanti culturali» con cui la nostra magistratura troppo spesso giustifica le violazioni delle nostre leggi. E il termine «inarrestabile» usato per arrendersi all'immigrazione selvaggia. Avanti così, qui di «inarrestabile» ci sarà solo la fine dell'Occidente. E a questo gioco, noi non ci staremo mai. Che piaccia o no ad Allah.

L'editoriale-shock del Financial Times: "Stupidi i giornalisti di Charlie Hebdo", scrive “Libero Quotidiano”. È una voce fuori dal coro, una presa di posizione durissima e controcorrente mentre tutto il mondo condannava la strage nella redazione di Charlie Hebdo stringendosi alle famiglie dei morti. E' quella del quotidiano britannico Financial Times, che in un editoriale sul suo sito online afferma che i giornalisti e i vignettisti della rivista satirica francese si sono comportati in modo “stupido”. Il Ft accusa il magazine, che in passato era stato già colpito per la pubblicazione delle vignette su Maometto, di aver peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione“, si legge ancora. Sui social network gli altri media offrono giornalisti e solidarietà, ma il giornale della City invece attacca chi ha con quelle vignette causato la reazione terroristica. “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi”. L'editoriale si chiede anche “quale impatto” gli omicidi “avranno sul clima politico, e in particolare le sorti di Marine Le Pen e il suo estrema destra Fronte Nazionale“.

Altro che moderati. Nel Corano i precetti dei killer. La carneficina della redazione del giornale francese mostra all'Occidente la verità che ci rifiutiamo di vedere. È il Corano a prescrivere l'omicidio contro gli "infedeli", scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo , la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale. Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia. A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten . Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov. Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo. La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso. Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza. Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto. Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto». Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam. La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia. Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.

Quell'islam moderato che dietro le quinte finanzia la guerra santa. Dai movimenti che in Italia bruciano false bandiere dell'Isis a Turchia e Qatar, che fingono amicizia con l'Occidente e danno soldi alla jihad, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Non ho mai avuto dubbi che i musulmani possono essere delle persone moderate, essendolo stato per 56 anni. Ma non credo affatto nei militanti del cosiddetto «islam moderato». Quelli che ad esempio lo scorso 21 settembre in Piazza Affari a Milano, usando uno stratagemma e ingannando il pubblico credulone compresi i giornalisti, diedero alle fiamme non la bandiera dell'Isis, che reca la scritta «Non vi è altro dio al di fuori di Allah» e «Maometto è l'inviato di Allah», bensì un drappo nero su cui avevano scritto a mano in italiano «Isis». Eppure stampa e tv hanno titolato: «I musulmani moderati bruciano la bandiera dell'Isis»! La verità è semplice: di islam ce n'è uno solo, Allah è lo stesso per i moderati e per i terroristi, Maometto è il profeta a cui si rifanno tutti i musulmani indistintamente. Bisogna ammettere che in fatto di bandiere fasulle i musulmani nostrani eccellono. Quando il 5 gennaio 2009 circa un migliaio di islamici arruolati dall'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) occuparono lo spazio antistante la Basilica di San Petronio a Bologna (che custodisce l'affresco di Giovanni da Modena con Maometto all'Inferno tra i seminatori di discordie, così come lo volle Dante), e diedero alle fiamme le bandiere israeliane, la Procura di Bologna li assolse perché erano da considerarsi «un drappo artigianalmente predisposto con un simbolo grafico», che deve essere ritenuto «un simulacro» e «un tentativo di emulazione», ma non la bandiera israeliana ufficiale! In realtà la contiguità tra i militanti del sedicente «islam moderato» e i terroristi islamici non si limita alla devozione dei nomi di Allah e di Maometto che fanno sì che la bandiera dell'Isis non possa essere bruciata, ma abbraccia l'insieme di un'ideologia che promuove la conversione all'islam, l'instaurazione della sharia e la riesumazione del Califfato. Il caso eclatante è quello della Turchia del regime islamico di Erdogan. A partire dal 2005 l'Occidente si è affidato totalmente alla Turchia nell'illusione che sarebbe riuscito a portare l'«islam moderato» dalla sua parte nella guerra contro Al Qaida. Assecondando la volontà di Erdogan, Stati Uniti e Unione Europea legittimarono politicamente i Fratelli Musulmani che sono riusciti a prendere il potere nei Territori palestinesi con Hamas, in Tunisia con Ennahda, in Libia e in Egitto, mentre in Siria hanno scatenato la guerra del terrore contro Assad. Ebbene la verità è che i turchi sono presenti in massa al vertice e nelle fila delle organizzazioni terroristiche, 2000 in seno a Jabhat al Nusra, affiliata ad Al Qaeda in Siria, e 3000 in seno all'Isis, forti del sostegno di Erdogan che fornisce loro assistenza militare, cure mediche e denaro in cambio del petrolio estratto nello «Stato islamico». Altro caso significativo della contiguità tra l'«islam moderato» e il terrorismo islamico è quello del Qatar, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo e dei gruppi terroristici affini in Siria, Libia e Tunisia, particolarmente impegnato negli investimenti in Europa come copertura alla più massiccia campagna di costruzione di moschee. Soltanto in Italia, a fronte dell'acquisto di alberghi di lusso, il St. Regis e l'InterContinental a Roma, il Gallia a Milano, il Four Seasons a Firenze e i resort sulla Costa Smeralda, il Qatar Charity Foundation ha donato 6 milioni di dollari ai centri islamici in Sicilia, mentre altre decine di milioni di dollari sono state donate - così come si legge sul suo sito - ai centri islamici a Saronno, Colle Val d'Elsa, Frosinone, Lecco, Roma, Ferrara, Bergamo, Sesto San Giovanni, Modena, Città di Castello, Vicenza, Verona, Torino, Mortara, Olbia, Mirandola, Taranto, Milano, Argenta (Ferrara), Gavardo (Brescia), Quingentole (Mantova). La verità è che il loro jihad, la guerra santa islamica, si traduce comunque nella nostra sottomissione: noi «perdiamo la testa» sia quando i terroristi ci decapitano, sia quando i «moderati» ci condizionano a tal punto da impedirci di usarla per salvaguardare la nostra civiltà.

Il predicatore radicale Choudary: "L'islam non crede alla libertà di pensiero". Dopo l'attacco a Charlie Hebdo difende l'idea che ci debbano essere dei limiti. "Le conseguenze sono note a tutti", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". La pensa così Anjem Choudary, un predicatore radicale tra i più ascoltati in Europa, intervistato su queste pagine alcuni mesi fa da Barbara Schiavulli, per un reportage nell'Europa estremista. Dopo l'attacco contro la redazione del Charlie Hebdo, in cui sono morte dodici persone, tra le quali giornalisti e il direttore del magazine satirico, ha riassunto in una lettera pubblicata da Usa Today il suo pensiero sui fatti, in netta contraddizione con opinioni molto più moderate espresse da altri imam e fedeli musulmani. "Persino i non musulmani che sposano l'idea della libertà di pensiero sono d'accordo sul fatto che comporti delle responsabilità", scrive Choudary, che ammonisce: "Le potenziali conseguenze dell'insultare il Messaggero Muhammad sono note a musulmani e non musulmani". Parole che suonano come un tentativo di giustificare fatti impossibili da legittimare. "Proprio perché l'onore del Profeta è qualcosa che tutti i musulmani vogliono difendere, molti prenderanno la legge nelle proprie mani", aggiunge il predicatore radicale, che ricorre poi a un argomento molto utilizzato da chi si colloca su posizioni estremiste come le sue. "I governi occidentali sono contenti di sacrificare libertà e diritti quando complici di torture e rendition - scrive - o quando limitano la libertà di movimento ai musulmani, sotto le mentite spoglie della difesa della sicurezza nazionale". E al governo francese chiede perché "mettere a rischio i propri cittadini" continuando a provocare il mondo islamico, come accusa il Charlie Hebdo di avere fatto. Parole, quelle del predicatore, che stupiscono fino a un certo punto. Già in passato aveva lodato gli attentatori dell'11 settembre e al Giornale aveva detto: "Bin Laden è il nostro eroe. Purtroppo è morto, ma la lotta continua anche senza di lui".

Chi l'ha visto il servizio pubblico sulla carneficina dei giornalisti? La figuraccia della Rai, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Il servizio pubblico della Rai? Chi l'ha visto?. Ma anche L'apprendista stregone e Che Dio ci aiuti . Sono i programmi trasmessi nella serata della strage terroristica di Parigi, definita da molti osservatori l'11 settembre dell'Europa. Niente speciali, zero edizioni straordinarie. Titoli che, riletti oggi, svelano un sapore autocritico verso quella che è una delle pagine più nere dell'informazione pubblica. Facevi zapping da un canale all'altro, mercoledì sera, e trovavi un programma di cronaca nera, un film qualsiasi, su Raiuno addirittura la replica di una fiction. L'informazione può attendere. E il famigerato approfondimento, totem dei talk show che sgomitano quotidianamente nei nostri teleschermi, può mettersi in fila. Senza spingere. Quando invece ci sono dodici morti causati da un atto terroristico nella redazione di un giornale della capitale francese, tutti assenti. In vacanza o chissà. Dopo i tg che hanno conquistato ascolti ben al di sopra della media, lo Speciale TgLa7 di Enrico Mentana è stato un approdo obbligato come lo zapping sulle reti all news , a cominciare da Rainews24 , la più solerte fin dal mattino a rendersi conto della gravità dell'accaduto. Su Mediaset, Retequattro ha aperto una lunga finestra dopo il tg con Mario Giordano e Paolo Del Debbio, mentre Matrix di Luca Telese è andato in onda in edizione straordinaria. In Rai solo a notte inoltrata arriverà uno spezzone di Porta a Porta nel tentativo di tamponare una falla gigantesca. Ma dopo il collegamento con Di Bella e le dichiarazioni del ministro Alfano, vedere Gigi D'Alessio e Lina Sastri commuoversi per la scomparsa del povero Pino Daniele aveva un inevitabile effetto-extraterrestre. Servizio pubblico latitante. Lacunoso. Ritardatario. Sui social network è un diluvio di proteste, di lamentele contro un canone - il cui pagamento la Tv pubblica ricorda in questi giorni con petulanza - purtroppo non corrisposto da servizi all'altezza in un momento storico come questo. Il ritardo sulla notizia si è accumulato fin dalla tarda mattinata quando, come ha notato tal Nicolino Berti su Twitter , «solo Raitre in edizione straordinaria su Parigi, Raiuno deve prima far scolare la pasta alla Clerici». I telegiornali Rai hanno fior di corrispondenti nella Ville Lumière, anche uno di lunga esperienza come Antonio Di Bella. Ma quella di mercoledì 7 gennaio, prima giornata post-festività, rimarrà una pagina buia. Il giorno dopo, la polemica infiamma. Il sindacato dei giornalisti Rai si straccia le vesti («Come si può parlare di riforma se poi di fronte a una vicenda di questa portata, il servizio pubblico non reagisce mettendo in campo almeno su una delle tre reti uno speciale di prima serata?»). Proteste arrivano da quasi tutte le forze politiche che hanno deciso di chiedere spiegazioni al dg Luigi Gubitosi. Riflessi appannati dai troppi dolciumi nelle calze della befana? Sottovalutazione dell'accaduto? Disabitudine alle dirette su fatti internazionali? Intoppi o veti burocratici sembrano da escludere. Non risulta, infatti, che siano state avanzate richieste di modifica dei palinsesti della prima serata dai vari direttori di rete o di testata ai quali compete la valutazione degli avvenimenti. Spostare la replica di Che Dio ci aiuti non sarebbe stato difficile nemmeno per i vertici di Viale Mazzini. Ora, dopo l'ennesima giornata nera, ci si augura che qualcosa cambi. E che Dio aiuti la Rai.

Toh, sui giornali i terroristi non sono più «islamici», scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. I «terroristi islamici» non esistono. Oggi vengono occultati dai mezzi di comunicazione di massa con l'eufemismo «jihadisti». Ma quanti italiani sanno che cosa significhi «jihadisti» o «jihad»? Il motto dei Fratelli musulmani evidenzia il significato più genuino del jihad : «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra aspirazione massima». Il divieto di usare il termine «terrorismo islamico» fu formalizzato nel 2006 (...)(...) dall'Unione europea. È sconvolgente il fatto che mentre i terroristi islamici sgozzano, decapitano e massacrano in ottemperanza ai versetti coranici e ai detti e fatti attribuiti a Maometto, l'Occidente - pur di negare l'evidenza - si sia spinto fino a «scomunicare» i terroristi islamici. Lo scorso 14 settembre, dopo la decapitazione dell'ostaggio britannico David Haines, il premier Cameron ha detto che i terroristi islamici dell'Isis «non sono musulmani ma mostri», «dicono di fare questo in nome dell'islam. È assurdo, l'islam è una religione di pace». Anche il presidente americano Obama, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu lo scorso 24 settembre, ha scagionato l'islam: «Gli Stati Uniti non saranno mai in guerra contro l'islam. L'islam insegna la pace». Ma lo sanno Obama e Cameron che il capo supremo del sedicente «Stato islamico», l'autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, oltre ad essere musulmano ha un dottorato di ricerca in Scienze islamiche? Secondo loro questi tagliatori di teste se non sono musulmani che cosa sarebbero? Di quale islam parlano? Il Corano è unico e di Maometto ce n'è solo uno. Il vescovo di Mosul, Emile Nona, intervistato da l'Avvenire lo scorso 12 agosto, ha detto che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam». Eppure il 23 ottobre, sotto l'egida della presidente della Camera Laura Boldrini, la stampa cattolica ( L'Avvenire , Famiglia Cristiana e la Fisc), hanno promosso la campagna «Anche le parole possono uccidere», in cui si denuncia anche l'uso della parola «terrorista» in rapporto ai musulmani. Sempre la Boldrini aveva sponsorizzato nel 2007, da portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, la «Carta di Roma», in cui si chiede di sostituire la parola «clandestino» con «migrante». Ebbene, dopo che nessun mezzo di comunicazione di massa usa più la parola «clandestino», ci ritroviamo in un'Italia in cui la clandestinità non solo non è più reato ma in cui risorse nazionali sono spese per favorire l'auto-invasione. Inevitabilmente accadrà lo stesso con l'abolizione della parola «terrorista islamico». Già oggi i terroristi islamici con cittadinanza europea, che rientrano dopo aver ucciso, sgozzato e decapitato in Siria e Irak, vengono accolti con la disponibilità riservata al figliol prodigo della parabola evangelica. Consentiamo che nelle moschee e sui siti Internet si predichi l'odio e la violenza nei nostri confronti, concependolo come libertà d'espressione fintantoché non si traduce concretamente nella nostra morte. Di questo passo finiremo per giustificare i terroristi islamici fino a legittimarli, sottoscrivendo noi stessi il nostro suicidio e la fine della nostra civiltà.

L'unica paura della sinistra? Che vincano gli "islamofobi". Dal Pd agli intellettuali progressisti il grande timore non è per la diffusione del radicalismo omicida islamico, ma per la crescita di consensi della destra, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una minaccia paurosa, un nemico dentro casa, travestito da anonimo cittadino ma pronto a colpire con la forza cieca dell'odio: è lui, l'«islamofobo». Sì c'è qualche terrorista islamico armato di kalashnikov e lanciarazzi che stermina innocenti, ma il vero problema, il vero pericolo che corrono Francia, Italia ed Europa, adesso, più che l'ascesa degli islamisti, è l'ascesa dei terribili «islamofobi», che con la scusa degli sterminii in nome di Allah rischiano di prendere parecchi voti, e questo l'Occidente non può accettarlo. Bernardo Valli su Repubblica , in un commento a caldo sui dodici morti di Charlie Hebdo, ha subito ravvisato, con un brivido lungo la schiena, il vero rischio implicito nell'attentato: «Attizzare l'islamofobia». Un pericolo da combattere con uno spiegamento di forze speciali, intelligence, ed editorialisti istruiti per educare il volgo, che sennò si impressiona e poi vota male. Scende in campo anche Federico Rampini, sempre sul giornale di De Benedetti, con la domanda che in queste ore attanaglia l'Europa dopo gli attentati jihadisti e le minacce di nuovi morti: «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». Cioè la domanda non è «E adesso come ci difendiamo?» o «Adesso che fare con il radicalismo islamico», ma «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». La sconvolgente conseguenza politica della carneficina, osserva l'esperto di esteri di Repubblica , è infatti che si rafforzano «i partiti xenofobi in tutta l'Europa», mentre sarebbe bene si rafforzasse il centrosinistra che piace più a De Benedetti. Adesso «una vittoria di Marine Le Pen nella corsa all'Eliseo è più probabile», mentre la Lega Nord e le formazioni «anti-immigrati» in ascesa ovunque «raccoglieranno più consensi». Ci sarebbe da arrestare i terroristi solo per il favore fatto a Le Pen e Salvini. Terrorizzato anche Khalid Chaouki, deputato Pd di origine marocchina, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d'Italia : «Questa tragedia rischia di trasformarsi in un'occasione d'oro per l'estrema destra francese e italiana e per gli ambienti antislamici - scrive preoccupato su Il Garantista - Temo che Marine Le Pen non si lascerà sfuggire l'occasione di cavalcare l'ondata emotiva francese e soffiare sul fuoco pericoloso dell'islamofobia; perciò è doveroso ribadire con forza che noi siamo contro il terrorismo di qualsiasi matrice ma anche contro l'islamofobia, che ne è l'altra faccia». Le feroci cellule islamofobe, fagocitate dai famosi «ambienti antislamici». Gente pericolosa da cui difendersi. Nessun problema culturale di integrazione dell'Islam trova invece l'ex ministro (per mancanza di prove, direbbe Dagospia ) Cécile Kyenge, miracolata da un seggio all'Europarlamento, che invece ravvede una seria minaccia nei fondamentalisti delle brigate Salvini, riconoscibili dalle felpe: «L'unico problema culturale lo ha creato chi come Salvini e la Lega Nord avvelena la società con i suoi proclami di odio e emargina il diverso, stigmatizzandolo» spiega l'ex ministra di origine congolese, che poi mette sullo stesso piano l'Isis e la Lega Nord. «Dobbiamo fermare tutti i moderni califfi fomentatori di odio, inclusi i nuovi professionisti dell'odio politico» come l'odiato Salvini. Sempre dal Pd è il giorno di Lia Quartapelle, giovane promessa di partito alla Farnesina e poi sfumata, che su La7 ha ripetuto la vecchia storia sulle paure sfruttate dagli estremisti di destra, «che fanno lo stesso gioco dei terroristi», mentre «nessun terrorismo è di matrice religiosa». Tutti allievi, però, di Laura Boldrini, che vorrebbe persino epurare il dizionario: «la parola “clandestino” - spiegò - andrebbe cancellata, è carica di pregiudizio e negatività». Gli islamofobi, invece, direttamente ai campi di rieducazione.

A Servizio Pubblico l'islam che sta coi macellai di Parigi: "Fascisti, se la sono cercata". Gli inviati di Santoro nelle banlieue francesi danno voce alla rabbia dei musulmani: "Hanno fatto bene ad ammazzarli, erano razzisti", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È la storia di due ragazzi di banlieue sprofondati nell’abisso dell’estremismo e del terrore. Sono Cherif e Said Kouachi, i due franco-algerini di 32 e 34 anni, che ieri hanno insanguinato la Francia nella strage contro Charlie Hebdo.  Eppure, il primo era ben noto all’antiterrorismo di Parigi, condannato nel 2008 per aver partecipato alla filiera delle Buttes-Chaumont, cellula islamica del nord della capitale che tra il 2003 e il 2005 era impegnata nella recluta di combattenti per al Qaeda in Iraq. Ed è proprio in queste banlieue che, ieri sera, Servizio Pubblico ha portato le proprie telecamere. Nel salotto di Michele Santoro va in scena il volto violento dell'islam. "Hanno fatto bene ad ammazzarli - tuona un intervistato - erano razzisti". "Non sono stati gli islamici - fa eco un altro - è tutta una trappola". La strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo fa da margine. Eppure le dodici persone ammazzate gridano ancora vendetta. I jihadisti che le hanno fatte fuori a colpi di kalashnikov sono ancora a piede libero. E a Servizio Pubblico c'è pure chi li giustifica, chi li difende, chi è pronto a stare dalla loro parte. Dalla parte dei violenti. Per Santoro, invece, è l'occasione buona per invitare i francesi a non votare il Front National di Marine Le Pen. Perché, a conti fatti, l'unica paura della sinistra è che alla fine vincano i partiti che loro considerano "islamofobi". Dal Partito democratico all'intellighenzia progrsessista non c'è una voce che grida contro il violento diffondersi dell'estremismo islamico. Sono tutti concentrati a tuonare contro la destra che, dall'Italia alla Francia, vede crescere i propri consensi di giorno in giorno. Eppure gli stessi servizi trasmessi dagli inviati di Servizio Pubblico parlano chiaro. Il quartiere di Saint Denis è la fotografia della polveriera su cui siede l'intera europa. Qui la concentrazione di immigrati è altissima. La stragrande maggioranza sono di fede islamica. E sono pronti a difendere, anche davanti alle telecamere, il massacro alla redazione di Charlie Hebdo. "Adesso daranno la colpa a noi - si lamenta un giovane - è sempre così". "Se è successo quello che è successo - fa eco un altro - è perché qualche colpa quelli di Charlie Hebdo ce l'hanno avuta". E ancora: "Se si offende il Profeta è naturale che qualcuno si vendichi". Mentre nelle piazze parigine si manifesta al grido Je suis Charlie, a Saint Denis di solidarietà per le dodici persone ammazzate non c'è spazio. Anche a Reims, città dei fratelli Said e Cherif Kouachi, la musica è la stessa. Nel quartiere di Croix Rouge, dove vivevano i due terroristi islamici, sono molti disposti a difenderli: "Li conoscevo, non sono terroristi". "Non possono essere stati loro - assicura un altro - è tutto un complotto".

Non eravate americani, ora non siete Charlie. Ieri come oggi dichiararsi tutti paladini della libertà è una menzogna vigliacca. Perché abbiamo rinunciato da tempo alla certezza di stare dalla parte giusta, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Bugiardi, quelli che dicono o scrivono «Siamo tutti Charlie Hebdo». Mentono ora, come hanno mentito quasi 14 anni fa, quando scrivevano o dicevano «siamo tutti americani», all'indomani dell'11 settembre. È una vigliacca menzogna e qui non si parla del sentirsi oggi paladini della libertà di stampa e di satira. Qui si parla di molto di più. Dell'Occidente che si mette sul petto o sull'account dei social network lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta. Ci abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato che passasse la filosofia dei «distinguo». Il fanatismo islamico non conosce differenze: colpisce Stati e persone, militari e civili, cultura e satira. Uccide senza pietà, come ha fatto a Parigi. E la nostra risposta è il dubbio che in fondo ce la siamo cercata. O di più: che magari ci sia sotto la complicità o la manina di chissà quale potere o servizio segreto. La teoria del complotto sulla strage di Charlie Hebdo adesso appartiene a Beppe Grillo, ma presto penetrerà un pezzetto alla volta esattamente come è accaduto 14 anni fa per le Torri Gemelle. È uno dei sintomi della nostra sconfitta preventiva, questo. Aiuta la rimozione, la presa di distanza dall'evento che sconvolge le nostre coscienze nell'immediato, ma poi passa via. Il paragone con l'11 settembre sta in questo: è un ricordo sbiadito, una memoria residua, una rievocazione appannata. Dov'è finito il «siamo tutti americani» del giorno dopo? Non c'è: è sparito così in fretta da non lasciare più spazio nemmeno alla retorica. Quattordici anni sono pochi per ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, eppure non c'è un altro fatto che sia diventato passato con la stessa velocità. Sembra che l'Occidente abbia un pudore tutto suo ad alimentare la memoria e a piangere i propri morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Ricordiamo ossessivamente il 25 aprile, nonostante molti di noi non fossero neanche nati quel giorno e invece dimentichiamo l'11 settembre che invece abbiamo vissuto in diretta. Il secondo sintomo della nostra sconfitta sta nell'incapacità di accettare che a una guerra sporca si risponde con leggi straordinarie e a volte anche con qualcosa che sta al confine con la legge. L'hanno fatto tutti i Paesi occidentali quando hanno battuto il terrorismo domestico. Con il terrore internazionale no. Di più, abbiamo messo in discussione tutto: l'apertura di Guantanamo, gli interrogatori ai presunti terroristi, gli arresti dei sospetti. Abbiamo fatto passare i servizi segreti di tutto il mondo per criminali. Abbiamo rinunciato di fatto alla guerra in Afghanistan, convinti che i presupposti fossero sbagliati. Così via alla guerra del drone che ha pulito molte coscienze, ma in realtà ha fatto molti più morti. Anche la clamorosa campagna di autocritica sulle torture è stata un errore colossale. Noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i governi avessero usato o usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? No. Anzi, forse è il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. I fondamentalisti attaccano nel centro di una metropoli europea con i kalashnikov e noi applichiamo leggi ordinarie? Non abbiamo capito. Non capiamo. Non capisce soprattutto la politica, assente da 14 anni nel dibattito sulla guerra al terrorismo. Guardate l'imbarazzante reazione dell'Europa ai fatti di Parigi: non una sola voce comune, né tantomeno una voce forte di condanna o di presa d'atto che si tratta di una guerra dichiarata sul nostro territorio. L'Europa non esiste, punto. E più che sull'euro, sulla crisi, sull'austerità, lo dimostra sul terrorismo. Siamo in balia della nostra apatia e della nostra ideologia remissiva: la verità è che ci siamo autoconvinti che l'Occidente sia colpevole. Le immagini di Parigi hanno fatto rimbalzare quelle di Londra 2013, quando due inglesi di origine nigeriana uccisero sgozzandoli due agenti nell'indifferenza collettiva. Nessuna reazione. Paura, punto. L'Occidente si protegge chiedendo scusa. Perché? Ci siamo dimenticati che non siamo noi quelli dalla parte sbagliata. Ci siamo dimenticati che noi siamo le vittime.

Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci. L'odio per l'Occidente, il fallimento dell'integrazione: in queste righe sembra di leggere la cronaca di oggi, scrive Oriana Fallaci su “Il Giornale”. Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma, com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:

Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare". Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.

"La forza della ragione" (2004) voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.

Oriana Fallaci intervista se stessa (2004).  “Scrivere per libertà e disobbedienza”: è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l’Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un’accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.

Un atto di giustizia rileggerli oggi che il quadro è ancora più chiaro e molti, che le davano della pazza, sono costretti ad ammettere che invece ci aveva visto giusto.

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Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l'Orgoglio . Continuai con La Forza della Ragione . Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse . I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia.

Il nemico è in casa. Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be', il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.

Il crocifisso sparirà. Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.

Dialogo tra civiltà. Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.

Una strage in Italia? La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.

Multiculturalismo, che panzana. L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.

Conquista demografica. Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.

Addio Europa, c'è l'Eurabia. L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.

Integrazione impossibile. La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».

L'islam moderato non esiste. Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro Ragione.

Ecco cos'è il Corano. Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.

La Parigi della Fallaci capitale d'Eurabia e dei collaborazionisti. Nella Trilogia, molti passi sulla Francia ormai contro-colonizzata dall'immigrazione musulmana. Colpa (anche) degli intellettuali,, scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Secondo Oriana Fallaci, Parigi era la capitale d'Eurabia. Quest'ultimo termine, introdotto nel dibattito dalla storica Bat Ye'Or (in Eurabia , Lindau), descrive il futuro del Vecchio Continente dilaniato al suo interno dallo scontro con l'islam. Alla radice ci sono gli accordi di cooperazione tra Europa e Paesi arabi firmati negli anni Settanta. L'Europa avrebbe fornito tecnologia ai Paesi arabi in cambio di greggio e manodopera. Si teorizzava la necessità di una forte immigrazione, presto diventata accesso incontrollato, verso le nostre sponde. La massiccia presenza di stranieri in Europa, secondo la Fallaci, era il cavallo di Troia di una colonizzazione al contrario. Rileggiamo La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004). Per i difensori dell'Occidente, Parigi è persa. «Non è facile avere coraggio in un Paese dove esistono più di tremila moschee» e i musulmani sono così numerosi (ben oltre l'ufficiale dieci per cento della popolazione). In Francia «il razzismo islamico cioè l'odio per i cani-infedeli regna sovrano e non viene mai processato, mai punito». Gli imam dichiarano di voler sfruttare la democrazia «per occupare territorio» e sovvertire le leggi laiche in favore della sharia. L'antisemitismo è in crescita. I quartieri di troppe città, stravolte dal cambiamento demografico, hanno perso l'identità francese per acquisire quella magrebina. Di fronte a queste tesi, l'intellighentia scese compatta in campo per screditare la Fallaci. La giornalista fu tra i primi, in Europa, a sperimentare strumenti ed effetti del politicamente corretto. Ripercorriamo questa vicenda esemplare. La Rabbia e l'Orgoglio (Rizzoli) esce a Parigi nel maggio 2002. Mentre la prima tiratura di 25 mila copie va esaurita in due settimane, gli intellettuali si esibiscono sui giornali. Ad aprire la polemica è il settimanale Le Point . Secondo il filosofo Bernard-Henri Lévy, il libro della Fallaci è paragonabile alle peggiori opere antisemite come Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline: «È un libro razzista. Con meno talento, è un Bagatelle antiarabo». Stessa linea per Françoise Giroud su Le Nouvel Observateur : «La Fallaci tocca nel lettore qualcosa di profondo, d'inconfessato, che egli negherà sempre di aver pensato ma che queste pagine cariche di odio e di disprezzo rischiano di illuminare brutalmente». Il sociologo Gilles Kepel su Le Monde imputa al libro di aver sancito la vittoria di Osama bin Laden, trascinando l'Occidente sul campo della reazione isterica. Una voce fuori dal coro? Charlie Hebdo ammette la verità di fondo del libro. Ma anche il settimanale satirico, di fronte alla reazione dei lettori, è costretto a «ritrattare» (in parte). All'inizio di giugno, la Fallaci risponde sul Corriere della Sera . L'articolo Eppure con la Francia non sono arrabbiata è accompagnato da brani composti in francese per La Rabbia e l'Orgoglio e ora tradotti in italiano. In breve: la specie tutta europea dei «voltagabbana» (o collaborazionisti) trova la sua origine e massima espressione in Francia fin dal Medioevo. Tra i voltagabbana più abili nello schierarsi sempre dalla parte vincente, ci sono gli intellettuali. Oggi ha vinto il politicamente corretto. E quindi... «Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi». Gli intellettuali hanno rimpiazzato l'ideologia marxista con la «viscida ipocrisia» che «in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori». La cultura è il regno delle mode. La moda «o meglio l'inganno che in nome dell'Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani». La moda «o meglio la demagogia che in nome dell'Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo». La moda «o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini “operatori ecologici”». La moda «o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce “tradizione locale” e “cultura diversa” l'infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani». La moda di magnificare le conquiste culturali dell'islam per farlo apparire superiore all'Occidente. E infine la moda «che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine “razzismo”. Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso». Passano dieci giorni. Tre associazioni francesi denunciano la Fallaci per islamofobia e incitazione al razzismo. Era accaduto, poco prima, anche a Michel Houellebecq, a causa dei duri giudizi sull'islam contenuti nel romanzo Piattaforma (Bompiani) e ribaditi in un'intervista. Il tribunale di Parigi assolve la Fallaci mentre La Rabbia e l'Orgoglio supera le duecentomila copie. Quanta fatica sprecata per liquidare la Fallaci. Oriana guardava lontano mentre gli intellettuali non si sono accorti dei processi storici e delle ideologie di morte che hanno davanti agli occhi.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. L i chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera , nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

La guerra siriana si combatteva in Italia. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista con obiettivo soprattutto i cristiani. A rivelarlo è un'indagine della polizia e dai magistrati anti-terrorismo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un piccolo spezzone della guerra civile siriana si è combattuto in Italia. Ma era ancora troppo presto per capirlo. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista: ferimenti, aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, devastazioni, minacce e intimidazioni. Le vittime appartengono alle minoranze politico-religiose più perseguitate dalle milizie islamiste in Siria: le violenze in Italia hanno colpito soprattutto cristiani. A rivelarlo è un'indagine, avviata dalla polizia e dai magistrati anti-terrorismo di Milano, che viene ricostruita in un articolo del settimanale “l'Espresso”. Da quando è esplosa la guerra civile in Siria, le forze di polizia di tutti i Paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare le partenze degli estremisti verso i fronti di guerra. A Milano la Digos ha messo sotto controllo, in particolare, un gruppo di siriani residenti da anni tra Milano, Como e Monza: spariti dall’Italia, sono ricomparsi, mitra in pugno, in una serie di foto e video pubblicati su Internet tra febbraio e luglio del 2012. Solo a quel punto la polizia, ricostruendo le loro precedenti attività in Italia, ha scoperto che quegli stessi jihadisti siriani avevano già colpito, segretamente, anche a casa nostra. L’unica azione visibile si è svolta nella notte del 10 febbraio 2012 nel centro di Roma: un plotone di oppositori siriani ha dato l’assalto all’ambasciata di Damasco, che è stata occupata e devastata. Quel raid di protesta contro il regime del presidente-dittatore Bashar El-Assad è stato organizzato proprio dal gruppo di estremisti che poi sono partiti per la guerra in Siria. Nei mesi successivi le indagini della polizia hanno collegato alla stessa cellula jihadista molte altre azioni violente, mai denunciate per paura. Tra le vittime, due siriani di fede cristiana, che gestivano un bar a Cologno Monzese. Il loro locale è stato devastato nell'estate 2011 da un commando di oltre trenta uomini armati di bastoni e spranghe di ferro. Sulla saracinesca è poi comparsa una scritta in arabo: «Per tutti i siriani: quelli che sono a favore del presidente devono stare attenti. In Siria ci penseremo noi. Quelli che ammazzano nel jihad, vivono con Dio». Nella primavera 2012, dopo altre gravi intimidazioni, i due cristiani hanno ceduto il bar e si sono trasferiti. Un altro agguato di stampo jihadista ha colpito due siriani che lavorano regolarmente tra Milano e la Brianza: uno è cristiano, l’altro della minoranza sciita-alauita, ma i loro amici più cari sono sunniti. Il 16 luglio 2011 hanno partecipato a una fiaccolata filo-Assad organizzata da un'associazione di cui fanno parte anche cittadini italiani. Mentre tornavano a casa in macchina, sono stati circondati e picchiati ferocemente da almeno 15 sprangatori jihadisti. Le due vittime, sanguinanti a terra, sono state salvate dall'arrivo dei carabinieri. Il cristiano è stato ricoverato al San Raffaele con una gamba spappolata e operato più volte. A una spedizione punitiva è sfuggito anche un religioso legato alla Fratellanza Musulmana, il partito allora al potere in Egitto, che aveva messo al bando le sette jihadiste dalle moschee milanesi. A quel punto l’ala dura dei salafiti siriani lo ha minacciato di morte: «Sei un traditore.... Ti uccideremo a coltellate... Ti sgozzeremo come un cane». Dopo mesi di indagini, la Digos ha smascherato gli esponenti più violenti del gruppo jihadista milanese. Ma a quel punto erano già partiti tutti per la guerra. Uno dei più sanguinari è stato identificato in due video-choc, girati in Siria nel maggio 2012 (e scoperti da un fotoreporter della Rai): con il mitra a tracolla, si è fatto riprendere con un plotone di uomini armati, mentre uccidevano con un colpo alla testa sette prigionieri di guerra, legati e torturati.

IL NATALE COME TRADIZIONE E CULTURA: GENESI ED EVOLUZIONE.

Da san Nicola a Santa Claus: la vera storia di Babbo Natale. Come un severo vescovo proveniente dall'attuale Turchia è diventato il gioviale dispensatore di doni natalizi che cala dal Polo Nord, scrive Brian Handwerk su "Nationalgeographic.it" il 24 dicembre 2015. Tutti i bambini lo sanno: Babbo Natale viene dal Polo Nord, è barbuto e sovrappeso e la notte tra il 24 e il 25 dicembre porta i regali ai piccoli di tutto il mondo viaggiando su una slitta trainata da renne. Ma la storia di questo amato personaggio del folklore è lunga e affascinante quasi come la sua leggenda. Babbo Natale nasce sulle rive del Mediterraneo, si evolve nell’Europa del Nord e assume la sua forma definitiva (Santa Claus) nel Nuovo Mondo, da dove poi si ridiffonde quasi in ogni parte del globo. In principio era san Nicola, un greco nato intorno al 280 d.C. che divenne vescovo di Mira, cittadina romana del sud dell’Asia Minore, l’attuale Turchia. Nicola si guadagnò la reputazione di fiero difensore della fede cristiana in anni di persecuzioni e trascorse molti anni in prigione finché, nel 313, Costantino emanò l’Editto di Milano che autorizzava il culto. L’iconografia ha tramandato diverse sue immagini, ma nessuna somiglia troppo all’omone allegro, sovrappeso e dalla barba bianca che oggi attribuiamo a Babbo Natale. Catherine Wilkinson, un’antropologa forense della University of Manchester, ha cercato di ricostruirne il vero aspetto basandosi sui resti umani conservati nella cripta della Basilica di san Nicola di Bari, dove le presunte reliquie del santo furono portate nel 1087 da un gruppo di marinai e sacerdoti baresi che era andato fino a Myra per impadronirsene. Quando, negli anni Cinquanta del secolo scorso, la cripta fu restaurata, il cranio e le ossa del santo furono accuratamente misurate, fotografate e radiografate. Wilkinson ha esaminato questi dati alla luce delle moderne tecniche dell’antropologia forense, aiutandosi con un software di ricostruzione facciale e aggiungendo dettagli dedotti dalle fattezze delle popolazioni mediterranee dell’epoca. Il risultato – un uomo anziano, dalla pelle olivastra, il naso rotto forse nel corso delle persecuzioni, e barba e capelli grigi – è stato illustrato nel documentario della BBC The Real Face of Santa. Dopo la morte (avvenuta il 6 di dicembre di un anno imprecisato alla metà del IV secolo), la figura del santo divenne popolarissima in tutta la cristianità, grazie anche ai tanti miracoli che gli furono attribuiti. Molte professioni (ad esempio i marinai), città e intere nazioni lo adottarono e ancora lo venerano come loro patrono. Ma perché diventò anche protettore dei bambini e mitico dispensatore di doni? La ragione, spiega Gerry Bowler, storico e autore del libro Santa Claus: A Biography, sta soprattutto in due leggende che si diffusero in Europa intorno al 1200. La prima, e più nota, racconta del giovane vescovo Nicola che salva tre ragazze dalla prostituzione facendo recapitare in segreto tre sacchi d’oro al padre, che così può salvarsi dai debiti e fornire una dote alle figlie. Nella seconda, Nicola entra in una locanda il cui proprietario ha ucciso tre ragazzi, li ha fatti a pezzi e li ha messi sotto sale, servendone la carne agli ignari avventori. Nicola non si limita a scoprire il delitto, ma resuscita anche le vittime: “ecco uno dei motivi che lo resero patrono dei bambini”, commenta Bowler. Resta da spiegare come questo santo mediterraneo si sia spostato al Polo Nord e sia stato associato al Natale. In realtà per molti secoli il culto di san Nicola – e la tradizione di fare regali ai bambini - si continuò a celebrare il 6 dicembre, come avviene tuttora in diverse zone dell’Italia del Nord e dell'arco alpino, fino in Germania. Col tempo al santo vennero attribuite alcune caratteristiche tipiche di divinità pagane preesistenti, come il romano Saturno o il nordico Odino, anch’essi spesso rappresentati come vecchi dalla barba bianca in grado di volare. San Nicola era anche incaricato di sorvegliare i bambini perché facessero i buoni e dicessero le preghiere. Ma la Riforma protestante, a partire dal Cinquecento, abolì il culto dei santi in gran parte dell’Europa del Nord. “Era un bel problema”, commenta Bowler. “A chi far portare i doni ai bambini?”. In molti casi, risponde lo studioso, il compito fu attribuito a Gesù Bambino, e la data spostata dal 6 dicembre a Natale. “Ma il piccolo Gesù non sembra in grado di portare troppi regali, e soprattutto non può minacciare i bambini cattivi. Così gli fu spesso affiancato un aiutante più forzuto, in grado anche di mettere paura”. Nacquero così nel mondo germanico alcune figure a metà tra il folletto e il demone. Alcune, come i Krampus, servono da aiutanti dello stesso san Nicola; in altre il ricordo del santo sopravvive nel nome, come Ru-klaus (Nicola il Rozzo), Aschenklas (Nicola di cenere) o Pelznickel (Nicola il Peloso). Erano loro a garantire che i bambini facessero i buoni, minacciando punizioni come frustate o rapimenti. Per quanto possa sembrare strano, anche da questi personaggi nasce la figura dell’allegro vecchietto in slitta. Gli immigrati nordeuropei portarono con sé queste leggende quando fondarono le prime colonie nel Nuovo Mondo. Quelli olandesi, rimasti affezionati a san Nicola, diffusero il suo nome, "Sinterklaas". Ma nell’America delle origini il Natale era molto diverso da come lo consideriamo oggi. Nel puritano New England era del tutto snobbato, mentre altrove era diventato una specie di festa pagana dedicata soprattutto al massiccio consumo di alcol. “Era così anche in Inghilterra”, spiega Bowler. “E non c’era nessun magico dispensatore di doni”. Poi, nei primi decenni dell’Ottocento, diversi poeti e scrittori cominciarono a impegnarsi per trasformare il Natale in una festa di famiglia, recuperando anche la leggenda di san Nicola. Già in un libro del 1809, Washington Irving immaginò un Nicola che passava sui tetti con il suo carro volante portando regali ai bambini buoni; poi fu la volta di un libretto anonimo in versi, The Children’s Friend, con la prima vera apparizione di Santa Claus, associato al Natale “ma privato di qualsiasi caratteristica religiosa, e vestito nelle pellicce tipiche dei buffi portatori di doni germanici”, spiega Bowler. Questo Santa porta doni ma infligge anche punizioni ai bambini cattivi, e il suo carro è trainato da una sola renna. Le renne diventano otto e il carro diventa una slitta nella poesia A Visit From St. Nicholas, scritta nel 1822 da Clement Clark Moore per i suoi figli ma diventata subito “virale”. Per molti decenni Santa Claus viene rappresentato con varie fattezze e con vestiti di varie forme e colori. Solo verso la fine del secolo, grazie soprattutto alle illustrazioni di Thomas Nast, grande disegnatore e vignettista politico, si impone la versione “standard": un adulto corpulento, vestito di rosso con i bordi di pelliccia bianca, che parte dal Polo Nord con la sua slitta trainata da renne e sta attento a come si comportano i bambini. Una volta standardizzata (grazie anche alle pubblicità della Coca-Cola, nota del trad. it) la figura di Santa Claus torna in Europa in una sorta di migrazione inversa, adottando nomi come Père Noel, Father Christmas o Babbo Natale e sostituendo un po’ ovunque i vecchi portatori di doni. A diffonderla sono anche i soldati americani sbarcati durante la Seconda mondiale, e l’allegro grassone finisce per simboleggiare la generosità degli USA nella ricostruzione dell’Europa occidentale. Naturalmente, c'è anche chi nel Babbo Natale di origine yankee vede nient'altro che il simbolo della deriva consumista del Natale. Altri lo rifiutano o lo snobbano semplicemente in nome della tradizione, come i non pochi italiani ancora affezionati a santa Lucia, alla Befana o al vecchio, originale san Nicola.

Greccio, il primo presepe della storia è italiano. Per la prima volta, San Francesco d'Assisi rappresentò la natività di Gesù in una grotta vicino a Greccio (Rieti), scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". Lo hanno relegato in un angolo. Lo hanno chiuso in un cassetto. Messo sotto chiave negli armadietti scolastici. Hanno detto essere solo un simbolo confessionale. Ma il presepe è anche un segno culturale. E’ parte integrante della tradizione italiana. Tradizione che abbiamo esportato in tutto il mondo. Il primo presepe della storia, infatti, è stato realizzato in Italia. Per capire i perché della grotta, del bue e dell'asinello, siamo andati a Greccio, un piccolo centro in provincia di Rieti (Lazio). Il luogo dove venne rappresentata per la prima volta la nascita di Gesù. San Francesco d'Assisi arriva a Greccio nel 1209. Come d'abitudine andò ad abitare in un luogo isolato, da eremita, sul Monte Lacerone a qualche chilometro dal castello della città. Dopo alcuni anni di predicazione, la popolazione del luogo comprese la santità di quell’uomo. Il castellano di Greccio, Giovanni Velita, ne divenne amico sincero, tanto da chiedergli di avvicinarsi alla città per permettere a tutti di andarlo ad ascoltare. La leggenda vuole che per scegliere il luogo della nuova dimora, San Francesco si affidò ad un bambino di quattro anni. Al quale venne fatto lanciare un tizzone di fuoco, che cadde in una località piena di grotte. Quelle stesse grotte al cui interno venne rappresentata la natività e che ora ricorrono in tutti i presepi del mondo. Il desiderio di rievocare la nascita di Gesù viene a Francesco durante un viaggio in Palestina. Quando nell’autunno del 1223 si reca a Roma da papa Onorio III, chiede al Santo Padre di poterla realizzare. Ottenuto il permesso, San Francesco torna in quella Greccio che gli “ricordava Betlemme” e disse a Giovanni Velita: “Voglio celebrare teco la notte di Natale. Scegli una grotta dove farai costruire una mangiatoia ed ivi condurrai un bove ed un asinello, e cercherai di riprodurre, per quanto è possibile la grotta di Betlemme! Questo è il mio desiderio, perché voglio vedere, almeno una volta, con i miei occhi, la nascita del Divino infante”. E così, il 24 dicembre 1223, viene messa in scena la nascita di Gesù bambino. C'erano la grotta, il bue e l'asinello. Nessuno dei presenti prese il ruolo di Giuseppe e Maria, perché Francesco non voleva si facesse "spettacolo" della nascita di Gesù. Solo successivamente nei presepi del mondo sono stati aggiunti gli altri personaggi. Il biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, scrisse che uno dei presenti vide il bambinello di terracotta prendere vita. Da questi momenti trae origine il tradizionale presepio, poi tramandato e esportato in tutto il mondo cristiano. A Greccio, ogni anno, viene messo in scena il ricordo di questo evento. Non un semplice presepe vivente, ma la rievocazione dei momenti che hanno spinto San Francesco a realizzare la natività di Gesù. Le tradizioni rimangono vive solo se le si coltivano. Chiudendole in un cassetto si finisce per dimenticarle. Un simbolo che dal lontano 1223 viene esposto in tutti i luoghi d’Italia e d’Europa non può essere abbandonato con la scusa di non “offendere” le altre religioni. Oppure, ed è ancor più grave, in nome della laicità dello Stato. Il presepe è un simbolo culturale. E come tale va difeso.

Il Presepe oggi. San Francesco e la storia di una tradizione natalizia, scrive “Frati Cappuccini”. Chi ha inventato il Presepe? Perché lo ha fatto? Che c’entra San Francesco con la storia del presepe? Che significato ha? Perché una tale tradizione resiste nel tempo? Per conoscere e approfondire la storia del Presepe e la sua attualità anche nel mondo moderno dell’oggi, ZENIT ha intervistato Padre Pietro Messa Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum.

Che c’entra San Francesco con il presepio?

«Nel 1223, esattamente il 29 novembre, papa Onorio III con la bolla Solet annuere approvò definitivamente la Regola dei frati Minori. Nelle settimane successive Francesco d'Assisi si avviò verso l'eremo di Greccio dove espresse il suo desiderio di celebrare in quel luogo il Natale. Ad uno del luogo disse che voleva vedere con gli "occhi del corpo" come il bambino Gesù, nella sua scelta di abbassamento, fu adagiato in una mangiatoia. Quindi stabilì che fossero portati in un luogo stabilito un asino ed un bue - che secondo la tradizione dei Vangeli apocrifi erano presso il Bambino - e sopra un altare portatile collocato sulla mangiatoia fu celebrata l'Eucaristia. Per Francesco come gli apostoli videro con gli occhi del corpo l'umanità di Gesù e credettero con gli occhi dello spirito alla sua divinità, così ogni giorno mentre vediamo il pane ed il vino consacrato sull'altare, crediamo alla presenza del Signore in mezzo a noi. Nella notte di Natale a Greccio non c'erano né statue e neppure raffigurazioni, ma unicamente una celebrazione eucaristica sopra una mangiatoia, tra il bue e l'asinello. Solo più tardi tale avvenimento ispirò la rappresentazione della Natività mediante immagini, ossia il presepio in senso moderno».

Perché lo ha fatto?

«Francesco era un uomo molto concreto e per lui era molto importante l'Incarnazione, ossia il fatto che il Signore fosse incontrabile mediante segni e gesti, prima di tutto i Sacramenti. La celebrazione di Greccio si colloca proprio in questo contesto».

Come si spiega la popolarità e la diffusione dei presepi?

«Francesco morì nel 1226 e nel 1228 fu canonizzato da papa Gregorio IX; fin da quel momento la sua vicenda fu narrata evidenziandone la novità e, grazie anche all'opera dei frati Minori, la devozione verso il Santo d'Assisi si diffuse sempre più e in modo capillare. Di conseguenza anche l'avvenimento del Natale di Greccio fu conosciuto da molte persone che desiderarono raffigurarlo e replicarlo, iniziando a rappresentare e diffondere il presepio. In questo modo divenne patrimonio della cultura e fede popolare».

Che significato ha e perché la Chiesa invita i fedeli a rappresentare, costruire, tenere presepi in casa e in luoghi pubblici?

«La Chiesa ha sempre dato importanza ai segni, soprattutto liturgico sacramentali, sorvegliando però che non sconfinassero in una sorta di superstizione. Alcuni gesti furono incentivati perché ritenuti adatti per la diffusione dell'annuncio evangelico e tra questi si segnala proprio il presepio nella cui semplicità indirizza tutto alla centralità di Gesù».

Quale rapporto tra il presepe e l’arte? Perché tanti artisti lo hanno dipinto, scolpito, raccontato, ….?

«Proprio per la sua plasticità il presepio si presta a rappresentazioni in cui il particolare può diventare segno della concretezza della quotidianità della vita. E proprio tali particolari della vita umana - i vestiti dei pastori, le pecore che brucano l'erba, il fanciullo attaccato alla gonna di mamma, eccetera - sono stati rappresentati anche come ulteriori indizi del realismo cristiano che scaturisce proprio dall'Incarnazione».

Cosa pensa della devozione popolare nei confronti del presepe ancora molto diffusa tra la gente? Va incoraggiata o limitata?

«Come san Francesco ogni uomo e donna ha bisogno di segni; alcuni risultano ormai incomprensibili mentre altri per la loro semplicità e immediatezza hanno ancora un'efficacia. Tra questi possiamo porre il presepe e quindi ben venga la sua diffusione».

Il Presepe. La storia, scrive "Proloco Greccio". Betlemme e Greccio sono due nomi inseparabili nei ricordi natalizi di ogni anno poiché, se a Betlemme si operò il mistero della divina incarnazione del Salvatore del Mondo, a Greccio, per la pietà di San Francesco di Assisi, ebbe inizio, in forma del tutto nuova, la sua mistica rievocazione. La prima volta che San Francesco venne a Greccio fu intorno al 1209. In quegli anni la popolazione di Greccio era esposta a grave flagello: la zona infatti era infestata da grossi lupi che divoravano anche le persone, ed ogni anno campi e vigneti erano devastati dalla grandine. “E accadde, per disposizione divina e grande ai meriti del padre Santo, che da quell'ora cessassero le calamità”. Egli non abitò nel castello, ma si costruì una povera capanna tra due carpini sul Monte Lacerone, detto appunto di San Francesco, monte alto 1204 mt., ove sorse nel 1712 una cappellina Commemorativa. San Francesco da lì si recava, durante la giornata, a predicare alle popolazioni della campagna. Gli abitanti di Greccio presero ad amare Francesco e giunsero a tale punto di riconoscenza, per la sua grande opera di rigenerazione, da implorarlo perché non abbandonasse i loro luoghi e si trattenesse sempre con loro. Tra coloro che andavano a sentire la parola del piccolo frate, c'era Giovanni Velita, il castellano di Greccio che divenne un “innamorato” del Santo. Dal 1217, Giovanni divenne uno dei migliori amici di Francesco e si prodigò per onorare nel miglior modo possibile quest' uomo, che già aveva manifestato i segni della santità. E mentre Francesco dimorava nella misera capanna ebbe le visite di Giovanni Velita, il quale, un po' grosso di costituzione, un giorno gli chiese di scegliere una dimora più vicina per confortare lui e il suo popolo con la sua parola. Francesco comprese la sincerità di tale proposta e l'accettò volentieri dicendo che avrebbe rimesso la scelta della nuova dimora, non alla sua volontà, ma ad un tizzo lanciato in aria da un fanciullo. La leggenda o verità non accertata, racconta che trovato un fanciullo di quattro anni lo si invitò a lanciare il tizzo in aria. Obbedì il fanciullo: "et el focoso tizzone, si come un dardo dall'arco scoccato, volando veloce se ne andò ad incendiare una selvaggia selva, sopra da un monticello, il quale d'appartenenza era del Velita, et tutto questo fece, alla lunghezza de uno bon miglio et più". Stupiti i Grecciani di tanto miracolo si recarono, con Francesco e con Giovanni Velita, al luogo ove era caduto il tizzo. Questa località ripida e scoscesa fu scelta come nuova dimora del Santo. Francesco amava l'eremo di Greccio, e aveva una predilezione anche per gli abitanti di quella terra, per la loro povertà e semplicità, perciò si recava spesso a soggiornare lì, attirato inoltre da una celletta estremamente povera ed isolata dove il Padre santo amava raccogliersi. A proposito degli uomini di Greccio soleva dire tutto felice ai frati: " non esiste una grande città dove si sono convertiti al Signore tante quante ne ha un paese così piccolo." Nell'autunno del 1223 Francesco si trovava a Roma in attesa dell'approvazione della Regola definitiva scritta per i suoi frati e presentata al Pontefice Onorio III°. Il 29 Novembre di detto anno ebbe la gioia di avere tra le mani la regola munita di bolla pontificia. Siamo ormai alle porte dell'inverno e un pensiero assillante dominava la mente di Francesco: l'avvicinarsi della ricorrenza della nascita del Redentore. Il poverello di Cristo, nella sua innata semplicità si fece audace, e durante l'udienza pontificia, concessagli per lo scopo suddetto, umilmente chiese al Papa la licenza di poter rappresentare la natività. Infatti, dopo il viaggio in Palestina, Francesco, rimasto molto impressionato da quella visita, aveva conservato una speciale predilezione per il Natale e questo luogo di Greccio, come dichiarò lui stesso, gli ricordava emotivamente Betlemme. Tormentato dal vivo desiderio di dover celebrare quell’anno, nel miglior modo possibile, la nascita del Redentore, giunto a Fonte Colombo, mandò subito a chiamare Giovanni Velita, signore di Greccio, e così disse: "Voglio celebrare teco la notte di Natale. Scegli una grotta dove farai costruire una mangiatoia ed ivi condurrai un bove ed un asinello, e cercherai di riprodurre, per quanto è possibile la grotta di Betlemme! Questo è il mio desiderio, perché voglio vedere, almeno una volta, con i miei occhi, la nascita del Divino infante." Il cavaliere Velita aveva quindici giorni per preparare quanto Francesco desiderava e tutto ordinò con la massima cura ed " il giorno della letizia si avvicinò e giunse il tempo dell'esultanza!". Da più parti, Francesco aveva convocato i frati e tutti gli abitanti di Greccio. Dai luoghi più vicini e lontani mossero verso il bosco con torce e ceri luminosi. Giunse infine il Santo di Dio, vide tutto preparato e ne gode. Greccio fu così la nuova Betlemme! Con somma pietà e grande devozione l'uomo di Dio se ne stava davanti al presepio, con gli occhi in lacrime e il cuore inondato di gioia. Narra Tommaso da Celano: "fu talmente commosso nel nominare Gesù Cristo, che le sue labbra tremavano, i suoi occhi piangevano e, per non tradire troppo la sua commozione, ogni volta che doveva nominarlo, lo chiamava il Fanciullo di Betlemme. Con la lingua si lambiva le labbra, gustando anche col palato tutta la dolcezza di quella parola e a guisa di pecora che bela dicendo Betlemme, riempiva la bocca con la voce o meglio con la dolcezza della commozione". E narrasi ancora come vedesse realmente il bambino sulla mangiatoia, scuotersi come da un sonno tanto dolce e venirgli ad accarezzare il volto. Un cavaliere di grande virtù e degno di Fede, il signore " Giovanni da Greccio" asserì di aver visto quella notte un bellissimo bambinello dormire in quel presepio ed il Santo Padre Francesco stringerlo al petto con tutte e due le braccia. La narrazione della visione di questo devoto cavaliere è resa credibile non solo dalla santità di colui che la vide con i suoi occhi, ma è confermata anche dai miracoli che ne seguirono: come quello della paglia di quel presepio, che serviva per sanare in modo prodigioso le malattie degli animali ed ad allontanare le pestilenze, per la misericordia del Signore. Così ebbe origine il tradizionale Presepio che si costruisce in tutto il mondo Cristiano, per ricordare la nascita del redentore.

Il Consumismo natalizio che ci unisce, dove gli ignoranti vogliono dividerci, scrive Barbara Di il 25 dicembre 2015 su "Il Giornale". Il Natale a Mauritius è una splendida festa che tanti dovrebbero vivere prima di sproloquiare di tolleranza accecati dall’ignoranza. Vedere cattolici, cinesi, indù, tamil, protestanti, musulmani passeggiare allegramente e scambiarsi gli auguri in un’atmosfera gioiosa forse gli farebbe capire come le persone siano molto più intelligenti di loro, che vorrebbero insegnarci a vivere secondo precetti forzati e innaturali. Tutti con qualcosa di rosso addosso, dai creoli con il cappello di Babbo Natale, alle indiane con il sari sgargiante fino alle musulmane con il chador scarlatto che ci prenderebbero per matti se sentissero Boldrini, presidi, sindaci e compagnia ignorante vietarci di festeggiare o di farci gli auguri per una presunta offesa nei loro confronti, semmai si offenderebbero se non ricambiassimo i loro sorridenti Joyeux Noël. Questo piccolo paradiso nell’Oceano Indiano ha tanto da insegnare al resto del mondo in tema di tolleranza, che già è una parola sbagliata, peraltro, perché tollero ciò che in fondo non sopporto. Qui hanno invece imparato la vera convivenza basata sul rispetto reciproco di popoli tanto diversi quanto uniti dal desiderio di stare tutti bene in una Nazione che amano. E una delle basi di questo rispetto ritengo nasca proprio dal fatto che le feste religiose di ciascuno sono considerate festività nazionali, dalla Pasqua al Cavadee, al Diwali, alla fine del Ramadan, al Capodanno Cinese, fino appunto alla più amata, il Natale. Tutti festeggiano, tutti rispettano le usanze altrui, nessuno si sognerebbe di vietarle perché questa sì che sarebbe una mancanza di rispetto. E d’altro canto, che il Natale sia diventato una festa così sentita in tutto il mondo lo deve ad un motivo che è esattamente l’opposto di quanto professa questa specie di Pa-pauperista: il consumismo. Perché il Natale è la festa dei bambini, della frenesia dell’attesa di Santa Klaus, della gioia impareggiabile nei loro occhi quando scartano i regali, di quel puro egoismo interiore psicologico che questa stupida cultura socialista e politicamente corretta ci permette di esprimere solo da piccoli, senza farci sentire sbagliati. Siamo esseri umani perché amiamo il piacere di soddisfare i nostri desideri psicologici e ci distinguiamo dagli animali, abbiamo creato la civiltà, ci siamo evoluti prorio perché non ci accontentiamo di appagare solo i bisogni essenziali e materiali. Il Natale, coi suoi cenoni carichi di prelibatezze per l’olfatto ed il palato, con i regali che appagano tutti i nostri sensi, è proprio la gioia del donare e del ricevere, che grazie all’empatia raddoppia il piacere. Quel piacere, quella ricerca della felicità grazie ai meritati guadagni del proprio lavoro che non a caso è la bestia nera di qualsiasi regime autoritario, statalista e integralista poco cambia, perché trasforma i sudditi soggiogabili in cittadini ambiziosi che lottano, lavorano, producono per essere liberi di soddisfare tutti i propri desideri senza che nessun governante o sacerdote possa imporglieli o reprimerglieli. Ecco perché il modo migliore per combattere qualsiasi fondamentalismo religioso non passa dalla tolleranza vigliacca, ma dal saper mostrare al mondo quanto sappiamo trarre piacere da tutto ciò che ci circonda e che ci possiamo permettere grazie al nostro lavoro, dal più effimero al più lussuoso dei desideri. In fondo, quindi, se il Natale – non importa perché o grazie a chi, se al Santa Klaus della Coca-Cola o a San Nicola – ormai è tanto amato da tutti, atei o credenti di ogni religione, è perché non è altro che la Festa della Libertà. Per questo auguro a tutti un Felice Natale, che vi porti tutti i piaceri che desiderate.

Ecco perché è sbagliato cancellare il Natale (anche per gli islamici). Ripensare al 2015 significa ripensare a un anno in cui il dilagare di una guerra, militare e ideologica, ha interessato ognuno di noi, scrive Luca Steinmann Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". Natale, un attimo di pace. Natale, periodo di riconciliazione. Oggi come ieri, per i fedeli come per i non credenti, questo momento dell’anno va ad assumere un significato trasversale, che evade la dimensione meramente religiosa: ogni Natale le famiglie si riuniscono, le persone si ritrovano in un momento staccato e lontano dalla frenesia quotidiana e dai problemi che hanno accompagnato i mesi precedenti. Per molti è un’occasione di riflessione e di confronto con l’anno che si sta per chiudere, con le scelte che in questo arco di tempo sono state prese o subite e con le conseguenze che esse hanno avuto sulle proprie persone e sulle proprie storie. Ripensare al 2015 significa ripensare a un anno in cui il dilagare di una guerra, militare e ideologica, ha interessato ognuno di noi. Perché nessuno che viva nella società occidentale può essere immune dal cambiamento che questa sta subendo a seguito dell’inasprimento di uno scontro che ha visto nelle due stragi di Parigi, quella di Charlie Hebdo e del Bataclan, i suoi momenti più emblematici. Uno scontro sanguinoso dichiarato da esponenti di due diversi mondi che, in nome di due religioni considerate contrapposte, si sono posti come portavoce della totalità dei propri fedeli e hanno dichiarato di voler esportare il proprio modello di società e di vita dove esso non è ancora presente. Così, se da una parte l’Occidente ‘cristiano’ già da tempo bombarda i territori musulmani in nome del progresso, dall’altra i terroristi dell’Isis hanno portato la propria guerra in terra europea in nome di Allah. Da una parte come dall’altra è stato invocato lo stesso messaggio: che si tratta di una guerra tra religioni, di uno scontro di civiltà tra Islam e Cristianesimo, di una battaglia tra bene e male. E questo Natale, in quanto festa cristiana, è stato da alcuni considerato come un momento per inasprire questo scontro. Generando, da una parte come dall’altra, sentimenti di rabbia, di emozione, di sfiducia, di diffidenza, di paura per il futuro. Siamo nel pieno di un disordine che non sembra volersi arrestare. E le guerre che l’Europa in passato ha già vissuto non si sono mai concluse fino alla vittoria totale di una parte sull’altra. Interrompendosi però solo in un’occasione: proprio durante il Natale. Nel 1914, per esempio, i soldati tedeschi e inglesi che si combattevano sul fronte occidentale durante la Grande Guerra dichiararono un inufficiale cessate il fuoco, celebrando comuni cerimonie religiose e di sepoltura dei caduti. Solo lo scorso anno, invece, l’esercito ucraino intento a combattere nella città Donetsk, si è accordato con i ribelli filo-russi per una breve tregua natalizia. E’ possibile, dunque, che anche il Natale del 2015 diventi un momento di tregua anche dello scontro di civiltà? Secondo Niyazi Oktem, professore dell’Università di Istanbul, non solo è possibile, ma strettamente necessario. Senza mai dimenticare che la diversità di religione è una delle cause principali dei conflitti internazionali, spiega, va fatto sapere che l’Islam riconosce come sacro il Natale e i suoi protagonisti. Esso, infatti, concepisce sia l’Antico sia il Nuovo Testamento come testi sacri, oltre che tutti i profeti in essi menzionati. Soprattutto la Vergine Maria e suo figlio godano di una considerazione del tutto speciale: menzionati in 100 versetti del Corano, vengono indicati come modelli di retta condotta e di verità. Per questo le celebrazioni cristiane del Natale sono un momento di pace anche per i musulmani. E per questo lo sfruttamento del Natale come occasione per attaccare i musulmani da parte occidentale - e vice versa - è un insulto a entrambe le fedi. Abolire la celebrazione del Natale, dunque, significa cancellare il più importante punto d'incontro tra le due religioni. Ridurre o limitare le festività natalizie significa ridurre anche ciò che gli islamici considerano come sacro nel Cristianesimo. Trasformare questo Natale in uno strumento di battaglia per attaccare un’altra fede farebbe altrettanto male. Da una parte come dall’altra.

Così hanno ucciso il Natale: ecco le tradizioni cancellate. Dalle scuole alla famiglia, ormai il Natale ha perso il suo vero significato. Un modo per estirpare le radici della nostra cultura, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". “La tradizione - diceva Ezra Pound - è una bellezza da conservare, non un mazzo di catene per legarci”. Un filo rosso che lega la comunità, che unisce le persone intorno ad un sistema di valori. Affermare che il cristianesimo non ha permeato la vita dell’Occidente è (lecitamente) sciocco, eppure quel filo rosso è stato tranciato. Di netto. Con un obiettivo preciso: estirpare le radici cristiane dell’Europa e sostituirle con multiculturalismo, globalismo, buonismo. Tra tutti i simboli della cristianità, il Natale è forse il più rappresentativo. Senza rendercene conto, abbiamo abbandonato (o ci hanno fatto abbandonare) parole, canti, emblemi e gesti dal significato cristiano. Tanto che a stento le giovani generazioni ne conservano i ricordi. Proviamo a ripercorrere le tradizioni dimenticate. E gli attacchi che gli sono stati rivolti. L’enciclopedia Treccani la definisce come la “festa della Natività di Gesù Cristo”. Sembra scontato, ma non lo è. Per fare un esempio, il preside della scuola "Iqbal Masih" di Trieste ha affermato che “il Natale non è solo una festa cristiana”. Non solo. Nella sua ultima pubblicità, la nota casa di moda svedese "H&M" ha sostituito “Merry Christmas” con “buone vacanze”. Escludendo così ogni riferimento alla natività del bambinello. Non c’è probabilmente persona nata nel secolo scorso che non abbia seguito nella sua giovinezza un calendario d’Avvento. Circa 24 caselle da aprire una volta al giorno, dall’inizio del "tempo dell’attesa” fino al giorno di Natale. La tradizione sorge nel Nord Europa e ad inventarlo nei primi anni del 1900 sarebbe stato Gerhard Lang, proprietario di una stamperia di Monaco. La sua stampa con 24 caselle non fece altro che istituzionalizzare una pratica diffusa tra le donne del luogo per rendere più piacevole ai bambini l’attesa della nascita di Gesù. Spesso al dolcetto veniva allegata anche una frase della Bibbia. Ebbene: sono poche, ormai, le famiglie che ne posseggono uno. Se poi lo si cerca al supermercato, è (quasi) impossibile trovarne la versione “cristiana”. Il più di moda di quest’anno raffigura “Masha e l’Orso”. Che per quanto sia un cartone apprezzabile, non ha niente a che fare col Natale. E’ forse ridondante parlare del presepe. L’idea di posizionare in una grotta Gesù, il bue e l’asinello venne a San Francesco d’Assisi nel 1223. Che lo realizzò per la prima volta a Greccio (Rieti). Prima lo hanno bandito dai luoghi pubblici, poi dalle scuole e infine lo hanno realizzato in formato gay (due Giuseppe e in dono i preservativi). Ha creato scalpore il caso dell’asilo di Pietrasanta (Lucca) che ha deciso di escludere la rappresentazione della natività dalle aule. Ma non è un caso isolato. Nella stessa scuola è stata fatta un’eccezione per l’albero di Natale, ammesso tra i banchi. Tra tutti il simboli, infatti, l’abete addobbato è il meno cristiano. Per questo resiste più degli altri. Per risalire alle sue origini bisogna guardare ai germani, che ornavano gli alberi cosmici con i simboli del sole e della luna in onore degli dei. Simbologia poi riletta alla luce della dottrina cristiana. Oggi, invece, le Poste Italiane lo cancellano dall’arredo natalizio asserendo a motivazioni di uniformità aziendale. “Tu scendi dalle stelle” è ormai un canto reazionario. Composto nel dicembre 1754 a Nola dal napoletano sant'Alfonso Maria de' Liguori, è un cult delle feste natalizie. Ma quei riferimenti al Re del Cielo, alla grotta e alle preghiere sono troppo espliciti. Così il preside della scuola di Rozzano ha deciso di annullare il tradizionale concerto di Natale, trasformandolo in una più laica Festa d’Inverno. Perché “un concerto a base di canti religiosi” sarebbe stata “una provocazione pericolosa” dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. Via anche “Adeste fideles”: troppo bigotto. Nel tempo abbiamo detto addio alla corona d’avvento e alle quattro candele delle domeniche che precedono il Natale. L’unico a difendersi egregiamente è San Nicola di Myra (o di Bari). E’ lui il genitore di Babbo Natale. Vescovo del IV secolo, è un santo venerato sia dai cattolici che dagli ortodossi: viene rappresentato dalla tradizione con la barba lunga e la mitra in testa. Per i popoli dei Paesi Bassi era lui a portare i doni. Ora gli è rimasto solo il cappello rosso e una discreta pancia. Risulta difficile stupirsi allora se all'istituto "Carlo Pisacane" di Roma sostituiscono il Natale con la festa antirazzismo. Stanno estirpando le nostre radici, per ripiantarne delle altre. E i preti che fanno? Annullano la Messa natalizia nell’istituto cattolico di Monza perché è un “atto di fede troppo forte” per i non credenti. Anche questo, a suo modo, è segno dei tempi che passano. Portare gli studenti a Messa era del tutto normale, finché qualcuno non s’è ribellato. E allora prontamente abbiamo messo la testa nella sabbia, per non infastidire nessuno. Per paura d’essere reazionari.

Più crimini contro la religione ​che contro omosex e trans: ma il governo dimentica di tutelare i cattolici. L'Osce che i crimini antireligiosi sono cinque volte superiori a quelli contro gli Lgbt nel 2014. Ma nello stesso anno l'Unar non cita nemmeno le discriminazioni anticattoliche, scrive Giovanni Masini Venerdì 25/12/2015 su "Il Giornale". L'Italia non è un Paese per gay. Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere? Il nostro Paese è arretrato, arretratissimo, medievale (come se poi fosse un insulto). Una macchia nera nell'oceano di luce dell'Europa civile. Non solo isolati quanto a legislazione, ma pure in balìa di una vera e propria ondata di omo e transfobia - contro cui ogni anno protestano migliaia di persone scendendo puntualmente in strada con la bandiera arcobaleno in mano. Eppure, numeri alla mano, scopriamo che l'emergenza omofobia sembra esistere più negli slogan delle manifestazioni che nella realtà. Spulciando il rapporto dell'Osce sui cosiddetti "hate crimes" del 2014, balza subito all'occhio come, su 48 Stati in gran parte europei, l'Italia registri, nel corso dell'anno passato, "appena" 27 crimini d'odio contro persone Lgbt su quasi seicento casi totali. Il numero di reati motivati dall'odio religioso, invece, è di oltre cinque volte superiore: 153. Sebbene si tratti, naturalmente, di un conteggio incompleto perché mancante di tutti i casi non denunciati, fa riflettere notare come proprio in Italia - troppo spesso dipinta come la culla del settarismo religioso fanatico ed omofobo - i crimini legati all'orientamento sessuale siano di gran lunga meno numerosi di quelli causati dall'odio religioso, razziale o xenofobico. E a certificarlo sono dati raccolti da un'organizzazione sovranazionale come l'Osce. Ma non è tutto: c'è una domanda che sorge spontanea: come mai le strutture statali deputate alla lotta contro le discriminazioni - il famoso Unar, l'ufficio Anti Discriminazioni razziali, che già dal nome non dovrebbe occuparsi che di "razze" - profondono sforzi ed energie in mastodontiche campagne per la lotta a quei crimini contro gli Lgbt che, nei dati, sono meno frequenti di tanti altri? Nella relazione presentata a Palazzo Chigi per l'anno 2014, l'Unar dedica ampio spazio alla strategia nazionale per combattere le discriminazioni contro gli Lgbt, peraltro già nota per alcuni controversi casi di cronaca relativi all'insegnamento nelle scuole pubbliche. Nei paragrafi dedicati all'odio per motivi religiosi si citano quasi di sfuggita solo le "minoranze religiose": buddhisti, musulmani, anglicani... Sulle discriminazioni verso i cattolici, i cui diritti pure vengono attaccati, a volte anche quando si trovano in maggioranza, nemmeno una parola. Una mancanza vistosa, sottolineata con amarezza, tra gli altri, anche da Mattia Ferrero, delegato per le attività internazionali dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, che, parlando conProVita ha notato come "gli hate crimes contro le maggioranze, ad esempio fondati sull'odio verso la religione cristiana, vengono sottovalutati. Eppure i crimini motivati dall'odio contro i cristiani, principalmente gli atti di violenza contro luoghi di culto, rappresentano un numero molto significativo, comparabile, e qualche volta superiore, a quelli fondati sull'odio verso altre religioni".

Le feste della "Famiglia": cocaina, fucili e proiettili per il Natale dei Boss. Organizzano summit, bevono champagne, celebrano riti di affiliazione. E sparano tantissimo, soprattutto la notte di Capodanno. Così padrini e picciotti trascorrono le festività, scrive Giovanni Tizian il 24 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Festeggiamenti in corso nelle case dei boss. Per loro le feste natalizie sono fitte fitte di impegni. Dalla Sicilia alla Lombardia, passando da Calabria, Campania, Lazio ed Emilia Romagna, padrini e picciotti si danno da fare. Organizzano summit e “mangiate” a base di carne arrostita, affiliano e conferiscono cariche, stappano costosissime bottiglie di champagne Kristal e altre di genuino vino di casa. Poi ci sono gli affari, che non conoscono ferie. Girano tra i commercianti chiedendogli di “mettersi a posto” con la tangente, potenziano la rete di smercio della cocaina, che durante le feste, a detta degli stessi mafiosi intercettati, aumentata in maniera esponenziale. E come ormai è tradizione festeggiano armi in pugno l'arrivo del nuovo anno. Sparando dai balconi e dai giardini delle loro ville con pistole, fucili e mitragliatrici. I capi supremi della mafia calabrese, è noto e ormai accertato nei processi, si riuniscono tra fine agosto e i primi giorni di settembre a Polsi, nei giorni della festa della madonna, all'ombra del santuario. Hanno fatto il giro del mondo le riprese effettuate dal Ros dei carabinieri in cui i boss riuniti conferivano cariche e discutevano del futuro dell'organizzazione in quel luogo sacro. Ma c'è anche un'altra occasione di festa e riunione per lo stato maggiore delle 'ndrine. A dicembre, in occasione delle feste natalizie. È un particolare rivelato dal capo cosca di Siderno, paesone della Locride. Al figlio che gli chiede se i summit ufficiali del circolo ufficiali della 'ndrangheta siano due o tre, il leader della famiglia risponde secco: «Pari», ovvero due. Durante la festa religiosa e nei giorni a ridosso di Natale. Un periodo buono anche per le promozioni dei giovani 'ndranghetisti. Le cariche e i gradi della gerarchia vengono spesso conferiti tra il 20 dicembre e il 6 gennaio. Anche le affiliazioni ricorrono spesso in questi giorni trascorsi tutti in famiglia. Il rito con cui si arruolano nuovi soldati, con la ormai celebre cerimonia durante la quale viene bruciato il santino di San Michele Arcangelo, è un momento di festa che si somma all'euforia di quei giorni. «Quando avrai quell'altra cosa Giovanni», così risponde al figlio un papà premuroso che lo invita ad avere pazienza: la pistola a disposizione del clan non può ancora averla perché prima deve essere investito di una carica più importante. Un evento previsto per le venture festività natalizie: «Magari per Natale ti diamo l'una e l'altra». Il ragazzo non è soddisfatto del discorsetto paterno: «Minchia io voglio la mia, però, pà». Che feste sarebbero senza tutti, ma proprio tutti, i parenti seduti attorno al tavolo imbandito di specialità locali? Per questo non è un vero Natale o un perfetto Capodanno, se all'appello manca l'uomo di casa. Così i latitanti siciliani si fanno in quattro pur di presenziare ai festeggiamenti. Incoscienza? Certamente, ma anche una dimostrazione di forza. Perché i mafiosi che fuggono dalla polizia sanno benissimo di avere mille occhi puntati addosso e una minima distrazione può loro costare cara. Ma in Sicilia i boss ci tengono troppo alle riunioni di famiglia durante le feste. Gli investigatori lo sanno altrettanto bene, e per tutto il mese di dicembre stanno molto attenti a tutto ciò che si muove intorno alle abitazioni dei familiari del fuggitivo. D'altronde molti latitanti sono caduti proprio su questioni di cuore o di gola. Impossibile resistere alla pasta al forno fatta da mammà. Per esempio, ai detective che seguivano un calabrese fuggito in Olanda, è bastato seguire la teglia al ragù per rintracciarlo nel suo covo ad Amsterdam. In Campania invece la regola fissa del Natale è chiedere la mazzetta ai commercianti. Una tradizione che si ripete a Pasqua e ferragosto. I boss non riescono proprio a farne a meno. E invece che divertirsi e andare in ferie per qualche giorno, molestano e intimidiscono commercianti e imprenditori. Chiedono somme di denaro o regali, facendo riferimento all'esistenza di comuni amici, e molto spesso camuffando quella richiesta con la solidarietà per chi sta in carcere. La formula classica utilizzata dai baby camorristi, dipendenti a tempo dei camorristi adulti, è «Vi dovete mettere a posto». Con tanti saluti e sinceri auguri dal clan del rione. «A Natale e Capodanno il lavoro si fa più sostanzioso a livello di stupefacenti, perché sotto il periodo delle feste c’è un consumo maggiore...a Natale poi ci sono le feste e quindi uno aveva bisogno di un po’ di liquidità». Il pentito racconta ai magistrati della procura di Roma degli affari con la cocaina. La 'ndrangheta gestisce la gran parte della sostanza che arriva nella Capitale. Durante le feste natalizie i consumi aumentano, quindi anche l'offerta. Lavorano senza sosta i broker della 'ndrangheta. Lavorano senza sosta pure i narcos dei clan. Un impegno che ha un fine preciso: ci sono i regali da fare alle mogli, sempre più esigenti, ai figli, che già a 12 anni chiedono lo scooterone, i parenti che vogliono gioielli costosissimi. Tutti, insomma, si aspettano un cadeau importante da l'uomo che, in fondo, gestisce milioni di euro al mese. Una responsabilità da cui nessun manager della polvere bianca si può sottrarre. D'altronde è lo stesso pentito che spiega come nelle feste si davano più da fare perché durante feste c'è bisogno di un po' di più di «liquidità». Ma quale bomba di Maradona. Ma quali raudi e razzi. Queste bombette è roba per principianti. Gli uomini d'onore per salutare l'arrivo del nuovo anno imbracciano fucili, mitragliatrici e pistole. Sono fatti così, è gente semplice, che ama divertirsi con le cose che ha in casa. In effetti, armi e munizioni non ne mancano di certo in quelle abitazioni. Quando arriva la mezzanotte, perciò, in molti paesi, anche del centro nord, si possono percepire senza troppa fatica raffiche e colpi secchi. Insomma, si trasformano in teatri di guerra. Esagerazioni? Non proprio. Le intercettazioni lo confermano. Molti di questi tiratori scelti, infatti, dopo aver bevuto per tutta la sera chiamano amici e parenti per fare gli auguri. In queste telefonate si lasciano andare. Come se quella notte fosse intercettazione-free. E così agli inquirenti è capitato di sentire dialoghi di questo tenore: «Acchiappo quella giusta ... a capodanno, a capodanno acchiappo quella .. . trrrrrrrr ... trrrrrrrr...quella è bella ... bastarda quella non s'inceppa», si esaltata un giovanotto di un clan della piana di Gioia Tauro residente provincia di Como. Anche nella provincia emiliana gli uomini della 'ndrangheta non sono avari di proiettili. Dall'indagine Aemilia emergono i particolari di un normale veglione di follia. Era il capodanno 2013, a Cadelbosco di Sopra, Reggio Emilia, e nell'abitazione di un imprenditore della 'ndrangheta emiliana era in corso la festa. Pochi minuti dopo la mezzanotte parte il tradizionale giro di telefonate per gli auguri. In sottofondo gli investigatori ascoltano in diretta spari con pistole e fucili. «Aspetta, aspetta un secondo, senti senti...questo è per te fai conto che sono con te», si sentono alcuni colpi di pistola e successivamente il rumore del caricamento dell'arma. «Hai sentito?», domanda l'uomo. E il suocero che si trova in Calabria risponde: «Che sono questi giocattoli, che non li senti che sono bombardini?», fa lo spaccone. «Te lo faccio vedere di persona il giocattolo che è», ribatte, ridendo, il marito della figlia. Poi il telefono passa proprio alla donna, che saluta il padre: «Papà Tonino mi ha fatto sparare due colpi con il fucile, me lo ha dato tra le mani e mi ha fatto sparare con il fucile» dice entusiasta la figlia poco più che trentenne. Nel frattempo si sente Tonino dire: «l'ultima caricata». E subito dopo la ragazza che al padre rivolge un pensiero dolce: «Dice che la caricata l'ha dedicata a te». Il papà per nulla preoccupato della situazione risponde con un «altrettanto», lasciando intendere che anche dove si trova lui, a Cutro, in provincia di Crotone, hanno abbondantemente sparato quella notte di festa. «Amo con che fucile mi ha fatto sparare a capodanno?» chiede, infine la ragazza. «Con un Benelli M3», naturalmente. Anche a Napoli si spara per la felicità. I baby boss di Forcella, poi, sono i più fanatici delle armi. «Tre caricatori a Capodanno abbiamo sparato, non si ha inceppato una botta», urla al telefono uno di loro. Ma non sempre questi giochi di fuoco di fine anno finiscono bene. Proprio a Forcella, in casa dei nuovi Giuliano (il clan emergente e molto violento che sta terrorizzando la città) era tutto pronto per il veglione del capodanno 2014. Verso le sette di sera un giovanotto della famiglia decide di provare la pistola 7,75 in uno dei vicoli vicino all'abitazione. Qualche istante dopo aver sentito questi dialoghi, al 118 arriva una richiesta di soccorso per un ferito da arma da fuoco. La prova era finita malissimo, un cittadino del Bangladesh era stato colpito. Per poco non è stato ucciso. Come se nulla fosse il ragazzo di casa Giuliano torna a casa. Il veglione, gli amici, l'insalata di rinforzo, lo champagne, lo attendono. Una notte di festa, che i mafiosi trasformano in delirio criminale.

IL TERRORISMO ISLAMICO CHE VIENE DA LONTANO. QUANDO NEW YORK E PARIGI ERAVAMO NOI. 

27 DICEMBRE 2015. Gli attacchi agli aeroporti di Roma e Vienna, 30 anni fa. Breve storia di uno degli ultimi grandi attacchi terroristici compiuti da organizzazioni palestinesi in Europa, il 27 dicembre 1985, scrive “Il Post”. Alle 8 e 15 del 27 dicembre 1985, due commando palestinesi formati da sette terroristi attaccarono gli aeroporti di Roma e Vienna con armi automatiche e granate, in quello che diventò uno degli ultimi attacchi compiuti dal terrorismo internazionale in Italia e un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese. I due commando riuscirono a uccidere 19 persone e a ferirne più di 130 prima di essere uccisi o catturati a loro volta. I terroristi cominciarono ad agire a Roma, alle otto e un quarto in punto, quando quattro uomini armati entrarono nella grande sala dell’aeroporto dove centinaia di persone erano in fila per il check-in della compagnia aerea israeliana El Al e dell’americana TWA. I quattro uomini spararono sulla folla con armi automatiche e lanciarono alcune granate. Le guardie di sicurezza israeliane, alcune in borghese e mischiate tra i passeggeri, risposero al fuoco. La compagnia aerea israeliana era oggetto di attacchi da anni e oramai in tutti gli aeroporti del mondo si era dotata di guardie di sicurezza, spesso ex-militari o poliziotti. La sparatoria durò un minuto. Tre palestinesi furono uccisi dalle guardie armate, mentre il quarto fu ferito e catturato dalla polizia italiana. Mentre la sparatoria terminava a Fiumicino, altri tre uomini iniziarono a sparare contro le persone in coda davanti agli uffici di El Al nell’aeroporto di Vienna. Tre persone furono uccise da una granata e altre 39 rimasero ferite. I tre assalitori fuggirono in macchina, ma furono inseguiti e fermata dalla polizia austriaca. Uno di loro rimase ucciso nello scontro a fuoco, mentre altri due furono catturati. Durante il processo, i terroristi catturati dissero di appartenere ad Abu Nidal, un’organizzazione palestinese che nel 1974 si era separato da Fatah, il gruppo guidato da Yasser Arafat e la principale delle molte fazioni che lottavano per la liberazione della Palestina. Abu Nidal era uno dei gruppi più cruenti e, nel corso degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, uccise più di 900 persone in una serie di attentanti ed assassinii mirati, spesso nei confronti di altri palestinesi. Il doppio attacco di Fiumicino e Vienna fu il più ambizioso degli attentati che l’organizzazione provò a compiere in Europa e rappresentò un punto di svolta nella lotta per la liberazione della Palestina. L’opinione pubblica europea, che fino ad allora aveva adottato un atteggiamento cauto nei confronti del terrorismo palestinese, reagì con durezza agli attacchi. Pochi mesi prima, nel novembre del 1985, Arafat aveva dichiarato in un famoso discorso al Cairo che gli attacchi terroristici contro obiettivi israeliani all’estero servivano solo a danneggiare la causa palestinese. La reazione dell’opinione pubblica dopo gli attacchi sembrò in parte confermare le sue parole e negli anni successivi il terrorismo palestinese in Europa praticamente sparì. Le indagini successive e le confessioni dei terroristi catturati indicarono che il regime siriano, guidato da Hafez al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, aveva fornito aiuto logistico e ospitalità agli organizzatori dell’attentato. Gli Stati Uniti all’epoca accusarono anche il regime libico di Muammar Gheddafi. I servizi segreti tunisini dimostrarono che la Libia aveva fornito passaporti falsi ad alcuni dei terroristi, ma giudici e investigatori europei rimasero convinti che l’appoggio maggiore all’attacco fu fornito dai siriani. L’organizzazione Abu Nidal esiste ancora oggi, ma la sua forza politica e militare è andata scomparendo.

Assalto a Fiumicino. Il terrore 30 anni prima di Parigi, scrive Luca Laviola su “L’Ansa”, “America Oggi”, ecc. il 21-12-2015. Doveva finire come l'11 Settembre a New York - ma 16 anni prima -, con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell'aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 16 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l'apocalisse in aeroporto. "Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo", ha detto anni fa Ibrahim Khaled, l'unico dei quattro a essere catturato. Condannato a 30 anni, ha collaborato, chiesto perdono e di recente è tornato libero. Il massacro dell' '85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l'intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. Il mandante dell'attentato dell' '85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all'ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto Lodo Moro (lo statista Dc era stato ucciso nel '78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all'Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull'ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un'altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l'uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer. E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l'aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. L'ammiraglio Fulvio Martini, nell' '85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell'ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. Il 17 dicembre '73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell'Isis oggi.

Strage di Fiumicino, parla il fotografo che visse quei momenti in diretta. Vergati: "Ero lì, la gente stava al bar e un attimo dopo era morta", scrive Luca Laviola su “L’Ansa” il 20 dicembre 2015.Il 13 novembre ha ripensato a quella strage avvenuta, trent'anni fa, a poche decine di metri da lui. "E' una cosa incredibile, a Parigi quelle persone stavano sedute al bar e un attimo dopo una sventagliata di mitra le ha uccise. Come il 27 dicembre dell'85 a Fiumicino". Elio Vergati aveva 46 anni e faceva il fotografo. Lo fa ancora oggi che ne ha 76 e vanta un secondo posto al premio Pulitzer e al World Press Photo. Sempre nella mitica agenzia Telenews che da decenni racconta quello che accade negli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino. "Ero nel nostro ufficio e sentimmo dei botti - racconta -. Si capì subito che erano bombe a mano e la gente scappava da tutte le parti. Ho preso la macchina fotografica e ho fatto di corsa i 100, 150 metri di distanza dai check-in dell'El Al e della Twa. Una sparatoria tremenda, ma sarà durata un minuto, non di più". E' la strage di Fiumicino: 4 terroristi palestinesi tirano bombe e sparano sulla gente in fila all'imbarco o al bancone del bar, prima che tre di loro vengano uccisi dalla sicurezza della compagnia israeliana. "Sono intervenuti subito - ricorda Vergati -, il quarto terrorista è stato catturato da un poliziotto italiano e ha rischiato il linciaggio". Una foto del reporter mostra il diciottenne Khaled Ibrahim portato via da un agente. Una delle tante esclusive scattate quel giorno da Vergati. "C'erano tanti feriti in terra, sangue, gente che chiedeva aiuto e si lamentava, una scena pazzesca - racconta -. Mentre scattavo le foto cercavo di rassicurarli, che i soccorsi sarebbero arrivati. Ma ti senti impotente. I primi feriti li hanno portati via con i carrelli dei bagagli. Ricordo una donna con il ginocchio aperto, poi ho saputo che è morta. Tra le vittime una ragazzina di 12 anni figlia di un giornalista americano". "Gli israeliani erano preparati, come sempre, loro difendevano i loro voli - dice il fotografo - due agenti italiani sono arrivati poco dopo. Dell'allarme lanciato dai servizi italiani si è saputo in seguito". Secondo alcune fonti gli addetti alla sicurezza dell'El Al - in realtà corpi speciali - avrebbero finito i tre palestinesi con un colpo alla nuca e poi sarebbero subito partiti per Israele. "Non lo so. Può darsi. Non li abbiamo più visti", dice Vergati che ricorda però che un palestinese aveva un foro sulla nuca e un rivolo di sangue. "La cosa più incredibile è che dopo la strage hanno chiuso l'aeroporto una mezz'ora massimo, poi è stata messa una paratia per non far vedere quel settore e hanno ripreso a fare biglietti - dice Vergati -. E la gente si lamentava che perdeva l'aereo". "Eravamo così vicini alla sparatoria, abbiamo trovato dei proiettili nel vetro dell'ufficio - ricorda -. La paura non la senti quando fai le foto, ti viene dopo, ti tremano le gambe e pensi 'ma che so' matto?'". Quella del resto era la seconda strage a cui Vergati assisteva in diretta al Leonardo Da Vinci. Il 17 dicembre 1973, 12 anni prima, un commando arabo gettò bombe incendiarie dentro un aereo della Pan Am fermo sulla pista: 30 morti bruciati. "Anche allora ero in ufficio e sentimmo le esplosioni - racconta -. Corsi dietro un agente con il mitra e mi piazzai dietro una colonna a fotografare. I terroristi erano a 40 metri e le pallottole fischiavano vicine". Vergati scattò la foto di un finanziere morto sulla pista "che arrivò seconda al Premio Pulitzer". Oggi Elio Vergati è ancora lì, lavora all'aeroporto di Fiumicino che nei decenni è molto cambiato, ma non è cambiato il modo in cui lui lavora. Con il suo compagno di lavoro di sempre Nevio Mazzocco, insieme allo storico direttore Lamberto Magnoni e a un collaudato gruppo di giornalisti sono conosciuti da tutti e conoscono tutti. Rimangono un punto di riferimento fondamentale per Fiumicino. Oggi come allora.

27 dicembre 1985, Abu Nidal attacca in aeroporto: 30 anni fa le stragi di Fiumicino e Vienna. Alle 9.15 due assalti simultanei di due gruppi armati palestinesi seminarono il terrore negli scali di Roma e della capitale austriaca: 17 vittime in Italia, 3 allo Schwechat, scrive di Antonio Ferrari su “Il Corriere della Sera” del 27 dicembre 2015. Fu una mattina di terrore in due aeroporti internazionali, Fiumicino e Vienna, quella del 27 dicembre 1985. Esattamente trent’anni fa, il gruppo che allora era il più estremista della galassia palestinese, guidato da Sabri el Banna detto Abu Nidal, decise di compiere con perfetta sincronia due simultanei e sanguinosi attentati, anche se all’epoca non esistevano il web e i cellulari. Bisognava fidarsi degli orologi da polso. Abu Nidal, che lo stesso presidente dell’Olp Yasser Arafat aveva condannato a morte per i suoi crimini, si opponeva a qualsiasi alito di trattativa, a qualunque cenno di disgelo con gli odiati israeliani, con gli americani e i loro alleati europei. Alle 9 e 15 minuti, secondo più o meno, di quel mattino due commando entrarono in azione negli scali delle due capitali con un unico obiettivo: uccidere il maggior numero possibile di persone. Quelle assiepate davanti ai banchi per l’imbarco in vista del Capodanno, o magari al bar per un caffè: famiglie serene, bambini sorridenti con i giocattoli ricevuti in dono a Natale, immigrati che tornavano a casa. Quattro terroristi, con i mitra nascosti sotto i giubbotti, presero posizione a Fiumicino, controllando da una ventina di metri di distanza i banchi della compagnia di bandiera israeliana El Al, e quelli dell’adiacente compagnia americana TWA (ndr. Uno degli attentatori, l’unico sopravvissuto, condannato e incarcerato in Italia, poi si pentì: leggi l’intervista sul Corriere del 2008 sfiorando l’icona blu). Altri tre fecero altrettanto in Austria, nello scalo Schwechat di Vienna. In pochi attimi, l’inferno, e due stragi: 17 morti a Fiumicino, compresi gli attentatori, e 3 morti a Vienna. Doveva finire come l’11 Settembre a New York - ma 16 anni prima - con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell’aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 17 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l’apocalisse. Mentre is spara a Fiumicino, altri complici compiono lo stesso massacro all’aeroporto di Vienna. ll massacro dell’’85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l’intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. Il mandante dell’attentato dell’’85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all’ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto Lodo Moro (lo statista Dc era stato ucciso nel ‘78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all’Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull’ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un’altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l’uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer (Ansa) E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l’aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. L’ammiraglio Fulvio Martini, nell’’85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell’ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. Il 17 dicembre ‘73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell’Isis oggi. Fu una fine d’anno di orrore e di angoscia. L’attrice Sandra Milo, che stava per imbarcarsi, si gettò a terra e riuscì a salvarsi. I giornali raccontarono le storie delle vittime e dei familiari sopravvissuti. Come si sarebbe scoperto in seguito, la strage di Fiumicino poteva forse essere scongiurata. Infatti i servizi segreti italiani avevano ricevuto, da un Paese arabo amico, l’informazione (risultata attendibilissima) che vi sarebbe stato un attentato nello scalo aereo romano tra il Natale e il San Silvestro di quell’anno. Fu avvisata anche la sicurezza israeliana, che da sempre controlla e vigila sulle partenze dei propri aerei, e i tiratori scelti si piazzarono in posizione strategica. Riuscirono a colpire e a uccidere tre degli attentatori, limitando il numero delle vittime (ndr. Oltre 50 i feriti, nella foto Ansa, qui sotto, uno dei passeggeri colpiti davanti al banco delle linee aeree israeliane). Ma, come affermarono i vertici del Sismi, la nostra intelligence militare, qualcosa non funzionò. Eppure vi erano tante ragioni per ritenere che vi fosse un’allerta da codice rosso. Il primo ottobre di quell’anno, gli israeliani avevano bombardato il quartier generale dell’Olp a Tunisi, dove vivevano in esilio, dopo la partenza coatta dal Libano, Yasser Arafat e i suoi fedelissimi. Fu una strage, ma il leader palestinese si salvò grazie a un provvidenziale avvertimento. Allora, infatti, gli americani avevano imposto un limite al loro alleato israeliano: che non si uccidessero i leader. Sei giorni dopo — il 7 ottobre 1985 — era cominciata l’odissea, finita in dramma, della nave italiana «Achille Lauro», in balia di due estremisti palestinesi del gruppo di Abu Abbas. Ci fu l’assassinio dell’ebreo americano disabile Leon Klinghofer, e la vicenda di Sigonella, con il muro contro muro tra i nostri soldati e i marines, e la decisione del presidente del consiglio Bettino Craxi di sfidare apertamente il presidente-Usa Ronald Reagan. Alla fine, tutto si ricompose tra i due alleati. Non certo nel mondo palestinese, dove Arafat stava cercando di trovare la strada per intavolare una trattativa con il suo storico nemico: Israele. E’ chiaro che la strage di Fiumicino fu un attacco diretto anche ad Arafat da parte degli estremisti palestinesi, che avevano trovato rifugio nell’accogliente Siria di Hafez el Assad, padre di Bashar. A Damasco vi era persino un pubblico ufficio del gruppo di Abu Nidal, guidato dal suo vice e portavoce Walid Khaled. Appena arrivato a Damasco, all’inizio di quel gelido 1986, andai subito a cercare Khaled, per chiedergli ragione di quei massacri. Il giovane guerrigliero, che si vantava delle imprese terroristiche della sua organizzazione, fu gentile e insieme sprezzante. In realtà, noi italiani in Siria avevamo nel Paese canali privilegiati. Assad padre aveva stima incondizionata per il presidente Giulio Andreotti, e il suo ministro degli esteri Farouk al Shara non mancava mai di ricordare i bei tempi in cui aveva servito come ambasciatore a Roma. I giornalisti americani che riuscivano ad ottenere il visto per la Siria faticavano non poco a ottenere interviste e notizie interessanti dalle fonti locali. Un giorno incontrai la collega Elaine Sciolino, una delle firme più prestigiose del New York Times. Bravissima, colta, notevole grinta e grande coraggio. Dopo avermi ricordato l’origine italiana del suo cognome, mi chiese la cortesia di aiutarla ad incontrare, in mia compagnia, Walid Khaled. Organizzammo l’intervista, che si concluse in maniera quasi drammatica. Elaine, sensibilissima, domandò, cercando invano di trattenere le lacrime: «Ma come potete ammazzare donne, bambini, persone che non vi hanno fatto nulla. Non ascoltate mai la voce della vostra coscienza?». L’uomo di Abu Nidal, per nulla turbato, rispose gelidamente: «Per colpire il cuore bisogna tagliare le vene».

30 anni dalla strage di Fiumicino: quando il terrorismo palestinese colpì l’Italia, scrive Simone Cosimelli il 27 dicembre 2015. La storia dell’Italia del dopoguerra è costituita da un vortice di avvenimenti strazianti e convulsi, frutto delle spinte politiche e sociali che dagli anni successivi all’Assemblea Costituente – con le sue speranze e le sue illusioni – culminarono nello scandalo dell’inchiesta Mani Pulite del 1992, che di fatto segnò il limite di un epoca (la così detta Prima Repubblica) per aprirne una nuova, non meno discutibile. Il ricordo di quel periodo, carico di circostanze oscure e casi irrisolti, è eredità e condanna di tutti. Ma non solo vicende interne hanno plasmato il Paese, e spesso è il tempo ad offrire l’occasione per volgere lo sguardo indietro: esattamente 30 anni fa in due attacchi terroristici di matrice palestinese, uno all’aeroporto di Fiumicino e l’altro a Vienna, morirono 16 persone e oltre 100 rimasero ferite. Il 1985 era stato un anno difficile. Il dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro (con oltre 500 persone a bordo) da parte di un commando di palestinesi pronti ad un azione offensiva sulle coste Israeliane, e la conseguente crisi di Sigonella, in cui l’allora capo del Governo Bettino Craxi si oppose al Presidente statunitense Ronald Reagan, avevano intorpidito la situazione internazionale. Craxi andò fino in fondo e non trattenne l’emissario di Arafat (Presidente dell’OLP) Abu Abbas, a sua volta leader del gruppo paramilitare FLP (Fronte per la Liberazione della Palestina) e presunto promotore del tentato attacco, in cui un cittadino americano invalido, Leon Klinghoffer, perse la vita dopo essere stato gettato in mare. Abu Abbas lasciò indenne l’Italia, ma fu subito giudicato colpevole grazie alle prove schiaccianti addotte dalla Cia e condannato all’ergastolo in contumacia. L’Italia non fece in tempo ad attenuare le tensioni sorte con gli USA, che, nonostante l’atteggiamento comprensivo mostrato nella vicenda verso i palestinesi, fu duramente colpita due mesi più tardi: e questa volta, al Leonardo da Vinci di Roma, si dovettero contare i morti. Alle nove del mattino del 27 dicembre quattro uomini entrano nell’atrio dell’aeroporto e si posizionano di fronte ai banchi accettazione delle compagnie aeree El Al e Twa (l’una israeliana e l’altra americana). Armati di kalashnikov cominciano a lanciare bombe a mano e a sparare sulla folla davanti ai banchi del check-in e nel bar vicino. Gli agenti della sicurezza israeliani e le forze dell’ordine italiane rispondono al fuoco: in pochi minuti tre attentatori sono uccisi e il quarto è catturato. L’attentato nella capitale conta tredici morti e settantasette feriti (tra italiani, americani, messicani, greci, e un algerino). Contemporaneamente, in Austria, un commando terroristi mette in atto lo stesso tipo di azione all’aeroporto Schwechat di Vienna, provocando tre morti e quaranta feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che all’epoca indagava, il piano doveva concludersi con la requisizione di un aereo da far precipitare, in stile 11 settembre, in una città di Israele. Per l’ammiraglio Fulvio Martini, al tempo capo del Sismi, dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato. I servizi informarono che sarebbe potuto avvenire tra il 25 e il 31 a Fiumicino. Gli israeliani misero infatti tiratori scelti a difesa della postazione El Al: furono loro i primi ad intervenire, mentre le forze dell’ordine italiane si trovarono sostanzialmente impreparate.Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo”. Confermò in seguito l’unico degli attentatori rimasto illeso nello scontro a fuoco, Ibrahim Khaled, condannato poi a 30 di reclusione e recentemente liberato. Non era la prima volta che si spargeva sangue sul suolo del Bel Paese: c’era stata nel 1973 la “prima” strage di Fiumicino (una delle più cruente d’Europa), dove su un Boeing 707 della Pan Am, diretto a Beirut, furono fatte esplodere due bombe, con un bilancio finale di 32 vittime, tra cui 4 italiani. Nel 1982, invece, l’attentato alla sinagoga di Roma sconvolse la comunità ebraica causando 37 feriti e la morte di un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché. Il mandante dell’85 fu Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata perseguita da Arafat in quegli anni. Anche lui – come successo ad Abu Abbas – fu giudicato colpevole in contumacia, e, riconosciuto coinvolto in circa 90 attentati a livello internazionale, perse la vita nel 2002 a Bagdad su ordine del dittatore Saddam Hussein, liberatosi di una presenza “ingombrante”. Eventi del genere seguono logiche difficile da percorrere ma doverose da ricostruire: fu l’eccessiva compiacenza, o negligenza, del Governo a permettere che i palestinesi considerassero l’Italia un porto sicuro da dove far partire, o verso cui finalizzare, gli attacchi terroristici? Si sarebbero dovuti condannare con più veemenza certi fatti internazionali di quegli anni (Guerra del Kippur, Invasione del Libano, massacro di Monaco alle Olimpiadi), deplorando tanto le azioni palestinesi quanto le continue vessazioni israeliane? Perché non si combatté concretamente, mettendo da parte la retorica e i protocolli, l’indigenza e la precarietà politica del Medio Oriente? Se il mondo si trova ancora nel mezzo di una guerra asimmetrica, qual è quella che imperversa in Siria e porta avanti lo Stato Islamico, o che ogni giorno rischia di deflagrare sulla striscia di Gaza e in Cisgiordania, significa che un tipo di politica ha fallitola politica dell’interesse. E con essa, come si è visto, non sono mai mancati coinvolgimenti diretti, e drammatici, di nazioni distanti sulla carta geografica dai conflitti mediorientali ma poi duramente colpiti: ieri è toccato all’Italia, oggi al Mali, alla Tunisia e alla Francia. E domani? Tante sono le proposte, troppi gli incontri conclusi con sterili promesse, poco, invece, è l’impegno profuso senza che il proprio tornaconto prevarichi quello collettivo. Da quando la mano dell’Occidente ha cercato di cogliere i frutti (avvelenati) del Medio Oriente, il terrorismo è stata una costante e si è fatto finta di non capire che dalle guerre nasce e delle guerre si alimenta. Questi conflitti, sobillati e finanziati dalle stesse forze che poi si impegnano nel debellarli, arriveranno, presto o tardi, ad un punto di non ritorno. Quel punto troppe volte sembra essere un obbiettivo da raggiungere piuttosto che evitare. Se la storia non insegna, quanto meno invita a riflettere. Soprattutto oggi.

Fiumicino, strage inevitabile. Raid del 1985, assolti tutti i responsabili della sicurezza. Assolti dall' accusa di strage colposa Casagrande Raffaele, ex dirigente dell'aeroporto; D' Agostino Francesco, responsabile del centro di Polizia; Jovinella Carlo, capo del commissariato; Carlino Antonio, ispettore generale della polizia di frontiera. Secondo l'accusa avevano ignorato gli allarmi sul pericolo di attacchi. La strage all'aeroporto di Fiumicino del 27 dicembre di sette anni fa non poteva essere evitata. A questa conclusione sono giunti i giudici del Tribunale che, al termine di una breve camera di consiglio, hanno assolto "perchè il fatto non costituisce reato" le quattro persone che dovevano garantire la sicurezza nello scalo. Una sentenza destinata a far discutere, che costituisce una sorta di caposaldo sul fronte dell'accertamento delle responsabilità per il funzionamento delle misure anti-attentati. Il processo e' andato avanti per parecchie udienze. Sul banco degli imputati l'ex dirigente del "Leonardo da Vinci", Raffaele Casagrande, gli allora responsabili del centro di polizia e di prevenzione del Dipartimento di sicurezza del ministero dell'Interno, Francesco D' Agostino, e del commissariato "Polaria", Carlo Jovinella, e l'ispettore generale con funzioni di coordinamento dei servizi di polizia della frontiera, Antonio Carlino. Al termine della requisitoria, il Pubblico ministero Giuseppe Geremia aveva chiesto la condanna di Casagrande a due anni di carcere e degli altri imputati a un anno e mezzo. La sparatoria tra terroristi e forze dell'ordine provocò tredici morti e ottanta feriti. La tesi sostenuta dalle famiglie delle vittime fu che non erano stati tenuti nella dovuta considerazione i suggerimenti dei servizi segreti: l'avvocato Lepore era riuscito ad avere un fonogramma della Twa (la compagnia statunitense che venne presa di mira insieme alla israeliana El Al dal commando palestinese del gruppo di Abu Nidal) col quale si lanciava un preciso avvertimento ai dipendenti. I servizi segreti americani avevano saputo che erano stati messi a punto piani per eseguire attentati terroristici negli aeroporti europei. Non basta. L'avvocato Lepore aveva appreso che il fonogramma era in possesso del Sismi, il quale lo aveva ricevuto prima della strage. E l'allora responsabile dei nostri servizi segreti, Fulvio Martini, sentito come testimone nel corso dell'inchiesta, confermò anche che nel documento riservato veniva indicato il periodo entro il quale doveva essere compiuto l'attentato, dal 25 al 31 dicembre del 1985. Da qui, l'incriminazione e il successivo rinvio a giudizio dei responsabili dei servizi di sicurezza. Agli imputati venne contestato il reato di strage colposa. Secondo l'accusa, avevano avuto un comportamento negligente: Casagrande non attuò accorgimenti per evitare che i terroristi arrivassero ai banchi dell'accettazione, dove poi avvenne il conflitto a fuoco. Jovinella e Carlino non diedero un giro di vite ai servizi di sorveglianza, D' Agostino non trasmise agli organi di polizia circolari con le quali venivano imposte precise disposizioni di prevenzione. Insomma, il peggio sul fronte della prevenzione. Ma i giudici hanno sconfessato questa impostazione. Flavio Haver Pagina 14 (31 marzo 1992) - Corriere della Sera

Uccise 13 persone a Fiumicino. Esce di cella e fa il giardiniere. Mahmoud nell'85 guidò il commando palestinese all'aeroporto. Portò la guerra a Roma, ha tredici morti sulla coscienza e raccoglie foglie secche in un prato. Khaled Ibrahim Mahmoud oggi ha 41 anni. Ne aveva 18, il 27 dicembre 1985, quando guidò il commando della strage di Fiumicino. «Ci penso sì, a quei morti. Ci penso ancora e ci penserò sempre. E penso anche che l'aver seminato il terrore, come abbiamo fatto noi, non è servito a niente. Non è servito al mio popolo, non è servito alla pace. Anzi, il contrario...». Il 27 dicembre 1985, all'aeroporto di Fiumicino, il commando di terroristi palestinesi uccise tredici persone e ne ferì più di 80, sparando contro il banco delle linee aeree israeliane. Il fuoco della sicurezza in pochi secondi annientò gli assalitori, tre morirono all'istante, Khaled rimase ferito, unico superstite. Poi è stato in carcere 23 anni, fino a tre giorni fa. Oggi è un detenuto semilibero (la sera torna a Rebibbia) e da giovedì ha cominciato a lavorare all'esterno per una cooperativa sociale: giardinaggio, facchinaggio, pulizie nei mercati e nei parchi di Roma (come Pino Pelosi, l'assassino di Pier Paolo Pasolini). La prima cosa che ha chiesto è stato il permesso di acquistare un telefonino cellulare («Per chiamare mio fratello e i miei genitori ormai anziani», dice in buon italiano, appreso in questi anni leggendo e guardando in cella la televisione). Gli altri detenuti che lavorano con lui non conoscono la sua storia. Khaled, in fondo, preferisce così: «Il dolore che provo — dice — non potrebbe essere condiviso, sono venuto al mondo durante la guerra, una lunga scia di sangue e di orrori mi accompagna da sempre, da Sabra e Chatila a Fiumicino. Ma allora avevo 18 anni, ero completamente indottrinato, non ragionavo. Il carcere, almeno, mi è servito a questo: a farmi pensare con la mia testa, a farmi capire tante cose». Lui faceva parte del gruppo di Abu Nidal, il feroce leader della lotta armata palestinese, mandante del massacro di Fiumicino, trovato morto in un appartamento di Bagdad nell'agosto 2002 («È stato ammazzato, ne sono certo», dice oggi Khaled, condannato a 30 anni per la strage dell'85). Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è la persona che in questi anni l'ha seguito più da vicino: «Di sicuro — dice il Garante — Khaled ha maturato una critica profonda rispetto al suo passato. In carcere ha studiato, ha fatto il bibliotecario, è stato un detenuto modello, perciò ha ottenuto la liberazione anticipata. Il nostro è un sistema premiale, dunque non c'era motivo perché lui non ottenesse i benefìci previsti dalla legge. Il primo permesso gli fu accordato un anno fa, lo accompagnai io stesso ad Ostia, a vedere il mare...». Il giorno che andarono al mare, però, pioveva e faceva freddo: del resto, dopo 23 anni di carcere, diventa difficile far tornare i conti. Se n'è andato un pezzo di vita perché tu hai distrutto quella degli altri e anche andare avanti fa paura. «Il mondo da allora è completamente cambiato — sospira l'ex terrorista, con i capelli ingrigiti —. È caduto il muro di Berlino, non c'è più l'Unione Sovietica, non c'è più il comunismo. Noi stavamo coi russi, all'epoca, io stesso ero comunista-stalinista, oggi però sono in via di guarigione...». L'anno prossimo Khaled finirà di scontare la sua pena, nel frattempo si è laureato in Scienze politiche con una tesi sui Diritti umani e, malgrado tutto, sembra avere fiducia nel futuro del Medio Oriente: «Prima o poi tutti i muri cadono. Ma la pace non s'impone, la pace bisogna volerla». Fabrizio Caccia 22 novembre 2008 "Il Corriere della Sera".

7 ottobre 1985: dal sequestro dell’Achille Lauro alla lunga notte di Sigonella, scrive “Il Corriere della Sera”. Sono da poco passate le 13 del 7 ottobre del 1985, la nave da crociera Achille Lauro della Mediterranean Shipping Company sta percorrendo la tratta al largo delle coste egiziane, a bordo ci sono 101 passeggeri e 344 membri dell’equipaggio, quando un commando composto da quattro militanti del Fronte per la Liberazione della Palestina, saliti a bordo a Genova con dei passaporti falsi, dà inizio a un dirottamento che diventerà un caso diplomatico internazionale, con conseguenze fatali per il passeggero americano di origine ebraica Leon Klinghoffer. L’Italia reagisce inviando la sera stessa 60 incursori del reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin alla base militare di Cipro, pronti all’intervento in quella che verrà chiamata l’Operazione Margherita. Nella foto di repertorio l’Achille Lauro lascia il porto di Napoli. I terroristi vengono sorpresi da un componente dell’equipaggio mentre maneggiano delle armi, ne nasce un conflitto a fuoco, dopo il quale viene immediatamente inviato un SOS dalla nave che verrà captato in Svezia. Nella foto i quattro terroristi autori del sequestro, da sinistra: Ibrahim Fatayer Abdelatif, Youssef Al Molqi, Al Ashker Bassam, Marrouf Al Assadi. I dirottatori chiedono la liberazione di cinquanta palestinesi detenuti in Israele a Nahariya, si dichiarano esponenti dell’OLP, e minacciano di far saltare in aria la nave in caso di mancata risposta alle loro richieste. Il Governo italiano si attiva non appena ricevuta la notizia del dirottamento: agli Esteri c’è Giulio Andreotti, forte di buoni contatti con il mondo arabo, alla Difesa c’é Giovanni Spadolini che convoca immediatamente l’intelligence, mentre alla Presidenza del Consiglio c’é Bettino Craxi, che spinge per una risoluzione diplomatica della crisi. I nostri ministri sono in contatto telefonico con il governo egiziano di Hosni Mubarak, con il leader palestinese Yasser Arafat, che in un comunicato stampa fa sapere di essere estraneo alla vicenda, e con la Tunisia, allora sede dell’OLP. Nella foto d’archivio, Andreotti con Arafat. Dopo una frenetica serie di colloqui internazionali, l’Egitto e Arafat comunicano all’Italia l’invio di alcuni emissari per gestire la situazione: tra loro Hani El Hassan, braccio destro del leader dell’OLP, e Abu Abbas, che solo in seguito si rivelerà coinvolto nell’attentato in qualità di ispiratore e di capo del fronte terroristico palestinese filosiriano. Nella foto, Abu Abbas. Il Presidente americano Ronald Reagan si oppone a qualsiasi trattativa con i terroristi, mentre l’Achille Lauro si dirige verso il porto di Tartus in Siria e chiede un negoziato mediato dalla Croce Rossa Internazionale. Nella foto, Maxwell Rabb, all'epoca ambasciatore USA a Roma. Sulla nave intanto la tensione sale vertiginosamente con i terroristi che minacciano ripetutamente di iniziare a uccidere i passeggeri, in primis i cittadini americani. Nella foto i familiari dei marinai dell’Achille Lauro in attesa di notizie. Gli Stati Uniti decidono di intervenire rompendo le trattative diplomatiche in corso, mentre Bettino Craxi insiste nel voler evitare un’azione di forza, e nel caso, vuole che sia guidata da forze armate italiane. Nella foto Giulio Andreotti e Bettino Craxi. La Achille Lauro abbandona la costa siriana e raggiunge Port Said, mentre le trattative, non appoggiate dagli americani, riescono a convincere alla resa di terroristi, grazie alla mediazione di Abu Abbas e alla promessa di fuga diplomatica verso la Tunisia. Una soluzione che trova l’appoggio del Governo italiano e che apparentemente sembra portare a un epilogo non drammatico della vicenda, fino a quando non arriva la notizia dell’uccisione a bordo del cittadino americano Leon Klinghoffer, nella foto. La situazione si aggrava tragicamente e la tensione con gli Stati Uniti assume dei contorni molto preoccupanti anche per lo Stato italiano, che sta vivendo da protagonista l’intricata vicenda. Dopo la liberazione della nave si decide per l’immediato trasferimento dei quattro attentatori e dei diplomatici egiziani e palestinesi in Tunisia, a bordo del boeing 737 delle linee aeree egiziane. Nella foto il comandate della nave Gerardo De Rosa. Oltreoceano Reagan dispone di intercettare l’aereo egiziano facendo partire dalla portaerei Saratoga quattro caccia F-14 e spingendo diplomaticamente affinché gli aeroporti di Tunisia, Grecia e Libano rifiutassero l’atterraggio. Nella foto Caspar Weinberger, segretario alla difesa americano, durante la riunione al Pentagono illustra dove i jet US F14 hanno intercettato l’aereo egiziano che trasporta i dirottatori dell’Achille Lauro. Senza possibile luogo d’atterraggio l’aereo egiziano viene così intercettato dai velivoli americani e costretto ad atterrare alla base statunitense di Sigonella, in territorio italiano. «Perché in Italia?» chiederà Craxi durante una telefonata con il consulente CIA Michael Leeden, come racconterà poi Michael K. Bohn nel suo libro sulla vicenda di Sigonella e dell’Achille Lauro. Nella foto la nave liberata, i passeggeri e i marinai guardano le strisce di sangue lasciate dal corpo dell’americano Leon Klinghoffer, ucciso e gettato in mare. Contrariato dall’improvvisazione degli americani, l’allora presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi rivendica la competenza territoriale, appellandosi al diritto internazionale e schiera a difesa del velivolo egiziano uomini dei Carabinieri di stanza all’aeroporto e del comando di Catania. Nella foto la gioia dei passeggeri dell’Achille Lauro sulla nave liberata. Il controllore di torre dell’aeroporto militare di Sigonella e il suo assistente, inizialmente all'oscuro dell'identità dei passeggeri a bordo del boeing egiziano, saranno decisivi e indispensabili alla gestione dei momenti concitati sulla pista e alla cattura dei terroristi da parte delle autorità italiane. Nella foto Edward Casey, dell'ambasciata degli Stati Uniti, sull'’Achille Lauro con i passeggeri americani. Sulla pista di Sigonella, poco dopo la mezzanotte, atterrano a luci spente e senza autorizzazione due Lockheed dei Navy Seal, da cui scendono militari americani armati con l’intento di ottenere il controllo dell’aereo e soprattutto di prendere in consegna i terroristi e Abu Abbas. Nella foto la moglie del cittadino americano ucciso, Marilyn Klinghoffer. L’Italia e gli Stati Uniti vivono ore di tensione fortissima, il cui apice sarà la telefonata di Reagan a Craxi per chiedere la consegna dei terroristi, ma Craxi non si muoverà dalle sue posizioni, attestandosi sulla linea che in assenza di richiesta di estradizione non era consentito a nessuno sottrarre alla giustizia italiana persone sospettate di reati punibili ai sensi della legge italiana. Dopo ore interminabili, con l’invio di altri Carabinieri e di mezzi blindati, le forze armate americane ricevono l’ordine di ritirarsi. Nella foto il presidente americano Ronald Reagan. Si dirà poi che a vincere questo pericoloso braccio di ferro fu soprattutto il socialista Bettino Craxi, anche se poi vedrà cadere proprio su questa vicenda il proprio gabinetto di governo, ma le conseguenze di questo intricato affaire internazionale non termineranno con l’arresto dei quattro terroristi. Nella foto il carcere di Siracusa dove sono stati rinchiusi i terroristi palestinesi. I due dirigenti palestinesi e il diplomatico egiziano restano a bordo del boeing, che parte alla volta di Ciampino, protetto da un velivolo del SISMI e quattro caccia italiani F-104S, mentre un caccia americano, senza autorizzazione e senza aver comunicato il piano di volo, decolla subito dopo con l’intento di prendere in consegna il boeing con a bordo Abbas, considerato responsabile del dirottamento. L’aereo riuscirà ad atterrare a Ciampino, ma in un continuo crescendo di tensione, un secondo jet militare statunitense fingendo un guasto otterrà di poter atterrare proprio sulla stessa pista, davanti al boeing egiziano per impedirne la ripartenza. L’ammiraglio Fulvio Martini, protagonista diretto di tutta la vicenda, intimerà di liberare la pista, e per altri minuti l’Italia e gli Usa saranno a un passo dallo scontro armato. Nella foto il boeing 737, atterrato all’aeroporto di Ciampino, con a bordo i palestinesi. La crisi si sposta dalla pista dell’aeroporto alle stanze di Governo, dove è in corso un braccio di ferro sulla gestione e l’eventuale fermo in Italia dei due dirigenti dell’OLP a bordo del boeing egiziano: da un lato Craxi, Andreotti e Martinazzoli, nella foto, contrari all’arresto dei due funzionari palestinesi, dall’altro Giovanni Spadolini che chiede una consultazione collegiale della decisione. Il 12 ottobre Abu Abbas e l’altro funzionario palestinese ripartono a bordo di uno volo delle linee aeree jugoslave verso Belgrado, senza che Spadolini sia stato informato. L’intera vicenda porterà alla caduta del governo Craxi poche settimane dopo e a una rottura personale tra Craxi e Spadolini, esponenti rispettivamente delle due correnti filopalestinese e filoamericana. Nella foto la prima pagina del Corriere della Sera del 17 ottobre 1985 che annuncia le dimissioni del Governo Craxi. Solo nei giorni successivi verranno raccolte informazioni e intercettazioni dei servizi segreti israeliani e americani che proveranno con certezza il coinvolgimento diretto nel dirottamento di Abu Abbas, nella foto, che sarà condannato all’ergastolo in contumacia. I quattro dirottatori saranno poi rinchiusi nel carcere di Siracusa, trasferiti a Genova, processati e condannati dalla magistratura italiana, mentre l’Achille Lauro farà ritorno a Napoli dopo un breve scalo in Grecia e dopo che un’informativa della CIA sulla possibile presenza di esplosivo sulla nave su alcune casse, gettate poi in mare dal comandante. Nella foto Al Ashker Bassam durante il processo. Quanto ai rapporti Usa-Italia, gli attriti rientreranno qualche tempo dopo con l’invito dal famoso incipit “Dear Bettino” rivolto da Reagan a Craxi a recarsi negli Usa, un viaggio già programmato, ma annullato a causa della vicenda Achille Lauro. Nella foto la vedova di Leon Klinghoffer, ricevuta dal presidente Ronald Reagan.

A proposito di prevenzione. Un magistrato la arresta l'altro la rimette in libertà. Qual è il pericolo a piede libero? Scrive Salvatore Tramontano Giovedì 24/12/2015 su "Il Giornale". Qual è il pericolo a piede libero? Una terrorista con l'obbligo di dimora, ma con la possibilità di contattare via Internet i suoi compagni di fede e di terrore, pianificando eventuali azioni di guerriglia e attentati oppure il pm che voleva marchiare e sbattere in galera un'innocente? Oppure è il gip che ha scarcerato la donna, che dopo la scossa di terremoto di magnitudo 4 al largo di Palermo, avrebbe affermato: «Questa è la vendetta divina»? Nulla è come prima. La guerra invisibile dello Stato islamico sgretola le nostre certezze, i capisaldi del diritto, fa sponda sulle paure e gioca a scacchi con la fede nella libertà e il desiderio di sicurezza. La storia della ricercatrice libica di 45 anni, accusata di istigazione a commettere atti di terrorismo, che per il pm è così pericolosa da essere rinchiusa in carcere mentre per il gip al massimo merita l'obbligo di dimora, mostra quale sia la nostra realtà: noi non siamo in grado di capire se questa donna sia davvero una terrorista. Questo caso incarna tutte le nostre paure e segna le fragilità di questa stagione. Come mai il pm, convinto che la donna sia pericolosa, non è riuscito a trovare le prove per tenerla in carcere? Non è stato abbastanza bravo? O la legge non fornisce a chi indaga gli strumenti adeguati? E il gip è stato troppo fiscale o davvero non poteva fare altrimenti? Certo che se per aiutare i magistrati a «formarsi» meglio sul fenomeno jihadista, come ha raccontato alcuni giorni fa Fausto Biloslavo su questo Giornale, la Scuola superiore della magistratura organizza un solo corso, allora tutto diventa più difficile. Il motivo spiegato nella presentazione è chiaro: «Scandita dagli attentati, la disciplina antiterrorismo costituisce un vero e proprio sottosistema della giustizia penale». Purtroppo la prestigiosa Scuola offre poco altro sull'argomento. Di terrorismo, infatti, si parlerà brevemente soltanto nel corso su «Religione-Diritto-Satira». Questo nonostante al sistema di formazione dei magistrati concorra anche il ministero della Giustizia. In compenso, però, ha raccontato sempre Biloslavo, viene ripetuto, dopo il grande successo dello scorso anno, il corso sull'«immagine della giustizia nell'arte, nel cinema, nella letteratura». La questione è seria e forse il guaio maggiore è che non siamo pronti ad affrontare una situazione come questa. Se c'è un punto dove siamo più vulnerabili, questo è il versante della giustizia: l'Italia, le sue leggi, si confrontano con un nemico nuovo, diverso perfino dal terrorismo rosso e nero degli anni '70, con integralisti fanatici che non temono la morte e sono pronti a farsi saltare in aria o sparare sulla folla come martiri. Come ci si difende da nemici così assoluti e imprevedibili? Quante garanzie si possono concedere? È il paradosso della società aperta: fino a che punto si può essere tolleranti con gli intolleranti? La risposta è che una società aperta non è suicida, non è spalancata. Non può essere tollerante fino alla morte. È arrivato il momento di difendersi dal terrore islamico con tutti i mezzi. E servono nuove leggi. Per non morire o sopravvivere nella paura.

LA DIFFERENZA TRA RELIGIONI.

Il laicismo è esso stesso una religione, se al contempo con esso si santifica il comunismo. Ergo. Il comunismo non è una ideologia, ma per i suoi adepti è una religione, che non promana dubbi.

Contro il naufragio laico studiamo le religioni. Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Pensare che la religione sia solo violenza è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità, scrive Donatella Di Cesare su “Il Corriere della Sera” il 29 dicembre 2015. Le polemiche sui presepi o sui crocefissi a scuola, le difficoltà in cui spesso si scontra chi tenta di affrontare temi religiosi, non solo nelle aule scolastiche, ma anche in quelle universitarie, spingono a più di una riflessione. La presenza dell’Islam (come religione) in Europa ha fatto emergere un fenomeno diffuso già da qualche anno: il ritorno delle religioni nella sfera pubblica. Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Giustamente Jürgen Habermas parla perciò di «società post-secolari». Il «ritorno» delle religioni crea molti problemi soprattutto là dove, come in Francia, la laicità sembrava un valore intramontabile. Di qui il forte attrito con l’Islam. Mentre Ebraismo e Cristianesimo, rinunciando a molte prerogative, hanno concordato, già all’inizio della modernità, un patto con lo Stato, riconoscendone la sovranità, l’Islam comincia solo ora a entrare nel «patto laico» e nella nazione. L’ingresso dell’Islam nella cittadinanza europea porta alla luce una difficoltà che riguarda anche le altre religioni. Così Ebraismo e Cristianesimo hanno dovuto rinunciare alla loro dimensione politica, senza che questa rinuncia fosse mai definitiva. Forse perché la separazione tra religione e politica è una pretesa del laicismo, fittizia quanto irrealizzabile. E se a essere un problema fosse proprio quella sorta di religione civile dello Stato che sta tramontando insieme allo Stato-nazione? Certo è che le componenti più laiche sembrano oggi le più impreparate a comprendere quel che accade nel complicato processo della globalizzazione. Pensare che la religione sia solo violenza, che rappresenti un inutile oscurantismo, è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità. Come se bastasse sbarazzarsi delle religioni per trovare un rimedio nel tormentato scenario contemporaneo. Quel che appare ormai evidente è che la laicità non è il luogo neutro di un confronto tra religioni e culture diverse, non è il terreno di una non meglio precisata «morale universale», né la forma dell’identità collettiva. Ciò a cui oggi si assiste è proprio il naufragio della laicità così intesa. Il patto laico, che ha sempre avuto tratti fortemente nazionali, non funziona nel mondo globalizzato. Ma a ben guardare non ha funzionato neppure prima, lasciando una difficile eredità. Giudicate dall’alto della ragione illuministica, le religioni sono state ridotte a dogmi superflui e dannosi, quasi che non facessero parte del patrimonio culturale. Gli effetti sono devastanti. Questo spiega perché il «dialogo interreligioso» è una faccenda di élite. Nelle scuole e nelle università, sia nel nostro Paese, sia in altre nazioni europee, domina l’ignoranza. Peraltro proprio quando oramai in quasi ogni classe ci sono studenti delle tre religioni e sarebbe auspicabile la mutua conoscenza. Ma come si può dialogare con la religione degli altri, se si sa poco o nulla della propria? E se si è portati a credere che, in un caso come nell’altro, si tratta di oscuri dogmi? Si moltiplicano allora preconcetti e cliché. Anche l’ebraismo è oggi più che mai nel mirino. Così si spalancano le porte all’islamofobia non meno che all’antisemitismo. E così finiscono per avere la meglio le posizioni fondamentaliste, diffuse purtroppo anche tra i giovani. Dove non si è stati abituati all’ermeneutica dei testi, alla riflessione sui concetti religiosi, si resta muti di fronte alla ostentazione di una pretesa «verità», che dovrebbe invece essere subito decostruita. I fondamentalismi religiosi tentano infatti di separarsi dalla cultura di provenienza. Mentre il Corano, come i Vangeli, come la Torà, richiedono interpretazione.

Isis, curdi e peshmerga, sciiti e sunniti: il glossario del Medio Oriente. Quali sono le definizioni delle parole e delle sigle che meglio spiegano i conflitti religiosi, militari e politici in corso nella regione mediorientale, scrive “Il Corriere della Sera” il 4 gennaio 2016.

ALAUITI. O Alawiti, termine coniato dall’amministrazione francese per indicare la setta musulmana sciita dei Nusairī e la regione da essi abitata, fra Tripoli e Laodicea, sopra le falde occidentali del gebel Ansāriyya. Staccata dal Libano nel 1920 ed eretta in amministrazione autonoma con la denominazione di Territorio degli Alauiti, poi di Stato alawita, nel 1922 la regione entrò a far parte della Federazione siriana, dalla quale uscì nel 1924 ricostituendosi come Territorio autonomo degli Alauiti, poi divenuto (1930) Governatorato autonomo di Laodicea. Prefettura della repubblica siriana dal 1935, di nuovo territorio autonomo nel 1939, con la definitiva cessazione del mandato francese (1945) è stata reincorporata nella Siria. Il presidente siriano Bashar al-Assad è alauita. (Fonte: Treccani).

CALIFFATO. È stato proclamato il 29 giugno del 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis che si auto definisce Califfo. Viene usato impropriamente come sinonimo di Isis (vedi sotto alla voce Isis). In passato il califfato è stato una forma di governo adottato dal primissimo Islam, il giorno stesso della morte di Maometto e intende rappresentare l’unità politica dei musulmani, ovvero la Umma. Nel corso di questi secoli, oltre i primi quattro califfi “ortodossi” (definiti, secondo una traduzione impropria, “ben guidati”) e quelli omayyadi di Siria e abbasidi di Baghdad e Samarra, altri due califfati si sono affermati: quello sciita-ismailita fatimide fra il 909 d.C e il 1171, e poi quello omayyade andaluso, attivo tra il 929 e il 1031.

CURDI. Popolazione iranica la cui regione storica, il Kurdistan, è attualmente suddivisa fra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Repubblica di Armenia. La consistenza numerica dei curdi, di difficile valutazione per la mancanza di dati ufficiali sufficientemente attendibili, si aggira sui 20-30 milioni di persone, distribuite soprattutto fra la Turchia sud-orientale, il Nord-Ovest dell’Iran e il Nord-Est dell’Iraq, mentre assai minore è la presenza curda nella fascia più settentrionale della Siria e nella regione transcaucasica (specialmente in Armenia). I curdi erano suddivisi in numerose tribù patriarcali, dotate di un’organizzazione di tipo semifeudale. Elementi di tale assetto tradizionale sono tuttora presenti. La religione predominante è musulmana di rito sunnita. La lingua è indoeuropea della famiglia iranica, con tre grandi gruppi dialettali: l’orientale, il settentrionale e l’occidentale; il lessico è caratterizzato da numerosi prestiti dal persiano moderno e dall’arabo, questi ultimi quasi sempre per il tramite del persiano o del turco. (Fonte: Treccani)

ISIS. L’Isis è lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, spesso abbreviato in Is, ed è un gruppo terroristico di natura jihadista guidato da Abu Bakr Al Baghdadi. Il 13 ottobre del 2006 venne annunciata la fondazione del Dawlat al Iraq al-Islamiyah (Stato islamico dell’Iraq, Isi). Il 9 aprile 2013, dopo essersi espanso in Siria, il gruppo adottò il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, conosciuto anche come Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham.Il nome viene abbreviato in Isis o Isil. La s finale nell’acronimo Isis deriva dalla parola araba Sham (or Shaam), che nel contesto di una jihad globale si riferisce al Levante o alla Grande Siria. Il 14 maggio del 2014 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato la sua decisione di usare Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome principale del gruppo ma a seconda dei paesi e della traduzione vengono usati acronimi diversi (EI, IS, ecc). L’equivalente arabo, Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham, può essere abbreviato in Daesh. Isis segue un’interpretazione estremamente anti-occidentale dell’Islam, promuove la violenza religiosa e considera coloro che non concordano con la sua interpretazione come infedeli e apostati. Allo stesso tempo mira a fondare uno stato islamista orientato al salafismo (vedi sotto) in Iraq, Siria e altre parti del levante.

JIHAD. Questa parola araba significa esercitare il massimo sforzo. Si riferisce a una delle istituzioni fondamentali dell’Islam e compare in 23 versi del Corano, il testo sacro per i musulmani. Anche se si discute molto sulla sua vera interpretazione, negli ultimi decenni, le scuole coraniche concordano sul fatto che il concetto di Jihad implichi una battaglia contro i persecutori e gli oppressori. Si distingue dunque tra una concezione difensiva, come era tradizionalmente intesa, e una invece offensiva del concetto, propria degli ambienti radicali.

PESHMERGA. In lingua curda indica un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte. Il nome è stato ugualmente usato per una parte dei combattenti autonomisti e indipendentisti curdi in Iraq, appartenenti al Partito Democratico del Kurdistan. In particolare, Peshmerga è il nome ufficiale delle forze armate del Governo Regionale del Kurdistan nella regione semiautonoma (a tutto agosto 2014) del Kurdistan iracheno. Queste forze si sono in passato scontrate con i militanti dell’Unione Patriottica del Kurdistan (ed anche al Partito dei lavoratori del Kurdistan turco, presente nella parte nord dell’Iraq) e con i guerriglieri islamisti di Ansar al Islam; sempre nell’agosto 2014, alcuni battaglioni della milizia peshmerga sono stati integrati nella Guardia Nazionale Irachena, e sono parte della nuova 2a divisione irachena, di base a Mossul. La storia di questi combattenti è però molto più antica: i peshmerga sono stati attivi nei vari sconvolgimenti della storia dell’Iraq dalla sua indipendenza, nella guerra Iran-Iraq, nella prima e nella seconda guerra del golfo. Durante le guerre del Golfo hanno cooperato con le forze speciali dell’Alleanza contro Saddam Hussein, salvando vari piloti e incursori sul loro territorio, e tenendo occupato l’intero V corpo iracheno nel 2003 a nord, impedendogli di schierarsi contro le forze alleate a sud. Hanno avuto e hanno proprie forze speciali, al 2014 in parte amalgamate con l’esercito iracheno. Il termine peshmerga indica anche i combattenti pathani(pashtun) lungo la frontiera dell’Afghanistan.

SALAFISMO. È una scuola di pensiero sunnita che prende il nome dal termine arabo salaf al-salihin (“i pii antenati”) che identifica le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo) considerati - dai salafiti - dei modelli esemplari di virtù religiosa. I primi segnali evidenti, e ufficiali, del mutamento ideologico e strategico del Salafismo, da movimento “riformista” e tollerante a movimento “fondamentalista”, si possono forse riscontrare in Tunisia, verso gli anni trenta del XX secolo. In Egitto, la trasformazione del Salafismo avvenne nello stesso periodo, con l’avvento della cosiddetta “Neo-Salafiyya”. 

SCIITI E SUNNITI. Come ha spiegato Roberto Tottoli sul Corriere della Sera, la divisione tra sunniti e sciiti risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per il «partito di Alì», in arabo shi’at ‘Ali, da cui deriva il nome «sciiti», il legittimo successore di Maometto doveva essere ‘Ali, suo genero. E dopo di lui dovevano regnare i suoi discendenti con il titolo di imam. Ma la questione della successione non fu solo politica: per gli sciiti gli imam erano e sono una guida anche religiosa. Per i sunniti, invece, i primi sovrani, chiamati «califfi», furono scelti tra i compagni di Maometto, senza alcun ruolo religioso ma solo con il dovere di garantire l’ideale unità della comunità. Nel corso dei secoli il sunnismo è stato la via seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani, mentre lo sciismo si è a sua volta frantumato in svariate sette circoscritte ad alcune regioni.

SHARIA. Legge sacra dell’islam, qual è dedotta dai quattro ‘fondamenti del diritto’: il Corano, la sunna o consuetudine del Profeta, il consenso della comunità musulmana, e il qiyās o deduzione analogica. Si distinguono nella s. le norme riguardanti il culto e gli obblighi rituali da quelle di natura giuridica e politica. Le varie prescrizioni del diritto musulmano sono suddivise dai Sunniti in ‛ibādāt, le pratiche del culto, e mu‛amalāt, il modo d’agire verso gli altri. In alcuni Stati islamici la s. può essere considerata legge civile e penale. (Fonte Treccani).

YAZIDI. Popolo di origine curda, costituito da circa 300 mila persone. Il gruppo principale, costituito da 150 mila yazidi, vive in due aree dell’Iraq: i monti del Gebel Singiar (al confine con la Siria) e i distretti di Badinan (o Shaykhan) e Dohuk (nord-ovest del Paese). Il nord-ovest dell’Iraq è l’area originaria del popolo yazidi, insieme all’Anatolia sud-orientale (province di Diyarbakir e Mardin). Sbagliato è trattare gli yazidi come gruppo entico. La parola va riferita infatti a una specifica religione, combinazione sincretistica di zoroastrismo, manicheismo, ebraismo e cristianesimo nestoriano sui quali sono stati successivamente aggiunti elementi islamici sciiti e sufi. Sono stati perseguitati da Isis, oltre 5 mila donne yazide sono state rapite e ridotte in schiavitù dai jihadisti dopo la caduta di Sinjar.

La differenza tra sunniti e sciiti. Di Giordano Stabile, Ugo Leo e Samuele Pozzato su “La Stampa”.

Le sanguinose guerre in corso in Siria, Iraq, Yemen e altri Paesi musulmani nascono da due visioni, quella sunnita e quella sciita, islamiche che si confrontano da 1400 anni. Il punto cruciale della discordia è su chi sia e che ruolo debba avere il khalifa, il califfo, cioè il successore di Maometto. Tutto comincia l’imam Hussein, considerato dagli sciiti vero erede del Profeta ma trucidato nel 680 a Karbala, in Iraq.

Il profeta e il califfo.

1) Maometto, Muhammad (570-632 dopo Cristo), per i musulmani è il Profeta incaricato da Dio (Allah) di diffondere la sua Parola, il Corano. Nomina califfo (khalifa, successore) Abu Bakr, uno dei primi compagni. I sunniti aderiscono a questa linea di successione.

2) Gli sciiti non riconoscono come successore Abu Bakr ma Ali, cugino e genero di Maometto.

Origine del nome.

1) Il nome sunnita viene da sunna, la tradizione dei detti (ahadith) di Maometto.

2) Il nome sciita viene da Shiat Ali, «Partito di Ali”.

Pilastri del culto.

1) Per i sunniti sono 5: la testimonianza di fede, al-shahada; la preghiera rituale, al-salah; l’elemosina canonica, al-zakah; il digiuno durante il Ramadan, sawm; il pellegrinaggio a Mecca, hajj.

2) Nello sciismo ci sono 10 pilastri: fra gli altri, la tawalla, esprimere l’amore per il bene; tabarra, esprimere odio per il male.

Atteggiamento nella preghiera.

1) I sunniti pregano con le mani congiunte all’altezza del diaframma. Per la Professione di fede si ripete la formula: «Testimonio che non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è il suo Profeta». È la frase che vediamo anche sulle bandiere dell’Isis.

2) Alla shahada gli sciiti aggiungono «e Ali ibn Abi Talib è amico di Dio». Gli sciiti pregano con le mani in parallelo rispetto al corpo, davanti alle cosce. Finisce pronunciando tre volte il takbir («Allahu akbar).

Feste.

1) I sunniti celebrano solo due feste: Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di digiuno, e la Eid al-Adha, festa del sacrificio, alla fine del pellegrinaggio (hajj) alla Mecca.

2) Gli sciiti festeggiano in particolare l’Ashura, in cui viene ricordato il martirio di Hussayn a Karbala.

Cibi e bevande.

1) Vietata la carne di maiale e l’alcol.

2) Non ci sono differenze con il sunnismo.

Velo islamico.

1) L’uso del velo è obbligatorio in base a due sure del Corano. Ma le versioni più rigide, come niqab e burqa sono diffuse in Paesi sunniti come l’Afghanistan.

2) In Iran, il più grande Paese sciita, il velo più usato è lo hijab.

Diffusione.

1) La maggior parte dei musulmani è sunnita, l’80% del totale.

2) Il 15% dei musulmani è costituito da sciiti. Lo sciismo è diffuso in Iran (90%), Iraq (55%), Pakistan (20%), Arabia Saudita (15%), Bahrein (70%), Libano (27%), Yemen (50%), Siria (15%).

Clero.

1) Fra i sunniti non c’è clero. L’imam è colui che guida la preghiera.

2) Lo sciismo ha un clero organizzato, preparato in università specifiche di scienze islamiche.

I motivi per cui Cristiani e Islamici non adorano lo stesso Dio - l'eresia dell'Onnivolenza divina. Dio nel Cristianesimo è Trinitario, nell' Islam no. La base unitaria delle religioni monoteiste (ebraica, mussulmana, cattolica) è la Sacra Bibbia. Fonte di un Dio tutto da interpretare. Le differenze in loro le scopri nei loro profeti. Nell’Ebraismo manca; nell’Islam c’è Maometto, profeta di guerra; nel cristianesimo c’è Gesù Cristo, considerato dai cattolici figlio di Dio e Dio al contempo. Non si può negare che sia un Dio o un Profeta di pace. Diverso dal Dio del Vecchio Testamento. "Allah o Gesù, cosa cambia? In fondo è lo stesso Dio!" Il problema è che non è affatto lo stesso Dio. I motivi sono molteplici ma per uno studio più approfondito rimando alla splendido documento firmato dall'allora cardinale Ratzinger dal titolo "Dominus Iesus" dell'anno 2000. Qui mi limiterò a spiegare quella che secondo la visione islamica è una caratteristica del divino e che invece per il Credo cattolico e' semplicemente un'eresia dalle conseguenze inaudite. Intendo parlare brevemente dell'Onnivolenza divina secondo l'Islam. Secondo gli Islamici Dio è onnivolente, cioè, in parole povere, può comandare ciò che vuole e ciò che comanda e' bene e va fatto. Dove sta il problema? Il problema sta in quello che anche Papa Benedetto XVI descrisse nel suo famoso discorso di Ratisbona (a cui rimando per comprendere meglio il discorso che sto facendo): non è vero che una cosa e buona perché Dio dice che è buona, ma una cosa e' buona quindi Dio dice che quella cosa e' buona. Mi spiego meglio: se domani Allah comandasse di uccidere nel suo nome, anche se l'omicidio è un male, questo diventa un bene perché Allah dice che in quel caso è un bene. Questa cosa non è condivisa dal credo cattolico che parla di un Dio onnipotente, onnisciente, ma non onnivolente. La Chiesa, seguendo il pensiero platonico-socratico, ha sempre creduto che il bene e il male siano realtà oggettive, non dipendenti dall'arbitrio umano ne dall'arbitro divino. Il Dio cristiano indica la strada dei comandamenti come la strada del bene e questa strada non potrà mai cambiare o essere modificata perché il bene indicato da Dio non è tale perché Lui lo indica come bene, ma è in se bene e di conseguenza Dio lo indica, perché desidera che l'uomo segua la via del bene. In questo senso il pensiero islamico si distanzia in modo determinante dal pensiero cattolico. Comprendiamo bene perché in quel discorso di Ratisbona il Santo Padre ha insistito sul fatto che "agire contro la ragione è contrario all'agire di Dio". Con queste parole riaffermo' proprio questo concetto. Il bene e il male sono fatti oggettivi, non modificabili secondo l'arbitro umano, ne secondo un presunto arbitrio divino. Dio ha indicato qual è la via del bene e qual è la via del male e queste vie non potranno mai cambiare. Le conseguenze di questo sono facilmente comprensibili: Dio non solo non comanda di uccidere, ma non può comandare di uccidere perché uccidere è un male in se'. Il dio islamico invece può anche comandare di uccidere e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Attenzione quando si afferma che il dio islamico e lo stesso Dio dei cristiani, perché questo non è - per il motivo che ho descritto e per molti altri descritti nei documenti sopra citati - assolutamente vero. D Cristiano M.G.

«Con la venuta di Gesù Cristo salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da Lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l'umanità (cf. At 17,30-31). Questa verità di fede niente toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto, ma nel contempo esclude radicalmente quella mentalità indifferentista «improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l'altra”». Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici. Tuttavia occorre ricordare « a tutti i figli della Chiesa che la loro particolare condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati ». Si comprende quindi che, seguendo il mandato del Signore (cf. Mt 28,19-20) e come esigenza dell'amore a tutti gli uomini, la Chiesa «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose» (Dominus Iesus n°22).

Il documento a firma del card. Ratzinger fu approvato da Papa Giovanni Paolo II e da lui fu ordinata la pubblicazione e la diffusione.

INTELLETTUALI A SCARTAMENTO RIDOTTO.

Perchè su Matteo Renzi gli intellettuali italiani stanno zitti? In prima linea contro il berlusconismo, oggi gli intellettuali tacciono imbarazzati di fronte al giovane premier. E lasciano il monopolio della critica alla generazione dei “vecchi”, scrive Marco Damilano il 29 dicembre 2015 su “L'Espresso”. Parlo all’Italia riformista. Perché stiamo perdonando a Matteo Renzi quello che non perdonavamo a Silvio Berlusconi? Che cosa ci sta portando a fermarci?». La voce di Roberto Saviano su repubblica.it risuonava su smartphone e tablet nel pomeriggio di venerdì 11 dicembre a Firenze nella grande ex stazione Leopolda che si preparava ad accogliere il popolo renziano per il raduno annuale. Lo scrittore attaccava «una struttura politica che ha compiuto l’ennesimo atto autoritario», il «conflitto di interessi» del ministro Maria Elena Boschi, figlia dell’ex vice-presidente della Banca Etruria oggetto di un decreto del governo. Un crescendo che, il giorno dopo, arrivava a definire la Leopolda «un’accolita che difende i malversatori». Ma esaurita l’indignazione di giornata del cerchio magico del premier contro le parole dello scrittore, bisogna riprendere il j’accuse di Saviano che va ben al di là della singola questione, chiama in causa il diritto di critica, «che non può essere considerato un impiccio», e il rapporto degli intellettuali con il nuovo principe venuto da Rignano. Nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatranti. Scrittori, registi, sceneggiatori, opinionisti solitamente impegnati. In prima fila nella firma di appelli e manifesti. Pronti a ingaggiare il corpo a corpo delle idee. Sul palco, in piazza, sui giornali. Con parole e opere: romanzi, film, canzoni, articoli. E ora, invece, stretti tra due accuse. Quella di Renzi e dei suoi laudatori, secondo cui le voci di dissenso sarebbero in blocco «professoroni, gufi, professionisti della rassegnazione». «Un giorno si parlerà finalmente delle responsabilità delle élite culturali nella crisi italiana: professori, editorialisti, opinionisti non sono senza colpe», disse il premier a “Repubblica” dopo pochi mesi di governo, il 4 agosto 2014. «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche», ha replicato, senza nominarlo, a Saviano dal palco della Leopolda. E c’è, sul versante opposto, la seconda accusa, non meno bruciante, quella avanzata dall’autore di “Gomorra”. La timidezza verso il nuovo potere renziano nell’ambiente culturale «riformista». Gli intellettuali di sinistra che furono in prima fila negli anni del berlusconismo. E che ora appaiono svogliati. Ritrosi a schierarsi. Ritirati nei propri quartieri. Taciturni. In silenzio. Forse imbarazzati, di certo confusi. Per loro stessa ammissione. «Renzi è di sinistra? Diciamo che, come Margherita dice in “Mia madre”, anch’io sono confuso in questa fase e preferisco tacere, piuttosto che dire cose generiche o banali… Sono contento se il governo è di centrosinistra, facendo però davvero riforme di centrosinistra. Ma ripeto: in questo periodo sono confuso e preferisco non dire cose a caso». Nanni Moretti ha interrotto di recente con un’intervista a “Oggi” e poi a “Le Monde” la sua distanza dalla politica. Per testimoniare, però, che in questa fase è meglio restare zitti piuttosto che parlare per non dire nulla. Eppure per decenni Moretti ha portato sul grande schermo la crisi del Pci e della sinistra, da “Palombella Rossa” a “Aprile”, gli psicodrammi di militanti, dirigenti, semplici elettori, con le lettere mai spedite ai leader di partito. L’interpretazione del ministro socialista Botero in “Il portaborse” di Daniele Luchetti all’inizio degli anni ’90 anticipò Tangentopoli. E poi “Il Caimano” (2006) su Berlusconi e il conformismo di stampa e televisioni. E soprattutto la stagione dei girotondi, tra il 2002 e il 2003, quando il regista accettò di guidare un movimento e finì per assumere la leadership dell’anti-berlusconismo in un momento di debolezza politica dei partiti di centro-sinistra. Ora è un altro momento. Di confusione. E perfino, per i cinquantenni-sessantenni coetanei di Moretti, di un sottile senso di colpa. «A me Renzi sta antipatico, non mi sento contiguo alla Leopolda, ma mi sono supremamente rotto le scatole di quello che ha fatto la mia generazione in politica», ha detto la settimana scorsa Michele Serra in tv a “Otto e mezzo”. In continuità con quanto l’ex direttore di “Cuore” aveva scritto su “l’Espresso” (11 maggio 2015): «Non esisterebbe Renzi se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di impotenza. Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni critica c’è il sospetto inevitabile della conservazione. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua». De te fabula narratur: non è colpa di Matteo, e forse neppure del tutto merito suo, se con facilità impressionante ha conquistato il potere, scalato la sinistra, polverizzato i riferimenti culturali del passato, sgretolato il pantheon dei miti fondativi. Colpa di chi l’ha preceduto, dei dirigenti antichi e inamovibili, dei padri nobili che in ogni cambiamento hanno avvertito, sospettosi, l’ombra della fuoriuscita dal patto costituzionale su cui si è costruita la Repubblica e sono cresciute le culture politiche dei partiti, più forti e resistenti delle ideologie. Il grande silenzio, come si intitolava il libro-intervista sugli intellettuali di Alberto Asor Rosa con Simonetta Fiori (Laterza, 2010), sembra essere la reazione di una certa generazione e di una certa cultura: quella che ha combattuto da sinistra negli anni Ottanta la modernizzazione di Bettino Craxi, il rampantismo socialista e poi, naturalmente, il berlusconismo trionfante. E che ora, dopo tante battaglie e molte sconfitte, non se la sente più di intrecciare un conflitto anche con il premier rottamatore. Anche perché, come dice Serra, «Renzi non è come Berlusconi». C’è chi questo passaggio l’ha fatto con agilità e senza farsi troppi problemi: ad esempio Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti, con “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), vincitore del premio Strega, uscito nei mesi in cui Renzi dava l’assalto al vertice del Pd e poi a Palazzo Chigi, aveva già ben rappresentato la felicità di un intellettuale di sinistra pronto a tuffarsi nella nuova epoca. Sul versante opposto, quello della critica, si schierano intellettuali di altre generazioni e di altri filoni culturali, più azionisti che ex Pci. Sono loro i «famigerati professoroni». Giuristi come Stefano Rodotà o come Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, che denuncia nel suo ultimo libro “Moscacieca” (Laterza, 2015) «l’allergia per il pensiero non allineato» e si spinge a comporre l’elogio del pessimismo contro la «leggera, fatua, insulsa allegrezza che fluttua qua e là senza alcun costante e maturo impegno per un’opera degna della parola politica». Professori come Asor Rosa che attacca «la mutazione genetica» del Pd. E storici come Marco Revelli: erano in tanti il 3 dicembre a discutere nella sede romana della casa editrice Laterza il suo ultimo libro “Dentro e contro”, una delle più compiute requisitorie contro il sistema renziano. Seminario ad alta tensione, con uno scontro senza ipocrisie tra l’autore e il giurista Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, difensore delle riforme del governo Renzi. Perché in questi mondi l’atteggiamento da tenere nei confronti del premier spacca, divide. Renzi, nelle pagine di Revelli, è descritto come Callicle, piccolo filosofo ateniese del V secolo a.C., «archetipo di quel disprezzo per la conoscenza e per i sapienti che ritornerà infinite volte nelle zone grigie della storia». Un modello di potere post-democratico nell’Europa attraversata dai populisti: «L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridare di accelerare». Tutti chi? Inutile cercare pensatori vecchio stile tra gli intervenuti all’ultima edizione della Leopolda. Nelle precedenti kermesse aveva colpito e affascinato la platea lo scrittore Alessandro Baricco, con la sua narrazione popolata di spazi bianchi da riempire, pezzi sulla scacchiera da muovere per primi, navi da bruciare alle spalle. Ma questa volta non si è fatto vedere, né lui né altri artigiani dell’immaginario. E non si trovano citazione di contemporanei nel discorso finale di Renzi, con l’eccezione di Paolo Sorrentino, fresco vincitore degli Efa di Berlino, l’Oscar europeo, il regista prediletto dal premier. Forse perché almeno gli ultimi due titoli, “La Grande Bellezza” e “Youth - La giovinezza”, sono involontariamente, inconsciamente renziani. O forse perché, semplicemente, Sorrentino è un outsider che vince, come sempre si rappresenta l’ex ragazzo di Rignano. Nell’ultima edizione è stato lanciato il think tank che avrà il compito di formare la classe dirigente di domani. A dirigere “Volta” sarà Giuliano Da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux, già assessore alla Cultura con Renzi sindaco, ritornato nell’orbita di Matteo dopo qualche dissidio. Il suo “La prova del potere” (Mondadori, 2015) è il manifesto dei nati tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, «vaso di coccio tra due generazioni di ferro, i nativi dell’ideologia e i nativi della tecnologia», i quarantenni che traggono da questa debolezza la loro forza: i Sorrentino, i Renzi e i Saviano, e già, c’è anche lui, l’irregolare scrittore diventato il nemico del popolo nel raduno dell’ex stazione fiorentina. La generazione Renzi raccolta da Christian Rocca, direttore di “IL”, il mensile del “Sole 24-Ore” in “Non si può tornare indietro” (Marsilio, 2015), in cui si ritrovano toni forse perfino più renziani dell’originale che ha in odio qualsiasi ideologia, compresa eventualmente la sua. C’è anche questo, la difficoltà per gli intellettuali di professione di interloquire con un leader pragmatico, compiutamente post, impossibile da incasellare in una definizione. Che per di più si agita su un terreno di gioco, il confine della politica nazionale, con sempre minore significato. In Francia gli intellettuali litigano e si dividono tra mondialisti e identitari. In Italia il balcone è vuoto, come nell’ultima scena di “Habemus papam”. Forse per questo Moretti è confuso. E anche gli altri non stanno tanto bene.

Abbiamo tanto bisogno di un Cesare Beccaria. "L'arte della ricchezza" di Carlo Scognamiglio Pasini svela il lato "economico" del grande giurista e filosofo, scrive Vittorio Feltri Martedì 29/12/2015 su “Il Giornale”. Ho letto un libro su Cesare Beccaria (1738-1794) da cui ho imparato che cosa è Milano, e che cosa potrebbe diventare anche adesso, se ascoltasse lo spirito illuminista che dorme in qualche posto della sua testa, forse intorpidito dalle polveri sottili della scemenza. Lo ha scritto Carlo Scognamiglio Pasini, il quale è uno dei pochi ad avere due cognomi ben spesi, e lo dimostra anche stavolta. Questo volume, che ha la densità di un testo accademico e la prosa avvincente di un Bertrand Russell, propone la genialità di Beccaria immersa nella vita intellettuale e politica e persino pettegola della Milano del Settecento, a me assolutamente sconosciuta ed invece attualissima, ma ripropone anche la figura di Scognamiglio che avrebbe molto da dire alla storia di questa città, questo però lo vedremo dopo. Il libro si intitola L'arte della ricchezza. Cesare Beccaria economista (Mondadori Università, pagg. 328, euro 22). Beccaria è famoso giustamente come autore di Dei delitti e delle pene. Lo finì che aveva 26 anni. Era il massimo che si potesse scrivere e pensare sul tema, ed ha fama mondiale. Sono 85 pagine d'oro. Ed infatti in Italia lo si cita, ma l'idea illuministica di giustizia che intesse quelle pagine arricchisce le biblioteche e i convegni ma non la pratica dei tribunali e delle carceri. Scognamiglio va oltre. Che successe a Beccaria dopo quel capolavoro? A ventisei anni, Beccaria smise di fare il giurista, e provò a trasferire i principî illuministici che aveva attinto dai francesi Voltaire ed Helvetius e dagli inglesi Locke e Hume all'economia e al pensiero sociale. Nessuno cita alcun'altra opera di lui, salvo che negli ambienti dei dotti. Eppure, ci fa sapere il professore già presidente del Senato, oltre che giurista, il marchese Beccaria è considerato uno dei massimi economisti della storia, e non da autori avvezzi al campanilismo nostrano, ma da luminari come Joseph Schumpeter. Nella personale classifica di Scognamiglio, che vede ai primi posti appaiati Adam Smith e John Maynard Keynes, il nonno di Manzoni (tale fu Beccaria) viene subito dopo. Aveva capito tutto. E cioè, anticipando Smith, aveva compreso che la ricchezza delle nazioni non sta nel patrimonio che consente rendite anche cospicue, ma nel lavoro, nella capacità di movimentare i commerci. Insomma: Beccaria è stato un grande pensatore liberale. Liberale e milanese. Liberale e lombardo. Aveva capito anche che la questione della «moneta» è essenziale. La teoria monetaria non è qualcosa di incomprensibile, ma uno strumento per dare ricchezza e felicità a tutti. Espose le sue teorie in lezioni di economia politica destinate ai futuri funzionari dello Stato di Milano (un governatorato all'interno dell'impero austriaco, con circa un milione e trecentomila abitanti). Le sue tesi, gradite a Vienna, che voleva la prosperità dei popoli governati nei suoi confini, erano invece piuttosto invise ai patrizi milanesi, che tenevano molto a caste e corporazioni, di cui erano l'emblema. Dovette mollare la cattedra, e non poté o non volle pubblicare il libro che raccoglieva le sue lezioni di docente non ancora trentenne. Uscirono dieci anni dopo la sua morte, nel 1804. Pare che non amasse le grane, del resto, quando per gioco gli chiesero cosa avrebbe voluto scrivere sulla sua tomba, compitò in latino: Vitam minus ambitiose Quam Tranquille vixit (Visse la vita tranquillamente, senza alte ambizioni). Non è che non fece nulla: scrisse opere filosofiche e di scienza. Fece il burocrate dell'amministrazione dello Stato, scrisse moltissime disposizioni, e fece star bene il popolo lombardo. Aveva infatti questa idea del bene comune come compito dell'attività politica e di governo: «La condotta migliore è quella che permette di raggiungere la massima felicità per il maggior numero di persone». Qui non ho nessuna intenzione di esporre le tesi rivoluzionarie di Beccaria riscoperte da Scognamiglio: le sciuperei. Mi limito a descrivere l'ambiente dove sono nate. Milano a quel tempo era una fucina di idee, una culla di vita geniale. I giovinotti dopo studi severi dai barnabiti e dai gesuiti, magari uscivano piuttosto atei o poco cattolici, ma sapevano forgiare il progetto di mondi nuovi. Si trovavano a leggere e a commentare le opere nuove che arrivavano dalle università inglesi o dai circoli parigini. Dei delitti e delle pene non germinò da studi solitari ma dall'appartenere insieme all'Accademia dei pugni, dove c'erano i fratelli Verri, capeggiati dal maggiore di loro e capo della combriccola, Pietro, Luigi Lambertenghi, Giambattista Biffi, l'Abate Longo. Non disdegnavano le ragazze, talvolta vere e proprie ninfe, che portavano idee, leggevano e discutevano Shakespeare e Rousseau, Voltaire e Hume. Beccaria era considerato un genio matematico e poetico, fu vittima di dileggi come uomo pigro, Verri si dilettò con la di lui moglie, circolavano pettegolezzi, e formule algebriche. A Parigi questa brigata era rinomata, Beccaria era conteso da Caterina di Russia che lo voleva come consulente. Milano è questa cosa qui. E questi intellettuali (da cui nacque il famoso Caffè) non erano ricamatori di follie o di astrazioni, ma non erano neanche gli utopisti francesi delle ghigliottine o del comunismo come Marx, che tante morti hanno causato, ma riformatori, sburocratizzatori, al servizio del benessere semplice del pragmatismo lombardo. Milano però era un piccolo Stato per nulla indipendente, l'Italia non esisteva, era frantumata, il laboratorio milanese non contagiò la penisola. La caratteristica di questa cultura dell'illuminismo milanese, che Scognamiglio racconta come un'avventura di teste e di sentimenti, è che teneva insieme scienza e umanesimo. Ciò che è stata poi la caratteristica anche del Politecnico di Carlo Cattaneo e delle sue idee federaliste...Dicevo di Scognamiglio. Come Beccaria, è di una grande famiglia milanese, ha condotto alti studi, ha inventato l'economia industriale in Italia portandola qui dalla London School of Economics and Political Science. Ha trasformato la Luiss da piccola università locale a faro europeo. Poi ha avuto il torto di entrare in politica. Il suo guaio è che sopra di lui non c'era Maria Teresa d'Austria. La Milano che racconta, quella di Beccaria e Verri, dei giovani che amavano la matematica e le belle donne, il lavoro e i pensieri guardando la Madonnina; quella Milano è la sua, in fondo è lui. A suo tempo, chiamato dopo il disastro di Tassan Din, risanò finanziariamente e politicamente il Corriere, insediando Piero Ostellino come direttore. Riassunse anche me. Ma dei danni che ho fatto, nessuno gliene faccia una colpa.

Ma quanto si chiacchiera di politica nel mondo dello spettacolo. Nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatranti, scrive Angiola Codacci-Pisanelli il 29 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Per un Nanni Moretti che sceglie il silenzio, ci sono mille personaggi del mondo dello spettacolo che non perdono occasione per «dire qualcosa di sinistra». Tanto che nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatranti appena scesi dal mitico Carro di Tespi, quello che secondo Orazio segnò la nascita dello spettacolo. «Se davvero l’Italia sta ripartendo io vorrei sapere dove va», ha detto Valerio Mastandrea presentando al festival di Torino “La felicità è un sistema complesso”, dove interpreta un cacciatore di teste che spinge le aziende verso la chiusura. Una stoccata all’ottimismo di tante dichiarazioni, slogan e hashtag renziani che non arriva come una sorpresa da parte dell’attore romano, da sempre in prima linea nel difendere centri sociali o occupazioni in nome della cultura, dal Teatro Valle al Cinema America. In prima linea contro il berlusconismo, oggi gli intellettuali tacciono imbarazzati di fronte al giovane premier. E lasciano il monopolio della critica alla generazione dei “vecchi”. In molte di queste battaglie lo affianca Elio Germano, che l’anno scorso ha salutato con il pugno chiuso presentando “Il giovane favoloso” alla Mostra di Venezia. Quest’anno proprio dal red carpet veneziano partiva un’iniziativa molto “di sinistra”, la “Marcia degli Scalzi” che ha coinvolto migliaia di persone e 60 città italiane per solidarietà con i migranti. Con Mastandrea e Germano, ad appoggiare l’iniziativa c’erano anche Jasmine Trinca, Ettore Scola e Marco Bellocchio. Ma la trasferta veneziana non inganni: lo zoccolo duro cinematografaro della sinistra critica è radicato a Roma. È partito da qui l’appello «contro la pratica dell’utero in affitto» che ha fatto tanto scalpore proprio perché visto come un attacco da sinistra al progetto di legge sulle unioni civili. Tra i 120 firmatari ci sono Stefania Sandrelli, Giovanni Soldati, Fabrizio Gifuni, Claudia Gerini, Cristina Comencini, Claudio Amendola, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Micaela Ramazzotti...La mappa della Roma impegnata nei mesi scorsi si è allargata: alla Garbatella di Mastandrea e al Pigneto di Germano si è aggiunta Trastevere con Alessandro Gassmann. Del resto, a far esplodere il protagonismo degli attori è stata anche la vicenda Marino. In piena crisi Gassmann, con il suo invito ai romani a smettere di lamentarsi e rimboccarsi le maniche per ripulire la città, è stato uno dei primi a spingere per un appoggio concreto e quotidiano a una giunta impantanata nel tentativo di affrontare i problemi più grandi, dalla mega-discarica alla corruzione al buco di bilancio. Quando poi la vicenda è finita con la decisione clamorosa del Pd di trascinare consiglieri propri e dell’opposizione a firmare dimissioni irrevocabili davanti a un notaio, tra le voci che si sono alzate quelle degli uomini di spettacolo sono state le prime e le più forti, se non le sole. Con Nicola Piovani che scrive a “Repubblica” («Non è sospetto il linciaggio mediatico subito da Marino?»), Gassmann che rimpiange il sindaco via Twitter («Saluto Ignazio Marino nel momento in cui non lo saluta nessuno») e Sabrina Ferilli che promette: «Se ritira le dimissioni ballo il tango per una notte intera». Lei che ha presentato anche il suo film “Io & Lei” come una scossa al governo sul tema dei diritti dei gay: «Certo che è un film politico. Perché qui abbiamo a che fare con la rivendicazione dei diritti di persone alle quali non viene riconosciuto il fatto di essere coppia, il matrimonio o la possibilità di assistere il proprio compagno in ospedale». Non ha niente a che vedere con Roma, invece, l’impegno diToni Servillo, che si è speso per i lavoratori di Pomigliano d’Arco. «Non è assistenza sociale, ma è condivisione e solidarietà», ha spiegato presentando il reading “Toni Servillo legge Napoli”, del 31 ottobre scorso: l’intero incasso è andato a un fondo di solidarietà per disoccupati, precari e cassintegrati. Una presa di posizione “di sinistra” basata sui fatti e non sulle parole. Del resto, come ha detto Mastandrea proprio all’“Espresso” nell’agosto del 2013, in un’intervista molto critica sul governo del momento, quello di Enrico Letta: «Non sono mica un intellettuale: dico le cose che penso e che mi escono spontanee». Ecco: prima pensare, poi parlare “spontaneamente”, senza calcoli e retropensieri. La prima cosa forse gli intellettuali di sinistra la sanno fare ancora, ma è la seconda che proprio non gli viene più.

COSA NON VORREMMO PIU' VEDERE IN TV.

Cara tv, ecco chi e cosa non vorremmo più rivedere. Dalle infinite prodezze di Matteo Salvini nei talk show alle risate tristissime di "Colorado" e simili. Passando per Balivo, D'Urso e il solito Vespa, senza dimenticare la litania dei talent all'ennesima edizione. Manuale spiccio di ciò che è il caso di lasciarsi alle spalle, scrive Riccardo Bocca il 28 dicembre 2015 su “L’Espresso”. L'immagine è estrema, spiazzante, definitiva. Sconcertante in un certo senso. Al centro della tele-scena, tornando con il pensiero al 15 novembre, troviamo madame Barbara D'Urso. Nel cuore di Parigi due giorni prima è esploso l'inferno. Cellule terroristiche hanno seminato per la città il cancro del panico e della morte di ragazzi incolpevoli. L'Europa s'interroga sul suo presente e futuro incerti. Ovunque, all'estero, prevalgono il cordoglio e l'analisi. Mentre in Italia non sempre è la lucidità a prevalere; e non, in particolare, sotto i riflettori di Mediaset, dove la mattatrice dello Speciale-Strage è la titolare in cattedra di “Domenica Live”. Colei che nel curriculum personale ed emozionale vanta, accanto a una serie di show evitabili, un'inesauribile collezione di smorfie e super smack al pubblico. La strada (poco) maestra che le garantisce in automatico empatia e ascolti. Dunque eccola, l'anchor-trash di casa Berlusconi, che con il piglio delle occasioni speciali si rivolge così ad Angelino Alfano, capo del Viminale e ospite in collegamento: «Ciao ministro!». E ancora: «Sai bene, ministro, che nel Paese c'è grande allerta...». E ancora ancora: «Ho la possibilità di averti in diretta, spiegaci: dobbiamo avere paura? E cosa farà il governo, per evitare che abbiamo paura?». Non è stato soltanto il funerale del buongusto e della professionalità, quel cicaleccio a base di “tu” e confidenza esondante: a questo, in effetti, già si era abituati. È stato, invece, il crollo dell'ultimo mattone di un muro: quello che fino a lì aveva diviso il contenitore delle somme tragedie da quello delle somme farse. Mai il barnum di uno show basato sul flusso delle Romine e Al Bani, di parenti di Alberto Sordi in conflitto furente per l'eredità e di altri mille protagonisti del pop nostrano, si era elevato a interprete di emergenze transnazionali. E dunque ora che è fine dicembre, ripensando a quella giornata, e apparecchiando il tavolo delle aspettative per il 2016, l'augurio da porgere ai televedenti è quello che tanta pochezza resti nel passato, e non torni a palesarsi nei mesi a venire. D'altronde un tempo - antico, in bianco e nero e da un pezzo svanito nel nulla - si usava a fine anno scrivere articoli sul meglio della tv in arrivo. Usanza che oggi induce al sollazzo e alla consapevolezza che la necessità è mutata. Nel senso che la domanda chiave, adesso, corre in direzione opposta, e consiste nell'interrogarsi su cosa si spera con tutta l'anima di non rivedere nella stagione entrante. Quesito, va detto, tutt'altro che elementare. Perché il problema di base non sta nella singola trasmissione, o nel dettaglio di una certa sera per via di un certo conduttore. Il vero guaio, invece, consiste nella bugia più scaltra mai messa in circolazione: cioè che i vertici delle principali televisioni abbiano fame e smania di produrre programmi di qualità, aggiornando in sincrono il panorama dell'immaginario pubblico. Un maremoto di retorica dietro al quale spunta una verità più sincera e triste; che consiste, senza sforzi di fantasia, nel fatto che l'unico impegno effettivo è quello di restare a galla. A qualsiasi costo. Con qualunque formula e artificio. Persino spacciando al pianeta Terra il prossimo ritorno del “Rischiatutto” ad opera di Fabio Fazio, non come un ammicco strategico al club della nostalgia, ma quale nobile omaggio al grande Mike Bongiorno. Che buio feroce. Che avvilimento cronico. Siamo qui tutti armati di pinne, fucile ed occhiali (visto che anche la neve, a questo punto, è utopia) per tuffarci nel 2016, e nella mente spuntano i tele-momenti che vorremmo cancellare per sempre. Penso ad esempio, tra i brividi, al cumulo delle ospitate concesse a Matteo Salvini e alle sue geofelpe: in apparenza scelta dei talk show per testimoniare l'ascesa dell'onda destroide, ma in sostanza scorciatoia per acquisire share. Come quando in video, anche nel 2015, è apparsa in loop Daniela Santanchè, e pareva quasi d'udire sottotraccia il gaudio degli autori causa ascolti sicuri. Per non parlare della serata in cui Corrado Formigli, maestro di inchieste e reportage sul campo, forse mosso da invidie per le vette raggiunte dalla "Quinta colonna" deldebbica e "La gabbia" paragonica, ha scolpito su La7 i limiti di “Piazzapulita” lasciando che il direttore Mario Giordano e il filosofante Massimo Cacciari si scannassero in allegria. «Mai più nel 2016!», è il coro che tutti dovremmo intonare sotto l'albero, sperando che il bambinello intanto non si turbi nel presepe accanto. E mai più, anche, sull'altro lato del video-grottesco, vorrei ridere - anzi in effetti non ridere, ma stranirmi in preda a rigetto da telecomando - per la sfilata degli show a base di risate a cottimo. Quelli, per essere affettuosamente chiaro, che hanno avuto come padre e madre lo “Zelig” di Canale 5, killer dell'umorismo inteso quale elaborazione creativa, e paladini invece di uno sghignazzo precox maturato nell'arco di tre minuti di sketch. Show come “Colorado”, insomma, di cui nessuna mancanza sentiremmo, e che ancora insistono a occupare il telespazio italico con la furbesca scusa che «Sai, i giovani... a loro piace questa roba... e poi fa premio sempre la semplicità». C'è la speranza vera, concreta, che tutto questo diventi merce da archivio, e non prospettiva cronica per l'anno e gli anni entranti? Posso chiedere, con la dovuta dolcezza e garbo, di affidare a Caterina Balivo la conduzione di un adventure-game sull'Everest (tempo di lavorazione: dieci, quindici anni minimo) per non rischiare nel 2016 di ritrovarla su Raidue alla guida di un altro “Monte Bianco”? E soprattutto: c'è qualcosa che si può fare e scrivere per arginare il presenzialismo di Bruno Vespa, anche quest'anno premio Massimo Imbarazzo con la puntata di “Porta a Porta” sul clan Casamonica, e la promozione - questa sì, davvero porta a porta e trasmissione a trasmissione - del suo tradizionale exploit saggistico? Temo che la risposta più onesta sia composta dal matrimonio tra la lettera “n” e la sorella “o”. Inutile sperare che il Meglio trionfi, o perlomeno che il Peggio si faccia da parte. Inutile pure sperare che i mandanti del “Grande Fratello”, mossi da tardivo rimorso, la smettano di recludere giovani umani nella Casa di Canale 5. Tale e tanta è l'attenzione ai nuovi standard tecnologici, e ai prossimi equilibri tra le multi-piattaforme, che ai colossi stanchi della tv generalista è sfuggito un dettaglio: quello non secondario dei contenuti e di chi dovrebbe realizzarli in azienda. Flop-format dopo flop-format, “Processo del lunedì” biscardiano dopo “Processo del lunedì” varialesco, telequiz dopo telequiz, Sanremo dopo Sanremo, Bonolis dopo Bonolis o Costanzo dopo Costanzo (per il 2015 addirittura in versione duplex: conduttore su Retequattro del salotto omonimo e direttore artistico per Raiuno di “Domenica in”), l'unico futuro spendibile resta nelle mani delle migliori serie: di norma americane, ma anche europee ed italiche (da “Gomorra” a “1992”, premiando l'impegno Sky). E queste sì che vorrei ancora (ri)vederle nel 2016. Perché protette dall'ambiguità del falso, per definizione hard business del ramo, riescono ancora ad azzannare la realtà. Sempre meglio dell'ennesima edizione delle padelle-glam di “Masterchef”, in corso con l'aggiunta del barbacuoco Cannavacciuolo, o della progressiva plastificazione del miracolo (tele)visivo di “X Factor”: lunare, in quanto a produzione e classe, ma privo del coraggio indispensabile per trasformarsi da forma a sostanza.

Considerazioni di Riccardo Bocca saccenti e comuniste?

Arbore: “Il comunismo è stato un bluff”. Intervista del 28/12/2015 di Francesco Sala su “Il Giornale”.

Nato a Roma il 16 settembre 73, regista, autore di teatro e tv, consulente artistico per diversi teatri di produzione. Ha collaborato con il teatro Carcano di Milano, ass. “la terza isola di Ivrea” fondazione Olivetti, teatro dell'Orologio e Brancaccio di Roma. Docente di recitazione presso l'accademia La Fonderia delle arti di Roma. Ha tenuto dei corsi tecnici come docente di istituzioni di regia presso il DAMS Roma Tre. Copywriter freelance. Ha lavorato in Rai, Mediaset, Sky. Scrive su Il Giornale Off.

Proprio nel trentennale di “Quelli della Notte” e nel suo cinquantennale di carriera, celebrato con una mostra al Macro Testaccio-La Pelanda di Roma, Renzo Arbore si racconta ai lettori di OFF. Cognome: Arbore. Nome: Giovanni Lorenzo. Disc-jockey, autore, regista, sceneggiatore, attore, showman, clarinettista. In una parola: artista. La sua casa romana è una specie di Vittoriale Pop, traboccante di ninnoli, carillon che suonano, foto epiche con dediche, libri, vinili; è luminosa e colorata come lui. Abbiamo parlato di tutto: musica, improvvisazione, televisione, poesia, donne, arte e orto: “Come sono difficili le melanzane, vanno aiutate a crescere. I pomodori invece danno molte soddisfazioni”. Abbiamo mantenuto il “lei” istituzionale a fatica.

Chi è un artista?

«Secondo me l’artista ha un tassello in più dello scienziato, che è già il massimo della scala. Il vero artista è un signore fuori ordinanza. Ha un vantaggio rispetto agli altri mestieri: non è razionale. L’artista sfugge alle regole. Fontana fa uno squarcio sulla tela ed è artista come Modugno che canta Lu pisci spada. E siccome siamo in un’epoca di rottamazione voglio dire: l’artista è longevo! Quando sento: “Questo lo rottamiamo, ha fatto il suo corso”, ebbene caro Renzi, Presidente del Consiglio, nel mondo artistico non esiste la rottamazione. Io ho imparato dagli artisti più vecchi di me: Roberto Murolo, Louis Armstrong, Totò, Charlie Parker, Ruggero Orlando. Erano tutti più vecchi di me e sono stati tutti miei maestri. Ancora oggi io guardo al passato. È un arricchimento spirituale, di sapienza, saggezza. In arte non esiste vecchiaia. Alcuni sono spenti e vabbè…»

Il principale problema dell’artista è quello di essere accettato. Da figlio di un medico e di una casalinga, com’è nata a Foggia la sua passione per la musica?

«Foggia è la città di Umberto Giordano. C’era una banda e tutto il pubblico, tutta la gente di Foggia era melomane. I negozi avevano l’altoparlante e si sentiva musica da tutte le parti. La città di Foggia nel’43 è stata severamente bombardata. Tutti i muratori che ricostruivano la città, cantavano. Io sentivo musica da tutte le parti. Mio padre era melomane, mia madre cantava le canzoni napoletane, mia sorella era soprano. Quando io ho sentito il Jazz ho capito che era molto più importante della canzonetta. Comprai una tromba, poi l’ho ceduta in cambio di un clarinetto. Frequentavo un circolo che si chiamava Tre Bis. Ti puoi immaginare il Tre Bis a Foggia! C’erano gli artisti della mia città. Io ho sempre pensato: “Voglio fare l’artista, non voglio essere un figlio di papà con l’Alfa Romeo”. Prima abbiamo fondato il Jazz College e poi la Taverna del Gufo, un Cabaret dove venivano scritturati Roberto Benigni, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Enrico Montesano, Pippo Franco… io suonavo il clarinetto, facevo Dixieland».

È vero che è stato il primo a mettere i jeans a Foggia?

«Sì. Io ero molto appassionato delle mode americane. Sono sempre stato filoamericano. Ero uno di quei ragazzini che chiedevano le gomme americane ai soldati alleati. Appena arrivati a Napoli, i jeans, li ho presi e portati a Foggia. Mio padre diceva: “Cosa sono questi, pantaloni da elettricista? Senza la piega!”»

Suo padre non aveva tutti i torti. Lei canterà poi… Mannaggia a sti’ blue jeans!

«Le lotte con i jeans stretti, molto più difficili da sfilare rispetto alle gonne per le ragazze».

Si ricorda il primo amore?

«E certo. Non si scorda mai davvero. Mi ha fatto soffrire ed è giusto che sia così. Mi ha dato un carattere sentimentale, appassionato. Sono le emozioni che ti dà la vita. Guai a non avere avuto dolori. Sarei un pirla come molti credono che io sia… (ridiamo)»

Nei testi delle canzoni napoletane ci sono molti amori non corrisposti. Un suo amore non corrisposto?

«Ci sono stati amori non corrisposti con donne non famose. I testi delle canzoni napoletane poi, sono i testi più belli del mondo, più poetici del mondo. Soltanto in Messico ci sono testi altrettanto poetici. Le canzoni spagnole che conosciamo, non sono né spagnole, né cubane, sono messicane! PalomaLa storia di un amor, ecc… quando parlo con dei veri appassionati di canzoni napoletane, mi commuovo e mi delizio. Non si trovano giovani artisti che amano ancora la vera canzone napoletana. Chi canta oggi le canzoni napoletane antiche, d’autore anzi? Chi? Tra i giovani? Il discorso potrebbe riguardare l’intera canzone italiana. Io amo molto Francesco De Gregori, un vero poeta di ricordi, di emozioni. Oggi le canzoni le usano i giornalisti. Mi tocca leggere Scalfari che titola: Fatti più in là! Gaber, Endrigo, testi meravigliosi che andrebbero studiati a scuola».

È cambiata Napoli? Io sono romanticamente ancorato a De Filippo, ma c’è ancora la Napoli di Eduardo?

«Napoli è cambiata, ma c’è ancora la Napoli che dici tu. Di Napoli si parla solo in senso negativo. C’è la borghesia napoletana che purtroppo è silente. La borghesia napoletana è ancora un’ottima borghesia: educata, elegante, frequenta i teatri, però prende le distanze dalla Napoli eduardiana, non ne parla. C’è stata una generazione -ne ho parlato con Raffaele La Capria – di grandi borghesi: Rosi, Patroni Griffi… un’altra generazione che si è opposta alla Napoli laurina, pittoresca, ecco che ha dominato una cultura egemone della controreazione. Egemonia, a Napoli specialmente, egemonia culturale dei comunisti!»

Ancora dicono: “Non ci piace o’ presepe!”

«Sì. Qualcuno ha pure detto che Eduardo era piccolo borghese, ma ti rendi conto? La Napoli per loro, per essere verace, deve essere quella della merda, della povertà, della periferia e della suburra. C’è, ma c’è anche Salvatore Di Giacomo! Ecco di Di Giacomo, questi qui, non ne vogliono sentir parlare».

Parliamo di donne se non le dispiace. Lei ha affinato negli anni, una tecnica di seduzione?

«A parte gli amori grandi, di cui non voglio parlare perché mi commuovo, ho avuto dei grandi intervalli. Naturalmente venivo corteggiato da aspiranti modelle. Quando non c’era colloquio tra me e una bellissima ragazza fotomodella friulana, il mio amico Luciano De Crescenzo risolveva parlando lui e sfiniva quella poveretta friulana che non si interessava alle sue avventure di guerra. Io mi rendevo conto della noia di dovermi sciroppare i suoi racconti o i miei di repertorio.

De Crescenzo ha dichiarato: “Il sesso? Fatica tanta, piacere breve, la posizione è ridicola”.

«(risata contagiosa) È vero. La posizione è ridicola. Con De Crescenzo abbiamo parlato molto di sesso…»

La nostra testata si chiama OFF. Un racconto Off a riguardo?

«Lo sai come ci siamo conosciuti con Luciano De Crescenzo? Avevamo una fidanzatina in comune. Una furbacchiona che manteneva i contatti tra me che stavo a Sorrento, e lui che stava a Napoli. Il bello è che non lo sapevamo! Lo scoprimmo dopo e diventammo amici! Cosa vuoi, con l’età si diventa più esigenti. Se c’è un incoraggiamento da parte loro, va bene… il feeling intellettuale però è importantissimo. La fotomodella friulana non va al cinema, a teatro, non legge, sport niente, musica o politica neanche a parlarne. Arrampicarsi per cercare una conversazione minima è triste. Con la fotomodella poi non c’è neanche la gastronomia. Non mangiano la parmigiana di melanzane… Io le friulane le adoro, intendiamoci, la mia bambinaia era friulana. La mia prima canzone era in friulano, ma la fotomodella no, per favore!»

La canzone Io faccio o’show a chi era dedicata?

«A una ragazza con cui ho avuto un breve ma succoso amore. E veramente l’ho scritta in dieci minuti… con questa ragazza, della quale ero innamorato, andai a una festa di amici, e come succedeva sempre, usciva fuori una chitarra e si cantava e beveva. Questa ragazza a fine serata fa una sfuriata al mio migliore amico, mi rimprovera di aver fatto o’ show! La mattina dopo chiamo Claudio Mattone e gli racconto tutto. Lui mi fa :” Vediamoci subito!” A casa mia in dieci minuti è uscita Io faccio o’ show! È autentica».

Come ha vissuto Renzo Arbore gli anni della contestazione del Sessantotto?

«Dolorosamente. Avevo amici sessantottini. Io non condividevo. Ero stato a Berlino Est. Avevo visto la differenza. Le chiacchiere sul comunismo non mi convincevano per niente. Il comunismo è stato un bluff! Raccontavano palle! Gli artisti che arrivavano in Russia, in Unione Sovietica, raccontavano di repressione, censura. Io sono sempre partito dalla libertà. Sopra il mio letto c’è un ritratto di Abramo Lincoln. Confesso di essere a-comunista. Poi nel’68 ho sofferto molto per le morti di poliziotti e magistrati. Quando ho fatto Speciale per voi c’erano tutti i ragazzi divisi in categorie ideologiche di sinistra: i Sanbabilini…ecc, in tribù».

È una domanda che ho fatto anche a Boncompagni: come vedevano i dirigenti Rai le vostre improvvisazioni?

«Bisognava dare il copione. Ad Alto gradimento lo abbiamo eliminato! Siamo riusciti a dire: “Noi il copione non lo possiamo fare!”. I funzionari non volevano, ma noi facevamo le cassette che poi mandavamo alla Siae».

È nata prima Domenica in o L’Altra domenica?

«Ecco bravo. È nata prima L’Altra domenica. Domenica In è nata per contrastare il successo nostro. Hanno visto che c’era una trasmissione che intratteneva il pubblico, dalle due di pomeriggio alle otto, nella prima edizione io e Barendson con Sport e Spettacolo. Abbiamo litigato col Tg2 che si mangiava le nostre cose e abbiamo fatto la trasmissione dalle due alle cinque e mezza».

Come riconosce i suoi fan?

«Dai capelli! Io per esempio, ti ho individuato subito, persino musicalmente. Vabbè tu sei un caso raro, perché a quarant’anni ami il Jazz, ma la tua generazione è dance music».

Io sono vintage.

«E ho capito, sei anomalo. Ma quello di Bandiera Gialla ha settanta anni! Sono i D’Agostino quelli che si sono formati con Bandiera Gialla e che erano giovani. Tra i sostenitori avevo Renato Zero, la Bertè. Poi ci sono quelli di Alto Gradimento, quelli di DOC come te, quelli di Indietro tutta, vengono tutti ai miei concerti.»

E i detrattori li hai individuati?

«Alcuni intellettuali che ritengono che io sia frivolo come i programmi che ho fatto. C’è un gruppetto di snob che mi identificano soprattutto con Quelli della notte e Indietro tutta che sono le trasmissioni di maggiore evasione. Non mi considerano. Qualcuno pensa che il mio amore per la canzone napoletana sia suggerito da un fatto commerciale, ma si astengono dal parlare in pubblico male di me, perché io sono “beniamino” e quindi ci rimettono. La mia era una missione».

Un altro episodio OFF della tua vita che ti commuove?

«Ho scelto la canzone di Louis Armstrong per il Festival di Sanremo: Mi va di cantare. E quando Ravera mi portò nel suo camerino e disse: “Questo è il ragazzo che ha scelto la tua canzone”, Armstrong mi ha messo la mano sul cuore. Io ancora oggi non ne posso parlare… (Renzo prende un fazzoletto) Poi Totò. Sono stato una giornata intera sotto la sua casa, il giorno che Totò è morto. Ero con la mia Cinquecento, ho fatto il giro del palazzo, del quartiere, ma non ho avuto il coraggio di vederlo, di salire. Il mio cruccio di tutta una vita: non ho avuto il coraggio di salire per dare l’ultimo saluto a Totò».

E Ruggero Orlando?

«Con Ruggero eravamo amici. Ha fatto una scena nel mio Pap’occhio. Io ero timido, dovevo parlare alla radio e lui era il mio idolo di giornalismo televisivo. Con Ruggero ho superato la timidezza. All’epoca della contestazione, noi avevamo la passione per l’America e ci parlavamo all’orecchio: “Ruggé, ma tu hai capito questi che stanno dicendo?”»

Federico Fellini?

«A lui era piaciuto moltissimo Pap’occhio. Per il secondo film abbiamo litigato. Poi abbiamo fatto pace. Mi ha scritto una lettera bellissima. La fantasia di Fellini!»

Nei suoi programmi il telespettatore è invitato a casa sua, alla sua festa, partecipando attivamente alle vostre goliardate. Non c’è separazione fra lo schermo e la vita reale. Sembra di stare con voi.

«La parola goliardia va riletta. C’è la buona e la cattiva. In Quelli della notte era Jazz, totalmente improvvisata. Aveva la liturgia del jazz. Tema, tonalità, Pazzaglia: trombone, una jam session».

Un ricordo di Massimo Catalano e le sue massime?

«Ecco Massimo era un jazzista. Tutte le domeniche veniva a suonare a casa mia e si divertiva a giocare. Lui suonava con i Flippers, Vianello, Siamo i Vatussi…Spiritoso, carino, educato. Pensa che dal primo bacio fino alla fine dei suoi giorni, è stato sempre con la moglie. Sempre insieme. Un tuffo al cuore quando lo rivedo in televisione. La “catalanata” l’ho suggerita io. Le ovvietà che si dicono nelle interviste su qualsiasi cosa, elette a sistema. E così nacque la “catalanata”».

Indietro Tutta. Io ero pazzo di Miss Nord. Ma chi era la più bella?

«Difficile. Erano davvero tutte belle. Noi volevamo ragazze della porta accanto. Naturalmente Maria Grazia Cucinotta giovanissima, bellissima e serissima, era una delle più belle perché era l’emblema: la ragazza che avresti voluto sposare».

L’invenzione del Cacao Meravigliao! Mi ricordo un cartello da Castroni (nota caffetteria romana, n.d.r): “Non vendiamo il Cacao Meravigliao!”

«Tutti torturavano Castroni. Quella fu un’intuizione. Indietro tutta è stata la satira contro la televisione anni Ottanta/Novanta. Il pericolo era: “La televisione la fate voi, da dove chiama?”. Lo sponsor che è il dominus attraverso la pubblicità. Lo sponsor decideva addirittura le ragazze di Fantastico di Celentano! Metteva bocca sulla qualità dello spettacolo. Allora il Cacao Meravigliao…»

Uno poi s’è messo a produrlo…

«Abbiamo vinto la causa contro un libanese che aveva depositato il marchio. Noi l’avevamo inventato ma non lo depositammo».

Non le chiederò di Mariangela Melato…

«La ferita è aperta e sanguinante. Prima o poi parlerò di lei. Mariangela è stata la più grande. Ha fatto sì il cinema, ma ha fatto tutto il Teatro! Le altre grandi attrici non lo hanno fatto. Basta mettere in fila i titoli».

È ancora Radicale?

«Sono stato Radicale. Parto da Il Mondo di Mario Pannunzio, Ennio Flaiano, Nicolò Carandini. Mi leggevo tutti i giornali di partito cercando un’identità: La TribunaLa Voce RepubblicanaMondo NuovoLa Discussione. I socialdemocratici mi erano simpatici. Ma io resto kennediano!»

Dove ti piace passare le vacanze, se le fai?

«Da bambino andavo a Riccione, dalla nonna bolognese. Poi a Pescara, Francavilla, sul Gargano… adesso mi piace la bellezza di Ischia. Saranno i bagni caldi, i nove comuni, la cucina napoletana… Ischia!

Convivi con i selfie dei tuoi ammiratori?

«Mammamia! Una volta un fan di Caserta Sud voleva una foto con me alla toilette. “Come scusi, al bagno?” “Devo dire a mia moglie che ho fatto pipì con Renzo Arbore!”. Il pompiere di servizio a teatro che ti abbraccia mentre stai per entrare in scena e vuole farsi il selfie! Io però non posso rifiutarmi».

Ultima domanda: lo stesso giochino che ho fatto con Gianni Boncompagni. Arbore presidente assoluto della Tv. Che farebbe?

«Io non sono come Boncompagni. Gianni dice il peggio della tv ma c’è un piccolo particolare: non la vede. Io la vedo. Ha bisogno di creatività. Non c’è creatività. Noi che siamo il Paese del gusto, della fantasia, abbiamo delegato a format olandesi».

Con chi ti piace scherzare, improvvisare oggi?

«Con Gegé Telesforo. È un jazzista. Abbiamo un repertorio formidabile. Con Gegé non riesco a fare una telefonata normale. Proviamo a chiamarlo?»

ANCHE IO ERO OFF, al telefono con RENZO ARBORE, intervista di Bruno Giurato.

Si ricorda un episodio OFF divertente o imbarazzante dell’inizio della sua carriera?

«Ne ho avuti tanti, perché ho una vita fortunatamente lunga. Ricordo quando suonavo per gli americani, per esempio, a Napoli, per la United States Organization, che è un’organizzazione fantastica di assistenza ai militari americani. Il mio pianista non sapeva l’inglese e siccome i nostri ospiti ci chiedevano i pezzi americani, gli avevo detto: “Devi dire sing the melody, canta la melodia. Così tu capisci che pezzo è, e lo facciamo. E ci danno anche una mancia in dollari”. Che poi era un dollaro, non di più. E una volta trovai questo pianista che si accaniva contro un nero altissimo e continuava a dirgli “Sing the melody, sing the melody…”, allora andammo a vedere e il nero aveva chiesto al pianista dov’era la toilette: “Where is the restroom?” e lui gli diceva: “Sing the melody”! Lì nacque la mia passione per gli Stati Uniti d’America».

Lei che strumenti suonava?

«Suonavo un contrabbasso a tre corde, cantavo le canzoni americane e strimpellavo il clarinetto. Ero alle prime armi col clarinetto, però eravamo un gruppo di appassionati di jazz, io facevo parte del Circolo Napoletano del Jazz, e quindi eravamo invitati anche a Bagnoli, alla Nato, a sentire la Fitzgerald, Louis Armstrong, o David Brubeck. La passione del jazz c’era da quando avevo 14 anni, ma lì ho consolidato la mia conoscenza. E adesso sono presidente dell’Umbria Jazz Festival. Devo dirlo: noi sminuiamo sempre le cose belle, invece Umbria Jazz Festival è probabilmente il più bel jazz festival del mondo. Sono andato a quasi tutti, e i migliori jazzisti del mondo vengono a Perugia e d’inverno a Orvieto. La bellezza dell’Umbria, di Perugia, di Orvieto, ma anche delle altre location, fanno di questo festival il più ambito: tutti vogliono venire ad appuntarsi la medaglietta per aver suonato all’Umbria Jazz».

Ed è anche un festival che conserva ancora elementi di sperimentazione e non si è piegato completamente alle logiche del pop…

«Facciamo pochissimo pop, per catturare il pubblico, ma pop di qualità. Per esempio, quest’estate verrà Doctor John, il pianista blues. Abbiamo ospitato Tony Bennett, Gaetano Veloso, che non sono veramente jazz. Però, anche le enciclopedie del jazz comprendono Frank Sinatra e Tony Bennett e Ben Goldberg, pure se fanno o hanno fatto canzoni. Erano canzoni talmente di qualità e di classe che erano molto vicini allo swing e allo spirito del jazz».

Torniamo un attimo al discorso di Napoli. Lei, studente universitario e appassionato di jazz…

«Lo scorso giugno andò in onda un programma mio e di Raffaele La Capria, il grandissimo scrittore, adesso novantenne. Parliamo proprio della sua Napoli – la Napoli della generazione precedente alla mia, quando a Palazzo Donn’Anna c’erano Antonio Ghirelli, Franco Rosi e tutti gli altri suoi amici – e della Napoli successiva, quando c’erano ancora gli americani, e io andai a studiare Giurisprudenza. Un programma bellissimo, perché è fatto da Fabrizio Corallo, che è un regista straordinario e ha trovato un sacco di documenti dell’epoca, meravigliosi».

Lei ha inventato una sorta di sintesi straordinaria: da una parte c’è, se vogliamo, l’atteggiamento goliardico dello studente universitario, dall’altra l’improvvisazione, oltre che improvvisazione musicale anche improvvisazione della parola. La miscela è esplosa alla radio con “Bandiera Gialla”e “Alto Gradimento”. Si riconosce in questo?

«Devo essere grato proprio alla musica e alla mia passione per il jazz. Se non avessi apprezzato subito questa caratteristica del jazz che è l’improvvisazione, che mi ha affascinato moltissimo, probabilmente io e Boncompagni non saremmo stati i primi ad adottare il linguaggio parlato e improvvisato alla radio… addirittura consegnavamo alla SIAE le registrazioni invece che i copioni, perché non scrivevamo e quindi facevamo prima la trasmissione e poi come documento consegnavamo le musicassette. Purtroppo molte sono andate perdute. La devo proprio al jazz, l’improvvisazione, quella caratteristica che poi ho continuato a perseguire alla televisione… e anche in genere adesso, come stiamo facendo noi! Lo dico solo per il pubblico di OFF: le conversazioni di “Quelli della notte” venivano decise esattamente dieci minuti prima della messa in onda. Questo lo testimoniano tutti i protagonisti, da Marisa Laurito a Nino Frassica. Perché non ci si preparasse prima e ci si divertisse veramente e autenticamente a inventare delle stupidaggini».

Però in quel momento potevano nascere anche delle cose un po’ particolari che uscivano fuori dai binari… è vero che all’epoca de “L’altra domenica” ci furono addirittura dei brigatisti che pensarono di telefonarvi?

«Sì, l’ho saputo in ritardo. Per la verità, quando per la prima volta io misi il telefono a disposizione del pubblico – non era mai successo, nemmeno in America, il “da dove chiama?”, cioè che si potesse chiamare la televisione direttamente da casa. Lo facevano solo le primissime radio private – quando io con Ugo Porcelli ci inventammo questa cosa, naturalmente pensai che accanto alle telefonate dei concorrenti potessero arrivare delle cose di questo tipo. Domandai ad Andrea Barbato: “Se succede una cosa del genere, mi dici che debbo fare?” e lui mi rispose: “Lasciali parlare”. Questa era la decisione presa dal TG2, il programma dipendeva dal TG e dalla rete. Poi ho saputo sia da un giornale sia personalmente, parlando con una persona dentro, che avevano approfittato di questo numero 3139 per fare dei programmi, naturalmente non trovando la linea libera perché fin dalla prima volta che telefonavano migliaia di persone».

Lei è un grandissimo improvvisatore… ma il suo amico Luciano De Crescenzo dice “Arbore è un misto tra un genio e un dittatore”. È vero?

«Dittatore proprio no! È strano che Luciano l’abbia detto, perché lui sa benissimo che il mio atteggiamento è proprio contrario alla dittatura. Io dico “facciamo così” con sicurezza, perché per esempio ai personaggi che ho inventato ho dato personalità, quindi per dare una personalità a Passaglia, che ne aveva una sua, per dare una personalità a Catalano, o per dare personalità a Marisa Laurito, che non fosse quella dell’attrice ma quella della cugina, dovevo imporre una certa linea. Era un insegnamento. In genere, tutto ciò che ho fatto scaturiva da un mio colloquio amichevole con i protagonisti. Perfino nei film con Roberto Benigni, io lo caricavo, lo massaggiavo, gli dicevo: “Allora, puoi dire questo, puoi dire quest’altro… se vuoi”. Proprio era la mancanza di dittatura che li stimolava, erano suggerimenti, non c’era la paura di doversi ricordare questo o quell’altro. Mai dire: “Tu devi dire esattamente così”. Se me lo dicono, per esempio nel cinema, io non lo so fare. E infatti come attore sono abbastanza cane».

Quindi, libertà di cazzeggio come libertà creativa. Lei ha fatto nascere tantissimi talenti: Catalano, Gegè, Antonio e Marcella, Bracardi, Benigni, che abbiamo nominato prima, Frassica, D’Agostino… Per esempio, D’Agostino si aspettava che poi diventasse arbiter diciamo elegantiarum, lui direbbe cafonalarum, della società?

«Beh, diventare arbiter elegantiarum era il suo destino. Lui bazzicava moltissimo la società, soprattutto i giovani, faceva il dj, quindi sapeva tutto. Se volevi sapere qual era il locale in – la parola è brutta – del momento, telefonavi a D’Ago, e lui ti diceva: “Vai lì al Testaccio, c’è questa cosa” però da quello a diventare un grandissimo spione, nel senso buono perché Dagospia è la sua rubrica dove suggerisce cose, estrapola articoli e informa lui stesso, io non mi aspettavo che lo sapesse fare in maniera così… sapiente, diciamo. Perché lo fa con grande cognizione di causa. Si può abbracciare o meno qualche sua teoria, però Roberto è certamente molto attento».

A Sanremo nel 2014 ha detto: “Ho conosciuto Antonello Falqui, che ha fatto la TV classica, ed Enzo Trapani che ha fatto l’altra TV”. E invece dopo? Il nulla? Lei ha detto che la TV di oggi è una TV paracula: conferma?

«Eh beh, certo. È una TV asservita completamente all’Auditel. Ho letto il saggio di MarioVargas Llosa sulla società dello spettacolo: questo premio Nobel sostiene proprio che alla fine la TV è diventata un’industria, e quindi ha perso le caratteristiche vagamente artistiche che aveva prima. La televisione, quando l’abbiamo fatta noi, ma soprattutto quando la faceva Falqui, e anche tanti registi straordinari dell’epoca, si basava sul fare una cosa bella vagamente artistica, vagamente vicina al mondo del cinema. Non sarà stata arte cinematografica, ma certe opere sono rimaste televisivamente legate al mondo dell’arte. Adesso la definizione “TV d’arte” è riservata solo a qualche canale un po’ così: ce n’è un po’, diluita nelle reti, ma bisogna proprio andarla a catturare. Ma questo succede anche in America, non è una cosa solo italiana. E poi soprattutto per accontentare l’Auditel, che è diventato il dittatore supremo di quello che succede in televisione per ragioni commerciali giustificatissime, ma comunque economiche, si fanno anche, come si dice a Roma, le peggio cose. Il pubblico dovrebbe essere presente alle riunioni di redazione dei programmi, quando si decide: “chiamiamo questa ragazza perché fa vedere le gambe… chiamiamo questo perché si arrabbia… chiamiamo questo perché si arrabbia con quello che si arrabbia… chiamiamo questo perché è il re del gossip…”. Tutto è fatto in funzione dell’ascolto mattutino del giorno dopo».

Una cosa che però lei è riuscito a fare è stata portare la musica in TV con un programma poco conosciuto che è durato molto, ed era in una fascia un po’ particolare, come Doc…

«Sono molto contento che me lo ricordi, perché Doc è stato un programma fondamentale. C’è un archivio che ha la Rai, preziosissimo, perché sono 400 puntate in cui sono venuti tutti, da Miles Davies A Enzo Iannacci. Da Francesco De Gregori nel pieno della sua creatività a Joe Cocker, o James Brown o Dizzy Gillespie. Pochi sanno che io, siccome in qualche maniera mi diverto a pensare al futuro, non al passato, facevo registrare agli artisti, oltre che le cinque performance che poi andavano in onda dal lunedì al venerdì, anche quaranta minuti in più che rimanevano nell’archivio della Rai. Quindi ci sono 40 minuti di Miles Davies, mai visti, mai utilizzati, che stanno lì. Adesso poi forse c’è tutto il problema dei diritti, ma sarebbe bello magari che qualcuno andasse a scoprire. Quello è stato un periodo straordinario per la musica: c’era già stata la rivoluzione del rock, il jazz era diventato fusion, era un periodo di grande creatività. Adesso diciamo che ci stiamo godendo i postumi di questo periodo».

È da un bel po’ che non va in televisione e non fa più dei programmi. Si vedrebbe in un programma televisivo? Come se lo immagina? Ci sono speranze di vederla? E se non ci fossero, cosa le piacerebbe fare?

«Io adesso ho un canale, renzoarborechannel.tv, che per adesso è un po’ silente e di repertorio soprattutto mio, anche recente. Cioè, se vado a fare come è successo una serata ad Alba e a parlare con Fabio Fazio nelle Langhe, io lo registro e poi lo si vede in questo canale. Così con la mia orchestra, se vado a fare qualche concerto particolare, oppure un po’ di cazzeggio incontrando Gigi Proietti. Accanto al repertorio recente e anche antico mio, poi ci sono delle cose che secondo me il pubblico dovrebbe vedere: credo che la mission di uno della mia età sia far capire ai ragazzi che accanto a questi epigoni di Drive-In ci sono i classici che non si possono ignorare. Da Totò, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Walter Chiari… le basi. Fortunatamente, c’è la rete che secondo me è un dono della provvidenza, e rapidamente informa chi vuole essere informato delle cose che sono fondamentali del passato per poter fare il futuro. Anche musicale. Io sto dedicandomi, adesso lo farò con maggiore sollecitudine, a questo renzoarborechannel.tv, poi vedremo se ne scaturirà qualche programma curioso. Sto esplorando, diciamo. Poi, per la verità, i programmi come quelli di un tempo sono difficili da farsi perché non ci sono più improvvisatori. È rimasto Nino Frassica e qualche altro con cui ho già lavorato, ma di nuovi talenti che improvvisano spericolatamente come facevamo noi non ce ne sono. Io li cerco, vengono a trovarmi alcuni che vengono ai miei concerti, e io mi diverto a improvvisare con l’Orchestra Italiana. Chi venisse a vedere un concerto, capirà che non è solo musica, ma anche cazzeggio con i miei musicisti».

Però qualcuno mi sembra che ci sia, per esempio Zalone è un ottimo musicista e anche un bravo performer. Lei cosa ne pensa?

«È ottimo, Checco Zalone, anche lui mi chiese di collaborare, però quando gli chiesi se improvvisava, lui disse: “Purtroppo no, io scrivo”. È una scuola rispettabilissima, ma è come dire che un cantante pop come Eros Ramazzotti è un musicista di jazz. Sono due cose differenti, il cantante pop non sa improvvisare una canzone che non conosce, il jazzista lo fa. Si ritorna sempre a questa storia del jazz… Per dirla in soldoni, i jazzisti se tu gli dici di suonare una canzone napoletana lo fanno subito, Bollani gli dici “fammi Ohi Marì”, lui l’ha sentita una volta e la fa. Male, in maniera jazzistica, benissimo, però la fa. Il musicista classico, il musicista che ha studiato, quello che viene dal conservatorio, no. Se non ha lo spartito non riesce a farla».

Una curiosità, che ne pensa di trasmissioni tipo X-Factor, oppure The Voice of Italy, le sembrano interessanti?

«Mi sembrano interessanti perché in qualche maniera vengono fuori dei talenti, e quindi sono una promozione per artisti in erba. Alcuni diventano grandi, altri vivono solo una stagione. Però, certamente mi piacerebbe che accanto ai cantanti – cantanti, cantanti, cantanti – fossero premiati anche musicisti. Talenti di altro tipo… quindi, perché no? Chitarristi, clarinettisti, pianisti… ma anche di altre discipline artistiche».

Un po’ di tempo fa, ha detto che Renzi è uno sfrucugliatore, uno che scombina le carte e la liturgia politica. È questo ancora il giudizio o l’ha rivisto? Cosa ne pensa?

«Sì, sta sparigliando, sta scombussolando tutta la situazione insieme con Grillo. Insieme con tutti, perché mi sembra che la situazione sia proprio questa, ognuno spariglia».

Ma nessuno costruisce…

«Per adesso sparigliano, poi si vedrà».

COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.

Come ti costruisco una bufala sul web. Il segreto della viralità dei falsi su internet si annida su Facebook. Perché qui si tende a fare amicizia con persone simili a noi che fruiscono i nostri stessi contenuti. Con i like che ne attirano altri succede che alcuni post palesemente farlocchi finiscano per acquistare un successo sorprendente. Le bugie diventano verità, i fake soggetti reali. Per un motivo che gli esperti ci spiegano in modo scientifico, scrive Rosita Rijtano su “la Repubblica”. Per trovare mondi paralleli non bisogna andare lontano, nessun viaggio intergalattico: basta accendere il pc, collegarsi alla Rete, e aprire Facebook, dove coesistono diversi universi destinati a non incontrarsi mai (o quasi) e popolati da utenti con gli stessi interessi, le stesse paure, la stessa dieta mediatica. Ed è qui, nella presunta genesi di microcosmi digitali, che - secondo alcuni studiosi - si nasconderebbe il segreto della viralità delle burle internettiane. "Le bufale si diffondono tanto, e velocemente, semplicemente perché sulla rete sociale tendiamo a fare amicizia con persone simili a noi, che fruiscono i nostri stessi contenuti", spiega Walter Quattrociocchi, informatico, coordinatore del Laboratory of Computational social science dell'IMT di Lucca. Un like tira l'altro, insomma: questa sarebbe la formula magica, la chiave che ci permetterebbe di capire perché alcuni post, anche se palesemente farlocchi, hanno molto successo sul social network di Mark Zuckerberg. Prevedibile, forse. Un conto però è la teoria, un altro paio di maniche è la dimostrazione matematica, scientifica. Quattrociocchi sostiene di averla fatta in un nuovo studio, dal titolo "Viral Misinformation: The role of Homophily and Polarization" (tradotto come  "Disinformazione virale: il ruolo dell'omofilia e della polarizzazione", vedi glossario), condotto con altri sette ricercatori, dislocati in diverse università italiane, e che Repubblica.it ha potuto visionare in anteprima.

Complottisti vs scienziati. Bisogna fare un paio di necessarie premesse. Il paper affonda le sue radici in diversi lavori precedenti. Sempre targati IMT. "Una trilogia del complotto", l'ha definita Fabio Chiusi su Wired. Dove il team ha, di volta in volta, vivisezionato le abitudini di milioni di italiani sulla piattaforma di Menlo Park, in base al modo in cui si informano sul social (se fanno riferimento ai media classici, o a dei siti scientifici, o a quelli di informazione non tradizionale), per arrivare a interessanti conclusioni. Non solo, per l'appunto, che su Facebook "chi si somiglia si piglia". Ma anche che "le varie categorie di utenti, da noi prese in esame, interagiscono molto poco tra loro", spiega Quattrociocchi, "e quando lo fanno litigano, si insultano, ognuno resta della sua idea, poco importa se sia giusta o sbagliata". Non solo: "Appassionati di scienza e complottisti, cioè quegli internauti che si informano su pagine definite alternative, dedicano alle diverse news che leggono la stessa quantità di attenzione, tutto indipendentemente dalla qualità dell'informazione, e persino dalla sua veridicità, perciò le notizie false hanno la stessa rilevanza delle notizie vere". Negli ultimi giorni dell'anno è tempo di bilanci anche per gli scherzi. A ripercorrere le bufale del 2014 è il Washington Post, che grazie alla classifica delle parole più ricercate su Google, fa un quadro delle notizie che hanno ingannato milioni di utenti. A guadagnarsi lo scettro è Jasmine Tridevil, vero nome Alisha Jasmine Hessler. La 21enne della Florida lo scorso settembre è balzata all'onore delle cronache dopo aver rivelato di aver speso circa 20 mila euro per sottoporsi a un'operazione chirurgica per l'aggiunta di un terzo seno, con l'obiettivo di diventare famosa e partecipare a un reality. In realtà si trattava di una protesi mobile, servita per realizzare l'autoscatto diventato virale in poco tempo. A tradirla è stata una denuncia di furto fatta presso il Tampa International Airport, dove tra gli oggetti rubati spuntava anche un 3 breast prosthesis. La bufala è servita comunque da trampolino e Alisha ha recentemente registrato la sua prima canzone. Tra le altre bufale dell'anno anche il video virale della ragazza ubriaca a Los Angeles, esperimento sociale rivelatosi poi finto; l'uomo che si è salvato dall'attacco di un orso grazie alla suoneria del telefonino e le immancabili ''morti annunciate'' di personaggi famosi diffuse sui social network. Ecco alcune delle notizie false che hanno fatto discutere (e persino ridere) nei mesi scorsi.

Al secondo posto la minaccia di un hacker a Emma Watson che prometteva di pubblicare sul sito emmayouarenext.com le foto dell'attrice nuda, presa di mira per il suo accorato discorso contro le differenze di genere e gli stereotipi sulle donne fatto davanti alle Nazioni Unite. Il sito 4chan era stato indicato subito come responsabile delle minacce, ma in realtà la bacheca che aveva diffuso le immagini osé delle attrici rubate dai loro 'cloud', in questo caso, non aveva colpa. Le minacce erano in realtà una trovata pubblicitaria dell'agenzia di marketing virale Rantic che con questa bufala ha generato oltre 48 milioni di contatti sul web, 7 milioni di condivisioni e "mi piace" su Facebook e 3 milioni di menzioni su Twitter.

La medaglia di bronzo va al video girato dalla sconosciuta Stephen Zhang Production chiamato "esperimento sociale", in cui una ragazza finge di essere ubriaca e si aggira barcollando per la più famosa strada del quartiere di Hollywood a Los Angeles facendosi avvicinare da molti ragazzi per dimostrare quali sono le reazioni degli uomini in una situazione del genere. Il video pubblicato sul web in pochissimo tempo ha guadagnato milioni di visualizzazioni, scatenando i commenti degli utenti. Peccato che il regista, tale Stephen Zhang, avesse in realtà allenato gli uomini a recitare.

La misteriosa bandiera bianca comparsa la scorsa estate sul ponte di Brooklyn sembrava essere frutto di una mossa dei ciclisti, in una ipotetica battaglia contro i pedoni. La notizia, rivelatasi poi falsa, era stata diffusa via Twitter, sull'account BicycleLobby. In realtà, si trattava di un blitz rivendicato da due artisti tedeschi, intenti a celebrare il ponte come spazio pubblico.

Nella lista c'è anche l'incredibile storia di un uomo che si è salvato dall'attacco di un orso in Russia, grazie alla suoneria telefonica 'Baby' di Justin Bieber impostata sul cellulare.

La notizia della ''Miracle Machine'' che può trasformare l'acqua in vino. Il marchingegno in realtà non esiste, ma si è trattato di un'operazione di lancio per finanziare il progetto di una ONG che ha come obiettivo quello di portare acqua potabile nei paesi bisognosi. La bravata ha raggiunto comunque il suo scopo: grazie al video, le donazioni sono aumentate del 20%.

Passando dall'America alla Russia, si è rivelato falso anche il video postato su Twitter dalla slittinista statunitense Kate Hansen che mostrava un lupo grigio senza collare aggirarsi liberamente nel corridoio del suo hotel, nel parco olimpico dei Giochi di Sochi (in realtà si trattava di una messinscena, realizzata in uno studio di Los Angeles).

E di un montaggio video si è trattato anche nel caso del filmato diffuso su YouTube all'inizio di agosto che mostrava il presidente russo Vladimir Putin colpito da escrementi di uccello durante il discorso tenuto in occasione del centenario della Prima guerra mondiale.

Nella classifica non potevano poi mancare i sei giorni di buio totale che avrebbe dovuto attraversare la Terra tra il 16 e il 22 dicembre. Un articolo pubblicato dal sito satirico Huzlers.com annunciava l'arrivo imminente di una tempesta solare, che avrebbe bloccato il 90% della luce solare con polvere e detriti. La notizia, che tra l'altro citava come fonte direttamente la Nasa, è diventata virale e a fine ottobre l'agenzia spaziale americana ha dovuto rilasciare una smentita ufficiale.

Infine, chiudono la classifica la morte di Betty White e Macaulay Culkin . In realtà entrambi stanno molto bene: White, che si sta avvicinando il suo 93esimo compleanno, è ancora in tv con la sitcom "Hot in Cleveland", mentre il protagonista di ''Mamma ho perso l'aereo'' è in tour con la sua band Pizza Underground.

Negli ultimi giorni dell'anno è tempo di bilanci anche per gli scherzi. A ripercorrere le bufale del 2014 è il Washington Post, che grazie alla classifica delle parole più ricercate su Google, fa un quadro delle notizie che hanno ingannato milioni di utenti. A guadagnarsi lo scettro è Jasmine Tridevil, vero nome Alisha Jasmine Hessler. La 21enne della Florida lo scorso settembre è balzata all'onore delle cronache dopo aver rivelato di aver speso circa 20 mila euro per sottoporsi a un'operazione chirurgica per l'aggiunta di un terzo seno, con l'obiettivo di diventare famosa e partecipare a un reality.

In realtà si trattava di una protesi mobile, servita per realizzare l'autoscatto diventato virale in poco tempo. A tradirla è stata una denuncia di furto fatta presso il Tampa International Airport, dove tra gli oggetti rubati spuntava anche un 3 breast prosthesis. La bufala è servita comunque da trampolino e Alisha ha recentemente registrato la sua prima canzone.

Tra le altre bufale dell'anno anche il video virale della ragazza ubriaca a Los Angeles, esperimento sociale rivelatosi poi finto; l'uomo che si è salvato dall'attacco di un orso grazie alla suoneria del telefonino e le immancabili ''morti annunciate'' di personaggi famosi diffuse sui social network. Ecco alcune delle notizie false che hanno fatto discutere (e persino ridere) nei mesi scorsi.

E chi, fra gli utenti, ha più probabilità di scambiare la bufala, o la satira, per un fatto reale?, è la successiva domanda quasi obbligatoria. Il ricercatore non ha dubbi: "Osservando i contenuti a cui è generalmente esposto chi la condivide,  troviamo i fan delle pagine di controinformazione, cioè di notizie difficili da verificare. Esempi: Lo Sai, Vaccini e Basta o Coscienza Sveglia". Se siamo disposti a fare un passo in più, in un altro paper che - anche in questo caso - abbiamo avuto in preview, Quattrociocchi & Co. suggeriscono la fede politica di molti "creduloni" digitali. "Questa tipologia di utenti scrive il 27,13 per cento dei commenti che ci sono sulla pagina di Beppe Grillo", chiosa il ricercatore. Insomma, stando ai lavori del gruppo IMT, seppur con tutti i dubbi che può lasciare un'analisi non generalizzabile, limitata a un solo Paese e a determinate tipologie di alimentazione digitale, ci comportiamo così sulla rete sociale più popolare al mondo. Che conta 1 miliardo e 350 milioni di iscritti. Una bordata per chi sostiene che internet sia necessariamente il luogo dell'intelligenza collettiva.

Bufale virali: il ruolo di omofilia e polarizzazione. Ma come, queste dinamiche relazionali, influiscono sulla diffusione pervasiva della disinformazione? Ed ecco che si arriva al nuovo studio, un monitoraggio spalmato nell'arco di 4 anni, e diviso in due fasi. Nella prima gli informatici hanno analizzato post e like di 73 pagine aperte in Italia sul network firmato Zuckerberg: 34 scientifiche (Science & Co.), e 39 cospirazioniste (Lo Sai & Co.). "Così", prosegue Quattrociocchi, "siamo riusciti a inquadrare come si comportano 1,2 milioni di utenti nostrani (su 25 milioni di utenti attivi al giorno, secondo i dati che ci ha fornito un portavoce di Facebook ndr), e a stabilire matematicamente che il numero di "Mi piace" su un determinato post è direttamente collegato all'omofilia, cioè al numero di amici che consumano lo stesso tipo di contenuto". In concreto: più il fake è condiviso da persone che conosciamo, e più aumentano le possibilità di essere contagiati dalla burla a nostra volta. Mentre nulla contano hub e influencer, anzi: la probabilità di trovarne uno diminuisce all'aumentare della viralità della news. Per il secondo step, invece, la lente del team ha zoomato su 4,709 annunci fasulli, messi in circolazione da due pagine satiriche: "Semplicemente Me" e "Simply Humans". Bufale, ma considerate vere dai naviganti. Spiega l'informatico: "Sono state tutte ripubblicate da utenti molto polarizzati, cioè in media con circa l'80 per cento di like su fonti di informazione complottarda, difficili da controllare. Trovato uno, trovati tutti. Perché, grazie all'omofilia, possiamo individuare con esattezza la rete di amicizia di ognuno di loro".

Il problema non è il mezzo: "Manca una preparazione scientifica". "Un lavoro impostato su un'interessante mole di dati", commenta David Lazer, professore alla Northeastern University, e uno dei papà della Computational social science, la disciplina che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. "Ma non sappiamo niente di ciò che succede al di fuori del social network preso in esame, cioè di Facebook, come per esempio nelle mailing list". Lo stesso concetto di disinformazione - secondo Lazer - è troppo vasto per poter esser ben inquadrato. Aggiunge: "Ciò che è disinformazione per uno, può essere informazione per qualcun altro. Si tratta, del resto, di un fenomeno che esiste da sempre. Per cui sarebbe più interessante chiederci: quanto internet e i social network lo agevolano rispetto ai media tradizionali?". Trovare una risposta è difficile. Certo, sul web le bufale si diffondono velocemente. "La disinformazione digitale" è "uno dei principali rischi della società moderna", ha ammonito il report 2013 del World Economic Forum. E dalla piattaforma di Menlo Park passa una fetta sempre più consistente delle news che mastichiamo ogni giorno. Ma è anche vero che, quando e se vogliamo, possiamo ottenere la news più corretta e completa. Con lo stesso click. Con lo stesso strumento. Con la stessa velocità. Per Rosaria Conte, scienziata cognitiva e vice presidente del Consiglio scientifico del Cnr, il problema quindi non è il mezzo, "ma la mancanza di una preparazione scientifica da parte di chi fornisce, e fruisce, le notizie". Conclude: "A essere virali non sono tanto le bufale, ma le informazioni non verificate, e la loro conseguente accettazione acritica, un atteggiamento da abbandonare". In questo mondo. Come in un altro, parallelo.

"L'informazione è un fenomeno di contagio sociale", ne è convinto Alessandro Vespignani, fisico, ed esperto di modelli previsionali delle epidemie. Quarantanove anni, professore di Physics, Computer Science e Health Science alla Northeastern University, e autore - con Romualdo Pastor Satorras - del libro "Evolution and structure of the Internet". Da anni scandaglia la Rete. Con un obiettivo: studiare la diffusione delle malattie. L'abbiamo contatto su Skype per parlare della cosiddetta viralità delle notizie. Secondo Vespignani, ci sono delle somiglianze tra le pandemie e il modo in cui circola una bufala online, ma anche delle notevoli differenze. Che affondano le loro radici nel contesto sociale in cui viviamo, cioè nella nostra rete di relazioni quotidiane. Reali e virtuali. "Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso", avverte. Perciò è difficile prevedere, e analizzare, le sue dinamiche. È, quindi, giusto parlare di intelligenza collettiva quando si parla di Internet? O, forse, sarebbe più appropriata la definizione di ignoranza collettiva?, lo provochiamo. Replica: "Sono due facce della stessa medaglia".

Dottor Vespignani, secondo lei la circolazione sul web delle notizie false può essere equiparata a un'epidemia?

"Di sicuro tutto ciò che è informazione è un fenomeno di contagio sociale. Solo che in questo caso a passare di persona in persona non è un virus, o un patogeno. Ma un concetto, che si diffonde di testa in testa. Così, nel momento in cui recepisco alcune informazioni dai mie amici e comincio a ripeterle, è come se fossi stato infettato. E infettassi gli altri a mia volta. Ci sono, ovviamente, anche delle grandissime differenze con il mondo biologico. Dove a difenderci dai virus è il nostro sistema immunitario. Quando parliamo di informazione, invece, il mondo esterno ha un forte effetto sulle probabilità di contagio. E se la notizia a cui siamo esposti arriva da un amico, da una persona di cui ci fidiamo, o che ha i nostri stessi interessi, potrebbe avere un peso maggiore. Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso".

È quindi, possibile prevedere, dove, quanto e quando si diffonderà una cosiddetta bufala?

"Prima di tutto bisogna capire che cos'è una bufala, o che cos'è la disinformazione. In alcuni casi, l'interrogativo viene risolto guardando all'informazione in maniera banale. In altri, la differenza è più sottile.  Quindi, comprendere qual è la percezione del mondo rispetto a una determinata notizia, può risultare complesso. Una capacità predizionale in questo campo mi sembra che ancora non sia di portata immediata. Non solo perché dobbiamo risolvere un problema concettuale, stabilire - appunto - che cosa sia disinformazione e che cosa no. Ma anche perché dobbiamo avere una dettagliata mappatura di tutto lo spazio sociale in cui la bufala si diffonde: le persone con cui parlo al telefono, con cui parlo di persona, con cui interagisco su Facebook e così via. Per tanto tempo è stato del tutto impossibile, solo di recente sono stati fatti dei grandi passi avanti. Grazie allo sviluppo di nuove tecnologie, anche pervasive, che monitorano i social network e non solo".

Secondo alcuni studi, i social network, e in particolare Facebook, sono un terreno particolarmente fertile per la circolazione di informazioni fasulle. Qual è la sua opinione?

"Credo che internet sia un'enorme rete di conoscenza. Un'enorme rete di comunicazione che ha effetti molto positivi sul nostro modo di vivere, conoscere, e comunicare. Allo stesso tempo, però, crea un'orizzontalizzazione del sapere. Cioè, mettendo qualsiasi cosa a disposizione di tutti, fa credere a chiunque di poter masticare ogni informazione in modo efficace. Purtroppo non è vero. A volte ci vogliono anni di studi per capire determinate notizie. E discriminare quale sia l'informazione corretta e quale no. Per fare un paragone: è come se ci trovassimo in un grande bazar, dove è possibile incappare anche nella cosiddetta sòla. Perché, così come non tutti siamo esperti di tappeti, allo stesso modo non tutti siamo in grado di leggere un saggio politico, o un paper scientifico. Io, ad esempio, non mi sognerei mai di voler pilotare un aereo solo perché ho letto un articolo sull'argomento".

Intelligenza collettiva o ignoranza collettiva?

"Purtroppo una è lo specchio dell'altra. L'intelligenza collettiva esiste. E internet ne è una sua faccia. Può diventare ignoranza collettiva nel momento in cui la disinformazione si diffonde sulla Rete. Perciò è importante continuare a stabilire una scala dei valori. E, in qualche modo, ognuno di noi non deve farsi abbindolare dall'idea che l'informazione su internet sia automaticamente accessibile e veritiera. Un po' la lezione che abbiamo già imparato con i media tradizionali, insomma".

Quanto sarebbe, invece, importante una corretta informazione? Ci sono dei modi per veicolarla meglio e per evitare di diffondere, a nostra volta, notizie false?

"Una domanda da un milione di dollari. Saper distinguere l'informazione corretta e veicolarla nel modo giusto è, ovviamente, la cosa più importante del mondo. Che cosa bisogna fare? Bisogna diventare più furbi e attenti. I dati, le verifiche: sono importanti. Ma non è da meno l'onestà intellettuale. Tutti noi abbiamo una particolare visione del mondo, di cui cerchiamo conferme. E in Rete si può trovare la conferma di qualsiasi cosa, quindi bisogna stare attenti ai valori reali. Si tratta di una presa di coscienza necessaria per evitare di aprire un grande conflitto tra l'età dell'intelligenza collettiva e quella che lei definiva, invece, età dell'ignoranza collettiva. Quest'ultima può portare a fenomeni catastrofici. Cambiare grandi vittorie della società e trasformarle in sconfitte. Un fenomeno che purtroppo si verifica già oggi, quando si parla di scienza: in certi campi si rischia di tornare indietro di decine di anni".

È il diciassette dicembre 2012 quando su Facebook si diffonde un messaggio: "Ieri il Senato della Repubblica ha approvato con 257 voti a favore e 165 astenuti il disegno di legge del senatore Cirenga che prevede la nascita del fondo per i parlamentari in crisi creato in vista dell'imminente fine legislatura". In che cosa consiste? "Uno stanziamento di 134 miliardi di euro da destinarsi a tutti i deputati che non troveranno lavoro nell'anno successivo alla fine del mandato. E questo quando in Italia i malati di SLA sono costretti a pagarsi da soli le cure". Conclusione: "Rifletti e fai girare". Segue un'ondata d'indignazione: sono più di trentaseimila le condivisioni in poche ore. Un putiferio. Con tanto di petizione online per fermare "questo scempio", come si legge in uno dei 958 commenti al post. Peccato che l'annuncio sia falso. Per accorgersene basta fare un rapido calcolo, dare un'occhiata a qualche dettaglio, prestare attenzione alla didascalia della foto. Il numero dei voti non combacia con i senatori eletti in Parlamento: 422 contro 315. La somma stanziata è superiore al 10 per cento del Pil italiano. Inoltre, a commento dell'immagine, i naviganti sono persino avvisati: si tratta di "un'immane boiata", si legge. Ciò non impedisce all'informazione di diventare virale, e di essere considerata vera, anzi. "Nei giorni successivi c'è stata una gara tra alcuni blog per riprendere, modificare e ripubblicare la notizia", racconta Dino Ballerini, la mente che ha architettato lo scherzo. "Secondo una ricerca, tra post originale e successive repliche, la bufala è stata condivisa da circa due milioni di persone. Un italiano su trenta". Per la prima volta, Ballerini confessa a Repubblica.it: "Sono stato io a inventare la notizia". Tutto durante una pausa pranzo. "Ero stufo di vedere condivise tante stupidaggini". Così, dopo aver redatto il testo di legge, l'ha messo in circolazione sulla pagina "Semplicemente Me", una fan page creata grazie all'incontro virtuale con due troll: Rettiliana Illuminata e Paride Rampicante. Che non ha alcun intento pedagogico. "Oggi la nostra unica motivazione sociale è mettere in luce la carenza di senso critico da parte delle persone. Ma è stata una scoperta che abbiamo fatto successivamente. Lo scopo iniziale era solo quello di divertirci alle spalle dei creduloni, senza ottenere alcun vantaggio economico, ovviamente". Ci sono riusciti? "Pensa: qualcuno, ogni tanto, continua a scrivere sulla bacheca del senatore Cirenga: Vergogna", ride.

False notizie. Dalle tecnologia alla scienza: tutti i tipi di bufale. La storia delle false notizie online segue di pari passo la storia di internet. Un sottobosco di frottole: ha avuto origine con la Rete stessa, e riguarda i campi più disparati. Dall'ambiente alla medicina. Tra passato e presente. Risale al 1997 la leggenda secondo cui Bill Gates regala dei soldi a chi fa girare una email relativa a un test di Microsoft. Mai successo. Il 9 giugno 2014 l'Università di Reading annuncia che un software sviluppato dai suoi ricercatori ha passato il test di Alan Turing. La notizia rimbalza su testate nazionali e internazionali. Il risultato è messo in dubbio il giorno successivo. Qualcuno, come il sito americano Hoaxes.org, prova a tenere traccia degli inganni "on the net". Paolo Attivissimo, giornalista, che si auto definisce "cacciatore di bufale", cerca di mettere ordine. Spiega: "Sicuramente tra le bufale più popolari sul web ci sono quelle che riguardano la salute: gli appelli per aiutare le persone malate; o per evitare preoccupanti, quanto inesistenti, malattie. Al secondo posto, metto la tecnologia. Attenti c'è un virus in quel messaggio di posta elettronica; attenti al wi-fi, causa il tumore; attenti a quell'applicazione, dietro si nasconde una banda di pedofili: sono solo alcuni, ma significativi, esempi". A volte si tratta di piccole sciocchezze. Altre, invece, le informazioni prive di fondamento hanno una portata più ampia. "Come la paura per le sostanze cancerogene contenute, secondo alcuni, in determinati alimenti. O per le scie chimiche, che sono diventate persino oggetto di dibattito politico, in quanto sarebbero sostanze tossiche rilasciate nell'aria per il controllo delle menti, o l'avvelenamento della popolazione". Una bufala in volo da almeno 15 anni. Prosegue Attivissimo: "In realtà, si tratta di fenomeni dovuti alla condensazione dell'acqua presente nell'atmosfera, e generati dalla combustione del carburante degli aeroplani. Infine, ci sono gli inviti razzisti. Uno dei più noti parla dei segni lasciati dai nomadi accanto al citofono per dire se una casa deve essere ancora derubata, o meno. Si potrebbe obiettare: la soluzione è semplice, basta indicare che la tua abitazione è già stata svaligiata".

Fake. In alcuni casi i fake sono cronache dell'assurdo. Con lo scopo di fare pubblicità a chi li ha creati. Prendete Jasmine Tridevil, la ragazza che avrebbe pagato 20mila dollari per avere un terzo seno. Il motivo: voleva disgustare gli uomini, per non avere più appuntamenti con l'altro sesso. Si è scoperto, solo dopo che la news era finita su vari tabloid americani e non solo, che in passato la donna era stata accusata di frode. E la storia della chirurgia era un inganno. In altri, invece, la matrice della bugia è più seria. Durante l'ultima campagna elettorale statunitense, ad esempio, un movimento chiamato Sandy Hook Truthers ha cercato in tutti i modi di diffondere tra gli internauti la convinzione che Barack Obama non è nato alle Hawaii, ma in Kenya. E per questo motivo era ineleggibile alla Casa Bianca. A poco è servito pubblicare il certificato di nascita del presidente sul sito della White House. Sulla sua veridicità, e sui presunti natali africani di Obama, negli Stati Uniti si dibatte ancora oggi.

Un capitolo a parte meritano le notizie scientifiche non corrette. Giusto per citarne alcuni temi top: Hiv, correlazione tra vaccini e autismo, staminali. Ma non sono gli unici. Basti pensare: il post più condiviso su "Semplicemente Me" riguarda quella che viene definita "un'evenienza rarissima,  i cinesi la chiamano shu tan tzu che significa anno della gloria e della fortuna". Quale sarebbe? "Quest'anno dopo 5467 anni, ottobre avrà 5 martedì, 5 mercoledì e 5 giovedì". Un fake. Un tipo di disinformazione, quella sulla scienza, a cui contribuiscono, o hanno contribuito, anche esponenti politici. Più o meno ingenuamente. Nel 1998, nel corso dello spettacolo Apocalisse morbida, Beppe Grillo ha definito l'Aids la più "grande bufala di questo secolo", negando che l'Hiv è un virus trasmissibile capace di danneggiare il sistema immunitario. Non solo: ha anche sostenuto che epidemie come poliomielite e difterite sarebbero scomparse anche senza le campagne di vaccinazioni. "Un'affermazione falsa perché gli agenti patogeni non scompaiono nel nulla, solo che non riescono a trovare un ospite da infettare", ha spiegato Giovanni Maga, virologo dell'Istituto di Genetica molecolare del Cnr, a Wired Italia che ha dedicato un articolo a tutte le fandonie del comico genovese.

Che cosa spinge al click? Bufale diverse, quindi, così come sono diverse le molle che fanno scattare la condivisione. E nel futuro? Quale sarà la prossima informazione sbagliata in grado di diventare virale? Risponde Ballerini: "Impossibile programmarle, è questo il bello. Se ci mettessimo a tavolino per studiare lo scherzo perfetto, magari poi sarebbero in due a condividerlo. Non possiamo stabilire in anticipo che cosa tocca realmente nell'intimo le corde di una persona. Si tratta di una serie di fattori x che non riusciamo a comprendere. Un argomento legato all'attualità può di certo favorire, ma anche l'ora di pubblicazione è determinante". Insomma, tanti dubbi, un'unica certezza: "La prossima bufala ci sarà. Sicuramente".

Bloccare la diffusione delle bufale sul nascere è difficile. Ma difendersi si può. Anzi: si deve. E internet offre tutti gli strumenti necessari per farlo, a patto, sia chiaro, che l'internauta sia disposto a cambiare tutte le sue cattive abitudini. "Il miglior modo per proteggersi è modificare il proprio comportamento", spiega Paolo Attivissimo. Lui lo sa bene: da anni gestisce una piattaforma italiana per controllare la veridicità delle notizie, pubblicate sia online sia sui media tradizionali. Una caccia quotidiana alla frottola. Così il suo primo suggerimento è accantonare, in via definitiva, la tendenza comune più deleteria: "Non ne sono sicuro, non posso controllare. Però, nel dubbio, condivido". Continua Attivissimo: "Diffondendo la notizia, anche quando non sappiamo se sia vera o meno, crediamo di fare un favore ai nostri amici. Mentre in realtà alimentiamo solo la disinformazione. Dobbiamo abituarci a non inoltrare nulla, se non abbiamo tempo per verificare. Del resto, basta poco: andare su un motore di ricerca e digitare le parole, o i nomi, che sono contenuti nell'appello; o rivolgersi a un sito antibufale". Una delle novità più rilevanti in questo campo è Emergent.info, un lavoro sviluppato per il Tow Center for Digital Journalism da un giornalista specializzato nella verifica delle fonti: Craig Silverman. Un progetto ancora in fase sperimentale, ma che ha l'obiettivo di diventare una sorta di cane da guardia, grazie a una web app che combina il lavoro di un algoritmo con il fact checking umano. Un sistema capace di monitorare in tempo quasi reale tutto ciò che è discusso quotidianamente sulla Rete, fino ad analizzarne la correttezza e la diffusione. Compresa la capacità di tracciare chi ha smascherato la menzogna e chi, invece, sta solo riportando la notizia originale. L'obiettivo ultimo, scrivono gli ideatori del progetto, è "individuare i modi per aiutare la verità a emergere velocemente e a diffondersi più che in passato". Emergent.info non è il solo, né il primo, sistema che spinge in questa direzione. Gli strumenti recenti fanno per lo più leva sul crowdsourcing, cioè combinano le verifiche fatte da più utenti, per stabilire se l'informazione è falsa oppure vera. Come Rbutr, che funziona grazie a un plugin: scaricandolo sul browser si mettono a disposizione degli altri internauti tutte le nostre conoscenze su un determinato argomento. O Civic Links, la piattaforma della fondazione Ahref, datata 2012. Alcuni hanno messo in piedi un team di persone specializzate nello scoprire le bugie sul web. Citizen Evidence Lab, ad esempio, è il sito con cui Amnesty International aiuta giornalisti e no ad autenticare video su YouTube. E persino Mark Zuckerberg, sul suo social network, ha avvertito l'esigenza di creare qualcosa per vagliare le news: Facebook NewsWire, una sorta di agenzia stampa che è stata lanciata lo scorso aprile e alal quale si è aggiunto recentemente un nuovo strumento di controllo.  Sul fronte portali, uno degli esperimenti più riusciti e antichi d'oltreoceano si chiama Snopes, un database nato nel lontano 1996 per smontare leggende urbane. Mentre in Italia la sorveglianza è affidata ad Attivissimo.net, Hoax.it e Bufale.net, solo per citarne alcuni. Una presenza di cui si sente bisogno in terra digitale? La risposta arriva dai numeri di Bufale.net: "Contiamo", spiega Claudio Michelizza, uno dei cofondatori, "tra le 400 e le 500mila visite al mese, e più di mille articoli". Perché l'estinzione delle bufale è tutt'altro che vicina.

Un glossario per capire:

A come Agenda setting. È la teoria sociologica secondo cui i media precisano e descrivono la realtà su cui formarsi un'opinione. "L'assunto fondamentale dell'agenda-setting", ha scritto l'accademico Donald Shaw, "è che la comprensione che la gente ha di larga parte della realtà sociale è mutuata dai media".

B come bufala o Big Data. L'etimologia della parola è incerta.  Ma la bufala è, in gergo, un'informazione falsa o inverosimile. Si parla, invece, di Big Data quando si fa riferimento alla pachidermica mole di dati che generiamo ogni giorno, soprattutto grazie alle nuove tecnologie: dai computer agli smartphone, passando per carte di credito ed e-reader.

C come Computational Social Science o Cospirazionista. Con l'espressione Computational Social Science si indica un'emergente disciplina accademica che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. Secondo i suoi promotori, la crescente capacità di collezionare e analizzare dati potrebbe rivelarci modelli comportamentali di gruppi e individui. "Con la potenzialità - scrivono i ricercatori nel primo manifesto dedicato alla materia e pubblicato su Science il 6 febbraio 2009 -  di trasformare la comprensione che abbiamo delle nostre vite, delle nostre organizzazioni e delle nostre società". Il cospirazionista, sia online che offline, è colui che crede alle cosiddette "teorie del complotto", cioè quelle che attribuiscono la causa di un evento, o un insieme di eventi, a un accordo segreto.

D come Data Science e Debunking. Data Science è, in generale, la capacità di ricavare conoscenza dai dati. Una possibilità che diventa via via sempre più ricca, grazie ai cosiddetti Big Data. Mentre debunking è un neologismo usato per indicare un individuo che smaschera notizie, informazioni, o affermazioni fasulle. È stato coniato dallo scrittore William Woodward, il quale scrisse che bisognava "tirar fuori il falso dalle cose": "take the bunk out of things".

E come Engagement. Si tratta del numero di like che si possono contare su un determinato contenuto.

F come Fact checking. Il fact checking è semplicemente il controllo dell'informazione che leggiamo online o sui media tradizionali. Internet non è solo uno straordinario strumento per la diffusione delle bufale, ma anche per la verifica delle notizie. Sono, infatti, diverse le piattaforme dedicate a questo scopo. Civic Links; Rbutr; FactCheck.org; Flack Check.org; Attivissimo.net: sono solo alcuni esempi.

G come Grafo o Grado medio. Il grafo è una struttura matematica, studiandola è possibile schematizzare una grande varietà di situazioni e processi: mappe geografiche, reti di amicizie tra persone, aeroporti e voli. Il grado medio indica il numero di amici che un generico utente ha su Facebook.

H come Hub. Nel campo informatico e delle telecomunicazioni l'hub è un nodo che funziona come un dispositivo di rete per lo smistamento dei dati. Quando si parla di social network, con il termine hub si intende - invece - una persona molto centrale nella rete sociale, con un gran numero di amici, attraverso cui è possibile raggiungere molte altre persone. Nelle reti reali gli hub sono pochi e hanno moltissimi collegamenti.

I come Influencer o Intelligenza collettiva. Lo suggerisce la parola stessa: l'influencer è una persona "influente", cioè autorevole nel suo campo. Svolge il ruolo di opinion leader, cioè offre la sua visione su una determinata questione. Un'opinione che poi viene adottata da molti. Che cos'è l'intelligenza collettiva nel cyberspazio? Pierre Lévy, filoso francese che studia l'impatto di Internet sulla società, la definisce così:  "In primo luogo", ha dichiarato in un'intervista, "bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l'intelligenza collettiva".

L come Lurker. Il lurker è una sorta di voyeur internettiano. Si tratta cioè di un utente che partecipa a una comunità digitale (come mailing list, gruppi, chat), osservando attentamente tutte le attività e tutti i messaggi, ma senza intervenire mai nelle discussioni, senza postare o interagire con gli altri. Insomma, senza rendere manifesta la propria presenza. Da qui deriva anche il verbo lurkare, che può essere tradotto come "osservare da dietro le quinte".

M come Meme. Un meme è un fenomeno di internet: un'idea, un'immagine o un'azione che si propaga attraverso la rete e diventa famosa per un certo periodo di tempo. Uno degli ultimi esempi? Harlem Shake, una serie di video comici diventati virali all'inizio del 2013, in cui, con sottofondo la canzone di Baauer, si susseguono due scene: una statica e tranquilla; più una caotica, in movimento.

N come Nodo. Stampanti, modem, computer, fax: in informatica sono tutti dei nodi, cioè dei dispositivi hardware che sono in grado di comunicare tra loro, e con tutti gli altri sistemi che fanno parte della stesse rete.

O come Omofilia. Viene definita omofilia la tendenza (sulle reti sociali ma non solo) a fare amicizia con le persone che hanno i nostri stessi interessi, le nostre stesse opinioni, paure, e aspirazioni. E anche la nostra stessa dieta mediatica.

P come Polarizzazione. Indica il grado di esposizione di un internauta a informazioni che non possono essere verificate. È uguale a uno se l'utente è continuamente esposto a questo tipo di notizie. È invece pari a zero se non lo è mai. Secondo gli studi di Quattrociocchi & Co., in caso di bufala virale, la polarizzazione delle persone che la condividono tende a uno.

Q come Quantitativo. Un approccio matematico e statistico alla comprensione di fenomeni complessi. Che punta a sfruttare la grande mole di dati a nostra disposizione.

R come Rinforzo. Per rinforzo si intende la resistenza di  a cambiare idea, quando si è esposti a una versione dei fatti in contrasto con la nostra opinione.

S come Social network. Con il termine social network intendiamo, nel linguaggio corrente, quelle reti sociali online che ci consentono di interagire con altri utenti di Internet, in base a determinati, e a volte comuni, interessi. Esempi sono: Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram, aNobii, Pinterest, Google+, o il neonato Ello.

T come Troll. La parola troll ha spesso un'accezione negativa. In realtà, troll è sia chi interviene nei dibatti online con affermazioni fuori luogo, provocanti, e a volte offensive, sia chi vuole semplicemente fare dell'ironia su chi sulla Rete si prende troppo sul serio. Non sono - quindi - sempre e necessariamente "cattivi".

V come Virale. Si usa il termine virale per indicare un'informazione che si diffonde velocemente. Come un virus o quasi. Alessandro Vespignani, fisico ed esperto di modelli previsionali, conferma che ci sono delle somiglianze tra la circolazione in Rete delle notizie e il mondo biologico. Ma anche delle differenze. Dice: "A difenderci dai virus è il nostro sistema immunitario. Quando parliamo di informazione, invece, il mondo esterno ha un forte effetto sulle probabilità di contagio. E se la notizia a cui siamo esposti arriva da un amico, da una persona di cui ci fidiamo, o che ha i nostri stessi interessi, potrebbe avere un peso maggiore. Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso".

W come World Economic Forum. Il World Economic Forum è una fondazione senza fini di lucro nata nel 1971. Di recente ha sottolineato come la "disinformazione digitale" sia "uno dei principali rischi della società moderna".  Quali sono le sue potenzialità sulla vita reale? Ad esempio, citano nel report redatto nel 2013, dei tweet falsi hanno avuto la capacità di muovere il mercato finanziario. Come quando nel giugno del 2012 un falso utente di Twitter, che si spacciava per il Ministro degli Interni russo Vladimir Kolokoltsev, ha annunciato la morte, o il ferimento, del presidente siriano Bashar al-Assad. Il prezzo del petrolio è schizzato alle stelle, fino a che i commercianti si sono resi conto: si trattava di un falso.

Ingannato da un falso impeccabile, commenta Riccardo Stiglianò. Un paio di anni fa avevo dato un annuncio dal blog del giornale: il mio nome figurava, tra quello di Larry Page e Tim Berners-Lee, su uno studio scientifico a proposito di istruzione online. Sedere a destra del padre di Google e a sinistra di quello del web sul frontespizio di A Case for Reinforcement Learning era un risultato di tutto rispetto per un cronista, ancorché con qualche infarinatura tecnologica. Peccato che fosse - ovviamente, vorrei dire, ma il seguito prova che è meglio non dirlo - tutto falso. L'apparenza dello studio, ancora consultabile, era impeccabile: un abstract, dei capitoletti in inglese, note a piè di pagina. Vari conoscenti si erano rallegrati via email. Un mio amico molto intelligente, scaltro e in quel caso frettoloso mi aveva fatto i complimenti addirittura su Twitter e mi ero sentito in colpa di averlo involontariamente trascinato in quella trappola goliardica. Eppure sarebbe bastato leggere sino in fondo il mio breve testo per accorgersi di un post scriptum che confessava il trucco, ovvero che lo studio era frutto di SCIgen - An Automatic CS Paper Generator, un generatore automatico creato da alcuni programmatori del Mit. Così convincente che in un caso sarebbero addirittura riusciti a farne accettare un paper, altrettanto farlocco, in una conferenza scientifica dai controlli assai laschi. La quale, dopo la gaffe che ricorda da vicino l'affaire Sokal, una bufala che nel '96 aveva scosso l'establishment intellettuale newyorchese, sembra aver chiuso i battenti. Cosa sto cercando di dire? Che il falso, nell'èra della sua riproducibilità tecnica, è diventata una commodity. Un prodotto a bassissimo valore aggiunto, da produrre in serie senza sforzo. Ci sono siti che vi recapitano in Val Brembana impeccabili patenti del Wisconsin, altri per stamparsi perfette ricevute illegali o app che ricreano rumori di sottofondo pertinenti al vostro alibi extra-coniugale ("Cara sono alla stazione" e parte lo sbuffo della locomotiva o l'annuncio delle partenze imminenti). Per non dire degli spacci di prodotti fisici contraffatti, dalle borse di Louis Vuitton alle medicine sino alle parti di ricambio degli aerei (Alibaba, prima di diventare una rispettabile superpotenza di commercio elettronico, era famoso per questo). C'è un mondo di contraffazione digitale, fai-da-te o consegnata a destinazione da zelanti falsari. Negarlo sarebbe folle, ma enfatizzarlo come spesso si tende a fare è fuorviante. L'argomento implicito di chi lancia questo allarme è: internet è un posto molto inaffidabile e quindi pericoloso (a differenza del piccolo mondo antico di mattoni e cemento, lineare e sincero). Ed è un argomento risibile, perché se è vero che è più facile falsificare è anche vero che è molto più semplice smascherare i falsi. Con Google e Wikipedia siamo tutti in grado di diventare formidabili fact checker. In teoria, almeno, perché confrontare, scriminare, contestare è una fatica. Anzi, a essere più precisi, un lavoro. Quello che fanno, bene o male, i giornalisti. Il dibattito è vecchio come la rete, e non è il caso qui di rivangarlo. Dico solo che nei primi anni 90 il bestsellerista Michael Chricton annunciò l'imminente scomparsa dei giornalisti in quanto mediasaurus, dinosauri dei media. Non c'era più bisogno di loro perché tutti potevano andare direttamente alla fonte delle informazioni. Che è vero, però così facendo non avreste più tempo per fare il vostro di lavoro, quale esso sia. Pensateci la prossima volta che vi lamentate nel tirare fuori 1 euro o 40 o il corrispettivo per una copia digitale. La differenza tra un software a pagamento e uno free, disse una volta (con evidente conflitto di interessi) l'ad di Microsoft Steve Ballmer, è che nel primo caso a testarlo erano stati i programmatori, nel secondo le cavie eravamo noi. Lo stesso, più o meno, vale per le tante informazioni che circolano allo stato brado nel cyberspazio. Vale, per tutte, la prima raccomandazione delle scuole di giornalismo americane: When your mother says I love you, double check it (quando tua madre dice che ti ama, verificalo e controverificalo). Enunciata ben prima di internet e fresca come non mai. Altrimenti si rischia di credere a tutto, compreso che all'estensore di queste poche righe manchi solo la peer review prima di essere pubblicato con tutti gli onori su Science o Nature insieme al Dio dell'algoritmo e al creatore del world wide web.

FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.

Anche per Totò, il principe, ci furono due funerali. Una folla immensa e commossa diede l'ultimo saluto al grande attore. ''A Roma 30mila e nella sua Napoli 150mila'' dice il cinegiornale Luce del 24 aprile del 1967, che titolò il servizio: ''Il principe e la marionetta''.

La morte di Pino Daniele. Due verità sulle ultime ore. L’ex moglie rilancia: era svenuto, ritardi nei soccorsi. Amanda: ha deciso lui. Furto nella villa in Maremma. L’autopsia: confermata l’insufficienza cardiaca, scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera”. Non poteva essere l’autopsia a dare una risposta alle domande sulla scomparsa di Pino Daniele, che - come appurato dall’esame effettuato ieri - è morto per insufficienza cardiaca (e dietro l’asciutta formula ci sono i vent’anni di gravissimi e ben noti problemi al cuore del cantautore, anche questi confermati dai medici incaricati dalla procura). Di altro tipo sono i dubbi rilanciati anche ieri dalla seconda moglie dell’artista, Fabiola Sciabbarrasi: «Qualcosa è andato storto, Pino stava molto male e la scelta di portarlo in auto in un ospedale lontano oltre 150 chilometri non me la spiego». Il dolore delle parole non fa sconti alla rivale in amore e ultima compagna del bluesman, Amanda Bonini, di avergli quanto meno prestato soccorsi (e consigli) inadeguati. «Pino era svenuto non avrebbe potuto decidere lui di andare a Roma», accusa la prima. «Era lucido, ha detto lui di metterci in auto», replica la seconda. Una doppia verità che segna una distanza tra le due famiglie marcata già dalle divisioni sui funerali, replicati a Napoli poche ore dopo Roma. Se quel viaggio si potesse e dovesse evitare resta una valutazione soggettiva, in mancanza di una diagnosi medica diretta sul malore. L’unico consulto, che ha preceduto la chiamata, poi annullata, al 118, c’è stato al telefono con Achille Gaspardone, che in tutti questi anni lo ha avuto in cura, con successo: «Pino stava sufficientemente bene - racconta il cardiologo -. Mi ha detto che aveva un senso di malessere, ma non mi ha trasmesso l’ansia di una situazione grave». Sintomi analoghi c’erano stati già in passato e in quei casi Daniele aveva preferito farsi visitare di persona dal medico di fiducia: «Ho parlato sia con lui che con la compagna - continua Gaspardone - e gli ho consigliato di chiamare l’ambulanza». Quindi, prosegue lo specialista, «credo abbia chiamato e poi disdetto perché stava sufficientemente bene, era piuttosto stabile e preferiva andare in un ambiente dove era conosciuto. Poi tutto è precipitato come può succedere nei casi di ischemia miocardica». Daniele, 59 anni, è arrivato nella Capitale dopo oltre un’ora d’auto, quando era già morto. Si sarebbe potuto salvare con un intervento più tempestivo? «Sarebbe prematuro e senza alcuna oggettività dirlo adesso», sottolinea Vittorio Fineschi, uno dei medici incaricati dell’esame (presenti i periti nominati da Fabiola Sciabbarrasi). L’autopsia è durata tre ore e mezza e darà ulteriori risultati nei prossimi giorni con gli accertamenti in programma su campioni prelevati. Dopo la folla dei giorni scorsi, l’artista era solo nella camera mortuaria. Tanti invece gli amici e parenti di un 21enne ucciso la scorsa notte in una storia di camorra. La salma del cantante è tornata in serata a Roma, al cimitero di Prima Porta, per la cremazione. Acquisita all’inchiesta per omicidio colposo (a carico di ignoti) la documentazione medica pregressa. E al ritorno nella villa in Maremma un’altra brutta notizia per la famiglia del cantautore. La serratura di una porta finestra sul retro scardinata ha aperto l’ex podere alla razzia dei ladri. Rubati contanti e due preziose chitarre. A dare l’allarme, ieri pomeriggio, è stata Amanda Bonini. La villa, in una zona isolata, con un ampio giardino attorno e le mura di cinta delimitate da cipressi, non è dotata di videosorveglianza ma di un sistema d’allarme che però sarebbe stato divelto dai ladri, entrati nella proprietà dopo aver scavalcato la recinzione. Secondo i primi accertamenti dei carabinieri di Orbetello il furto sarebbe avvenuto la sera in cui centinaia di migliaia di persone piangevano l’artista scomparso.

Battisti, Pavarotti, Dalla: quando la morte finisce in lite. La decisione sulle esequie e le battaglie per l’eredità. All’origine un incrocio di affetti privati, scrive Renato Franco su “Il Corriere della Sera”. Quei nemici di casa. “Parenti serpenti” (Mario Monicelli, 1992), ma anche “Fratelli coltelli” (Maurizio Ponzi, 1997). La famiglia che da vincolo di solidarietà e fratellanza si trasforma in groviglio di attriti. La battuta di Kipling («tre italiani, tre partiti politici») nel momento solenne della morte diventa «tre parenti, tre opinioni diverse». Se poi i parenti sono pure di più il caos è esponenziale. Nelle famiglie - larghe o allargate che siano - ognuno vuole dire la sua quando arriva l’ora di funerali & eredità. Ma basta anche una testa sola, ma tenace, come quella della vedova di Lucio Battisti a rendere complicati omaggi e celebrazioni.

Grazia Veronese, vedova Battisti, negli anni ha sempre cercato di bloccare tutte le manifestazioni di omaggio al cantautore tanto a Poggio Bustone (Rieti) dove era nato quanto a Molteno (Lecco) che aveva eletto a buen retiro. Ora sarà la Cassazione a decidere la legittimità o meno del Festival «Un’avventura, le emozioni» che si è sempre tenuto a Molteno. Nel frattempo per scoraggiare il pellegrinaggio dei fan sulla tomba di Battisti, ha deciso che le spoglie avrebbero lasciato il cimitero. Sono rimaste solo le canzoni.

Non è stata semplice la gestione dell’eredità Pavarotti. Il tenore morto nel 2007 ci mise del suo, facendo diversi testamenti. Mentre all’indomani del funerale spuntò un’amica che accusò la seconda moglie, Nicoletta Mantovani, di isolarlo dalle figlie avute dal primo matrimonio. Ci fu anche un’inchiesta della procura di Pesaro, a carico di ignoti, su una presunta circonvenzione di incapace quando Pavarotti prima di morire ridefinì eredità ed eredi. Alla fine pace fu: Nicoletta Mantovani e le tre figlie nate dal matrimonio con Adua Veroni hanno raggiunto un accordo per la divisione dei beni immobili.

Per Lucio Dalla nessun testamento, cinque eredi e un grande escluso. Gli eredi sono i cinque cugini (con i figli sono in 10 ad avere voce in capitolo), il grande escluso è quel Marco Alemanno che ha convissuto con il cantante fino alla sua morte. Quindici anni insieme, ma per la legge sono nulla.

FAMILISMO AMORALE (E PATRIMONIALE) - LA GUERRA TRA MADRE E FIGLIO, PER IL TESTAMENTO DI ORIANA FALLACI, È SOLO L’ULTIMO EPISODIO DI UNA FICTION SGUAIATA CHE VEDE LE COSIDDETTE ‘FAMIGLIE PER BENE’ PRENDERSI A CALCI IN FACCIA PER L’EREDITÀ - E’ ACCADUTO IN CASA AGNELLI, CON LA FAIDA TRA MARGHERITA E MARELLA CARACCIOLO - TRA IL FIGLIO ADOTTATO DI RENATO GUTTUSO E MARTA MARZOTTO - FINIRONO IN TRIBUNALE ANCHE I QUADRI DELLA COLLEZIONE DI CARMELO BENE E LE VILLE DI PAVAROTTI…

Francesco Persili per "Il Messaggero". Dynasty all'italiana. La battaglia sull'eredità di Oriana Fallaci è solo l'ultima puntata di una saga di contenziosi giudiziari e appetiti patrimoniali che ha visto dilaniarsi i rapporti all'interno delle grandi famiglie del capitalismo italiano e ha raccontato di lotte senza esclusioni di veleni per le grandi fortune di Guttuso, Carmelo Bene, Pavarotti. Più che la storia di un'eredità contesa, è la fotografia in chiaroscuro della più grande dinastia italiana, la guerra degli Agnelli che ha opposto la figlia Margherita alla madre, Marella Caracciolo, al resto della famiglia, e ad alcuni fra i più importanti avvocati e manager dell'Avvocato. Una disfida sul patrimonio che ha portato la mamma di John, Lapo e Ginevra Elkann a «sentirsi danneggiata dagli accordi ereditari con cui sono stati spartiti i beni del padre Gianni» e ad avviare, prima della pax, una battaglia legale che ha riguardato ville, società, quadri, proprietà e un presunto «tesoretto» di un miliardo di euro. Un altro conflitto che sa di maledizione è quello che ha visto protagonisti gli eredi Formenton e Mondadori sullo sfondo di quella partita di complessi equilibri e battaglie legali mai finite tra Berlusconi e De Benedetti che passerà alla storia come guerra di Segrate. Si trasforma in un feuilleton, invece, la contesa testamentaria sull'eredità di Renato Guttuso, che disvela una lunga controversia tra la musa del grande pittore siciliano, Marta Marzotto, e il figlio adottivo, Fabio Carapezza, designato dall'artista di Bagheria, in punto di morte, suo erede legittimo. La contessa viene accusata dalla magistratura di Varese di aver realizzato in concorso con lo stampatore, Paolo Paoli, e senza l'autorizzazione dell'erede legittimo dell'artista, settecento copie di opere che il pittore siciliano le aveva regalato negli anni del loro grande amore. Marzotto esibisce la fotocopia di una lettera autografa di Guttuso, datata «Roma 23 settembre 1986» con la quale l'artista la autorizzava a riprodurre le sue opere. La vicenda si trascina per anni, il giudice della corte di Appello dà ragione a Marzotto, inizialmente condannata, anche se Fabio Carapezza continua ad essere il solo titolare dell'eredità Guttuso. Un altro artista, la cui eredità diventa un caso giudiziario internazionale al punto da coinvolgere la magistratura italiana, quella francese, e quella del principato di Monaco, è Alberto Burri, il cui patrimonio viene conteso tra il fratello della vedova, la ballerina e coreografa americana, Minsa Craig, e la fondazione dedicata al maestro umbro. La controversia si è chiusa nel 2007 con un accordo che stabilisce che tutte le opere e i beni del maestro spettano alla Fondazione a lui intitolata mentre ai parenti di Minsa Craig sarebbe stata destinata la parte di patrimonio che aveva ereditato da Burri. Tre De Chirico, una tela di Dalì, un dipinto di Kandinskij, un disegno di Tirinnanzi nel quale Carmelo Bene amava specchiarsi, e altri oggetti d'arte sono le opere, invece, al centro del contenzioso tra Raffaella Baracchi, vedova dell'attore e madre della sua unica figlia Salomè, e l'ultima compagna di Bene, Luisa Viglietti, accusata di furto aggravato e continuato. Se il Tribunale civile di Roma ha definitivamente affermato che gli unici eredi dello scrittore Giorgio Bassani sono i figli Paola ed Enrico, rigettando l'impugnazione del testamento avanzata da Portia Prebys, l'insegnante americana che è stata la compagna del romanziere negli ultimi vent'anni di vita, l'eredità di Luciano Pavarotti ha detto della battaglia tra le figlie nate dal matrimonio con Adua Veroni e l'ultima moglie Nicoletta Mantovani. Il contenzioso si è risolto con l'assegnazione a Nicoletta degli immobili newyorchesi, mentre alle figlie restavano la villa di Pesaro, l'appartamento di Montecarlo e alcune proprietà italiane, oltre a una cospicua somma di denaro. Si è conclusa, invece, con una transazione la controversia, condotta a colpi di carte bollate, richieste di prova del Dna e bordate a mezzo stampa, sull'eredità del conte amateur Carlo Caracciolo, tra gli editori più importanti d'Italia, presidente del gruppo L'Espresso e fondatore del quotidiano La Repubblica. Carlo Edoardo e Margherita Revelli, che alla morte dell'editore avevano chiesto il riconoscimento di paternità per poter partecipare all'eredità, si sono visti assegnare parte dell'11,72% dell'Espresso, che alla morte di Caracciolo, era passato a Jacaranda Falck. Un compromesso che fa calare il sipario su una serie vicissitudini dinastiche ché tanto, poi, come scriveva Tolstoj, «le famiglie felici si somigliano tutte mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Specie quando c'è di mezzo l'eredità.

Eredità, da Fallaci a Pavarotti: i contenziosi sulle grandi fortune, scrive Adnkronos. La guerra tra le figlie del tenore modenese e Nicoletta Mantovani; Marta Marzotto contro il figlio adottivo di Renato Guttuso, Fabio Carapezza. Aspra la contesa tra la vedova di Burri e la fondazione intestata all'artista. La battaglia legale sull'eredità di Oriana Fallaci, scomparsa nel 2006, è un ulteriore capitolo che si aggiunge alla storia dei contenziosi giudiziari che si aprono ogni volta che muore un grande personaggio. Da Pavarotti a Guttuso, da Burri a Bassani a Carmelo Bene, le guerre tra gli eredi hanno sempre riempito pagine di cronaca e aule di tribunali. L'ultima in ordine di tempo è quella che riguarda l'eredità di Luciano Pavarotti. Il tenore modenese è scomparso nel 2007, un anno dopo la Fallaci, ma nel caso di Big Luciano la battaglia si aprì subito tra le figlie della prima moglie e Nicoletta Mantovani. Nel testamento depositato dal notaio Luciano Buonanno, uno dei tre in circolazione, il tenore scriveva che il 50% del suo patrimonio sarebbe stato diviso tra le quattro figlie, il 25% sarebbe andato alla moglie e il restante 25 avrebbe rappresentato, invece, la 'disponibile', di cui il testatore poteva fare quello che riteneva opportuno. Il contenzioso tra Mantovani e le tre figlie del tenore, nate dal matrimonio con Adua Veroni, si sarebbe risolto un anno dopo con l'assegnazione a Nicoletta degli immobili newyorchesi, mentre alle figlie restava la villa di Pesaro, l'ambito appartamento di Montecarlo e alcune proprietà italiane, oltre a una cospicua somma di denaro liquidata loro da Nicoletta Mantovani. Un altro contenzioso giudiziario che ha fatto epoca è quello per l'eredità del grande pittore siciliano Renato Guttuso, scomparso il 18 gennaio 1987. La magistratura ha sempre dato ragione a Fabio Carapezza, l'allora giovane funzionario del ministero degli Interni che, Guttuso, gravemente malato e prostrato dall'improvvisa morte della moglie Mimise Dotti, aveva adottato nell'ottobre 1986 e, sul letto di morte, designato suo erede legittimo. Fu un'adozione lampo (tutto, dall'istanza alla sentenza, si svolse nel solo mese d'ottobre al Tribunale di Roma) dichiarata senz'ombre da altri giudici che hanno rigettato le denunce dei nipoti Dotti. All'epoca dell'adozione Carapezza aveva 32 anni. Quanto a Marta Marzotto, a lungo sua musa ispiratrice e amante, non ha mai dimenticato come fu emarginata da Palazzo del Grillo, casa-studio a Roma del pittore, nei giorni dell'agonia di Guttuso e della sua improvvisa conversione. Nel febbraio 2006 la Marzotto è stata accusata dalla magistratura di Varese di aver realizzato in concorso con lo stampatore, Paolo Paoli, senza l'autorizzazione dell'erede legittimo dell'artista, Fabio Carapezza Guttuso, 700 copie di opere che il pittore siciliano le aveva regalato negli anni del loro grande amore. E questo è solo l'ultimo processo della serie. Senza il consenso dell'erede di Guttuso, Marta Marzotto aveva fatto incollare sul retro delle opere una sorta di personale autentica. Si trattava della fotocopia di una lettera autografa di Guttuso, datata 'Roma 23 settembre 1986', con la quale l'artista autorizzava l'ex contessa a riprodurre le sue opere, in diversi materiali (carta, ceramica etc.) per lo scopo che lei avrebbe ritenuto opportuno. Peccato, però che, all'improvviso poche settimane dopo adottò Fabio e lo nominò suo erede, e che quella lettera non essendo stata autenticata da un notaio non aveva nessun valore legale. Il 16 aprile 2002 la Cassazione ha, infatti, confermato le pronunce del Tribunale e della Corte d'Appello di Milano: Fabio Carapezza Guttuso è il solo titolare dell'eredità Guttuso. Dal civile al penale: Fabio Carapezza Guttuso ha portato alle sbarre la ex contessa. "Ma niente di personale, in giro per l'Italia ci sono 40 processi contro chi ha riprodotto o contraffatto opere di Guttuso", dichiarò. Dopo la morte del pittore, il figlio adottivo ha fondato gli Archivi Guttuso, cui ha destinato lo studio di Piazza del Grillo, e ha integrato la collezione del museo di Bagheria. Ben più intricata la vicenda giudiziaria scatenatasi dopo la morte dell'artista umbro Alberto Burri, scomparso a Nizza nel 1995, che ha coinvolto le magistrature italiana, francese e quella del Principato di Monaco. Il contenzioso si è concluso nel 2007 con un accordo che stabilisce che tutte le opere e i beni del maestro spettano alla Fondazione a lui intitolata. Il patrimonio di Minsa Craig, vedova dell'artista, ballerina e coreografa americana, andrà invece al fratello Cecil e agli altri parenti. Ma la fortuna lasciata da Burri era stata contesa, in un primo momento, tra la vedova e la Fondazione dedicata al marito. Nel 2001 la tregua davanti al notaio: alla fondazione spettevano tutte le opere custodite nell'ex essicatoio del tabacco di Città di Castello, a palazzo Albizzini e nell'abitazione del maestro, mentre a Minsa Craig andavano il casale, i terreni, le ville in Francia incluso tutti i beni che vi erano custoditi e una cospiciua somma di denaro. A riaprire il contenzioso fu il fratello 85enne di Minsa, quando questa scomparve nel 2003. L'accordo raggiunto ha quindi rispettato quello precedente tra la fondazione e la vedova, destinando ai parenti di quest'ultima la parte di patrimonio che aveva ereditato dall'artista umbro. Risale al 2003, invece, la chiusura della battaglia giudiziaria per ereditare i beni lasciati dallo scrittore Giorgio Bassani, scomparso all'età di 84 anni il 13 aprile 2000. La quarta sezione del Tribunale civile di Roma, a marzo di quattro anni fa, ha definitivamente affermato che gli unici eredi dell'autore del capolavoro 'Il giardino dei Finzi Contini' sono Paola ed Enrico Bassani, rigettando l'impugnazione del testamento avanzata da Portia Prebys, l'insegnante americana che è stata la compagna del romanziere negli ultimi vent'anni di vita. A promuovere la causa civile era stata Portia Prebys, che aveva chiesto al Tribunale di diseredare i figli dello scrittore "per indegnità a succedere al padre". Questa richiesta era l'ennesimo atto di una battaglia legale tra i figli e la compagna del loro anziano padre. "Finalmente, ora, questa sentenza, dopo anni di aspra contesa, ha riconosciuto che i figli del professor Giorgio Bassani sono gli unici eredi, respingendo le pretese finora avanzate dalla sua ex convivente, e riconoscendo ai figli quel ruolo morale e affettivo che essi hanno sempre rivendicato con decisione e fierezza", aveva commentato in quell'occasione l'avvocato Alessandro Mete, legale di Paola ed Enrico Bassani. In base al testamento del romanziere, aperto a Roma a metà maggio del 2000 (depositato dal notaio Livio Colizzi presso l'Ufficio successioni del Tribunale civile di Roma), gli unici eredi sono Enrico e Paola Bassani, avuti dalla moglie Valeria Sinigallia, con il quale era separato di fatto. Quel testamento olografo, cioè scritto di pugno, fu steso dallo scrittore ferrarese il 13 luglio 1997. Questo atto notarile ha annullato il precedente testamento redatto nel 1991, nel quale era inclusa tra i beneficiati dall'eredità anche Portia Prebys. Il testamento del 1997 nomina eredi universali i due figli, i quali sono impegnati espressamente dal padre "a curare con sensibilità ed amore la pubblicazione e la diffusione delle mie opere". Prebys aveva chiesto dichiarare nullo questo testamento, ma il Tribunale civile, nel 2003, ha rigettato l'istanza. Tre De Chirico, una tela di Dalì, un dipinto di Kandinskij, un disegno di Tirinnanzi nel quale Carmelo Bene amava specchiarsi, e altri oggetti d'arte. Sono le opere al centro del contenzioso tra la vedova dell'attore e madre della sua unica figlia Salomè, Raffaella Baracchi, e l'ultima compagna di Bene, Luisa Viglietti, finito in tribunale con una denuncia per furto aggravato e continuato fatta dal pm Fabio Santoni ai danni di Viglietti. E Baracchi si è costituita parte civile. La vedova dell'attore, ex Miss Italia '83, che fece coppia con Bene, scomparso nel 2002, dal 1988 al 1992, ha sempre detto di volere tutelare la figlia che oggi ha 19 anni. Moglie e figlia avevano ottenuto l'eredità, pari a circa 3 milioni di euro, nel 2005, dopo che il Tribunale ha condannato la Fondazione 'L'Immemoriale di Carmelo Bene' a rinunciare ai beni che lo stesso attore e regista aveva assegnato alla Fondazione in due testamenti, redatti il 6 ottobre 2000 e il 21 giugno 2001. Bene infatti non aveva lasciato nulla alla moglie, mentre alla figlia Salomè aveva intestato la metà delle quote (l'altra metà come tutto il resto andava alla Fondazione) della società 'Nostra Signora' che gestisce i diritti d'autore e l'appartamento di via Aventina a Roma. All'ultima compagna, Luisa Viglietti, accusata di furto, Bene aveva lasciato il diritto di abitare una parte della casa rimasta a Salomè. Una vicenda intricata nella quale si innestano anche le rivendicazioni della sorella del regista, Maria Luisa Bene, che si è rivolta in Tribunale più volte chiedendo di far luce sulle circostanze della morte del fratello.

NEOREALISMO E MODA.

Il neorealismo di Dolce e Gabbana. «All’Italia del Dopoguerra ha dato un’immagine fortissima. Adesso invece c’è chi pensa che “troppo italiano” sia volgare. Che errore», scrive Paola Pollo su “Il Corriere della Sera”. «Siamo stilisti, non costumisti». Domenico Dolce e Stefano Gabbana mettono subito le cose in chiaro. Non sia mai che qualcuno fraintenda: tra loro e il cinema, anzi il cinema neorealista, è «solo» amore, passione, attrazione. Nonché fonte inesauribile di ispirazione. Così se a New York sono i supporter di «Costumes for Cinema from Tirelli Atelier», esposizione dei capi della sartoria romana creata per i più famosi film, al MoMi (Museum of Moving Arts) è solo perché, nella vita, ad un certo punto tutto torna. Ecco cosa. Inaugurazione, serata, premio (agli stilisti per il «Fashion Award»; a Baz Luhrman per il «Movie Award») e installazione «Nero Sicilia» (24 look uomo e donna dall’archivio).

«È che quando ci è stato chiesto di collaborare a questa iniziativa, per noi è stato come andare a nozze». Tirelli, cioè il Gattopardo: «Erano i primissimi anni e ci ispiravamo a quelle immagini. Ma eravamo giovani non sapevamo chi aveva fatto quegli abiti. Quando lo scoprimmo decidemmo di commissionare a Tirelli l’abito bianco della Cardinale. Volevamo capire se eravamo sulla strada giusta. E quando arrivò ci piaceva certo, ma era così rigido e pesante! Ecco la differenza fra lo stilista e il costumista, ci siamo detti».

Però è anche vero che il neorealismo ce lo avete nel sangue.

«Di più è il nostro mondo. La prima musa fu la Magnani, poi la Loren: mediterranee e formose, sempre le stesse donne».

Possibile che non siete mai stati tentati dagli abiti di scena?

«Ce l’hanno chiesto ma il lavoro del costumista è conoscere, veramente, la storia. Noi ne siamo solo incuriositi. Comunque anche quando lavoriamo con Tornatore e Scorsese per i nostri film chiariamo subito che agli abiti ci devono pensare loro perché la moda in quelle immagini non la vogliamo vedere».

Quindi in un film la moda non dovrebbe mai prendere il sopravvento sul resto?

«Assolutamente no».

Ma ci sono grandi film imprescindibili dalla moda…

«Come colazione da Tiffany, certo. Ma adesso non può essere più così».

Al successo di «Sex in the city» hanno contribuito anche abiti e scarpe.

«E hanno usato anche molti nostri capi, certo. Ma in quei filoni gli abiti durano cinque minuti, poi via un altro».

Facile raccontare ora di voi e il neorealismo, ma quando avete cominciato era a dir poco bizzarro che due poco più che ventenni guardassero a quel mondo.

«Le nostre prime due collezioni parlavano di super modernismo e trasformismo: un vestito poteva diventare tre abiti diversi. Ma fu un insuccesso commerciale: arrivavano i capi e non sapevano neppure come appenderli alle grucce e ci volevano le istruzioni per indossarli. Detto questo: il nero e la femminilità c’erano. Poi a Palermo vedemmo quella locandina con una donna nuda avvolta in uno scialle nero al balcone di un palazzo barocco! “Questo dobbiamo fare noi”, ci siamo detti. Era il 1986. Silvana Torregrossa, un’amica, ci disse che il fotografo era Ferdinando Scianna. E lì nacque tutto. Lo cercammo come pazzi, all’ultimo tentativo lui rispose, salvo scoprire che quella foto non era sua ma lui era l’uomo giusto».

Stefano Gabbana: «Io poi ero attratto da quel mondo che non conoscevo. Domenico invece mi diceva che ero pazzo a parlare di uncinetto e che lui era scappato da quelle cose e che aveva buttato via tutti i portaombrelli di ceramiche! Io adoravo. Milanese con genitori veneti, ero sempre stato infatuato dal Sud. Poi comunque mia nonna vestiva di nero e con il fazzoletto in testa. Quindi era un immagine che conoscevo». Domenico Dolce: «Al liceo mi ero iscritto ai cineforum e andavo a vedermi tutti i film dedicati a Visconti. Ricordo che mi era innamorato di Morte a Venezia. Ma a quell’età non è che sei attratto dall’estetica, non sapevo neanche che avrei fatto questo lavoro».

I film cult e gli abiti di conseguenza?

«“La terra trema”, con gli abiti sdruciti di Tony; “Rocco e i suoi fratelli” e le maglie di Delon, “Bellissima” con i tailleur e le sottovesti della Magnani, “Ossessione” e le canotte bianche di Massimo Girotti».

Il neorealismo oggi?

«Giuseppe Tornatore. Ma viviamo in un’epoca dove tutto è troppo ritoccato e dove ognuno vuole dire la sua. La presa diretta è impossibile. Il neorealismo rappresentava un Paese, che era l’Italia nel Dopoguerra, un’immagine fortissima. Adesso addirittura la gente pensa che il troppo italiano è volgare. Peccato perché non è così La «Grande bellezza? «Meraviglioso ma tristemente vero. E fa pure un po’ male: tutte quelle donne rifatte e ansiolitiche. E anche lui che perde il suo tempo in feste quando potrebbe scrivere. Lo specchio dei tempi: cioè la ciafferia. Ma non ci piace perché noi siamo romantici e sognatori e vogliamo che le donne siano belle e reali».

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

Ai posteri l'ardua sentenza. Così si suol dire. Ma noi siamo capaci di giudicare, specialmente noi stessi?

Le sentenze di assoluzione sono una vergogna! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Le sentenze sono di due tipi. Quelle di condanna e quelle di assoluzione. Se sono di condanna vanno bene, e sanciscono il fatto che il condannato è colpevole. Su tutti i giornali si dichiara in modo solenne e devoto: le sentenze (di condanna) si eseguono, non si commentano. E soprattutto non di discutono, non si criticano, non si protesta contro di loro, non le si dichiara ingiuste. Una condanna vale la verità. Il secondo tipo di sentenze sono le sentenze di assoluzione. Queste sentenze sono una vergogna. Per definizione sono una vergogna. E infatti, in genere, in aula c’è un bel gruppetto di persone che grida: “vergogna, vergogna”. E se non c’è, il giorno dopo molti giornali titoleranno così: “Vergogna”. Oppure, in modo più efficace, titoleranno: “delitto tal dei tali, non lo ha commesso nessuno”. O: “Nessun colpevole”. Negando la possibilità che qualcuno abbia commesso il delitto ma non sia stato scoperto, cosa che ogni tanto succede. Le sentenze di condanna, per definizione, non si discutono. Le sentenze di assoluzione, per definizione, sono una vergogna. Come mai? Semplice. Il processo penale, da qualche anno, non si celebra più nelle aule dei tribunali ma molto prima. Quando un Pm emette un avviso di garanzia, il processo è già svolto, di fatto, e l’avvisato, o l’indagato, è – di prassi – considerato colpevole del delitto del quale è accusato. Non c’è bisogno di nessunissima sentenza. Da quel momento si inizia a eseguire la prima parte della condanna che talvolta è il carcere preventivo, il quale può durare anche molti anni, altre volte è la gogna realizzata attraverso giornali e Tv, altre volte è tutte e due le cose. In più c’è spesso la perdita del lavoro, gigantesche spese per pagare gli avvocati, problemi di salute, di tenuta nervosa, eccetera. Poi, molti anni dopo, la magistratura giudicante emette la sentenza, ma è chiaro che la sentenza deve essere di condanna, visto che l’imputato è colpevole, altrimenti non sarebbe stato indagato. E se invece la sentenza è di assoluzione, e dunque nega l’evidenza che l’imputato, in quanto imputato, è colpevole, allora è chiaro che è una sentenza vergognosa. Perché è una vergogna mandare assolti i colpevoli, per di più dopo che comunque hanno già scontato (col carcere e con il letame) gran parte della condanna. E i giudici che mandano assolto un imputato sono corrivi, anzi fetenti. A quel punto conta poco anche il capo di imputazione. Ieri, per esempio, “Il Fatto” ha spiegato che l’assoluzione degli scienziati che erano stati messi sotto accusa (come poteva succedere solo in Corea del Nord) per non aver previsto un terremoto, equivale alla sentenza di assoluzione degli agenti che erano accusati di avere ucciso a botte Stefano Cucchi. Naturalmente, in parte, questo è vero: se non esistono prove della colpevolezza di quegli agenti – lo abbiamo già scritto – è sacrosanto che siano stati assolti. Perché – a occhio – l’assoluzione non dovrebbe dipendere dalla gravità della colpa ma dalle prove raccolte contro l’imputato. Così dicono, almeno, i vecchi libri, polverosissimi, di diritto. E però per giungere ad accostare il reato di omicidio al reato di mancata previsione di un terremoto, bisogna metterci un bel po’ di faziosità e pregiudizio. Credo. Ma forse mi sbaglio, non è faziosità: quelli del ”Fatto” credono davvero che gli scienziati dovrebbero prevedere i terremoti, e conoscere gli oroscopi, e indovinare il futuro (almeno il futuro prossimo) e altre cose così. Anche a Salem (Massachussets) nel seicento, molti credevano che le donne poco “timorate di Dio” fossero streghe, avessero poteri soprannaturali e fossero al servizio del diavolo. E dunque, saggiamente, le bruciavano vive, perché ritenevano che quello fosse l’unico modo per cancellarle per sempre. Ciascuno è bene che sia fedele ai propri principi. Anche Travaglio. Anche Kim il Sung, o come diavolo si chiama suo nipote.

Troppa voglia di giustizia sommaria, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Viviamo sull’orlo dell’indignazione permanente. «Vergognosa» la sentenza dell’Aquila. «Sconvolgenti» le assoluzioni dei boss della camorra nel processo Saviano. Non parliamo di quelle del caso Cucchi. Va da sé che i parenti delle vittime del terremoto hanno il sacrosanto diritto di chiedere giustizia. È ovvio che ci sembra incomprensibile una sentenza che condanna l’avvocato che per conto dei boss ha proferito miserabili minacce contro uno scrittore e assolve i mandanti. Siamo con il cuore, e non soltanto, accanto alla signora Ilaria che per amore del fratello morto in carcere e con un vivo sentimento di coraggio civile sta battendosi per una causa che dev’essere di tutti. Ciò detto, però, c’è qualcosa che non va in tutte queste indignazioni che si rivolgono contro giudici legittimi che – salvo prova contraria – hanno pronunciato sentenze legittime in legge e coscienza. Questo qualcosa è che nel nostro Paese è caduto il riconoscimento del potere costituito, sia esso politico, scientifico o, come in questo caso, giudiziario. C’è una domanda di giustizia sommaria. O arriva la sentenza sull’onda di un’accusa costruita sull’indignazione popolare e mediatica, rapida e senza appello, o si castigano in modo esemplare gli imputati del caso anche se ricoprivano nella vicenda un ruolo marginale o subalterno, o è «Vergogna, vergogna, vergogna». E tutto questo quasi sempre senza aver analizzato o conosciuto a fondo le prove di accusa e quelle di difesa, collocato nella giusta valutazione le une e le altre mettendosi nel difficile ruolo del giudice che deve decidere. Condannare i sismologi per il terremoto dell’Aquila è certamente molto popolare ed emotivamente compensatorio nei confronti dei parenti delle vittime. Gli scienziati costituiscono un capro espiatorio ideale e paradigmatico per quanto caricaturale: che fa un sismologo se non sa nemmeno prevedere un terremoto? Gli anni di galera fanno un bel titolo sul giornale. Ma poi? Ha detto il professor Enzo Boschi, prima condannato poi assolto: «Spiegai che il terremoto era improbabile, ma non si poteva escludere... il linguaggio della scienza è diverso da quello dei media...». Superata l’emergenza emotiva che chiedeva la condanna immediata ed esemplare di qualcuno in primo grado, si va in appello, l’emozione è rarefatta e le cose appaiono un po’ diverse. Si scopre, come quasi sempre in Italia, che le indagini sono state incomplete (caso Cucchi) che bisognava risalire alla fonte che non è un’onnipresente Spectre italica che obnubila, confonde, occulta una verità alla Pasolini nota a tutti: io so chi è il colpevole, ma non ho le prove... È invece quella frantumazione di responsabilità che si trasforma in de-responsabilità dove la burocrazia si incrocia con la politica in un impasto oscuro e impunito. Ed è in questo strato opaco che sta il vero scandalo, è lì che si costruisce la vera ingiustizia. Trattasi di una procedura antica, quasi costitutiva del sistema Italia, un Paese dove alla parola «stragi» si unisce con tragico automatismo l’aggettivo «impunite» anche quando impunite non sono. C’è dunque un sentimento diffuso di ingiustizia che giustifica il sospetto e l’indignazione. C’è un sistema giudiziario dove alle inerzie corporative si sommano anni di leggi, leggine e circolari costruite apposta per bloccare e rallentare il corso delle indagini e dei processi. C’è un’insopportabile lentezza delle procedure. In Sud Corea ieri è stato condannato (a 36 anni di carcere) il comandante del traghetto affondato in primavera e 300 studenti sono morti. Era accusato di aver abbandonato la nave. Lo chiamavano lo Schettino di Corea. Da noi il vero Schettino, dopo quasi tre anni dal disastro è ancora sotto processo, nel frattempo ha fatto una lezione all’università ed è diventato personaggio da paparazzare per i rotocalchi, drammatica e patetica maschera della giustizia sospesa: ci dicano se è innocente o colpevole. Tutto questo è insopportabile, ma ciò non toglie che quei «vergogna» lanciati contro i giudici senza nemmeno aver letto i perché di una sentenza siano sbagliati, come erano sbagliati gli applausi per le condanne e gli arresti facili contro i nemici politici o il capro espiatorio del momento. I giustizialisti, che prima invocano le manette per gli altri e poi rifiutano le sentenze su se stessi come il sindaco di Napoli De Magistris sostenuto dal Tar di turno, producono quella nebbia in cui ogni «vergogna» si giustifica. Diradare questa nebbia, rendere trasparenti e riconoscibili le responsabilità politiche e amministrative, semplificare le procedure, sarebbe la prima riforma necessaria al Paese perché i cittadini, innocenti, colpevoli e vittime, si riconoscano senza vergogna nel Paese. E nella sua giustizia.

La storia non siamo più noi: lettere e risposte su “L’Espresso".

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.

La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare.

E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”.

Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione.

La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.

E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare.

Quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare, ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare.

La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, bella ciao, che partiamo.

La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.

La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

Mi scuso per la citazione integrale del bel testo di Francesco De Gregori, “La storia”, che comunque è sempre una bella lettura, ma credo, anzi temo, che ormai la storia non siamo più noi. Quel vento che gonfiava le vele della storia, che proveniva da lontano, che spalancava i portoni chiusi e che, a torto o a ragione, con i suoi eccessi, le sue atrocità, ma con le sue conquiste diede origine alla rivoluzione francese nel 1789, dopo cui il concetto di eguaglianza tra cittadini ha trovato ospitalità, (pur con tutte le ambiguità ed ipocrisie del caso, specie in Italia, terra di gattopardi), quel vento ormai non soffia più. La storia ha cambiato percorso, è sempre più in mano ad un oligopolio di poteri che pur pochi rispetto al totale della popolazione mondiale decidono per tutti. E qui non si tratta di tirare in ballo ipotetici complotti di “illuminati”, massoni e/o quant’altro, pur senza volerli obbligatoriamente escludere, ma semplicemente di prendere atto che le decisioni di una nazione, economiche e quindi sociali sono oramai transnazionali in uno scacchiere in cui l’Unione europea, ad esempio, conta due su dieci (figuriamoci l’Italia da sola quanto conterebbe..). Molti dicono che questo sia il prezzo da pagare per la pace, ma ai molti io replico che la cosiddetta pace riguarda nel caso la sola Europa, non investendo in maniera reale e continuativa nessuno degli altri continenti tranne l’Australia e il Nord America sino al confine con il Messico. E allora gentili forumnauti, se quanto sopra esposto è non dico vero ma almeno verosimile e ragionevole, in questa cultura dell’effimero (nulla a che vedere con quella dello scomparso Renati Nicolini, che nel suo ambito era cosa seria) e dell’apparenza che proprio qui in Italia ha preso così piede (ne dubitavate? Io no…), prendiamone atto. I nostalgici della visione marxiana potranno sostenere che il capitalismo sta vincendo prendendosi la rivincita sul periodo in cui per un po’ vacillò, i liberali saranno o afasici o liberisti, destrelli e sinistrelli si ritroveranno spiazzati perchè entrambi convinti di poter guidare il corso (e gli obiettivi) della storia, si riscoprono invece al più pedine inutili di un gioco che non solo li sovrasta ma li ignora. Il mondo nuovo pare non prevederli, le stesse istanze di cui sono stati portatori si sono riamalgamate tra loro (ironia del melting pop…) e cercano nuovi modi di rappresentanza. Su tutto pare vigere, immanente, un precariato stabile che di fatto impedisce ogni tipo di equilibrio e di futuro sociale che ha già da un pezzo trovato i suoi alfieri e a cui - ecco il punto - le nuove generazioni sono state educate sino a considerarlo l’unico futuro possibile. E i pochi gongolano mentre i molti ogni giorno di più soffrono. Ma non accade nulla, come avvenne invece nel 1789 e per ragioni in parte simili nel 1917 nella Russia zarista dei servi della gleba. Concludendo oggi De Gregori la sua “Storia” non potrebbe più scriverla, perchè la storia non siamo più noi.

La storia dei contemporanei dopo anni va riscritti dai posteri.

Caso Moro, un mese prima di via Fani un documento anticipava il rapimento, scrive Gero Grassi, Vicepresidente Gruppo Pd, Camera dei Deputati, il 6 gennaio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I documenti ci sono da sempre ma o non sono stati capiti, oppure sono stati accantonati perché capiti troppo bene da parte di Governo, Magistratura, Servizi e Commissioni precedenti. In base alla ragione di Stato. L’attuale Commissione Moro ed il presidente Giuseppe Fioroni invece li hanno letti, riletti ed attenzionati ora, con opportune indagini e ricostruzioni. Quale è la vicenda? Il documento originale, sotto riprodotto fedelmente, il 18 febbraio 1978, parte da Beirut, presumibilmente dal Colonnello Stefano Giovannone. Dice notizia riservatissima. È forse la prima notizia del rapimento di Aldo Moro perché i terroristi, di cui parla il documento, sono le Brigate Rosse e la Banda Baider Meinhof tedesca. La “fonte 2000” cita Habbash e parla di operazione terroristica di notevole portata che salvaguarderebbe impegni finalizzati ad escludere il nostro Paese da piani terroristici (Lodo Moro). Attenzione: nella chiusura del documento si dice di «non diramare la notizia ai Servizi collegati all’OLP» e questa è affermazione straordinariamente importante perché conferma grandi rapporti tra parte dei nostri Servizi e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Lasciamo il documento al lettore e, per ora, alla sua fantasia. Aggiungiamo che, in una delle lettere scritte dal carcere delle BR, Moro cita il colonnello Giovannone, deceduto anni dopo improvvisamente. Così come misteriosamente è “suicidato”, anni dopo, il capitano dei carabinieri Mario Ferrario, altro protagonista di questa storia. Analogamente sospetta è la scomparsa, nell’agosto 1980, a Beirut di due giovani giornalisti italiani, mai più ritrovati: Graziella De Palo ed Italo Toni che avevano denunciato la copertura, da parte dei nostri Servizi Segreti, della internazionale e clandestina vendita di armi italiana. Il Maresciallo Oreste Leonardi, capo scorta di Moro, a fine febbraio 1978, è fortemente preoccupato e ai suoi superiori evidenzia necessità di maggiore protezione. Moro certamente ha saputo di questo documento e il 15 marzo 1978, giorno prima dell’eccidio di via Fani, chiama il Capo della Polizia, non certo per aumentare la scorta al suo studio, come invece sostengono dopo lo stesso Capo della Polizia e i suoi collaboratori Sereno Freato e Nicola Rana. Chiama perché sa ed ha paura. A questo punto va citato, perché potrebbe avere grande connessione, il documento che il 2 marzo 1978, secondo G71, al secolo il gladiatore Antonino Arconte, parte dal Ministero della Difesa, a firma dell’Ammiraglio Remo Malusardi, Capo della X Divisione SB (Gladio), con il quale si invita il Colonnello Giovannone (G219), Capo dei nostri Servizi Segreti in Medio Oriente, a “prendere contatti immediati con i Gruppi del terrorismo mediorientale al fine di ottenere informazioni e collaborazioni per la liberazione di Aldo Moro”. 14 giorni prima del rapimento. Io non so se la connessione tra i due documenti è certa. Le indagini verificheranno cosa lo Stato italiano ha fatto per rispondere al documento proveniente da Beirut. So che la perizia “Gabella” dice vero il documento Arconte, così come so che a questo documento nessuna presta grande attenzione e fede. Non so se Arconte dice il vero, ma è verosimile che Arconte abbia intercettato una notizia successiva al documento Habbash. So per certo che le armi ai palestinesi le vendevano gli italiani e che i palestinesi le hanno date anche alle Brigate Rosse. So infine che sulla porta di casa, quella mattina del 16 marzo 1978, negli occhi di Aldo Moro, mentre Maria Fida gli impediva di portare insieme il figlio Luca, di due anni e mezzo, c’era la consapevolezza che qualcosa di grave stava per succedere ed il Maresciallo Leonardi, nella telefonata alla moglie di qualche minuto prima, aveva lanciato strani e preoccupanti segnali di immediato pericolo.

 “Il consulente di Cossiga deve essere indagato per concorso nell’omicidio di Aldo Moro”. La richiesta del pg Luigi Ciampoli contro Steve Pieczenik, l’ex funzionario del Dipartimento di Stato americano coinvolto nell’unità di crisi durante il rapimento, scrive Raphaël Zanotti su La Stampa”. La richiesta è di quelle shock: il pg Luigi Ciampoli chiede che la procura generale proceda nei confronti di Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato americano e superconsulente di Francesco Cossiga, per concorso nell’omicidio dell’onorevole Aldo Moro avvenuta in Roma il 9 maggio 1978. Secondo il pg, che ieri è stato sentito dalla commissione parlamentare istituita sulla vicenda, sarebbero emersi gravi indizi nei suoi confronti in merito all’istigazione o perlomeno al rafforzamento del proposito criminale delle Br di uccidere lo statista italiano. Elementi contenuti nelle oltre cento pagine di richiesta d’archiviazione che il pg ha consegnato al tribunale per quanto riguarda le rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi Segreti a bordo di una moto Honda, in via Fani, la mattina del rapimento. Non è stato possibile identificare quelle misteriose presenze, ma altri elementi sono emersi dall’indagine. Elementi che portano a una possibile responsabilità di Pieczenik. D’altra parte un ruolo centrale nel drammatico sviluppo di quei giorni se l’era ritagliato lo stesso Pieczenik, psicologo, in un libro confessione (edito in Italia da Cooper nel 2008 e passato sotto silenzio dal titolo «Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra»). Nel libro Pieczenik raccontava: «Ho messo in atto una manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro». Il superconsulente racconta come, all’epoca, sarebbe riuscito a portare i comitati dell’unità di crisi dalla sua parte sostenendo di essere l’unico ad avere a cuore la sorte di Aldo Moro visto che era l’unico a non conoscerlo personalmente. In realtà, rivelava qualche anno fa, l’obiettivo era eliminare Moro: lo si voleva uccidere, ma a farne le spese sarebbero state le Br. Sempre secondo Pieczenik l’operazione sarebbe stata condotta facendo crescere la tensione in modo spasmodico, così da mettere le Br con le spalle al muro e non lasciare loro alcuna via d’uscita se non uccidendo Moro. «Mi aspettavo che si rendessero conto del loro errore e che lo liberassero facendo fallire il mio piano - racconta ancora Pieczenik - Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero. Per loro sarebbe stata una grande vittoria». Tutti sappiamo come andò. Pieczenik venne mandato dagli Stati Uniti a Roma come super esperto di terrorismo. «La sua autoreferenzialità era esasperata e quasi schizofrenica - ha detto ancora il pg Ciampoli - In un’intervista a Giovanni Minoli su Rai Storia raccontò che Moro doveva morire perché in questo modo si sarebbero destabilizzate le Brigate Rosse. Noi abbiamo acquisito il cd di quell’intervista televisiva e tutto il girato completo e siamo convinti che la sua posizione meriti un approfondimento da parte della Procura». Nell’intervista televisiva di Minoli, Pieczenik aveva spiegato anche i motivi della sua azione: «Quando sono arrivato in Italia c’era una situazione di disordine pubblico: c’erano manifestazioni e morti in continuazione. Se i comunisti fossero arrivati al potere e la Democrazia Cristiana avesse perso, si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione e gli americani avevano un preciso interesse in merito alla sicurezza nazionale. Mi domandai qual era il centro di gravità che al di là di tutto fosse necessario per stabilizzare l’Italia. A mio giudizio quel centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro». Impossibile risalire all’identità delle due persone a bordo della Honda, quella mattina in via Fani, segnalati in una lettera anonima arrivata nel 2010 alla questura di Torino. Non erano sicuramente Peppo e Peppa (i due agenti dei Servizi il cui coinvolgimento era già stato escluso dalla polizia). E nemmeno Antonio Fissore, il fotografo piemontese morto nel 2012 in Toscana che l’anonimo dichiarava essere un agente segreto sotto il comando del colonnello Camillo Guglielmi dei Servizi. In realtà i magistrati hanno appurato che quella mattina Fissore era su un volo Levaldigi-Varese con rientro su Levaldigi alle 17.15. I magistrati hanno anche risentito l’ingegner Alessandro Marini, l’uomo che quella mattina in via Fani per un miracolo non venne colpito dai proiettili sparati dall’uomo sul sellino posteriore della Honda che s’infransero sul parabrezza del suo motorino. La Procura generale ha appurato che in quei giorni Marini aveva denunciato di aver ricevuto minacce (senza però saper spiegare quali) e che per questo motivo venne montato nel suo appartamento un baracchino per intercettare le chiamate in entrata al suo telefono. Incredibile ma vero, a 36 anni di distanza quel baracchino non era mai stato smontato e la Procura generale lo ha acquisito. Figura centrale nell’inchiesta, il colonnello Camillo Guglielmi, in servizio all’ufficio “R” della VII divisione del Sismi nonché istruttore abba base Gladio di Capo Marrangiu dove gli agenti venivano addestrati anche alla strategia della tensione. Il pg Ciampoli ha riferito che nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare un’accusa per concorso nel rapimento di Aldo Moro e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma è impossibile procedere perché il colonnello è nel frattempo morto. L’unica cosa certa, però, è che quella mattina intorno alle 9 il colonnello si trovava in via Fani senza un motivo ragionevole. Alla Corte d’assise ha riferito che era lì per caso, perché doveva andare a pranzo con un collega che viveva nelle vicinanze. Una versione ritenuta «risibile» dal pg Ciampoli, nonché smentita dallo stesso collega. Il suo ruolo nel rapimento, dunque, rimane per ora un mistero. 

Consulente Usa accusato di concorso in omicidio nel sequestro di Aldo Moro. La procura di Roma accusa lo 007 americano Steve Pieczenik: "Deve essere processato, ci sono gravi indizi circa il suo concorso al delitto di Via Fani", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Ci sono importanti novità giudiziarie sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. ll procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli ha chiesto alla procura di procedere nei confronti dello 007 americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del Governo italiano, verso cui vi sarebbero "gravi indizi circa un suo concorso nell'omicidio" dello statista. Il presunto coinvolgimento di Pieczenik è emerso nel corso della richiesta di archiviazione che il pg Ciampoli aveva inoltrato ieri al gip del Tribunale romano per un'altra inchiesta: quella relativa alle rivelazioni dell'ex poliziotto Enrico Rossi, che aveva insinuato la presenza di uomini dei servizi segreti al momento del rapimento di Moro. Ciampoli ha quindi ordinato la trasmissione della richiesta di archiviazione alla procura romana "perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell'omicidio di Moro". Pieczenik, all'epoca consulente del Viminale guidato da Francesco Cossiga, faceva parte del comitato di crisi istituito dal ministero dell'Interno nel giorno del sequestro dello statista democristiano. Dalla procura generale di Roma viene evidenziato che a carico di Piezcenik "sono emersi indizi gravi circa un eventuale concorso nell'omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le Brigate Rosse, dell'operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, o, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse Br". Pieczenik ha studiato ad Harvard e al Mit, è stato psichiatra ed esperto di terrorismo: nel dibattito storiografico è considerato un personaggio cruciale nella storia dei rapporti tra Italia ed Usa durante gli anni delicatissimi dell'esplosione del terrorismo. Nel 2008 pubblicò un libro-intervista in cui rivelò di aver sviluppato un piano di "manipolazione strategica" che conducesse all'uscita di scena di Moro, considerata ineludibile nel piano di "stabilizzazione" del nostro Paese. Decisivo sarebbe stato il suo ruolo nell'impedire un'iniziativa vaticana (Papa Paolo VI era amico personale di Moro, ndr) per raccogliere denaro da destinare alla liberazione del presidente Dc: "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia".

L'americano che aiutò Cossiga: "L'ordine degli Usa non era di far rilasciare Moro ma di stabilizzare l'Italia". La testimonianza dello psichiatra americano che nel 1978 arrivò in Italia per aiutare il ministro dell'Interno Cossiga dopo la strage di via Fani, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Nelle drammatiche settimane del sequestro Moro "nessuno era in grado di fare qualcosa, né i politici, né i pubblici ministeri, né l'antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano assenti". Ad affermarlo, 36 anni dopo, è lo psichiatra statunitense Steve Pieczenik. Già assistente al sottosegretario di Stato del governo americano e capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale, Pieczenik nella primavera del lontano 1978 fu inviato in Italia per assistere il ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Rimasto nell'ombra per molti anni, alla fine di maggio è stato interrogato dal pm Luca Palamara, che è andato a sentirlo in Florida. Ne parla oggi Giovanni Bianconi in un articolo sul Corriere della sera. Fu Cossiga a chiedere l'aiuto del dottor Pieczenik al segretario di Stato Cyrus Vance: "Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi". Insomma, si era guadagnato una certa fama e così fu chiamato in Italia, dove sbarcò una decina di giorni dopo la strage di via Fani. Lo psichiatra svela quale fosse l'intenzione del suo Paese: "L'ordine non era di far rilasciare l'ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l'Italia". Per gli Stati Uniti, dunque, la vita dello statista della Democrazia cristiana era un particolare secondario. La tesi americana, maggioritaria (a livello politico) anche in Italia, era questa: "In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche... se cedi l'intero sistema cadrà a pezzi". E il cedimento non ci fu. Anche se costò la vita a Moro. Ma cosa fece di concreto Pieczenik, oltre a passare le sue giornate nell'ufficio di Cossiga? "Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia. E la risposta è stata: niente". Prosegue mostrando un quadro a dir poco imbarazzante per il nostro Paese: "Ho chiesto a Cossiga che cosa sapeva delle trattative per gli ostaggi e lui non sapeva niente...". E poi ancora: "Dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattative e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessione". Su precisa domanda del pm Palamara (è vero che lo Stato italiano ha lasciato morire Moro?) il dottor Pieczenik risponde di no: "L'incompetenza dell'intero sistema ha permesso la morte di Moro. Nessuno era in grado di fare niente... tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti". E sottolinea che andò via prima dell'omicidio, dopo essersi reso conto che l'America poteva stare tranquilla: "Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo... nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio". Seppe della morte dello statista italiano quando era già in America. E fece questa constatazione: "Ho pensato che sfortunatamente erano dei dilettanti e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggiore cosa che un terrorista può fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione". Ai microfoni di Mix24 nel settembre dell'anno scorso Pieczenick aveva svelato altri particolari interessanti a Giovanni Minoli, parlando chiaramente di una "manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia" in quel periodo. E rivelò persino di aver temuto che Moro venisse alla fine rilasciato. "A un certo punto - raccontò ancora lo psichiatra a Mix24 - per poter incidere in una situazione di crisi, sono stato costretto a sminuire la posizione e il valore dell'ostaggio, a Cossiga ho suggerito di screditare la posta in gioco" fino a suggerirgli di dire che "quello delle lettere, le ultime soprattutto, non era il vero Aldo Moro". E infine giocò un ruolo determinante nel bocciare l'iniziativa del Vaticano di raccogliere una cospicua somma di denaro per pagare un riscatto. "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia". Già in un libro del 2008 ("Abbiamo ucciso Aldo Moro", Cooper edizioni) Pieczenick aveva svelato l'importanza della manipolazione delle informazioni, nella difficile gestione del sequestro Moro. Il 18 aprile 1978 fu diramato il falso comunicato del lago della Duchessa (il luogo dove si sarebbe trovato il corpo di Moro, ndr). Secondo lo psichiatra americano era un tranello elaborato dai servizi segreti italiani che era stato "deciso nel comitato di crisi". Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma sarebbe servito soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che, alla fine dei conti, metteva in conto l’omicidio di Moro. Che poco dopo sarebbe puntualmente arrivato. 

Ho manipolato le Brper far uccidere Moro. Dopo 30 anni le rivelazioni del «negoziatore» Usa, scrive “La Stampa”. «Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là». Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di cui è stato a conoscenza. Ed è un fatto che né la magistratura, né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo. Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso. Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di Moro. Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Francesco Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo statista. Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla destabilizzazione finale. Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’ un proconsole inviato alla periferia dell’impero. «Il capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era una diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per andare alla deriva». Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a studiare lui. «Secondo le fonti di polizia dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati all’interno della macchina dello Stato». Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano. «Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria. Evidentemente era in questo modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la Beretta che avevo in tasca». Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile, il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza a una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia». Ma la strategia di Pieczenick diventa presto qualcosa di più. E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato». Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia. Una brusca gelata. Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del lago della Duchessa. Secondo Pieczenick è un tranello elaborato dai servizi segreti italiani. «Non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel comitato di crisi». Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro. E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava innescando. «Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato. Ma in questo genere di situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio. E questo è il freddo commento di Pieczenick: «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».

 “Quel giorno ero in via Montalcini e arrivò l’ordine di non intervenire”. L’ex brigadiere della Finanza finito sotto accusa per le clamorose dichiarazioni sul caso Moro racconta per la prima volta la sua verità: «Con altri militari presidiavamo il palazzo adiacente la prigione di Moro. Quando tutti finì ci venne ordinato di dimenticare quello che era successo». Roma, via Caetani, 9 maggio 1978. Il cadavere di Aldo Moro viene fatto ritrovare tra la sede del Pci e della Dc. Due giorni prima l’ex finanziere novarese assicura che era in servizio di vigilanza in un palazzo di via Montalcini, scrive Carlo Bologna suLa Stampa”.  Giovanni Ladu, ex brigadiere della Finanza in pensione da un anno e mezzo, vive a Novara. Il suo nome è venuto alla ribalta in occasione della pubblicazione del libro dell’ex giudice Ferdinando Imposimato al quale Ladu si era rivolto anche con un’altra identità, quella di un fantomatico Oscar Puddu, per rafforzare la tesi del mancato blitz nel covo delle Brigate Rosse in cui era prigioniero Moro. L’ex magistrato, dopo la pubblicazione del libro, si è rivolto alla Procura di Roma sollecitando nuove indagini. C’è voluto poco per scoprire che Ladu e Puddu sono la stessa persona. Ora l’ex finanziere è indagato per calunnia. Per la prima volta ha deciso di rilasciare a La Stampa un’intervista sulla sua versione dei fatti. Respinge l’etichetta di «calunniatore». Giovanni Ladu, ex brigadiere della Guardia di Finanza, parla per la prima volta accanto ai suoi difensori, gli avvocati Gianni Correnti e Giorgio Legnazzi. Nel 1978, nei giorni del sequestro Moro, era un bersagliere di leva. È indagato dalla Procura di Roma perché sostiene che lo Stato era a conoscenza della prigione dello statista ed ha fatto un passo indietro due giorni prima che venisse ritrovato nella Renault rossa in via Caetani. Lui, con altri gruppi pronti al blitz per liberare il leader Dc, garantisce che il 7 maggio era in via Montalcini. Dall’«alto» arrivò l’ordine che l’ex giudice Imposimato, nel libro «I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia» traduce in una denuncia-bomba: la liberazione fu impedita da Cossiga e Andreotti. Imposimato solo a libro stampato si è affidato alla Procura. 

Ladu, la sua è una verità contestata.

«Le e-mail a Imposimato sono state mandate dal 2012 a maggio di quest’anno però quei fatti del ’78 sono stati resi noti ai miei superiori, inizialmente a voce al mio comandante Alessandro Falorni. Dopo le opportune verifiche è stato contattato il giudice che si era occupato del caso Moro».

Lei ha iniziato a raccontare questi fatti nel 2008, perché solo allora? Temeva una rappresaglia?

«Sì, anche perché quando finì tutto, ci era stato detto di dimenticare quello che era successo».

Ma lei chi era in quei giorni?

«Avevo 19 anni, l’anno primo avevo finito il diploma. Ero in servizio di leva obbligatoria ai bersaglieri della caserma Valbella, ad Avellino».

Vi avevano preparato a questa missione?

«No. Ci hanno imbarcato su un pullman “dovete andare a Roma”. Sulle prime ci portano alla caserma dei carabinieri vicino all’hotel Ergife».

Sapevate che c’erano altri gruppi pronti a intervenire in quella che sarebbe risultata la prigione di Moro?

«Inizialmente no. Poi prendiamo possesso di un appartamento adiacente allo stabile dove, scopriremo poi, c’era Moro. Eravamo dieci militari, non in divisa. Non avevamo attrezzature di ascolto (queste attrezzature sono state poi messe in una cascina abbandonata che era di fronte al palazzo, lì c’era una postazione di controllo già predisposta prima che arrivassimo. Noi dovevamo solo verificare chi entrava e usciva, se c’erano persone sospette».

Quando avete intuito che poteva essere il covo?

«Ci avevano detto che c’era un noto personaggio in quell’appartamento, messo in condizione di non uscire. Moro era stato rapito il 16 marzo , in Italia si parlava solo di quello».

E arriva il 7 maggio 1978, con l’ordine di smobilitare senza liberare il «personaggio». In seguito scoprirete che là dentro c’era proprio il presidente della Dc.

«Certo, leggendo i giornali. Io mi sono anche strizzato sotto. Rientrato ad Avellino sono stato destinato subito al reggimento, alla caserma dei bersaglieri di Persano (Salerno)».

I dieci commilitoni non li ha più sentiti?

«No, non so nemmeno che fine abbiamo fatto. Nessun contatto».

Dopo trent’anni, nel 2008, decide di parlare. Perché?

«Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’uccisione di Moro, venivano riferite falsità».

Non ha mai cercato di «vendere» la sua verità?

«Assolutamente no, all’epoca ero ancora in servizio. Non ho avuto, né cerco compensi. Ho fatto i miei passaggi rivolgendomi ai miei superiori gerarchici, loro hanno poi informato il procuratore di Novara Francesco Saluzzo al quale ho fornito un memoriale di tre pagine. Non ho fatto alcun nome, nessun riferimento ai vertici dello Stato. Ho soltanto indicato i fatti di cui sono a conoscenza. E non sono state ravvisate ipotesi di calunnia perché nel 2011 questo procedimento è stato archiviato».

Lei, in questa prima fase, è Giovanni Ladu. Poi nel 2012 si ripresenta con il nome fittizio di Oscar Puddu. Al punto che Imposimato ci casca, pensa che Ladu e Puddu siano due persone distinte. Perché questo espediente?

«Volevo che si riaprisse il caso, per venire a capo di questa vicenda. L’ex giudice faceva delle domande, io rispondevo. Ci siamo scambiati 84 mail, da privato a privato. Io ero in pensione dalla Finanza, Imposimato dalla magistratura».

Imposimato, anche sulla base della sue rivelazioni, arriva a scrivere che «Moro fu vittima della ferocia delle Br ma anche di un complotto ordito da Andreotti e Cossiga».

«Mai fatti quei nomi, sono conclusioni di Imposimato. Lui mi chiese se erano al corrente dell’ipotesi di un blitz e della decisione di fermarlo».

Il figlio di Cossiga ha definito le sue ricostruzioni da «trattamento sanitario obbligatorio».

«Non sono matto, né mitomane. E non ho mai detto che Cossiga ha ordinato quel delitto».

E a chi parla di depistaggio, cosa risponde?

«Nessuna intenzione di alzare polveroni o coprire qualcuno, chiedo l’opposto: che si arrivi alla verità. Non volevo nemmeno tutto questo clamore. Quando ho visto il mio nome nel libro di Imposimato mi sono pure arrabbiato. Ho fatto tutto questo anche contro il volere della mia famiglia ma sentivo che dovevo togliermi un peso. Tutti gli altri hanno seguito l’ordine di dimenticare, io non ci sono riuscito».

L’ex ispettore e i misteri del caso Moro “Parlerò solo con pm e in Parlamento”

Enrico Rossi aveva indagato su una lettera inviata nel 2009 a La Stampa Al centro i due motociclisti sulle Honda comparsi in via Fani. C’era un torinese? Scrivono Grazia Longo e Massimo Numa su “La Stampa”. L’ex ispettore della Digos Enrico Rossi sa di essere, da poche ore, al centro dell’attenzione. Ha rivelato all’Ansa alcuni retroscena del caso Moro, in particolare sul ruolo - mai chiarito - di un motociclista, in sella a una Honda, comparso in via Fani nell’ora X del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Deciso a raccontare la «sua» verità, perchè gli accertamenti che furono svolti in allora dai suoi colleghi in modo scrupoloso non portarono a nulla. «Tutto è partito - ha detto Rossi all’Ansa - da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì». Le ricerche dell’ispettore sono nate da una lettera anonima inviata nell’ottobre 2009 alla redazione de La Stampa. Questo il testo: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più». La polizia avviò così le prime indagini. In una casa di Cuneo, dove l’uomo ha vissuto con la prima moglie, vengono trovate due armi regolarmente denunciate: una Beretta e una Drulov, un’automatica di precisione di fabbricazione cecoslovacca. E le pagine originali di Repubblica dei giorni del sequestro Moro. Rossi afferma di aver chiesto di sentire la coppia e di ordinare una perizia sulle armi. Ma non accadde nulla. Sui dettagli dell’indagine Rossi è pronto a testimoniare. «Ma solo con la magistratura e nelle commissioni parlamentari. Aspetto di essere convocato». Che l’Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 rappresenti un mistero è un dato assodato. Tutte da chiarire sono invece le rivelazioni di Rossi: la procura di Roma, che si sta occupando del caso, non ha per ora trovato riscontri. L’attività degli inquirenti, comunque, prosegue. Intanto la memoria ricorre a pochi mesi fa, quando - il 6 novembre scorso - l’ex brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu è stato indagato per calunnia dalla procura della capitale proprio perché, secondo la pubblica accusa, aveva fornito informazioni false sul caso Moro .

La moto Honda di via Fani Un mistero lungo 36 anni. Le rivelazioni di un ex poliziotto: “A bordo c’erano due 007”, scrive “La Stampa”. Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un “civile” presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: «Non è certamente roba nostra». L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui “ad altezza d’uomo” proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di “passare” all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo. Il conducente della moto - disse - era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: `Devi stare zitto´. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro. Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in “cerca di gloria” (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della `ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita. I Br negano ma, ha detto il magistrato, «una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile». Uomini della malavita o dei servizi? «Allora tutto si spiegherebbe». Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di “gestire” il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.

Il martire del terrorismo su cui l'Italia resta spaccata. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani: Aldo Moro rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani. C'è chi esalta tuttora la sua politica di avvicinamento al Partito Comunista di Enrico Berlinguer (le famose convergenze parallele), chi è convinto che il suo progetto di compromesso storico avrebbe addirittura messo in discussione la nostra appartenenza al blocco occidentale. C'è chi ha parole di elogio per la sua politica estera filoaraba, chi la critica al punto di averlo ribattezzato Al-Domor. C'è chi ritiene che con le sue ripetute prese di distanza dagli Stati Uniti d'America abbia fatto gli interessi dell'Italia, chi lo esecra ancora per avere concluso il famigerato trattato di Osimo con la Jugoslavia di Tito. A quasi trentacinque anni dal suo rapimento ed assassinio ad opera delle Brigate Rosse, Aldo Moro, primo capo di un governo di centro-sinistra e poi per cinque volte presidente del Consiglio tra il 1963 e il 1976, rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica. Pugliese di nascita, laureato in legge, profondamente cattolico, Moro ha fatto parte fin dal principio della corrente dossettiana di sinistra, critica della politica centrista di Alcide De Gasperi, ed è rimasto sempre su queste posizioni. Quando fu rapito il 16 marzo del 1978, era presidente del partito e si apprestava a realizzare il suo obbiettivo di inserire formalmente il Partito comunista italiano nei meccanismi del potere. I cinquantacinque giorni della sua prigionia furono i più drammatici degli anni del terrorismo, spaccando governo, partiti e parlamento in un fronte della fermezza, contrario a ogni trattativa per la sua liberazione per non dare un riconoscimento politico alle Brigate Rosse (Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, il Partito Comunista Italiano) e un fronte possibilista disponibile a negoziare uno scambio di prigionieri coi rapitori (Bettino Craxi, Amintore Fanfani, il Vaticano). Durante la prigionia scrisse 86 lettere, di cui alcune ferocemente critiche verso i dirigenti della Democrazia Cristiana («Il mio sangue ricadrà su di loro»). Ma tutto fu inutile: il 9 maggio il suo corpo crivellato di colpi fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa a pochi metri da piazza del Gesù a Roma. Per protesta, i familiari rifiutarono i funerali di Stato. Vari aspetti della vicenda sono ancora circondati dal mistero, dando vita a una pletora di teorie complottistiche che attribuiscono il suo assassinio alla P2, alla CIA, al KGB o addirittura ad ambienti democristiani. Inutile dire che nessuna è stata provata.

Troppi bugiardi sul memoriale Moro. La figlia legge il libro di Gotor sugli scritti dalla prigionia "È il momento per chi ha sempre taciuto di dire la verità", scrive Agnese Moro su “la Stampa”. Il nuovo libro dello storico Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011, 622 pagine, 25 euro) è un lavoro interessante, che ci accompagna nelle avventurose traversie di quel Memoriale che raccoglie le risposte che mio padre, Aldo Moro, diede alle Brigate Rosse, durante gli interrogatori ai quali fu sottoposto nel corso della sua prigionia (16 marzo - 9 maggio 1978). L'Autore ha fatto un minuzioso lavoro di ricostruzione delle vicende che interessarono quello scritto: la pubblicazione, nel corso del sequestro, di alcune pagine riguardanti l'onorevole Paolo Emilio Taviani; il ritrovamento, da parte degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell'ottobre del 1978, nel covo di via Monte Nevoso a Milano, di un testo consistente in fotocopie di un dattiloscritto; il secondo ritrovamento, nell'ottobre del 1990, sempre nello stesso covo brigatista, di fotocopie di lettere e di un manoscritto, il cui contenuto è parzialmente diverso da quello del dattiloscritto rinvenuto nel '78. Fino ad arrivare alla ragionevole e documentata ipotesi della esistenza di un manoscritto più ampio di quello del '90 (identificato dall'Autore come ur-memoriale), fin qui mai ritrovato. Le tracce di questo testo originario vengono seguite da Gotor attraverso una raccolta di dichiarazioni di chi quel testo - con ogni probabilità - lo vide e lo lesse. Testimoni che, nel libro, sono divisi in due gruppi: i morti (il generale Dalla Chiesa, il giornalista Mino Pecorelli) e i sopravvissuti (i brigatisti, alcuni giornalisti ad essi in qualche modo contigui, esponenti dell'area dell'autonomia, Francesco Cossiga). C'è un grande lavorio attorno al Memoriale: impossessarsene, ritrovarlo, delegittimarlo (assieme al suo autore), farlo sparire, edulcorarlo. Tutto sembra ruotare attorno alla figura di Giulio Andreotti, sul quale mio padre avrebbe fatto - è questa l'ipotesi - dichiarazioni molto compromettenti. La posta in gioco nella gara drammatica per il recupero e la pubblicazione del manoscritto originale, o, al contrario, perché ciò non avvenga, riguarda, infatti, la presa del potere in Italia, che si gioca proprio attorno alla figura di Giulio Andreotti, e degli ambienti emergenti che a lui fanno riferimento. Si tratta di una destra profonda, ben più ampia di quella rappresentata come tale in Parlamento, alla quale non sono estranee la loggia massonica deviata P2, pezzi dei servizi segreti, la criminalità organizzata, i grandi interessi privati. Una presa di potere che poi effettivamente avverrà, almeno al livello nazionale, con un cambiamento radicale della finalità e della qualità della nostra vita democratica. Non si tratta, purtroppo, di una spy-story, o di uno scritto «a tesi». E' piuttosto la puntigliosa e precisa ricostruzione di un pezzo importante di storia del nostro Paese, che Gotor fa passare sotto i nostri occhi senza abbellimenti. E con una drammaticità non retorica, dal momento che è una storia piena di speranze e di sangue. Al termine di una lettura che mi ha particolarmente, e ovviamente, coinvolta, mi pongo tre quesiti. Il primo riguarda il manoscritto completo: esiste ancora da qualche parte? Sarebbe davvero bellissimo che fosse così, perché ci aiuterebbe a comprendere meglio quello che avvenne allora. Se qualcuno ne sapesse qualcosa sarebbe il momento di dirlo. Il secondo quesito riguarda la consapevolezza o l'inconsapevolezza del mondo politico nel suo insieme rispetto a quanto stava avvenendo, ovvero alla lotta per il potere combattuta con tenacia da forze ostili alla democrazia repubblicana, con tutto quello che essa comporta in termini di sovranità di ogni cittadino, solidarietà e impegno per la costruzione della giustizia. Quanti sapevano? Chi sapeva in quel 1978? Il terzo quesito: quanto hanno pesato le vicende che Miguel Gotor descrive nel libro sulla decisione di non far nulla (come disse papà in una delle sue lettere: «Non c'è niente da fare quando non si vuole aprire la porta») per salvare Moro? Il valore di un libro non si vede solo dalle cose alle quali dà una risposta, ma anche dai quesiti che pone in tutta evidenza, senza che si possa sfuggire loro. Personalmente sono convinta che sia venuto il tempo di unire le forze per dare una compiuta ricostruzione e spiegazione di quegli anni difficili. Unire le forze: gli storici, i protagonisti attivi nella lotta armata, nelle attività eversive,nella politica, nei Servizi o nell' antiterrorismo, coloro che custodiscono i documenti e chiunque possa dare un contributo per chiarire le cose. E noi che abbiamo patito i frutti avvelenati di quella stagione. E' una strada certamente complessa e dolorosa, ma è necessario percorrerla se vogliamo avere quella verità che come Paese attendiamo da troppo tempo. E' il prezzo che dobbiamo pagare se vogliamo rimettere il passato al suo posto, e riprendere, con mitezza e serenità, il cammino che quegli anni terribili hanno interrotto.

Alla fine la storia dà lustro ai bistrattati contemporanei. 

Il ritratto di Giorgio Almirante, il "fascista che amava il Parlamento", scrive Mario Bernardi Guardi su “Libero Quotidiano”. Giorgio Almirante, ricoverato per ischemia cerebrale nella clinica romana «Villa del Rosario», muore il 22 maggio 1988, un mese prima di compiere 74 anni. Accanto a lui la moglie, Donna Assunta Stramandinoli, che della sua «eredità d’affetti» si farà colorita custode. Come nota Aldo Grandi (Almirante. Biografia di un fascista, Sperling & Kupfer, pp. 468, euro 18,90, da oggi in libreria), a scrivere il “coccodrillo” più schietto e polemico fu Indro Montanelli, che «non fece piangere nessuno, ma arrossire tanti», tutti quelli che per oltre 40 anni avevano cercato di emarginare il leader missino. Chissà cosa avrebbe potuto fare quest’uomo - si chiedeva Indro - se avesse scelto di militare in un partito antifascista. Ma, fedele com’era alla milizia repubblichina, nemmeno a pensarci! Tuttavia, nessuno come lui «si adattò alla libertà e seppe adattarvi un partito nutrito di rimpianti totalitari e di tentazioni eversive». Chissà cosa avrebbe potuto provocare il terrorismo nero, «se avesse avuto il supporto, anche solo morale, di un partito organizzato». Invece Almirante lo sconfessò, «prima ancora che il Pci sconfessasse il terrorismo rosso», frenò sempre le tentazioni bombarole e golpiste e, convinto che il Msi potesse avere un avvenire solo se si distaccava dal passato, dette vita alla Destra Nazionale, per costruire un partito moderno e addestrarlo alle battaglie parlamentari. Infatti al fascista Almirante piaceva, eccome, quel Parlamento dove poteva cimentarsi al meglio con la sua «oratoria efficace» e i suoi «interventi puntuali, tempestivi, brillanti». Onesto e coraggioso, era «uno di quei pochi politici cui si poteva dare la mano senza paura di sporcarsela». Su questa immagine positiva, Grandi è d’accordo, tanto che chiude il suo libro proprio con le parole di Indro. Ma il percorso biografico che traccia non ha nulla a che fare con l’agiografia. Perché è, piuttosto, un invito a dibattere, con tanto di documenti e testimonianze, su una figura ricca di luci e ombre. E allora va ricordata prima di tutto la coerenza del fascista. Non un “mistico” come quel Giani o quel Pallotta venerati da Montanelli, ma di sicuro un convinto militante. Con la Destra Nazionale indossò il doppiopetto? Sì, ma non rinnegò mai nulla. Meno che mai Salò. Per dirne una, nel primo comizio che tenne (Brescia, 29 giugno 1969) dopo esser tornato alla guida del partito, affermò che i motivi ispiratori della Rsi dovevano essere «richiamati, attualizzati, proiettati in avanti, per la loro validità storica e per la loro permanente validità morale». Se fu sempre fedele alla sua giovinezza in camicia nera, l’Almirante parlamentare e segretario del Msi prese invece le distanze dalle battaglie antisemite combattute sui giornali di Telesio Interlandi. Mea culpa, confessava Almirante, aggiungendo che, comunque, era sempre stato distante dal razzismo biologico di stampo nazista. Vero? Beh, osserva Grandi, che è andato a rileggersi tutti gli articoli razzisti, Almirante non inneggiava certo allo sterminio, ma auspicava una forte mobilitazione politico-culturale contro l’ebraismo. A partire dal mondo del cinema, formidabile macchina di educazione e propaganda. Insomma Almirante, parlando dei propri trascorsi, gettava un bel po’ d’acqua sul suo «interventismo culturale» razzista. Imbarazzi, reticenze e mezze verità che Julius Evola gli rimproverò. Perché, gli faceva osservare il Barone Nero, prendendo le distanze da ogni furore persecutorio, non hai rivendicato la legittimità di un «razzismo dello spirito», volto alla disciplina del carattere, alla formazione interiore e alla difesa della tradizione culturale “romana” contro ogni meticciato? Mica facile, però, precisare e distinguere… Va da sé che il lungo viaggio attraverso l’antifascismo compiuto dal fascista Almirante avrebbe messo a dura prova chiunque altro non avesse avuto la sua tempra. Anche se non mancano gli errori. Ad esempio, non è certo lungimirante quando oppone al ’68 come «rivolta generazionale», potenzialmente al di là della Destra e della Sinistra, un trucido forcaiolismo piccolo-borghese a presidio del sistema. E poi ci sono un po’ di misteri non del tutto chiari: il passaggio dall’antiamericanismo e dal filoarabismo al sostegno, sempre e comunque, a Usa e Israele, le contraddizioni sulla rivolta di Reggio, il golpe Borghese, i rapporti con la destra radicale, il filo (in)diretto con le questure, il viavai dei servizi segreti... Eppure, alla fine e parafrasando Montanelli: ma se non ci fosse stato Almirante?

E poi si ristabilisca la verità sulle pagine nere della storia italica.

VIA RASELLA Un mistero che dura da sessant'anni, scrive Pierangelo Maurizio su “Il Giornale”. E così la Cassazione ha condannato il Giornale per un articolo di undici anni fa che criticava l'attentato di via Rasella compiuto dai Gap, il braccio armato del Partito comunista italiano, il 23 marzo '44, e ha confermato che si tratta di un'«azione di guerra». Siccome mi sono occupato a lungo di quella vicenda - in quel budello di strada che è via Rasella nel centro storico di Roma ci ho passato i mesi, mentalmente gli anni - provo a offrire la mia testimonianza. Nel '96 - allora lavoravo al Tempo - cominciai l'inchiesta. Trovai le foto del corpo di Piero Zuccheretti, un bambino di 13 anni, fatto a pezzi dall'esplosione della bomba dei Gap. Soprattutto rintracciai il fratello gemello di Piero. Mi raccontò la tragedia abbattutasi sulla famiglia e la rabbia per essere stati costretti al silenzio. Riuscii anche ad avere il certificato di morte di Piero Zuccheretti: risultava morto il 23 marzo '44 «per scoppio di bomba». Se non vado errato, solo a quel punto Rosario Bentivegna, cioè colui che accese la miccia nel carrettino da spazzino imbottito di tritolo, e la «letteratura resistenziale» hanno ammesso che a via Rasella «purtroppo morì un bambino, Piero Zuccheretti». Eppure la famiglia aveva pubblicato fin dal giorno dopo l'attentato sul Messaggero il necrologio di Piero. Primo mistero: perché c'è voluto mezzo secolo per ammettere la morte di un bambino (e dargli un nome)?
Secondo mistero. A via Rasella ho ricostruito l'identità di un altro morto. Si chiamava Antonio Chiaretti. E qui le cose si complicano. Già, perché Chiaretti era un partigiano di «Bandiera rossa». Ma la sua memoria, di partigiano caduto in via Rasella, è stata cancellata. Perché? Come mai? Con lui si trovavano alcuni compagni di «Bandiera rossa» che finirono alle Ardeatine. Che ci facevano a via Rasella? Nei loro ricordi gli ultimi sopravvissuti di «Bandiera rossa» che ho incontrato conservavano l'idea che fossero stati attirati in una trappola. E adombravano il sospetto che si volesse far ricadere la responsabilità dell'attentato su quella formazione. Sul giallo di questa presenza a via Rasella né da Bentivegna né dalla vulgata resistenziale è venuto un aiuto a capire di più.
Terzo mistero. Quante furono le vittime, esclusi i 32 soldati del battaglione Bozen, poi diventati 33 e poi oltre 40? La perizia del professor Ascarelli (lo stesso che eseguì le autopsie sui 335 morti delle Fosse Ardeatine) su quei poveri resti è sparita. Se ne trovano tracce nella sentenza del processo Kappler del '48. Parla, senza fare i nomi, di due cadaveri, un adulto e «una bambina» . Forse si confuse con Piero Zuccheretti? Strano. Oppure le vittime civili furono più di due. Come la Cassazione possa affermare che «ora nessuno più mette in discussione che quelle vittime furono soltanto due» è, storicamente, incomprensibile. La Cassazione fa una descrizione precisa dei componenti del Battaglione Bozen, come «di uomini pienamente atti alle armi, di età compresa tra i 26 e i 43 anni». Vero. Ma traccia il ritratto, in un'epoca in cui la migliore gioventù di 18-20 anni veniva maciullata al fronte, dei perfetti riservisti. È vero, avevano un moschetto e tre bombe a mano alla cintola. La Cassazione però dimentica un piccolo particolare. Nel '96 rintracciai un superstite del «Bozen». Mi raccontò che il Comando tedesco, in ragione dello status di Roma come «Città aperta», con teutonica ottusità, li faceva marciare con i moschetti scarichi. Erano montanari altoatesini, che avevano optato per la cittadinanza tedesca ed erano stati forzatamente arruolati. A Roma stavano seguendo un corso di addestramento, al termine sarebbero stati impiegati come piantoni. Certamente non erano destinati a reparti d'assalto o di SS. Via Rasella non è sempre stata un'«azione di guerra», come ha ora ribadito la Corte di Cassazione. A cose ancora calde, nel '48 la sentenza del Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all'ergastolo per le Fosse Ardeatine (non per la rappresaglia ma per i condannati in più che aggiunse arbitrariamente), definì l'attentato dei Gap un «atto illegittimo» contrario a tutte le convenzioni internazionali. Tanto che i familiari di tre poveri ebrei finiti a far numero alle Fosse Ardeatine cercarono di portare in giudizio non solo gli esecutori dell'attentato ma anche i mandanti tra cui, a torto, Sandro Pertini. Per motivi incomprensibili, si trovò il modo di incardinare il processo non al Tribunale militare, non in sede penale, ma in sede civile. Nel '51 poche settimane prima che ci fosse il verdetto il governo De Gasperi conferì onorificenze al valor militare agli esecutori materiali di via Rasella (la medaglia d'argento a Rosario Bentivegna è stata consegnata solo nell'83 dall'allora Presidente-partigiano Sandro Pertini). Qualche settimana dopo il Tribunale civile sentenziò, pressoché sulla base di questo assunto: gli attentatori sono stati appena premiati pubblicamente come eroi, dunque nessun atto illegittimo può essere addebitato loro. Da qui nasce il mito intoccabile di via Rasella «azione di guerra». Da allora chiunque abbia osato contestarlo è stato passibile di querela, con condanna più che probabile. Ne fece le spese anche il grande Indro Montanelli, per aver violato in un libro la sacralità del mito; la Rizzoli - a quanto mi è stato detto - fu costretta a mandare al macero 30mila copie. A lungo si è parlato, e ora ci è tornata sopra la Cassazione, dei manifesti che il Comando tedesco avrebbe affisso invitando gli attentatori a consegnarsi per evitare la rappresaglia, e di cui nessuno è mai riuscito a fornire una prova. Tempo perso. Non è questo il problema. Qualche anno dopo in un'intervista a un settimanale Rosario Bentivegna e la moglie Carla Capponi dissero che «se anche avessimo voluto consegnarci, il partito ce lo avrebbe impedito». E questo è il punto. L'ineffabile professor Nicola Tranfaglia, storico, richiesto di un commento alla nuova sentenza della Cassazione, ha dichiarato che «alle Fosse Ardeatine vennero uccisi antifascisti, ebrei, oppositori». Nella più che prevedibile rappresaglia nazista furono sterminati in prevalenza appartenenti a «Giustizia e libertà», a «Bandiera rossa», ai partigiani monarchici, tutte e tre formazioni contrapposte al Pci o sue rivali. Tutti, a cominciare dall'eroico colonnello Montezemolo (zio di Luca), che come capo del «Fronte militare clandestino» aveva vietato gli attentati a Roma proprio per evitare rappresaglie, nei mesi e nelle settimane precedenti erano stati arrestati, il più delle volte sulla base di delazioni provenienti dall'interno della Resistenza. Nei mesi precedenti l'Unità clandestina, diretta da Mario Alicata, fece una guerra spietata a quelli di «Bandiera rossa», formazione in cui c'erano trozchisti, un anarchico, qualche repubblicano e soprattutto numerosi ufficiali «democratici» come Aladino Govoni (trucidato alle Ardeatine), il figlio del poeta Corrado. Il foglio del Pci arrivò a definirli «emissari di Goebbels» uguagliandoli ai nazisti. Poche settimane prima di via Rasella avvertì che se qualcosa di grave fosse accaduto a Roma «sappiamo di chi è la responsabilità». Lo sterminio alle Fosse Ardeatine di «Bandiera rossa» e delle altre formazioni fu un danno collaterale dell'azione di via Rasella? Un caso? Antonello Trombadori, uno dei leader del Pci, che aveva capeggiato i gappisti romani nella prima fase e si trovava nel carcere di Regina Coeli, si salvò grazie al medico del carcere, il dottor Monaco, che lo dichiarò «intrasportabile» perché malato. Ma alle Fosse Ardeatine finirono storpi e anche un ragazzo di 14 anni. Si potrebbe poi parlare - tra le tante ombre di questa vicenda - del segretario romano del Pci che all'epoca era un informatore dell'Ovra la polizia politica di Mussolini. Il commando di via Rasella in parte fu arrestato poche settimane dopo l'attentato (tranne Rosario Bentivegna e Carla Capponi) e salvato grazie alle complicità della Questura. Si potrebbe discutere degli intrecci e del potere che, a partire dalla «geometrica potenza» dispiegata il 23 marzo del '44, i vertici del Partito riuscirono a imporre su una parte dei servizi segreti ex fascisti. Giorgio Amendola, comandante militare dei Gap a Roma che fece da supervisore dell'attentato, si è portato dietro per tutta la vita il cruccio di via Rasella. Rosario Bentivegna continua a tacciare come «imbecilli e faziosi» quelli che mettono in dubbio la vulgata. Ma io lo abbraccerei, Bentivegna. Pur di mantenere intoccabile il mito si è assunto le responsabilità per tutti, compresi storici e pseudo-storici come i giornalisti, trascinando per decenni il peso di quel carretto carico di centinaia di morti. Lo abbraccerei, e gli chiederei solo: che cosa pensi veramente, che cosa hai capito di questa storia? Ma so che è inutile.

Via Rasella, finalmente qualcuno la racconta giusta. Dopo Via Rasella, una piece teatrale racconta i fatti con empatia verso gli esseri umani, scrive Simonetta Sciandivasci su “Il Giornaleoff”. Per andare da Casalbertone a Termini, a piedi, ci vogliono 50 minuti. Le pallottole non fanno curve, corrono dritte. Niente whiskey, c’è solo l’amaro fatto in casa. Quelle che imparano a scrivere a macchina studiano dattilografia. I notai sono ricchi. Vittorio, protagonista di “Dopo Via Rasella”, si fa prendere da tutto questo mentre tenta di raccontare a Giacomo (Antonio Pisu) la rappresaglia seguita all’attentato del GAP in cui rimasero uccisi 33 tedeschi e che costò la vita a 335 italiani. Si fa prendere da visioni e battute. Vuole dire quanto freddo fa, quanto cammina, com’è il suo lavoro. Non pensiamo mai che alla storia sia attorcigliata la vita e a quanto essa sia materialista, pratica. Se immaginiamo Roma, la mattina dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la pensiamo solenne, piegata. Invece, era solo Roma: fredda, lunga, rumorosa, tutti incazzati. Compreso Vittorio, ferroviere ed ex alpino, reduce dalla guerra in Grecia, che si sveglia dicendosi “oggi non vado a lavoro”, ma poi ci va. E passa al cimitero, perché di parlare con Dio non se la sente, ma con la moglie sì. Vittorio, nella sua narrazione, fa vincere la vita, che è sempre una distrazione dal suo senso, dal percorso collettivo su cui il tempo la incunea. Non appena comincia a capire cosa gli è successo, di essere stato salvato dal rastrellamento e di essere, quindi, un debitore, Pierpaolo De Mejo, che di “Dopo Via Rasella” è autore, sceneggiatore e attore, fa calare il sipario. Una scelta perfetta che rende lo spettacolo, in scena a Roma dal 6 al 30 novembre presso il Teatro Elettra, quello che il suo autore voleva che fosse: il racconto di una vicenda umana, i cui protagonisti (con Vittorio e Giacomo c’è una ragazza, Olivia Cordsen, che ricorda che si sta parlando di guerra, che sono morte persone ed è importante dire quante e come) hanno un ruolo misericordioso: prescindere da bene e male, dalle coscienze dei carnefici. Per Adorno, dopo l’olocausto non sarebbe più stata possibile la poesia. Si ricredette presto, capendo che proprio da poesia e arte l’umanità sarebbe ripartita. Pierpaolo, trentenne poderoso, dimostra che il teatro, che è poesia mobilitata, può essere civile senza essere politico, guardando con gli occhi (non con i manuali) la storia. Se riuscissimo ad affrontarla senza emotività, l’appropriazione delle tragedie per corroborare o distruggere ideologie sarebbe impensabile: basterebbe l’intuito per illuminarci sulla funzionalità degli eventi e riallacciarci all’empatia verso gli altri esseri umani, anche quelli con le responsabilità peggiori. Quando ci riusciremo, potremo riflettere su quanto strana sia stata la scelta dei partigiani, a pochi giorni dalla liberazione di Roma, di attentare alla vita dei tedeschi, ormai in ritirata.

In questo modo non è scandaloso rivalutare la statura degli statisti del tempo che fu.

 “L’unica lotta alla mafia? Quella di Mussolini”. Una passione per i perdenti, gli oscuri, i  presunti cattivi. Un interesse per i lati poco indagati o indagati male di storia, antropologia, geopolitica. Un certo anti-modernismo di fondo che non è mai diventato mentalità reazionaria. E la convinzione che le categorie di destra e sinistra siano un’eredità ormai da dismettere. Questo è Massimo Fini. Di padre toscano e di madre ebrea russa, brillante ediorialista e inviato per il Giorno e l’Europeo. Compagno di scorribande di Vittorio Feltri all’Indipendente, ora editorialista de Il Fatto Quotidiano. Autore di saggi controcorrente. Siamo andati a trovarlo per una chiacchierata su Nerone, che poi è andata per conto suo. Lo spettacolo di Edoardo Sylos Labini, in questi giorni al Manzoni di Milano, prende titolo, argomento, e impostazione proprio da un saggio di Fini: Nerone. Duemila anni di calunnie (Marsilio, pp 267, Euro 12) “Della piéce mi ha colpito la drammaturgia, la scrittura. Era molto difficile fare una sceneggiatura di quest’opera, soprattutto avendo scelto di valorizzare Nerone e Seneca. Nonostante la modernizzazione degli ambienti siamo all’interno di una storia a pieno titolo romana” racconta Fini a ilgiornaleoff.it.

Qual è il significato storico di una figura come Nerone?

«Nerone è stato un principe rinascimentale calato nella storia romana. Con visioni molto ampie in tutti i campi, ma nato con troppi secoli di anticipo. Da un punto di vista politico fa parte di una linea che parte da Catilina, che tenta di tagliare un po’ le unghie ai “fannulloni” (come li chiama lui) del Senato, e di dare una dignità alla plebe».

E’ una costante della storia romana, dalla crisi della Repubblica in poi: chi vuole il comando cerca di bypassare il Senato e di farsi amica la plebe. Populismo?

«Due imperatori, Caligola e Nerone si interessarono alla plebe per riequilibrare le forze. Nerone di più. E infatti fu amatissimo dal popolo che continuò a portare foori a lungo sulla sua tomba, aspettandone il ritorno. E nei decenni successivi ci furono ben tre falsi Nerone che si presentarono come la sua reincarnazione. Come statista Nerone ebbe una visione molto ampia. Volle abolire le imposte indirette ma senza aumentare quelle dirette attraverso una politica keinesiana di grandi lavori pubblici. Non aveva grande voglia di fare l’imperatore: Nerone era un amante delle arti. Ma ebbe il suo peso anche come uomo politico».

Da un certo momento in poi gli imperatori usano la cultura per realizzare il loro progetto politico. Augusto fa scrivere l’Eneide, Nerone usa molto gli spettacoli del circo…

«Ma mentre il tentativo di Augusto è elitario quello di Nerone no: nell’anfiteatro ci andavano tutti. Augusto era una sorta di proto-democristiano: governava per l’aristocrazia. Un personaggio abbastanza spregevole, tutto sommato».

Seneca. Viene citato ancora oggi come saggio universale, mentre sembra di capire che a lei fa abbastanza orrore. Perché?

«E’ il classico personaggio dalla doppia morale. Faceva prestiti a usura in proporzioni pazzesche. Una delle guerre che a Nerone tocca fare nasce perché Seneca richiede ai Britanni il rientro immediato di dieci milioni e mezzo di sesterzi. E anche come pensatore, Caligola lo definisce “sabbia senza calcina”. E’ un ottimo divulgatore dello stoicismo. Ma non va al di là di questo».

Questa sua mania per vedere i lati oscuri dei personaggi positivi, anche nell’attualità. Qualche anno fa stroncò Emma Bonino, che si era introdotta nei reparti femminili di un ospedale afghano con un codazzo di uomini.

«Lì la Bonino era da frustare con le verghe sacre. Bisogna tenere conto della cultura del paese in cui si entra».

Altre buone fame di cui diffida?

«Per esempio quella di Matteo Renzi. Del tutto basata sul virtuale. Non c’è nulla di concreto che la giustifichi».

Renzi recentemente è andato da Barack Obama.

«Obama quando è venuto in Italia l’unica cosa che ha saputo dire era che il Colosseo è più grande di un campo da baseball. Ma sono due poveretti che non contano più nulla di fronte a Cina, Russia e altre potenze emergenti mondiali. Comunque sappiamo com’è la storia…»

E com’è?

«Il solito tributo all’alleato presunto importante. A proposito, in Italia l’unico che ha tentato una politica autonoma è stato Andreotti. Ha fatto una politica di avvicinamento al mondo mediterraneo, anche molto abile e molto coraggiosa. In un altro paese sarebbe stato un grande statista. Nel nostro è stato a metà un grande statista e a metà un delinquente. Perché purtroppo in Italia non può non andare cosi. Il giornale per il quale scrivo insiste sul parallelo Andreotti-belzebù, i contatti con la mafia…»

E non li aveva?

«Ce li avevano tutti. Anche l’integerrimo Ugo La Malfa aveva il suo uomo in Sicilia, Aristide Gunnella, che era un mafioso…»

Bisogna prendere i voti al Sud…

«Certo. E poi, è noto che la mafia assume il potere che assume perché gli americani l’hanno usata come appoggio per lo sbarco in Sicilia. L’unico regime che l’ha davvero combattuta è stato il fascismo. Un regime forte non può accettare che ci sia all’interno un altro regime forte. Che poi è il motivo perché Saddam Hussein detestava Bin Laden, e quest’ultimo in Iraq non c’è mai stato».

E a questo punto parliamo di geopolitica. Quest’Europa che si preoccupa tanto di osteggiare la Russia, mentre infuria la guerra dell’Isis, è legata a una contrapposizione da guerra fredda, ormai vecchia?

«Assolutamente stupida. Avremmo dovuto prendere le distanze dagli Usa col crollo dell’Urss. Fino ad allora il legame aveva avuto un senso. Ma come dice Luciana Littizzetto (a volte i comici dicono meglio) “Ma quand’è che scade il mutuo?”. Oggi sarebbe molto più ragionevole una vicinanza con la Russia, che ci è più vicina geograficamente e culturalmente. La Russia è Europa».

Ma perché l’idea del dialogo con la Russia ce l’ha solo gente di destra, anche estrema, mentre la sinistra è in blocco filoamericana? Non le sembra un paradosso?

«La destra (parliamo in generale, banalizzando) ha una concezione individualista, è più libera in certe cose. La sinistra sconta ancora il materialismo storico, è collettivista, non riesce a staccarsi dalle sue categorie(tte). E poi chi governa (al momento la sinistra) pensa solo al qui e ora. E vengono fuori disastri, come il fatto che gli Usa ci abbiamo trascinati nella guerra in Libia. Totalmente autolesionista. O nella guerra alla Serbia. Ce la siamo presa con un paese cristiano ortodosso. Attaccare questi per favorire la componente musulmana nei Balcani non è stata una cosa intelligente. Ora in Kossovo e in Albania sono cresciute cellule di radicalismo islamico che ci possono colpire in ogni momento».

Lei si definisce un “onesto pagano”. Non è certo un cattolico. Le domando: c’è un fondamentalismo laico? Ci sono i Mullah del laicismo?

«E come no? L’altro giorno ho pubblicato con gran dispetto del mio direttore una frase di un leader della rivoluzione francese come Louis Antoine de Sant Just: “La verità è una sola, può essere ammesso solo il partito che si riconosce in questa verità. Tutti gli altri devono essere soppressi”. Il gene del totalitarismo laico c’è già. E oggi si è fatto carne. E sta in questa convinzione che il mondo occidentale sia migliore e abbia il dovere di imporre i propri valori agli altri mondi. Lo scontro che c’è adesso in Iraq è lo scontro tra due totalitarismi, laico e religioso».

E questo fondamentalismo laico esiste anche in Occidente? Per esempio col controllo del linguaggio, completamente asservito alla correttezza politica? Non si può più dire “frocio”.

«Non si può più dire “finocchio”. Sono infinite le cose che non puoi più dire in Occidente. E’ una cosa orwelliana, è un aspetto del totalitarismo più complessivo. Questa società di fatto (e credo di poterlo dire) non tollera idee che siano sovversive. E’ un sistema soft di totalitarismo. Non si può parlare di cos’è veramente la donna oggi, per esempio».

Ecco, le donne. Lei ha fama di essere un grande cultore della femmina.

«Della femmina, non della donna».

Che vuol dire?

«Che non amo la donna. Amo la femmina. Conosco donne che arrivano a 36 38 anni e si accorgono che è tardi per avere dei figli, e rimpiangono di non averne avuti. Si guardi in giro. Non si vedono che cani, e niente bambini. Non esiste più la parte materna-accuditiva, che è pure importante. E’ anche vero che contemporaneamente il maschio non fa più il maschio».

E questo dove si vede?

«L’altro giorno ero al bar. Passa una bella donna, vistosa. Un operaio le fa un fischio. Lei lo fulmina con lo sguardo. Poi, quando passa davanti a me, dico alla ragazza: “signora, rimpiangerà il giorno in cui non le faranno più questi fischi”. La sovrastruttura donna ha molto compromesso la struttura femmina».

Bene. Adesso la frittata d’Occidente è fatta. Cosa fare? Cosa consiglierebbe a un giovane per non restare incastrato sotto lo spirito del tempo?

«C’è chi cerca di scappare. Chi se ne va in una cascina. C’è chi si arruola nei fondamentalisti. Uno scrittore può cercare di svegliare le coscienze. Ma il pessimismo non permette di indicare una via d’uscita. Ma non dipende da noi. Questo mondo, come tutti i mondi totalitari imploderà su se stesso».

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

PREMIO STREGA ED AUTOCITAZIONI. LO SCRITTORE NON E’ MAI AUTORE.

Bisogna credere agli editori che in queste ore, alla vigilia del Premio Strega, ostentano nonchalance? Si chiede Silvia Truzzi per “Il Fatto Quotidiano”. Naturalmente no: giurano tutti indifferenza, intanto collezionano telefonate e questuano voti. Il clima è teso, quest’anno ci si è messa pure Federcosumatori, con una “richiesta di trasparenza” alla Fondazione Bellonci: “Qualche finalista è stato sorpreso con le mani nel sacco del ricorso al copia e incolla di passi presi da proprie precedenti opere. Altri finalisti vantano consorti collaboratrici del direttore della Fondazione organizzatrice del Premio”. Il riferimento è ad Antonio Scurati e alla sua, diciamo, “autocitazione” di una scena di sesso che compare pressoché invariata anche in un precedente libro (che pure era stato in concorso allo Strega). La seconda allusione invece è alla moglie di Francesco Piccolo, che fino all’anno scorso collaborava con la Fondazione Bellonci. Se la matematica è una scienza che porta a conclusioni necessarie, gli editori hanno ben altri motivi d’inquietudine. I numeri di questo Strega non sono incoraggianti: le statistiche Nielsen (la società che raccoglie i dati delle vendite senza includere la grande distribuzione) sul venduto dei titoli in concorso parlano chiaro. Ed ecco cosa dicono. Si difende Il desiderio di essere come TUTTI di Francesco Piccolo (Einaudi) che ha venduto 42 mila copie dal novembre 2013 (data di pubblicazione) a oggi. Bisogna dire che di questo “romanzo della sinistra italiana” - ancora prima di nascere era già il vincitore annunciato dello Strega - si è parlato molto sui giornali e Piccolo è stato anche ospite del salotto di Fabio Fazio. Non che Bompiani abbia lesinato pubblicità a Il padre infedele: eppure il libro di Antonio Scurati, uscito a ottobre 2013, resta fermo a 8.200 copie, che sono davvero poche per un autore già affermato. Va meglio in casa Feltrinelli, dove Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, uscito a gennaio 2014, arriva alle 20 mila copie. La vita in tempo di pace, esordio letterario di Francesco Pecoraro con Ponte alle grazie – un piccolo caso per le ottime recensioni ottenute – ha venduto 4.500 copie da ottobre 2013 a fine giugno 2014. Ultima – ma il dato è poco significativo perché il romanzo è uscito a metà marzo di quest’anno – Antonella Cilento con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori), ferma a 3.800 copie. Naturalmente tutto questo non è strano, visto che il mercato editoriale non dà segni di miglioramento: nel 2013 ha registrato un -6,2% a valore e -2,3% a copie nei canali trade (quelli rivolti al pubblico: librerie, librerie online e grande distribuzione) rispetto al 2012. Gli italiani hanno acquistato lo scorso anno 99,2 milioni di volumi (2,3 milioni in meno del 2012) e il 2014 non si è aperto sotto auspici molto migliori, se nei primi tre mesi sono stati venduti 1,4 milioni di libri in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Lo Strega s’inscrive in una curva discendente e per questo vincerlo o no è, se possibile, ancora più importante. Non sfugge, ai sopracitati e irrequieti editori, che quest’anno è cambiato il sistema elettorale: si può votare – oltre che mettendo personalmente la scheda nell’urna domani sera – con un account personale da un computer che non può essere utilizzato per esprimere più d’una preferenza. Per la selezione della cinquina, su 460 aventi diritto, hanno votato in 403: di questi hanno utilizzato la scheda digitale in 320. Il sistema è più trasparente , sicuro e anonimo: certo toglie un’arma dalle mani degli editori, che non sempre si sono limitati alla moral suasion. È finita l’epoca dei telegrammi, dei voti raccolti dagli uffici stampa e di tutti i pasticci che tanto hanno contribuito alle numerose leggende del Ninfeo? Come da copione, anche quest’anno i giurati sono stati inseguiti da autori e direttori editoriali, ma nel segreto dell’urna digitale non si sa mai cosa può accadere: lo scopriremo domani al Ninfeo.

Ammaniti, Raimo e Pincio, che figuracce, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Vi ricordate tutte quelle belle discussioni su che cosa sia la letteratura? Rappresentazione del reale, suo stravolgimento, reinvenzione, altro? E ancora vi ricordate le appassionate disquisizioni sul ruolo degli scrittori? Beh dimenticatevi tutto questo. Oggi scrivere vuol dire raccontare di sé, autocitarsi. La hanno chiamata, nobilitandola, <autofiction finzionale> (Vanni Santoni su “La lettura” del Corriere) ma con il linguaggio forse un po’ volgare ma veritiero la potremmo definire “sega d’autore”. In alcuni casi “sega d’autore 2.0”. Partiamo dal 2.0. Ben due scrittori, Christian Raimo e Tommaso Pincio, stanno infatti per pubblicare due opere ispirate ai loro status su facebook. Raimo quelli scritti col personaggio del professore zimbello degli studenti; Pincio quelli che prendendo per il fondelli il senso comune avevano come incipit “Genti che non sanno”, che sarà anche il titolo del libro. Visti i like ricevuti, come sottolinea bene Simonetta Sciandivasci su Il Foglio, hanno deciso che la loro social produzione meritasse addirittura una consacrazione tipografica. La presunzione, tornando al dibattito iniziale, è che i loro status non abbiano a che fare con la realtà pedissequa di cui tutti raccontano, ma siano già opera letteraria. Invenzione o creazione che sia. Al di là del valore complessivo dei due libri -aspettiamo con impazienza di sfogliarli pur avendo letto tutti i vari status e essersi dopo un po’ rotte le scatole della ripetizione ossessiva - quello che colpisce è proprio questa idea. Cioè la convinzione che da una parte ci siano persone reali e dall’altra personaggi inventati dal genio dello scrittore. Niente di più sbagliato. Chi – come Raimo e Pincio – frequenta il social network sa bene che non è così. Anche il racconto più alla lettera, il commento più politico, la considerazione più legata al quotidiano costruiscono avatar di colui e colei che scrive. Questo vale per tutti. In molti poi, non certo con l’abilità  dei nostri scrittori, hanno fatto anche uno sforzo in più. Quello di costruire consapevolmente una narrazione orientata, pensata, voluta. I selfie spesso sono questo. Non un semplice autoscatto, ma la volontà di costruire un immaginario diverso. Il valore di queste narrazioni non è certo nella loro ricaduta sui mezzi di comunicazione tradizionali. Niente di più sbagliato. La novità è di per sé in questa narrazione diffusa, molteplice, spesso accattivante. Davanti a questo cambiamento epocale, che va ancora studiato e approfondito, lo smarrito possessore della verità narrativa che fa? Non si scoraggia e cerca di recuperare la posizione se non perduta messa fortemente in discussione. Scrive un libro che raccoglie i propri status. Non tanto per il valore in sé quanto per dare un messaggio chiaro: io sono io, voi non siete… etc etc… Almeno, a discolpa di Pincio e Raimo, bisogna dire che i due hanno capito che con i social sta avvenendo qualcosa di importante. Hanno però scelto la strada più facile: pensare che la logica che sottende facebook possa essere riportata su un libro come se niente fosse. I “sega d’autore” (senza punto zero) hanno fatto anche di peggio. Hanno saltato il passaggio dell’attraversata del mare magnum del web e si sono concentrati sulle loro personali e reali avventure. Sulle loro “Figuracce”, libro edito da Einaudi da un’idea di Niccolò Ammaniti, a cui hanno collaborato come coautori De Silva, Giordano, Pascale, Piccolo, Raimo, Stancanelli, Trevi. In questo caso il Corriere parla di autofiction e ci risparmia il finzionale. La sostanza è però la stessa. La messa in scena di se stessi, il guardarsi l’ombelico pensando che ai lettori possa interessare qualcosa. I diversi scrittori parlano delle loro figuracce legate al lavoro. Probabilmente il libro venderà, vista anche il battage di cui può contare e i nomi che lo hanno firmato, ma resta la domanda iniziale. Ma questa roba che cosa è?

Lo scrittore non è mai un autore. Il narratore di «Sentire le donne» esplora la distinzione tra cultura alta e passatempo. Troppi «commissari» e romanzi simili a compitini. Ma l’opera omologata è già passata, scrive Aldo Busi su “Il Corriere della Sera”. Che uggiosa stravaganza quella di suddividere le opere letterarie in autoreferenziali, cioè che parlerebbero autobiograficamente dell’autore che le scrive, e in altro-da-sé, cioè che parlerebbero della società e del vasto mondo esterno (?) all’autore! Oltretutto senza avere ancora operato con taglio netto la separazione tra scrittore e autore, cioè tra letteratura, che il fiasco un po’ se lo va a cercare, e, si spera, industria, fatturato (il testo alquanto mediocre di uno scrittore mi coinvolgerà sempre di più del meglio confezionato libro con commissario incorporato di autore), e senza alcun snobistico moralismo, giusto a vantaggio di entrambi gli scriventi — per sorvolare sulla pletora di quanti si descrivono nei blog e nei talk show come «attore e scrittore», «comico e scrittore», «pittore e scrittore», per arrivare all’ossimoro per eccellenza, «giornalista e scrittore». Quando uno non sa scrivere, scrive bene. Io, per scoraggiarla e quindi reprimerla, arriverei a teorizzare addirittura la sciocchezza tutta accademica di suddividere quanto pubblicato in opere scritte bene o scritte male — sempre soprassedendo al fatto che quando uno non sa scrivere, scrive bene, sicché ci sono almeno due modi per scrivere male convogliati entrambi nell’unico modo buono per tutti di non sapere affatto scrivere, e di solito chi non ha neppure un pensiero suo fa i compitini più perfetti e perfettamente in regola con le norme del bello scrivere e dell’ottimo pensare, altrui. Secondo un comune buon senso ancora del tutto ideale, l’unico metro di giudizio critico possibile. Chi non ha neppure un pensiero suo fa i compitini più perfetti da adottare per includere ed escludere dall’attuale lettura è tra opere di regime e nel regime di autori, pertanto coccolate dal mercato e dai non lettori, e opere di scrittori che vi si oppongono, che si oppongono a ogni possibile regime e, non appropriabili subito, perdurano in ogni regime, invise, poco lette, magari ammirate ma da lontano, senza mai farle avvicinare troppo perché ancora bruciano l’ipocrisia dell’io e di ogni relazione civile e politica e sentimentale tra codesti io e non permettono scampo ai sentimentalismi, ai sessualismi, ai familismi, alle superstizioni, alle religioni, agli assolutismi — anche tecnologici —, agli avventismi, alle reincarnazioni, ai migliorismi della scienza e della stessa economia, in altre parole, all’intrattenimento da qualsivoglia consolazione di progresso promesso e non mantenuto (soprattutto grazie a quelli che ci hanno creduto e poi però hanno letto noir per tutta la vita e osano lamentarsi o fare la voce querula della vittima fintamente, per l’appunto, inconsolabile); le prime, mere pubblicazioni, prendono solo quanto più possibile c’è da prendere, cioè da incassare, dal regime, dai suoi luoghi comuni e dai suoi sudditi, e se ne guardano bene dal cambiare una sola virgola al mondo così com’è, le seconde, che da mere pubblicazioni attingono nel tempo — e poi caso mai assurgono per sempre — alla dignità di opere, danno solo e, anche se sono più spiritose e divertenti, vivono di necessità per autocombustione sacrificale senza averne l’aria e senza attribuirsi alcun orfismo o sacralità d’accatto: in tutta semplicità anti-sacerdotale rivoluzionano o almeno aggiornano la condizione di beota stupidità di ogni regime e dell’umana fatalità che lo legittima e se ne sostenta (tra alti lamenti d’obbligo, va da sé). Un’opera omologata è un’opera estinta. La data di scadenza di ogni singola opera — e del suo autore — è conforme al suo grado di omologazione nel tempo: un’opera omologata è un’opera estinta; se non la si brucia, è perché non vale lo zolfo di un fiammifero, non certo perché il pregiudizio buonista vorrebbe che coi libri non si fanno falò: si aspetta direttamente l’inestinguibile benefattore piromane in tournée dopo aver fatto tappa alla biblioteca di Alessandria. Da qui il fatto che le opere preferite al momento di ogni momento sono quelle nate morte, punto. Nell’impossibilità di prevedere l’omologazione futura o futuribile di un’opera ora o prima immessa sul mercato, l’unico interrogativo possibile e passabile della critica, a prescindere dall’immediato successo di vendita e consenso «critico» dell’opera medesima, è: quanto è nata già morta? Quanto fa da compiaciuto specchio al morto non lettore che la fa propria, di fatto lasciandoci ancora un po’ della sua già scarsa vita a disposizione? Si potrebbe intanto stabilire subito chi è uno scrittore e chi, per quanto di moda, un becchino. Certo, occorrerebbe però un critico non di regime e non nel regime perché una domanda simile possa porsi e un simile filtro imporsi. Infatti, a parte me, che non sono nemmeno un critico, non l’ho mai sentita formulare da nessuno da che mondo è mondo.

ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.

«Date un luogo comune a un fanatico e ne farà un dogma». Così, sommessamente, Roberto Gervaso salmodiava per esorcizzare la malattia culturale del nostro tempo. Un virus che si è annidato per decenni in anfratti ben protetti, da dove ciclicamente esce per «evangelizzare» le nuove leve. Una malattia culturale che ha nella monopolizzazione della sinistra il suo sintomo più evidente. Quasi un gigantesco drago contro il quale faticano non poco gli sparuti san Giorgio indipendenti che tentano di difendere i principi della cultura liberale. Il paradosso è più raro e costoso di un diamante. Aveva ragione Longanesi a dire che il paradosso è il lusso delle persone di spirito, mentre la verità è il luogo comune dei mediocri. Le invettive, i paradossi, la libertà e l'indipendenza di un artista di razza non possono che scontrarsi con il muro di gomma tirato su da chi ha fatto della verità culturale prima un monopolio e poi un dogma. Si può parlare di tutto, beninteso. Però la chiave di lettura dominante su ogni argomento la dettano i giornali di sinistra, forti di una tradizione che ha origini lontane. E contro questo monopolio è giusto sempre scendere in guerra e combattere. Tra i luoghi comuni più odiosi c'è quello che da decenni identifica l'artista di valore come naturalmente schierato a sinistra. Una sciocchezza che è sempre stata venduta come oro colato. Mai come oggi, però, questa falsità mostra la sua pietosa debolezza dal momento che sono in molti a uscire allo scoperto. Insomma siamo all'outing collettivo di tanti artisti che finalmente possono mostrare tutto l'orgoglio del loro non essere allineati. Oggi è possibile rivendicare questa autonomia. Basta smascherare il vizietto del doppiopesismo e del miope allineamento ai dogmi.

Il cinema a sfondo politico è un genere cinematografico più italiano ed europeo che americano, che pone al centro del proprio interesse temi di attualità politica o storici, ma in questo caso con marcata spendibilità e risonanza nel dibattito politico contemporaneo. Quasi mai il Cinema politico (chiamato anche Cinema di impegno, politico o civile indifferentemente) è neutrale e nemmeno vuole esserlo, anzi esplicita con molta chiarezza la propria tesi, in alcuni casi si può parlare proprio di Cinema a tesi, la cui finalità è cioè quella di dimostrare una precisa posizione nel modo più chiaro e comprensibile possibile, con tanto di pericoli (sempre incombenti in questo caso) di didascalismo e semplificazione (vedi in proposito il Cinema del Realismo socialista e il Cinema di propaganda in generale). Strettamente collegato con il Cinema politico è il cosiddetto Cinema militante, in tutto simile al primo, se non fosse per il suo carattere prevalentemente documentarista, anziché di finzione, per una accentuata propensione propagandistica e soprattutto per il fatto che esso si muove al di fuori del circuito commerciale, indirizzandosi verso canali alternativi legati alle organizzazioni partitiche e politiche che hanno prodotto o commissionato il singolo film. Il Cinema militante ha conosciuto il suo periodo di maggior diffusione negli anni a cavallo del 1968, quando la Sinistra storica e quella extraparlamentare usarono con grande convinzione questo strumento, mai eccelso dal punto di vista qualitativo, ma a volte assai efficace nel comunicare idee e concetti spendibili nell'immediata urgenza politica. Il Cinema politico propriamente detto, invece, privilegia il film di finzione, spesso giovandosi di grandi budget e attori e registi di fama e senza mai dimenticare la dimensione spettacolare. Anch'esso ha conosciuto una stagione felice in coincidenza con gli anni sessanta e settanta, anche se i suoi antecedenti sono rinvenibili nel movimento del Neorealismo e del Realismo poetico francese. Politicamente orientato a sinistra (per trovare un Cinema politico esplicitamente e consapevolmente orientato a destra bisogna rifarsi ai film di propaganda fascista e nazista degli anni trenta o a certi prodotti statunitensi ferocemente anticomunisti del periodo maccartista degli anni cinquanta, per non parlare di tanto Cinema Bellico, soprattutto in coincidenza con le guerre mondiali), il Cinema politico ha offerto il meglio di sé quando ha saputo coniugare la critica sociale e la polemica politica con una salda e vigorosa struttura narrativa e il peggio quando è diventato manierata ripetizione di stereotipi e facile schematismo.

Il senso del Partito Democratico per il cinema, tratto da un articolo di Alberto Alfredo Tristano. Con l’ascesa di Matteo Orfini alla presidenza del Partito Democratico, si rafforza ulteriormente il senso del Pd per il cinema. E’ lunga la frequentazione e stretto il rapporto tra molti esponenti della prima formazione politica italiana e la settima arte. Non c’è solo un ex segretario ormai passato direttamente dietro la macchina da presa, qual è il caso di Veltroni col documentario su Berlinguer; c’è anche il neopresidente, archeologo di formazione e di famiglia cinematografara, col padre Mario regista e produttore delle – tra le altre cose – simpatiche incursioni sul grande schermo di Luciano De Crescenzo e Renzo Arbore; c’è Nicola Zingaretti, fratello di Luca “Montalbano”, il più amato personaggio della recente tv italiana; c’è Bettini, da poche settimane eurodeputato, che – forse per civetteria – fino a poco tempo fa usava presentarsi come direttore artistico di Moviemov, festival itinerante del cinema italiano per capitali dell’Oriente; c’è il ministro Madìa, moglie di Mario Gianani, che con Lorenzo Mieli, figlio di Paolo, e Saverio Costanzo, figlio di Maurizio, regge le sorti della Wild Side, arrembante casa di produzione cine-televisiva che spazia da Bernardo Bertolucci a “In Treatment”; e c’è anche Renzi, che alla Leopolda schierava Umberto Contarello, sceneggiatore tra l’altro con Sorrentino della “Grande bellezza”, e affidava il set della kermesse fiorentina al regista Fausto Brizzi. Certo è pur vero che dall’altra parte c’è Berlusconi, che col colosso Medusa grazie a Sorrentino s’è portato a casa l’Oscar, e che i film li ha pagati assai cari, visto che la condanna che sta scontando deriva proprio dai diritti tv delle pellicole acquistate da Mediaset. Ma in ogni caso: c’è una egemonia culturale del Pd sul nostro cinema? Probabilmente no, come forse non ce n’è mai stata una. Nemmeno col Pci. Partito che certamente sul campo fu molto attivo, anzi protagonista quanto ad organizzazione, e magnetico quanto a ideologia. Lunga è la lista dei registi militanti: Scola, Petri, Bertolucci, Pasolini (che in realtà ne fu espulso, ma rimase sempre legato a quell’idea sentimentale di partito come “Paese pulito in un Paese sporco”). Egemonia, si diceva, anche se è altrettanto lunga la lista di coloro che, se fecero dichiarazioni di appartenenza e molti le fecero, si pronunciarono non in senso comunista. Socialista era Monicelli, e socialisti i milanesi Lattuada e Comencini, come anche Rosi con discreta tradizione familiare nella massoneria (che lui però non volle seguire); di Fellini, forse il più grande di tutti, sempre allergico al dibattito eppure autore di film profondamente politici, si sanno la vicinanza a Nenni e poi La Malfa, e l’amicizia con Andreotti, che sboccò anche in un lungo carteggio privato; convinto saragattiano, più ancora che socialdemocratico, era Germi; Rossellini, certo, dopo la guerra (aveva debuttato, come molti, sotto il fascismo) fu vicino alla sinistra ma si appassionò assai più al francescanesimo che alle icone marxiste e al cinema portò la storia dell’anticomunista De Gasperi (si disse con finanziamenti dall’area fanfaniana). Certo va ricordato come il neorealismo fu difeso e crebbe sotto l’egida del Pci, si pensi solo a Visconti e alla difesa di De Sica e Zavattini sui “panni sporchi” che non piacevano al Divo Giulio: ma per completezza e senso della verità, va serenamente valutato – insieme con la creatività e il successo dei registi postbellici – anche il lavoro del giovane sottosegretario allo Spettacolo di De Gasperi per il rilancio del cinema italiano, grazie a una legge che richiamò ingentissimi investimenti sulle produzioni nazionali. Egemonia? Tornando all’oggi, se c’è un senso del Pd per il cinema, forse non vale il contrario. Si farebbe fatica a trovare una vera attenzione alla politica in generale da parte dei nostri autori. Se si escludono la passione di registi come Virzì o Moretti e pochi altri, disposti più schiettamente di altri a esporsi con giudizi e opinioni, e il rilancio del cinema politico col superbo “Divo” sorrentiniano (che è sembrato un caso unico e isolato, a dire il vero), c’è una sostanziale indifferenza di quel mondo verso il mondo della politica. E questo vale ancor di più per le leve più giovani, che appaiono sostanzialmente apolitiche. Il che è un po’ preoccupante. Anche perché la politica domina il dibattito nella comunità nazionale. Forse in un partito come il Pd, così grande e ambizioso e così anagraficamente ringiovanito nei suoi vertici, sarebbe opportuno che oltre il senso e l’attenzione e le personali frequentazioni e le individuali attitudini si sviluppasse un vero e più organico progetto di politica culturale. Foss’anche anche con una coltivata utopia di una bella, sana, civilissima egemonia…

“Dal fascismo al Pci il filo rosso di un’egemonia culturale”. Intervista a Pierluigi Battista di Cristiana Vivenzio.

Come si sono legati tra loro universo culturale, tendenze ideologiche e mondo politico negli ultimi quarant’anni?

«Ricostruendo un percorso reale che parte dall’inizio degli anni Sessanta, Pierluigi Battista, giornalista e saggista, editorialista della Stampa, nel suo ultimo libro “Il partito degli intellettuali” traccia i contorni del rapporto anomalo che in Italia ha legato gli intellettuali alla politica. Partendo dalla riflessione su temi noti ma ancor oggi di scottante interesse, questo libro riapre la strada ad una serie di problematiche in merito al ruolo svolto dagli uomini della cultura in Italia e soprattutto richiama ad una riflessione ampia e approfondita sul ruolo prossimo futuro dell’intellighenzia.»

Il monopolio culturale della sinistra: una delle tante anomalie della vita politica italiana?

«Non parlerei di monopolio culturale quanto piuttosto di egemonia. Il termine monopolio prefigura una sorta di irregimentazione. Del resto, il problema di un’egemonia culturale in Italia non è di natura quantitativa, non dipende cioè dal fatto che la maggior parte degli scrittori, degli intellettuali, degli uomini di teatro, dei registi mostrano un certo tipo di appartenenza politica. Il merito della sinistra italiana, e del Pci in particolare, è stato quello di dare il senso di una missione agli intellettuali italiani e al loro ruolo all’interno della società: infondendo l’idea che la cultura fosse un elemento essenziale della battaglia politica, che facesse parte integrante dello scontro per le civiltà. La cultura continuava ad essere vissuta e percepita come prosecuzione e prolungamento della lotta politica e la percezione generale era quella per cui fare un film, scrivere un libro, più in generale produrre cultura conferisse un ruolo meritorio. Poiché alimentava l’assoluta convinzione di possedere il monopolio di ciò che è giusto.»

Questo tipo di concezione egemonica della cultura può rintracciarsi anche in altre realtà europee?

«Non direi che questa sia un’anomalia esclusivamente italiana. La Francia ha presentato un modello analogo. Ma non è un caso che Italia e Francia abbiano avuto i partiti comunisti più forti d’Europa.»

Quindi la presenza di un forte partito comunista, in Italia come in Francia, è stato elemento determinante nel produrre questo tipo di rapporto tra cultura e politica.

«La forza dell’egemonia intellettuale di sinistra in Italia non è monocausale. Può essere rintracciata, naturalmente, in più di un fattore. In primo luogo questo ruolo dell’intellettuale militante e interventista è proprio di una certa mitologia già propria della cultura italiana a partire dagli inizi del Novecento: pensiamo a intellettuali come Papini, Prezzolini, Salvemini. Ma l’elemento determinante nella costruzione di un rapporto imprescindibile tra mondo culturale e mondo politico è stato istituito nel periodo fascista. Si è sempre fatto emergere il lato repressivo del fascismo nei confronti della cultura. Eppure la cultura è stata l’unico ambito, seppure attraverso manifestazioni allusive o dissimulate, in cui si poteva, anche in tempo di regime, dar vita ed espressione alle rivalità ideologiche. Nel passaggio dal fascismo alla democrazia, ad emergere sono stati gli elementi di affinità, che hanno costituito la linea di continuità tra l’appartenenza pre (la fascista) e quella post (rappresentata dal comunismo). Finita la guerra e liquidato il fascismo gli intellettuali italiani scelsero, liberamente e con entusiasmo, di trasmigrare a schiere compatte nei luoghi ove era possibile proseguire senza frustrazioni l’opera di fiancheggiamento politico rodata e perfezionata nel passato regime.»

Ma esistevano reali alternative a quella visione monotematica della cultura? E soprattutto le altre forze politiche italiane erano in grado di esprimere modelli alternativi?

«La sinistra ha schiantato tutte le appartenenze ideologiche alternative: sia quella liberal-conservatrice sia quella cattolica. L’ideologia comunista, o filo-comunista, come quella azionista, si è fatta promotrice del monopolio dell’etica. Questo ha prodotto un intollerantismo ideologico che ha portato all’automatica scomunica nei confronti di tutti coloro che manifestavano una qualsiasi forma di dissenso. Certamente la controparte ha dimostrato un’assoluta incapacità propositiva. I cattolici troppo attenti probabilmente ad un diverso modo di concepire la politica, legata al concreto esercizio del potere. I liberali per una tendenza snobistica ed elitaria nel concepire la cultura. Fatto sta che la storia è una storia di attacchi violentissimi. Da Sciascia a Fellini, da Montale a De Felice: tutti questi grandi intellettuali hanno assaggiato il bastone della scomunica.»

Il Cinema italiano e la sinistra, scrive Gaither Stewart su “Onlinejournal.com”. La storia di Roberto Rossellini è una storia molto italiana, che riguarda l’Italia nel cambiamento dal periodo fascista, che va oltre la sua esistenza, fino al 2009. Sebbene l’Europa non sia Europa senza l’Italia, la storia di Rossellini, nel più stretto senso, è una storia molto italiana; non una storia europea. Perchè l’Italia, separata dal resto dell’Europa dalle Alpi, è, e forse lo è sempre stata, qualcosa a parte, ancora oggi considerata dai nord europei un posto esotico verso cui fuggire. Come è comunemente detto, l’Italia è un posto meraviglioso da visitare, ma un inferno per viverci. La storia di Roberto Rossellini ha a che fare con questo paradosso. Leggi Roberto Rossellini e pensa all’Italia degli ultimi 75 anni. Il regista italiano Roberto Rossellini, conosciuto al 95% come neo-realista, ebbe molto successo nella sua carriera di regista. Tuttavia – e qui abbiamo due pezzi d’informazione che potrebbero essere notizia per gli appassionati del cinema – dopo essere cresciuto in una famiglia borghese nei pressi della Via Veneto della Dolce Vita a Roma e aver armeggiato con un cinema insignificante durante il periodo fascista, divenne poi un regista del cinema italiano della Sinistra. Più tardi nella sua vita, Rossellini ebbe una visione, una visione lontana anni luce dalla registica europea: negli anni ’70, molto più avanti del suo tempo, si innamorò dell’Oriente e sognava un ricongiungimento tra Occidente e Islam. Come gli scrittori, anche i registi creano nel loro lavoro una certa aura di se stessi, mentre, allo stesso tempo, proiettano un messaggio, un tema, nel migliore dei casi, qualcosa di universale. Il regista geniale è in qualche misura anche un visionario. Tuttavia, per diventare un visionario deve prima essere in grado di vedere la vita così com'è, toccarla, sentirne l'odore, assaporarla, soffrire per essa, e si spera infine, amarla. Questo è ciò che i registi italiani fecero nell’ Italia del dopoguerra, durante quel breve periodo di forse cinque anni quando crearono il loro cinema neo-realista che ha cambiato il mondo del cinema. Il regista geniale, quello eccezionale, si basa quindi sul fondamento della sua esperienza di vita, e, se è fortunato, potrebbe vivere momenti di trascendenza nella sua arte e produrre un capolavoro. In questi miei giorni "rosselliniani", mentre mi addentravo in quel passato, ho intervistato persone che avevano finito la scuola ed erano entrate nella vita negli “anni del neo-realismo” dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tutti concordano che la vita era più reale allora; nella sua semplicità era piena di speranze e promesse; tutto era possibile. Paradossalmente, l'atmosfera dei turbolenti anni ‘70, dopo la rivolta del 1968 e la successiva esplosione del terrorismo interno, ha creato anche una pittoresca, folkloristica immagine dell'Italia, che sopravvive solo all'estero, non in Italia. Quelli non erano "i bei vecchi tempi" per gli italiani. L'Italia che rimane nella mente di molti non-italiani è morta decine di anni fa. La globalizzazione e il selvaggio capitalismo mondiale hanno spento i sentimenti di solidarietà che contagiavano gli anni ‘60 e '70. Se lo stato d'animo in Italia allora sapeva anche di ribellione e di anarchia, oggi ognuno pensa a se'. Nella misura in cui esiste ancora, l’ Italia cinematografica di oggi riflette uno stile di vita segnato da brutta televisione commerciale, pubblicità, e quota audience. Mai l'espressione italiana "stavamo meglio quando stavamo peggio" (la vita era meglio quando le cose erano peggiori) è stata più valida. Una volta in Italia c'era un cinema della Sinistra. Un cinema sulla sinistra. Era un diretto e chiaro appello a votare per i partiti della sinistra, guidati allora dal Partito Comunista Italiano, il PCI. Quel cinema di sinistra emerse in uno specifico ambiente italiano del post-fascismo, su cui è necessaria qualche valutazione per capire su cosa era improntato il suo cinema. Da un lato, il Maccartismo che soffocò Hollywood ebbe poco effetto sul cinema italiano. Ma lo sconvolgimento della gioventù degli anni ‘60, che esplose nel 1968, è stato vivido; la resistenza era nell'aria. Prima la rivolta, poi il terrorismo esplose contro lo stagnante sistema politico italiano in gran parte finanziato e controllato dagli Stati Uniti. A quei tempi, il giornale comunista di Roma, Paese Sera, stampava fino a sei edizioni al giorno, con rivelazioni e scoop, uno dei quali nel 1980 fu lo scandalo Iran-Contras. Il cinema di sinistra sosteneva le varie battaglie sociali e politiche dei partiti della Sinistra. Ogni notte, sale cinematografiche – di prima visione e molte sale meno costose di seconda e terza visione nella periferia – erano piene fino al soffitto, alcune con sistemi audio così cattivi che erano difficilmente comprensibili. I cinema di Roma erano rumorosi, o troppo caldi o troppo freddi, una nube densa di fumo azzurro che saliva verso il soffitto, per lo più giovani, e tutti della sinistra politica. Se arrivavi tardi, eri destinato alle prime file. A nessuno importava. Accendevi e ti univi alla folla. Tutti fumavano, specialmente al cinema. Specialmente al cinema della Sinistra. E tutti parlavano dei registi, i quali quasi tutti erano della Sinistra. Essi rispecchiavano la metà d'Italia che era Sinistra. La storia d'amore del "cinema di Sinistra" era reciproca e sembrava eterna. Era basata su convinzioni e impegno. Quando i partiti della Sinistra chiamavano, il cinema era presente. Allo stesso modo, dalla fine della guerra fino al '70 i partiti di sinistra appoggiavano il cinema. Era un rapporto d'amore. Il cinema italiano degli anni '60 e '70 aveva un colore. Era rosso: il cinema di Rossellini, Visconti, Pasolini, Rosi, Pontecorvo, Montaldo, Antonioni, Comencini, Monicelli, Damiani, Pirro, Scola, Scarpelli, Bertolucci. I loro film separavano la Sinistra dalla Destra. Dopo l'euforia, però, il cinema e la Sinistra si separarono. La vicenda passionale durò fino alla fine degli anni '70, momento in cui i partiti politici erano diventati centri di potere e superato il loro bisogno di avere per alleato il cinema. Allo stesso tempo la televisione di Stato era esplosa sulla scena, diventando uno dei più potenti strumenti di propaganda che il cinema avesse mai potuto immaginare. La decennale storia d'amore della Sinistra e del cinema perse il suo ardore, le parti si allontanarono, nella separazione, se non nel divorzio, lasciando l'industria cinematografica italiana letteralmente a secco. Così finì il grande cinema italiano che aveva conquistato il mondo. I registi italiani hanno parlato apertamente della causa del divorzio. Francesco Rosi: i partiti politici divennero centri di potere. Giuliano Montaldo: il timore che il nostro cinema denuncia sarebbe stato utilizzato per giustificare il terrorismo. Furio Scarpelli: la nostra incapacità di fare satira sulla Sinistra come facciamo con la Destra. Tuttavia, altri come Bernardo Bertolucci e Gillo Pontecorvo conservavano la fede in un potenziale di rinnovamento del cinema italiano. Purtroppo, non è mai successo. La commercializzazione grossolana della vita italiana, l’economicità, la volgarità e l'imitazione dell’America schiacciarono la maggior parte delle iniziative. Anche se oggi, di tanto in tanto, un buon film d'arte in qualche modo emerge dalle paludi, il cinema italiano ha toccato il fondo. Lo scrittore e instancabile critico cinematografico Alberto Moravia scrisse nell'introduzione alla sua collezione di 144 recensioni di film dal titolo Alberto Moravia Al Cinema che il regista o l'autore cinematografico è l'unico elemento che conta davvero in film di qualità, ossia, in film d'autore. Gli attori recitano solo, in meglio o in peggio. Buoni film, ha sottolineato, non sono da considerarsi “in base a chi o cosa interpretano, ma da chi." Il regista esprime se stesso, affrontando sempre nuovi problemi, sempre in cambiamento. Gli attori e la fotografia hanno il loro ruolo, ma la regia è l'aspetto centrale. "Il cinema è anche un prodotto estetico e come tale dovrebbe essere apprezzato anche per le sue immagini, ma un criterio del genere sarebbe troppo limitato". Il concetto di film d'autore era diametralmente opposto al sistema hollywoodiano degli Studio, in cui le compagnie cinematografiche come Paramount, MGM, Warner Brothers, e la Twentieth Century Fox controllavano tutti gli aspetti della produzione cinematografica. Grandi aziende controllavano i tipi di film che venivano fatti, così come i registi e gli attori. Lo star sistem era nato. Fare cinema divenne grande business. Questa era l'altra faccia della luna del cinema della Sinistra italiana del periodo neo-realista del cinema artistico impegnato. Un buon esempio di cinema impegnato è stato Francesco Rosi. Proveniente da una famiglia benestante della classe media di Napoli, Rosi è entrato nel cinema dopo la guerra come assistente di Luchino Visconti prima di fare il suo cinema socialmente molto impegnato, evidenziato da film come Le Mani Sulla Città, 1963, sulla dilagante speculazione edilizia che devastava le città d'Italia durante il cosiddetto "miracolo economico". Il film inizia con il crollo catastrofico di un grattacielo e molti morti, le cui inchieste vengono bloccate da macchinazioni politiche. Il film di Rosi denuncia il crimine. Nella nuova era della televisione e dei film spazzatura e di attrici nate in una notte, il figlio di Roberto Rossellini, Renzo Rossellini Jr. ha detto, a riguardo della fine della storia del cinema della Sinistra in un colloquio con me negli uffici Gaumont Italia di Roma nei primi anni 1980: “Niente succede come il successo”. Sapeva di cosa stava parlando perchè, col cambiamento dei tempi, lui e la Gaumont Productions fecero i loro compromessi, in cambio di un posto privilegiato nel cinema europeo. Il Neo-realismo nel cinema emerse dalla falsa coscienza, la sciocca decenza e l'insistenza sulla forma, sulla finzione e sul trionfo così prevalenti sotto il Fascismo. Emerse dall’esperienza della guerra, dalla paura patologica di un'altra guerra, e dalla situazione di stallo ideologico tra Est e Ovest. Per quanto riguarda l'influenza della Guerra Fredda, Eric Rhode nella sua La Storia del Cinema-Dalle Origini al 1970, scrive: "La sua (la guerra fredda) influenza immediata fu che il pubblico cercava qualità di calore, sebbene simulate. La critica elogiava i film italiani neo-realisti per la loro umanità spontanea e teneva in poco conto la loro dolcezza spesso artificiosa ". La scarsità di film americani durante la Seconda Guerra Mondiale permise al cinema tedesco di monopolizzare il mercato europeo e al cinema italiano di crescere rapidamente. Quando una valanga di film americani arrivò dopo la guerra, era evidente che Hollywood non aveva progredito di una virgola. Il cinema europeo, invece, era ricco di idee. Voleva essere ascoltato nel mondo. Anche se l'industria cinematografica tedesca fu distrutta, la Francia e soprattutto l’ Italia erano pronte. I nomi di Rossellini e De Sica si diffusero in tutto il mondo. Allora il Neo-realismo esplose sulla scena. Non più i film degli Studio di Hollywood, ma i film d'autore di decine di registi che avrebbero cambiato il mondo del cinema per sempre. Voglio fare marcia indietro per un momento per chiarire il coinvolgimento degli artisti italiani in generale con il Fascismo, tra i quali Rossellini era una figura in erba. Conformità compiacente e opportunismo, credo, sia la peggiore critica che si possa attribuire al Rossellini di quel periodo; aveva già 36 anni quando il Fascismo italiano crollò. Conformità e l'opportunismo vanno di pari passo. Sotto il Fascismo, lo stile era molto importante. L'osservazione e il pensiero critico non erano visti di buon occhio. Se non si accettavano i valori fascisti della famiglia e del patriottismo, ci si doveva adattare o scappare all'estero, come Moravia e altri intellettuali fecero. Come regola, i sistemi autoritari contano su artisti compromessi per produrre false immagini. L'artista che pratica il compromesso segue i vincitori. Inevitabilmente l'artista compromesso si colloca nel mezzo; evita di dire ciò che pensa per paura del suo posto nella società. Gli intellettuali italiani, fin dai tempi dell'unificazione italiana nella metà del 19° secolo, erano in gran parte obbedienti o silenziosi, come lo erano stati durante il Fascismo. L'annoiata indifferenza del popolo italiano nel suo insieme - non solo quella dei suoi intellettuali e artisti - facilitò la nascita e la ventennale sopravvivenza del Fascismo, la stessa indifferenza politica che contraddistingue la società italiana e americana di oggi di fronte a forme moderne dell'estremismo reazionario. Non c'è da meravigliarsi se, dopo la guerra, la generazione liberale d’Europa, specialmente i suoi creativi artisti, gravitò verso il Comunismo. Nonostante il Ventennio, i venti anni di Fascismo, il Socialismo era ancora una parte potente della psiche italiana, come lo era stato dalla fine del 19° secolo. Comunisti e socialisti guidarono la lotta partigiana anti- fascista e dopo la guerra, la nuova Repubblica Italiana venne fondata sul lavoro e sull’anti-fascismo. In seguito a confessione tardiva dello scrittore Premio Nobel Günther Grass diversi anni fa, il quale era entrato nella Waffen SS nazista a diciassette anni, alla fine del 1944, i critici italiani cominciarono a cercare di individuare le date precise, nella metà del secolo scorso, in cui gli intellettuali italiani erano passati dal fascismo al comunismo. Molti artisti avevano già confessato che una volta erano fascisti, ma datavano la loro uscita dal regime all’inizio del 1938, principalmente per prendere le distanze dalle brutali leggi razziali italiane. La verità è che alcuni di loro avevano continuato a collaborare con il regime fascista fino alla fine. In ogni caso, nella fase post-bellica della Seconda Guerra Mondiale, una maggioranza di scrittori europei e registi erano di sinistra. In Italia, la maggior parte aderì al Partito Comunista Italiano. Il loro cambiamento di colore politico era una questione molto soggettiva e non voglio invischiarmi qui in accuse di chi è colpevole di che cosa. La Hollywood dell'era McCarthy e il sorprendente numero di voltagabbana suggeriscono cosa sarebbe accaduto agli intellettuali americani - ciò che è già accaduto a molti – di fronte ad un fascismo americano. Le nuove leggi già in vigore forniscono una vaga idea di quello che essi avrebbero affrontato. Dietro la devastazione dell’Europa e la distruzione fisica e morale dell'Italia che derivavano da una combinazione di Fascismo e sconfitta militare, il neo-realismo arrivò come un mondo visto attraverso gli occhi dei bambini, gli occhi di un ladro di biciclette o gli occhi di un operaio indigente. "Anche se il Fascismo di Mussolini era stato apparentemente distrutto”, Rhode continua, "la sua influenza persisteva ovunque nell’Italia del dopoguerra. I migliori film neo-realisti tendevano ad includere molte delle confusioni e delle esitazioni di questa neonata società: le sue superstizioni, sia pagane che cristiane, le sue aspirazioni vagamente marxiste e la sua fame di dipendenza (in parte mitigata dal ruolo post-bellico degli Stati Uniti in Italia). L'entusiasmo suscitato da questi film in tutto il mondo rivela in che misura essi incarnavano un’ ideologia che andava oltre di interessi nazionali italiani ". Ma, vorrei aggiungere, che essi offrivano anche una risposta ambivalente e insoddisfacente all’ autorità, come fece Fellini più tardi.

Papa Francesco un pontefice comunista, pauperista, populista? «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo». Lo ha detto il pontefice in un’intervista al Messaggero il 29 giugno 2014. «I poveri - dice Papa Francesco - sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlando si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani».  Il pontefice ha poi parlato della corruzione e ha spiegato che il corrotto non ha amici, ma solo complici. «Difficile rimanere onesti in politica, vieni fagocitato da un fenomeno quasi endemico» ha commentato. «E’ l’ambiente che facilita la corruzione -ha aggiunto -. Non dico che tutti siano corrotti, ma penso sia difficile rimanere onesti in politica. Parlo dappertutto, non dell’Italia. Penso anche ad altri casi. A volte ci sono persone che vorrebbero fare le cose chiare, ma poi si trovano in difficoltà ed è come se venissero fagocitate da un fenomeno endemico, a più livelli, trasversale. Non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d’epoca le spinte verso una certa deriva morale sono più forti».

C’eravamo tanto amati. Perché tra sinistra e popolo sembra tutto finito. Non si riconoscono più, è rimasta solo una reciproca antipatia, scrive Ritanna Armeni (di sinistra) su “Il Foglio” di Giuliano Ferrara (di centro- destra). Diciamo una verità scomoda: il popolo non ama la sinistra. Anzi, gli sta abbastanza antipatica. Del resto neppure la sinistra ama così tanto il popolo e i poveri. Sia chiaro: per poveri non si intendono i mendicanti, i disperati e col termine di popolo non ci si riferisce agli operai o ai lavoratori sindacalizzati. Quando parliamo di popolo pensiamo a quella famiglia che all’Autogrill si ingozza di panini, parla con un tono di voce insopportabile e non risparmia qualche scappellotto ai bambini. A quei giovinastri che tengono l’autoradio a tutto volume e se ne sbattono del fracasso che provocano. Alle donne con la busta della spesa che sgomitano e smoccolano in autobus. A tutti quelli che vanno al cinema solo a Natale, forse neppure, e non sanno fare alcuna distinzione fra il gusto dell’aspirina e quello del tartufo. Ai tanti che bevono il vino meno costoso del supermercato e non lo trovano così diverso dal Barolo più raffinato. Che leggono meno di un libro all’anno – o che non leggono affatto – e si fanno prestare il giornale dal vicino solo per sfogliare le pagine sportive. “Popolo” sono le donne che tengono la televisione accesa tutto il giorno, le ragazze che aspirano al top leopardato, i ragazzi che passano la notte con il telefonino acceso e due birre, la casalinga che strilla al mercato perché l’hanno fregata sul peso della verdura. Lo incontriamo questo popolo e ci pare cafone, maleducato, aggressivo, malvestito. Sgomita e strilla, rubacchia allo stato quando può, non rispetta le file, si arrangia in tutti i modi, anche non sempre legittimi, e tira avanti. I poveri poi – si sa – spesso non sono buoni e qualche volta appaiono anche poco intelligenti. Per questo la sinistra non li sopporta e cerca di dimenticarli. O meglio, li dimentica fino alle elezioni quando si accorge che “il popolo” non vota più per lei. Che si è rotto qualcosa, e questo ha ripercussioni anche sui consensi. La straordinaria affermazione nei sondaggi di Marine Le Pen, leader del Front national, a spese dei socialisti francesi e nei luoghi dove erano più forti, ha fatto gridare all’allarme, com’era prevedibile. Ma è solo l’ultimo caso dei tanti che si sono susseguiti in questi anni di spostamento, quasi repentino, dei voti. In Italia la sinistra ha cominciato ad accusare il colpo negli anni Novanta, quando scoprì all’improvviso che gli operai del nord, addirittura anche quelli iscritti alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, votavano Lega. C’era da riflettere e molto, ma non mi pare che in questi venti anni sia stato fatto. E infatti, alle ultime elezioni politiche, nuovo sbigottimento. Si predicava il cambiamento ma il primo partito del voto operaio non è stato il Pd, bensì il Movimento cinque stelle, seguito dal Pdl (primo fra le casalinghe: anche loro popolo, eccome) mentre al Pd è andato solo il terzo posto. I voti fuggiti via sono però solo la conseguenza, una delle conseguenze, di questa reciproca antipatia, ciò che la rende evidente. E’ difficile pensare di essere rappresentato da chi ti sta antipatico e che – lo senti – nutre per te un malcelato disprezzo. I motivi, quelli veri e profondi, sono altri. In un famoso libro del 2004, più volte aggiornato e tradotto in francese con il titolo “Perché i poveri votano a destra” (in originale “What’s the Matter with Kansas?”), ne ha parlato l’americano Thomas Frank, analista e collaboratore del Monde Diplomatique e di Harper’s Magazine. La sua idea è che negli ultimi decenni il populismo di sinistra rooseveltiano, egualitario, capace di conquistare gli animi, si è trasformato in un populismo di destra fondato sulla paura di tanti di perdere anche quei pochi vantaggi che avevano conquistato e che appaiono insidiati da altri più poveri di loro. Frank fa un’analisi del fenomeno negli Stati Uniti dove la distinzione e l’antipatia fra liberal e popolo sembra netta e la spaccatura è chiara come il sole. L’America da un pezzo è divisa in due, c’è addirittura chi parla di due Americhe: da una parte quella “normale” detta anche “profonda”, che ama la famiglia, crede nei valori della tradizione, omaggia la bandiera a stelle e strisce, dipende dalla tv e dallo junk food; dall’altra ci sono i progressisti, gli intellettuali che abitano sulla costa e che con i primi non hanno nulla a che fare perché trovano che hanno gusti volgari, non leggono, non vanno al cinema e non conoscono buoni ristoranti. Le due parti si riconoscono anche da lontano e si evitano. Thomas Frank ha scritto il suo libro dopo aver scoperto che nella contea più povera degli Stati Uniti Bush aveva ricevuto l’ottanta per cento dei voti. “Come si fa a votare per un repubblicano quando almeno una volta nella vita si è lavorato per un padrone?”, gli ha chiesto un amico, ovviamente di sinistra. E lo scrittore, come molti politici, sociologi, osservatori della sinistra europea ha spiegato il fenomeno a partire dalla “struttura”: la scomparsa delle grandi fabbriche, la crisi verticale dei sindacati, la fine delle sicurezze che derivavano dal lavoro. A tutto questo vanno affiancate le nuove proposte di sicurezza che la destra ha riproposto con nuovo vigore: quelle fondate sulla tradizione, sulla difesa di valori ampiamente riconosciuti e sulla lotta contro coloro che vogliono mettere in crisi l’identità che su questi valori si fonda, che sostengono, per esempio, l’aborto o il matrimonio gay. Le analisi sulle modifiche della struttura e le conseguenti modifiche sociali sono sicuramente importanti, e si potrebbero aggiungere le considerazioni su quello che ha rappresentato contemporaneamente la fine del comunismo e della identità fra partiti comunisti e popolo. Ma rispondono solo in parte alla domanda di fondo sul perché la sinistra è antipatica ai poveri e perché i poveri la guardano con sospetto e disprezzo. Si può anche perdere la propria base sociale tradizionale per molti importanti motivi, economici e legati agli inevitabili cambiamenti della modernità, e si possono perfino perdere voti ed essere una minoranza. Ma si può rimanere interessanti, stimabili, stimolanti, attraenti. E invece questo non è accaduto. Con una differenza fra i due atteggiamenti antipatizzanti, quello del popolo verso la sinistra e quello reciproco. Mentre nei poveri l’antipatia provoca distacco e disprezzo, i progressisti per difendere la loro identità e la loro stessa ragione sociale, pretendono di aiutarli e di rappresentarli, di fornire loro le basi di una emancipazione sociale. Devono, quindi, almeno fingere di amarli. E infatti ci provano, ma non ci riescono. E non solo in un’America che, si sa, ama dividere con qualche semplificazione e giudicare rozzamente, ma anche nella più raffinata Europa e persino in quei paesi culturalmente lontani dall’una e dagli altri. Possiamo dire, insomma, che la sinistra con le sue élite intellettuali e i suoi gruppi dirigenti in questi anni è riuscita ad apparire veramente antipatica. Ci è riuscita perché l’immagine che ha costruito di sé, quella con la quale viene identificata, è ritenuta imbrogliona, bugiarda, ipocrita. Forse l’immagine non corrisponde del tutto alla realtà, ma su quella realtà vince. I progressisti – così si pensa – parlano dei poveri ma vivono da ricchi. Propongono di abolire il privilegio, ma sono privilegiati. Vogliono essere vicini al popolo, ma non lo conoscono. Nella società occupano la parte “alta”, che guarda al “basso” ma non vi entra in contatto. In gran parte, insomma, offrono di sé un’immagine radical chic. Questo termine e questa accusa riassumono bene i motivi dell’antipatia per la sinistra. Per radical chic – dice la Treccani – si intende “ironicamente” il “borghese che, per moda o convenienza, professa tendenze politiche radicali di sinistra, con atteggiamento fortemente snobistico e contrario al proprio ceto di appartenenza”. Definizione giusta, ma non esaustiva, perché su questa figura si possono dire molte altre cose. Il radical chic finge di disprezzare il denaro e il modo in cui la maggior parte della gente se lo procaccia, ma lo guadagna nello stesso modo. E’ convinto della propria superiorità culturale e morale, è noiosamente ricercato nei gusti e volutamente provocatorio nelle affermazioni, ha atteggiamenti fintamente modesti. Un tipo così non può essere simpatico. Ne parlava lo scrittore Tom Wolfe nel famoso articolo, poi divenuto libro, apparso nel giugno del 1970 sul New York Magazine. Si intitolava appunto “Radical chic” e parlava della moda dilagante fra gli intellettuali newyorchesi, ricchi, ricchissimi e importanti, di ospitare nei loro salotti i rivoluzionari dell’epoca, dalle Pantere Nere ai pacifisti, agli hippie di tutti i generi, per mostrare in questo modo il proprio anticonformismo e la propria non adesione al sistema. Wolfe descrive con eccezionale vivacità e veridicità i salotti, le cene, gli inviti all’insegna di “Invita-una-Pantera-Nera-al-Cocktail”. Lo scandalo fu grande: mai prima di allora il progressismo dei ricchi e dei famosi era stato preso in giro con tanta ferocia. Dal libro di Wolfe sono passati oltre quarant’anni e il fenomeno, in parte modificato, si è esteso. Non ci sono più i rivoluzionari da invitare a cena nelle grandi case della Milano bene e neppure chi, come Giangiacomo Feltrinelli, prese tutto così sul serio da morire su un traliccio dell’alta tensione. Oggi altri sono i tratti distintivi del radicalismo chic, altri i contenuti che convivono con l’agio sociale e l’osmosi con il potere. Ma suscitano la stessa antipatia e si identificano, ahimè sempre di più, con la sinistra. I radical chic sono diventati antipatici a livello planetario. Non sono certo amati in Francia, dove sono la cosiddetta “gauche caviar”, né in Germania dove, con disprezzo teutonico vengono definiti “Toskanafraktion” (pare che i progressisti di quelle parti amino la Toscana). L’Irlanda benevolmente li addita come “smoked salmon socialist”, mentre in Svezia sono la “rödvinsvänster”, sinistra del vino rosso, in quel paese raro e raffinato. L’elenco potrebbe continuare, ma quel che stupisce è l’esistenza di una definizione per questa sinistra anche in Brasile che ha la sua “esquerda festiva”, o in Cile dove i nostri radical chic li additano come “red set”, e addirittura in Grecia. La quale, fra tutti i guai di cui soffre, può annoverare la sua canonica “aristerà tu saloniù”, sinistra da salotto. Per amore di giustizia dobbiamo dire a questo punto che la sinistra non è formata solo da radical chic. E che la destra, accusando la sinistra, tutta la sinistra, di radicalismo chic, dà spesso dimostrazione di volgarità e strumentalismo. Per averne un esempio, basta ricordare il precursore di questo atteggiamento che oggi è stato ereditato da parte consistente del centrodestra. Negli anni Settanta, Indro Montanelli scriveva a Camilla Cederna, che allora indagava sulla strage di piazza Fontana, parole a dir poco volgari, cavalcando l’accusa che poi gran parte della destra avrebbe rivolto alla sinistra: “Ti sei innamorata – le scrisse – dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola ‘amore’ si dia il suo significato cristiano di fratellanza… Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga”. Ma torniamo all’oggi. Non è dell’antipatia della destra nei confronti della sinistra di cui ci vogliamo occupare, né della immagine che da Montanelli a Brunetta (che, ben conoscendo il popolo, pensa di sputtanare in diretta i giornalisti televisivi che sono di sinistra con l’accusa di guadagnare troppo) si tende a dare di questa. Ognuno nella battaglia politica usa gli strumenti, anche intellettuali, che possiede. Quello di cui la sinistra dovrebbe preoccuparsi è che questa immagine è diffusamente penetrata nel popolo. E la penalizza non poco. Sono proprio tutti antipatici? Pare di sì, ma in modo diverso. La “gauche caviar” francese, per esempio, ha una sua antipatia che deriva da una laïcité irrispettosa sia del velo che della croce. Oggi possiamo dire che gli italiani aggiungono due caratteristiche specifiche: sono piagnoni e manettari. Fra i nostri radical chic lamentarsi va di moda, anzi è l’ultima moda. Non che motivi di lagnanza in questo disastrato paese non ce ne siano, ma questi antipatici – proprio loro – non hanno quasi nessun motivo di compiangersi. In gran parte occupano posti di lavoro di prestigio, hanno redditi medio alti, sono egemoni nei luoghi della cultura, continuano a permettersi quelli che oggi sono i veri privilegi, perfino maggiori del denaro: una vita che può non essere contaminata dalla volgarità, dalla grossolanità, dallo stress a cui è sottoposta la gente cosiddetta normale, cioè il popolo e i poveri. I ristoranti dove il cibo è ricercato, il cinema, le buone letture, le conoscenze interessanti, le scuole d’élite per i figli, le vacanze, la grande forza che deriva dalla consapevolezza di vivere al centro e non alla periferia del mondo. Ma si sa, oggi i poveri stanno male. La crisi li ha colpiti duramente. E se nell’America degli anni Settanta, per essere di sinistra, si doveva invitare a cena un rappresentante dei Black Panter, oggi per dimostrare solidarietà e unità con il popolo ci si lamenta con lui e più di lui. Si aggiungono lagnanze del tutto ingiustificate a quelle di chi se la passa male davvero. In questo modo gli “champagne socialist” (questo è il nome inglese) si mettono a posto la coscienza: nella crisi tutti soffriamo insieme. Ma non è così. E il popolo non la beve. Se sentissero i commenti ai loro piagnistei ne uscirebbero tramortiti. Se osservassero bene gli sguardi di coloro a cui vorrebbero mostrare solidarietà, tacerebbero immediatamente e cambierebbero strada. Lamentarsi perché è aumentata l’Imu sulle seconde e sulle terze case, o sono saliti i prezzi dei ristoranti, di fronte a chi non si permette neppure una pizza suona irrispettoso, oltre che, naturalmente, ipocrita e antipatico. E poi il “radikal elegance” (definizione norvegese) nostrano è tendenzialmente “manettaro”, tende a pensare che tutti i problemi si possano risolvere con un po’ più di severità e di carcere. Pensa che la moralità possa essere ristabilita con atti forti di distinzione, alzando alte le bandiere del giusto, del legittimo, impugnando la lotta per le regole con veemenza attraverso la continua affermazione delle manette. Il carcere per i nostri radical chic è una panacea che può curare tutti i mali, compresi quelli che derivano da culture radicate e purtroppo assai dure da estirpare. Anche questo è un tentativo goffo e disperato di riconquistare un rapporto col popolo. Si pensa che questa sia la via più facile: i poveri, si sa, sono rozzi e anche esasperati, quindi non possono non seguire chi propone punizioni esemplari, chi addita colpevoli sicuri, chi si mostra deciso nella condanna della pubblica immoralità. Naturalmente anche questa è un’illusione. Forse il popolo segue, forse si mostra veemente e arrabbiato, ma continua a non amarli. Perché non c’è nulla di peggio ai suoi occhi dei moralisti e dei paladini della legge che poi sono i primi a preferire le vie del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio. In questi anni, in quanti scandali si sono trovati politici della sinistra? In quante cronache di carriere universitarie abbiamo letto di moglie e figli di baroni rossi che hanno fatto carriera? Il popolo evidentemente – è desolante ma è così – preferisce i malfattori sinceri, i ricchi che ostentano la loro ricchezza, gli evasori di grandi fortune che li fanno sentire meno colpevoli della loro piccola evasione, gli imbroglioni dichiarati. Ma se è così quando e con quali gesti la sinistra si porrà il problema di spezzare una sua immagine tanto radicalmente odiata?

I registi italiani? "Tutti comunisti", ma con "case dappertutto". A dirlo è Gérard Depardieu in un'intervista a Valerio Cappelli su “Il Corriere della Sera”.  L’attore ha preso la cittadinanza russa, per qualcuno lo ha fatto per non pagare le tasse esose in Francia. «Non sono andato a Mosca per evadere le tasse ma perché Putin mi ha dato un passaporto e perché mi piace la letteratura russa -  racconta ora - Non è una questione di soldi, io vengo dalla terra, sono nato povero, sai che me ne frega dei soldi. Amo più di tutto l'Italia (dove si mangia bene ovunque e non c'è bisogno di andare nei grandi ristoranti, bastano le trattorie), e la Russia, dove non conosco nessuno, specialmente i giornalisti. In Francia dicono che Putin è un dittatore. Io dico che cerca solo di fare il meglio per il suo Paese. Intanto in Francia hanno ucciso i piccoli agricoltori, quanto alla cultura ad Avignone protestano... Non ci sono più festival in Francia, solo bagarre. Bisogna viverci in un Paese prima di criticarlo, hanno sbagliato indirizzo, che andassero nella Corea del Nord». E a Ettore Scola, che accusa Depardieu di evasione fiscale, replica: «Abbiamo un progetto per un film, una bellissima storia di cui non voglio parlare. Prima Scola non voleva farlo perché lo produceva Berlusconi e ora non so. Non credo che troveranno i soldi. Amo Ettore Scola anche se mi ha criticato. Io non sono né di sinistra né di destra, glielo dissi tanto tempo fa a Bertolucci, voi registi italiani siete tutti comunisti, però avete case dappertutto. Mi rispose che in Russia è pieno di Mercedes. Io sono un essere vivente, mi piace la vita. Sono un cittadino del mondo, in Russia sono un viaggiatore e basta».

Il commento di Ginevra Sorrentino su “Il Secolo D’Italia”. Cosa lega Gérard Depardieu a Carlo Verdone? Oltre al fatto di essere due attori capaci di utilizzare sia le corde comiche che quelle drammatiche, il filo di una polemica sempre aperta con la critica integralista. E allora, se «meglio rosso che Verdone» era lo slogan in voga qualche anno fa, all’epoca della diatriba tra il regista e attore romano e l’intellighenzia di sinistra, austera e radical kitsch, oggi l’asse polemico viene spostato dall’istrione francese proprio sui cineasti di casa nostra che, in un’intervista al Corriere della sera, senza troppi giri di parole etichetta così: «I registi italiani? Tutti comunisti con case ovunque». Sempre pronti, aggiungiamo noi, autori e critici fondamentalisti militanti, a incentivare con manifesti ideologici e proclami mediatici esterofilia cinefila e produzioni drammatiche, e, parallelamente, ben disposti a storcere accademicamente il naso contro la commedia, dai tempi del neorealismo bollata severamente come genere di serie B. Con buona pace degli incassi milionari di Checco Zalone e Christian De Sica, veri “re Mida” di celluloide grazie ai quali – in barba ad austeri dibattiti estetici e forum sul rigore formale – il cinema può tornare a godere di nuova linfa economica e spettacolare. Dunque oggi la differenza per il successo la fanno lo spettatore e i risultati al botteghino: e a quella nutrita schiera di sceneggiatori, registi e attori – ma anche cantautori e istrioni da palcoscenico – che si sono nei decenni cullati sugli allori dell’incoronazione mediatica e della continuità professionale grazie all’arruolamento ideologico nelle fila della sinistra militante e sponsorizzante, non resta che farsene una ragione. Un’egemonia culturale e spettacolare, quella democrat, che ha avocato a sé talenti della settima arte, della canzone d’autore e della letteratura, a cui il brand progressista ha garantito sempre partecipazioni ai festival del cinema che contano, agli agoni editoriali più in voga, ai palcoscenici discografici più blasonati. Oggi, invece, il trend si inverte: e mentre una firma del grande schermo come Ettore Scola, rivela Depardieu dalle colonne del quotidiano di via Solferino, avrebbe un progetto nel cassetto – («una bellissima storia di cui non voglio parlare. Prima Scola – prosegue l’attore – non voleva farlo perché lo produceva Berlusconi, e ora non so. Non credo che troveranno i soldi») – autori non schierati a sinistra lavorano. Incassano. Vengono promossi a suon di record dalle platee e, gioco forza, in qualche modo anche rivalutati dalla critica costretta a rileggere morfemi e grafemi della sua grammatica giudicante. Chissà, allora, come sarebbe stata la parabola del successo di attori come Lando Buzzanca o come Lino Banfi – oggi nobilitati dalla tv e riaccreditati da un tardivo revisionismo critico – se negli anni Settanta, invece di pagare a suon di commediole scollacciate e di stroncature lo scotto di una mancata adesione culturale e politica a sinistra, avessero potuto vedere capacità e fortuna decretate semplicemente dal pubblico in sala… Ai posteri l’ardua sentenza.

Luca Barbareschi intervistato al telefono da Gabriele Lazzaro a “Anche io ero off” e pubblicato su “Il Giornale”: «Sono solo contro una casta di idioti raccomandati».

Luca, mi racconti un episodio OFF degli inizi della tua carriera?

«Ce ne sono tanti… quest’anno compio quarant’anni di carriera…»

Uno che però non hai mai raccontato a nessuno?

«Il mio vero primo ruolo nell’Enrico V – poi dopo ho lavorato solo in ruoli più importanti – era suonare il tamburo nascosto in quinta, cioè, fare le rullate mentre Gabriele Lavia faceva i monologhi. Chiuso in una scatola di legno, a Verona, a luglio, con un caldo infernale, suonavo questa grancassa per circa un’ora e mezza pensando di suonare la batteria. Questo è stato il mio debutto teatrale, a diciotto anni.»

Come si vive a diciotto anni un’esperienza del genere?

«Mah, io ero felice! mi sembrava di toccare il cielo con un dito! Era una compagnia meravigliosa, c’era il Garrani, Lavia… Meschieri e Fo erano i produttori… Ciò che mi fa tristezza oggi è  vedere ragazzi di 18 anni che sono già vecchi. Sanno già tutto, hanno già capito tutto, sono già depressi. E’ tutto politico… invece ai miei inizi era poesia pura, arte pura: il teatro, di sera, nella Piazzetta delle Erbe… Suonavo bene la chitarra e il piano: ero un musicista, più che altro, per cui intrattenevo gli altri, cercavo gli spazi cercando di fare simpatia e di fare il mio lavoro: l’entertainer. Ma questo ha messo in moto il mio  futuro: il regista mi aveva preso all’inizio come uno che doveva fare il caffè, poi sono diventato il suo primo aiuto – lui era il numero due insieme a Strehler al Piccolo – e due mesi dopo ero a Chicago a fare il primo aiuto all’Opera Lirica. Le opportunità, se le vivi con entusiasmo, sono bellissime. Anche perché poi, questo lo vedo adesso, a quasi sessant’anni vuoi circondarti di persone piene di entusiasmo, di voglia di fare, e di bellezza. No?»

Certo. E quindi questo stupore è un po’ quello che ti ha accompagnato in questi quarant’anni di carriera…

«E’ ancora così per me. Se vieni a vedere il mio one man show a Spoleto a giugno, piangerai e riderai. Ci sono io con una band di cinque elementi, uno è Marco Zurzolo, un jazzista che ha aperto Umbria Jazz, tra i più bravi musicisti italiani; io mi diverto con in scena le mie Stratocaster, le Martin, un pianoforte a coda Steinway, cinque elementi d’orchestra… facciamo di tutto, per due ore e un quarto. Come se avessi quindici anni.»

Il tuo one man show, “Cercando segnali d’amore nell’universo”, per la regia di Chiara Noschese lo vedrò al Teatro Manzoni, perché verrai anche qui a Milano… ti aspettiamo! Nella tua carriera hai fatto veramente di tutto: teatro, cinema, hai condotto programmi di successo:  alcuni me li ricordo anche molto bene…

«“Il grande bluff”…»

Come no! E “C’eravamo tanto amati”. Ma questo tuo essere così tanto eclettico e così professionale in qualche modo lo devi all’esperienza americana?

«Infatti io sto sulle palle a tutti i vari Virzì e Servillo… questa gente qui mi odia, perché loro sono degli snob tremendi… quindi, fanno finta di essere intimisti, profondi, ma è tutta gente che vive in una casta. Io ho imparato a vivere in America che qualsiasi cosa fai ti arricchisce: facevo l’aiuto regista, facevo i servizi per Gerry Minà sulla storia della boxe e contemporaneamente vincevo a Venezia con il mio film “Summertime”. Poi non c’avevo più una lira di nuovo e facevo l’aiuto regista per Mario Merola in “Da Corleone a Brooklyn”… In questo modo mi sono costruito un curriculum che credo non abbia nessuno. Ho una bellissima azienda, oggi, che ha prodotto più di centotrenta film, ho quotato in borsa la mia azienda di informatica… e l’ho fatto per curiosità. Quando vedo i ragazzi demotivati…  Io adesso sto facendo un film sulla vita di Pietro Mennea, per esempio, è la cosa più bella è che lui è stato il più grande campione del mondo come velocista e poi si è preso tre lauree, si è candidato parlamentare europeo, è ricordato come uno degli uomini più importanti del Parlamento Europeo… Perché tutto dipende da noi, alla fine. Da quanto tu credi che la vita ti possa dare e da quanto sei aperto.»

Proprio parlando di tutte queste trasformazioni che possono far parte del percorso di una persona, nel 2002 hai diretto “Il trasformista”, che è un film molto arrabbiato verso il cattivo uso della politica…

«I miei film verranno apprezzati tra vent’anni. Perché in quel film ho detto tutto quello che sarebbe successo dieci anni dopo, ma quando l’ho fatto io… poi, quando l’hanno dato in televisione è andato bene, ma in sala… mi ricordo che quando ho fatto il primo film, Ardena, tutti i vari ortodossi della sinistra hanno fatto un picchetto per impedire al Barberini di andare a vedere il film del fascista Barbareschi. Che imbecillità… il povero Morando Morandini ha anche scritto da qualche parte: “Barbareschi ha osato fare un film falcata, tempio degli intellettuali come Amanda Sandrelli”… delle cazzate così neanche uno sceneggiatore se le può inventare. Adesso l’ha rifatto con “Something good”, questo film sulle frodi alimentari, l’han tolto dopo un giorno dalle sale! Tu pensa a Milano Expo il tema è la sicurezza alimentare, ed il mio film che è venduto in tutto il mondo, girato in Cina sul tema alimentare, niente. Non è interessante!»

È pazzesco, perché tra l’altro è stato anche apprezzatissimo da Spielberg…

«Ti mando le foto: alla prima al festival di Los Angeles, c’erano ad applaudire Meryl Streep, Julia Roberts, Tom Hanks, Bono degli U2 con il suo chitarrista The Edge… c’era tutta Hollywood ma in Italia non se ne è parlato per niente. Basta vedere i David di Donatello: la più grande porcata fatta in televisione negli ultimi vent’anni. Dove un’idiota come Ruffini si permette di insultare Sophia Loren dicendole “bella topa”… Qui c’è una casta di idioti raccomandati, protetti dalla politica, protetti dalla casta autocelebrativa, che ha ucciso lo spettacolo italiano. Ci sono anche quelli veri, oggi, nello spettacolo, c’è gente che fa un patto col pubblico: Brignano fa 130 mila euro a sera. Cioè, gente vera… Proietti, io, che faccio teatro da quarant’anni,Branciaroli… Poi però c’è una casta autocelebrata che può anche fare un peto al cinema o in teatro. Ed è sempre Chanel.»

Una Casta che lavora moltissimo…

«Io il David di Donatello non lo vincerò neanche se faccio Ben Hur… io non son stato neanche invitato.»

Perché Ruffini alla conduzione? È sempre stato molto istituzionale…

«Perché non hanno capito che chi deve celebrare la messa non può far le pernacchie. Il master of ceremony deve essere istituzionale. O sennò è un genio come Billy Crystal, quando ha presentato una volta gli Academy Awards, che però non si è permesso di insultare Jack Nicholson. Anche perché Jack Nicholson gli staccava la testa in diretta… Invece i premi italiani sono finti. I David sono finti, i Leoni sono finti. Io ho ricevuto una lettera di Alberto Barbera, il direttore della Mostra del cinema di Venezia, quest’estate … non mi hanno preso  perché non faccio parte della schiera dei suoi amici.»

È una cosa forte, questa…

«Ma mi ha scritto su carta da bollo protocollata! Allora, siccome sono cretini, fanno marchette autocelebrativa che infatti hanno ucciso il cinema. Lo scollamento dell’autocelebrazione critica della casta è totale. Checco Zalone può piacere o non piacere – a me personalmente piace – e quest’anno ha fatto settanta milioni. Ma non può non aver vinto un premio! È bravissimo e spiritosissimo e non puoi non tener conto di quello che esiste, no? Ma ho detto una vecchia cosa. Tornatore ha fatto un film bellissimo quest’anno e in televisione l’avrebbero ucciso.»

Tornando a bomba sulla politica di cui tu hai parlato ne “Il trasformista”, quindi sei stato un po’ profetico… com’è cambiata la politica del 2002 rispetto a quella di oggi? I politici sono gli stessi…

«La politica di una volta  – ti faccio un’immagine molto semplice – da cinquant’anni in America ci sono due simboli: l’asinello e l’elefantino. Uno sono i repubblicani e l’altro i democratici. Dentro quei due piccoli simboli per cinquant’anni cambiano le facce. In Italia succede l’opposto: le facce son le stesse, cambiano i simboli. Ulivo, melo… il nome: PD, PDC MDC, CFC…Questa secondo me è l’immagine di un paese morto. A parte che è morto perché in mano a mafia, ’ndrangheta e camorra.  Al di là della corruzione dei politici, che fanno schifo, al di là di queste facciate delle Iene da cui mi son preso delle querele, io le leggi le ho fatte. Tu vai a vedere la legge sulla tax credit, è mia. Pensi che qualcuno mi abbia ringraziato?»

Penso proprio di no.

«Infatti, nessuno. La legge sulla pedofilia, l’ho fatta io. Poi l’altro giorno ho fatto un tweet di sfogo, stupido, da ragazzino, che dimostra la mia età dell’anima… dicevo che qualsiasi cosa io faccia – perché l’altro giorno c’è stato un processo in cui ero parte lesa, perché dopo otto anni hanno finalmente condannato una pazza…»

La skipper?

«La skipper, sì. Sai cos’ha scritto Repubblica? “Barbareschi dal suo panfilo caccia una povera lavoratrice del mare”. Capisci che, visto così, la mia responsabilità va a quel paese. Io, anche se faccio Arancia Meccanica moltiplicato per Otto e mezzo di Fellini, devo firmarlo con un nome diverso. Perché sono scomodo, perché voglio essere indipendente, non me ne frega più un cazzo di nessuno di questi servi che hanno scritto sulla stampa le cose peggiori, anzi non hanno scritto… La vera tangentopoli dei  giornalisti dev’essere ancora scritta!»

Ti fa  onore l’aver trasformato il tuo percorso artistico, la tua fortuna, tutto quello che fa parte del tuo impero, in forza lavoro, perché hai aperto una società di produzione…

«È questo, il mio “Summertime”, che ha vinto a Venezia quando non c’erano ancora questi mentecatti servi dei politici.»

In un certo senso sei un esempio per i giovani…

«Voi però dovete ribellarvi! Dovete mandarli a fanculo. Sai perché odio quelli del Valle? Non perché l’hanno occupato, perché l’occuperei anch’io, ma perché non hanno fatto un cazzo dentro il Valle. È questa la tragedia: Peter Brook alla Gare du Nord dentro un garage ha rivoluzionato il teatro mondiale! Noi, nel nostro piccolo, all’Elfo di Milano… “Sogno di una notte d’estate” fatto trent’anni fa, è stato in cartellone un anno, ed eravamo degli illustri sconosciuti! Io, Claudio Bisio, Paolo Rossi, Maddalena Crippa, Irene Capitani… oggi siamo tutti conosciuti, ma allora eravamo sconosciuti. Eravamo in un garage, non è che fossimo al Piccolo. Un anno in cartellone, ottocento persone a sera. Contro il Piccolo di Strehler, che stava morendo. Non abbiamo mica avuto bisogno di occupare il Teatro Lirico… Però c’era talento. Eravamo tutti giovani pieni di talento che hanno fatto delle cose. Qui invece occupano i teatri e non hanno idee… e questo è il risultato.»

Hai citato il Teatro Valle… noi abbiamo lanciato anche una petizione…

«Sai chi sono i peggiori, in malafede? Sono Gifuni, il figlio di Gifuni, il funzionario di stato. Quell’altro, come si chiama? Che è anche un bravissimo attore, ricciolino, rosso…»

Elio Germano?

«Elio Germano. Tutti froci col culo degli altri! Vanno al Valle, fanno i combattenti, però col cazzo che si fanno arrestare. Hanno distrutto la società di raccolta per gli attori, questo per colpa anche di un senatore idiota del Pdl… tutti quelli di adesso hanno distrutto la Repubblica. Perché non appena arriva uno di sinistra si calano le braghe per essere accettati. Di società di raccolta ce ne erano tre, adesso più niente.»

Noi fra l’altro siamo contenti di averti fra le firme di quelli che hanno aderito a questa petizione per liberare il Teatro Valle perché l’iniziativa che ha lanciato Edoardo Sylos Labini dalle nostre pagine secondo me è fondamentale…

«È encomiabile, ha fatto bene. Infatti ho aderito subito, io ci sono anche andato a litigare da solo.»

Ma sai che non è facile…

«Io ho chiesto di farmi entrare perché volevo parlare. Ma ormai non c’è più nessuno, cinquanta precari, gente che non ha mai fatto un provino in vita sua, non c’è gente dello spettacolo lì.»

Ma ti hanno ascoltato, quando sei andato a bussare alla loro porta?

«Ma chi? Non sono attori! Qui c’è il malinteso: gli occupanti del Valle non sono attori. Non sono registi, non sono scenografi… sono dei precari, c’è gente di cinquant’anni. Ma sai chi è l’altro deficiente, lì? Ronconi è andato al Valle a dire “sono con voi”. Ronconi! Ronconi ha devastato il teatro italiano: al Piccolo non lavora un giovane da vent’anni. Capisci com’è facile il trucco? Quando c’erano le manifestazioni a Milano, c’era gente che scendeva dalle Rolls Royce col maggiordomo, che diceva: “Vi passo a prendere dopo, che la mamma vi manda tutti a Saint Moritz?”, questo era il movimento studentesco a Milano. Nessuno racconterà mai la verità su questo. I movimenti veri erano Lotta Comunista, Lotta Continua a Torino. Gli operai, non i fighetti di Milano!»

Però, Luca, non è semplice…

«Posso dirti? Il signore del Giornale vostro, il signor Sallusti, quando c’è da fare una battaglia con quelli come me non la fa. Diteglielo pure. Io non sono mica la Santanché.»

Glielo stai dicendo tu, perché sarai ascoltato…

«Glielo dico, glielo dico. Perché son spariti tutti, invece di far coesione fra i cervelli migliori, vanno a Cannes, si fanno vedere alla Festa dei Ciak…c’è  Servillo a braccetto con Verdone e la Santanché…. Qui è una questione di competenze, di mettere il meglio, fare scuole di eccellenza, però bisogna capirle, le cose. Io son contento che ci sia Edoardo, perché ha tanta competenza e tanta voglia di fare. Io le ho fatte le mie battaglie, da onorevole, per cinque anni. Litigai con lo stesso Berlusconi con cui ai tempi non ero d’accordo.»

Ecco, il bello della battaglia di Edoardo è proprio che è bipartisan, a nome della cultura libera e al di là del colore politico.

«Ma non vi caga nessuno. Guarda, io sto a testa alta, perché nelle mie produzioni, tu le avrai viste, da Olivetti a Walter Chiari, lavorano solo professionisti. Mai raccomandati. Tu vedrai da Paolo Graziosi a Rocco Papaleo. Però se faccio la prima di “Something Good” gli attori che ho fatto lavorare credi che siano venuti? No, perché hanno paura che se vai a una prima di Barbareschi magari non ti chiama Nanni Moretti. A me di Nanni Moretti non me ne frega un cazzo, ma neanche a nessuno di questi. Io lavorerei domani con Moretti, se ha voglia, alla pari però.»

Torniamo alla tua carriera: tu teatralmente hai sempre fatto delle scelte originali. Hai portato sulla scena italiana autori come Mamet, Polanski…  oggi, secondo te, di quali testi avremmo ancora bisogno teatralmente?

«Banalmente di copiare quello che hanno fatto all’estero. Se tu vai a vedere, il teatro è contemporaneo: solo qui è un’eccezione. Il teatro racconta quello che accade in questo momento, non quello che accadeva. Poi, i grandi teatri stabili dovrebbero star fermi e non itinerare. Ma i teatri non me li danno mai, l’unico teatro che ho diretto per due anni è stato l’Eliseo e hanno tentato di cacciarmi subito, perché io mi opponevo a questa consorteria degli scambi, di comprare a scatola chiusa uno spettacolo.»

«Ma infatti la tua direzione artistica si è conclusa poco dopo…

«Perché ho detto che avrei fatto una compagnia fissa a Roma, con otto novità all’anno e fine. Risparmiavo sulle spese per i trasporti e diventava un teatro innovativo.»

Quindi copiamo dall’estero. Importiamo novità dall’estero…

«Ma li vedi questi qua del Piccolo? Che non sanno neanche la differenza tra sceneggiatura, scenografia e coreografia? Gente attaccata alla sedia, al potere, fanno gli scambi, prendono chi è utile, che è figlio di questo o di quello…»

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

Non fu la resistenza a liberare l'Italia ma solo gli alleati. Gli elementi dominanti della Resistenza, quelli comunisti, lottavano per l'Unione sovietica. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia, scrive Nicholas Farrell su “Il Giornale”. Quando guardo in streaming le facce nobili dei vecchi uomini inglesi e americani e del Commonwealth che hanno partecipato all'invasione della Francia nel 1944 e che ora sono tornati alle spiagge della Normandia per commemorare il 70° anniversario del «Longest Day», e poi, quando ascolto le loro parole piango - sorridendo. Sono da onorare perché sono uomini in perfetta sintonia con la regola antica della vita, cioè: per meritare l'onore, un uomo deve dimostrare prima l'umiltà e poi la virtù. E loro, questi uomini che ormai hanno compiuto i 90 anni - e tutti i loro compagni caduti in nome della libertà - ce l'hanno fatta. Poi, però, penso alla liberazione di Roma dagli stessi anglo-americani, accaduta due giorni prima del D-Day - il 4 giugno 1944 - e mi incazzo. Per parecchi motivi. In anzitutto, mi incazzo perché sono inglese ma in Italia si commemora la liberazione d'Italia ogni 25 aprile come se fosse un lavoro compiuto da partigiani e basta. E mi sento offeso che a Forlì in Romagna dove abito la strada che porta ad uno dei due cimiteri degli alleati nella città si chiama Via dei Partigiani. E mi sento offeso che quando si parla di alleati in discorsi o sui giornali, si fa riferimento solo agli «americani». In quei due cimiteri di Forlì giacciono i resti mortali di 1.234 soldati dell'Ottava Armata Britannica. Così tanti morti, solo a Forlì. Ma vi rendete conto? Non è ora - dopo 70 anni - di affrontare una semplice verità? Eccola: la Resistenza in Italia era completamente irrilevante dal punto di vista militare. In ogni caso, nell'estate del 1944 non esisteva una Resistenza in Italia. Dopo, invece - dall'autunno del 1944 in poi - che cosa di concreto ha portato questa Resistenza? Peggio. Secondo la storiografia la Resistenza lottava per la patria, la libertà e la democrazia. Non è vero. I suoi elementi comunisti (quelli dominanti) lottavano per l'Unione sovietica, la dittatura e il comunismo. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia. Voleva a tutti costi fermare le forze comuniste nei Balcani e in Austria. Roosevelt no, invece, e ha prevalso il Presidente americano. Perciò, gli alleati, che avevano invaso l'Italia nel 1943, non ebbero le forze necessarie in Italia per liberarla fino all'aprile 1945. Si dice: solo grazie alla Ue ci sono stati 70 anni di pace in Europa. Non è vero. C'è stata pace in Europa solo grazie agli anglo-americani e al piano Marshall. Oggi, la Ue e la sua moneta unica rappresentano la più grave minaccia alla pace in Europa.

Di questo oscurantismo la tv di Stato ne è molto responsabile, ma guai a toccarla. Santoro confessa: "Sono un vecchio comunista", scrive “Libero quotidiano”. Il teletribuno: "Giusto lo sciopero in Rai, ma la tv pubblica è vecchia e tre tg sono troppi". Lo sciopero Rai? Se lui lavorasse ancora nella tv pubblica vi aderirebbe, "perchè sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro". Esordisce così, Michele Santoro, nell'intervista concessa oggi a Repubblica e nella quale affronta lo spinoso tema della televisione pubblica, alle prese col taglio da 150 milioni imposto da Renzi. una mossa che il teletribuno applaude nei fini ma non nei contenuti: "Tagliare di botto 150 milioni significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Santoro ricorda i suoi esordi in viale Mazzini nel lontano 1987, "quando ero la voce della piazza mentre ora rischio anch'io di passare per istituzionale perchè la tv generalista, non solo la Rai, è in crisi profonda per una mancanza di reale concorrenza tra i due grandi poli che ha abbattuto la qualità di ciò che viene trasmesso. Basti guardare le fiction: parlano di preti, di carabinieri, di buoni sentimenti. Non c'è il futuro, non c'è modernità, capacità di innovare". Poi c'è la questione della "lottizzazione" e dei tre tg nazionali: "Un sistema vecchio, figlio di quando c'erano le grandi ideologie a contendersi il Paese. Ma oggi non c'è una domanda di pubblico che giustifiche tre grandi redazioni". Con un occhio al suo futuro professionale, con voci che ogni anno lo vedono verso un rientro in Rai, Santoro definisce invece demagogia chiedere che le star del piccolo schermo, da Vespa a Floris a Fazio si taglino lo stipendio: "Se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience". E il futuro di viale Mazzini? "un canale finanziato col canone che faccia tutto quello che il mercato non fa: niente reality, grande informazione, innovazione. E due canali aperti ai privati".

Quando Santoro e De Gregorio erano colleghi al quotidiano comunista. Dopo la parentesi in un gruppo maoista, il teletribuno lavorò a "La Voce della Campania". E tra i collaboratori c'era il nuovo idolo della sinistra, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo Massimo Ciancimino, la sinistra manettara, santoriana e travaglina ha un nuovo totem: Sergio De Gregorio. L'ex senatore dell'Idv è il testimone chiave dell'inchiesta napoletana sulla compravendita di onorevoli, per le toghe orchestrata da Silvio Berlusconi, che tra il 2007 e il 2008 avrebbe fatto cadere il governo Prodi. Roba tosta, insomma, roba in grado di trasformare De Gregorio in superstar della prima puntata della nuova stagione di Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro a cui partecipa Marco Travaglio e dalle cui labbra pende tutta la sinistra manettara. Il terzetto si ricompone, insomma, e con De Gregorio si trasforma in quartetto. In questo quartetto, però, c'è un legame che affonda le sue radici più in là nel tempo. E' quello tra il teletribuno Michele e l'ex "traditore" De Gregorio, fino a qualche mese fa liquidato nel migliore dei casi come "maneggione" e oggi, invece, asso nella manica nella guerra contro il Cavaliere. Già, perché i due sono ex colleghi. Entrambi campani - Santoro classe 1951, De Gregorio 1960 -, il primo giornalista e il secondo, invece, ex giornalista, avevano iniziato le loro attività da cronisti nel quotidiano comunista La voce della Campania tra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80. Una conoscenza, la loro, nata tra le scrivanie della redazione di un quotidiano comunista: nessuna sorpresa per Santoro, un po' di stupore in più, invece, per De Gregorio (ex socialista ed ex valorista). Che Santoro abbia lavorato a La Voce della Campania non è certo un mistero: la sua parentesi al quotidiano rosso iniziò dopo quella con il periodico Servire il popolo, edito dal gruppo maoista Unione Comunisti Italiani in cui militò fino alla sua chiusura, nel 1975. De Gregorio collaborò con La voce della Campania proprio nella seconda metà degli anni '70: negli anni successivi, dopo l'ingresso in politica, promosse il ritorno in edicola della testata. Il nuovo idolo della sinistra, insomma, il senatore De Gregorio (lo stesso che, ha denunciato Maurizio Belpietro, "mi propose di pagare la Camorra"), consosceva Santoro da anni, dai tempi della militanza comunista. Una carriera iniziata insieme, quella di Michele e Sergio, che a distanza di quasi 40 anni si sono ritrovati sul piccolo schermo, a La7, per spalare fango contro Berlusconi.

La Rai "censura" il giornalista e le sue scomode verità sulla Sardegna. La Rai intervista Anthony W. Muroni (direttore dell'Unione Sarda) e dopo decide per la "censura", non mandando in onda il suo intervento. Poi la retromarcia: ecco la denuncia. Prima l'hanno chiamato per un'intervista sulla tragedia della Sardegna e poi gli hanno riferito che non sarebbe mai andata in onda, con un commento secco: "Meglio non parlare di queste cose". E lui, Anthony W. Muroni, direttore dell'Unione Sarda, ha denunciato la "censura" della Rai sulla sua pagina Facebook. Nell'intervento registrato per il Tg2, riferisce lo stesso Muroni, il giornalista aveva invitato ad interrogarsi sul "perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici". Ecco la sua denuncia su Facebook: Mezz'ora fa ho registrato un intervento per il Tg2, nel quale ripetevo i concetti già espressi a Uno Mattina: serve solidarietà, servono interventi, servono aiuti, serve combattere l'emergenza, Ma serve anche interrogarsi sul perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici. Ho detto anche: va bene la solidarietà del governo e gli stanziamenti, ma forse dovrebbero rendersi conto che c'è un intero sistema che non funziona. E che in Sardegna, dieci anni dopo Capoterra, stiamo ancora parlando delle stesse cose. Mi ha appena chiamato una collega della Rai: l'intervista non verrà mandata in onda: "Meglio non parlare di queste cose". Tanti saluti. Poi è arrivata la retromarcia, dopo che la notizia aveva fatto il giro dei social network. Come scrive su Twitter lo stesso Muroni, l'intervista, dopo un equivoco, andrà in onda questa sera: "Mi ha chiamato Rocco Tolfa, vicedirettore Tg2: c'è stato equivoco. Intervista in onda alle 20.30".

Censura in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'Italia è ad uno dei livelli più bassi per quanto concerne la libertà di stampa in Europa. Un'analisi effettuata da Freedom House classifica l'Italia come "parzialmente libera", uno dei soli due paesi dell'Europa Occidentale (il secondo è la Turchia), relegandola dietro anche a diversi paesi comunisti dell'Europa Orientale. A livello mondiale, Reporter Senza Frontiere classifica l'Italia al 57º posto per la libertà di stampa. La censura viene applicata tanto sulla televisione quanto sugli altri mezzi di informazione e di stampa.

Storia della censura in Italia. Nel periodo che segue il Congresso di Vienna (1814-1815), in territorio italiano era in atto un incisivo controllo sulla stampa da parte delle monarchie. Nelle capitali dei vari staterelli, e nei centri urbani più importanti, in genere usciva solo un foglio ufficiale della monarchia, generalmente intitolato Gazzetta, che serviva per la pubblicazione delle leggi e di una cronaca attentamente selezionata. Oltre a questi tuttavia erano presenti dei periodici letterari e culturali, dove potevano essere espresse nuove idee. Nel 1816, su iniziativa degli austriaci, a Milano fu fondato un mensile letterario intitolato Biblioteca Italiana, in cui vengono invitati a collaborare (non sempre con successo) oltre 400 fra intellettuali e letterati di tutta Italia. A questa rivista faceva da contraltare Il Conciliatore, periodico statistico-letterario vicino alle idee romantiche di Madame de Staël, che continuerà ad uscire fino al 1819, quando sarà costretto alla chiusura. La situazione del giornalismo italiano comincia a cambiare con la nascita di numerosi fogli clandestini, stampati dai nuclei carbonari e dai movimenti rivoluzionari sotterranei, che porteranno ai moti del 1820-1821. Uno dei giornali più noti di questo periodo è L'Illuminismo, pubblicato nelle Legazioni pontificie nel 1820, ma abbiamo anche La Minerva di Napoli e La Sentinella subalpina di Torino. Nello stesso periodo, anche negli ambienti liberali italiani ci fu un certo attivismo giornalistico. Risalgono a quegli anni infatti Antologia, giornale di scienze, lettere e arti, nato a Firenze nel 1821, i genovesi Corriere mercantile del 1824 e L'Indicatore genovese, cui collaborò anche il giovane Giuseppe Mazzini. Nel 1847 e nel 1848 furono promulgati gli editti di Pio IX e di Carlo Alberto, relativi alla libertà di stampa. La prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio è quella relativa alle proiezioni cinematografiche e risale al 1913. Con questa legge si impediva la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento, emanato nel 1914, elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Nel 1920 con un Regio Decreto fu istituita una commissione, che fra le altre cose aveva il compito di visionare preventivamente il copione del film prima dell'inizio delle riprese. La censura fascista in Italia, consistente nella forte limitazione della libertà di stampa, radiodiffusione, assemblea e della semplice libertà di espressione in pubblico, durante il ventennio (1922-1944), non fu creata dal regime fascista, e non terminò con la fine di questo.

I principali scopi di questa attività erano:

Controllo sull'immagine pubblica del regime.

Controllo costante dell'opinione pubblica come strumento di misurazione del consenso.

Creazione di archivi nazionali e locali (schedatura) nei quali ogni cittadino veniva catalogato e classificato a seconda delle sue idee, le sue abitudini, le sue relazioni d'amicizia e sessuali, costituendo così di fatto uno stato di polizia.

La censura fascista combatteva ogni contenuto ideologico alieno al fascismo o disfattista dell'immagine nazionale. La censura nel settore dei media veniva posta in atto dal Ministero della Cultura Popolare (Min.Cul.Pop.), che aveva competenza su tutti i contenuti che potessero apparire in giornali, radio, letteratura, teatro, cinema, ed in genere qualsiasi altra forma di comunicazione o arte. Nel 1930 fu proibita la distribuzione di libri con contenuti di ideologia marxista o simili. Questi libri dovevano essere raccolti, presso le biblioteche pubbliche, in sezioni speciali non aperte al vasto pubblico. Per avere accesso a questi testi bisognava ottenere una autorizzazione governativa, che veniva concessa dietro alla manifestazione di validi e chiari propositi scientifici o culturali. Grandi falò di libri si verificarono sin dal 1938: le opere contenenti temi sulla cultura ebraica, la massoneria, l'ideologia comunista, vennero rimosse dagli occulti scaffali di biblioteche e librerie. Per poter evitare i sequestri e le conseguenze delle ispezioni fatte dalla polizia fascista, molti bibliotecari nascosero le opere incriminate, ed in effetti in molti casi queste vennero ritrovate alla fine della guerra. Un episodio recente di censura è stata la cancellazione di una puntata della trasmissione televisiva Le Iene che avrebbe dovuto mandare in onda un test sull'uso della droga all'interno del Parlamento Italiano. Come per tutto il resto dei sistemi di informazione italiani, l'industria della televisione italiana è considerata, sia da fonti interne che esterne al paese, ampiamente politicizzata. Riprendendo un sondaggio effettuato nel dicembre del 2008, solo il 24% degli italiani crede ai programmi informativi televisivi, in netto svantaggio ad esempio con il dato della Gran Bretagna che è al 38%, facendo dell'Italia uno degli unici tre paesi esaminati dove le risorse online informative sono ritenute più affidabili di quelle televisive. Spesso in Italia i cartoni animati e gli anime vengono tagliati o modificati per evitare scene di violenza o di sesso. Uno degli esempi più eclatanti è sicuramente Naruto. L'8 dicembre 2008, la rete televisiva Rai 2 ha diffuso una versione censurata del film I segreti di Brokeback Mountain nella quale due scene sono state tagliate (la scena dove è rievocata la prima relazione sessuale tra i due eroi e la scena dove si abbracciano). La censura ha suscitato le proteste dei telespettatori e delle associazioni omosessuali. Nel 2009 la RAI e Mediaset si sono rifiutate di mandare in onda il trailer promozionale di Videocracy, un'analisi del potere della televisione e di come essa influenzi comportamenti e scelte della popolazione italiana, di come essa sia entrata nella vita quotidiana come principale fonte di informazione per la quasi totalità delle persone, a causa di motivi, rispettivamente per RAI e Mediaset, politici e di opportunità. Nel 2010 in concomitanza con le elezioni regionali, erano stati sospesi i talk show informativi dell'intero panorama televisivo italiano, su ordinanza dell'Agcom, poi abrogata dal TAR del Lazio con sentenza del 12 marzo 2010. In realtà poi rimasero sospesi alcuni talk show RAI, inclusi Porta a Porta, Ballarò e Anno Zero, come precedentemente sancito dal Consiglio di Amministrazione e poi ribadito dalla Commissione Vigilanza della RAI, in ottemperanza al previgente ordinamento Agcom. Nel 2009 la televisione di stato RAI tagliò i fondi per l'assistenza legale al programma televisivo d'inchiesta giornalistica Report (messo in onda da Rai 3). Il programma si è sempre interessato di questioni molto sensibili, esponendo spesso i giornalisti ad azioni legali (esempio fra tutti l'autorizzazione alla costruzione di edifici che non rispondevano a specifiche tecniche di resistenza ai terremoti, casi di eccessiva e mala burocrazia, i lunghi tempi della giustizia italiana, prostituzione, scandali di malasanità, casi di banchieri falliti che segretamente possedevano dipinti e opere d'arte di altissimo valore, cattiva gestione dei rifiuti tossici e di diossina, casi di cancro causati dalle schermature antincendio in amianto (Eternit) e casi di inquinamento ambientale causati da centrali elettriche a carbone (Taranto). Un accumulo di cause pendenti contro i giornalisti in assenza di fondi per la loro gestione potrebbe portare il programma ad una fine. Prima del 2004, nel rapporto dell'organizzazione americana Freedom House sulla libertà di stampa, l'Italia era sempre stata considerata "libera". Nel 2004 fu declassata a “Parzialmente Libera” a causa dei '”'20 anni di fallita amministrazione politica”, la “controversa Legge Gasparri del 2003” e soprattutto per tutte le “possibilità del primo ministro di influenzare la RAI (radiotelevisione italiana di stato), uno dei più lampanti conflitti d'interesse al mondo” (citazione del rapporto). Lo status del resoconto risalì al grado libero dal 2007 al 2008 durante il Governo Prodi II, per tornare subito a parzialmente libero dal 2009 con il Governo Berlusconi IV. La Freedom House ha notato come l'Italia costituisca un “valore erratico regionale” e, più precisamente, che “l'attuale governo ha incrementato i tentativi di interferire con la politica editoriale della televisione di stato, in particolare per quanto riguarda la copertura degli scandali che circondano il presidente Silvio Berlusconi”. Il controllo estensivo di Berlusconi sui media è stato ampiamente criticato sia da analisti che da organizzazioni per la libertà di stampa, che concordano nel considerare i media italiani con una limitata libertà di espressione. La Freedom of the Press 2004 Global Survey, uno studio annuale promosso dall'organizzazione americana Freedom House, per tali motivi ha più volte declassato l'Italia da Libera a Parzialmente Libera esplicitamente a causa dell'influenza di Berlusconi sulla Rai, una valutazione condivisa in tutta l'Europa Occidentale solo dalla Turchia. Reporter Senza Frontiere afferma che nel 2004 Il conflitto d'interessi che coinvolge il primo ministro Silvio Berlusconi e il suo vasto impero mediatico non è stato ancora risolto e continua a minacciare la democrazia informativa. Nell'aprile del 2004, la Federazione Internazionale dei Giornalisti si unì a tali critiche, obiettando al passaggio di una legge respinta da Carlo Azeglio Ciampi nel 2003, che criticanti credono sia disegnata appositamente per proteggere il controllo al 90% del sistema televisivo italiano da parte di Silvio Berlusconi. L'influenza di Berlusconi sulla RAI divenne evidente quando a Sofia, Bulgaria, espresse le sue opinioni sui giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, e sul comico e attore Daniele Luttazzi. Berlusconi disse che “usano la televisione come un mezzo di comunicazione criminale”. Come risultato i tre persero il loro lavoro. Questa affermazione fu chiamata dai critici "Editto Bulgaro". La trasmissione televisiva di un programma satirico chiamato Raiot fu censurata nel novembre del 2003 dopo che la comica Sabina Guzzanti aveva espressamente criticato l'impero mediatico di Silvio Berlusconi. Nel 2006, all'uscita del film Il caimano di Nanni Moretti, la RAI (che essendo televisione di stato utilizza denaro pubblico) acquisisce il film per un milione e mezzo di euro per 5 passaggi del film sulle reti RAI in altrettanti anni. Il film, che ricalca in molti punti e situazioni la figura di Silvio Berlusconi e soprattutto le questioni riguardanti i media e le sue controversie con la giustizia italiana, non è stato tuttora mai trasmesso. La questione risulta particolarmente calda durante gli scandali che coinvolgono il presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel 2010 e 2011, facendo risultare il film di Nanni Moretti particolarmente profetico e accendendo a tal riguardo l'opinione pubblica. La Mediaset, il gruppo televisivo di Silvio Berlusconi, ha affermato che esso utilizza gli stessi criteri della televisione pubblica (RAI) nell'assegnazione di un'appropriata visibilità ai più importanti partiti movimenti politici (la cosiddetta par condicio) – tale affermazione è stata più volte confutata. Nel mese di ottobre del 2009, il segretario generale di Reporter Senza Frontiere Jean-François Julliard dichiarò che Berlusconi è sul limite per essere aggiunto sulla nostra lista dei Predatori della Libertà di Stampa, rendendolo così il primo leader europeo della lista. Aggiunse anche che l'Italia sarebbe probabilmente posizionata all'ultimo posto nell'Unione Europea per quanto riguardava l'imminente edizione della lista annuale dei paesi in base alla libertà di stampa. Attualmente la filtrazione internet in Italia viene applicata a circa 5500 siti sulla base di richieste dell'autorità giudiziaria, della polizia postale e delle comunicazioni (tramite il Centro nazionale per il contrasto alla pedo-pornografia su Internet), dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Nell'elenco sono compresi anche siti web che contengono pedopornografia e ad alcuni siti P2P. Dal febbraio del 2009 il sito internet The Pirate Bay e il loro indirizzo IP è stato reso inaccessibile dall'Italia, bloccato direttamente dai Provider e seguendo un verdetto definito dalla Corte di Bergamo, poi confermato dalla Corte Suprema definendo quest'azione utile per la prevenzione dell'infrangimento del copyright. Un filtraggio pervasivo viene applicato ai siti di gioco d'azzardo che non hanno una licenza locale per operare in Italia. Vari strumenti legali vengono però anche utilizzati per monitorare e censurare l'accesso ai contenuti internet. Alcuni esempi sono dati dalle applicazioni della legge Romani, in seguito ai numerosi casi di gruppi Facebook creati contro il primo ministro Silvio Berlusconi. Una legge anti-terrorismo venne promulgata nel 2005 dopo gli attacchi terroristici a Madrid e a Londra, con essa il ministro degli interni Giuseppe Pisanu restrinse l'apertura di nuovi Hotspot (WLAN), sottoponendo così le entità interessate ad una richiesta di permesso da aprire presso la Polizia di Stato di competenza e gli utenti di Internet ad identificazione, presentando un documento d'identità. Ciò inibì l'apertura di hotspots in tutta l'Italia, con un numero di hotspots inferiore di 5 volte rispetto alla Francia e con la sostanziale assenza di network wireless municipali. Nel 2009 solo il 32% degli utenti Internet italiani ha un accesso Wi-Fi. L'Italia ha inoltre posto una restrizione ai bookmaker stranieri su internet, dando mandato ad alcuni ISP di deviare il traffico di alcuni host DNS.

C'era una volta... la censura Rai, scrive Alesandra Comazzi su “La Stampa”. Avevo scritto per La Stampa un pezzo sulla puntata di "Da da da" dedicata alla censura Rai. Poi, sapete come capita nei giornali, il pezzo è saltato, scacciato dalla morte di Amy Winehouse. Allora eccolo qui sul blog, ci sono cose divertenti. E' «Da da da» una trasmissione a basso costo ma ad alto contenuto, concentrato in una mezzora, su Raiuno dopo il Tg. «Da da da» come la vecchia canzone del 1982, gruppo tedesco Trio. Ideatore è Michele Bovi, capostruttura intrattenimento, la firma è di Elisabetta Barduagni, ricercatrice e regista Rai. Ogni puntata, un argomento diverso, qualche sera fa toccava alla censura televisiva Anni '60-'70. Dunque censura Rai, operando a quei tempi la Rai in regime di monopolio. Intorno al tema, si costruisce una narrazione fatta di spezzoni d'epoca, ritagli definiti «tivucinemusicali». Attraverso questi ritagli si racconta la storia del Paese, dove non si stava meglio quando si stava peggio: ma certo, si stava diversamente. Tra i censurati d'epoca, antesignani di Morgan, di Daniele Luttazzi, di Sabina Guzzanti, rivedremo Clem Sacco, Herbert Pagani, i Nomadi, Giorgio Gaber, tutti bloccati a causa di quelle che evidentemente non erano solo canzonette. «Clem Sacco - racconta Michele Bovi - si può considerare il nonno di Elio e le Storie Tese, il suo cavallo di battaglia si intitolava "Baciami la vena varicosa". Figuriamoci se una cosa così poteva passare, in quegli anni». E le altre canzoni proibite? «Solo alcuni esempi: Herbert Pagani non potè cantare "L'albergo a ore", I Nomadi "Dio è morto" e Gaber "Addio Lugano bella", c'erano problemi con la Svizzera». Insomma, in quegli anni di tv educativa, la censura era pesante, sul piano politico, ma anche su quello del «buon costume». Gli zelanti funzionari Rai avevano prepararo un elenco di parole impronunciabili: non si poteva dire «membro» di un partito; restò memorabile il grottesco giro di parole sul quale si dovette inerpicare Ugo Zatterin, che conduceva il telegiornale, per dire che era stata approvata la legge Merlin, e che si chiudevano le case di tolleranza. Ma dagli stessi problemi censori nascevano scene sarcastiche e provocatorie, come quelle di Tognazzi e Vianello in «Un, due, tre». Il loro programma fu sospeso quando si permisero di prendere in giro il presidente della Repubblica Gronchi. Le ballerine dovevano fare il loro mestiere con i mutandoni; le gemelle Kessler, che per prime misero in mostra le gambe, ebbero a ricoprirle con una pesante calzamaglia nera. Ancora adesso ricordano: «Non si doveva vedere la pelle. E quando facevamo la prova generale, c'era sempre un funzionario del Vaticano che vigilava. Se qualche scollatura era troppo profonda, qualche parola troppo spinta, lui segnalava, e gli autori cambiavano». Un funzionario del Vaticano, addirittura: siete sicure? «Siamo sicure». L'americana Abbe Lane, moglie del cubano Xavier Cugat, che dirigeva l'orchestra con il cagnolino in braccio, fu costretta a cucirsi una rosa sul generoso petto, tanto per coprirlo un po': e a ballare praticamente da ferma. D'altronde, e «Da da da» si è aperta proprio con Fanfani, il governo aveva appena approvato la legge sul buon costume, «La dolce vita» era oggetto di attacchi furibondi («come osa Fellini dissacrare la città del Papa?»), in un ristorante Scalfaro aveva schiaffeggiato una signora che si era tolto il giubbino. E poi, in questa tv bacchettona ma nello stesso tempo fervida, ci fu la cacciata di Dario Fo, avvenuta durante la «Canzonissima» 1962. Ettore Bernabei era diventato direttore generale Rai nel 1961, con l'appoggio di Fanfani. Manterrà la carica fino al 1974. Raccontò così il caso Fo: «La mia non fu censura. C'era lo sciopero nazionale degli edili, una manifestazione in piazza SS. Apostoli degenerò in scontri violentissimi con la polizia, che aveva ordini di non infierire, trenta poliziotti finirono all'ospedale. Dario Fo volle cambiare lo sketch previsto con la solita figura del costruttore col panciotto, il palazzinaro romano che, quando gli portano la notizia di un suo operaio che cade da un'impalcatura e muore, se ne infischia e regala un gioiello all'amante. Io bloccai tutto, sì: troppa tensione in piazza». Aggiunge Bovi: «Un uso del repertorio dinamico, non parassitario, ci aiuta a raccontare, ben più della politica, quanto sia cambiato il comune senso del pudore». 

Anche la Rai "censura" Tortora. Se questo è servizio pubblico...Dopo l'esclusione del docufilm dal Festival del cinema di Roma un'altra bocciatura. Il Pd attacca viale Mazzini: "Occasione persa", scrive Emanuela Fontana su “Il Giornale”. Il film escluso, condiviso, e ora «scippato». Enzo Tortora, una ferita italiana di Ambrogio Crespi è stato proiettato in anteprima nazionale ieri alla Camera dei deputati, ed è questa condivisione, tra parlamentari di partiti diversi, il riscatto per una pellicola esclusa dal Festival del cinema di Roma, ma ancora di più per Tortora e per la «malagiustizia», per dirla con le parole del regista. La polemica, partita proprio dal «no» alla proiezione all'auditorium dei red carpet, è sempre alta. E questa volta investe in pieno i concorrenti Rai e Mediaset. Stralci del film sono stati mostrati a Matrix ieri su Canale 5, e la produzione ha ufficializzato che la prima proiezione integrale è stata ottenuta proprio da Mediaset, a discapito della Rai. Rai che era la casa di Tortora e del suo Portobello. Il Pd ha fatto partire un bombardamento contro i piani alti di viale Mazzini: «Un'occasione persa per la Rai. L'azienda si è fatta scippare da Mediaset il docufilm». A firmare la dichiarazione i deputati Michele Anzaldi e Gero Grassi, con il senatore Federico Fornaro. Alla Rai non sarebbero mancati gli spazi per inserire il docufilm, insistono i parlamentari, «ma appare evidente che l'azienda ha deciso di regalare il ruolo di servizio pubblico a Mediaset, perdendo una nuova occasione per fare della buona informazione». Non si conosce ancora la data della messa in onda del film, ma regista e produzione hanno precisato che l'interesse non è il lucro: «Questo film dovrà essere di tutti, proiettato nelle scuole», la precisazione ieri di Crespi. E a eccezione delle «piccole spese» di produzione, gran parte degli introiti sarà destinato alla fondazione presieduta dalla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti. Un grazie per la proiezione in Parlamento «va ai radicali - chiarisce il regista - poco fa mi ha chiamato Pannella in lacrime, dopo aver visto il film. Se ripenso a quanto ha lottato in quegli anni, per me è il miglior premio che potessi ricevere». È normale che ieri ci sia stata qualche garbata reazione al rifiuto della proiezione al festival romano. Tra le motivazioni della direzione: il film è troppo televisivo e «dura solo cinquanta minuti, forse non hanno controllato l'orologio», dice Francesca Scopelliti. In una conferenza stampa che ha preceduto la proiezione, l'ex compagna del conduttore ha poi invitato le forze politiche a pensare a una «legge Tortora»: sono ancora troppi i detenuti nelle carceri in attesa di giudizio, è necessaria una riflessione più approfondita «sulla modifica del codice penale». A 30 anni dall'arresto, 25 dalla morte, questa storia rimane sempre una «ferita» della giustizia. Una storia ora contesa dalla televisione, senza pace ma che parla «anche per coloro che non possono parlare», come ricorda Scopelliti citando una frase di Tortora. Un film che «non è né berlusconiano né antiberlusconiano», chiarisce Crespi. Non è «contro i magistrati», ma contro «la malagiustizia. Muller (il direttore artistico del Festival, ndr) è stato forse un po' miope nell'anima».

Censura Rai, una storia antica, scrive Franca Rame su “Il Fatto Quotidiano”. Ci sono nella vita di ogni uomo o donna, o in entrambi, uno o due momenti chiave con picchi a salire e a scendere. Dario e io ne abbiamo vissuti più di uno e tutti di straordinario valore, anche perché non si muovevano solo nell’ambito del nostro particolare interesse, ma coinvolgevano molta altra gente. Quando esplose per esempio lo scandalo Canzonissima, non si trattò solo di un contenzioso fra la televisione e noi, cioè due attori e autori di un programma di sketch e di canzoni che si ribellavano ad un Ente statale a proposito di un contratto, ma tirava in ballo la vita e i diritti degli operai, quella della libertà di informazione oltre che di esprimersi riguardo alla politica: cioè tirava in ballo addirittura la Costituzione.  Inoltre, per la prima volta attraverso un programma di puro intrattenimento popolare, si denunciava l’esistenza di due grandi conflitti, nei quali c’erano morti e feriti ogni giorno. Si trattava delle morti sul lavoro e della guerra di mafia. Di questi atti incivili e spesso criminali non se ne parlava mai in televisione e molto raramente sui quotidiani. Anzi, in televisione nessuno aveva mai trattato di questa realtà. Tutto era mascherato e seppellito. Il fatto poi che il vaso delle nefandezze fosse rovesciato nel programma più seguito non solo in televisione, ma anche attraverso la totalità dei mezzi d’informazione, fu il detonatore massimo della bomba e del relativo scandalo. Il caso volle che, nello stesso momento in cui andava in onda la scena che trattava delle morti bianche, tutti gli operai d’Italia, in primo luogo i muratori, avessero indetto uno sciopero di alcuni giorni per protestare contro la mancanza di protezione sul lavoro, cioè la causa prima dei continui incidenti che causavano ormai una vera e propria strage in tutti settori. Proibire che quell’atto unico satirico e di forte denuncia fosse trasmesso, era come buttare benzina sul fuoco. Bernabei, direttore politico e organizzativo dei programmi Rai, scelse per il fuoco, sperando nei pompieri, quelli politici, soprattutto. Ma la cosa non funzionò e la protesta divampò coinvolgendo anche quei movimenti sindacali che normalmente accettano compromessi come certi pesci s’ingoiano l’esca con l’amo. Sempre in Canzonissima, mi pare la puntata appresso, ecco che va in scena un dialogo fra una “mugliera” sicula e un giornalista inviato dal continente. La donna è intenta ad avvolgere un lungo filo. Forse allude a una delle tre Parche, allegoria della vita e della morte. Ogni tanto si odono degli spari e qualche botto. Il giornalista chiede di che si tratti, e la donna risponde che forse, quello sparo, proviene dal fucile di qualche cacciatore solitario, ma poi si corregge: può darsi che sia anche quello che uccide un infame che si piglia la sentenza. Altro sparo, ed ecco che viene indicato un sindacalista che creava guai; un botto, ed è il salto in aria della casa di qualcuno che non ha pagato il pizzo e così via, fra spari e mitragliate si arriva al punto in cui il giornalista chiede: “Come mai all’istante hanno cessato di far botti?” e la donna risponde: “Sempre prima dell’ultimo sparo c’è un attimo di silenzio”. “E a chi andrà l’ultimo botto?” Chiede il cronista. E la donna risponde: “A chillu cchi fa troppe domande, cioè a te”. Sparo, il cronista cade riverso. Il peso e la forza di quella satira sfuggì ai censori. Era ritenuta troppo enigmatica per preoccuparsene, ma tutti gli spettatori, soprattutto a cominciare da quelli siciliani, capirono immediatamente che si trattava di discorsi sulla mafia e sui crimini che nell’isola si susseguivano a ripetizione (giudici, poliziotti e 70 sindacalisti uccisi in pochi anni). Si scandalizzarono i politici, a cominciare dai ministri del governo. Perfino i liberali con il loro segretario in capo, Malagodi, presero una posizione durissima, insultandoci e ricordandoci che già altri comici avevano sbattuto tempo addietro la faccia sulle tavole del palcoscenico, per aver esagerato nell’ironizzare sul potere; ma chi erano questi comici colpiti con tanta ferocia? Ed ecco che il segretario dei liberali fa il nome di un certo Mattia Perollo, comico di Trieste che si prese una fucilata da un fanatico fascista durante una rappresentazione. Il cardinale arcivescovo di Palermo fece pure un’omelia contro quello sconcio in grottesco; urlò: “La mafia non esiste, o ad ogni modo non si tratta di un’organizzazione criminale che voglia sostituirsi allo Stato, ma di normale delinquenza locale”. Ricevemmo lettere minatorie in gran numero, scritte addirittura col sangue e biglietti sui quali era disegnata una lupara. Le minacce arrivarono anche su nostro figlio Jacopo, che aveva sei anni, al punto che per tutto l’anno scolastico dovemmo vederlo andare a scuola protetto da due poliziotti. Il direttore in capo della Rai, all’unisono con il dottor Bernabei, quando ci rifiutammo, in seguito alle loro censure, di salire sul palcoscenico per recitare il nulla (giacchè ogni sketch di satira ci era stato cancellato) ci avvertì: “Voi rischiate molto, più di quanto non crediate. A parte una denuncia per turbativa dell’ordine pubblico, per la quale rischiate l’arresto immediato, sappiate che per anni e anni non vi capiterà più di poter calcare le scene della televisione…” e fu proprio così. Fummo letteralmente cancellati dallo schermo televisivo per la bellezza di sedici anni, il che significa, nel mondo dello spettacolo, essere messi al bando per una vita. Ci restava solo il teatro, ma le varie piazze gestite da comuni dalla Dc come Bergamo, Vicenza, Padova, Rovigo, eccetera erano per noi assolutamente proibite. Ma il nostro gesto aveva mosso una notevole solidarietà da parte dei nostri colleghi, che avevano capito che bisognava rispondere non a branco, contro la prepotenza dei gestori culturali di Stato, ma era giocoforza organizzarsi con la creazione di un autentico sindacato degli attori e dei tecnici. La sorpresa più straordinaria l’avemmo dal pubblico che, come rimontammo sulla scena con un nuovo spettacolo – si trattava di “/Isabella, tre caravelle e un cacciaballe/” – rispose al nostro apparire con uno slancio ed entusiasmo sconvolgenti. L’Odeon, teatro nel quale avevamo debuttato, era stato letteralmente preso d’assalto. Il botteghino dovette aprire le prenotazioni addirittura con dieci giorni di anticipo. La gente ci fermava per strada e ognuno ci dimostrava affetto e stima. Per di più la notizia della nostra vicenda era giunta anche all’estero, per cui ricevemmo visite da cronisti da tutta Europa, nonché inviti da alcuni teatri di Francia e d’Inghilterra perché debuttassimo da loro. Naturalmente la Rai ci fece causa, ma prevedendo il gesto, riuscimmo a superare in velocità l’ente pubblico e sporgemmo denuncia contro di loro con grande anticipo. Eravamo nei primi anni ’60, e quello era il tempo in cui esplodeva il grande miracolo economico dell’Italia… dappertutto crescevano case e palazzi come funghi, la produzione industriale era in forte rimonta e il grande successo della nostra economia aveva sorpreso tutti gli altri paesi dell’Europa; anche la coscienza civile e politica delle classi subalterne si trovava in forte crescita e ognuno era partecipe del fermento culturale che stava montando in tutti i settori, dal cinema alla letteratura al teatro. Uno degli argomenti di cui maggiormente si discuteva riguardava il ruolo dell’intellettuale nella società. Naturalmente c’era chi parlava di impegno politico, e in particolare se gli uomini di pensiero ed arte dovessero schierarsi per una causa o dovessero rimanere al di fuori d’ogni coinvolgimento, completamente autonomi e indipendenti da ogni gioco di potere. Fra l’altro c’era chi riprendeva l’antico tema dell’arte per l’arte alla ricerca della pura bellezza edonistica. Fu proprio per entrare a piedi giunti nel dibattito che scegliemmo il tema delle grandi scoperte, prima fra tutte quella che culminò con il viaggio di Colombo nelle Americhe. Ci siamo serviti come testo base del saggio del grande storico spagnolo Salvador De Madariaga e ci inserimmo come contrappunto dominante la repressione condotta dal Tribunale dell’Inquisizione in quell’epoca in tutta la penisola iberica. Lo spettacolo si apriva infatti con una processione d’auto da fè, dove si notava subito la presenza d’alcuni condannati per eresia, fra i quali in primo piano appariva un attore capocomico che veniva portato al patibolo poiché ritenuto colpevole d’aver messo in scena un testo satirico che prendeva spunto dalla spedizione di Cristoforo Colombo, con relativa strage di selvaggi rei di credere in divinità estranee alla fede cristiana. Oltretutto nel testo opera presunta di Fernando de Rojas si trattava della grande diaspora di ebrei che venivano spogliati dei propri beni allo scopo di rimpinguare le casse dissanguate dello Stato. Il condannato spera nel sopraggiungere seppur in extremis della grazia concessa dal re. Quasi a mo’ di beffa gli viene ingiunto di recitare insieme alla sua compagnia, che finora lo ha seguito in prossimità del patibolo, l’opera che gli ha causato la condanna, cioè la vita di Cristobal Colon, il tutto direttamente sul palco del supplizio. Pur di prender tempo l’attore accetta: il palco delle esecuzioni si trasformerà in palcoscenico e di volta in volta diventerà nave, con tanto d’alberi e vele, cattedrale e trono sul quale siederanno il re e la regina contornati dai giudici dell’Inquisizione. Con questo espediente è logico che tutta la vicenda riceverà una spinta paradossale straordinaria. Più che di personaggi, quindi, si tratterà di maschere: re, ammiragli e regine appariranno in tutta la loro vis comica deformante. Cristoforo Colombo verrà interpretato dall’attore condannato, quindi le vite dei due personaggi saranno costrette a una sintonia quasi metafisica. E così scopriremo se il grande navigatore è maggiormente interessato alla scienza o agli affari e le cariche di potere; se dimostra pietà per i selvaggi fatti schiavi o piuttosto ha interesse a trarne utile nella tratta; e soprattutto capiremo come mai alla fine dei suoi viaggi, che hanno procurato tanta ricchezza e prestigio alla corte spagnola, viene da questa condannato alle catene e posto in galera. Dicevamo che la turnè con quest’opera ci regalò un notevole successo, applausi ma anche contestazioni da parte di alcuni scalmanati reazionari, che male accettavano si svelassero alcune verità troppo aspre per alcuni palati. Fra l’altro, la commedia satirica era sostenuta da canti carichi di esplicita ironia; un coro, eseguito da otto uomini d’ordine esaltava l’odio razziale e l’intolleranza come aspetti del tutto positivi di una società. La prima strofa diceva: “Ogni tanto fa un certo piacere/ il poter bastonare qualcuno, il poter legalmente sfogare/ il livor di sentirsi nessuno/ su, urliamo, copriam di pernacchie/ Questa razza di bestie in ginocchio/ su pestiamoli senza pietà./ Oh che grande invenzione il nemico/ un nemico che sia disarmato/ ringraziam chi ce l’ha procurato/ umiliato e per giunta marchiato”. Ognuno può ben capire che si tratta di versi, ahimè, di una attualità sconcertante. È facile intuire che questo fosse uno dei momenti dello spettacolo che in qualcuno poteva maggiormente produrre forte indignazione e rabbia, tant’è che una sera, all’uscita del teatro Valle di Roma, fummo aggrediti da una squadra di fascisti che ci tirò addosso ogni lordura. Poi giacchè noi si era reagito, eccoli fuggire come di regola. In quegli anni, una compagnia di Barcellona – mi pare si chiamassero i Comedians – tentò di mettere in scena la satira su Colon. La Spagna era ancora sotto il regime di Franco. La compagnia riuscì anche ad eseguire la prova generale. Alla fine della prova gli attori furono tutti arrestati e portati in carcere, compreso il suggeritore. Chi guarda oggi la televisione italiana probabilmente non crederà che solo fino a una ventina di anni fa le donne vestivano in modo poco vistoso, le ballerine portavano il calzamaglia per non mettere in mostra le gambe nude e il linguaggio doveva essere controllatissimo: parole come amante, parto, vizio, verginità, talamo, alcova, amplesso erano assolutamente vietate. E vietatissime erano espressioni come "membro del parlamento" o "in seno alla commissione". Figuriamoci le parolacce!, Scrive Roberto Tartaglione. Negli ultimi anni le censure collegate al linguaggio, al comportamento, alla morale, al sesso e all'esibizione del nudo sono praticamente scomparse. Resta invece (e forse aumenta pericolosamente) la censura (e l'autocensura) collegata alla politica. Vediamo una rapida carrellata degli episodi censori più famosi dei cinquant'anni di televisione italiana. 

Nel 1954 il varietà "La piazzetta" viene sospeso: la ballerina Alba Arnova porta un calzamaglia così aderente che sembra nuda. Scandalo! Il primo caso di censura "storica" riguarda però la coppia di comici Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi: in una popolare trasmissione dal titolo Un, due, tre, i due prendono in giro il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, durante una serata di gala con il Presidente francese Charles de Gaulle, si era seduto male su una sedia e era caduto per terra. L'umorismo sullo scivolone presidenziale non piace al mondo politico di allora e il varietà viene sospeso. Siamo nel 1959.

Nel 1960 viene allontanato dalla televisione il presentatore Enzo Tortora: in una sua trasmissione l'imitatore Alighiero Noschese aveva scherzato su Amintore Fanfani, potente uomo della Democrazia Cristiana. Tortora rientrerà in televisione solo dieci anni dopo. Un clamoroso caso di censura riguarda Dario Fo (premio Nobel per il teatro nel 1997): insieme a Franca Rame, nel 1962, è conduttore e autore dei testi del varietà Canzonissima, probabilmente la più famosa trasmissione della televisione italiana di tutti gli Anni Sessanta. Le sue scenette sulla mafia e sulle fabbriche (in particolare quella che parla di incidenti sul lavoro) non piacciono ai vertici della RAI. I due sono costretti ad abbandonare la trasmissione. Dario Fo ritornerà in video soltanto nel 1977 con il suo famoso spettacolo Mistero Buffo: anche questa volta suscita scandalo e da allora le sue presenze sugli schermi della televisione sono stati pochissime. Ancora oggi, nonostante il Nobel vinto nel 1997, ha qualche difficoltà a portare in giro le sue opere nei teatri italiani.

Nel 1974 in Italia c'è il referendum sul divorzio. Durante lo sceneggiato televisivo David Copperfield viene censurato l'audio di una frase detta da un vecchio signore alla sua giovane moglie. La frase tagliata è: "Se vuoi ti concedo il divorzio, non mi oppongo!" Nel 1980 è Roberto Benigni (premio Oscar per il film La vita è bella del 1998) a incorrere nelle ire dei vertici Rai: durante un Festival di Sanremo dice scherzosamente e affettuosamente Woytilaccio, riferito a Papa Woytila, Giovanni Paolo II. L'espressione, tipicamente toscana e comunque non offensiva, viene però ritenuta assolutamente irrispettosa. 

Nel 1984, durante la trasmissione musicale Blitz, programma della Rai condotto da Stella Pende, a Leopoldo Mastelloni scappa una bestemmia. Condannato per "turpiloquio" viene cacciato dal video e il suo "esilio" dura ancora oggi.Beppe Grillo viene allontanato dalla televisione nel 1986. Durante un programma attacca duramente i socialisti (racconta che quando Craxi era andato in Cina accompagnato da decine di compagni di partito, Claudio Martelli, il suo vice, gli ha domandato: "Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?"). Tutto questo alcuni anni prima che lo scandalo di "Tangentopoli" mettesse fuori gioco l'intero partito socialista che poi sparirà dalla geografia politica italiana. Fatto è che l'attacco di Beppe Grillo provoca la sua espulsione dalla tv e, ancora oggi, il popolare comico si esibisce quasi esclusivamente nei teatri senza poter rientrare negli schermi televisivi.

Nello stesso 1986 uno sketch del trio comico Marchesini-Lopez-Solenghi provoca quasi un incidente diplomatico: i tre prendono in giro addirittura l'Ayatholla Khomeini. L'Iran-air chiude i voli per l'Italia e a Tehran ci sono seri problemi per l'Ambasciata e per l'Istituto Italiano di Cultura, uno dei pochissimi centri culturali stranieri ancora aperti nella capitale persiana. In breve l'incidente si chiude e i tre comici riprenderanno a lavorare per la televisione senza problemi. Il resto è storia contemporanea: le censure politiche negli ultimi due anni sono più numerose di tutte quelle degli anni precedenti.

Nel 2001 il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi dichiara pubblicamente che i giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, insieme con il comico Daniele Luttazzi "fanno una televisione criminale". Immediatamente tutti e tre vengono allontanati dalla tv e le loro trasmissioni sono sospese.

Il programma satirico Blob, nel 2002, prevede quattro trasmissioni speciali sul Presidente del Consiglio: vanno in onda le prime tre puntate e la quarta viene annullata. Nel 2003 - dopo la prima puntata - viene sospesa la trasmissione Raiot, di Sabina Guzzanti: la satira contro il Presidente del Consiglio e il governo di centro-destra è giudicata troppo forte. Nello stesso anno viene impedito al comico Paolo Rossi di presentare in televisione un brano teatrale tratto da un discorso di Pericle. Il pezzo, che è di 2500 anni fa, sembra attaccare troppo direttamente il Presidente del Consiglio italiano. Questo il pericolosissimo testo:"Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così" .

Niente nudi, sangue e fasci Così la censura spegneva i film. La religione, la politica, il sesso e la violenza: ecco tutte le scene vietate nel nostro Paese in cento anni di (assurdi) divieti cinematografici, scrive Cinzia Romani su "Il Giornale”. Finalmente conquistiamo un profilo internazionale con la divulgazione elettronica del nostro pregiato patrimonio cinematografico. Qualcosa che il mondo ci invidia e che giaceva sepolto dall'incuria e la burocrazia. Il film di Totò "Gli onorevoli" (1963) di Corbucci andò nei cinema dopo che le parole "culo" e "rincoglionito" furono sostituite con "popò" e "rimbambito". Arriva Cinecensura. 100 anni di revisione cinematografica italiana (dal 12 disponibile in Rete: cinecensura.com), mostra online della Cineteca Nazionale e del Ministero dei Beni e le attività culturali, progettata dagli studiosi di cinema Pier Luigi Raffaelli e Tatti Sanguineti, che dopo anni di trappismo d'archivio, con la Cineteca di Bologna, l'Archivio Luce, il Museo del cinema di Torino e l'Archivio centrale di Stato, hanno messo su piattaforma digitale, a disposizione di tutti, un'esposizione davvero notevole. Che ha il pregio di appassionare non soltanto i cinefili, ma anche chi voglia conoscere il secolo trascorso, dal punto di vista del costume e dei cambiamenti sociali. Così profondi, sotto la lente dell'intrattenimento pop, che ci s'intenerisce, di fronte alle richieste dei prefetti di provincia, o degli spettatori più bigotti, tra i pruriginosi Quaranta e Cinquanta, lesti a invocare revisioni e controlli di frasi, cosce, allusioni. E giù lettere, carte da bollo di Lire 200, processi e ricorsi, dove Visconti e Pasolini, De Sica e Bertolucci vagano per tribunali, alla mercè di qualche massaia, pronta a scandalizzarsi per un particolare, che oggi fa sorridere. Il materiale a disposizione è sterminato: 300 lungometraggi, 90 cinegiornali o pubblicità, 86 cortometraggi, 28 manifesti censurati, filmati di tagli di 75 film, 15 cinegiornali e videointerviste. Il tutto divido in sale virtuali “a tema”: sesso, politica religione, violenza. Sesso: se nel 1938 il Trio Lescano cantava Ma le gambe, nei Cinquanta repressi gli arti inferiori femminili destano prurigini. Dove sta Zazà (1947) di Giorgio C. Simonelli ottiene il nulla osta, a patto si eliminino alcune scene. Le donne cristiane del Centro italiano femminile di Palermo scrivono al ministero degli Interni, sentendosi insultate dalla pubblicità «ad ogni angolo di strada, raffigurante una ballerina quasi nuda». La dignità morale del popolo pare vilipesa anche ne La famiglia Passaguai (1951) di Aldo Fabrizi, con la procace Rita Dover: foto-busta sotto accusa. Un kafkiano Segretariato della Moralità di Foligno inoltra formale denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia, chiedendo l'immediato ritiro del materiale raffigurante «una persona in succintissimo e disgustoso atteggiamento,con una bottiglia in mano e in posizione quanto mai provocante in cabina da bagno». Oggi che si fa sesso per strada, chi pensa alle cabine? Ma è Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci il film-simbolo della guerra tra censura e libertà espressiva. Denunciato e condannato “al rogo” per la scena in cui «il protagonista, utilizzando del burro, possiede contro natura la ragazza». Vani i tagli per 9,80 metri di pellicola... Certi fatti hanno perso capacità offensiva, se pensiamo che in Terza liceo (1954) di Luciano Emmer, vietato ai minori di 16 anni, un prof. si stranisce, scoprendo nel libro di un'allieva «Anita nuda con i baffi»: per la versione tv, via la sequenza. Tacendo di Nino Manfredi, una condanna penale per essere apparso «in mutande, con i pantaloni in mano» nel film a episodi Le bambole (1965). Sequestri e denunce aprono la strada al cinema a luci rosse, nei '60 e '70 affollati di pellicole vietate ai minori. «Scopate e fellatio entrano così in modo surrettizio», spiega Sanguineti. Politica. C'è sempre qualcuno che si sente diffamato. Così sparisce Tragica alba a Dongo (1951) di Vittorio Crucillà, redattore di Omnibus, che mai avrà il nulla osta per il film. Frutto della collaborazione tra Comune di Dongo, partigiani e volontari della guerra di Liberazione, il film ritrae Mussolini e Claretta Petacci, visti di spalle, durante la loro fuga, cattura e fucilazione. Materia scottante, che per l'onorevole Andreotti «può ingenerare all'estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». La diffida della famiglia Mussolini, verso la casa produttrice, metterà una pietra tombale su quei 1040 metri di docufilm, che per Crucillà, «umile regista e soggettista», implorante udienza ad Andreotti, doveva «preparare la rinascita dell'Italia democratica». Ce n'è pure per Togliatti è ritornato (1948) di Lizzani, stoppato per le immagini d'una festa dell'Unità al Foro Italico: potevano «determinare perturbamento dell'ordine pubblico». Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti è bloccato perché un maresciallo «si esprime con espressioni dialettali e grottesche»...Religione. Nei Cinquanta, i preti spopolano al cinema. Anche perché sono 5.900 le sale parrocchiali, dove censura di Stato e revisione cattolica controllano l'orientamento delle masse. Così non si contano i processi intentati da associazioni cattoliche. A finire nel tritafilm, Viridiana (1961) di Buñuel; La dolce vita (1960) di Fellini e Ro.Go.Pa.G (1963), film a episodi, che suscitò accanimento giudiziario nei confronti dell'episodio La ricotta di Pasolini: «È sempre un rischio violare il mistero che circonda ogni uomo», scriveva la Pontificia Università Gregoriana al produttore, Alfredo Bini. Adesso, certi misteri non lo sono più.

Censura cinematografica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La censura cinematografica è il mezzo attraverso il quale una autorità attua il controllo preventivo di un'opera cinematografica, autorizzando o negando la sua proiezione in pubblico, o limitandone la visione ad un pubblico adulto. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l'ordine pubblico, ancora prima della nascita del cinematografo. Risale tuttavia al 1913 la prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio sulle proiezioni, allo scopo di impedire la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Questi, dopo il giudizio espresso da un revisore, rilasciava il nulla osta, eventualmente eliminando alcune parti della pellicola giudicate non idonee alla proiezione. Era prevista comunque la possibilità di un secondo grado di giudizio, al quale poteva essere sottoposta la pellicola se giudicata in primo grado non idonea. Nel 1920 un Regio Decreto istituì una vera e propria commissione, composta anche da soggetti esterni alle istituzioni: ne facevano parte, oltre a due funzionari di pubblica sicurezza, un magistrato, un educatore o un rappresentante di associazioni umanitarie, una madre di famiglia, un esperto di arte o di letteratura e un pubblicista. Con questo decreto si prevedeva anche che il copione del film venisse preventivamente sottoposto alla commissione prima dell'inizio delle riprese. Il regime fascista confermò le disposizioni precedenti, intuendo fin dall'inizio le potenzialità del cinema come mezzo di comunicazione e utilizzandolo spesso a fini di propaganda politica. Il controllo, prima accentrato presso il ministero dell'Interno, venne in seguito affidato al Ministero della Cultura popolare. Venne introdotta la possibilità di sottoporre a revisione ogni fase della realizzazione del film, quindi la possibilità anche di interrompere le riprese, se necessario, e venne istituito un nulla osta anche per le pellicole destinate alla proiezione all'estero, nulla osta che poteva essere negato se il film era ritenuto dannoso per il decoro e il prestigio della nazione o se poteva turbare i rapporti internazionali. Nel 1926 fu anche introdotta la tutela dei minori, con un decreto che consentiva il divieto della visione di alcuni film ai minori di 16 anni. Durante il ventennio, la censura venne "potenziata" sia in senso preventivo, sia per "istruire" le folle ai valori del regime, tanto che nel 1934 venne istituita una apposita Direzione generale per la cinematografia. Con l'avvento della repubblica, contrariamente a quanto si pensa, non vennero introdotte sostanziali modifiche, nonostante l'articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e di tutte le forme di espressione. Su pressioni soprattutto del mondo cattolico, venne anzi aggiunto il comma che sancisce il divieto degli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. Presso la Presidenza del Consiglio fu istituito un Ufficio centrale per la cinematografia, al quale confluivano i giudizi delle commissioni di primo e secondo grado, che in sostanza erano rimaste quelle del 1923, anche se leggermente variate nella loro composizione. Nel 1949 fu emanata una legge, presentata dall'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti "eccessi" del neorealismo. A seguito di questa norma, prima di poter ricevere finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale. Inoltre se si riteneva che un film diffamava l'Italia poteva essere negata la licenza di esportazione, insomma era nata una sorta di censura preventiva. Nel 1962 venne approvata una nuova legge sulla Revisione dei film e dei lavori teatrali, tuttora in vigore: pur apportando alcuni cambiamenti, essa confermava il mantenimento di un sistema preventivo di censura e assoggettava al rilascio del nulla osta la proiezione pubblica dei film e la loro esportazione all'estero. In base a tale legge, il parere sul film viene dato da un'apposita Commissione di primo grado (e da una di secondo grado per i ricorsi), mentre il nulla osta è rilasciato dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Le Commissioni di censura, definite dalla legge "Commissioni per la revisione cinematografica", sono otto e fanno capo al Dipartimento dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ogni commissione è composta da un presidente (di solito un magistrato o un docente di diritto), due esponenti della categoria (produttori e distributori), due genitori in rappresentanza delle associazioni per i diritti dei minori, due esperti di cultura cinematografica, uno psicologo. Ad essi si affianca un esponente delle associazioni animaliste se nel film compaiono anche animali. Ad ognuna di queste otto commissioni sono assegnati dei film da visionare. Le commissioni possono approvare la diffusione del film per tutti o imporre un divieto ai minori. La casa distributrice dell’opera ha a disposizione 20 giorni per presentare appello, o per effettuare tagli e modifiche, di solito suggerite dalla commissione stessa, per rendere la pellicola adatta ad un pubblico di minori. Una volta accolto l’appello, la commissione visiona nuovamente il film e decide se confermare il divieto, abbassarlo dai 18 ai 14 anni oppure revocarlo definitivamente una volta accertata l’eliminazione delle scene suggerite. In caso di ulteriore rifiuto, è possibile il ricorso al TAR. L'autore o il produttore del film può chiedere eventualmente di essere ascoltato dalla commissione, per "difendere" le ragioni del film e per evitare il rifiuto del nulla osta o il divieto della visione del film ai minori. Il rilascio del nulla osta condizionato dal divieto ai minori di anni 14 o 18 si ripercuote anche sullo sfruttamento televisivo del film. Infatti i film ai quali viene negato il nulla osta e quelli vietati ai minori degli anni 18 non possono essere trasmessi in televisione, mentre i film vietati ai minori degli anni 14 possono essere trasmessi solo in determinate fasce orarie, regolate dalla successiva Legge 203 del 1995, per cui la trasmissione di film che contengano immagini di sesso o di violenza tali da poter incidere negativamente sulla sensibilità dei minori, è ammessa (...) solo fra le 23 e le 7. Talvolta i distributori e i produttori anticipano le probabili richieste delle Commissioni, presentando alla revisione pellicole già ridotte nelle parti che condurrebbero ad un divieto per i minori. Oggi, vista la soppressione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, le sue funzioni sono state delegate, dal 1998, al nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sempre nel 1998 veniva abrogato l'art. 11, rimuovendo quindi la censura dalle opere teatrali. A luglio 2007 il disegno di legge Modifiche alla legge 21 aprile 1962, n.161, in tema di revisione cinematografica, è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Esso cancella la censura preventiva nei film, ma introduce nuovi paletti per la visione di film e cartoni: i produttori di programmi, film, cartoni dovranno autocertificare se il loro prodotto è per tutti, o deve essere vietato ai minori di 18, 14 o 10 anni (quest'ultimo divieto introdotto appositamente con questa legge), oppure affidarsi ad un'apposita Commissione di classificazione dei film per la tutela dei minori istituita presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che esprimerà un parere sulla classificazione. Nel caso la classificazione autocertificata non sia poi considerata consona, sono previste sanzioni amministrative fino a 100.000 euro e l'arresto fino a sei mesi. Oltre alla censura totale, dagli anni trenta fino agli anni novanta in Italia è stata in voga un'altra forma di censura, quella dei tagli mirati. In pratica si usava tagliare le parti di pellicola che non si voleva venissero mostrate, permettendo tuttavia di mandare in visione il film così mutilato.

La censura ed il cinema. Una torbida storia di censura, autori seviziati e pellicole passate al tritacarne. Leggi censorie. Si intende di seguito presentare una breve carrellata delle normative che hanno interessato l’industria cinematografica dal 1913 al dopoguerra, per arrivare poi alla normativa vigente ( Legge 161 del 21 aprile 1962).

20 febbraio 1913 Il presidente del Consiglio Giolitti dirama ai prefetti una circolare che colpisce “le rappresentazioni dei famosi atti di sangue, di adulteri, di rapine, di altri delitti” e i film che “rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al sensualismo (…), ed altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio tra le classi sociali ovvero di offesa al decoro nazionale”.

Legge 25 giugno 1913, n. 785 Il primo provvedimento legislativo registrato in materia di censura autorizza “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’estero”.

Il regolamento esecutivo della legge (Regio decreto 31 maggio 1914, n. 532) è di grande importanza, perché introduce quella casistica di argomenti suscettibili di rientrare nell’ambito della censura che verrà ripresa fedelmente, adattata e ampliata, non solo nel periodo fascista ma anche in età repubblicana.

Obiettivo della legge è vietare al pubblico la visione di: “spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all’ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; delitti o suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male”. La legge accenna anche alla questione della lingua straniera: “I titoli, i sottotitoli e le scritture (…) debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere espressi anche in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana”. La censura sui film è esercitata dal ministro dell’Interno, cui spetta concedere o negare il nulla osta “in conformità al giudizio del revisore” (ed eventualmente imporre una nuova revisione a film già muniti di nulla osta). Sono previsti due gradi di giudizio per la revisione delle pellicole: in primo grado il revisore è un funzionario della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza o un commissario di polizia, in secondo grado una commissione composta dal vice-direttore generale e da due capi divisione della Direzione Generale della P.S.

Il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953 introduce il controllo preventivo sul “copione o scenario”: perché una pellicola possa accedere al procedimento di revisione, prima dell’inizio delle riprese il soggetto deve essere “in massima riconosciuto rappresentabile” dalla censura. Nella pratica, tuttavia, il copione viene sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito: il controllo preventivo sarà applicato con rigore solo a partire dal 1935.

R.d. 22 aprile 1920, n. 531 (a firma del ministro dell’Interno F. S. Nitti). Anche la revisione di primo grado è affidata a una commissione, che non ha più una natura solo repressiva ma si allarga ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della Pubblica Sicurezza, “un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista”. Alla casistica censoria si aggiungono l’offesa al “pudore”, l’offesa al “Regio esercito e alla Regia armata”, “l’apologia di un fatto che la legge prevede come reato” e “le operazioni chirurgiche e i fenomeni ipnotici e medianici”.

R.d. 24 settembre 1923, n. 3287. La composizione delle commissioni di revisione viene trasformata in senso rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduce a “singoli funzionari di prima categoria dell’Amministrazione dell’Interno appartenenti alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza”, ma viene ripristinata un anno dopo (R.d. 18 settembre 1924, n. 1682) e conta tre membri: un funzionario di polizia, un magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che rimane di sette membri, l’educatore è sostituito con un professore e la “persona competente in materia artistica e letteraria” è prima eliminata e poi reintegrata. L’elenco delle scene da proibire riprende fedelmente quello del 1920 (a sua volta ricalcato su quello del 1914), con l’aggiunta di una sola frase sulle “scene, fatti e soggetti” che “incitino all’odio fra le varie classi sociali”, tuttavia già presente nella circolare del 1913. È stabilita un’apposita revisione per le pellicole destinate all’esportazione: sono da vietare quelle che possano, tra l’altro, “ingenerare, all’estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese”.

Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848 introduce una prima forma specifica di tutela dei minori: è consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella l. 10 dicembre 1925n. 2277, art. 22: “La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi possano assistere i fanciulli e adolescenti dell’uno e dell’altro sesso”, che verrà applicata con un divieto ai minori di anni 15.

L. 16 giugno 1927, n. 1121 Tra i parametri di valutazione di un’opera in sede di censura rientra anche la qualità artistica: un film può essere vietato quando non presenti “sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica”.

R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931 Aumenta progressivamente la politicizzazione delle commissioni di revisione. Sia in quelle di primo che di secondo grado, entrano rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri dell’Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra (gli ultimi due competenti solo per copioni e pellicole di carattere “militare o coloniale”). La presenza di rappresentanti dell’Istituto Nazionale LUCE e dell’Ente nazionale per la cinematografia, introdotta nel 1929, dura solo due anni: la legge più restrittiva del ’31 riduce di nuovo il numero dei censori abolendo anche le persone “competenti in materia artistica, letteraria e tecnica cinematografica” nominate dal Ministero dell’Educazione.

Il R.d. 28 settembre 1934, n. 1506 trasferisce la responsabilità amministrativa della censura, non solo cinematografica, dal Ministero dell’Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (trasformato un anno dopo in Ministero, rinominato nel 1937 Ministero della Cultura Popolare). Come sezione del Sottosegretariato nasce anche la Direzione generale della cinematografia, che riunisce le competenze sul cinema prima suddivise fra i vari ministeri ed è affidata a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore del rafforzamento del ruolo della censura, che d’ora in poi non si limiterà a compiti di mero controllo ma sarà anche attiva, “ispiratrice”, propositiva. Tra le competenze della Direzione generale c’è infatti quella di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale: comincia l’applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919.

La l. 10 gennaio 1935, n. 65, conversione del decreto precedente,uniforma la composizione delle commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre in rappresentanza dei ministeri dell’Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), designato dal segretario del partito. Il processo di assoggettamento al potere politico è completo: gli ultimi ad essere esclusi sono il magistrato e la madre di famiglia. La presidenza spetta per legge a un funzionario del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda nelle commissioni di primo grado, direttamente al Sottosegretario o per delega al Direttore generale della cinematografia in quelle di appello.

L. 29 maggio 1939, n. 926 A seguito della conquista dell’Etiopia, si aggiunge in entrambe le commissioni di controllo un rappresentante del Ministero dell’Africa Italiana, per stabilire “quali delle pellicole, sia nazionali che estere, possono essere destinate alla proiezione nell’Africa Italiana”.

Il R.d. 30 novembre 1939 ufficializza la censura preventiva: “Chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all’esportazione, dovrà ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono esenti dal nulla osta (…) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall’Istituto Nazionale LUCE”.

L. 16 maggio 1947, n. 379 L’Assemblea costituente affida il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si elimina l’obbligo della revisione dei copioni, ma per il resto sono confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923, compresa la casistica delle scene da proibire.

L’art. 21, comma VI, della Costituzione recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

La l. 29 dicembre 1949, n. 958 non apporta nessuna innovazione in materia. La necessità di un aggiornamento della disciplina si realizzerà solo con la legge 161/1962, che in ogni caso, nonostante le novità, manterrà il sistema della censura preventiva.

(fonti: italiataglia.it  e P. Caretti, Diritto pubblico dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 1994).

Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

Enrico Berlinguer, l'ultimo leader. Enrico Berlinguer nacque a Sassari il 25 maggio del 1922 figlio di Mario Berlinguer, un avvocato repubblicano, antifascista e vicino alla massoneria, come molti intellettuali laici dell'epoca, discendente da una nobile famiglia catalana stabilitasi in Sardegna all'epoca della dominazione aragonese, e di Maria Loriga. La famiglia portava i titoli nobiliari di Cavaliere, Nobile, con trattamento di Don e di Donna per concessione il 29 marzo 1777 a Giovanni e Angelo Ignazio da Vittorio Amedeo III Re di Sardegna. Nel dopoguerra, Mario Berlinguer fu parlamentare socialista. Enrico crebbe quindi in un ambiente culturalmente assai evoluto (il nonno, suo omonimo, era stato il fondatore del giornale La Nuova Sardegna, e aveva avuto contatti con Garibaldi e Mazzini) ed ebbe occasione di profittare di relazioni familiari e politiche che influenzarono notevolmente la sua ideologia e la carriera politica successiva. Era parente di Francesco Cossiga (le rispettive madri erano cugine tra loro) – che fu presidente della Repubblica – ed entrambi erano parenti di Antonio Segni, anch'egli Capo di Stato. Condotti gli studi liceali classici presso il Liceo Azuni di Sassari, nel 1943 Berlinguer si iscrisse al Partito Comunista Italiano e ne organizzò la sezione sassarese, svolgendo un'intensa attività di propaganda. Nel gennaio del 1944 la fame spinse la popolazione a saccheggiare i forni della città e Berlinguer fu accusato di esserne stato uno degli istigatori. Fu quindi arrestato e trattenuto in carcere per tre mesi, dopo i quali fu prosciolto dalle accuse e liberato.

Berlinguerismo: un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, scrive Ishmael su “Italia Oggi”. 2014. Sono passati trent'anni dalla morte d'Enrico Berlinguer, quasi altrettanti dalla caduta del Muro di Berlino, ma l'ideologia berlingueriana, un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, continua a pesare sulla sinistra italiana come un incubo: la «diversità», la «questione morale», il «nuovo modello di sviluppo» e soprattutto l'incapacità «di pensare la democrazia nella sua realtà politica, affrancandosi dal mito comunista e togliattiano della democrazia progressiva», come scrive Claudia Mancina — ex comunista, deputata diesse negli anni novanta — nel suo nuovo libro, Berlinguer in questione (Laterza 2014, pp. 136, 12,00 euro, ebook 7,99 euro). Come tutti i leader del comunismo italiano, anche Berlinguer, l'ultimo dei grandi segretari generali, partecipava di due nature: la fedeltà al «campo socialista» e l'istinto politico di conservazione, che gli faceva preferire l'ovest all'est, la Nato all'Armata rossa, la democrazia parlamentare alla democrazia popolare. Ma «agli occhi dei comunisti», scrive sempre Mancina, «la democrazia vera non è quella formale ma quella sostanziale», una democrazia «che consiste nella mobilitazione delle masse, nel potere dei lavoratori nel luogo di lavoro, dei sindacati sulla politica economica, o perfino degli studenti nell'università o dei genitori nella scuola». Berlinguer, ai suoi tempi, stabilì con accenti pasoliniani che «l'Italia non avrebbe seguito le banali strade delle democrazie occidentali, nelle quali c'è alternanza di governo e a volte vince la destra, altre la sinistra. Troppo poco per questo paese così speciale, il paese del più grande partito comunista d'Occidente! A noi toccava invece superare il capitalismo e portare a maturazione piena la democrazia, cioè realizzare la mitica democrazia sostanziale». Caduto il Muro di Berlino, passata Tangentopoli, con Berlusconi sugli altari, «i postcomunisti non hanno fatto che oscillare tra ipotesi di riforma elettorale e costituzionale e difesa acritica della costituzione, fino alla favola della costituzione più bella del mondo». Quanto all'eredità berlingueriana, invece di restare patrimonio dei solo ex e post e vetero comunisti, è diventata patrimonio collettivo, come i mezzi di produzione socializzati della favola marxista. «Per la sua deriva moralistica», l'intervista sulla questione morale di Berlinguer «è oggi un testo sacro per gli antipolitici». È grazie a Berlinguer e al suo marxismo bacchettone che «ancora oggi si pensa che l'intransigenza sia una politica».

Le grandi firme di ieri e di oggi per raccontare il segretario del Pci. "L'Espresso" ha scelto di celebrarlo, a trent'anni dalla morte con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli a lui dedicati negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984, scrive Loredana Bartoletti su “L’Espresso”. Berlinguer come se fosse appena successo. A trent'anni dalla morte, l'ultimo grande leader del Partito comunista è tornato di attualità sulla ribalta politica. Evocato dai palchi dei comizi elettorali per solleticare consensi in suo nome, celebrato con film, documentari, libri e ricordi vari. Certo c'è un anniversario importante - trent'anni appunto da quell'11 giugno 1984 - ma c'è anche l'omaggio, il rispetto e quasi la nostalgia per un politico che appare diverso dal panorama cui ci siamo abituati, quasi un alieno nella sua severità di tratto e di comportamento e in più un contemporaneo per quelle parole d'ordine, come la questione morale, che a decenni di distanza non hanno ancora trovato una risposta. Il ricordo di un politico diventato icona può però tendere a idealizzare, a semplificare, a minimizzare le difficoltà e gli ostacoli che quel leader e il suo progetto hanno dovuto affrontare. Anche per questo "l'Espresso" ha scelto di celebrare Berlinguer con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli dedicati al capo di Botteghe Oscure proprio negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984. Nel volume si alternano così le grandi firme del nostro settimanale, quelle di oggi e quelle di ieri. I bilanci e i giudizi su Berlinguer che la distanza di tempo consente di tracciare con maggiore lucidità e le cronache dirette del suo agire politico, dove emergono i tormenti di Botteghe Oscure, i "processi" che il leader subì da parte dei suoi, il lungo scontro con Bettino Craxi, i colpi inferti dal terrorismo, il tormentato rapporto con l'Urss... Insomma la complessità dell'azione di un grande leader. Ma la lettura di quegli articoli di decenni fa consente anche di riflettere sul modo di fare informazione politica di allora. In parte diversa, più stretta al succedersi degli eventi che non ai retroscena, e in parte anticipatrice di modelli poi ampiamente copiati: curiosa, irriverente, capace di disegnare legami e collegamenti inediti. Molto "Espresso", se è consentito dirlo. Il libro "Berlinguer", che sarà dal 6 giugno nelle edicole, è aperto da un’introduzione del direttore dell’”Espresso”, Bruno Manfellotto che riflette sul "politico perbene", poi una intervista di Denise Pardo a Eugenio Scalfari, in cui il grande giornalista ripercorre la carriere politica di Berlinguer, commenta gli eventi di quegli anni ma racconta anche il rapporto personale che ebbe con il leader di Botteghe Oscure. Questione morale, compromesso storico ed eredità politica: Eugenio Scalfari parla del segretario del Pci. L'intervista di Denise Pardo. Poi Chiara Valentini ricostruisce gli anni giovanili di Berlinguer, dal primo arresto in Sardegna all’incontro con Togliatti fino alla scalata al vertice del partito. Quindi Paolo Franchi analizza la strategia del compromesso storico mentre Marco Damilano firma un intervento sull’eredità politica di Berlinguer. L’ampia sezione centrale del libro è poi dedicata agli articoli di ieri, con una carrellata di grandi pezzi e grandi firme tra cui Livio Zanetti, Nello Ajello, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Gianni Corbi, Paolo Mieli, Lucio Colletti, Ernesto Galli della Loggia, Giampaolo Pansa. A chiudere una sezione “pop”, con le copertine che il settimanale ha dedicata a Berlinguer e una trentina di straordinarie tavole di Pericoli e Pirella, tutte con il leader politico come protagonista, più un quiz divertito e divertente su Berlinguer, apparso nel 1972 sull’”Espresso colore”.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

La beatificazione di Berlinguer sempre fedele a Stalin, scrive Mario Cervi su “Il Giornale”. Un supplemento di 100 pagine dell'Unità, convegni e dibattiti, o fervidi elogi del mondo politico, gli applausi dei grillini: per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer il ricordo prende i connotati della venerazione se non della santificazione laica. Omaggi più che meritati se si riferiscono all'uomo. Che fu onesto, intelligente, riservato in un mondo di ciarlatani, gran lavoratore. Per dirlo in sintesi una persona per bene. Il culto per lui di chi ha nostalgia dal Partito (...) (...) comunista italiano e alimenta ancora speranze in fulgide sorti progressive della sinistra è non solo giustificato ma doveroso. Perché riguarda chi fu comunista nell'essenza e in tutte le implicazioni del termine. E lo restò sfidando i fatti e le e delusioni con la tenacia indomabile dei credenti. Gian Carlo Pajetta disse, con il sarcasmo d'obbligo, che «si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci». Lasciando con questo intendere che il ragazzo di buona famiglia borghese fosse stato agevolato nello scalare la Nomenklatura delle Botteghe Oscure. Un raccomandato. In effetti l'ascesa di Berlinguer ai vertici comunisti ebbe l'avallo di Palmiro Togliatti che ai compagni altolocati indirizzò un biglietto così concepito: «Questo è il compagno Berlinguer che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione». In verità, pur con l'iniziale e potente spinta di Ercoli, la successione di Togliatti e di Longo gli spettava di diritto: per le sue qualità e per la sua ortodossia ideologica. Alla valanga di articoli di questi giorni ne aggiungo uno mio. Con l'ambizione di non voler offendere una memoria, ma anche di non aggiungermi ai gloria imperversanti. Il primo incarico di gran rilievo del ragazzo sardo fu la guida della Federazione giovanile comunista italiana. Il che gli dava accesso ai sommi uffici, compreso quello del sommo tra i sommi, il Migliore. Al rispetto delle gerarchie ci teneva molto. Gli era stato assegnato un segretario particolare, Mario Pirani, (ora editorialista di Repubblica), e s'era accorto che Pirani sfogliava prima di lui la mazzetta dei quotidiani. «Dice con piglio da dirigente - cito dalla biografia di Chiara Valentini - che il primo a sfogliarli vuole essere lui». Non era incline all'ironia e nemmeno alle confidenze. Aveva da poco compiuto i 24 anni - attingo di nuovo al saggio citato - quando andò per la prima volta in Unione Sovietica con una delegazione di giovani partigiani. Rimase estasiato. Ripeteva in ogni discorso che «la gioventù sovietica felice canta nelle piazze la sua canzone preferita, Com'è bello vivere nel Paese dei Soviet». Ammirava sconfinatamente Stalin che ebbe la fortuna - almeno lui la ritenne tale - di incontrare. Togliatti era il Maestro: da lui aveva mutuato il vezzo d'indirizzare bigliettini in inchiostro verde ai collaboratori. Alla fine del viaggio russo fece firmare dalla delegazione un documento unitario che esaltava le conquiste e le libertà dello stalinismo. Al ritorno a Roma ci fu chi ebbe l'audacia di chiedergli qualcosa sulle donne russe, su come si vestivano, su come si truccavano. La risposta può essere collocata nella casistica del fanatismo quasi delirante. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne. Ci sono compagne sovietiche». Sciocchezze d'un ventenne, si dirà. Invece quel ventenne non era per niente sciocco, era un apparatchik inflessibile che nella sostanza rimase tale fino all'ultimo, quando un malore lo uccise e Sandro Pertini presidente della Repubblica, tanto si agitò da dare l'impressione che protagonista del funerale fosse lui. Ebbe anche nell'abbigliamento e nel linguaggio tratti da asceta. In un suo volumetto Dietro la vetrina a Botteghe oscure, il vecchio militante Fidia Gambetti, messo a dirigere la biblioteca di Rinascita a Roma, così scrisse: «Da Bologna ritorna vincitore Berlinguer, unico e naturale successore di Togliatti e di Longo. Con il suo aspetto sofferente di sempre, più piegato che mai sotto gli sfuggenti colli del soprabito e della giacca. Se dovessi dare un giudizio non potrei che rispondere non lo conosco. Non ha mai messo piede in libreria. Il primo a comparire è il grande sconfitto, Napolitano, sereno e signore come sempre». Ho indugiato su questi aspetti marginali della vita di Berlinguer non per sminuirlo ma per collocarlo sul podio che gli spetta e che a mio avviso è quello d'un conformista preparato e anche illuminato, non quello degli innovatori. Fu preso a rimorchio dai cambiamenti, talvolta rassegnandosi a malincuore. Anche gli strappi che gli sono valsi inni d'ammirazione erano tutto sommato prudenti e inevitabili. Non si rese mai conto del baratro verso il quale il comunismo si stava avviando, o se si rese conto lo tenne per sé. Ha scritto Alfredo Reichlin nell'inserto dell'Unità: «È vero, noi non fummo liberaldemocratici. Non avevamo letto i libri dei politologi americani e a Botteghe Oscure del modello Westminster non si parlava». Concesso. Ma la straordinaria vittoria del capitalismo sul comunismo che già era nell'aria non derivava dalla genialità dei politologi, derivava dal disastro di un'utopia tirannica. Berlinguer non sarebbe stato un tiranno. Probabilmente dei tiranni in cui aveva fiducia sarebbe stato vittima. Dopo averli osannati. A Berlinguer viene accreditato l'aver posto la «questione morale». Credo fosse sincero nel metterla sul tappeto. Credo anche che con la sua condotta privata si sia dimostrato degno della battaglia contro la corruzione. Non lo fu come massimo dirigente del Pci foraggiato e mantenuto dall'Urss. Personalmente accredito a Enrico Berlinguer, senza distinguo, la scelta della fermezza dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta. La scelta arrivò dopo un lungo flirtare del Pci con le frange eversive della sinistra. Ma fu una scelta decisa. Molti anche oggi spiegano che il negoziato con i terroristi assassini sarebbe stato la via migliore per salvare la vita del leader democristiano. Io ritengo che una trattativa svolta ignorando il sacrificio di cinque servitori dello Stato sarebbe stata ignobile.

Berlinguer, anatomia di una sconfitta. Il libro di Claudia Mancina analizza la criticamente l'attività del leader di Botteghe Oscure, scrive “Europa Quotidiano”. Claudia Mancina ha vissuto dall’interno i travagli del Pci e cerca in questo veloce ma denso volumetto (Berlinguer in questione, edito da Laterza, 2014) di sviluppare un bilancio critico molto argomentato della leadership di Enrico Berlinguer. Ne esce fuori un ritratto molto simile, quasi identico, a quello delle memorie sull’Italia dell’ex-ambasciatore francese Gilles Martinet, inviato a Roma nel 1981. Berlinguer appare «più umano, più autentico, più comunicativo» di Palmiro Togliatti, al punto che ciò «lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista», essendo peraltro alla guida di un partito che dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia aveva espanso i suoi consensi nei ceti medi urbani, specie giovanili. Eppure, se quelle erano le premesse personali, il bilancio strettamente politico è quello di una sconfitta: al di là delle diverse strategie (dal compromesso storico alla regressione neo-identitaria successiva) Berlinguer elude l’unica possibile opzione, quella della trasformazione esplicita in una moderna forza inserita nel socialismo europeo, ossia dentro l’orizzonte dell’economia di mercato. Volendo mantenere un riferimento rivoluzionario (anche se i contenuti con cui esso si identifica si modificano, dall’ammirazione per l’Urss si passa a una sorta di diversità etica, di ripulsa morale per la società dei consumi lontana dall’apertura modernizzante del marxismo) ma al contempo anche delineare una prospettiva credibile di accesso al governo, la soluzione consiste nell’idea di farsi legittimare da un sistema di alleanze. Come, nonostante le differenze e gli accenti, la elude la prospettiva “comunista e riformista” rivendicata ancora qualche mese fa da Emanuele Macaluso nel suo ultimo libro, in alternativa all’opposta ricostruzione di Enrico Morando. In questo senso è la storia politica del Pci, come sostengono Mancina e Morando, ad essere tramontata come tale nel segno della sconfitta, al di là delle energie che essa ha liberato dopo quella sconfitta. Da qui il rapido declino che si manifesta subito dopo la sua scomparsa, che lascia in eredità il referendum sulla scala mobile, voluto non per ragioni di contenuto ma per difendere il potere di veto del proprio partito. Un’impostazione che si riflette sulle questioni elettorali e istituzionali dove paradossalmente un partito di sinistra, che dovrebbe essere in astratto preoccupato di garantire forza ai governi per riequilibrare le disuguaglianze sociali, finisce per difendere a lungo regole iper-garantistiche varate nel periodo della frattura verticale della Guerra fredda. Anche il Pci, insieme alle forze di maggioranza, contribuisce quindi attivamente all’esito catastrofico del primo sistema di partiti, che nel suo insieme, come nota Pietro Scoppola richiamato da Mancina, non riesce a uscire da quella sorta di grande coalizione anomala che era la solidarietà nazionale per giungere ad una fisiologica democrazia dell’alternanza europea, come avrebbe voluto Aldo Moro. Alla fine Mancina ci propone un paradosso: la personalità politica che più ha insistito per una continuità ideale con alcuni aspetti di Berlinguer, Walter Veltroni, è quella che si è più battuta per una trasformazione post-ideologica, per un nuovo centrosinistra a vocazione maggioritaria che non avesse bisogno di protesi centriste; viceversa la persona più critica con Berlinguer in nome di una visione realistica della politica, D’Alema, rivendicando orgogliosamente la continuità con la storia del Pci ha poi sempre voluto alleati centristi per accedere al governo. Alla fine, però, la mutazione molto netta del centrosinistra è arrivata, dando ragione alla frase di Aldo Moro che Mancina premette: «Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».

QUANDO IL CAPO ERA QUASI SACRO. Nel dicembre del 1977, all'indomani di una grande manifestazione di metalmeccanici, sulla prima pagina di Repubblica Giorgio Forattini disegnò il Segretario, o meglio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer che adagiato in vestaglia su una poltrona sorbiva una tazza di tè incurante delle grida che gli giungevano dalla finestra di casa sua, scrive Filippo Ceccarelli su “Il Corriere della Sera”. Si trattava appunto di una vignetta. Senonché il giorno dopo lo storico ufficiale del Pci Paolo Spriano scrisse a Repubblica una sdegnatissima lettera chiedendo conto ai responsabili del misfatto: «Ma avete idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?». Contro la caricatura prese posizione anche Trombadori e persino Fortebraccio, mentre Pajetta decretò che non faceva ridere. Nel rispondere a tutti, Eugenio Scalfari osservò che per i compagni Berlinguer era considerato «poco meno che l'Immacolata Concezione». Il richiamo dogmatico e dottrinario aiuta a comprendere in che modo quella carica fosse allora vissuta nel partito. Nell'immaginario comunista la figura del segretario non solo era per sua natura sottratta alla competizione, ma specialmente e letteralmente incarnava la Razionalità della Storia. Anche per questo un'atmosfera mistico-magico già aleggiava intorno a Togliatti, la cui guardia del corpo Armandino pretendeva che mangiasse ogni giorno un piatto di cervello perché doveva «pensare a tutti noi»; così come il suo medico personale, Spallone, si preoccupava anchea livello organizzativo della vita sessuale del Migliore per evitare «che la tensione affettiva, se contrastata, impedisse alla mente di Togliatti di ragionare con la lucidità che gli era propria e ai suoi nervi di essere meno saldi del consentito». E tuttavia con lo scorrere del tempo quest'aura al tempo stesso corporeae sacrale, venne meno e nel 1986 l'inserto satirico dell' Unità, Tango, raffigurò il povero Natta, allora in carica che ballava nudo al suono della fisarmonica di Craxi. Quest'ultimo ne fu piuttosto impressionato. Nessuno a via del Corso si sarebbe mai spinto a tale dileggio. Rispetto alla separatezza che persino nelle dislocazioni logistiche informava l'intangibile solitudine dei capi alle Botteghe Oscure, il vertice del Psi era da sempre più libero, provvisorio, litigioso e sgangherato. Il "Vecchio", cioè Nenni, era persona amabile e tollerante; e la guerra permanente fra Mancini e De Martino aveva finito per insediare una specie di rispettosa alternanza con tanto di stratificazioni. Craxi al contrario instaurò un cesarismo piuttosto prepotente, forse necessario alla guerra di corsa, ma di certo basato sulla paura e sul conformismo. Rimase segretario anche a Palazzo Chigi, lasciando che nel partito crescessero ambizioni e appetiti, cacicchi e ladroni. Del resto anche La Malfa senjor, Saragat, Malagodi e Almirante ebbero personalità così forti da oscurare sia avversari che re travicelli di Pri, Psdi, Plio Msi. Caso tutto diverso quello dei segretari della Dc. Qui occorrevano indispensabili requisiti, il primo dei quali era il favore delle gerarchie ecclesiastiche; il secondo imponeva una situazione coniugale regolare e il terzo una teorica indisponibilità al comando (« Domine non sum dignus ») temperata da spirito di servizio. Eletto primus inter pares, e tuttavia investito del maggior potere possibile, il segretario dc era in realtà in quel posto come garante del governo, delle alleanze, delle oligarchie, delle corporazioni, dei gruppi collaterali, dei territori, delle correnti, della tribù. Per cui ogni tanto veniva fatto secco ma non per sempre, un po' come succede nel Pd - ma con molta più fantasia e perizia.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

E Gesù sposò Maddalena: non è Dan Brown, ma un codice del 570 d.C. Scritto in siriaco su pergamena sarà presentato domani alla British Library, scrive Vittorio Sabadin su “La Stampa”. Un altro tassello fortifica la ancora traballante tesi che Maria Maddalena fosse la moglie di Gesù e la madre dei suoi figli. Un libro scritto nel 570 in siriaco su pergamena, e ora custodito alla British Library, racconta una storia diversa da quella dei quattro Vangeli canonici, molto più vicina - come si è affrettata a ironizzare la Chiesa d’Inghilterra - al Codice da Vinci di Dan Brown. Ma il numero di antichi documenti che conferma questa tesi continua a crescere, e decine di seri studiosi vi si stanno dedicando senza pregiudizi. Domani la stessa British Library terrà una conferenza stampa, e si conosceranno altri dettagli. Il libro proviene da un monastero egizio ed era stato acquistato nel 1847 dal British Museum. Probabilmente si tratta di una traduzione dall’aramaico di un testo più antico. Redatto in 29 capitoli, racconta la storia di Joseph, un giovane molto noto all’epoca, conosciuto dall’imperatore Tiberio e dal faraone d’Egitto (forse Natakamani), che lo considerava figlio di Dio. A 20 anni Joseph va in sposo ad Aseneth, che gli dà due figli: Manasseh ed Ephraim. Simcha Jacobovici, giornalista investigativo israeliano che scrive anche sul New York Times, e Barrie Wilson, professore di ricerche religiose a Toronto, hanno studiato per sei anni il manoscritto e raccolto le loro deduzioni nel libro The Lost Gospel, il vangelo perduto.  In una delle prime pagine dell’antico testo il misterioso autore avverte che tutto quello che segue è scritto in un codice che va interpretato. I riferimenti cristiani contenuti nelle pagine sarebbero però così tanti che non è necessario essere Robert Langdon per capire che i nomi di Joseph e Aseneth nascondono quelli di Gesù e Maria Maddalena. Nel testo si narra che alla donna, dopo la morte del marito, viene somministrata l’eucarestia, «il pane e il calice della vita». Gli unici quattro Vangeli autorizzati dalla Chiesa dopo le riforme di Costantino non raccontano nulla della vita di Gesù tra la sua infanzia e l’età matura, un periodo nel quale, per un «rabbi», sarebbe stato obbligatorio sposarsi. Ma la storia di Joseph e Aseneth sarebbe raccontata anche in altri manoscritti, sopravvissuti alla sistematica distruzione dei Vangeli apocrifi solo grazie al fatto che celavano la vera identità dei due sposi. Anche il testo della British Library non sembra però sfuggito alla censura: alcune pagine sono state vistosamente strappate via. Due anni fa la docente di Harvard Karen L. King aveva annunciato la scoperta di un frammento di papiro in copto di uno di questi testi perduti, nel quale si legge: «E Gesù disse loro: mia moglie…». Ma secondo Jacobovici e Wilson basta anche solo scorrere i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni per convincersi che Maddalena aveva un ruolo di primissimo piano accanto a Gesù. Assiste alla crocifissione, alla sepoltura e alla scoperta della tomba vuota. Lava il corpo del Cristo, cosa consentita solo alle mogli o ad altri uomini, ed è la prima persona alla quale Gesù si rivolge dopo la resurrezione.  Il sentimento popolare, soprattutto in Francia, non ha avuto bisogno di aspettare Dan Brown per venerare Maria di Magdala come la seconda donna più importante del Cristianesimo dopo la Vergine Maria, nonostante papa Gregorio Magno l’avesse bollata nel 590 come una prostituta, commettendo un vistoso errore - forse meditato e voluto - di interpretazione dei testi canonici. Per secoli è stata ritratta dai grandi maestri, da Tiziano a Caravaggio a Canova, come una penitente afflitta dai suoi peccati: che sia stata o no la moglie di Gesù, era un destino che non meritava. 

Maria Maddalena. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Maria Maddalena o di Magdala è stata, secondo il Nuovo Testamento, una donna discepola di Gesù; è venerata come santa dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua festa il 22 luglio. La sua figura viene descritta sia nel Nuovo Testamento che nei Vangeli apocrifi, ma non è citata in altre fonti. Il nome Maddalena deriva da Magdala, una piccola cittadina sulla sponda occidentale del Lago di Tiberiade, detto anche di Genezaret. Le narrazioni evangeliche ne delineano la figura attraverso pochi versi, facendoci constatare quanto ella fosse una delle più importanti e devote discepole di Gesù. Fu tra le poche a poter assistere alla crocifissione e, secondo alcuni vangeli, divenne la prima testimone oculare dell'avvenuta resurrezione. Maria Maddalena è menzionata nel Vangelo secondo Luca (8:2-3) come una delle donne che «assistevano Gesù con i loro beni». Secondo tale vangelo, esse erano spinte dalla gratitudine: proprio da Maria di Magdala «erano usciti sette demòni». Costoro finanziavano personalmente la missione itinerante del Maestro. Secondo la tradizione, era una della tre Marie che accompagnarono Gesù anche nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (Matteo 27:55; Marco 15:40-41; Luca 23:55-56), dove furono testimoni della crocifissione. Maria rimase presente anche alla morte e alla deposizione di Gesù nella tomba ad opera di Giuseppe di Arimatea. «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Màgdala.» (Giovanni 19,25) Fu ancora lei, di primo mattino nel primo giorno della settimana, assieme a Salomè e Maria la madre di Giacomo il Minore, (Matteo 28:1 e Marco 16:1-2, oltre che nell'apocrifo Vangelo di Pietro 12), ad andare al sepolcro, portando unguenti per ungere la salma. Le donne trovarono il sepolcro vuoto ed ebbero una "visione di angeli" che annunciavano la risurrezione di Gesù (Mt 28:5). «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro... Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto.» (Giovanni 20,1;20,18) Maria Maddalena, divenuta così prima testimone della resurrezione, corse a raccontare quanto accaduto a Pietro e agli altri apostoli, (Giovanni 20:1-2), guadagnandosi l'appellativo di "apostolo agli apostoli". Ritornata immediatamente al sepolcro, si soffermò piangendo davanti alla porta della tomba. Qui il "Signore risorto" le apparve, ma in un primo momento non lo riconobbe. Solo quando venne chiamata per nome fu consapevole di trovarsi davanti Gesù Cristo in persona, e la sua risposta fu nel grido di gioia e devozione, "Rabbunì", cioè "maestro buono". Avrebbe voluto trattenerlo, ma Egli glielo proibì e le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre mio; ma va' dai miei fratelli e dì loro: Sto ascendendo al Padre mio e al Padre vostro, al Mio Dio e al vostro Dio» (Giovanni 20:17).

Identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice penitente. La figura di Maria di Magdala è stata identificata per lungo tempo con altre figure di donna presenti nei vangeli: alcune tradizioni accostano la figura di Maria Maddalena a Maria di Betania, la sorella di Marta e del risorto Lazzaro (Lc 10:38-42 e Gv 11:1-45) e alla peccatrice che unge i piedi a Gesù a casa di Simone il Fariseo, probabilmente a Nain, in Galilea: «Ed, ecco, una donna in città, che era una peccatrice, quando lei seppe che Gesù sedeva nella casa dei Farisei, portò una scatola di unguento, e si levò in piedi ai suoi piedi dietro lui piangendo, e iniziò a lavare i suoi piedi, e li pulì con i capelli della sua testa, e baciò i suoi piedi, e li unse con l'unguento.» (Luca 7:36-50) L'accostamento avviene poiché entrambe le donne (per intendersi, Maria di Betania e la peccatrice) lavano i piedi al Cristo e gli ungono il capo con il profumo, nel caso di Maria di Betania, il fatto avviene a casa di Simone il lebbroso, a Betania, in Giudea (Gv 12:1-11 - Mt 26:6-13) e l'episodio della peccatrice avviene in casa di uno di cui si dice che era un Fariseo di nome Simone. L'ipotesi che si tratti di due distinte figure è sostenuta dai seguenti particolari: l'unzione dei piedi di Maria appare verso la fine della vita pubblica di Gesù, quella della peccatrice non è specificato; Non è assolutamente assodato che Maria di Betania e Maria Maddalena siano la stessa persona. A sostegno dell'ipotesi che si tratti invece della stessa figura si può invece ricordare che: nel caso di Maria, Gesù è il festeggiato di una cena in casa di Simone il lebbroso, nel caso della peccatrice Gesù è in casa di uno che si chiama Simone; è molto improbabile che per due volte in due luoghi differenti Gesù sia stato unto con una quantità di olio di nardo avente esattamente lo stesso valore (Mc 14:5 e Gv 12:5) e che per due volte questo abbia dato luogo alle stesse pesanti critiche da parte dei presenti. In altri casi gli evangelisti sono in disaccordo su tempi e luoghi di eventi (es. i due racconti della natività in Matteo e Luca, le differenze nel giorno della crocifissione tra Giovanni e i sinottici e altri ancora). Più di una volta il Nuovo Testamento mostra imbarazzo e reticenza nei confronti delle persone che hanno stretti legami con Gesù (es. l'improvvisa menzione della leadership di Giacomo, "il fratello del Signore" (Ga 1:19), negli Atti (At 12:17, At 15:13), non preceduta da alcuna spiegazione o introduzione pur essendo essa ampiamente attestata dai più importanti scrittori cristiani antichi, Origene, Eusebio, San Girolamo, Pseudo-Clemente e anche da non cristiani come Giuseppe Flavio. Il comprensibile imbarazzo degli evangelisti di fronte agli elementi che indichino l'accoglimento da parte di Gesù delle aspettative di regalità terrena su di lui appuntate dalla popolazione ebrea. L'unzione è, in tal senso, il più caratteristico di essi. Se anche il senso teologico dei due episodi è diverso in Giovanni rispetto ai sinottici, si deve ricordare che l'autore del quarto Vangelo mostra non di rado la tendenza a subordinare il racconto degli eventi a esigenze teologiche. Nel situare, p.es., a differenza dei sinottici, la morte di Gesù al momento del sacrificio pasquale, Giovanni tende ad asserire l'identificazione tra Gesù e la vittima del sacrificio. Ancora, nel fornire il particolare, unico rispetto ai sinottici, della ferita al costato da cui esce sangue e acqua, Giovanni allude alla natura kosher della vittima. In entrambi i casi le implicazioni teologiche dei particolari sono così evidenti da non poter essere ignorate nell'analisi delle discordanze tra Giovanni e i sinottici. Maria viene inoltre scambiata per l'adultera salvata da Gesù dalla lapidazione (come raccontato nella Pericope Adulterae) in Gv 8:1-11. In questo caso non ci viene tramandato nemmeno il nome della donna e l'identificazione probabilmente avviene solo per analogia con il caso precedente. L'accostamento tra Maria Maddalena e l'adultera redenta risale in realtà al 591, quando il papa Gregorio Magno, basandosi su alcune tradizioni orientali, in un suo sermone identificò le due figure. L'identificazione di Maria Maddalena con Maria di Betania o con la peccatrice è stata infine esplicitamente ridiscussa dalla Chiesa cattolica nel 1969 (dopo il Concilio Vaticano II). Tuttavia, era comune nell'esegesi medievale, e per antichissima tradizione anche oggi, tanto che la figura della Maddalena peccatrice fu inserita accanto a quella del Buon Ladrone nella sequenza del Dies irae (utilizzata nella liturgia cattolica tradizionale dei defunti): «Qui Mariam absolvisti et latronem exaudisti mihi quoque spem dedisti.» A seguito della revisione post-conciliare il testo della sequenza è stato ritoccato ma non è stato ritoccato nella cosiddetta: Messa in latino, che ancora lo mostra integro: «Peccatricem qui solvisti et latronem exaudisti mihi quoque spem dedisti.» La stessa identificazione è rifiutata dai protestanti. Invece, nel cosiddetto Vangelo di Maria Valtorta, di poco anteriore al Concilio Vaticano II, la figura di Maria Maddalena è chiaramente identificata con quella di Maria di Betania e la peccatrice pentita. A causa di queste sovrapposizioni tra le varie figure dei Vangeli, Maria Maddalena divenne un simbolo di pentimento e divenne patrona di varie istituzioni che si occupavano della gioventù femminile, come l'Ordine di Santa Maria Maddalena o le congregazioni delle maddalene di Lubań e Torino. Il suo nome fu anche usato per le Case Magdalene in Irlanda, conventi che ospitavano ragazze inviate dalle famiglie o dagli orfanotrofi: l'ultima case Magdalena in Irlanda è stata chiusa nel 1996. Tuttavia l'identificazione di Maria Maddalena con la prostituta rimane ancora viva nella tradizione popolare. Come già accennato, ad esempio, in vari film che narrano di Gesù, Maria Maddalena viene effettivamente identificata con una prostituta, come in Mel Gibson, La passione di Cristo e nel film ispirato al romanzo di Nikos Kazantzakis L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese.

Le lucciole a Roma? Le hanno portate i papi. Al tempo del Papa re a Roma c'era una quantità impressionante di prostitute, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. È curiosa l'idea che Ignazio Marino si è fatto di Roma e del suo compito di sindaco. Nessuno dei problemi veri che vive Roma lo sfiora realmente: in compenso si occupa d'incalzare governo e Parlamento sui gay e le prostitute. Incurante della Cassazione, dei prefetti e delle leggi, il sindaco de Roma insiste a occuparsi della sfera sessual-affettiva dei romani anziché di quella civica e urbana. E lottizza la città destinando alcune aree a sorbirsi i rom, con relativo aumento di furti, e altre a subire il racket di prostitute. È un modo generoso di mandare una città a puttane. L'idea ha spaccato l'opinione pubblica e ha diviso al loro interno sinistra e destra. In tema di puttane però, lasciate che io spezzi una lancia in favore del sindaco marziano: il modello di riferimento per la zona a luci rosse non è Amburgo, Amsterdam o Bangkok, ma è la Roma dei Papi. Al tempo del Papa re c'era infatti a Roma una quantità impressionante di prostitute, c'erano accorsati lupanari e strade apposite (una ha ancora il nome di un tempo, via delle zoccolette). Perché la prostituzione era considerata dai cattolici di mondo una valvola di sfogo per l'esuberanza maschile (cardinali inclusi) e per salvaguardare la durata dei matrimoni. Mejo 'na mignotta che n'amante diceva la morale papalina - bollata come cazzolicesimo, da licet, è permesso - e discendeva nientemeno che da S. Agostino e S. Tommaso. Insomma del quartiere a luci rosse o Mignottown possono lamentarsi tutti, a partire dai residenti, meno i preti e santa romanesca chiesa.

Storie di puttane: 10 libri che parlano del mestiere più antico del mondo, scrive Valeria Merlini su “Panorama”. Una vera e buona puttana non ama che il piacere (Anonimo, La Cauchoise, ou Mémoires d'une courtisane célèbre, 1784). La letteratura è colma di storie in cui le protagoniste sono “signore del piacere”. Per scelta, per fatalità o per sventura. Moderne, lontane dal nostro presente, incastonate in pezzi di storia ormai trascorsa. La parola “prostituzione” deriva dal latino "pro statuere" che significa mettere in mostra, esporre; nell'uso comune ha preso il significato di prestazione sessuale a scopo di lucro. È senza dubbio un mestiere praticato da migliaia di anni: una volta erano le cortigiane, ma anche le favorite, quindi semplici puttane, ora le escort, tutte a praticare quello meglio conosciuto come il mestiere più antico del mondo. Da Messalina a Veronica Franco, da Emma Hamilton alla Bella Otero. Senza andare così lontano nel tempo, qui di seguito troviamo una selezione dei migliori romanzi recenti le cui protagoniste raccontano la loro storia composta sempre e comunque da una clientela quanto mai varia (ed avariata).

Puttana di Nelly Arcan Gremese, 2014 – (192 pagine). Nella camera del grande edificio di Montréal in cui svolge la sua professione, una prostituta aspetta tra un cliente e l’altro. L’attesa si nutre di ricordi e i ricordi danno voce all’incalzante, impudica confessione con cui Cynthia – è il suo nome da puttana – si racconta ai lettori. Nella scrittura disperata, con lunghi periodi inframmezzati da virgole come sospiri, come gemiti di un coito, la giovane Nelly Arcan, morta suicida nel 2009, riversa tutto il suo disgusto, tutto lo squallore che la circonda, tutta la sua inquietudine per un’esistenza lasciata trascorrere mentre la morte aspetta dietro l’angolo.

La favorita di Leda Melluso Piemme, 2014 – (378 pagine). 1580. Isabella, che tutti chiamano "la Castigliana", non avrebbe mai lasciato la Spagna per trasferirsi a Palermo se non per amore. Peccato che l’uomo che le aveva promesso amore eterno si è poi rifugiato in un matrimonio di convenienza. Fu così che Isabella, rimasta sola e senza possibilità di sostentarsi, imboccò l’unica via possibile: divenne una cortigiana. Da cortigiana a concubina per fuggire al Tribunale dell’Inquisizione il passo fu breve.

Storia di una puttana di Adele Carrion Lite editions, 2013. Kris è una donna contemporanea. È molto bella, giovane e disinibita. Ama il sesso e non ha nessun pudore. Per questo e per amore dei soldi ha deciso di fare la prostituta. Vende il suo corpo a clienti di alto livello e non si tira mai indietro anche di fronte a richieste poco convenzionali. Nella sua vita così ben organizzata qualcosa però s'incrinerà e la costringerà a fare i conti con effetti collaterali non prevedibili.

Sette diavoli di Marco Archetti Giunti, 2013 – (192 pagine). Egle Petrillo ha dodici anni, perde i genitori durante la guerra e uno zio sconosciuto prende lei e il fratello che ha difficoltà di apprendimento con sé trascinando entrambi in un’altra città. Per lei, finita la seconda guerra mondiale, comincia la guerra personale. Fuggirà da quella casa, verrà inseguita, fuggirà ancora. Il vicolo la ingoierà e diventerà una prostituta, sarà allora Sette diavoli per tutti. Ma a quel punto ci saranno ancora molti conti da regolare. Il romanzo racconta la sua vendetta, la sua sfida mettendo Dio sotto accusa, il suo riscatto.

Selvaggia di Leonardo Belmonte Arduino Sacco editore, 2013 – (340 pagine). Primi anni del 1900. Un’epoca fatta di fatica, sudore, pane sazio di dolore, femmine silenziose, uomini senza onore, con altrettanti maschi, in attesa dell’onore. Un’epoca che dava poco spazio all’essere di donna, cui era consentito solo dare mute risposte a doloranti domande. Risposte silenziose, con un altrettanto cenno à capo basso, solo questo era concesso loro, alle decisioni prese, dell’essere maschile che imponeva lo zittire. Per la donna, assai penosa e dolorante era partorire una figlia femmina considerata senza alcun valore, sé non quello restante di un villan allargar di cosce.

Quasi mai di Daniel Sada Del Vecchio, 2013 – (448 pagine). La Seconda Guerra Mondiale è appena finita e Demetrio Sordo, un giovane agronomo di inconsistenti ambizioni è preso da una novità: il sesso a pagamento nei bordelli. Proprio in uno di questi, sviluppa una passione per Mireya: è lei l’unica prostituta che desidera, e per averla ogni giorno pagherà una tariffa extra e sarà costretto a chiedere un aumento di stipendio. In breve la sua vita sembra esaurirsi in questa relazione fisica. Fino a quando…

Due vite in vetrina di Martine & Louise Fokkens Vallardi, 2013 – (208 pagine). Martine e Louise Fokkens sono sorelle gemelle. Oggi hanno settant'anni, e per cinquanta si sono messe in vetrina nel Red Light District di Amsterdam. Abbandonata ogni illusione di una vita romantica, le due gemelle rifiutano di essere delle vittime e tengono sempre ben saldo in mano il timone della loro vita. Sono donne forti e, grazie a una notevole dose di ironia, riescono a vivere il mestiere più antico del mondo proprio così, come un mestiere come un altro. Dopo 355.000 clienti (stimati), oggi Martine e Louise, protagoniste anche del film- documentario “Meet the Fokkens”, non si prostituiscono più: colpa dell'artrite.

Come l’acqua sul fiore di loto di Hwang Sok-yong Einaudi, 2013 – (384 pagine). Lianhua, Fiore di Loto, è il nuovo nome di Shim Chong. A quindici anni, la giovane viene venduta dal padre a un ricco mercante cinese e inizia la sua carriera di concubina. Da cortigiana a geisha, da tenutaria di bordello, a moglie di un potente occidentale, la storia di un apprendistato erotico, e umano, in un paese ricco di contraddizioni.

Confessioni di una baby prostituta di Veronica Q Newton Compton, 2013 – (pagine). Veronica ha un passato scabroso. A soli quattordici anni, sconvolgendo all’improvviso la sua sobria esistenza, entra a far parte di un mondo estremo, fatto di sesso sfrenato, fiumi di alcol e montagne di droga. In brevissimo tempo, ribalta completamente tutte le regole che aveva seguito fino a quel momento. Quelle che dovrebbe rispettare ogni brava bambina cresciuta in una famiglia dell’alta borghesia romana. Ma Veronica è stanca di essere una brava bambina, e la sua famiglia, forse, non è poi così perfetta.

Trilocale di plastica di Petra Hůlová Baldini & Castoldi, 2013 – (192 pagine). Una prostituta trentenne esercita il suo mestiere con ferrea disciplina e finanche un pizzico d’orgoglio, lavorando alacremente alla propria crescita professionale per tenersi stretta la sua fetta di mercato. In questo ramo però si fa presto a invecchiare e allora diventa fondamentale «non puzzare e tenere d’occhio il peso». Teatro delle sue gesta è un trilocale in plastica – «quello che probabilmente qualcuno chiamerebbe bordello è per me un nido umano di calore pieno di angolini ricchi di sorprese nascoste» – e il catalogo è vario: triangoli, incontri a due o di gruppo o ancora numeri acrobatici che richiedono appositi attrezzi e travestimenti adeguati.

S. Valentino, l'esperimento sociale: rose alle prostitute. "C'è chi si ricorda dell'amore solo a San Valentino. E chi l'amore è costretto a farlo tutto l'anno, contro la sua volontà". Per questo Io Ti Maledico, specializzato in video virali, ha deciso di portare una rosa alle prostitute nel giorno della festa degli innamorati. Tra le ragazze in strada, stupite, spunta però un "protettore" che si scaglia contro il giovane protagonista del filmato (Maurizio Valente). L'uomo lo minaccia: "O fai sesso o te ne vai". E alla fine trascina via la prostituta.

Sono puttana e me ne vanto, scrive Laglasnost su “Al di Là del Buco”.

Mi hanno chiamata puttana. Perché gli ho sorriso quando mi diceva che avevo un bel culo, gli ho detto si senza aspettare troppo tempo, mi sono fatta toccare ovunque senza particolari impedimenti, gliel’ho preso in mano senza guanti sterilizzati da chirurgo e poi l’ho perfino messo in bocca e non ci eravamo ancora neppure presentati. Mi hanno chiamata troia perché mi è piaciuto, ed eravamo in un piccolo sgabuzzino ricavato dentro il pub, mi sono liberata di mutande, reggiseno, gli ho sbottonato il pantalone e mi sembrava gli piacesse, era felice, lui godeva e devo dire che godevo anch’io. Mi hanno chiamata sporca perché non ho tenuto a precisare i dettagli della mia intimità, gli ho solo detto “tiè, mettiti ‘sto preservativo” e poi ho sollevato l’anca e l’ho spinto dentro senza indugiare. E se ne avevo voglia non ho capito perché mai avrei dovuto rifiutare. L’unica cosa della quale avrei potuto lamentarmi era il fatto che è venuto troppo presto, era eccitato, c’era da capirlo, allora mi sono toccata e lui mi ha dato una mano, anzi la lingua, per fare arrivare pure me. Ma come, non lo fermi? Non gli dici niente? Non vuoi neppure avere un abbraccio, una parola dolce, qualcosa che possa dare l’illusione di un interesse differente? E dico no, non me ne frega niente. Mi è piaciuto. Dovessi mai incontrarlo un’altra volta può anche ricapitare. Se gli sta bene. Se mi sta bene. Ma al momento dirsi ciao e grazie dopo il sesso e continuare a trascorrere la serata come prima mi sembra la migliore cosa. Mi hanno chiamata troia perché secondo la mia amica mi sarei comportata come un maschio. E ho chiesto “un maschio gode quando scopa? e perché mai non posso farlo anch’io?“. Mi hanno chiamata puttana perché mi è piaciuto quello che non avrebbe mai dovuto piacermi. Anzi mi eccita, ancora, solo ripensarci. Perché sono fatta di carne e di libido e non c’è alcuna morale che possa convincermi del fatto che mi sono sbagliata. Mi hanno chiamata sporca perché avrei dovuto, come minimo, sperare che lui mi chiamasse il giorno dopo, a me che non gli ho neppure dato il numero di telefono, avrei dovuto sospirare, innamorarmi, immaginare di mettere su casa e fare mille figli con uno con il quale mi è solo piaciuto scopare. Mi hanno chiamata stronza quando è sembrato che per difendermi dalle accuse ho dato delle bacchettone e moraliste alle mie conoscenti, quelle che mi hanno vista entrare con quel tale dentro lo stanzino e poi mi hanno aspettata fuori. Una mi ha detto “ero preoccupata… pensavo ti stesse stuprando…“. Mi hanno chiamata troia perché avessi detto si trattava di uno stupro forse sarebbe stato meglio, avrei evitato di essere processata perché manco dell’aspirazione alla santità. E mi chiedevo se esiste regola che imponga alle donne di sentirsi violate se non rispettano le convenzioni sociali. Io mi ricordo ancora quelle mani strette, i colpi serrati, il caldo, l’odore, lo rifarei senza problemi, perché certe volte l’intesa scatta in un momento e di lui non so cosa mi ha colpito, forse la voce, forse. Ma se dopo il sesso non proclamo di essere una martire profondamente innamorata, se ben distinguo la chimica dal sentimento, allora sono un maschio, che per chi è un po’ specista diventa essere un “animale”, nel senso becero e deteriore di quel termine. Io troia, io puttana, io animale, io sporca. Perché in fondo c’è una mentalità che ci vuole un po’ così: stuprate, sofferenti e infelici o se felicemente scopanti dunque stigmatizzate. Al massimo sposate figlianti, senza eccessiva eccitazione per gli appuntamenti a letto. Ho fatto sesso consensuale con un tale che non me l’ha chiesta, io non gliel’ho chiesto, mi è piaciuto e poi non ci siamo mai più visti. Per la mia amica sono ancora quella che avrebbe avuto un trauma da piccola ché altrimenti sarei lì a fare la sentimentale con qualcuno. Mi ha triturato le ovaie con il mio presunto senso di solitudine, ché noi femmine saremmo diverse, che non è possibile che possa piacerci una cosa così, che per sentirsi realizzate per davvero le “donne”, e l’ha detta proprio così declamando teorie al plurale, avrebbero bisogno di sicurezza, stabilità, casa, famiglia, figli. Le ho detto “stai serena… a te forse non sarebbe piaciuto ma a me invece si“. Lo posso dire che se lei trombasse di più e avesse meno moralismi attaccati sulla pelle forse starebbe meglio e farebbe stare meglio pure me?

Perché vado a puttane, scrive Massimiliano Maccaus, per la rubrica Cattivi propositi in Facci un salto. Non è che accada solo per solitudine, e non è neanche roba da sfigati. Perché come in tutte le cose, anche nel sesso, entrano in gioco mille e mille variabili e generalizzare, o semplificare, mortifica ogni senso critico. Si va a puttane la prima volta per provare, per vedere come si fa, come riesca. Molti ragazzi s’iniziano così al rapporto sessuale, e non sono tutti brutti o sgorbi, o timidi, od obesi. Molti sono ragazzi normali, sì come te; sì, proprio come il tuo ragazzo. Proprio come tuo marito. Tuo padre. Tuo nonno, che fa incetta di pillole blu. Non chiederglielo, difficilmente te lo racconterà. Molti ragazzi s’iniziano così al rapporto sessuale, e non sono tutti brutti o sgorbi (…) Molti sono ragazzi normali, sì come te; sì, proprio come il tuo ragazzo. Proprio come tuo marito. Tuo padre. Tuo nonno. Perché il sesso è amore ma non solo, e dall’amore non è che possa separarsi, nella mente dell’uomo, ma è da esso distinto per propria natura. Un comparto stagno lo divide, e ad unirlo ai sentimenti non resta che l’immaginazione. La realtà è diversa. Perché nell’incontro con una prostituta mille cose possono essere eccitanti. Anche la stessa idea di piacergli, o di non piacergli affatto. Sì, perché non dimentichiamolo, il sesso è anche esercizio del potere, territorio consacrato ai muscoli e al sudore, alle prese animalesche, alle forzature, persino talvolta ai feticismi, alle perversioni, alla violenza. Che vale anche per le donne, a ruoli inversi, e spesso piace anche a chi la subisce. I marciapiedi delle metropoli ne son pieni, vedete? E che se ne vuol dedurre? E’ la domanda che genera l’offerta. Lezione zero di macroeconomia. Non si scappa. Se non avessero clienti, semplicemente ce ne sarebbero poche, e costerebbero di meno. E i padri i mariti e i fidanzati che bazzicano gli stessi marciapiedi, di giorno e di notte, tutti i giorni e tutte le notti, a caccia di mercanzia sono centinaia. Tra loro si conoscono pure, e si riconoscono a distanza. Impiegati comunali, politici, medici e vari professionisti. Carabinieri e vigili urbani. Senza distinzioni. Io tra quelli. Quanto vuoi? Di dove sei? Lo sai che sei carina? Cosa fai? E che volete che faccia. Si inizia sempre così, come fosse un’intervista. Poi si va. In auto, in hotel. Bocca e figa. Due botte e via. E la si pianti di dire che mettere in affitto il corpo mortifica la dignità delle donne. La prostituta esalta in sé l’esser donna, è la quintessenza della femmilità. Fa del piacere uno stile di vita, e sa donarsi come ogni donna dovrebbe saper fare. Il mestiere più antico del mondo è anche il più gratificante, e spesso pure il più remunerativo. Guadagnare e godere. Quale indegnità, quale umiliazione. Che poi non è vero che i papponi le trattano male. Sono datori di lavoro come gli altri, e devo ancora capire perché non è punibile chi sfrutta gli operai che costruiscono i palazzi a mani nude, e senza protezioni, mentre a mandar donne a farsi qualche sana scopata, con ogni precauzione del caso, si rischia la galera. Il mestiere più antico del mondo è anche il più gratificante, e pure il più remunerativo. Guadagnare e godere. A loro piace, ve lo dico io, e anche i gemiti spesso non son finti, che trovarsi un bell’uomo per mezz’ora fra le gambe spesso fa la differenza. Per questo vado a puttane quando posso, quando ne ho voglia, e quando le finanze lo consentono: io me la godo e a loro, sfruttate o meno, in fondo piace, perché sono donne, e alle donne piace l’uomo. Inoltre ho l’intima certezza, so, che in ogni contatto umano può esserci della magia, anche se è fatto nudo e crudo, anche e specie in questi casi, dove non c’è spazio per i misteri, dove la schiettezza e la sincerità sono padrone. Mentirai al tuo avvocato, ma non alla tua puttana. Perché l’intimità che può ricavarsi da un incontro tra sconosciuti va oltre e al di là d’ogni immaginazione. E poi vuoi mettere il piacere di provarne quante se ne vuole? Bionde, rosse, more, nordafricane, esteuropee, sudamericane. Un giro al luna park alla scoperta del pianeta donna, al prezzo d’un biglietto. Le prendi in affitto, e fai quello che vuoi, e dei suoi mal di testa non t’importerà un fico secco; come all’autonoleggio, solo che alla fine non devi rifare il pieno. Così la patonza gira. E poi ognuno per la sua strada. Questo è l’importante. Difatti non le pago perché vengano con me, ma per andarsene subito dopo. Perché non ti assillino di richieste, perché non ti telefonino, perché non abbiano altra pretesa che quei trenta, cinquanta o cento bigliettoni. Due botte e via, poi ognuno per la sua strada. A casa c’è mia moglie che m’aspetta, avrà già messo tavola.

Prostituzione senza moralismi bigotti (chi sono le sex workers), scrive “Stato Quotidiano”. A fine dello scorso gennaio 2012, la rivista telematica LucidaMente è andata on line con una decina di articoli aventi come tema centrale e comune denominatore l’“eros senza amore” e, in particolare, la prostituzione (ad esempio: Dal Brasile senza passione…; Quelle ragazze coi pupazzi di peluche; I fantasmi della strada; Escort, emblema del degrado sociale; La prostituzione? Va rifiutata dalle stesse donne; Le “Escort 25” cantate da Immanuel Casto; …Fino alla “cybersexual addiction”; Il “sexting” contagia anche gli italiani. Minorenni compresi). Le modalità della trattazione del tema. Intenzionale e ponderata era stata la scelta da un lato di non usare la parola “sesso” o “sessualità”, così come, d’altro canto, quella di non parlare di erotismo tout court, che sarebbe stato automaticamente collegato all’amore di coppia (miticamente inteso come “naturale” o “normale” dalla società attuale). Del resto, anche l’uso di termini come “trasgressivo” avrebbe fatto intendere che esistono regole “normali” e “trasgressioni” di tali “normalità”. Per un laico avrebbe significato porre dei paletti di intolleranza e di pregiudizio. Ancora, altra scelta “laica” è stata quella di lasciare ai redattori e ai collaboratori della rivista libertà di esprimere qualsiasi punto di vista, senza alcuna posizione precostituita. Insomma, tematica comune, opinioni libere. Le reazioni dei lettori. Innanzi tutto, diciamo che il numero speciale della rivista ha battuto ogni proprio precedente record di contatti e di articoli letti. Nella decina di giorni nei quali gli articoli sono stati on line si sono avute circa diecimila visualizzazioni da parte degli internauti. Molti i commenti, a favore e a sfavore dei contenuti degli articoli (ad esempio: Anche voi moralisti sul sesso?). Relativamente numerose anche le richieste di essere cancellati dalla mail list della newsletter (un 50% di utenti uomini e un 50% di utenti donne). Prima considerazione: la tematica affrontata interessa sempre molto. Seconda considerazione: ancora forte è la reazione irrazionale da parte di molti verso tali temi (la peste emozionale di cui parlava Wilhelm Reich?). Invece, l’unica modalità per trattare il tema della prostituzione è quella aperta, problematica, pragmatica. Insomma, laica. Chi sono le prostitute. Pertanto, partiamo dai dati ufficiali (relativi all’Italia). Secondo l’ultima indagine commissionata dalla Commissione Affari sociali della Camera, le prostitute – ma sarebbe meglio usare il termine anglosassone sex workers – operanti del nostro Paese sarebbero dalle 50.000 alle 70.000, di cui circa 25.000 immigrate. La massima concentrazione a Milano e Torino. Il 65% delle prostitute lavora in strada, il 29,1% in albergo, le rimanenti in casa. Il 94,2% delle prostitute sono donne, il 5% transessuali e lo 0,8% travestiti. Duemila sarebbero minorenni e più o meno lo stesso numero quelle ridotte in schiavitù e/o costrette a prostituirsi. Crolla, quindi, la leggenda volutamente divulgata da parte cattolica secondo la quale “quasi tutte le prostitute lo fanno perché costrette con violenza”. Secondo l’indagine citata, invece, sarebbero solo il 4-5% le prostitute che preferirebbero uscire da tale “mestiere”. Anche per le ricerche condotte da Parsec, Censis, Università di Trento, Fondazione Cesar, la percentuale di chi preferirebbe lavorare in altro ambito è molto bassa e si aggira intorno al 10%. Il perché è facile da intuire: è una professione molto redditizia, non più rischiosa di altre, meno umiliante e frustrante che fare la commessa o la badante o la operaia. Poi, in tempi di crisi economica e disoccupazione, non si può andare tanto per il sottile. Le tipologie delle sex workers. Impossibile tracciare un quadro univoco delle prostitute operanti in Italia. La molla: essenzialmente economica. Per nazionalità: italiane e rumene, ma anche brasiliane, cinesi, nigeriane, area ex Urss… Per età: giovani, ma anche quarantenni e oltre. Titolo di studio: dall’analfabetismo delle africane alle lauree delle russe. Prezzi: da poche decine di euro a migliaia di euro per una notte o un weekend, con una media di 50 euro a prestazione. Tipologie fisiche: bellissime e meno belle, alte e piccoline, vistose e insignificanti, raffinate e volgari. Tipologie psicologiche: sbrigative, brusche, frettolose, dolci, cordiali, umane, amichevoli, affettuose (e a volte si arriva al matrimonio col cliente). Servizi sessuali: dal coito in pochi secondi a cena e notte trascorse insieme, dall’erotismo spicciolo al sadomaso con dotazioni varie, dal rapporto genitale freddo a quello affettuoso e attento. Come viene vissuto il proprio mestiere: con vergogna, sensi di colpa, normalità, “professionalità”, ironia, giocosità, sfrontatezza. Nel complesso, un mondo variegato, sfaccettato, inclassificabile. Chi sono i clienti. E i clienti? Verrebbe da dire “tutti gli italiani” (anche se non troverete mai alcuno che lo ammetterà: in Italia nessuno “va a puttane”). Infatti, secondo uno studio commissionato nel 2007 dal Dipartimento Pari opportunità, risulta che i connazionali che hanno regolari frequentazioni con prostitute, sebbene con motivazioni, cadenze e modalità diversificate, sono 9 milioni! Se escludiamo donne, bambini, anziani, asessuati e qualche altra categoria, siamo quasi al 100% dei maschi italiani. Anche in questo caso, infinito lo sperpero delle tipologie. Per classe sociale, istruzione, cultura, gusti, età, tendenze, credi ideologici e religiosi. Ci sono quelli che vanno a prostitute perché “brutti”, perché hanno in testa fantasie “ridicole”, “sconvenienti”, inaccettabili da una donna “perbene”, perché vogliono stare con più donne contemporaneamente, perché vogliono “evadere” qualche volta al mese, perché sono anziani, perché la loro moglie non piace più, perché ne hanno abbastanza di donne oppressive e soffocanti, perché sono preti, perché non vogliono “perdere” tempo, perché è più “economico”, perché desiderano il corpo di una donna giovane e bella, perché si innamorano di una prostituta. Lo stereotipo “femminista” del maschio che vuole “umiliare” una donna non esiste, se non in rari casi psicopatologici. Davvero, di fronte alla “origine del mondo” (come chiamava la vagina nel suo dipinto Gustave Courbet), gli uomini son tutti uguali, fragili, in ginocchio. Considerazioni generali. Diamo per scontato che in un mondo migliore non dovrebbero esistere prostitute e clienti. Tuttavia, se guardiamo in faccia alla realtà, tale ipotetico “mondo migliore”, anche per questo ambito, parrebbe assomigliare più a Utopia che a una realtà possibile, in quanto dovrebbe esistere un pianeta di esseri tutti belli, tutti perfetti, tutti sessualmente “normali”, tutti che si innamorano del partner giusto, che ricambia a sua volta allo stesso modo… E, a questo punto, siamo arrivati più a una distopia nazistoide che a un’utopia… Più concretamente, crediamo che la prostituzione sia una fondamentale valvola di sfogo psicologica e sociale per quei clienti che avrebbero davvero grosse difficoltà a realizzare in qualche modo una propria vita sessuale (anziani, “brutti”, disabili, “fantasiosi”, “diversi”, ecc.). Se le prostitute non sono eroine, visto che sono in genere ben pagate, un qualche merito pur ce l’hanno. Permettono a molti una sessualità che, altrimenti, sarebbe loro negata. L’imbarazzo della politica italiana. Se la prostituzione è “quella piaga che la società ha reso tale”, l’adagio si attaglia perfettamente al Belpaese bigotto e intollerante e ai suoi politici vili e meschini. Nessuno dovrebbe passare la notte per strada, magari durante un gelido inverno. Ma la maggioranza dei nostri politici si gira dall’altra parte. Innanzi tutto, il centro cattolico, teocratico e filovaticano, per il quale la prostituzione è un “problema morale”. Per la destra, dopo il modello berlusconiano, tanto tutte le donne sono a pagamento. E la sinistra? Anche lì imbarazzo, prima di tutto per non perdere i voti di una popolazione che vorrebbe addirittura aumentare le pene per i reati connessi alla droga, come se non avessimo già le prigioni intasate di poveracci! E, poi, la realtà cozza con la visione puritana “progressista” e/o fanaticamente femminista, per non parlare del “politicamente corretto”: la nostra – si sa – è una sinistra perbenista e borghese, lontana dai problemi sociali. Così resta in vigore la legge Merlin che, nell’impianto e persino nel lessico (“meretricio”, “lenocinio”, “libertinaggio”!), resta legata un’Italia che non c’è più. Una legge che lascia ampi margini di discrezionalità, per non dire di arbitrio, a forze dell’ordine e magistrati. Ad esempio, il “reato” di “favoreggiamento della prostituzione” – che non esiste altrove –, a causa del quale, chiunque accompagni in auto una prostituta può essere sottoposto a un pesante procedimento penale. E, così, c’è scappato qualche suicidio di cliente “svergognato”. Pragmatismo e spirito laico. Eppure, se, una volta tanto, si guardasse all’esperienza degli altri Paesi, si potrebbero regolarizzare le sex workers operanti in Italia. Come per le droghe, se le prostitute fossero disciplinate dallo Stato, si darebbe un colpo mortale alle mafie e agli sfruttatori. E si potrebbero far pagare le tasse su un giro di miliardi all’anno, con grande beneficio per l’erario. La politica del pragmatismo, della razionalità, della “riduzione del danno”, piuttosto che la ricerca di un’utopia sociale – sia essa cattolica che “progressista – resta lontana, fuori dall’orizzonte politico. Meglio l’inferno in Terra. Tutti devono soffrire. In questo come negli altri casi: l’aborto va praticato dalle donne nella vergogna, gli uomini sono costretti a consumare squallidi rapporti sessuali in auto o in sporche camerette, gli omosessuali possono essere scherniti o peggio, gli immigrati sfruttati, i malati terminali, se non hanno la possibilità di recarsi all’estero, devono urlare di dolore. Un Paese ipocrita e vigliacco, che perseguita chi è debole. Una nazione insensibile, sotto la maschera del pietismo e della morale cattolicista.

Alba Parietti: "Per la sinistra sono sempre stata la puttana con cui girare la notte". La showgirl, in un'intervista per "Il Fatto Quotidiano", ha raccontato senza peli sulla lingua il suo rapporto con la politica e quando, nel 1992, rifiutò 9 miliardi offerti da Berlusconi, scrive “Today”. E' un fiume in piena Alba Parietti quando racconta della sua vita, tra privato e carriera. 53 anni di aneddoti che la showgirl torinese ha ricordato in un'intervista per "Il Fatto Quotidiano". Da sempre simpatizzante di sinistra, la Parietti con gli anni ha avuto modo di guardare da vicino e toccare con mano la politica italiana: "Da un certo mondo sono stata sempre percepita e guardata come la puttana che porti in giro di notte e di giorno sei costretto a nascondere - ha spiegato - Negli anni ho capito quanto fossero snob e bigotti i presunti rappresentanti della sinistra italiana. Non è bastato neanche che rinunciassi ai nove miliardi che mi offriva Berlusconi. Non è cambiato niente. La verità è che non mi hanno perdonato di aver scaldato gli istinti più bassi degli intellettuali. Quelli perdevano la testa e i censori con la puzza sotto il naso insorgevano. Oggi Berlusconi e la sinistra governano insieme". E proprio su quei 9 miliardi rifiutati torna a parlare subito dopo con un po' di amaro in bocca: "Con Silvio Berlusconi fui molto antipatica. Un peccato. Lui, al contrario, da allora e negli anni a venire, con me fu simpaticissimo. Si prestò al tour della villa e nel castello incantato, al momento del dunque, fu generoso. A Mediaset però non andai. Dissi no, grazie. Adriano Galliani, presente all'incontro, era attonito. Non voleva credere che avessi dato un calcio alla fortuna". Oggi, forse, col senno di poi, Alba Parietti di quel "no" si è pentita, anche se la fortuna, lavorativamente parlando, in quel periodo è sempre stata dalla sua parte.

ALLARMI SIAM BIGOTTI! – C’ERA UNA VOLTA GIÒ STAJANO, “IL BORGHESE”, PINGITORE E NINO STRANO, OVVERO LA DESTRA LIBERTINA – INVECE ADESSO ABBIAMO GASPARRI CHE ATTACCA SUL “SESSO CONSENZIENTE” E LA RUSSA CHE INSULTA “UN CULATTONE”

I due episodi di Gasparri e La Russa, scrive Pietrangelo Buttafuoco su "Il Fatto Quotidiano", “confermano il contrappasso rispetto a ciò che fu la destra italiana, ricettacolo di libertini, dandy e maliarde (vulgo: puttane)”. Quando Almirante fece il baciamano al trans Stajano…Da je suis Charlie a je suis Ignazì il passo è breve. Se passa – come nella vignetta di Charlie Hebdo – l’idea di Padre, Figlio e Spirito Santo uniti in transustanziazione sodomitica, un omosessuale, oltretutto lanciato in un’intemerata all’incontro sulla famiglia, può mettere in conto di incontrare la santa teppa. Un filmato diffuso in rete mostra Ignazio La Russa al convegno sulla famiglia tradizionale organizzato dalla Regione Lombardia mentre, sull’onda di un chivalà, insulta il suddetto contestatore. Il dettaglio tutto sublime sta nel fatto che l’oltraggio, ripreso in video, viaggia sul labiale. Non si sente il roco ruggito. L’urto della maschia gioventù risulta cristallizzato nella moviola – cu lat to ne! – e l’incidente precipita nell’aita dell’ideologicamente corretto. Più che la blasfemia poté il sessismo, si dirà, ma la vicenda di La Russa suona dada rispetto allo sbrego di Maurizio Gasparri che, su twitter, incurante di ogni cautela istituzionale insulta le due rapite immaginandole consenzientI   – dunque, due puttane – nel sollazzare i propri rapitori. Il popolo della rete, al netto delle vampe contro Gasparri, ha reclamato una propria fetta di je suis Maurizì solo che gli estremi di un lapsus più che rivelatore, nei due episodi, confermano il contrappasso rispetto a ciò che fu la destra italiana, ricettacolo di libertini, dandy e maliarde (vulgo: puttane). In principio fu Giò Stajano, buonanima. Fu il primo travestito d’Italia, quindi il primo transessuale, deciso – negli anni della sua vecchiaia – a entrare in convento e così completare il quadretto di brava ragazza devota ai principi di Dio, Patria e Famiglia. Nipote di Achille Starace, segretario del partito fascista, Stajano si presentava alle prime all’Opera, a Roma, annunciata da un codazzo di paparazzi vogliosi di raggranellare scoop per poi far sbucare su Lo Specchio (il settimanale del gossip, diretto da Nelson Page) delle foto-notizie con didascalie tipo: “L’onorevole Andreotti in compagnia dell’invertito Giò”. Ebbene, una sera, a Caracalla, era il 1971, Giò tese un agguato a Giorgio Almirante. Il leader del Msi, galante, spiazzando tutti, la salutò con un perfetto baciamano. Per poi dirle: “Mi saluti la mamma”. In principio fu Stajano ma, nel frattempo, a destra, tutto quell’arroventarsi d’eros trovava il modo di esercitarsi anche nella sequenza sexy de Il Borghese – un settimanale che occupa un importante posto nella storia del giornalismo, fondato da Leo Longanesi – negli anni della direzione di Mario Tedeschi e Gianna Preda inserisce nella fascicolazione foto di nudi espliciti lasciando cadere, già negli anni ’50 del secolo scorso, le pecette della censura solitamente appiccicate su curve e seni procaci. Saranno i primi nudi a far capolino nei tinelli dell’Italia tutta Dio, Patria e Famiglia. Primi destinatari, i lettori della destra monarchica, missina e cattolica. Ninni Pingitore, futuro inventore del Bagaglino, il cabaret libertario della destra anarchica (una scena, quella, che il berlusconismo spegnerà per sempre), ancora una volta alzava il tiro esplorando i pruriti del costume italico da caporedattore del mensile Playmen. E fu al cinema, con Gualtiero Jacopetti, che la destra portò sul grande schermo più di un’inaudita crudezza e un’indiscussa novità di linguaggio. Con “Mondo Cane”, con “Africa Addio”, le pellicole di Jacopetti, attese dal pubblico sull’onda dello scandalo ma sempre eseguite – il regista non licenziava copione che non fosse letto da Indro Montanelli, il suo unico riferimento – con la maestria di chi il gusto se l’era formato alla scuola della disobbedienza. La stessa di Mario Castellacci, autore della canzone di rabbia e di popolo “Le donne non ci vogliono più bene (perché portiamo la camicia nera)”. Un contrappasso, dunque, e La Russa e Gasparri non dimenticano di sicuro la carovana degna di Pedro Almodovar, tutta di coloratissimi trans, al seguito di Nino Strano. Esteta, mecenate delle arti (educato all’arte da Franco Zeffirelli) già senatore di Catania – prima del Msi, poi An – Strano, spiritoso come nessuno, è stato sempre in prima fila a cavar diritti dall’eccentrica estetica del fascismo etneo. Libertino, libertario e dandy in ogni contesto. Perfino quando si avventurò in una scenataccia – i lettori la ricorderanno, quando inghiottì la mortadella in Senato, alla caduta del Governo Prodi – trovandosi poi nel gorgo di una chiassosa contestazione, Strano sentì qualcuno gridargli qualcosa. A Fabio Granata, che era vicino a lui, chiese: “Che cosa mi stanno dicendo, Pinocchio?”. Granata lo rassicurò: “No, Nino, no. Non dicono Pinocchio, ti stanno dicendo fi-noc-chi-o”. Perfetta, la risposta di Strano: “Pinocchio proprio, no. Bugiardo non lo sono mai stato!”. Più che Collodi poté l’ortofrutto. E fu tutto un coro: Je suis Ninò.

1. ALLA FACCIA DEI BIGOTTI, SEMPRE PIÙ ITALIANE VANNO A PROSTITUIRSI IN SVIZZERA - 2. TRA I CANTONI, LA PROSTITUZIONE È UN’ATTIVITÀ ECONOMICA TUTELATA DALLA COSTITUZIONE FEDERALE: CHI VUOLE “BATTERE” DEVE REGISTRARE ALLA POLIZIA LA SUA PRESENZA SUL TERRITORIO, DOPODICHÉ OTTIENE UN PERMESSO DI CINQUE ANNI - 3. IN TICINO SI CONTANO 600 PROSTITUTE E, NEGLI ULTIMI TRE ANNI, BOOM DI ITALIANE - 4. TRA LORO DIVERSE FRONTALIERE: OGNI GIORNO VANNO, FANNO VENIRE E VENGONO - 5. LA LEGA NORD, ARCHIVIATA LA PADANIA LIBERA VUOLE LA PATATA LIBERA: RACCOLTA FIRME PER UN REFERENDUM PER ABOLIRE LA LEGGE MERLIN E TORNARE ALLE CASE CHIUSE - 6. IL GESTORE DI UN “MOTEL PER ADULTI” IN SVIZZERA: “MOLTI DEI BEN PENSANTI CONTRO CUI MI SONO SCONTRATO IN PUBBLICO POI LI HO RITROVATI NEL MIO CLUB” -

1 - REGOLE, TASSE E SICUREZZA. IL POLITICO TICINESE: «COSÌ SI EVITA IL MERCATO NERO» di Gp.r. per il "Corriere della Sera". Abolizione (parziale) della legge Merlin e, di fatto, via libera alle case chiuse. È questo l'obiettivo della campagna referendaria promossa dalla Lega Nord. Al di là della scelta di lanciare il tema nel periodo elettorale, il percorso individuato non è soltanto quello dei banchetti per la raccolta delle firme dei cittadini, ma - soprattutto - quello istituzionale. La settimana scorsa, infatti, il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato (con un solo voto di margine) la proposta di referendum presentata dal gruppo del Carroccio. Oltre alle storiche, aspre divergenze culturali sul tema della prostituzione, al Pirellone il dibattito politico è stato aspro e lacerante anche all'interno della stessa maggioranza di centrodestra. Gli alfaniani del Nuovo centrodestra, infatti, sono rimasti inamovibili nel dire no al referendum, e in aula il testo è passato per un soffio grazie al voto del Movimento 5 Stelle. Adesso, perché la richiesta di consultazione popolare sia valida, la Costituzione prevede che venga condivisa da almeno altri quattro Consigli regionali. E, puntuale, la Lega stessa ha già avviato lo stesso iter anche in Veneto, dove giovedì scorso la commissione Sanità ha dato il primo via libera.

2 - IN SVIZZERA, DOVE PROSTITUIRSI È LEGALE QUELLE ITALIANE FRONTALIERE DEL SESSO di Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera". Il parcheggio non è pieno. Sulle auto - tutte dignitose ma nessuna di grossa cilindrata - sistemate a lisca di pesce si riflette il sole di una calda mattina di primavera. Il silenzio anonimo di tutte le anonime zone industriali di provincia è rotto solamente dal rumore di una segheria che lavora, poco lontano. Un posto qualunque. Che però è in Svizzera. E così, da dietro il separé di plastica da stabilimento balneare a poco prezzo che nasconde i ballatoi della palazzina affacciata sul parcheggio, appare una ragazza. Dondola su tacchi altissimi e indossa un abitino blu che le sta un po' stretto. La testa è bassa: guarda il cellulare. Non può parlare, è di fretta: «Mi stanno aspettando in camera», si scusa. «Ma - aggiunge - al bar ci sono altre ragazze». Il bar è quello del Motel Castione e le ragazze sono tante, almeno trenta. Sono sedute al bancone o ai tavoli e quando si apre la porta, tutte si voltano a guardare. In Svizzera la prostituzione è legale e anche locali come il Motel Castione lo sono. Lo ribadisce il titolare che però preferisce restare anonimo visto che la legge non basta a cancellare «i pregiudizi. Prima c'erano 33 ritrovi simili in Ticino ma sono stati quasi tutti chiusi», spiega. Questo perché non si può più mascherare una casa d'appuntamenti con un bar: «È cambiata la norma: siamo diventati "luogo di incontro per adulti". Chi entra da noi paga l'ingresso e riceve in omaggio una consumazione». Dieci franchi, meno di dieci euro. Tra i clienti non notturni, soprattutto anziani. Parlano con le ragazze, sorridono. Ogni tanto qualcuno viene preso per mano da una di loro e si allontana lungo il corridoio che porta alle camere. Per il gestore il guadagno, oltre agli ingressi (in media 200 giornalieri), è l'affitto delle stanze alle prostitute: «Al giorno sono 120 franchi. E forniamo ogni volta biancheria fresca». Le camere sono sì pulite ma sembrano quelle di un hotel a due stelle. «Per renderla più calda ho attaccato sul lampadario un velo rosso», racconta Gina. Ha 29 anni, ha iniziato a prostituirsi quando ne aveva 23 e viene dalla Romania. «Da noi gli stipendi sono di 200 euro al mese. Ho una bambina e credo sia giusto se mi sacrifico io perché non lo faccia mai lei». Il peso più grande è non averla cresciuta: «Ma quando penso che va a scuola ed è vestita bene e apre il frigo e lo trova pieno, allora so che sto facendo la cosa giusta». Nella sua famiglia nessuno sa che lavoro faccia Gina. La sua idea, come di molte altre, è fare tanti soldi in pochi anni. In media una prostituta chiede 100 franchi per mezz'ora e ne guadagna attorno ai 5, 6 mila al mese. Gina si è comprata un appartamento. «Ci sono storie a lieto fine - racconta un cliente, 42 anni, svizzero che di professione fa il giornalista -. Questi posti vengono raccontati sempre sotto una cattiva luce ma qui ho conosciuto molte brave ragazze, che aiutano le famiglie. Mi spiace che così tanta gente le giudichi male». A Castione in effetti i clienti del bocciodromo (dopo il motel, il secondo locale più vivo di questo minuscolo centro) scuotono la testa: «Ma davvero c'è gente anche a quest'ora? Sono anziani? Ma anziani come noi?». Una coppia di marito e moglie classe 1929 ascolta attenta. Lei indignata. Lui sbuffa. Ma alla fine chiede sospettoso: «Ma anche della mia età? Io ho 85 anni eh». «La prostituzione in Svizzera è un'attività economica tutelata dalla Costituzione federale», scandisce Norman Gobbi, ministro ticinese con delega alla prostituzione. «L'obiettivo è evitare la prostituzione di strada e la clandestinità. Chi vuole prostituirsi deve registrare la sua presenza sul territorio alla polizia, dopodiché ottiene un permesso di cinque anni. In Ticino al momento si stimano 600 prostitute». Ma non proprio tutte pagano le tasse. La maggior parte fa la spola con il Paese d'origine: lavora in Svizzera per un paio di mesi poi torna a casa, per rientrare di nuovo a distanza di qualche tempo. Una strategia semplice per evadere. Ulisse Albertalli, titolare del Bar Oceano - 70 camere vista autostrada - si definisce «un pioniere del settore». È orgoglioso delle battaglie fatte per ottenere «la licenza di bordello ufficiale. Le ragazze sono libere. Io offro le camere, i servizi alberghieri e la sicurezza (che garantisce però anche una sezione specifica della polizia)». Tutto per 165 franchi al giorno e due giorni di preavviso prima di liberare la camera: «Le ragazze girano per tutta la Svizzera e si fermano poche settimane. I clienti preferiscono il ricambio: spesso una moglie l'hanno già a casa». Albertalli gestisce il locale con i figli «a testa alta. E molti dei ben pensanti contro cui mi sono scontrato in pubblico poi li ho ritrovati nel mio club». Vanessa ascolta seduta su un divanetto. Ha 30 anni, anche lei è romena e a Bucarest ha aperto un salone di bellezza con i soldi fatti qui. Da piccola voleva fare la sarta. È molto bella ma il trucco marcato la fa sembrare più grande. Eppure nella sua stanza ci sono decine di peluche tra cui un orsacchiotto gigante. «Ai miei ho detto che lavoro nella hall di un hotel», confessa. Perché non lo fa davvero? «Così guadagno molto di più e molto più velocemente». Una formula che vale per tante. Sempre più italiane conferma Marco, titolare del sito incontriticino.ch . Il suo è un portale di annunci per chi esercita puntando sull'altra faccia del «modello svizzero»: la prostituzione da appartamento. «La percentuale delle italiane che si iscrivono sta salendo moltissimo negli ultimi tre anni. Prima si contavano sulle dita di una mano. Ora ce ne sono almeno 25, diverse frontaliere. In Svizzera italiana è dove danno i permessi più facilmente e dove poi sono più bigotti. Al di là del Gottardo è l'opposto: ci sono quartieri a luci rosse ma non c'è il moralismo che esiste qui, dove chi lavora in casa spesso lo fa di nascosto per evitare guai con i condomini». Come fa anche una ragazza svizzera: «Nel mio appartamento faccio la massaggiatrice: decido io se proseguire con il rapporto o no». Non ama il suo lavoro, ma si sente tutelata. «Pago le tasse e sono in regola. Ma non lavorerei mai in un club: è vero che le ragazze possono scegliere con chi andare ma se devono pagare un fisso al giorno per me è comunque sfruttamento della prostituzione. Se non ci sono clienti sono costrette a svendersi». La crisi non aiuta: «Le ragazze fanno sempre di più per sempre meno. E molte sono italiane». Come la giovane donna seduta sugli sgabelli del Pompeii, locale a pochi passi dal confine, a Chiasso, che conferma il teorema secondo cui più ti avvicini all'Italia e più si fa spessa l'aria di omertà. La ragazza è di Palermo ma si è trasferita vicino alla dogana e ha un permesso come frontaliera. Sta aspettando i primi clienti ma non ha voglia di parlare. Una cosa però le sfugge, mentre si sistema distratta la scollatura: questo mestiere in Italia? No, non lo farebbe mai.

Basta con l’ipocrisia: prostituzione legale, scrive Francesco Maria del Vigo su “Il Giornale”. Prostitute, troie, puttane, mignotte, passeggiatrici, peripatetiche, meretrici, squillo, sgualdrine, battone chiamatele come vi pare, ma fatele lavorare. In pace. E nella legalità. Da alcuni giorni la Lega di Matteo Salvini (accompagnato dal trans Efe Bal) ha iniziato a raccogliere firme per abolire la legge Merlin, la legge del 1958 che abolì le case chiuse e di fatto rese illegale la prostituzione. Finalmente una battaglia di buon senso e di civiltà. Che in un Paese in cui tutto va a puttane i cittadini non possano farlo liberamente, sembra un paradosso. L’argomento da anni viene sfiorato da molte forze politiche. Riaprire i bordelli significa regolamentare, tassare e controllare la prostituzione, Ma significa anche fare i conti con un velo di ipocrisia che non vuole essere squarciato e con una realtà che molti fingono di non vedere. Eppure basterebbe soffermarsi sulla parola, sulla nostra lingua e sui modi di dire, mai casuali, che genera. Non servono approfondite conoscenze sociologiche o storiche: se si chiama “il mestiere più vecchio del mondo” un motivo ci sarà? Infatti le leggi restrittive e punitive non hanno avuto alcun risultato, se non quello di portare sulla strada migliaia di schiave del sesso e gettarle in mano alla criminalità. Il commercio di esseri umani che vive ai margini delle nostre città è uno spettacolo indegno di un Paese civile. Molto più civile riaprire le case chiuse e prendere atto di un’abitudine millenaria. Vogliamo dare un giudizio morale? Vogliamo crocifiggere il puttaniere? Ma per favore, smettiamola con questa ipocrisia. Anche perché, in alcune zone d’ombra della legalità, il commercio sessuale vive e prospera senza alcun controllo. Per esempio in molti di quei centri massaggi che come funghi sono sbucati ovunque nelle nostre città. Mentre tutti fanno finta di non vedere. Nel momento in cui, liberamente, una donna e o un uomo decidono di mettere in vendita il loro corpo, non c’è nulla di male. E lo Stato non può impedirglielo. Chi va a puttane non è un criminale, al massimo uno sfigato. Ma non merita di finire dietro le sbarre. Ancor meno chi, per scelta o necessità, mette in vendita il proprio corpo. C’è tutta una letteratura sull’esperienza “iniziatica” nei bordelli. Il Cioran adolescente si rifugiava nelle case chiuse per sfuggire all’angoscia della morte. Drieu La Rochelle si spinge più in là e teorizza che il bordello sia l’unico “posto dove l’umanità si zittisce e offre un commercio gentile”. Ma il legame tra gli artisti e il sesso a pagamento è un filo rosso che si srotola lungo gli anni: da Flaubert a Mario Soldati, passando per Kafka e Zola fino ad arrivare al recente appello dei 343 “intellettuali maiali” francesi che sono scesi sul marciapiede per salvare le lucciole. Sono solo l’escrescenza di un massa invisibile che continua a crescere: secondo le stime dell’Università di Bologna gli italiani che si rifugiano nel commercio del sesso sono 2,5 milioni. Ma parlarne è un tabù. Perché siamo rinsecchiti da un moralismo strabico e da un bacchettonismo a targhe alterne, come se ognuno di noi, almeno una volta nella vita, non si fosse prostituito moralmente, intellettualmente o anche professionalmente. Insomma, sradicare la prostituzione è impossibile, regolamentarla doveroso. Per non uscire dalla metafora: maiali e lucciole hanno diritto di “cittadinanza” anche da noi, brava Lega!

Puttane e trans: lontane dagli occhi, lontane dal cuore, scrive Daniela Minerva a il vaso di Pandora su “L’Espresso”. Il sindaco di Roma vuole un quartiere a luci rosse. Non resta che sperare che non si sia accorto di quanto propongono i suoi assessori. Quoque tu... Ignazio Marino è un uomo perbene. È un medico straordinario. È un intellettuale di prim'ordine. Ha una tempra invidiabile, una rettitudine esemplare, una lucidità di pensiero rara. Ed è un uomo buono, sensibile, delicato. Mi chiedo come è possibile che sia caduto anche lui nella trappola del “quartiere a luci rosse”. Passi per qualche sgangherato assessore leghista immerso nelle nebbie (fisiche e mentali); passi per l'ineffabile Ombretta Colli, incaricata dalla destra di curare le pari opportunità a Milano; passi anche per i misogeni di mezz'Italia che vanno cercando le “pubbliche mogli” (dell'immortale De André) ma ci tengono a farlo al calduccio e invocano la revoca della legge Merlin. Ma Marino, no. Non doveva pugnalarci al cuore. Riassumo: la giunta capitolina, fregandosene del ruolo di Roma capitale dell'umanesimo cristiano, ha deciso di spostare tutte le mignotte e i femminielli della città (e sono tanti) all'EUR (1). Ha deciso poi che chi viene beccato a farseli fuori dalla cinta del geniale quartiere voluto da Giuseppe Bottai - che sarà anche periferico ma è una delle meraviglie del mondo - paga 500 euro di multa (2). Ha deciso di mettere per strada qualche camper con dei non ben specificati “operatori sociali”, e che Dio ci scampi da qualche altra storiaccia di gente che prende soldi per occuparsi dei disagiati e poi se li beve a champagne e mignotte, appunto (3).

1. Sul bisogno di “regolamentare” la prostituzione e seppellire la legge Merlin ne abbiamo sentite di tutti i colori. Sostanzialmente si tratta di levare dalle strade chi vende il proprio corpo, per non offendere il pubblico buon costume. Un intento di tal genere è pensabile solo se si crede alla fola che la prostituzione sia un mestiere come un altro. E credere questo è il più infame dei propositi. Donne e trans sono sulla strada perché non possono fare altro; perché oppressi dalla povertà, dallo stigma, dal dolore; perché trascinati in schiavitù da delinquenti che le forze dell'ordine non riescono (o non ci mettono molta energia) a cacciare in galera e buttare la chiave. Non c'è niente di più umiliante per una donna che pensare anche solo per un attimo che ci sia là fuori una ragazza costretta con la forza o dal bisogno a vendersi. Non posso immaginare la condizione di un trans, ma sento che non è molto diverso. Il cuore si spezza a immaginare le sequenze di quei milioni di stupri perpetrati all'ombra di questa bugia scandalosa: no, la prostituzione non è un mestiere. È un cancro del nostro mondo sessista e crudele. Che a Roma sia legale è un pensiero impensabile.

2. Marino e i suoi hanno scelto l'Eur. E nello specifico le stradone attorno al Palazzo della Civiltà del lavoro (che è bellissimo e tiene tra le sue volte la voglia di modernità di un secolo intero). A parte il simbolico sberleffo (civiltà e lavoro non sono termini che si applicano a quanto vi accadrebbe), resta che il principio ispiratore dell'intento è il raffinato “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Perché l'Eur è lontano dai Palazzi del potere politico, dal Vaticano e dalle residenze dei pregati e inutilmente pagati assessori capitolini. Ma sì, va: buttiamoci le nigeriane, le\i brasiliani, le rumene e i loro pulciosi clienti dal colletto bianco. Stuprino a go go, di sera in sera. Tanto la gente per bene non li vede. Io dall'Eur sono lontanissima, ma li vedo, minuto dopo minuto. E spero che i lettori de “l'Espresso” facciano altrettanto, e di minuto in minuto dichiarino la loro guerra morale a chi permette quella vergogna. Di solito, mi sento rispondere: ma comunque la prostituzione c'è. Non puoi evitarla, è embedded nel nostro modo di vivere. Tanto vale che le si dia una regolata. Rispondo: a. Il fatto che c'è è doloroso, come molti altri eventi del nostro mondo. E proprio per questo dobbiamo vedere. dobbiamo sapere, dobbiamo vergognarcene. Per alimentare la cultura del rifiuto, per educare i nostri figli e sperare in un mondo migliore. O no?

b. regolamentare non vol dire emarginare. La filosofia del “lontano dal...” fa schifo. Ripensiamo alla legge Merlin, se volete. Anche se io penso che sia stata un'ottima e opportuna legge. Ma è vero che il 1958 è lontano (molto: io nascevo in quell'anno); che le cose hanno preso una piega che la senatrice che costrinse De Gasperi a guardare nelle mutande dei democristiani non avrebbe mai potuto immaginare. Dobbiamo comunque tutelare la salute delle schiave.... È drammatico ma bisogna pensarci. Certo è che se cominciasse a toglierle dalla strada e a mette in galera gli schiavisti saremmo a buon punto.

3. Quei geni del Campidoglio pensano di stanziare qualche migliaia di euro al mese per mettere nelle strade dell'Eur (che diventeranno, si badi bene, a divieto di sosta!) dei camper con degli operatori sociali che vigilino sul benessere delle ragazze. È pazzesco. E non vale neanche la pena di commentarlo. In conclusione: forse ci penserà il Vaticano a far cambiare idea a Marino. Dove non può la ragione, può il potere. Ma questa idea pazzesca è un vulnus per me insanabile. È un punto di non ritorno. Roma, la città più bella del mondo, cuore della cristianità, dell'umanesimo, del calore magnifico di sole e intelligenza, non poteva sprofondare più in basso.

Torniamo sul brutto affare delle luci rosse all'EUR. Il Questore di Roma taglia corto: non si può fare. La Cei, nemmeno a parlarne. E il Sindaco? Annaspa, continua Daniela Minerva. Dell'idea balzana venuta a qualche balzano assessore capitolino di barricare le mignoitte in un lager di periferia abbiamo detto. Ora, il day after. Che si sinora su tre fatti essenziali:le parole di Marino a rai News 24: «bisogna proteggere la famiglia con i suoi valori, dare la possibilità alle persone di poter usufruire di un parco, di una strada senza trovarsi a dover dare spiegazioni ai propri figli» (1), un capolavoro di “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” che avrebbe dovuto convincere la Cei, la quale, però, non si è fatta convincere e ha detto: non se ne parla neanche (2). A chiudere la partita è il prefetto Giuseppe Pecoraro: «Tutta questa storia è una boutade, non ci sono riferimenti normativi. Anzi, una legge c'è: si chiama Merlin. Fare ciò che vorrebbe fare Marino senza un intervento del Governo o del Parlamento è un reato: è favoreggiamento della prostituzione». Cominciamo dalle parole di Marino che vuole proteggere i figli delle persone perbene. Mi metto nei suoi panni: lo spettacolo nelle strade di Roma è davvero osceno. Non farò la santarellina a far finta di non sapere che trans e povere ragazze se ne stanno seminudi, e nudi, per strada a offrire la loro tragica merce. E non farò finta di ignorare che questo stravolge la naturale entrata dei bambini e dei giovani nell'amore e nel sesso. E allora? Signor Sindaco, non sarebbe meglio evitare questo scempio con un migliore uso delle risorse e dei (discutibili) talenti che si sono prodigati in questa scemata? Non ci sono scorciatoie: l'unico modo per evitare gli spettacolini notturni e non che disturbano le famiglie per bene è recuperare le ragazze, dare loro un'accoglienza, un tetto, un permesso di soggiorno, un lavoro. Convincerle così a denunciare e mettere, conseguentemente in galera chi le opprime. Utopia? Forse, ma fare diversamente è barbarie. Chiunque (e molti mi hanno scritto sul blog e sulla mia mail privata) pensi che si deve “regolamentare” la prostituzione ha tutte le ragioni per cercare una soluzione, ma deve rendersi conto che questa soluzione non può, per nessuna comprensibile ragione, rendere moralmente accettabile che avvenga un commercio del corpo delle donne, che si accetti un orizzonte violato dei sentimenti che trasforma il sesso in violenza e sopraffazione. La Conferenza episcopale italiana, com'era ovvio, ha tuonato. Non che mi stanno simpatici i vescovi misogini e riottosi a qualunque modernizzazione del rapporto tra i generi ( persino all'idea di genere tout court), ma il loro pronunciamento è benvenuto. Perché Marino li starà ad ascoltare. Il prefetto dice, giustamente, che mettere le mignotte all'EUR e proteggerle significa violare la Merlin. Bravo Pecoraro. Ma a violare la Merlin oggi sono in molti. Mi piacerebbe che Pecoraro se ne occupasse. Infine: finirà tutto a tarallucci e vino. È inevitabile. Le ragazze continueranno a passeggiare seminude per le strade della capitale. I clienti continueranno a violentarle convinti che si tratti del più antico mestiere del mondo; e che l'uomo è incontenibile sessualmente quindi deve “sfogarsi”. I romani più giovani, come i coetanei di tutte le città italiane, vedranno sfilare quel commercio diventando sempre più insensibili a quanto esso rappresenta per il degrado delle nostre vite. Così è stato centinaia di volte: chiacchiere, chiacchiere e nulla accade. A Roma, come altrove, si è consumata una buffonata buona solo a portare qualche oscuro burocrate capitolino o di quartiere sui giornali e in Tv. E io spero tanto che il sindaco non ne sapesse niente e sia stato tratto in una trappola da qualche imbecille in giunta.

Il tema spacca, continua Daniela Minerva. Lo vediamo, nel nostro piccolo anche dalle reazioni dei lettori de L'Espresso. Chi continua a interrogarsi su una soluzione possibile e sostenibile al fatto ineluttabile che le prostitute ci sono, e continua a rimuovere la causa di questo dato di fatto chiedendo tutela e sicurezza per quelle ragazze che tutelate non sono a prescindere. E chi pone la questione di coscienza di uno sfruttamento tanto antico quanto infame. Ovvio che non c'é soluzione. Ma....Leggo troppo spesso quando si parla di prostituzione e revisione della legge Merlin la parola "ipocrisia". Come se chi non vuole saperne di accettarne l'ineluttabilità sia un povero struzzo anche un po' sciocco. Le puttane ci sono e i clienti pure: é il mercato, bellezza, e tu non ci puoi fare niente. Forse é così, ma solo se continuate a guardarvi l'ombelico. Perché è il nocciolo stesso della prostituzione che le persone di buona volontá devono provare a enucleare per un attimo: ci sono uomini che palpano, strusciano, penetrano e umiliano ragazze schifate, quando non rese schiave. Cosa c'é di ipocrita a non volere che accada? Esiste una assoluta coincidenza tra violenza sulle donne e consumo sessuale di strada (macchina, appartamento, bordello...). I ruoli sono gli stessi, i presupposti sono gli stessi (l'impulso maschile é irrefrenabile, la femmina é sempre ricettiva sessualmente, male non le fa anzi...). Leggiamo i racconti delle donne violate, delle bambine schiave dell'Isis, persino di quei galantuomini dei turchi che vogliono sposare le adolescenti così non imparano la dignitá di genere come fanno le loro sorelle maggiori. Leggiamo e ci indigniamo, si indignano anche quelli che, invece, parlano di ipocrisia se speriamo in un mondo senza servitù sessuale. Sono questi per lo più uomini, di buona volontá anche, ma privi della sensazione del corpo femminile che trema di fronte all'immagine di uno stupro, anche a pagamento. E sono donne, lontane dal corpo, private dello sguardo di genere. O forse solo gente per bene, ma distratta dal rincorrere la propria illuministica visione del mondo. Presi dal rimirarsi l'ombelico.

Il quartiere a luci rosse nasconde solo l'ipocrisia. Il sesso a pagamento in zone ad hoc emargina prostitute e clienti senza abolire il vizio. E costringe i poveri a pagare la doppiezza dei ricchi, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. L'argomento è scatologico, ma di moda. E, come tutte le mode, va e viene a seconda dei periodi: la prostituzione. Che ora è di attualità perché Ignazio Marino, il sindaco di Roma dalla bella Panda rossa, ha proposto col solito insuccesso l'inaugurazione di un quartiere a luci del colore identico a quello della sua famosa utilitaria. L'idea non è nuova eppure fa discutere quasi che fosse inedita. Quando un politico o un amministratore è in crisi di consensi, e desidera farsi notare, raschia il fondo del barile da cui estrae le conigliette. E avanti col dibattito. Delimitare una zona riservata ai commerci carnali serve solo a emarginare le puttane e i loro clienti, non certo ad abolire il triste fenomeno degli incontri a pagamento. Poiché siamo tutti abbastanza ipocriti da non voler ammettere che tale fenomeno sia inestirpabile, ci accontentiamo di non averlo sotto gli occhi o sotto casa. Senonché, se si toglie dal centro città l'ignobile attività del meretricio e la si trasferisce in periferia, si ottiene un risultato scarsamente democratico: non si disturba più la vista ai signori che abitano in condomini di lusso e si offende quella dei poveri cristi costretti ad alloggiare in edifici popolari o fuori mano. Spostando il problema da un luogo all'altro non lo si risolve. Questo lo capisce chiunque, tranne Marino. Al quale vorremmo ricordare che negli anni Cinquanta la senatrice Lina Merlin riuscì, dopo battaglie asperrime, ad abolire le case chiuse, altrimenti dette casini, dove le signorine esercitavano la loro arte (si fa per dire) in ambienti riservati, controllate dal punto di vista sanitario e disciplinate sotto quello tariffario. Gli avventori, chiamiamoli così, entravano, pagavano, facevano e nessuno si scandalizzava. L'iniziativa della parlamentare aveva due finalità: abolire lo sfruttamento di Stato delle mignotte ed evitare che queste fossero schedate e immesse in un elenco infame a disposizione delle questure. Intento condivisibile. Tuttavia non si può dire che lo sbaraccamento delle «ville del piacere» sia coinciso con l'annientamento della prostituzione che, in mancanza di un sito deputato, ha continuato a svolgersi per strada - incrementandosi - e in appartamenti. Da alcuni lustri a questa parte, il cosiddetto «mestiere» non è più esclusivamente femminile; anzi, i maschi che battono ormai sono più numerosi delle colleghe. È l'evoluzione della specie. Nell'Occidente sono stati esperiti vari tentativi per eliminare le puttane e i puttani, ma si è scoperta solamente l'acqua calda: anche in questo settore è la domanda che stimola l'offerta. Quindi, per azzerare la categoria di chi dà, sarebbe indispensabile azzerare contestualmente quella di chi chiede. Impossibile. Perché gli uomini hanno spesso le fregole e, non essendo selettivi o non potendo esserlo per motivi temperamentali o estetici, le placano ingaggiando lì per lì una professionista. I costumi mutano nel tempo, ma l'istinto animalesco di certuni (molti) resiste nei secoli dei secoli. Amen. È velleitario pensare anche solo di ridurre gli affari relativi al sesso mercenario. Bisogna rassegnarsi a convivere con puttane e puttanieri, che sono i foruncoli dell'umanità: ne curi tre o quattro e te ne spuntano altrettanti. Non esiste una terapia definitiva. Guarisci una pustola sul collo? Se ne forma una su un gluteo. Indignarsi è superfluo. Delocalizzare le trattative fra utilizzatori e utilizzate non comporta alcun vantaggio reale: significa scaricare un fastidio da un angolo all'altro, magari penalizzando la popolazione meno abbiente. Non sarebbe - non è - un'operazione degna di un progressista. Vero, sindaco Marino? Le conviene calmarsi. Invece che delle zoccole, si occupi dei ladri e dei mafiosi che infestano il Palazzo: non danno via la roba loro, ma prendono la nostra. È peggio.

"Solo un pasticcio. Serve il coraggio di aprire le "case". L'onorevole Daniela Santanchè critica il quartiere a luci rosse di Roma. Per lei è necessario un approccio più liberale volto a permettere la riapertura delle "case di tolleranza", scrive Manila Alfano su “Il Giornale”. E se fosse la solita trita e ritrita mezza misura all'italiana? È questo il dubbio di Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia, sull'idea di dedicare una zona a luci rosse che partirà ad aprile a Roma nella zona dell'Eur.

«È La classica soluzione del voglio ma non posso. Ma perché? Possibile che in Italia non si riesca mai ad affrontare un problema in modo radicale?».

Quindi favorevole o contraria?

«Assolutamente contraria. Questo progetto - a parte che lo vedo ancora molto molto nebuloso - mi sembra piuttosto un bordello a cielo aperto. Che bella trovata. Ma così si crea una zona di serie B, cioè la via delle prostitute che stazionano lì a tutte le ore. Ma che senso ha?».

L'idea è quella di monitorarle.

«Ma no. Qui siamo davanti solo alla più classica delle scelte italiane: quelle senza coraggio. È evidente che i politici romani hanno capito che c'è un'emergenza, che è un problema da affrontare ma non hanno trovato niente di meglio che recintarle. Più che un progetto vedo un pasticcio, un paio di strade dove ci sarà una concentrazione di prostitute a tutte le ore».

Dicono che ci saranno controlli...

«Si, ma è solo un trasloco di vie che di certo non piacerà alla gente che abita in zona. Giorno e notte a subirsi uno spettacolo del genere, senza pensare al valore delle loro case che scenderà in picchiata».

E allora lei cosa propone?

«Da sempre io sono per l'apertura di case chiuse. Non è difficile. In Europa è così. In Germania, in Svizzera le case chiuse sono gestite in modo esemplare. Perché invece da noi il problema deve sempre essere rimandato? O peggio ancora raffazzonato?».

Forse perché c'è chi spera che prima o poi la prostituzione finisca...

«Ma per piacere! È il mestiere più antico del mondo e per di più oggi coinvolge ragazze sempre più giovani, finite nel racket, sfruttate, abusate. Questo non è certo sintomo di un Paese civile».

SIAMO TUTTI PUTTANE.

Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male.

Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico".

La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.

Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.

Di chi è la colpa?

«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».

Le responsabilità sono tutte a sinistra?

«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».

Il suo è un saggio rigorosamente politico.

«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».

Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?

«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».

In quale si riconosce di più?

«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».

Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…

«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».

Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…

«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».

Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?

«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. in questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».

Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…

«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo.  ‘Siamo tutti puttane’ non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempe accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.

La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto.

In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga.

Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.

Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.

Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro.

I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.”

Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore.

“Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.

“Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.

“I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.

Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete.

Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili.

Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.

Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no!

Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.

Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.

Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora.  Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.

Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica.

Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.

LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.

Mettete in scena una commedia inesistente in cui editori mafiosi manovrano addirittura centinaia di voti popolari, o autori con famiglie numerosissime e stuoli di schiavi o clientes……

Campiello, una cinquina contestata. Un esito che non è piaciuto per niente al figlio Vittorio, che in serata ha sparato ad alzo zero come suo solito: «Sono indignato - ha detto - ma non perché hanno escluso mio padre, ma perché hanno perso l’occasione di far parlare di un premio che di suo è morto, e di fare un omaggio a uno dei fondatori, Gian Antonio Cibotto: cosa c’era di meglio che premiare un esordiente ultranovantenne piuttosto che il solito trentenne (in realtà Valenti di anni ne ha 50, ndr)? E cosa di meglio che fare un omaggio a Cibotto, dando spazio a un suo amico, che parla come lui del Po e della vita che gli scorre intorno? Così rinnegano le loro origini, sono degli incapaci. E tutto per far passare due libri Einaudi, una prova della loro mafiosità».

Campiello, tutti contro Sgarbi per la polemica sul libro del padre, scrive “Il Gazzettino”. Il Campiello riparte il giorno dopo da Vittorio Sgarbi. Dalla sua nuova entrata a gamba tesa sulle scelte di una giuria che ha deciso di lasciare fuori dalla cinquina finale il libro del padre esordiente a 93 anni. Riassumendo il pensiero del critico: il Campiello è un premio morto, ci sono mafiosità, persone incapaci, giurati a cui piacciono cose schifose eccetera. Ovviamente promettendo un bombardamento di strali futuri, già iniziato in tv. I destinatari di tali, simpatiche attenzioni cercano di non scendere in battaglia, limitandosi molto signorilmente a rispedire al mittente le tante illazioni, ribadendo come il Campiello sia un premio vivo, libero e del tutto autonomo nelle scelte, da parte di una giuria, che come quasi tutte le giurie, non ha trovato accordo unanime, ma ha scelto in piena serenità. Insomma: non c’è assolutamente voglia di infuocare la polemica, lasciando il profilo della risposta nella più ordinata ed elegante spiegazione. Riccardo Calimani, componente della Giuria dei letterati, spiega subito le scelte sue e dei compagni d’avventura: «Il libro del papà di Sgarbi è un buon libro, che è stato apprezzato e ben discusso da tutti noi. Quindi le sue reazioni sono assolutamente fuori regola, logica e assolutamente sbagliate e del tutto inaccettabili. La violenza verbale, poi, è deprecabile. Dire poi che il Campiello è morto non ha senso. Il Campiello è un premio vivissimo, assolutamente libero e lo dimostra proprio perché la presidente Monica Guerritore si è dichiarata non contenta dell’esito finale, questo a dimostrazione che non eravamo tutti d’accordo, come capita spesso nelle giurie, ma il verdetto finale ci ha lasciati del tutto sereni». Anche Piero Luxardo, presidente del Comitato di gestione, non accetta la "morte" del Campiello: «Morto? Le polemiche semmai dimostrano esattamente il contrario. Le manifestazioni di Sgarbi sono nelle loro consuete tinte diciamo estroverse, che fanno parte del personaggio. Pazienza, non saprei che altro dire, se non che il Campiello è un premio libero, trasparente, non condizionabile. Essendo la seduta pubblica, durante la quale tutti sanno chi e come ha votato, è chiaro che è impossibile parlare di risultato predeterminato. Ma comunque non voglio commentare certe frasi vivaci, sopra le righe. Noi non abbiamo nessun manuale Cencelli da soddisfare. Anche sulle opere prime abbiamo dibattuto in modo articolato, e siccome il Campiello passa spesso per un premio a tematica industriale, diventa paradossale che la scelta sia caduta su un romanzo che parla di intossicazione per amianto di un operaio». Infine lo scrittore Mauro Corona, uno dei cinque finalisti, che conferma la richiesta di Sgarbi a cedere il posto al padre: «Vittorio mi ha telefonato per questo. Ma le giurie sono come le sentenze dei tribunali: non si discutono. Mi ha chiesto un gesto eclatante, ma al di là di dire di no, non credo sia nemmeno contemplato dal regolamento. E poi non credo che suo padre sarebbe orgoglioso di approdare in questo modo in finale. Posso solo dire che il libro del papà è proprio un gran bel libro. A me non interessa sapere se qualcuno crede che il premio Campiello sia morto. Io ringrazio solo la giuria che ha avuto lungimiranza e coraggio a mettermi nella cinquina».

Passano Mari, Corona, Fontana, la Garavini e Falco. Fuori Sgarbi senior. La Guerritore voleva «un’altra cordata». E la stroncatura di Cordelli su «la Lettura» si fa sentire, scrive Marisa Fumagalli su “Il Corriere della Sera”. Non s’era mai visto al Campiello un presidente di Giuria esprimere con tanta schiettezza la delusione per il risultato della Cinquina che «non è la mia». E neppure era mai accaduto che, nel corso della seduta pubblica per la selezione dei finalisti, lo stesso presidente leggesse nell’aula Magna del Bo un brano di un’opera in gara. Con dizione perfetta, certo. Ed anche con quella dose di teatralità che si addice a un attore. Anzi, a un’attrice. Parliamo di Monica Guerritore, presidente della 52° edizione del Premio fondato dagli industriali del Veneto, che occupa da tempo una solida posizione di prestigio nel panorama letterario italiano. «La nostra cordata non ce l’ha fatta», ha detto chiaro e tondo, la Guerritore, in chiusura di votazione, alludendo evidentemente ad alcuni colleghi della Giuria (composta da 10 membri lei compresa), allineati nelle valutazioni dei libri in concorso. Vero è che, rispetto all’anno passato, la gara per entrare nella rosa dei 5, in marcia verso la vittoria che sarà decisa dalla Giuria Popolare dei 300, è stata piuttosto movimentata. Sei giri di tavolo per trovare la quadra della Cinquina, così definita: Roderick Duddle di Michele Mari (Einaudi, 8 voti), La voce degli uomini freddi di Mauro Corona (Mondadori, 6), Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (Sellerio, 6), entrati nella rosa alla prima votazione. Le vite di monsù Desiderio di Fausta Garavini (Bompiani, 6), alla seconda; La gemella H di Giorgio Falco (Einaudi, 5), alla sesta. Quest’ultimo ha dovuto giocarsela fino all’ultimo con Giuseppe Sgarbi, ultranovantenne, «padre d’arte» di Vittorio ed Elisabetta. «Il riscatto di un uomo delicato, sensibile, elegante, nei confronti di due figli e una moglie ingombranti», chiosava con ironia il giurato Philippe Daverio. Ma Lungo l’argine del tempo (Skira) ha dovuto cedere il passo a La gemella H. Con i voti di Silvio Ramat, Luigi Matt, Nicoletta Maraschio, Paola Italia. Poi, si è aggiunto Riccardo Calimani. Mentre Ermanno Paccagnini, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e Salvatore Silvano Nigro, agli ultimi giri, sono andati a zig zag. «La rosa ideale spesso comprende più di 5 libri — osserva Paccagnini —. In dirittura d’arrivo si deve stringere, e qualche voto viene dato più per contrastare che per favorire». Nella cinquina caldeggiata dal presidente, infine, avrebbe figurato soltanto uno dei favoriti: Michele Mari. (E neppure al primo posto, al terzo). Ma quanto è oggettivo il valore di un libro? Ad ogni edizione del Campiello, assieme alle tendenze di stagione, ai filoni letterari, affiora nel dibattito anche il tema dei criteri di valutazione delle opere. Quest’anno, si segnala una polemica divampata fuori dal Premio ma che in qualche misura lo riguarda da vicino. Al centro c’è lo scrittore entrato in cinquina Giorgio Falco, indicato tra gli esempi di mediocrità narrativa da Franco Cordelli, in un articolo pubblicato la scorsa domenica su «la Lettura», supplemento culturale del «Corriere della Sera». Il critico stronca l’autore de La gemella H, per poi lanciare un attacco alla «palude» letteraria dove si annidano gruppi che perseguono «la sopravvivenza editoriale». E altro ancora. La riflessione di Cordelli non è passata inosservata. Consensi e dissensi si rincorrono sul web e sulle pagine culturali dei quotidiani. In attesa della sfida finale al Gran Teatro La Fenice di Venezia (13 settembre), il Premio di Confindustria Veneto ha già un vincitore. Si tratta del Campiello Opera Prima 2014, attribuito dalla Giuria a La fabbrica del panico di Stefano Valenti (Feltrinelli). «Racconta una storia familiare che diventa corale di fronte alla malattia e alla morte per amianto», si legge nella motivazione. A narrarla, muovendosi tra i ricordi, è il figlio quarantenne che sente la necessità e il dovere di stringere un rapporto più ravvicinato col padre, sceso a Milano dalla Valtellina per morire in fabbrica. «Per questo riconoscimento, il competitor di Valenti era Giuseppe Sgarbi», rivela Monica Guerritore.

La palude degli scrittori. Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni?
Sguardo su autori o «tribù» che si sono formate, forse in modo inconsapevole, scrive Franco Cordelli su “Il Corriere della Sera”. Le «sagome sudate»... Quando sono arrivato a queste due parole ho avuto un moto di rabbia, di sicuro eccessivo. Ma si sa che per un sintagma si può perdere la testa — in un doppio senso. Le «sagome sudate», che per me non vuol dire niente, compare in un romanzo di Giorgio Falco: La gemella H. Compare nella prima pagina. Poi invitando me stesso alla calma ho messo da parte La gemella H e ho preso il libro precedente di Falco, L’ubicazione del bene, che avevo conservato ma non letto. Di questo sono arrivato fino in fondo. «L’aria accucciata».Ne cito due frasi: «Le pale del ventilatore girano lente, sembrano acchiapparsi a vicenda, al prossimo giro, spiate dall’aria accucciata». Sappiamo bene che si possono usare metafore in mille modi, che si possono avere visioni, che si può stravolgere fino a essere considerati veggenti. Ma se si può accettare che le pale sembrino acchiapparsi, chi ha mai visto l’aria accucciata? L’altra frase, ancora da L’ubicazione del bene, dice: «L’aria (sempre l’aria! ma è molte pagine avanti, in un altro racconto) arriva dal basso, noi siamo a disagio nel restare fermi, disabituati a quell’ariosità gratuita, così andiamo verso uno dei cannocchiali che, come molte altre cose, per avere senso ha bisogno dell’energia di una moneta». Come non pensare che per scrivere «l’energia di una moneta» di fantasia bisogna averne molta? Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa. Sfiguramento proprio del conflitto bellico. Alla lettura di Falco ero arrivato sull’onda di una stampa a lui molto favorevole, nell’ambito di una circoscrizione che per comodità diremo d’«avanguardia». Ed ecco poi (dopo l’avvenuta lettura) proprio su La gemella H un articolo di Giorgio Vasta, il cui primo libro non avevo finito di leggere per motivi analoghi a quelli di Falco. Anche dell’articolo di Vasta do due esempi di prosa che a qualcuno è parsa letteratura pura e a me pura farneticazione. Prima frase: «Si ha la sensazione che Falco sia dominato da una duplice ossessione: da un lato dal bisogno di ricomporre per via letteraria una genesi del contemporaneo, vale a dire quella cosa che chiamiamo presente; dall’altro dal desiderio di rendere conto nella lingua (e dove, se no? né posso trattenermi dall’osservare che contemporaneo e presente sono la medesima cosa) — rendere conto nella lingua di ogni microfenomeno umanamente percepibile — gli infrasuoni, l’ultravioletto, le più minuscole increspature dell’esistente». La seconda frase di Vasta dice: «Il transito dalla guerra alla pace permette un’ulteriore consapevolezza: la messa in torsione dell’etica (questo, della frase che qui ripeto, è il picco), il suo sfiguramento proprio del conflitto bellico, non è qualcosa che termina con la fine della guerra ma prosegue in forme più attenuate e diluite, socialmente compatibili». A me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati. Eppure così è. Riconoscimento di una tribù. Li ritroviamo in una tanto ricca quanto tendenziosa antologia di Andrea Cortellessa, La terra della prosa, dedicata agli scrittori che hanno esordito dopo il 1999. Ed è a questo punto che m’è sembrato di uscire da un lungo sonno, quello in cui, e io con essa, è caduta la letteratura italiana contemporanea: non più un campo di forze, una scacchiera su cui sia possibile — come era fino alla soglia degli anni Novanta — scorgere e valutare linee di tendenza, gesti peculiari, prese di posizione esplicitamente e implicitamente teoriche e soprattutto opere di qualità, impugnate con argomenti critici riconoscibili e validi, se non per tutti almeno per i più. Invero la letteratura italiana degli ultimi vent’anni (a cominciare dal declino della critica, impoverita ancor più di romanzo e poesia) non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio. Non c’è altro. Oppure c’è, a guardare bene, meno distrattamente, il riconoscimento di una tribù: una adesione prodiga di stilemi iperbolici. Sì, la faccenda è uguale per tutti, o quasi tutti; la plausibilità del valore è minima o nulla; la palude nasconde gruppi che non si riconoscono come tali, che neppure sanno di esserlo, e in cui ognuno per conto proprio persegue lo stesso fine — vale a dire (prima ancora del successo) la sopravvivenza editoriale, o presso l’editore per il quale si pubblica, o dello stesso editore, insidiato a sua volta da sempre nuovi editori — almeno quanto costoro sono insidiati da sempre nuovi scrittori. Non è questione di «buoni» o «cattivi». Questo grafico, il grafico che qui presento, è un tentativo di guardare dentro la palude — più o meno dove non si vede niente, o poco, o in modo confuso. Ovviamente ciò che vedo e trascrivo è frutto della mia percezione, del mio sguardo. Ma non è la mia opinione intorno al buono o al cattivo. Parlo solo di ciò che tra un anno potrebbe essere diversissimo ma che in questo preciso momento balza agli occhi, ossia di ciò che viene valutato criticamente ad un certo livello, di qualità, o appunto di intrinseca necessità perfino personale. Parlo non già d’una totalità, ma d’una parte — appunto la meglio visibile. Voglio chiarire: parlo di ciò che viene percepito (che credo venga percepito in questo momento come culturalmente significativo — almeno un poco); e di come chi viene percepito percepisce se stesso e gli altri, i lontani e i meno lontani, vale a dire gli appartenenti alla stessa tribù. Ne consegue che i cento scrittori non nominati non lo sono per la medesima ragione, perché poco o troppo percepiti. Essi appaiono culturalmente irrilevanti (almeno nell’immediato: la maggior parte dei poeti, che ha rinunciato a dire qualcosa in più, rispetto ai propri versi) o già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza o quanto meno dignità (culturale e, naturalmente, artistica). In quanto ai settanta nominati. Il numero è una mera casualità o, se si vuole, una mezza necessità. Le categorie, o caselle, o tribù, o famiglie. Sono qui ridotte allo schema parlamentare perché esso resta, benché a vanvera, eloquente. Eloquente, come? Non posso che semplificare, ridurre, stravolgere. A sinistra (novisti) troviamo un che di simile a una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore; esterna a questa, una sparuta e ideologicamente incoerente raccolta di nomi di irriducibili guardiani dell’hic et nunc (dissidenti); a destra, quanti mostrano un’orgogliosa indifferenza per il tempo che passa e sono spesso riconosciuti in quanto sempre reattivi a ciò che viene di sinistra presunto (conservatori); l’estrema destra, di matrice dannunziano-pasoliniana, si caratterizza per un’aggressività verbale e una vistosa muscolarità (vitalisti); a fare da ago della bilancia, il centro-moderato, una forza ad alta vocazione istituzionale pronta ad assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce (moderati); ai margini il gruppo misto — simile al suo analogo parlamentare — composto da minoranze, transfughi e orfani; assisi nel distacco della loro indiscussa celebrità, i senatori a vita guardano con relativa attenzione a quanto gli accade intorno. Da questi settanta nomi ne estraggo due per diminuire i possibili equivoci. Walter Siti compare tra i novisti né in ragione della forma dei suoi romanzi né in ragione dei loro contenuti, ma perché pur essendo egli un uomo fondamentalmente di destra («resistere non serve a niente») fu oggetto di ammirazione presso lettori che si considerano di sinistra, o meglio cultori del nuovo, avanguardisti, sperimentali ecc. Giorgio Ficara — il cui Riviera è considerato un contributo innovativo, nella riconosciuta crisi e insopportazione del romanzo, a questo genere da lui stesso ritenuto obsoleto (ma per me Riviera, comunque eccellente, è un libro di viaggio) — Ficara compare tra i conservatori per ragioni che ritengo del tutto casuali, per avere egli quegli amici, quei sostenitori, le altre dieci persone nominate nel suo schema: che sono quelle a lui più vicine, o dal punto di vista del gusto o nella vita di tutti i giorni.

Cordelli, penna rossa ma distratta. La critica colpisce «giovani avanguardie» dotate di un pensiero solido, eppure assolve scrittori più famosi che usano una lingua desueta e lontana dal presente, replica  Gilda Policastro su “Il Corriere della Sera”. A leggere lo sfogo di Franco Cordelli uscito domenica su «la Lettura», che senza scandalo possiamo definire idiosincratico, vien da chiedergli immediatamente dov’era, negli ultimi (a dir poco) dieci-quindici anni, mentre anche da noi s’inveravano le profezie di Schiffrin e gli allarmi di un’editoria soccombente alla necessità di trarre profitto non solo o non più dal fatturato complessivo ma da ogni singolo titolo stampato, col sacrificio programmatico dell’opera costata al suo autore, diceva Leopardi, «anni di fatica e grandissimo lavoro» e destinata in partenza agli altrimenti famigerati venticinque lettori o ancor meno. Dov’era mentre gli editori diventavano imprenditori e gli editor venivano assunti di preferenza tra ragazzetti non laureati, che dei libri pretendevano innanzitutto una sinossi, aspettandosi (o esigendo) poi che lo stile si adeguasse per contratto alle trame seriali come sceneggiati da prima serata di Raiuno, e normalizzando qualunque violazione (l’iperbato, questo sconosciuto) linguistica, stilistica, strutturale. Dov’era quando l’aggettivo «rastremato» veniva da uno di codesti pischelli espunto da una copertina (di ciò ha esperienza diretta chi scrive) perché «non esiste in italiano», salvo inserirci di suo pugno un errore marchiano di concordatio (un’endiadi in una bandella vorrebbe il verbo al plurale: vaglielo a spiegare); e dov’era quando gli editori si ostinavano a selezionare gli autori e i libri dei rispettivi autori in base alle vendite del libro precedente, quando gli anticipi milionari si riservavano agli autori televisivi e agli altri non restava che elemosinare e ringraziare in ginocchio per il compenso corrisposto a rate e appena appena superiore alla pessimistica previsione di vendita dei librai. Tutto questo, secondo Franco Cordelli, è ininfluente, non riconfigura il perimetro del campo letterario, non lo determina, non lo condiziona, non gli cambia i connotati? Mentre negli ultimi dieci-quindici anni si è distratto per sua stessa ammissione, Cordelli oggidì non trova di meglio, per rientrare nel dibattito sul romanzo contemporaneo, che impugnare la penna rossa e emendare gli aggettivi impropri di Falco e Vasta, i due scrittori più apprezzati della generazione cosiddetta TQ. Quelli che riescono, malgrado la loro raffinatezza stilistica e complessità concettuale, a farsi pubblicare in sedi come Stile Libero (il cui editor sarà uno di quei ragazzetti di cui dicevamo: e infatti non edita, e giù errori, incongruenze, ridondanze) e Laterza, a scrivere su «Repubblica», a farsi recensire e premiare. Se con merito o senza, non lo deciderà l’epiteto «sudato» (leopardiano anch’esso, tra l’altro), con buona pace del Nostro, il quale non ha mai avuto simpatia per le avanguardie, e che oggi, come quelle al tempo, non ha simpatia per il romanzo egemone, specie se generazionale (con qualche sparuta eccezione: lo stilista Bajani, i cui romanzi scorrono piacevolmente e però dopo un giorno o due si dimenticano come una bella bevuta d’acqua fresca dopo una passeggiata in collina). Ma come si fa a liquidare l’opera di un autore stralciandone un sintagma? Si potrebbe ripetere lo stesso esercizio con tutti i libri, classici compresi e nessuno escluso. È come quando vai dal medico con le analisi fatte di fresco e gli sottolinei il valore per te ansiogeno del colesterolo o della glicemia improvvisamente aumentata. Non è serio se si allarma a sua volta, se diagnostica una malattia terminale. È serio se ti chiede di ripetere le analisi, perché è il trend a determinare la patologia, non il caso isolato. E il benessere del corpo non si misura dal singolo organo eventualmente in sofferenza, ma dall’insieme. Giorgio Falco e Giorgio Vasta, con buona pace di Cordelli, sono due tra i migliori scrittori emersi nei famigerati Anni Zero per consapevolezza del mondo (non solo letterario) e padronanza della scrittura, ma soprattutto perché la loro scrittura non è un orpello né un fumogeno bensì l’impalcatura di un pensiero solido (o, piuttosto, è il pensiero a costituire l’impalcatura di una facciata più o meno riuscita a seconda dello specifico libro e della singola pagina), portatore di significati. Appropriandoci del metodo Cordelli, prendiamo ad esempio Antonio Scurati (che nella tabellina annessa al pezzo – o viceversa? - si merita un posto d’onore chissà perché tra i vitalisti, accanto ai consentanei Genna e Di Consoli e ai diametralmente opposti Nove e Moresco): come esordisce sulla pagina la protagonista del suo ultimo romanzo (candidato a tutti i principali premi letterari, anche quelli che hanno nella giuria professoroni e cattedratici)? «Giulia ha erotto in un pianto convulso» (sic!). E poco più avanti scopriamo ammantate di un’«indubbiamente indubbia bellezza» le rivali della medesima Giulia. Ahi: dov’era l’editor quando questi specimina di vitalismo andavano in stampa? E Cordelli e la sua penna rossa, ubi erant. Ma la vera colpa di Scurati non è nemmeno quella sua lingua desueta e improbabile come il patetico rewind di una nonna che si ostini a parlare di Carosello al nipotino che gioca coi Pokemon, è piuttosto l’incapacità di rappresentare un mondo, il mondo come lo vede lui, persino, e di pretendere a ogni nuovo libro di sciorinarci ore rotundo le sue trite consapevolezze sociologiche, incastonate in una qualche letale tramina raffazzonata. Perché Cordelli non si accanisce piuttosto su Scurati? Trova che sia più opportuno che il romanzo contemporaneo si occupi di padri fedifraghi e morbosità cronachistiche assortite che di terrorismo e olocausto? Risponderebbe che non gl’importa di cosa, ma di come. Dunque avevano ragione i deprecati neoavanguardisti, ma anche Nanni Moretti: chi parla male pensa male, le parole sono importanti. E sono tanto più importanti le parole di un critico monumentale come Cordelli, soprattutto quando consacrano o escludono, più che mai in una tabellina che si preoccupa di mappare il contemporaneo seguendo i percorsi canonici dell’appartenenza all’antico o della propensione al nuovo. Giglioli, Mazzoni, Cortellessa, Laura Pugno e Valeria Parrella però qui vanno a braccetto, tutti insieme, scrittori e critici e certi scrittori con certi critici. Ubi sunt (tra i novisti cosiddetti), a dire solo di alcuni (e di alcune: esistono anche le donne-critico, Cordelli!) Cecilia Bello Minciacchi, Daniela Brogi, Clotilde Bertoni, che recensiscono con una competenza e profondità che non ha decisamente nulla da invidiare ai colleghi (maschi) laureati da Cordelli, poesia, romanzo, cinema contemporanei? Perché se nella palude ammette di non orientarsi, non fa allora come in Dante, dove «quei c’ha mala luce» può volgere lo sguardo solo verso ciò che è lontano rinunciando, per dichiarata «vanità d’intelletto», a ciò che «s’appressa?» Riviera. No, dico: Riviera. Ma chi potrebbe parlarne, tra i critici a me coetanei (e non solo: il problema non è di rottamazione ma di ampiezza di sguardo), in una disamina del romanzo contemporaneo da affossare aut salvare? E chi salverebbe, tra i critici del romanzo contemporaneo, i pur volenterosi Andrea Caterini e Stefano Gallerani a scapito di Paolo Giovannetti, Pierluigi Pellini e Gianluigi Simonetti (marchiati forse dall’aborrita provenienza accademica, ma certamente con maggiori e migliori titoli all’attivo dei nominati), chi potrebbe mai dire, avendo letto (e riletto: che il grande romanzo è quello che vuoi e puoi rileggere a distanza di anni) Scuola di nudo e Troppi paradisi, che Siti è un reazionario? Cos’è più reazionario, mirare alla pagina levigata (e nei fatti indolore) o alla sostanza marcia e brutta delle cose, ostentare un italiano da romanzo ottocentesco in traduzione o «sapere bene come scrivere male»? Cordelli, l’Armani di Ponte Milvio, si contamini con altri mondi e altre forme (altro che il vitalismo all’amatriciana tirato in ballo) come ha fatto Siti, e se non ne ha il coraggio (letterario, intendiamo), che almeno si lasci contaminare dalle parole, trascurando, nelle sue faziose, raffinate, elitiste pagelline, le sapienti tessere lessicali, la callida iunctura, l’agudeza. Per quello ci sono i classici di sempre, da Orazio a Marino a D’Annunzio a Landolfi, fino a Manganelli. Che poi l’italiano (letterario) è proprio come la salute: ognuno se ne allestisce una versione e visione conveniente e ci si adatta, anche coi peggiori guasti. Perché sono quelli, insegnano i foucaultiani, a rendere al corpo come meccanismo la sua unicità. A questo bisogna guardare, quando si emette la diagnosi: anche perché i sani sono nella vita normale (che Cordelli si picca di privilegiare stigmatizzando l’aggettivazione incongrua dei deprecati «due Giorgi») molto spesso dei noiosissimi ipocondriaci, non trovate?

In Italia, la vera «palude» risiede nello scarso sostegno alla cultura. Pochi fondi per gli scrittori, mancanza di una politica che vada a nutrire quella «società culturale» che potrebbe risollevare anche l’economia, replica Raffaella Silvestri su “Il Corriere della Sera”. «Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni?»: domenica scorsa, leggendo l’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura», ho cercato di farmi la stessa domanda, pur partendo da presupposti diversi. Avevo provato per la prima volta a fare il punto della situazione editoriale italiana per un pubblico straniero, sul «New York Times»; così domenica ho cominciato, in un certo senso, una riflessione a ritroso: dal raccontare com’è casa mia a un estraneo, provo ora a osservarla come se la vedessi per la prima volta dall’interno (del resto, da pochissimo tempo la visito dall’interno e ancora non ne distinguo le stanze con chiarezza). Dov’è il sostegno agli esordienti? Mi sembra, intanto, che la produzione editoriale degli ultimi vent’anni sia fortemente e tristemente segnata da due elementi: in primo luogo una mancanza di fondi dedicati ai programmi culturali, agli scrittori esordienti soprattutto. Questo lascia interamente alle case editrici il compito di leggere, scoprire, «allevare» la nuova generazione di scrittori, quelli che segneranno la produzione editoriale dei prossimi vent’anni. In un’industria in contrazione, che perde il 7% di anno in anno, e che di conseguenza dispone risorse più limitate di un tempo, questo mi sembra un compito titanico, che meriterebbe il supporto di istituzioni equivalenti, ad esempio, al francese Centre National du Livre. Dall’altra parte, poi, c’è l’anomalia legata ai pochi riconoscimenti dati alle voci femminili italiane. Voci che esistono, producono narrativa di qualità, eppure vengono citate meno dei loro colleghi uomini, eppure raramente vincono premi veramente prestigiosi (l’ultimo Strega più di dieci anni fa: sintomo forse che, come nella società in generale, anche nella società letteraria la situazione di gender non vede miglioramenti). Se questi due punti poco hanno a che fare con le categorie della palude, molto hanno a che fare invece con la produzione che troviamo in libreria, molto c’entrano, anche, con il numero esiguo di scrittori chiamati, in modo secondo me condivisibile, «moderati»: scrittori di cui ci sarebbe invece un forte bisogno, proprio per la loro caratteristica di «assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce». La società culturale. La società culturale è la parte della società che ogni intellettuale dovrebbe provare a estendere, in un’Italia in cui il 57% della popolazione non ha toccato un libro nell’ultimo anno. La società culturale, per come la intendo io, è quella che legge i giornali, compra i libri, sa decifrare un testo complesso (il 70% degli italiani oggi, secondo l’OCSE, non è in grado di farlo). Storicamente, la società culturale italiana rappresenta una piccolissima parte della popolazione. Ci sono varie ragioni per cui questa è la verità oggi: la nascita tardiva di una classe media, la televisione che non ha contribuito a crearla (né, del resto, sarebbe stato suo compito farlo). Ragioni storiche che tendono tutte alla situazione odierna: una polarizzazione della cultura, più che una frammentazione precisa. Da una parte la letteratura cosiddetta alta, dall’altra parte quella cosiddetta di consumo, una distinzione più triste di quella della palude, eppure, forse, più vicina alla percezione del fruitore medio di cultura italiana. Si tratta di una percezione che ha bisogno di essere infranta, cambiata, sostituita con una diversa, più democratica. Perché se, come sosteneva Spinazzola, ogni libro risponde a un bisogno del pubblico, esiste una reale necessità di mediazione non giudicante e non prevenuta fra questo bisogno e l’offerta, così ampia, di letteratura contemporanea.

Giù le mani dalla critica di Cordelli. Il suo è un clamoroso atto di libertà. La polemica nata significa che molti scrittori di oggi hanno una straordinaria opinione di se stessi, e che null’altro si aspettano – dalla critica e dalla vita – che l’applauso, replica Andrea Di Consoli su “Il Corriere della Sera”. Si potrebbe dire — e non insisterò su questo, perché sarebbe una scorciatoia un po’ ribalda – che la debolezza dell’avanguardia letteraria italiana a partire dal Gruppo 63 sia stata la robustezza teorica e la fragilità delle opere letterarie corrispondenti. E non insisterò su quest’aspetto per tanti motivi, anzitutto perché ogni critico onesto dovrebbe sforzarsi di essere anche almeno un po’ uno storico, e perciò un intellettuale rispettoso e magari indulgente, soprattutto nei confronti della commovente fragilità di ciascun scrittore, comunque la pensi o la si pensi. Le accuse al «gruppo sperimentale». Eppure mi rendo conto che facile non è, questa massima tolleranza che mette a dura prova le certezze del nostro io, cioè del nostro gusto, perché forte è la tentazione di agire per impulsi umorali, oppure per settarismi, fanatismi. Dico questo perché molto mi hanno sorpreso le insofferenze, le stizze rancorose e gli anatemi rivolti a Franco Cordelli, reo di aver scritto un articolo su «la Lettura» dello scorso 25 maggio al quale era annesso uno schema di scrittori classificati secondo macro-categorie abbastanza generiche, com’è inevitabile per simili sistemazioni giornalistiche. Al di là degli insulti, figli di una società che molte ambizioni sollecita e troppe frustrazioni procura, il nodo critico rilevante, anche a livello di cronaca letteraria, è il divorzio di Cordelli con la letteratura e critica «novista». In sostanza, Cordelli ha sconfessato in un articolo – che evidentemente, vista l’impetuosità delle reazioni, covava da tempo – autori del «gruppo sperimentale» come Giorgio Falco, del quale Cordelli stigmatizza «la volontà di essere originali, il mettersi in posa». Può una teoria letteraria così reboante accontentarsi? Personalmente non ho letto Falco, e dunque nulla posso dire sulla sua opera, ma è evidente che la dura sortita di Cordelli è figlia di un ripensamento che ha il sapore di un’abiura o, più correttamente, di una ritrovata libertà; oppure, a un livello più malizioso, dell’eterno ritorno della questione che ponevo in apertura di articolo, ovvero se davvero una così reboante teoria letteraria possa poi accontentarsi di partorire opere che sembrerebbero non all’altezza delle premesse teoriche con le quali si presentano. Nulla, ripeto, posso dire su Falco; ma qualcosa posso dire intorno all’equivoco – sul quale pure intervenni in passato in polemica con Cordelli – che si è determinato in sede critica soprattutto a partire dalla pubblicazione del romanzo Il Duca di Mantova (ricordo per inciso che non solo questo romanzo, ma anche Il poeta postumo del 1978, furono opere di cosiddetta autofiction, e davvero non si capisce come altri più attardati si siano visti riconoscere il merito di aver inaugurato questo genere in Italia) che rappresentò dal mio punto di vista il vertice più alto dell’adesione da parte di Cordelli – mi si perdoni la semplificazione – alla «scrittura nova», spesso sollecitata e quasi modulata dal Andrea Cortellessa, notevole critico letterario afflitto, purtroppo, dal morbo del settarismo. Cordelli è stato qualcosa in meno e qualcosa in più di questa prospettiva. Parve, a quell’altezza, che tutta l’opera narrativa e critica di Cordelli fosse nata da una costola un po’ eretica del Gruppo 63. Io sapevo, al contrario, che le cose non stavano in questo modo, anche perché non potevo dimenticare opere romanzesche quali Guerre lontane e Un inchino a terra, che nulla avevano da spartire, pur ribadendo la natura non conciliata della sua idea di romanzo, con chi auspicava e auspica una letteratura resistenziale, sabotatrice, arma primaria per lottare alla radice (linguisticamente) «il sistema», che poi è semplicemente la vita, cioè la realtà. Cordelli è sempre stato qualcosa in meno e qualcosa in più di questa prospettiva. Non mi sfuggì per esempio in anni antecedenti a Il Duca di Mantova la sua adesione a scrittori quali Carlo Levi, Ennio Flaiano, Oreste del Buono, Giancarlo Fusco, Sandro De Feo; scrittori, cioè, di «terza strada», sintesi e dunque avanzamento del conflitto – spesso puramente estetico-retorico – tra Avanguardia e Tradizione. Nessuno quanto Cordelli ha criticato tutte le avanguardie del teatro. E voglio ripeterlo a beneficio di quanti non lo sanno o fingono di dimenticarlo: nessuno come e quanto Cordelli ha raccontato e criticato tutte le avanguardie possibili del teatro d’avanguardia italiano, almeno dalla fine degli anni ’60 in poi – e la stessa cosa, a ben pensarci, vale per la letteratura, non soltanto italiana. Dunque Cordelli è uno scrittore d’avanguardia? La risposta è no, e questo non significa affatto che egli sia scrittore della tradizione, oppure del romanzo conciliato, compiaciuto della propria meccanica armonia. Cordelli è, appunto, in una «terza strada», in un’oscillazione estremamente complessa, spiazzante, nutrita, sempre consapevole della dannosità di «valori» o nevrosi quali il settarismo, l’odio programmatico per la realtà, il sentimento di superiorità di chi pensa di poter dividere il mondo in dannati e salvati o, ancora peggio, in happy few soddisfatti di possedere i segreti della cabala stilistica, che poi spesso si risolve in un banale esibizionismo lessicale (ché il lessico, purtroppo, non è lo stile). Ora io non entrerò nella polemica sulle collocazioni degli scrittori in quella o in quell’altra macro-categoria. Io stesso, che sono stato collocato tra i «vitalisti di destra», avrei molto da ridire, ma non già in chiarezza, ma dal punto di vista del dubbio, perché, a ben pensarci, mi sarei trovato assai bene anche nel «gruppo misto», tra i «conservatori», oppure tra i «dissidenti». Guardiamo con ammirazione a un gesto dolorosamente giocoso. Ma me ne sto con ironia nel casellario dove Cordelli mi ha voluto mettere, e mai mi sognerei d’insultarlo – come ha fatto un giovanotto assai arrogante e presuntuoso, fermo al suo primo libretto – per il solo fatto di non avermi messo altrove (dove poi, tra i «novisti», i «senatori», i «moderati»?). Non scherziamo, per favore. Piuttosto guardiamo con ammirazione a un gesto dolorosamente giocoso che ha fatto arrabbiare tutti, e che ha azzerato in un colpo solo ogni tentativo di assimilare Cordelli a un «gruppo». Perché il suo, di fatto, è stato un clamoroso (e, se si vuole, spavaldo) atto di libertà. Libertà, per esempio, di poter dire che il libro di Alessio Torino è un bel romanzo senza affidargli ruoli palingenetici o resistenziali, visto che troppo subordinata alle logiche della politica peggiore appare il parlar bene di libri magari belli (come quello di Falco) usandoli come clave per liquidare il mondo intero, in maggioranza venduto al capitalismo, linguisticamente corrotto e stilisticamente miserabile. E mi chiedo: è possibile parlar bene di un libro senza usarlo per fini politici, ovvero di potere, di cordata? Giù le mani, perciò, da Cordelli, dalla sua complessità. È possibile evitare la costituzione di gruppi o gruppuscoli, spesso «usati» come scudi umani per portare avanti lotte che null’altro sono se non lotte politico-ideologiche, oppure, perché nasconderlo?, lotte di egemonia personale? Giù le mani, perciò, da Cordelli, dalla sua complessità, dalla sua sofferta sintesi tra Avanguardia e Tradizione, tra sguardo freddo e lirismo; e, soprattutto, rispetto per uno scrittore che è tra i pochi ad avere un posto sicuro nella nostra storia letteraria post-68. Aggiungo infine a beneficio di qualche livoroso in servizio permanente che questo non è un articolo in difesa di Cordelli (troppe volte ho polemizzato con lui per meritarmi questo sospetto). È, molto più semplicemente, un articolo che vorrebbe richiamare, me per primo, al dovere civile della tolleranza rispettosa, dell’autoironia e della leggerezza. Perché gettare fango su uno scrittore che ha deciso di prendere le distanze da un’assimilazione critica non riuscita e che ha voluto esprimere, avendone l’autorevolezza, una schematizzazione della letteratura odierna che gli sembra più viva e presente? E perché non concordare con lui che troppi tra coloro che gettano fango solo perché «esclusi» o «mal collocati» nulla hanno letto non soltanto dello stesso Cordelli ma anche – e faccio dei nomi a caso – di Vassalli, Celati, Montefoschi o La Capria? Perché conta soltanto l’egemonia del e nel presente, ovvero il successo, fosse anche l’anti-successo degli scrittori dell’Avanguardia di oggi – spessi «usati», ripeto, in funzione politico-ideologica? Una società letteraria matura e non frustrata avrebbe accolto l’articolo e lo schema di cui stiamo parlando discutendoli nel merito, oppure accettandoli con un sorriso o uno sfottò. È successo invece il finimondo, in pubblico e in privato. Probabilmente questo significa che molti scrittori di oggi hanno una straordinaria opinione di se stessi, e che null’altro si aspettano – dalla critica e dalla vita – che il monumento, l’applauso, il complimento assoluto, sperticato, superlativo.

La «palude» è letteraria e politica. Ma la cultura ha bisogno di conflitto. Le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio), replica Gabriele Pedullà su “Il Corriere della Sera”. Le metafore sono importanti. Lo ha ricordato Andrea Cortellessa, rimproverando a Franco Cordelli di aver associato l’immagine della palude al concetto di mappa: le paludi, proprio perché instabili, non possono essere cartografate. Cortellessa ha rivendicato invece il lavoro di quanti – a cominciare dalla sua antologia La terra della prosa – hanno cercato di mettere un po’ di ordine nelle patrie lettere con i soli strumenti adeguati per un simile compito improbo: leggendo, ragionando, assumendosi la responsabilità di scegliere. Proprio grazie a questo lavoro un primo atlante ora c’è. Come tutti i lettori dell’articolo di Cordelli anche io sono stato colpito da questa immagine, che a molti degli inclusi e degli esclusi è apparsa un insulto gratuito al proprio lavoro. A me l’immagine della palude non dispiace. La palude non allude solo alla instabilità dei confini (in questo caso del canone degli esordienti dal 1999 in poi), ma suggerisce inevitabilmente un luogo sgradevole e ben poco ospitale. Sono anzi sicuro che se Cordelli avesse formulato la medesima idea adoperando una similitudine più gentile, per esempio se avesse parlato di «brodo primordiale» della letteratura del XXI secolo (la soluzione di acqua e molecole carboniose da cui sono nate le prime molecole organiche), nessuno si sarebbe offeso. Salvo, ovviamente, gli assenti. A me invece l’immagine della palude non dispiace affatto. E non per le ragioni di Paolo Sortino, che ha rivendicato la formula di Cordelli per descrivere il corpo a corpo dello scrittore nella melma della lingua e si è paragonato a «una carpa gravida di batteri». Credo, semplicemente, che la metafora di Cordelli non sia geografica (come pensa Cortellessa), né biologica (come ritiene Sortino), ma più verosimilmente politica. Palude come massa informe, interessata a sopravvivere. La Palude, non necessariamente con la lettera maiuscola, è il soprannome che al tempo della Rivoluzione francese avevano ricevuto i membri della Convenzione nazionale non schierati né a sinistra, con la Montagna, né a destra, con i Girondini: i quattrocento parlamentari pronti a fornire indifferentemente il proprio sostegno agli uni e agli altri, appoggiando prima il Terrore giacobino e poi la controrivoluzione del Termidoro. Una massa informe, interessata soprattutto alla propria sopravvivenza politica e composta di cinici gregari, insuperabili nel fiutare il vento con il necessario anticipo per riposizionarsi. Anni fa, sfogliando per una vecchia rivista patinata degli anni Ottanta, mi capitò di imbattermi per caso in un durissimo attacco di Cordelli ai propri coetanei (Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Antonio Tabucchi, Elisabetta Rasy…), accusati di essersi fatti complici di un grande Termidoro letterario. Evidentemente, a trent’anni di distanza, Cordelli non ha mutato atteggiamento verso il presente, né campo metaforico. Palude è l’Italia (letteraria e non solo) emersa dal tramonto degli ideali degli anni Settanta. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude. E proprio perché l’intervento di Cordelli vuole essere eminentemente politico, è inutile rimproverargli – come da tanti è stato fatto in questi giorni – di non aver scritto un articolo di critica letteraria. Che cosa è dunque che Cordelli non ama nella letteratura, anzi nei letterati, d’oggi? Oltre alle similitudini di Falco e alla prosa di Vasta, esattamente la condizione liquida della cultura italiana, dove le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, che non è nell’una né l’altra ma piuttosto una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano anzitutto ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio) attenendosi al motto di «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Per tradurre in termini sociologici la diagnosi di Cordelli, i gruppi in lotta per il controllo della società letteraria che hanno caratterizzato il Novecento avrebbero lasciato il campo a una incerta federazione di comunità, interessate a sostenere i propri campioni negoziando di volta in volta con le altre onori e riconoscimenti piuttosto che attraverso un conflitto aperto. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude, e Cordelli avrebbe potuto usare anche questa formula. Per un uomo della sua generazione (venticinque anni nel 1968, non dimentichiamolo), il piccolo cabotaggio di oggi è il peccato capitale. Costringere gli scrittori a prendere posizione. E la classificazione affidata alle pagine de «la Lettura» è anche un modo per costringere i diretti interessati a prendere partito (una volta tanto) e a pronunciarsi. Anche se, sino a questo momento, si direbbe che il principale effetto ottenuto dall’articolo di Cordelli sia stato invece quello di compattare i giovani scrittori contro di lui, in un nuovo, paradossale, slancio unanimistico. Come volevasi dimostrare. Non tutto convince nelle famiglie di Cordelli, ma su un punto è impossibile dargli torto: la Palude, la vocazione alla Palude, è la grande tendenza del nostro tempo. Da membro onorario della tribù dei «novisti», i più politicamente battaglieri, non posso evidentemente che essere d’accordo con lui (chi sono i «novisti»? Ecco la descrizione feroce di Cordelli: «una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore»). Invece, la cultura italiana avrebbe disperatamente bisogno di più conflitto – e non sulla base di banali risentimenti personali, ma perché capace di dividersi di nuovo su grandi opzioni letterarie, stilistiche, politiche. Il conflitto può far male. Ma il conflitto è anche l’unico strumento che abbiamo per dare un senso alla nostra attività intellettuale oltre il giustificabile ma assai limitato obiettivo di sbarcare il lunario. Se tutto va altrettanto bene, allora la letteratura nel suo complesso non ha più alcun valore. E se non siamo disposti ad accapigliarci (meglio, certo, se educatamente) per una rima o per una metafora, allora tanto meglio cercarci un altro lavoro. Personalmente, ritengo che la letteratura italiana più recente sia in uno stato di salute assai migliore di quello che suggerisce Cordelli, ma lui stesso, occorre riconoscere, nelle sue recensioni ha spesso dato prova di grande curiosità e apertura. Quello che soffre, e non da ora, è il sistema letterario nel suo complesso, dove tra l’inimicizia personale e l’acquiescenza interessata è scomparso lo spazio per il dissenso e la discussione critica. La smodata, irragionevole passione dei trenta-quarantenni per Pasolini e le sue intemperanze appare da questo punto di vista una sorta di compensazione simbolica per l’eccessiva prudenza degli stessi. Un anno e mezzo fa, con la richiesta di 50 mila euro da parte del senatore PD e giallista Gianrico Carofiglio al poeta Vincenzo Ostuni (che lo aveva definitivo «scribacchino»), un altro confine è stato superato: da questo momento, con un precedente tanto illustre, ogni italico scrivente potrà prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di citare in giudizio il critico o collega che non gli ha riservato gli elogi che riteneva di meritare. Non tutto è ancora compromesso. In quell’occasione, per fortuna, attorno a Ostuni si venne a condensare una ampia rete di solidarietà (Cordelli compreso): e non in nome di una sin troppo scontata e generica libertà di espressione, ma di una idea di cultura sottratta agli avvocati e in cui il conflitto possa farsi ancora lievito delle idee come è stato nel Novecento. Non tutto, dunque, è ancora compromesso. È dello stesso problema, credo, che parla Cordelli nel suo articolo. Perché oggi, al tempo della Grande Palude, il conflitto è visto male (e si paga) anche quando non viene sanzionato in un tribunale della Repubblica. Sarà sufficiente un unico esempio. Il «novista» Cortellessa, autore dell’antologia da cui è sorta la polemica, è il maggiore giovane critico italiano (in un paese nel quale si è giovani critici sino a cinquant’anni e giovani poeti fino a quando non si entra nei «Meridiani», per chi ci entra), non solo perché Cortellessa è un interprete formidabile e un lettore onnivoro; il «novista» Cortellessa è il maggiore giovane critico italiano perché ormai, volenti o nolenti, è alle sue scelte che tutti gli altri devono rifarsi: che sia per prendere posizione a favore o contro. Troppo conflittuale, troppo libero. Basta infatti sfogliare distrattamente Terra della prosa o gli interventi sulla poesia raccolti ne La fisica del senso per rendersi conto come nessuno, nella nostra generazione, abbia prodotto una ricognizione altrettanto approfondita e appassionata sulla letteratura contemporanea: una ricognizione che non può essere ignorata anche da quanti manifestano il proprio disaccordo. Sono in molti, ormai, a riconoscergli questo merito. Eppure che, io sappia, nessun quotidiano di questo paese ospita regolarmente le recensioni di Cortellessa: il quale dopo una deludente collaborazione con «La Stampa» è dovuto emigrare sul web, dove adesso scrive anzitutto su «doppiozero». Troppo conflittuale, troppo libero, in definitiva troppo innamorato della letteratura, questo Cortellessa. Perché Palude e Consenso sono rispettivamente il nome e il cognome della malattia che, emarginando alcune delle voci più libere e offrendo a tutti una bella lezione di conformismo, rischia di uccidere il nostro sistema delle lettere. Torniamo in Montagna? L’invito, con «antico vigore», non è rivolto solo ai «novisti».

Non prendetevela con Cordelli. Fa una proposta, non impone leggi. Lo schema cordelliano è un’istantanea, i cui valori possono quindi cambiare nel tempo. Un’occasione per giocare con l’immaginario delle poetiche. Senza rabbie inutili, replica Alessandro Beretta su “Il Corriere della Sera”. Mi sono piaciuti Giorgio Falco, Giorgio Vasta e, anche per la sua parzialità, l’antologia curata da Andrea Cortellessa – nella sua prima edizione per Ponte Sisto – dedicata ai narratori italiani degli anni Zero: ne ho scritto bene, in diverse sedi, di tutti e tre. Logica vorrebbe che non sia d’accordo con Franco Cordelli. Peccato si stia parlando di gusto e critica, materie ben diverse dalla rigidità di altre discipline. Sulla palude, poco da aggiungere: viviamo in un paese insano. Quindi, mi è piaciuto anche l’articolo di Cordelli, e l’ho letto e riletto fino a viverlo come un racconto da camera dedicato alla letteratura italiana contemporanea. Se non condivido i suoi giudizi sui tre nominati in apertura, ciò non toglie che trovo interessante l’immagine che finisce per dominarlo: un parlamento che sorge in mezzo a una palude. Sulla palude, c’è poco da aggiungere: viviamo in un paese insano– siamo arrivati allo 0,6 del Pil investito in cultura, siamo gli ultimi in Europa – ed è normale che il clima non sia dei più accoglienti, anche nei tentativi di modificarlo. Davanti al Parlamento di Cordelli, invece, la sindrome delle figurine è scattata immediata: chi c’è, chi non c’è, «celo, manca», quello è amico suo, quell’altro non poteva non metterlo… Così via. Lo schema cordelliano è una proposta. Tutti quelli che si occupano di libri ci sono cascati – e lo stesso procedimento, chiaramente, avviene anche con l’aggiornata antologia curata da Andrea Cortellessa La terra della prosa, uscito per i tipi de L’orma, che include 30 autori emersi dopo il 2000. Questo tipo di gioco, inevitabilmente, vale per ogni classificazione – antologica o schematica che sia – e in quasi ogni campo. Mi stupisco, allora, per la violenza di certe reazioni: quel sonno da cui si sveglia Cordelli nel suo articolo, ha generato un po’ di mostri con reazioni di ogni genere online e offline. Lo schema cordelliano è una proposta, non una legge, ed è un’istantanea, i cui valori possono quindi cambiare nel tempo. Lo prendo più come un’occasione per giocare con l’immaginario delle poetiche, che come una gabbia, e ciascuno può chiedersi dove gli piacerebbe sedere in Parlamento - ammesso che vi siano nuove elezioni – o domandarsi perché un autore sta vicino a un altro. Un’anarchia strategica, altro che un parlamento. Andrebbe forse allestita, di fianco, un’altra Camera dove far sedere anche editori, agenti, editor, una bella sauna per gli esordienti e un planetario per i poeti, anche se, chiaramente, costruire in palude non è poi così facile e bonificarla sarebbe un bene per tutti. Allora, guardo la mia libreria di autori italiani e mi chiedo: «Li devo spostare?». Devo ricollocare i libri secondo i settanta suggerimenti di Cordelli? No, li lascio come stanno, divisi un po’ per città – Milano versus Roma – e regioni, talvolta per generazioni, ogni tanto per tema o per collana, qua e là secondo un accenno d’ordine warburghiano. Un’anarchia strategica, altro che un parlamento, e preferisco lasciarla così, con una certa libertà di letture.

La silenziosa «casta» degli scrittori. Dove tutti sponsorizzano gli amici. L’articolo di Cordelli ha fatto venire allo scoperto le conventicole alla base della letteratura italiana di oggi. Ecco perché, nelle risposte, prevale la frustrazione, conclude  Paolo Di Paolo su “Il Corriere della Sera”. Se l’articolo di Franco Cordelli, da cui tutto è partito, era spiazzante e perciò anche divertente, la gran parte delle reazioni non lo sono state: lamentose, lugubri, contorte. O peggio ancora: opache. Viene il sospetto, a leggere certe repliche in rete e alcuni degli interventi ospitati da Corriere.it, che alle categorie istituite da Cordelli ne mancasse ancora una: quella degli «involuti». Nel senso che si ingarbugliano, fanno pasticci con le parole, usano l’italiano senza disinvoltura, forse perché non lo amano fino in fondo, e lui, l’italiano, gli si rivolta giustamente contro. E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? Partiamo dal presupposto che si tratta di una polemica per «addetti ai lavori», come si diceva un tempo: ebbene, se posso considerarmi tale, io non ho capito oltre metà dei ragionamenti opposti a quello di Cordelli. In fondo, molto in fondo magari, la sostanza era però quella più biliosa e indicibile: la frustrazione. La spinta istintiva e umanissima, da esclusi, a puntare i piedi. Tradotta più o meno in questi termini: «lasciando da parte che Cordelli non mi ha inserito, vorrei sapere perché non ha inserito nemmeno x e y, che peraltro sono amici miei stimatissimi». Ma così il gioco non finisce più. Io stesso avrei obiezioni: perché, al di là del suo valore, c’è Giordano, se Cordelli dice di aver escluso i «troppo percepiti»? E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? E Mazzucco, vitalista moderata? Celati non dovrebbe passare nel gruppo misto? E il dissidente Maggiani, autore di un pamphlet definivo e violentissimo sulla generazione dei cinquanta-sessantenni? Comunque. Solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale. Un «ispettore del commercio librario» nella Parigi del 1750 aveva registrato in città, attivi, 359 scrittori, tra cui Diderot e Rousseau. Oggi, anno 2014, sulla sola piattaforma di self-publishing ilmiolibro.it gli scrittori attivi sono oltre 20mila. Il punto è questo: la macro-categoria che include tutte le altre proposte da Cordelli è quella che va sotto l’aggettivo «frustrati». Lo siamo, inclusi o no, praticamente tutti. Frustrati perché siamo troppi, perché il cosiddetto mercato non si allarga ma resta lo stesso o si contrae. Frustrati perché le recensioni non escono e comunque non servono, i libri passano in libreria per un mese e scompaiono. Frustrati perché – ci diciamo – l’editore non si impegna. Frustrati perché lo cambiamo e, nonostante questo, le cose non cambiano. Frustrati perché sentiamo che il nostro romanzetto non riesce a farsi largo, e che solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale, o l’alleanza di qualche simpatico amico a cui ricambieremo il favore. Nessuno ammetterà che funziona così per tutti (salvo quei cinque o sei baciati dal vero successo commerciale), e proprio perché non lo ammetterà nessuno, è vero. Un autore su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno. Navighiamo tutti a vista, sempre meno convinti, sempre meno «puri», sempre più affannati e stanchi e in alcuni casi cattivi, risentiti. E tutti, praticamente tutti, caro Cordelli, «poco percepiti». È la tribù a salvarci: qui Cordelli ha ragione. Fino a trent’anni fa c’era l’unica grande tribù della letteratura, riconosciuta da una élite, certo, ma più solida e dai contorni più definiti. E lì convivevano (si fa per dire) i diversi: Calvino e Moravia, Bassani e Morante. Si guardavano a vicenda, dialogavano, si tenevano d’occhio, ma erano soli. Maestosamente soli. Nella palude letteraria in cui siamo condannati a stagnare, ci si tiene d’occhio solo fra amici. Su Facebook se ne ha la triste certezza: ci si sponsorizza a vicenda, ma solo in una ristrettissima cerchia. Un autore pubblicato su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno di strada pubblicato su ilmiolibro.it, Cortellessa mette nell’antologia i suoi amici, quell’altro posta la recensione appena pubblicata allo straordinario esordio del suo ex compagno di scuola. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. E così avanziamo, nell’illusione che il mondo sia quello che vorremmo che fosse, una ghenga composta di zie, di mamme, dei compagni di merende; ci facciamo forza così, salvo poi puntare il dito sulle cricche altrui. Le conventicole contro cui, in un film di Virzì, puntava il dito un Castellitto professore frustratissimo. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. Allora se Cordelli ha un merito è che lui – a differenza di tutti i suoi detrattori – prova a leggere quanto più può, a mappare, a capire, è curioso, anche crudelmente curioso come pochi altri, di tutto, di tutti, degli scrittori di Roma, d’Italia, del mondo, e ingaggia una sfida titanica contro il molteplice, l’universale, pur sapendo che è votata al fallimento. Così, ogni tanto, per fare ordine e per provocare anche sé stesso, sul tovagliolo in un bar o su una pagina della Lettura, prova a tirare giù una mappa. Gli altri, il 90%, continuano a leggersi solo tra vicini, tra complici, hanno già deciso da sempre chi leggere e chi no, hanno già deciso da sempre chi è bravo e chi no, e fanno tanta, tanta tenerezza perché sono come quel famoso cavaliere ariostesco. «Il cavalier del colpo non accorto / andava combattendo ed era morto». Esistono un po’ perché e finché hanno accanto la ghenga. Chi si guarda intorno, chi guarda oltre casa sua, magari non supera la frustrazione, magari si sente più solo, ma almeno resta vivo. Paolo Di Paolo.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.

LA SOTTOCULTURA IDIOTA DELL'ANTIFASCISMO MILITANTE. L'OSTRACISMO ARTISTICO A DANNO DEI MUSSOLINI.

Quando ad un artista è vietato chiamarsi Mussolini, scrive Gabriele Lazzaro su “Il Giornale”. La gogna mediatica a cui è sottoposta in questi giorni Alessandra Mussolini rivela l’immagine di un paese in crisi culturale prima che economica. La tanto strombazzata crisi non è solo ciò che ci costringe a fare e rifare i conti durante il mese, è anche quel misto di pigrizia e di maramaldàggine nel prendersela con una donna per la famiglia a cui appartiene. Un’ostilità che la Mussolini ha sempre combattuto in maniera orgogliosa, come quando disse no alla proposta indecente di varcare le porte del Parlamento come “Alessandra Floriani”, e anche, in alcuni casi, con una certa autoironia, come quando si definì “portatrice sana di cognome”. Ma facciamo un passo indietro nella storia di Alessandra, una storia che l’ha vista ostacolata a priori in un’infinità di occasioni. Ha frequentato l’università in anni di antifascismo militante, ed è stata costretta dalle contestazioni a poter scegliere solo la facoltà di medicina. Le è stato detto: “E tu con quel cognome vorresti fare filosofia morale?” Si è presenta per sostenere un esame al cospetto di un professore che le chiese “Mussolini Mussolini?”. “Sì, Mussolini Mussolini”. E il libretto in un attimo gettato a terra con disprezzo. “Alzati, e va’ a raccoglierlo”. L’Italia che siamo, l’Italia che vogliamo è quella che fa dipendere la cultura solo da uno stato di famiglia? Gli Italiani che sostengono la decadenza e l’impoverimento ideale della Roma della “grande bellezza” sono gli stessi che twittano continuamente attacchi contro la Mussolini? Prima dell’ascesa politica la nipote del Duce ha rivelato un talento artistico confermato anche da Eduardo De Filippo. Ma la sua filmografia è breve, brevissima, ancora una volta per motivi dipendenti da quel cognome così tanto scomodo. Dino Risi la volle incontrare per proporle il ruolo della figlia di Sophia nel remake televisivo della “Ciociara”. Ma in realtà fu solo un’occasione per umiliarla, ancora una volta, proponendole di cambiare il nome in Alessandra Zero. Perché “prima di dimenticare questi occhi dovranno passare sette generazioni”. Gli attacchi di questi giorni rivelano che non si aspettava altro che un suo cedimento per fare rivivere lo stesso ostracismo di cui è stato vittima anche il padre Romano, grandissimo jazzista eppure così poco considerato. Così poco invitato nelle trasmissioni televisive. Per l’ovvio impedimento del cognome. Ma perché non essere apprezzati, stimati, semplicemente per quello che si è? Perché voler vedere in quel “Mussolini” posto dopo il nome la negazione di tutto? È vergognoso. Così come, di fronte alla vicenda matrimoniale di Alessandra, vergognosa è stata la reazione di Vladimir Luxuria. Una reazione non giustificata neppure da quel “meglio fascista che frocio”, sicuramente infelice ma smentito dalle tante occasioni in cui Alessandra ha dimostrato di battersi per i diritti individuali. Sfatando quel mito che la vuole a tutti i costi omofoba. Luxuria è solo l’ultima di una lunga fila di intellettuali e gente comune, la cui “passione civile” si sveglia solo in presenza di un capro espiatorio. Che responsabilità ha la Mussolini nelle vicende del marito? Ovviamente nessuna. Ovviamente è una delle parti lese. Ma ecco il paradosso: “quel” cognome l’ha resa semplicemente una donna sola, costretta a difendersi contro tutto e tutti.

SESSO E CIVILTA’. IL COMUNE SENSO DEL PUDORE: QUANTO E’ COMUNE E QUANTO E’ IMPOSTO?

Ci sono testimonianze di peni eretti bene auguranti nelle grotte paleolitiche di Lascaux, nei postriboli pompeiani fino a giungere ai graffiti che deturpano le città moderne. Un tempo si facevano persino delle processioni al dio Priapo chiamate falloforie (portatori di fallo). Gli artisti di Lascaux hanno creato un mondo sotterraneo e sconvolto Picasso, lasciandoci con i misteri della loro vita e del perché hanno questa “Cappella Sistina” della preistoria, scrive Raffaele Bonadies. Nel 1940, all’uscita da una grotta in Francia, Pablo Picasso, non noto per la modestia, si lasciò quasi cogliere dallo sconforto: «Non abbiamo inventato niente» disse. Aveva appena visto l’opera dei nostri antenati, Homo sapiens di 17.300 anni fa, che crearono a Lascaux quella che è stata definita la “Cappella Sistina della preistoria”, un capolavoro di pittura rupestre. Scoperto proprio nel 1940 da quattro ragazzi (col loro cane Robot) in Dordogna, in Francia, la grotta è un labirinto di circa 235 metri di lunghezza, in lieve pendenza. Suddivisa convenzionalmente in 7 sale, dalla Sala dei Tori alla Navata al Pozzo, contiene circa 2.000 figure che possono essere classificate in tre gruppi: animali, figure umane e segni astratti. Nei primi, la parte del leone la fanno i cavalli (364) e i cervi maschi (90), anche se i veri capolavori sono le figure degli uri, i buoi selvatici che popolavano le foreste europee. Come per altre grotte in Francia e Spagna, come Chauvet o Altamura, non sono chiare le ragioni che hanno spinto gli uomini a ritrarre gli animali sulle pareti della grotta. Secondo alcuni studiosi alla base di tutto c’è la religione, e le visioni degli sciamani, grazie alle quali erano in grado di ritrarre animali visti tempo prima. Erano allucinazioni indotte da danze che portavano in uno stato di trance o da sostanze psicotrope. Poiché le specie dipinte erano le più potenti e pericolose della fauna della zona (uri, cavalli e bisonti), forse i dipinti servivano a esorcizzare il pericolo che si correva cacciando questi animali, o addirittura a insegnare ai giovani le migliori tecniche di caccia a queste prede. Ci sono in compenso molti segni astratti, punti o figure geometriche, che alcuni studiosi ritengono rappresentino costellazioni visibili dalla zona, come il Toro, le Pleiadi, e il Triangolo estivo – tre stelle molto brillanti che da giugno a ottobre si vedono dopo il tramonto. Lo scrittore francese Georges Bataille considerava Lascaux il momento della nascita dell’arte, e di conseguenza dell’essere umano vero e proprio.

Non sappiamo con certezza le cause che hanno favorito, soprattutto nell’Europa Occidentale, in Francia ed in Spagna, la realizzazione di opere che ci lasciano stupiti e che ci inducono a riflettere sulle capacità organizzative dei nostri avi, scrive Maria Antonia Ferrante. Le opere grandiose sono sempre il risultato di un’organizzazione collettiva dove ogni componente del gruppo svolge un ruolo. Capacità mentali progredite, affinamento del pensiero, maggiore ricchezza del linguaggio e della comunicazione, nuove fonti di approvvigionamento delle materie necessarie all’esecuzione dei dipinti e delle incisioni e presenza degli spazi favorevoli alla messa in opera, contribuiscono a dare spazio alla fantasia. Sono gli abitanti delle zone franco–cantabriche che in questo periodo hanno lasciato il segno indelebile del loro avanzamento nel processo evolutivo espresso nelle stupefacienti pitture parietali in grotta. La grotta di Lascaux, affrescata 18.000 anni fa, si trova in Dordogna, Francia. Si accede con facilità alla prima sala dell’antro, detta La Rotonda. Qui, si impongono alla vista dipinti di animali giganteschi; gli uri misurano 5 metri di lunghezza. Dopo la sequenza degli animali mastodontici: uri, cavalli e cervi, appare il cosiddetto unicorno con il corpo segnato da cerchi; animale fantastico non definibile. Nelle successive parti della grotta continua la sfilata delle immagini degli stessi animali: di cervi e stambecchi e di una grandissima quantità di incisioni che sembrerebbero messe a caso perché si mescolano con i profili delle figure degli animali precedenti, in un groviglio di difficile lettura. Su di una parete dello spazio detto il pozzo, appare il dipinto di una figura umana; un uomo disteso con il fallo in erezione; sembra ferito. Vicino gli sta l’immagine di un bisonte, anch’esso probabilmente ferito. Sembra una scena di caccia conclusasi male par l’uomo e per l’animale. Per la realizzazione di questo grande affresco della grotta, chiamata giustamente Cappella Sistina del Paleolitico, sicuramente è stata necessaria la collaborazione di parecchi individui. Immagino che Eva abbia dato una mano alla messa in opera dei dipinti di Lascaux. Eva, forse, ha preparato i colori: l’ocra, il carbone, il manganese, i grassi e le materie collanti. E’ stata anche lei nella grotta reggendo le torce, portando le assi di legno per preparare le impalcature e soprattutto per provvedere all’alimentazione degli artisti impegnati per ore ed ore in uno spazio ristretto, oscuro e poco ospitale. Il progetto dell’affresco, probabilmente, è il risultato di un lavoro collaborativo. Di questa opera il gruppo che l’ha eseguita ne ha parlato prima di metterla in opera, disegnandola mentalmente e riconoscendone le finalità. Quale? Archeologi, critici dell’arte, antropologi, etnologi e psicologi si sono cimentati per penetrare nell’intima struttura delle opere parietali paleolitiche. Leroi-Gourhan ha dedicato un interesse particolare ai dipinti di Lascaux. Di essi dice Le figure di Lascaux non si dispongono in pannelli di insieme, ma lungo un itinerario, legata l’una all’altra da un tema di cui ci sfugge il senso, ma il cui coinvolgimento si ripete un piano dopo l’altro fino alle figure di rinoceronti situate nel punto più profondo. Le figure possono prolungarsi per due e più chilometri con un’unica versione del tema; figura per figura, a intervalli di parecchie centinaia di metri. Si tratta di una vera e propria cosmografia? Il mito, qui, qualunque sia il substrato, si dispone in maniera lineare e ripetitiva” (Leroi-Gourhan, A., 1977).

La gogna del moralismo di Stato. Parliamo di Vilfredo Pareto e il suo "Il mito virtuista e la letteratura immorale". Mentre attendeva nell'"eremo" di Céligny alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale, Pareto metteva mano al "trattatello" Le mythe vertuïste et la littérature immorale (Paris 1911), che fu tradotto con notevoli integrazioni e pubblicato in Italia nel 1914. Questa succosa e incalzante analisi condensa in modo esemplare l'anima profondamente liberale e libertaria di Pareto, e mette a nudo le tante ipocrisie che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa - in nome di una presunta igiene fisica e morale collettiva -, pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell'individuo. «Si può leggerlo in due modi, Il mito virtuista. Si può prenderlo come l'opera letteraria di un uomo singolare: logico e passionale, preciso e fantasioso, ironico e caustico, coltissimo di storia e attento alla cronaca. Senza curarsi troppo di dimostrazioni e tassonomie, gustarsi esempi e citazioni, senza voler cogliere l'architettura complessiva, seguirlo su per le scale ripide della sua indignazione e nei saloni sontuosi della sua cultura. È il suo procedimento [...] Oppure si può leggere il libro come l'applicazione ad un fatto particolare dei costrutti logici, "residui" e "derivazioni", su si basa il suo opus magnum, una sorta di intermezzo in quel ventennale impegno.»

Torna il libreria il trattatello liberale e libertario di Pareto, scrive “Il Piffero”. Un libro che nel mettere a nudo le ipocrisie dell’epoca, denuncia i rischi che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa, pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell'individuo. È una iattura il trionfo del conformismo moralista. Anzi, quando i moralisti assurgono a maître à penser di un’epoca la dittatura è dietro l’angolo, per quanto soft e mistificata da buonismo possa essere. E mentre si diffonde questa potente arma di distrazione di massa le classi dirigenti dimenticano i veri problemi del Paese. Ci hanno provato in tanti, soprattutto nella stagione del berlusconismo declinate, a dare una lettura assolutoria delle macerie contemporanee al libretto che Vilfredo Pareto scrisse nell’eremo di Célignymentre si accingeva a dare l’ultima versione alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale. Ora di questo trattatello, pubblicato in Francia nel 1911 (Le mythe vertuïste et la littérature immorale) e tradotto con notevoli integrazioni in Italia nel 1914, è uscita una riedizione per iniziativa di Franco Debenedetti e dell’editore Liberilibri. Con il termine «virtuismo» Pareto intende sviluppare una critica verso i censori moderni, che si ergono a paladini della morale pubblica a detrimento delle più elementari espressioni della libertà individuale. Per alcuni può essere definito «libertario», un intellettuale consapevole della trasformazione dei valori morali, e della loro opinabilità alla stregua della religione e della politica. Un antiproibizionista ante litteram, in particolare contro le limitazioni legislative alla letteratura cosiddetta immorale di cui fu portavoce il presidente del Consiglio dell’epoca Luigi Luzzatti. Sulla scia di questo principio Pareto dà alle stampe il volume, che fu dettato dalla curiosità per i fatti contemporanei e dall’interesse che egli mostrava per la cronaca nera e giudiziaria. Anzi si può affermare che il libro nacque dall’attenzione che Pareto rivolse al romanzo Quelle signore (1904) e al processo che il suo autore Umberto Notari (1878-1950) subì per oltraggio al pudore nel 1906 e nel 1911. Le due sentenze si ritrovano nell’edizione del 1914 e sono riportate in quella del 1966, insieme alla Circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche: «Qui riproduciamo la sentenza di uno di questi processi in cui si vedrà incriminata la riproduzione di ”due brani tolti una dalla Bibbia e uno dal Dialogo delle prostitute di Luciano”».

Il mito virtuista e la letteratura immorale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Scritto polemico del sociologo Vilfredo Pareto sul fenomeno del virtuismo. Durante gli anni della stesura del Trattata di sociologia (1916) imperversavano in Europa rigidi atteggiamenti in difesa della virtù, della pulizia morale e del pudore e si moltiplicavano manifestazioni di intolleranza verso l'oscenità, o presunta tale. Questa ondata di moralismo venne promossa da alcuni associazioni che condannavano indistintamente il mondo pagano, le dottrine antisociali ed i concetti naturalistici, frammisti ad oscenità, della Grecia e di Roma antica. Pareto decise di intervenire sull'argomento ed invitando il governo Italiano a non perdere tempo "a pensare alle foglie di fico", quanto a preoccuparsi di denunciare i gravi problemi dell'Italia del tempo: miseria, corruzione, analfabetismo, il dominio della mafia e della camorra, le non sopite mire espansionistiche dell'Austria. Il termine "virtuista", un neologismo coniato da Pareto, sta ad indicare una persona ipocrita e bigotta, che ha dichiarato guerra alla letteratura immorale, criminale sessuale. Raccolti in associazioni, i virtuisti chiedono allo stato misure censorie sempre più restrittive, giustificandole con il pretesto dell'utilità sociale, della preservazione della pace sociale, della tutela dell'interesse dei fanciulli e con la motivazione dell'utilità della castità. Pareto rileva che il vero fine inseguito dai virtuisti è quello di imporre la loro dottrina e fa notare come l'aumento delle misure restrittive vada di pari passo con l'aumento di sentimenti anarchici e che "le leggi senza costumi non valgono niente". Inoltre, secondo Pareto, "non è un dovere dello stato quello di allontanare ogni tentazione dall'individuo". Di seguito, Pareto critica sia la famiglia "modern Style", incapace di dare una vera educazione ai propri figli ("l'educazione dei figli si fa coll'azione cumulativa di mille cose da nulla, e non con alcune proibizioni annunciate con gran fracasso") e di seguito delle Istituzioni scolastiche ("l'anarchia nell'educazione dei giovani è una causa dell'aumento della criminalità giovanile"). In conclusione, Pareto aggiunge che la forza che permette ad un popolo di elevarsi al di sopra degli altri non è dato dall'ascetismo, dalle rinunce e dalla mediocrità, ma nei sentimenti profondi e attivi che si manifestano con un ideale, una religione, un mito, una fede. "Nella vita dei popoli, niente è tanto più reale e pratico quanto l'ideale. [...] Il contenuto logico dell'ideale poco importa. Ciò che importa molto di più è lo stato psichico che rivela, di cui è sintomo".

La pubblica moralità? È questione di buon gusto, scrive Cesare Cavalleri su “Avvenire. Vilfredo Pareto (1848-1923), oltre che economista e sociologo, è anche un ottimo scrittore, il che non guasta. Appartiene alla schiera degli economisti "marginalisti" il cui capostipite è Léon Walras, al quale Pareto succedette nella cattedra di economia dell'Università di Losanna, nel 1894. Sia Pareto, sia Walras provenivano da studi d'ingegneria. Pareto fu nominato senatore da Mussolini, ma, morendo nel 1923, non fece in tempo a vedere la piega che il fascismo avrebbe preso. Nel 1910 Pareto pubblicò Il mito virtuista e la letteratura immorale, che Liberilibri (Macerata 2011, pp. 216, euro 18) oggi sottrae all'oblio, riproponendo con poche correzioni l'antica traduzione del "giovane" Nicola Trevisonno (a p. 49 è rimasto un "dai scultori"). Con neologismo paretiano, i "virtuisti" sono i bigotti intolleranti e spesso ipocriti che pretendono di imporre per legge la morale, soprattutto e quasi esclusivamente in materia di "oscenità". Non che Pareto sia favorevole all'oscenità e al libertinaggio, ma ha buon gioco nel dimostrare l'inafferrabilità di una definizione giuridica dell'ipotetico reato, e si diverte fin troppo ad antologizzare le "oscenità" di taluni passi della classicità greca e latina, che neppure l'Index post-tridentino aveva proscritto. L'invito di Pareto, oltre a proclamare la libertà di opinione a meno che non vengano violate le regole dell'ordine pubblico, è a non scambiare gli effetti con le cause. Se la famiglia e la scuola vengono meno ai loro compiti educativi, non è proibendo il commercio di cartoline licenziose che la moralità sarà salva: «È il buon gusto, la buona educazione che possono decidere in questa materia complicata, delicata e variabile, e non i Tribunali»; «La vera sicurezza voi l'avrete, anzitutto, se saprete ispirare a vostra figlia il disgusto dell'oscenità, poi se vi darete la pena di sorvegliarla». Insomma, contrariamente a quanto affermava la circolare del 16 gennaio 1910 emanata dal ministro dell'Interno Luzzatti, ripetutamente ridicolizzata nel libro, non è lo Stato «il più alto tutore della pubblica moralità». E sia lode agli antichi romani, che sapevano distinguere «tre cose molto differenti: il virtuismo, la temperanza, la dignità. I romani ignoravano la prima, tenevano in grande considerazione la seconda, ed in maggiore la terza». Le considerazioni paretiane non hanno solo un interesse storico o di curiosità: come ben scrive Franco Debenedetti nell'introduzione, oggigiorno il "virtuismo" si è metamorfizzato nel "politicamente corretto": «"Lotta continua" non guida più cortei, invece di università e fabbriche occupa le scrivanie dei direttori di giornali e Tv. Per quelli che non sprofondarono nel mondo coatto della lotta armata, è l'istituzionalizzazione delle "conquiste": le libertà diventano diritti, codificati in leggi, dettagliati in regolamenti, garantiti da magistrati, sorvegliati da autorità. E, se non basta, affermativamente imposti in "quote". Al potere, di cui si denunciava l'oppressione, ora si chiede di esercitare la protezione». E ancora: il "virtuismo" dell'epoca di Pareto «chiedeva al potere di dare la caccia all'immorale, per mantenerlo "fuori dalla scena" e impedire che si mostrasse in pubblico: il nuovo virtuismo va alla caccia dell'immorale all'interno del potere stesso, per renderlo visibile al pubblico. Così si compie l'evoluzione dall'esibizionismo al voyeurismo: quello sbraitava e gesticolava dal balcone del palazzo; questo sbircia e origlia nel corridoio del palazzo, nella stanza dell'albergo, nel salone della villa». L'allusione a fatti e persone dei giorni nostri è volutamente trasparente.

Troismo e nuovismo. Diagnosi sociale dedicata a Gustave Thibon, scrive Pietro Ferrari su “I Due Punti”. Preferisco una società più sobria nella dimensione pubblica (meno tette e culi sui media), ma meno sessuofobica in quella privata (meno guardoni nelle camere da letto altrui), più libera dal sesso che tormentata dal testosterone. Preferisco una società in cui i giornalisti, prima di bandire purghe contro la mercificazione del sesso, controllassero se nei loro giornali non vi siano all’ultima pagina le “inserzioni pubblicitarie” di prosperose donne dell’est “pronte a tutto” per “inviti piccanti”. Ogni riferimento ad eventuali rilievi di favoreggiamento della prostituzione è puramente voluto. Questa è la società della Legge Merlin, intreccio folle tra libertinaggio sfrenato e puritanesimo ipocrita, in cui prostituirsi è lecito o addirittura legittimo, ma andare a prostitute è riprovevole, in cui la donna è libera di guadagnare col suo corpo ma è immorale chi la fa guadagnare. Prostituirsi sarebbe un lavoro come un altro ma essere fruitori di quel “lavoro” sarebbe ripugnante. Laicità bigotta. Moralisti amorali da una parte contro ipocriti immorali dall’altra, uniti nella condanna per lo Stato Etico e l’Autorità Morale della Chiesa, ma bisognosi di usare la morale contro l’avversario. La morale esiste davvero? Ed è valida per tutti e sempre? Vi è una Istituzione legittimata ad interpretare e a proporre questa morale? Come si concilia tutto ciò col pluralismo culturale e la libertà occidentale negli Stati “laici”? Oppure non esiste La morale ed ognuno si fa la propria? La Morale o è una cosa seria o semplicemente non è; o è una legge o è una balla; o discrimina i comportamenti o si riduce a farsa. Basta coi difensori della famiglia (soprattutto nella dimensione “allargata”: due mogli e quattordici concubine), permissivi per sé ed intolleranti con l’altro. Basta coi farisei arrabbiati col prete che non dà la comunione ai concubini, ma pronti a scagliarsi contro il concubinaggio se il concubino ti fotte alle elezioni. Bunga-bunga no, Gay-Pride sì; Nicòle Minetti no, Vladimir Luxuria sì; donne oggetto no, libertà sessuale sì; Mara Carfagna da “gnocca senza testa” a (dopo la polemica nel PdL) “libera, forte e di grande stile”; la morale non si fa agli altri, la si vive in proprio conformandosi ad essa. Il "filosofo contadino" Gustave Thibon preferiva le peggiori realtà ai falsi ideali, intuendo come il reale sia contrario non tanto allo ideale, quanto alla menzogna. I popoli resistono alle tirannìe senza perdere equilibrio, ma davanti alle demagogìe si corrompono profondamente e per questo le élites dovrebbero essere delle nuove e vere  aristocrazie (I "migliori" in quanto tali distinti, ma non separati dal popolo), che sappiano imporre a se stesse e indurre nel popolo un clima rigoroso, non la “vita facile” o le illusioni. Oggi non abbiamo niente di simile.  Le società si ammalano a partire dalla testa e quindi guariscono a cominciare dalla testa, se è vero quello che sosteneva San Tommaso D'Aquino (il Santo tra i Dottori e il Dottore tra i Santi) che il Sovrano deve diffondere la Virtù. L’austerità però non ha nulla a che vedere con l’ipocrita seriosità, ma è diretta a risollevare ogni lembo della società dalla dissoluzione; Essa è “amore severo”, non “asettica solidarietà”, Essa è prova di auctoritas, non più complice interessata. Essa non è mai “argomento” contro l’avversario se prima non è autenticamente vissuta e proposta come stile di vita e visione del mondo. Vita individuale e vita sociale seguono medesime regole di sviluppo. La vita non è mai novità, ma rinnovamento: quanta bolsa retorica dei politicanti sul “nuovo”, sul “futuro”, sui “giovani”, quando in realtà sono sempre gli stessi, loro, affatto nuovi o giovani, più capaci di conservare i cognomi sugli scranni che i nomi dei partiti, involucri artificiali. Questo proliferare di Fondazioni che si ispirano al Futuro ("FareFuturo", "ItaliaFutura") esprimono in realtà l'esigenza di non volersi cimentare con la penosità del presente da governare. Allora viva i rivoluzionari? Sì, ma i veri rivoluzionari sono coloro che fecondano come fa la tempesta dopo la folgore, coloro che irrigano con l’entusiasmo la vera tradizione spezzando rami secchi e idoli imbalsamati, non coloro che distruggono: “Le primavere sono tenere, fragili e disarmate. Tutto ciò che nasce è prodigiosamente vulnerabile: i germogli d’aprile, gli uccelli del cielo nel loro nido. Così è delle primavere della storia umana: più le cose che nascono tra le nazioni sono grandi e pure, più sono indifese …. è normale che tutta una categoria di spiriti confonda promessa e miraggio …. Costoro si dicono ‘realisti’ ma sono soffocatori della primavera. L’utopìa si insinua nelle anime imitando i dolci colori dell’aurora e i teneri gesti d’aprile, ma non si tratta qui di una vera primavera: le utopìe sono febbri derivate dalla decadenza e che affrettano la decadenza. Che Dio ci conceda la grazia di saper discernere, nella ressa delle idee, ciò che è primavera da ciò che è menzogna e di combattere le utopìe senza soffocare le rinascite”. Per attestare la giovinezza, non sempre è attendibile il certificato anagrafico.

Il femminicidio è un dramma troppo serio perché si apra una discussione moralistica sull'uso del corpo delle donne nelle pubblicità, scrive Aurelio Mancuso su "L'huffingtonpost.it". Il rischio, dietro l'angolo, è che ancora una volta si dividano le donne per bene e per male, un errore politico e culturale così praticato in questi anni da tante associazioni femminili e femministe che non ha stoppato alcun omicidio di odio nei confronti delle donne. Si dice che solo nel nostro Paese vi sia un uso così sfrontato e inqualificabile del corpo delle donne nelle pubblicità, e questo può esser vero, ma da qui bisogna partire? Il possesso machista che si risolve contro l'autodeterminazione delle donne, dilaga nel nostro Paese, per oggettive tare culturali che non possono esser affrontate solo da un lato, ovvero dalla censura, dalla moralizzazione dei costumi, dalla sottrazione dei corpi svestiti o lascivi per fini commerciali. Perché l'altro lato è proprio il moralismo ipocrita, la madonizzazione delle donne che persiste a causa di visioni ecclesiali cattoliche ed ecclesiali laiche, prima fra tutte quella della sinistra istituzionale. Quando non si avrà più paura del sesso, della sua veicolazione come elemento essenziale della vita, dell'identità delle persone, dei generi, degli orientamenti sessuali, allora un pezzo importante della sessuofobia che porta alla castrazione sociale, nei rapporti intimi, nella rappresentazione e gestione dei poteri, sarà spazzato via. E di pubblicità non dovremo più discutere, perché il "mercato" riterrà non remunerativo ostentare corpi femminili. Parliamo di educazione sessuale obbligatoria nei programmi scolastici (meglio l'educazione alla salute e alla consapevolezza di se), di narrazione pubblica che permetta la demitizzazione della sessualità, imprigionata ancora dall'immagine classica dell'impurità del corpo, di elemento esterno alla volontà razionale, di promozione scientifica delle differenze dei generi e degli orientamenti. Insomma, fare un discorso unilaterale, comodo e anche rassicurante, che tende a eliminare i conflitti, ci riporta indietro, non aiuta l'individuazione concreta anche di strumenti di prevenzione e di tutela. E in ultimo si continua a girare intorno alla questione centrale: la violenza contro le donne è un problema degli uomini, in quanto tali, così come sono oggi pervenuti dopo i millenari vaneggiamenti antropologici sulla superiorità intellettuale e fisica. Lo scatenamento della strage delle donne, ha dentro un elemento di vittoria evidente: i maschi sono finalmente entrati in crisi, l'autonomia delle donne li fa agire come i loro antenati, perché sono i ruoli che stanno crollando. È necessario punire i reati, attrezzare di strumenti veri i centri donna, la polizia, ma anche oltre, aprire una discussione sulla necessità di come rieducare gli uomini, perché il femminicidio è la manifestazione violenta di una patologia sociale e culturale diffusa: il machismo.

L'ipocrisia e la doppia morale sessuale. Sorelle, partiamo da quando da piccole ci viene insegnato che il sesso è un peccato, scrive Chiara di Notte - Città Invisibile. E’ un fatto culturale. Anche nelle situazioni di maggiore “apertura” mentale, ai bambini e alle bambine viene fatto capire, inizialmente dalla famiglia, poi dalla scuola e soprattutto per mezzo della religione, un concetto fondamentale: la separazione netta fra i due generi, ognuno dei quali ben distinto e con la propria sessualità, determinata secondo dei parametri ben definiti. Il maschio, che dovrà fare cose da “maschio”, viene perciò educato ad avere gusti e comportamenti secondo “canoni” maschili, mentre la femmina, essendo colei che poi dovrà adeguarsi a lui, viene educata ad avere comportamenti e gusti confacenti a quelli maschili. Il tutto secondo una logica per la quale ogni discrepanza fra il “modello” prestabilito e quella che sarà poi la personalità del bambino e della bambina in età adulta, verrà etichettata come “anomalia”, se non addirittura come perversione oppure patologia. Fin da bambini i maschi sono dunque abituati a giocare con giocattoli “da maschi”: soldatini, trenini, automobiline, armi giocattolo. Mentre alle femmine vengono riservate bambole con i loro vestitini, pentoline, stoviglie, casette da arredare e tutto l’armamentario necessario per essere in futuro ben inquadrate nel loro ruolo di brave madri e donnine di casa oltrechè di amanti devote e con una decisa tendenza eterosessuale. In questo tipo di educazione viene del tutto esclusa la possibilità che la persona, da adulta, possa poi avere gusti ed aspirazioni completamente opposti. Se oggi ricordo alcuni episodi di quando ero bambina, comprendo l’enorme “violenza” psicologica che talvolta i genitori possono operare ai danni dei loro figli, pur amandoli. Di questi episodi ne ricordo in particolare uno. Mia madre, che non voleva che giocassi con i soldatini che rappresentavano il mio divertimento preferito, ma che secondo lei non erano adatti ad una bambina, mi regalò un bambolotto. Era un bambolotto di plastica di quelli che, inclinandoli, parlavano. Per me, quel bambolotto è sempre stato un’angoscia. Forse per la fissità dello sguardo oppure per l’immobilità della bocca che, quando lo inclinavo, emetteva quella voce meccanica che mi terrorizzava, io quel bambolotto proprio non lo volevo. Preferivo i miei soldatini. Ma siccome Mamma me lo imponeva ogni momento, un giorno che ne abbi l’occasione lo infilai in una tinozza piena d’acqua e lo “affogai” fino a quando quel suo mugolio fastidioso e innaturale non divenne prima un gracchiare e poi si spense. Tutte voi sapete, presumo, quel che accadde dopo. Mamma ve lo avrà sicuramente raccontato. E’ uno dei suoi argomenti preferiti. Ricordo infatti come si arrabbiò per quel mio gesto e tuttora, nonostante i bambini io li ami più di me stessa, ancora non smette di ricordarmi quell’episodio facendomi quasi vergognare. Ma cosa significava tutto ciò in termini di personalità che poi avrei sviluppato da adulta? Preludeva forse a istinti infanticidi? Scarso senso materno? Latente omosessualità? O più semplicemente era il modo che avevo di ribellarmi ad un ruolo nel quale, fin da piccola, non mi sentivo felice in quanto costretta? Quel ruolo, appunto, di chi accetta passivamente la propria condizione di femmina imposta dall’alto e non invece come conseguenza di una libera scelta? Anche se allora non lo potevo ancora capire, oggi mi è evidente come dentro di me, già a quell’età, tutto lottasse per uscire fuori dal guscio nel quale mi si voleva rinchiusa. Comunque, questo è solo un esempio di cosa significhi indottrinamento ai ruoli e di conseguenza, insegnare ai bambini a considerare “buone” certe cose e “cattive” altre secondo il loro genere di appartenenza. Poi ci sono cose considerate cattive per entrambi i generi. Una di queste è il sesso. Il sesso è cattivo. Il sesso è male. Il sesso è vietato. Il sesso è immorale. E qualcuno, a causa dell’indottrinamento ricevuto, potrebbe anche aggiungere che il sesso è schifoso. Questo è il modo in cui la stragrande maggioranza dei bambini, ancora nel nostro cosiddetto ventunesimo secolo vengono educati. E so che, quando dico maggioranza, non sto rischiando di generalizzare. Ma non solo il sesso è un peccato, se poi si mette di mezzo anche la religione, diventa addirittura il “peccato originale”, quindi il più grande, il più cattivo di tutti, almeno per chi crede a ciò che è stato scritto nei libri sacri delle tre religioni monoteiste. Non ha importanza se il sesso è l’atto attraverso quale il genere umano ha potuto esistere. Non ha importanza se è col sesso che si accresce l’amore fra due persone. Non ha importanza se è quell’impulso primario che guida ogni essere umano verso il piacere e la felicità. La morale impone di considerarlo il fondamento di ogni vizio. Forse c’è chi ha ancora bisogno di credere che Dio avrebbe inventato un altro modo meno scandaloso per l'uomo e la donna di procreare e se non si fosse messa di mezzo quella maliziosa di Eva, con la sua curiosità, la sua inguaribile voglia di sapere, la sua incosciente aspirazione a vivere la vita provando ogni esperienza, forse quest’altro modo meno vergognoso esisterebbe. Ma le cose, come sappiamo, sono andate come sono andate. E chi è la principale responsabile di quel terribile errore divino? Chi è che rappresenta la fonte di ogni tentazione che conduce l’uomo alla perdizione? Chi? La donna, naturalmente! E l’uomo in tutto questo è solo una povera vittima. Vittima della vergogna legata al sesso. Vittima per il solo fatto di sentirne il desiderio. E se il sesso è cattivo, è male, è proibito, è immorale, è schifoso, lo è molto di più se a desiderarlo è la donna. Questo ci porta direttamente al tema: l'ipocrisia e la doppia morale sessuale. Inutile dire che in un breve discorso non si possono affrontare tutte le cause e i sintomi dell’ipocrisia e della doppia morale sessuale. Ma tenterò di definire almeno tre dei fenomeni principali che tutto ciò produce.

1 - Il primo fenomeno è il persistere della misoginia, nel considerare le donne come immature, irresponsabili, non in grado di fare scelte sessuali e di vita indipendenti. Viola ha commesso il “grande reato” di essere rimasta incinta quando è stata violentata da suo fratello, ed è stata scacciata di casa perchè ha rifiutato di abortire. E’ stata abbandonata e per sopravvivere ha dovuto prostituirsi anche durante il periodo di gestazione. Ora è madre di una bellissima bambina sana e intelligente, ma cosa ne è stato di suo fratello? Ha subito forse qualche castigo per ciò che ha fatto? No. L’unico castigo lo ha subito lei e se non avesse trovato aiuto, chissà dove sarebbero adesso lei e la sua bambina. E’ questo che accade: se una donna osa opporsi ad un sistema ipocrita e maschilista semplicemente rifiutando di interrompere una gravidanza, come ha fatto Viola, deve subirne le conseguenze. Ma se un uomo violenta la sorella ed è protetto dalla famiglia, non subisce alcun castigo. Il problema è forse limitato alle zone rurali della Moldavia dalle quali Viola proviene? Dovremmo augurarcelo, ma tutte noi sappiamo che non è così. Se si parla della storia recente dell’Est Europa e dei Balcani, la violenza sessuale contro le donne è un fatto ineludibile che si è manifestato a diversi livelli e in varie forme. Sono state le donne a vivere drammatici episodi di violenza durante i conflitti che hanno sconvolto i Balcani negli anni novanta. Oltre allo stupro, usato come vero e proprio strumento di offensiva interetnica, vi sono state innumerevoli situazioni di sopruso e di sopraffazione. I casi di stupro e di violenza sono stati decine di migliaia e raramente i colpevoli, tutti uomini, sono stati condannati. Come dimostra che a sedici anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, i responsabili degli stupri continuano a sottrarsi alle indagini e alla giustizia. Alcuni occupano addirittura posizioni di potere e molti vivono nelle stesse comunità delle loro vittime. Sono pochi in definitiva i colpevoli che sono stati assicurati alla giustizia attraverso i tribunali internazionali e nazionali. Amnesty International stima che anche oggi, nella sola area dei Balcani, ben 15.000 donne o ragazze o bambine subiscano ogni anno abusi sessuali di vario genere, molti dei quali da membri maschi della propria famiglia. Abusi che poi restano impuniti. Ma dicendoli così, sono solo dati statistici, freddi numeri che non riescono a dare la misura di questo orribile fenomeno, e noi tutte sappiamo quanto non sia accurata questa cifra, come la stragrande maggioranza dei casi non vengano denunciati per vergogna, passando quindi sotto silenzio. Di quelle che subiscono violenza sessuale, infatti, non si parla e spesso le vittime sono circondate da un’aura di qualcosa che sa di sporco, intoccabile, che è meglio non provocare, non sentire, non udire.

2 – Il secondo fenomeno è la celebrazione della verginità femminile. Soprattutto laddove l’influsso religioso sta tornando ad essere molto forte, ci si attende che le donne si mantengano vergini fino a quando si sposano. Per me, che sono cresciuta sotto il comunismo e che ho vissuto gli anni della mia emancipazione in una grande città, in piena indipendenza e libertà, tutto ciò pare una barzelletta di cattivo gusto. Però, purtroppo, non lo è. Questa nuova ondata di “moralismo” e di “sottovalutazione della donna” sta prendendo di nuovo vigore da quando il sistema comunista è caduto e la religione si è di nuovo incuneata nella vita delle persone sostituendosi all’antica “dottrina” di partito, soprattutto in quei luoghi lontani dalle grandi città, nelle zone rurali e più povere. Allora, dove porterà tutto questo? Alla ricostruzione dell'imene? All'utilizzo dell’imene artificiale? Le donne accetteranno questa umiliazione prestandosi a questa immonda pratica talvolta costrette proprio dalle loro stesse madri al fine di rifabbricare la menzogna? Oppure come fece una bambina tanti anni fa con un bambolotto, affogheranno l’ipocrisia nella tinozza della propria dignità?

3 - Il terzo fenomeno, ma non il meno importante, è la discriminazione di quelle donne che sono capaci di gestire liberamente la loro sessualità e che vengono immancabilmente ostracizzate per il loro stile di vita definito, nella migliore delle ipotesi, come scandaloso o audace. La donna, perciò, tranne rare eccezioni, deve accontentarsi di essere la destinataria dei desideri del maschio. Soggetto dunque passivo e non attivo della sessualità perchè a lei non dato esprimere ma, piuttosto, di essere espressa. E’ per questo motivo che quelle che sono così coraggiose da ribellarsi andando contro alle regole, che trasgrediscono nello stesso identico modo che è concesso al maschio che per gli stessi comportamenti viene considerato normale, devono sapere che nella società dell’ipocrisia e della doppia morale sessuale saranno immancabilmente etichettate nel peggiore dei modi e che avranno sempre l’indice puntato contro.

Io credo che sia giunto il momento di non essere soddisfatte solo di lamentarci, ma che tutte quante per andare avanti dobbiamo fare qualcosa al riguardo: innanzitutto essere consapevoli di noi stesse e della grande forza che ci ha dato la Natura, e poi assumerci la nostra responsabilità. E qual è la responsabilità di noi donne in tutto questo? Qual è la nostra responsabilità nei confronti di questa ipocrisia sessuale che, fin da bambine, c’impedisce di fare delle libere scelte? Si tratta, almeno a mio avviso, di rifiutare il lavaggio del cervello che da secoli ci stanno facendo coloro che vogliono tenerci a bada, e che utilizzano il sesso come un elemento di controllo su di noi. E’ renderci conto che c’è qualcosa di sbagliato negli insegnamenti che ci sono stati inculcati. E’ credere che una vita sessuale sana, libera e non condizionata dai giudizi altrui è un nostro diritto. Una vita sessuale senza gli ostacoli posti dall’ignoranza, dall'educazione patriarcale, dal sessismo, dai tabù e dagli stupidi divieti. Si tratta dunque di educare le nostre figlie e i nostri figli in un modo diverso che porti le generazioni future ad un maggiore rispetto e comprensione del proprio corpo e della sessualità.

Per riassumere:

- il sesso non è  male. Il male è solo nella doppia morale misogina che penalizza le donne;

- il sesso non fa schifo. Quel che fa schifo sono gli inutili valori basati sul sessismo;

- il sesso non è immorale. Immorale è la spaventosa ipocrisia che dilaga ogni giorno di più.

Nudo artistico o pornografia? Si chiede . Anche se la fotografia non è antica come altre forme di espressione artistica, nondimeno molte sue forme vengono legittimamente considerate arte. Ciò non significa che tutte le “buone immagini” siano automaticamente artistiche (ma questo, a nostro avviso, vale anche per molti quadri e sculture…). Pertanto non tutte le fotografie si eleveranno alla dignità di seri nudi artistici soltanto perché mostrano donne o uomini privi di abiti. Basta consultare un qualsiasi vocabolario per rendersi conto che il termine “nudo” può essere infatti sia un aggettivo (che indica la condizione di chi non è coperto da vesti, cioè la nudità), sia un sostantivo (la rappresentazione artistica di un soggetto nudo). Il primo ha sicuramente una connotazione oggettiva, quasi “clinica”, mentre il secondo suggerisce un’interpretazione che attiene al campo dell’arte. Per un fotografo questa è una distinzione fondamentale, infatti possiamo affermare che l’immagine di un corpo nudo diventa un nudo, nel senso artistico, solo quando tale corpo viene messo in posa, illuminato, modellato e descritto non a fini documentativi, clinici o informativi che dir si voglia, bensì per scopi estetici ed interpretativi. Ma non basta. Esiste un sottile confine tra “bello e brutto”, tra “morale e immorale”. Soprattutto quando si parla di fotografia di nudo. Il fotografo e il pubblico delle sue immagini devono poter stabilire se una data fotografia sia definibile un’opera d’arte o una rappresentazione oscena. Il confine tra i due i campi è quasi impossibile da fissare, sia esteticamente, sia legalmente (Potter Steward, giudice della Suprema Corte di Giustizia USA, ha affermato: “Io non so esattamente cosa sia la pornografia, né so esattamente come descriverla; però quando la vedo, la riconosco!”). In linea di principio, ritengo che un’immagine sia da definirsi pornografica quando offenda il buon gusto di chi la osserva, non solo per la presenza dell’erotismo, ma soprattutto per quella sensazione di degrado della femminilità in generale e della donna ritratta in particolare che risulta inevitabile da una sua lettura. Quando un’immagine “sfrutti”, piuttosto che esaltare, le qualità erotiche e umane di un soggetto ci troviamo di fronte ad un lampante esempio di fotografia pornografica. Sebbene la pornografia sia spesso associata alla rappresentazione visiva della figura umana, una fotografia di nudo realizzata con onestà, sensibilità ed integrità è non soltanto una delle forme di espressione artistica più impegnative e difficili da creare, ma arriva a situarsi quasi agli antipodi del concetto di osceno. Un nudo magistrale può rappresentare uno dei massimi doni offerti al soggetto ritratto, un qualcosa che con la pornografia non ha assolutamente nulla a che fare…

ARTE O PORNOGRAFIA?

Arte o pornografia? Nel dubbio Facebook censura. Nuovo caso di nudo artistico bloccato dai software del social netowrk: «L'étud de nu» di Guillot online con i seni coperti, scrive Elmar Burchia su “Il Corriere della Sera”. Cos’è pornografia, cos’è arte? La domanda pare retorica, ai più. Non per Facebook. Ancora una volta il colosso di Zuckerberg non riesce a distinguere tra i due concetti. Un nudo femminile della celebre fotografa francese Laure Albin Guillot (1879-1962), pubblicato sul profilo del museo parigino Jeu de Paume per illustrare la mostra dedicata all'artista, è stato censurato e il profilo è stato temporaneamente bloccato. Certo va detto: per il museo parigino che ospita la mostra della pioniera dell'uso moderno della fotografia, Laure Albin Guillot, si tratta di un’enorme pubblicità. Ma a che prezzo? La pagina Facebook del Jeu de Paume è stata bloccata venerdì per 24 ore a causa del nudo femminile degli anni ‘40 postato sul profilo. I responsabili del museo, specializzato in fotografia contemporanea e video artistici, si sono affrettati a denunciare la vicenda parlando di «censura» da parte del colosso di Menlo Park: «Non distinguere tra un’opera d’arte e un’immagine pornografica è discutibile e soprattutto pericoloso». Laure Albin Guillot, che nel corso della sua vita si è dedicata a vari generi come il ritratto, il nudo, il paesaggio, la natura morta e il reportage, è stata anche una delle prime fotografe a lavorare in forma professionale per la stampa, l'edizione di libri, le illustrazioni e la pubblicità. Ciò nonostante, «L'étude du nu», questa l’opera finita nel mirino, infrange gli standard della comunità del social network. La foto in bianco e nero mostra una donna distesa e solo in parte nuda; le parti intime sono infatti coperte da un panno bianco. Nelle ultime ore il museo ha pubblicato la controversa foto su Facebook con una barra nera a coprire il seno e l’avviso che l'immagine è stata bloccata a causa di una violazione delle linee guida del social network (immagini di nudo non sono infatti ammesse su Facebook). Dopo i «numerosi messaggi di sostegno», la direttrice del museo, Marta Gili, ha annunciato che rifiuterà «ogni forma di censura». «La società non ha il diritto di fare una cosa simile con un’opera d’arte». Un portavoce di Facebook in Francia ha ammesso in una dichiarazione scritta che «a volte risulta difficile» riuscire a «distinguere tra arte e pornografia». Eppure non è la prima volta (e non sarà nemmeno l’ultima), che Facebook o meglio, i software automatici impiegati dal colosso californiano, censura alcuni dei profili a causa di fotografie ritenute lesive delle linee guida. L’estate scorsa, il social network rimosse l'immagine in cibachrome di Ema (nudo su una scala) del pittore tedesco Gerhard Richter dalla pagina del centro Pompidou di Parigi. Anche in quel caso, il motivo fu la nudità del soggetto. A seguito delle proteste, gli amministratori del sito si scusarono: avevano confuso il dipinto per una foto. Altro caso recente: a fine novembre scambiò un gomito - non proprio innocente, perché l'immagine venne creata apposta - per un seno femminile scoperto. Insomma, il social di Zuckerberg & Co. non va sul sottile, ma è fiero delle sue rigide politiche sulla pornografia. Con pene che vanno dalla semplice cancellazione, alla sospensione a tempo fino alla cancellazione del profilo per i recidivi.

Pinterest apre alle foto di nudo, gli artisti esultano, scrive “Il Messaggero”. Pinterest apre al nudo: la piattaforma digitale dedicata alla condivisione di fotografie, video ed immagini sta per dare ufficialmente luce verde alla pubblicazione di immagini senza veli proprio mentre Facebook e altri social network premono sul freno della diffusione di messaggi potenzialmente offensivi, violenti o sessisti. Una inversione a 'U' o quanto meno a 90 gradi decisa in seguito alle pressioni di artisti e fotografi. Finora l'etichetta di Pinterest per consentire l'affissione di foto sulla bacheca digitale era chiara: «Niente nudo, nudo parziale o pornografia». Ma «Pinterest è nata per consentire di esprimere le proprie passioni e la gente è appassionata dell'arte e l'arte include anche nudi», ha fatto sapere la società fondata nel 2010 da Ben Silbermann, Paul Sciarra e Evan Sharp al Financial Times rivelando l'intenzione di «far posto a queste richieste». Via libera dunque alla Venere di Milo e al Davide di Michelangelo mentre ieri Facebook si è impegnato a rivedere e migliorare la sua policy di moderazione online dopo che numerose aziende avevano ritirato la pubblicità per protestare contro il fatto che le loro inserzioni erano affisse accanto a messaggi violenti o misogini come quelli di gruppi che in apparenza avallavano femminicidi e stupri. Gli approcci divergenti - nota Il Financial Times - mostrano come i social network debbano fare un complicato gioco di equilibrio tra gli interessi dei loro utenti, la necessità di controllare e moderare quanto viene postato online e la pressione degli inserzionisti: Facebook guadagnerà 6,6 miliardi di dollari nel 2013, di cui 5,6 dalla pubblicità, secondo stime di eMarketer e la stessa Sheryl Sandberg, chief operating officer del colosso californiano, ha ammesso che «esiste tensione reale» tra quanto vogliono gli inserzionisti e la libera espressione. L'impegno di Facebook a far pulizia rendendo più severe le sue regole ha indotto alcune aziende, come la casa automobilistica giapponese Nissan, a tornare sul social network. Non così Nationwide, la maggiore società immobiliare del Regno Unito che ha annunciato di aver sospeso a tempo indeterminato gli spot fino a che non verranno definite «regole severe e chiare per impedire che il suo brand venga accostato a contenuti indecenti».

L'Onu e la guerra fredda del sesso. Si sorvola su regimi sanguinari e genocidi e ci si occupa del mancato riconoscimento delle coppie omosessuali, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma non vi pare di stare un po' esagerando con la questione omosessuale elevata a priorità planetaria? L'Onu, che meglio sarebbe ribattezzare Omu visto che non si occupa di nazioni ma di omosex, censura Stati e religioni sul mancato riconoscimento delle coppie omosessuali, sorvolando su banali incidenti come regimi dispotici e sanguinari, genocidi su base etnica o religiosa e pena di morte a gogo in grandi Paesi come la Cina. L'Omu arriva a censurare un'istituzione bimillenaria come la Chiesa sulla questione omo e sull'aborto, con la pretesa ideologica e invasiva di dettare pure alla fede i suoi canoni paranoically correct. La retorica organizzazione umanitaria, inefficace quando si tratta di risolvere le questioni legate ai diritti elementari della vita umana e della persona violata o di tutelare i cristiani massacrati nel mondo, getta benzina sul fuoco della Guerra fredda che si è riaperta tra Usa e Russia per le Olimpiadi invernali. Stavolta gli States hanno schierato non missili e testate nucleari ma lesbiche e omosessuali nel nome dell'omolatria violata. Lascio da parte il merito della questione, che peraltro riguarda, non dimentichiamolo, una piccola minoranza all'interno della minoranza omosessuale. Ma trovo assurdo che le questioni internazionali, i rapporti tra Stati, le sanzioni, le rotture diplomatiche e le censure, vengano regolati sempre e solo da questa ideologia trans e biofoba, onnipervasiva. Per far questo non c'è bisogno dell'Onu, Ban Ki-moon e Obama, bastano le Pussy Riot.

I Sex toys valgono 15 miliardi. All’Italia resta solo il porno, scrive Wall & Street, ossia Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco, su “Il Giornale”. Di Lady Gaga vi abbiamo già parlato in merito alla sua popolarità su Facebook, inferiore a quella della Coca Cola (a proposito su Twitter è stata di recente stracciata da Katy Perry che ha sfondato il tetto dei 50 milioni di follower). Oggi ve la proponiamo in una «luce» diversa pubblicando la foto di un gadget a lei ispirato. Si tratta di una torcia che in inglese si dice flashlight. Ma poiché l’oggetto si chiama fleshlight e il riferimento è a flesh (carne), l’utilizzo che se ne può fare è diverso. Per non perderci nei giri di parole vi diremo che si tratta di un gadget per praticare l’autoerotismo, un sex toy. Come rivelato da un’indagine promossa da My Secret Case, una piattaforma Internet specializzata nel commercio di questo tipo di articoli, nei Paesi industrializzati il 95% degli uomini e l’89% delle donne ammette di praticare l’autoerotismo. È una percentuale molto elevata che induce anche a porsi un altro tipo di domande. Ma noi non ci occupiamo di sociologia. Sono le donne, però, a essere più intraprendenti. Negli Usa il 60% di esse fa uso di giocattoli erotici, il 49% in Inghilterra e il 45% in Germania. In Italia solo il 28% delle donne ha fatto un acquisto «speciale». È anche una questione di mentalità, evidentemente. Le stime che circolano in Rete indicano che i sex toys producono un giro d’affari pari a 15 miliardi di dollari, un business che cresce del 30% all’anno. si tratta, però, di un vantaggio, soprattutto, per la Cina che produce oltre l’80% dei dispositivi. Nel Paese asiatico – dove la pornografia è illegale – negli ultimi vent’anni sono spuntati come funghi oltre 200mila sexy shop. Secondo i dati del Guangzhou Sexpo del 2012, l’industria del sesso fattura oltre due miliardi di dollari all’anno. Alibaba, l’eBay cinese, sulla sua piattaforma dà spazio a oltre 2.500 aziende che vendono sex toys. Il Rapporto Coop «Consumi & distribuzione» ha rivelato che quest’anno il nostro Paese dovrebbe registrare uno sconfortante -6,1 per cento negli acquisti del comparto non food. Per il settore del sexual entertainment (che va dal Viagra ai sex toys), la crescita sarà straordinaria: +6,4 per cento. La classifica Loveville pubblicata da Durex su dati Nielsen vede Bologna come città con maggiore propensione all’acquisto: 546mila euro in due mesi di monitoraggio. Seguono Firenze e Verona.   Circostanza confermata anche dai dati di My Secret Case: il 45% degli acquirenti risiede infatti nel Nord Est. A seguire il Centro, mentre Nord Ovest e Sud spendono meno. L’importo medio degli ordini è di tutto rispetto: 90 euro. Per il sesso non si bada a spese. P.S.: Wall & Street sono cattolici. Dopo la pubblicazione di questo post correranno subito in Chiesa a confessarsi…

Sesso insegnato ai bimbi dell'asilo: polemica e referendum in Svizzera. In diverse scuole del Cantone di Basilea i bambini ricevono un'educazione sessuale che a molti appare troppo precoce. Tra poco sul tema si terrà un referendum, scrive Luisa De Montis su “Il Giornale”. Insegnare il piacere sessuale ai bambini di quattro anni non sarà un po' troppo presto? Eppure avviene dal 2011, in decine di scuole elementari del Cantone di Basilea, in Svizzera. Nelle "sex-box" distribuite ai bimbi dai 4 ai 6 anni c'è tutto il necessario per spiegare l'anatomia del corpo umano e, soprattutto, come nascono i bambini. Con tanto di video esplicativi, pupazzi, peni e vagine finte.  Crescendo, ma di poco (tra i 6 e i 10 anni) ai bimbi vengono spiegati temi come la masturbazione, l'orientamento sessuale, i preservativi, le mestruazioni e l'eiaculazione. Salendo fino ai 13 e i 15 anni si affrontano, invece, altre tematiche sessuali. Si tratta di un percorso sperimentale di educazione sessuale, che dovrebbe diventare obbligatorio dal prossimo anno scolastico estendersi alla Svizzera tedesca, a quella francofona e al Canton Ticino. Con questo scopo: "Fornire ai giovani le conoscenze essenziali, le capacità, le competenze e i valori di cui hanno bisogno per conoscere la loro sessualità, provando piacere fisico, psichico ed emozionale". L'iniziativa ha fatto arrabbiare alcuni genitori, che si sono mobilitati promuovendo un referendum (che si terrà nei prossimi mesi) contro l'insegnamento troppo precoce del sesso, a partire dagli asili. Il referendum (che in tre anni ha raccolto 100mila firme) chiede di abolire l’educazione sessuale nelle scuole a bambini fino ai 9 anni di età, di renderla opzionale fino a 12 anni e obbligatoria per i più grandi, ma a una condizione: che sia tenuta da  insegnanti di biologia che si concentrino sulla riproduzione senza andare a toccare gli "aspetti sociali della sessualità".

Sesso coi minori? Perché no, è "accettabile", scrive “Libero Quotidiano”. Almeno così la penserebbe oltre un italiano su tre, il 38% per la precisione. E' quanto emerge da un'indagine Ipsos per Save the Children. Il 28% degli adulti ha tra i propri contatti degli adolescenti che non conosce personalmente, mentre l'81% pensa che le interazioni sessuali tra adulti ed adolescenti siano diffuse e trovino terreno fertile su internet. Inoltre un italiano su dieci attribuisce la "colpa" dell'iniziativa di contatto proprio agli adolescenti. Le cifre - Secondo il 48% degli intervistati i ragazzi di oggi sono più disinvolti degli adulti nel loro approccio, nonché (per il 61%) sessualmente più precoci. Per il 36%, però, sono impreparati a gestire una relazione matura. C'è anche un 1% che sostiene che un rapporto sessuale con un adulto può essere formativo per il minore. Comunque per il 51% del campione gli adulti che fanno sesso con gli adolescenti sono o "irresponsabili" o "emotivamente immaturi". Il campione - L'indagine è stata effettuata a gennaio su un campione di 1.001 adulti tra i 25 e i 65 anni in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione Europea alla sensibilizzazione dei più giovani a un corretto e consapevole uso della rete. Tra i dati interessanti, anche quello che rivela che tra gli over45, il 37% del campione usa la rete (soprattutto i social network)per colmare il vuoto affettivo e conoscere persone disponibili a fare amicizia o ad intrattenere un rapporto amoroso.

L'incontro sessuale tra un minore e un adulto è ritenuto "accettabile" da quasi un pugliese su due (47%), sempre (21%) o ad alcune condizioni, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E’ quanto emerge da una ricerca nazionale Ipsos per Save the Children su "Le interazioni sessuali adulti-minori a partire da Internet", in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione europea alla sensibilizzazione dei più giovani ad un uso corretto e consapevole della rete. Dalla ricerca emerge che più della metà dei pugliesi si affaccia alla rete per colmare un importante vuoto relazionale e affettivo della vita reale: il 58% dei pugliesi afferma di utilizzare il web – soprattutto i social network – per conoscere persone disponibili a fare amicizia o ad intrattenere un rapporto di affetto o amore. Il 29% degli adulti pugliesi ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente. La stragrande maggioranza (90%) pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino in Internet il principale strumento per iniziare e sviluppare la relazione, che può sfociare nell’incontro fisico, mentre uno su 10 attribuisce la responsabilità dell’iniziativa di contatto esclusivamente agli adolescenti. Il dato pugliese supera le percentuali nazionali - L'incontro sessuale tra un minore e un adulto è infatti ritenuto "accettabile" da oltre un italiano su tre (38%). Il 28% degli adulti italiani ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente e l’81% pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino il loro 'input' su Internet. Un italiano su dieci attribuisce la responsabilità dell’iniziativa di contatto agli adolescenti. Dalla ricerca emerge inoltre che il 58% degli intervistati, dato più alto a livello nazionale, attribuisce agli adulti la responsabilità dell’iniziativa di contatto nell’interazione con un adolescente, ma secondo il 38% anche gli adolescenti hanno una parte attiva nell’iniziativa del contatto (per il 28% condividono questa responsabilità con gli adulti, mentre per un pugliese su 10 sono i ragazzi i principali responsabili). Il 32% degli adulti pugliesi considera infatti i ragazzi più disinvolti nell’approccio con loro, e sessualmente più precoci (50%), ma comunque impreparati nel gestire una relazione sessuale con una persona matura (40%). Di contro, per due intervistati su 100 la relazione sessuale con un adulto potrebbe addirittura essere formativa per il minore. La consapevolezza e la parziale accettazione delle relazioni di natura sessuale tra adulti e minori, tuttavia, non esclude il giudizio sugli adulti che intraprendono relazioni di natura sessuale con adolescenti, ritenuti irresponsabili dal 60% degli intervistati o emotivamente immaturi (27%).

Il portale web delle fantasie pedofile, dove anonimi autori si scambiano racconti di stupri e violenze su bambini, scrive “Libero Quotidiano”. Tutte opere di fantasia, assicurano i responsabili del sito, ma l'associazione per la lotta alla pedofilia Meter, che ha segnalato il web site alla Polizia Postale della Sicilia Orientale, non ce la vede giusta: troppo cruenti e verosimili i contenuti, come troppo duri sono i commenti. "Non chiediamo alla magistratura solo la chiusura del portale - si legge in una nota diramata dall'associazione -, ma anche di aprire un'indagine per istigazione alla pedofilia e alla sua pratica". Gli autori, anche italiani, "sono specializzati nelle storie in cui si insegna come stuprare i bambini  - si legge nel testo -. Del resto, per loro, raccontare è meglio che stuprarli realmente". Sul sito non vi sono immagini o video dal contenuto pedopornografico, ma solo testi della cui natura prettamente narrativa don Fortunato Di Noto, presidente di Meter, nutre dei dubbi: "Ma come si fa a dire che sono solo idee, immaginazione? - chiede -. Così fanno i negazionisti del razzismo, del nazismo, dei lager e dei campi di concentramento quando dicono che la soluzione finale era solo una idea. Pedofili scrittori che narrano stupri di bambini e le presentano come 'fantasie' che non fanno del male a nessuno - conclude -: ma i commenti sono tutto fuorché fantasie. Sono parole che mascherano una realtà drammatica e spesso taciuta, la realtà dell'abuso".

Che siano solo opinioni interessate da parte di un prete presidente di una associazione. Anche perchè è troppo facile parlare di pedofilia se poi....

Lui 60 anni e lei 11: per la Cassazione è amore. Annullata condanna a dipendente Comune Catanzaro. La decisione della Suprema Corte farà sicuramente discutere. I due erano stati sorpresi in flagranza in una villetta del catanzarese e l'uomo era stato condannato in processo a cinque anni per violenza sessuale su una minore. Ora la decisione di rivedere tutto riconoscendo l'attenuante della relazione sentimentale, scrive Stefania Papaleo  su “Il Quotidiano della Calabria. Lui 60 anni e lei 11 anni. Lui impiegato presso i Servizi sociali del Comune di Catanzaro, lei bimba di famiglia disagiata. La mamma l'aveva affidata alle sue cure. E lui l'aveva presa tra le sue braccia. Ma quando i poliziotti avevano fatto irruzione in quella villetta in riva al mare, le sue braccia la tenevano stretta sotto le lenzuola del lettone. Entrambi nudi. Ma anche innamorati, scrivono oggi i giudici della Corte di Cassazione, che, tra le righe di una sentenza che non mancherà di far discutere, individuano un'attenuante nell'accondiscendenza della vittima a consumare rapporti sessuali con l'imputato.  Così, annullata con rinvio la sentenza di condanna a 5 anni di reclusione per ben due volte inflitti a Pietro Lamberti, rispediscono gli atti alla Corte di appello di Catanzaro e ordinano un nuovo processo. Che ripartirà proprio da lì. Da quella villetta trasformata nell'alcova di un amore proibito. Fatto di telefonate quotidiane e incontri a tutte le ore. «Ma tu mi ami», le chiedeva romanticamente la minorenne. E lui, tentava invano di fermarla, per poi lasciarsi andare a commenti a sfondo erotico. Fino a quando il timore di una gravidanza lo avrebbe fatto desistere. E la paura si era sostituita al corteggiamento. Così come emerge da alcune delle centinaia di intercettazioni raccolte dai poliziotti. Lei gli faceva uno squillo quando si trovava da sola in casa e lui la richiamava dal cellulare, fatta eccezione per il week end. «Non chiamarmi sabato e domenica perché sono con la famiglia», la avvertiva. E lei ubbidiva. Così come avrebbe fatto quella mattina di sole del 22 giugno di tre anni fa, nel momento di indossare la gonna per poterlo “incontrare” in macchina, perché ritornare nella casa di Roccelletta sarebbe stato troppo rischioso, le avrebbe fatto notare il “suo uomo”, che da qualche tempo si sentiva addosso gli occhi della madre della undicenne, tanto da raccomandare continuamente a quest'ultima di non aprire bocca con nessuno e di non raccontare della casa di Roccelletta, «perché questo è un segreto che ci dobbiamo portare fino alla tomba». Ma il segreto alla fine fu scoperto. E Lamberto era caduto dritto nella rete dei poliziotti che, dopo avere intercettato l'incontro, lo avevano seguito e colto in flagranza.

Detto questo possono apparire bigotte puritane e moraliste certe prese di posizione.

Cassazione, assolto un 60enne: fece sesso con una bimba di 11 anni, scrive Simona Bertuzzi su “Libero Quotidiano”.La Cassazione salva l'uomo: "Era una vera storia d'amore". Lei era in affidamento. Ma se per un giudice della Cassazione un uomo di sessant’anni che si porta a letto una bambina di 11 è amore, solo amore, e una condanna a 5 anni per violenza va annullata e rimandata in Appello perché l’attenuante della relazione sentimentale non è stata presa in considerazione, a noi che resta? La notizia l’ha raccontata con dovizia di particolari  Il Quotidiano di Calabria. A Catanzaro una mamma in difficoltà affida la sua bimba di 11 anni ai servizi sociali del comune. Le dicono: siete una famiglia disagiata signora, lasci fare a noi. E lei, la mamma disagiata, decide di fidarsi. Prende la sua bimbetta adolescente, coi suoi 11 anni di giochi, codini e Winxs e  la porta negli uffici dei servizi sociali. «In fondo alla scala a destra, signora...» dove c’è quell’impiegato così gentile, con quell’aria da medicone di paese. Da quel giorno tra l’impiegato  per bene e la ragazzina in difficoltà comincia una storia allucinante, fatta di corteggiamenti, letterine, messaggi. Poi le gite al mare nella villa di famiglia che resta vuota durante l’inverno, e infine il sesso. Come una coppia di amanti qualunque, come il più banale e il più visto dei rapporti clandestini.  Il giorno dell’arresto il sessantenne viene trovato a letto nudo con la bimba, nella sua casa estiva. La piccola è svestita anche lei e lo abbraccia. La polizia che ha fatto irruzione nella casa non ha dubbi. Finisce come deve finire: l’arresto e poi la condanna a 5 anni di carcere per violenza sessuale. Fino a quando un solerte avvocato non fa notare che la ragazzina era consenziente quando faceva sesso con l’impiegato comunale e dunque non è stata considerata l’attenuante della relazione sentimentale. Di lì il ribaltamento della sentenza. Amore dicono i giudici. Non pedofilia come siamo abituati a considerare e giudicare qualunque rapporto con un  minore. E a sostegno della tesi si portano le centinaia di intercettazioni fatte dalla polizia. Dalle quali emerge che l’undicenne lo assillava quotidianamente con la domanda che fanno tutte le amanti: «Mi ami?. E lui all’inizio tentava di fermarla perché temeva un gravidanza indesiderata, ma poi sai com’è,  uno alla fine cede e si lascia andare. Sempre le intercettazioni dicono che lei lo chiamasse in continuazione quando era sola in casa, e lui le rispondesse dal cellulare, imbarazzato e durissimo: «Non cercarmi  il sabato e la domenica, lo sai che sono in famiglia». Anche quella mattina del 22 giugno di tre anni fa andò più o meno così. Lei indossava la gonnellina bella per «incontrarlo» in macchina, perché tornare nella casa di Roccelletta sarebbe stato rischioso. E lui fu più duro del solito: «Mi sento addosso gli occhi di tua madre, non devi aprire bocca con nessuno e non devi raccontare della casa di Roccelletta perché questo è un segreto che dobbiamo portarci nella tomba». Amore dicono i giudici. Anzi no scusate: una relazione sentimentale. No. Non è vero. Avvocati, giudici, fino all’ultimo praticante di tribunale avranno fatto ogni cosa a norma di legge in questa orribile vicenda. Ogni cavillo sarà stato considerato, ogni telefonata sarà stata risentita fino all’inverosimile, fino alla nausea. Ma noi no. Noi che siamo solo gli spettatori inermi dell’orrore, le mamme e i papà che tremano ogni volta che nostra figlia adolescente chatta su facebook o ha lo sguardo assente e un po’ smarrito a tavola, noi non possiamo leggere, girare il capo, e fare finta che sia tutto ok. Che non sia violenza. Che davvero sia possibile un rapporto d’amore tra un 60enne e una bimba di 11 anni.  Anche se lei scriveva sms. Anche sei lei diceva «mi ami»,  metteva il vestito «degli incontri in macchina» e aspettava che mamma uscisse  a comprare il pane per rifugiarsi nella sua cameretta e fare una telefonata al suo amore. Anche se lui, forse, pensava davvero di amare quella bimba. Qualcuno dirà che al giorno d’oggi le undicenni sembrano giovani donne fatte e finite, che vestono come le grandi e ammiccano come loro. Era dovere di quell’uomo  vedere l’orrore di quello che stava facendo. Sentire la puzza di violenza e perversione e fuggire lontano, preservando se stesso e la bambina dal più aberrante dei finali. E invece no: lui, che faceva l’impiegato per i servizi sociali e avrebbe dovuto strappare la ragazzina al disagio, sussurrava al telefono dalla sua poltroncina calda di marito e impiegato irreprensibile: «Non chiamarmi a casa...». E già te lo vedi il sabato fare la spesa, vedere gli amici e raccontare alla moglie indaffarata in cucina le ultime dal Comune come se nulla fosse. Diceva talvolta alla bimba: mi sento addosso gli occhi di tua mamma. Ma ve lo immaginate cosa deve aver provato quella mamma a sentirsi dire che l’uomo che doveva aiutare la sua bambina aveva abusato di lei? Che lei stessa aveva consegnato la figlia all’orco? Anzi, l’aveva  raccomandata?  Pensavano fosse amore i giudici. Invece era violenza e schifo e orrore.

GLI ORGASMI NELLA STORIA DEL CINEMA.

Billy Crystal, tutta la verità sull'orgasmo di Meg Ryan. Da Orson Wells alla celebre scena del finto amplesso in "Harry ti presento Sally": in un libro tutti e 65 gli anni dell'attore, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”.. E’ il 1975. Un giovane comico di nome Billy Crystal è stato ingaggiato per apparire al Tonight Show di Johnny Carson. E’ la sua prima volta nel tempio della comicità americana. In un angolo, seduto su una sedia, c’è Orson Welles – ospite fisso del programma - che sta ripassando le sue battute. “All’Università di New York”, ricorda Crystal, “Scorsese ci aveva parlato molto di Welles e del suo straordinario lavoro di attore e regista (…) e ora che me lo ritrovavo davanti avevo una certa soggezione”. Billy, preso dall’entusiasmo, gli si avvicina. “Mi scusi, signor Welles. Sono Billy Crystal, lavoro anche io nello show e volevo dirle che ho studiato i suoi…”. Welles lo interrompe bruscamente: “…film, e lei è un innovatore e un grande regista e bla bla bla. Sto lavorando, va’ a farti fottere”. Questo episodio, assieme ad altri altrettanto divertenti, è contenuto nell’autobiografia che Crystal ha scritto appena compiuti i sessantacinque anni, appena pubblicata in Italia da Sperling (Dove sono stato, dove sto andando e dove diavolo ho lasciato le chiavi?, pp. 308, euro 18). Si tratta di un memoir esilarante, che al racconto della carriera del grande comico americano unisce le sue riflessioni sull’invecchiamento, sul sesso, sull’amore (è sposato con Janice dal 1970, caso più unico che raro a Hollywood) e su mille aspetti della vita. Un altro episodio divertente è il dietro le quinte di Harry ti presento Sally, il celebre film di Rob Reiner del 1989.  E’ la mattina in cui Meg Ryan si appresta a entrare nella storia del cinema registrando la scena dell’orgasmo al ristorante. “A un tavolo vicino era seduta Estelle, la magnifica madre di Rob. Era lei la signora che dice: ‘Quello che ha preso la signorina’. Cominciammo a provare, e Meg sembrava un po’ insicura. Il primo orgasmo fu così così; in quello successivo sembrava fossimo sposati da dieci anni. Forse era un po’ nervosa perché doveva condividere il suo orgasmo con tanta gente. Rob, un po’ spazientito, la invitò a fargli posto al tavolo perché potesse mostrarle cosa voleva da lei. Così mi ritrovai seduto di fronte quest’omone barbuto e sudaticcio pronto a eccitarsi. (…) Dopodiché Rob si esibì in un orgasmo da fare invidia a King Kong. ‘Sì, Sì, Sì’ urlava, sferrando certi pugni sul tavolo che i sottaceti volavano e l’insalata di cavolo fluttuava a mezz’aria. Una volta terminato, gli artisti di contorno applaudirono e Rob mi prese da parte. ‘Ho commesso un errore’, mi confidò. ‘Non avrei dovuto farlo’. ‘Meg non se la prenderà. Non credo tu l’abbia messa in imbarazzo’, lo rassicurai. ‘Ma no, cos’hai capito?’, replicò. ‘Ho appena avuto un orgasmo davanti a mia madre’”. Il meglio di sé, come prevedibile, Crystal lo offre nei monologhi da stand up comedian. Prendiamo i brani sul sesso. “Poi c’è quella pubblicità del Cialis dove dicono che se lo prendi vai avanti per trentasei ore. Puoi fare sesso in qualsiasi momento, nell’arco di quelle trentasei ore. Ma così è troppo stressante per me. Viviamo in una società frenetica: vogliamo tutto subito, abbiamo internet e messaggi istantanei, quindi vogliamo sesso istantaneo di certo non un Cialis che fa effetto per trentasei ore. Trentasei ore è più della durata totale della mia vita sessuale! E poi il Cialis non va bene per noi ebrei. ‘Irving, prendi questa pasticca, funziona per trentasei ore’. E Irving: ‘Trentasei ore in un anno, giusto? Posso riscattare quelle che non uso? Posso scambiarle con quel servizio di piatti?’”. O ancora: “Ho sempre pensato che il segreto per avere una vita sessuale soddisfacente fosse la varietà. E’ per questo che Dio mi ha dato due mani”. A un certo punto, Crystal immagina di origliare la conversazione di una coppia. Lui e Lei avevano venticinque anni nel 1973 e nel 2013 ne hanno compiuti sessantacinque. “1973. Lui: Guardati, sei bellissima. Lei: Oh, ma dai! 2013. Lui: Mai viste due tette così! Lei: Smettila di guadarti allo specchio e vieni a letto.” “1973. Lui: Perché tieni gli occhi aperti? Lei: Perché mi piace guardarti mentre facciamo l’amore. 2013. Lui: Cosa stai guardando? Lei: Le tende, non si intonano con la parete”. “1973. Lei: Cavolo, sarà almeno venti centimetri! Lui: Aspetta di vedermi eccitato! 2013. Lei: Accidenti, è così duro. Lui: Il dottore ha detto che è benigno”.  Infine, una piccola dichiarazione d’amore per la sua città. “A Los Angeles gli inseguimenti fanno più ascolti di CSI. Sono i reality originali. C’è quest’auto che va contromano in autostrada, poi a centoquaranta in un centro abitato, dove si schianta contro una recinzione. Al che il tizio al volante scende dalla macchina e si mette a correre attraverso i cortili delle case saltando le staccionate, mentre la troupe sull’elicottero lo inquadra dall’alto con un riflettore puntato su di lui. Personalmente, credo che sia una delle migliori performance di Lindsay Lohan”.

IL PORNO IN RETE.

Chi ha paura del porno in rete? Si chiede Emmanuele Jannini su “Panorama”. Il mantra ripetuto e rilanciato dai media è sempre lo stesso, acritico e pedissequo: attenzione alla pornografia e al cybersex! Internet pullula di pericoli per la salute sessuale e sociale di giovani e adulti. Ed ecco che arriva “l’esperto” dichiarante coram populo che il sesso on line genera mostri, perversioni (per gli addetti: parafilie) e subito dopo se ne alza un altro che cerca i riflettori ribattendo: no; produce invece astenia sessuale, desiderio sessuale ipoattivo, inibizione. Ma su una cosa sono entrambi d’accordo: l’inventarsi a tavolino due numeri spacciati per “ricerche” (che naturalmente non verranno mai pubblicate su un vero giornale scientifico) sulla pornoaddiction, giusto per guadagnarsi quei 15 minuti di celebrità mediatica che a nessuno si negano. Qualche mese fa il Journal of Sexual Medicine mi ha chiesto di valutare la letteratura scientifica su questo argomento. Mi è parso che ben pochi siano riusciti a sfuggire alla tentazione di un atteggiamento giudicante, più teso a cogliere i rischi che non i possibili benefici dell’espressione della sessualità on line. Così è stato per Robert Weiss, che si guadagna da vivere “curando” i sexual addicted nel suo Sexual Recovery Institute, denunciando che il 12% dei siti internet sono porno (avrei detto di più), il 25% delle parole googlate è correlato al sesso (68 milioni al giorno), il 35% dei download è porno, 40 milioni di americani sono pornofili, il 70% dei giovani visita un sito porno almeno una volta al mese (1/3 sarebbero donne) e il giorno preferito per il cybersex sarebbe la domenica e le feste comandate. Racconta questi numeri come rappresentazione dell’abisso di perdizione su cui ci sporgiamo ad ogni click, ma a Robert Weiss non viene in mente che il pianeta non è, si direbbe, popolato da zombi iper- o ipo-sessuali  contagiati dal morbo internettiano. Nonostante la diffusione di internet, la gente non si accoppia selvaggiamente sulla metropolitana e la pressione demografica anziché calare è in continuo, drammatico aumento (ho appena finito di leggere l’ultimo Dan Brown: ne è valsa la pena anche per riflettere su quest’ultimo – infernale – aspetto). La stessa orrenda piaga dei delitti sessuali si colloca molto più facilmente nell’aerea dell’ignoranza e della repressione sessuale che in quella della licenza, come il paradigma vittoriano di Jack-the-Ripper ha insegnato e la cronaca conferma di continuo. In effetti, quando si cerca una verifica empirica, galileiana, scientifica dei pericoli della pornografia e della rete, le paure artatamente evocate da chi è interessato a suscitarle sembrano venir meno. Il collega Gert Martin Hald dell’Università di Copenaghen ha scoperto che la pornografia è solo uno dei fattori, e non il più determinante, che si può correlare a comportamenti devianti o a rischio. Come sempre, non è il mezzo a creare il pericolo, come non è il chianti a creare l’alcolismo. Né i sempre esistiti terrorizzati dai tempora e dai mores riusciranno a conculcare la scopofilia (che non sta per, come sembrerebbe ai non grecisti, la passione per la copula, ma quella di chi ama guardare chi copula). Che il voyeurismo sia evidentemente innato nella nostra specie lo dimostra la lettura del godibilissimo The Prehistory of Sex: Four million years of human sexual culture di Timothy Taylor (Fourth Estate, Londra, 1996): appena l’uomo primitivo ha imparato a graffitare le sue caverne le ha riempite di immagini sessuali. D’altra parte il nostro cugino macaco è disposto a “pagare” con la sua riserva di frutta la visione (noi diremmo: pay per view) di fotografie dei genitali delle femmine top rank (noi diremmo: dive). L’ha elegantemente dimostrato Robert Deaner del Dipartimento di Neurobiologia della Duke University, North Carolina. Purtroppo sembra che nella nostra specie sia anche innato l’istinto censorio che si direbbe talvolta si alimenti di invidia. Censurando e lacerandosi le vesti, pochi si accorgono del vero pericolo della pornografia: il modello di accoppiamento è rudimentale, violento, maschilista, performante, ginnico, irreale, sostanzialmente costruito sulle grossolane proiezioni maschili. Tuttavia la stragrandissima maggioranza degli utilizzatori, anche abituali, ne trae piacere senza cercare di imitarne le imprese sintetiche e artefatte, esattamente come succede a uno spettatore delle olimpiadi che si diverte e partecipa, ma poi non si sente frustrato per non nuotare come le medaglia d’oro dei 100 metri rana né prende a cazzotti o passa a fil di spada il suo prossimo appena spento il monitor. Tutto rimane nell’ambito (sano) della fantasia. Ignoranti e ingenui possono invece pensare che non sia adeguato/a chi non abbia le dimensioni di Rocco Siffredi, chi non duri come la leggenda metropolitana disse di Sting e chi non sia una disponibilissima sacerdotessa del sesso come l’indimenticata Moana Pozzi. E poi ci sono i perversi, quelli veri: la pornografia spasmodicamente cercata non è la causa della loro malattia, che ha radici ben più remote; semmai ne è la conseguenza. Un sintomo, quindi. E un amplificatore del tratto psicopatologico che trova cure sia psicoterapeutiche sia farmacologiche. C’è un solo antidoto per questi, che sono i veri seppur rarissimi rischi del porno internettiano: la conoscenza (nam et ipsa scientia potestas est, diceva Bacone e ho suggerito queste parole quando si è trattato di trovare un motto per il mio Dipartimento universitario all’Università dell’Aquila) e l’aperta discussione. Come faccio con voi in questo blog che apre lo spazio – ovviamente internet – di  Sex Cathedra. Professore Emmanuele A. Jannini – Coordinatore del Corso di Laurea Indirizzo Psicologia della Devianza e Sessuologia – Università degli Studi dell’Aquila e di Sex Cathedra.

È fashion o porno? Scopriamo il trucco...scrive  Melissa Panarello su “L’Unità”.  “Fashion or Porn?” è il nome di un quiz che in questi giorni sta girando su Facebook. La ragazza nella foto è seminuda e bella, ci sono le parole porn e game che già di per sé costituiscono ottimi motivi per aprire la pagina e giocare a quello che si rivela essere il quiz d’intelligenza più difficile del decennio. Vengono proposti particolari di quaranta foto ed è da quei particolari che bisogna indovinare se si tratta di un’immagine pubblicitaria o di una scattata su un set porno. I creatori del test non hanno minimamente pensato di aiutare i fannulloni che decidono di giocare, così capire se si tratta di una foto porno o fashion risulta praticamente impossibile (a meno che, come me, non vi arrendete e giocate tutto il giorno così da conoscere ormai ogni foto). La discriminante, ovviamente, sono i genitali. Dove ci sono genitali ben esposti e “in azione”, si tratta di porno. Il resto è arte. Un’altra differenza la traccia lo sguardo: dove ci sono occhi languidi oppure divertiti, si tratta di porno. Se sono vuoti, senza espressione, sono occhi prestati alla moda. Anche le piante finte possono aiutare: nei set porno, per qualche misteriosa ragione, usano sempre ficus benjaminus di plastica. Quello che stupisce è quello che in realtà già sappiamo tutti, ovvero che il confine fra pornografia ed erotismo è sempre più sfocato, che l’erotismo è morto negli anni 80, quando lo spietato Patrick Bateman spiava gli hard bodies dal suo divanetto nel privé oppure quando in Italia Umberto Smaila sorrideva beato fra le ballerine di “Colpo Grosso”. Il mercato ha semplicemente capito che la pornografia frutta molti più utili dell’erotismo, dopotutto l’etimologia del nome è molto chiara: il verbo pernemi (da cui porne, meretrice) significa appunto vendere. Se vuoi vendere, dunque, devi usare lo stesso linguaggio della pornografia, ma con un’eccezione: salvare i genitali. Seguita quest’unica, semplice regola, puoi fare quel che vuoi: chiedere alla modella o all’attrice di mimare un orgasmo per vendere un pacchetto di fazzoletti, alludere a un ménage-à-trois per sponsorizzare una concessionaria di auto usate, far calpestare un uomo da un tacco 12 per mostrare l’ultima, strepitosa collezione primavera/estate. La pubblicità e il mercato devono tutto alla pornografia. La pornografia, al contrario, non ha debiti con nessuno. Lei è quel che è: sfrontata, volgare e sincera. Mentre tutti gli altri linguaggi strizzano l’occhio, la pornografia ha la capacità di guardarti con tutti gli occhi aperti, anche un po’ infantili. E’ questo che la rende irresistibile, tanto invidiata e imitata. Roman Polański dice che mentre l’erotismo usa solo una piuma, la pornografia usa il pollo intero. Le pubblicità proposte nel gioco, che sono le stesse che vediamo tutti i giorni, ovunque, usano un’ala o un petto di pollo. Questo significa che presto arriveremo tutti a mangiare il pollo intero? Che si abbandoneranno le allusioni e diventerà tutto pornografia? Non credo. Il mercato, oltre che di sesso, ha bisogno di nutrirsi di mistero. Se non alimenti il mistero anche i messaggi sessuali perdono potenza, non hanno più valore. La coscia di pollo, dunque, è il limbo cui siamo approdati e su cui rimarremo per molto, molto tempo. Sono fermamente convinta che associare il corpo al sesso non sia di per sé umiliante né tanto meno scandaloso. È anzi separandoli che si creano sempre più fratture, crisi identitarie, sessuofobia. Il corpo è anche sesso e il sesso, immagino/spero/credo, non è umiliante per nessuno. L’uso che il mercato fa del corpo e del sesso non toglie senso e bellezza ai corpi e ai desideri sessuali: se una società ha una coscienza sessuale definita, se non ha paura delle sessualità in tutte le sue forme, se non ha paura del corpo e delle infinite possibilità in esso racchiuse, come può un cartellone sull’A1 minacciare l’identità sessuale o denigrarla? Ogni cosa è spettacolo e lo spettacolo, per sua natura, si ciba di e vomita menzogna. Scoperto il trucco, siamo tutti liberi.

Nymphomaniac di Lars Von Trier: "Un film ripugnante da amare". Il chiacchierato lungometraggio che promette sesso esplicito ha debuttato in Danimarca. E spuntano le prime recensioni. Controverse, scrive Simona Santoni  su “Panorama”. Il giorno di Natale Nymphomaniac, il nuovo lavoro di Lars Von Trier che promette sesso esplicito a profusione, ha debuttato in Danimarca. E intanto cominciano a comparire le prime recensioni. Il film racconta la storia erotica di una donna che si è autodiagnosticata ninfomane, interpretata da Charlotte Gainsbourg. Dopo un certo vuoto distributivo, il lungometraggio finalmente ha trovato distribuzione in Italia grazie all'audace Good Films di Ginevra Elkann. La pellicola è diventata oggetto di attenzione ancor prima dell'inizio delle riprese perché il controverso e innovativo cineasta ha annunciato che si tratta di un porno con scene di sesso vero interpretate da attori hollywoodiani come Gainsbourg, Uma Thurman, Shia LaBeouf, Willem Defoe e Christian Slater. Secondo alcune fonti in realtà Lars Von Trier non ha detto tutta la verità: per le scene più hot, infatti, professionisti dell'hard avrebbero "prestato" i loro organi genitali ai divi.  Panorama.it ha già pubblicato i teaser trailer scandalo  (uno è stato rimosso da YouTube per i suoi contenuti ritenuti inappropriati), il trailer ufficiale  e i character poster  che rappresentano l'orgasmo. In attesa di poter vedere l'ultima provocazione del controverso regista danese anche da noi, ci affidiamo alle parole dei colleghi stranieri.  "Nymphomaniac di Lars von Trier randella il corpo e intenerisce l'anima. È sconcertante, assurdo e assolutamente affascinante", scrive Xan Brooks sul Guardian.  "Un film sul sesso che è volutamente poco sexy e una lunga storia loquace (due volumi, quattro ore) che in gran parte parla a se stessa. Quelle figure nude in movimento sono solo una distrazione". E ancora: "Personalmente l'ho trovato un'esperienza livida e faticosa ma il film è rimasto con me. È così carico di calci piazzati, così screziato di idee ossessive e voli arditi della fantasia che raggiunge una sorta di trascendenza. Nymphomaniac mi infastidisce, mi ripugna e penso che potrei amarlo. Si tratta di un rapporto violento; ho bisogno di vederlo ancora". Secondo Peter Debruge di Variety l'enfant terrible del cinema internazionale - ormai non più enfant ma sempre terrible - "consegna un denso lavoro progettato per scioccare, provocare e infine illuminare un pubblico che considera fin troppo pudico". Tra tanti riferimenti all'arte, alla musica, alla religione e alla letteratura, "in questa versione di Nymphomaniac l'unica eccitazione nell'intenzione di Von Trier è di tipo intellettuale, rendendo questa immagine filosoficamente rigorosa più adatta ai cinefili che alla folla impermeabile".  Il film infatti è pensato per essere proiettato in due versioni; quella "corta" e soft è di quattro ore ed è quella attualmente uscita nelle sale danesi, divisa in due parti. La versione più lunga e hard è della durata di 5 ore e mezza e anche questa è divisa in due parti. Di questa versione, il volume 1 avrà la sua prima mondiale al Festival di Berlino. Todd McCarthy su Hollywood Reporter ci rivela che in fin dei conti Nynphomaniac è molto meno hard "di quanto molti potrebbero aver immaginato o sperato. Eppure non è mai noioso". Nymphomaniac è uno dei rari film di Von Trier a non aver debuttato al Festival di Cannes, da cui il regista venne cacciato nel 2011 per alcune dichiarazioni sconcertanti sul nazismo. In Italia arriverà a marzo nelle due versioni (sarà distribuito così anche negli Usa da Magnolia Picture). 

Von Trier sbarca a Berlino con «Nymphomaniac» e sdogana il sesso esplicito. Nelle sale aumento le pellicole osé. E tornano alla memoria Kubrick e Bertolucci, scrive Dina Disa su “Il Tempo”. Con l’avvento di Internet il mercato dei film porno è praticamente finito, distrutto dai video relity online e dall’amatoriale. Ora il sesso esplicito è territorio del cinema d’autore. Sono passati i tempi in cui Bertolucci faceva scandalo con «Ultimo tango a Parigi» o quando Malle raccontava i suoi adolescenti perversi e la Bellucci si prestava ad una scena di sodomizzazione per ben 9 minuti diretta da un talentuoso Gaspar Noè in «Irreversible». La tendenza sta diventando quasi un obbligo anche per le star più affermate che si esibiscono in scene lesbo o full frontal d’autore. Da «Shame» di Steve McQueen, con un glorioso Michael Fassbender, che ha suscitato entusiasmo presso critica e pubblico, anche per le immagini in cui appariva nudo in fullscreen al lesbo movie «La vie d’Adele». La fantasia di Kubrick in «Eyes Wide Shut» non si può certo paragonare al trasgressivo «Shortbus», esplicito sì, ma poco raffinato e ossessionato dal contorsionismo. Nonostante due precedenti eccellenti come la fellatio metafisica di «Batalla en el cielo» del messicano Reygadas e la fellatio americana di «The Brown Bunny», di Vincent Gallo (2003), la ribalta porno d’autore parte soprattutto Oltralpe. Ne sanno qualcosa gli amatori di «Baise-moi» di Coralie Trinh Thi, interpretato da veri attori hard core che con disinvoltura offrono le proprie performance alla cinepresa. Mentre il nostro pornoattore Rocco Siffredi è apparso in «Romance» di Catherine Breillat. A parte «Caligola» di Brass, l’erotismo di Bertolucci e l’altro grande cult, «Impero dei sensi» di Oshima, il film d’autore con scene hard in Francia ha tradizione più solida. Ora tocca al danese Lars Von Trier scandalizzare, e per giunta la platea raffinata di un festival intellettuale come la Berlinale (6-16 febbraio), con il suo «Nymphomaniac». Ad interpretarlo ancora lei, la sua musa di sempre, Charlotte Gainsbourg, nei panni di una ninfomane raccolta insaguinata per strada da un professsore (Stellan Skasgard) al quale racconterà le sue estreme esperienze sessuali. Nel cast anche Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Jamie Bell, Uma Thurman, Willem Dafoe, Jens Albinus e Connie Nielsen. Tra genitali finti, sesso vero con attori porno usati come controfigure, membri maschili di ogni genere e colore che riempiono il grande schermo, la versione integrale (di oltre 5 ore) sarà proposta alla Berlinale mentre l’altra sarà distribuita a marzo in Italia da Good Films. Il film è di grande livello artistico: certo, può non piacere o irritare, ma è impossibile che non colpista lo spettatore, preso per mano verso i lidi più estremi della sessualità. Certe scene di masochismo, per la Gainsbourg, «sono state umilianti», soprattutto quando si è lasciata frustare a sangue legata su un divano. Mentre il cerebrale professore trovava paralleli avventati tra le avventure erotiche della sua eroina e le realtà culturali, come la successione numerica di Fibonacci (paragonata alle infinite posizioni assunte dalla Gainsbourg) o la differenza tra sessualità libera e quella sadomaso, rapportate alla Chiesa d’Oriente e a quella più punitiva d’Occidente. L’escalation della protagonista ripercorre i déjà vu di Anais Nin, Henry Miller e del Marchese de Sade. Diverse le presenze italiane alla Berlinale (compresa Valeria Golino in giuria), ma nessun film in concorso: nella sezione Generation «Matilde», cortometraggio di Vito Palmieri e «Il sud è niente» di Fabio Mollo; nella sezione Forum «Materia oscura» documentario di Parenti e D’Anolfi (girato nel poligono del Salto di Quirra in Sardegna dove gli eserciti hanno testato per anni le nuove armi con danno all’ambiente); nella Kulinarischen Kino saranno presenti «Couscous Island», documentario di Amato e Scarafia, oltre a «Green Porno Season Two» di Isabella Rossellini e Jody Shapiro, «Slow Food Story» di Stefano Sardo e «Cavalieri della laguna 1» di Bencini. Nella sezione panorama sono infine attesi «Felice chi è diverso» di Amelio, «In grazia di Dio» di Winspeare e «La migliore offerta» di Tornatore. Tra le anteprime internazionali, oltre a «Nymphomaniac», anche «Monuments Men» di George Clooney, «Grand Budapes Hotel» di Anderson e poi, Resnais, Linklater e Bouchared.

Tira più un video hot di un carro di libri!! Questa è l’opinione di Francesco Maria del Vigo su “Il Giornale”. Per fare il verso ad un antico detto: tira più un pelo di figa che un carro di buoi. Tira più un video hot di un carro di libri? Il celebre adagio si può tradurre in un’agile regoletta sull’informazione on line. Ma solo a un’occhiata frettolosa e quanto mai accigliata. Il dibattito sulla “leggerezza” dell’informazione on line è un tema di discussione caro non solo agli addetti ai lavori. E c’è sempre chi, bacchetta moralizzatrice alla mano, intona dolorosi lamenti per la depravazione dei lettori (ma sono gli stessi che amano aggiungere una E all’inizio della parola) italiani che si riversano sopra contenuti soft porn. Prefiche di una verginità mai avuta. Seni esibiti in un autoscatto, perizomi che fanno capolino da pantaloni adamitici, capezzoli che sbucano sornioni da vestiti troppo scollati. Il basso si mescola inevitabilmente con l’alto nel cocktail dell’informazione. Alle volte se ne ricava un beverone indigeribile, altre un cicerone dalle piacevoli allucinazioni. È internet, bellezza. Al bando gli snobismi, suvvia. Non c’è niente di male. Chi dice che dietro una natica non possa nascondersi un contenuto culturale? In quale sacro testo sta scritto che lo sguardo che scivola giù per una profonda scollatura non finisca poi a leggere una poesia, per dire? Facciamo un esempio casalingo. Su queste pagine è stata pubblicata una pirotecnica intervista a Tinto Brass. Maestro dell’eros e dell’approccio carnale alla vita. Uno che, per intenderci, è stato escluso dal Festival di Venezia fino all’anno scorso, perché mostrava troppi centimetri di ignuda epidermide. Al microfono di Sylos Labini ha raccontato che “il culo è lo specchio dell’anima” e ha ricordato – ai pochi che non conoscono la sua opera – che con i suoi film procura “emozioni e non soltanto erezioni e lubrificazioni”. Ci sono voluti trent’anni perché il Lido ospitasse una retrospettiva sul regista (e non poteva che essere una retrospettiva una rassegna antologica del regista veneziano). Dopo aver sventolato la censura e sfoderato il cipiglio del bacchettonismo arriva, trent’anni dopo, la celebrazione. Per non parlare della ormai mitologica – e citatissima – intervista a Rocco Siffredi. Estrema, esagerata e più siffrediana che mai. Un colloquio senza filtri che è rimbalzato sulle pagine di decine di quotidiani. Non nascondiamoci dietro a un seno: i contenuti leggeri fanno clic e spesso sono interessanti, si fanno leggere e portano lettori. Lettori che poi si guardano attorno, perché a pochi pixel dallo scontornato di una coscia può apparire la recensione di un libro o la critica acuminata di uno spettacolo teatrale. Ed è subito contaminazione. Niente di nuovo sotto il cielo grigio della cultura italiana, un cielo pesante come il piombo, claustrofobico. Spesso le idee più scomode e urticanti trovano spazio tra le cosce della provocazione. Non per caso su Playmen, negli anni sessanta, sbarcarono intellettuali del calibro di Gian Carlo Fusco e Luciano Bianciardi e trovò spazio, persino, il pensiero osè di Julius Evola. Ieri come oggi la cultura libera non ha paura di percorrere le autostrade della comunicazione per entrare nelle zone traffico limitato del pensiero. E alla fine il bacchettone non si rende conto che è più volgare chi mangia una banana nascondendosi dietro a una mano – nel nome di chissà quale pudore – di una fellatio.

LA PORNOGRAFIA.

Pornografia. Universo del Corpo (2000), scrive di Piero Benassi su “Treccani”.

Pornografia.
Il termine pornografia (che deriva, mediante il francese pornographie, dal greco πόρνη, "prostituta", e γραθία, "scritto") sta a indicare la trattazione oppure la rappresentazione, attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli ecc., di soggetti o immagini osceni, effettuata allo scopo precipuo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.  sommario: 1. Relatività del concetto . 2. Diffusione attuale. 3. Pornolalia. 4. Interpretazioni. 

1. Relatività del concetto. La pornografia può essere considerata un'esibizione di organi o di atti sessuali finalizzata a provocare eccitazione. Come ogni altra espressione umana, essa risente fortemente della cultura del luogo e dei tempi in cui viene realizzata. Nel Palazzo del Tè di Mantova, edificato per le relazioni proibite dei Gonzaga, o in alcuni degli affreschi di Pompei sono raffigurate scene erotiche che nessuno interpreta come pornografiche, così come nessuno è eccitato dalla coppia a letto rappresentata nel Palazzo del Podestà di San Gimignano o di fronte ai nudi di Tiziano. Infatti, occorre distinguere fra il nudo proprio dell'arte erotica e il corpo nudo della pornografia. Inoltre, dai tempi dei Gonzaga o di Tiziano, è mutata la cultura e con essa la sensibilità. Nel Giudizio Universale della Cappella Sistina Michelangelo ha dipinto molti corpi nudi, in quanto nel Rinascimento il nudo non era considerato pornografico, come invece lo fu all'epoca della Controriforma quando, infatti, si ritenne opportuno coprire le figure michelangiolesche. I libri cinesi d'ammaestramento pedagogico per istruire alla sessualità una buona moglie sono invece considerati pornografici per l'Occidente. In Africa i missionari hanno costretto a vestirsi gli indigeni, che, invece, consideravano il nudo del tutto privo di significati erotici. L'effetto che un seno scoperto aveva fino a qualche anno fa attualmente ha perso gran parte del suo significato, se non è accompagnato da messaggi o stimolazioni più incisive, in quanto sono cambiati gli stimoli all'erotismo e di conseguenza i significati ritenuti pornografici, anche perché le nuove tecnologie mediatiche hanno determinato un rivolgimento nei gusti e nelle aspettative dei fruitori di tali messaggi. Sono tutti esempi di come il fenomeno pornografico risulti condizionato da una serie di fattori ben individuabili e siano diverse le valutazioni interpretative circa quello che viene considerato pornografico o meno. Il binomio pornografia-tabu, sostenuto da correlazioni teoriche, concetti psicodinamici e dimostrazioni storiche, inquadra i limiti del lecito rispetto a quello che i tabu rifiutano. Tra le variazioni culturali della pornografia, si possono distinguere quella erotica, che stimola l'uso 'normale' della sessualità, da una pornografia che invece si riferisce a pratiche sadomasochistiche, omosessuali, incestuose che giungono fino al feticismo, al travestitismo e al transessualismo (Andreoli 1989).

2. Diffusione attuale. Negli ultimi anni del 20° secolo i dati sul consumo dei prodotti pornografici hanno segnalato un costante aumento. Rispetto ai tradizionali prodotti stampati, hanno avuto crescente successo le videocassette che permettono l'uso privato dei film e quindi una maggiore utilizzazione rispetto ai cinema 'a luci rosse'. Meno diffusi in Italia, ma molto altrove, sono i pornoshops, i quali offrono oggetti utilizzabili per un rapporto pornografico attivo che oltrepassa la semplice percezione visiva. Un'altra innovazione è rappresentata dall'erotismo telefonico che offre il godimento di una relazione variabile a seconda delle caratteristiche richieste, impiegando mezzi vocali e verbali fortemente evocativi. Nell'attuale società si è diffusa, inoltre, l'offerta multimediale di varia sessualità via Internet, che in questo campo si pone in alternativa all'esperienza dei rapporti umani diretti e pare rispondere al carattere 'intellettuale' della sessualità contemporanea, caratterizzata da una sofisticata elaborazione immaginativa. Per la sua perfezione tecnica, l'erotismo multimediale sembra consentire stimolazioni istintive finora racchiuse nell'immaginario privato, ma che oggi possono tradursi in corpose immagini ricche di sensorialità, sostitutive o anticipatorie degli eventi reali. Questo erotismo, che può facilmente sfociare nel pornografico, diventa sempre più un voyeurismo trasgressivo, a uso del singolo, ma anche di coppia e di gruppo; in alcuni casi utilizzato in luogo della pratica sessuale, è un fenomeno di parasessualità ascrivibile a difettoso sviluppo della personalità, oppure può rappresentare un sostituto di sessualità turbata dalla paura di contagio di malattie veneree, soprattutto dell'AIDS. In una dimensione tribale o comunitaria la raffigurazione di soggetti erotici o di atti sessuali assume prevalentemente un significato rituale e finalità estetiche; nella società di massa, contraddistinta da tendenze e aspettative anche molto differenziate, il realismo o il simbolismo erotico vengono contaminati dalla trivialità e dall'insistenza compiacente su perversioni sessuali, pratiche sadomasochistiche, voyeurismi ecc. Nelle librerie è in notevole aumento la manualistica erotica; superate le pubblicazioni dei rituali sessuali induisti-buddhisti, di moda fino a pochi anni fa, i testi attuali esplorano le frontiere di un erotismo più carnale, suggeriscono aspetti sempre più ludici, consigliano l'utilizzo di nuovi afrodisiaci e di farmaci contro l'impotenza o per potenziare le capacità sessuali e sollecitano un uso di nuove tecnologie al servizio del piacere sessuale. Nel cinema, il genere pornografico, presente sin dai primordi, è in pieno sviluppo; non mancano le pellicole dove la pornografia è usata come elemento drammatico, ma in genere gli spunti narrativi si perdono in mediocrità ripetitive, non ci sono veri drammi, ma nemmeno sogni o realistiche redenzioni: in questo mondo persiste un insistente squallore nel quale ogni mistero perde i propri connotati, in quanto ogni aspetto di affettività, emotività e potere oscilla in un ventaglio di espressioni sessuali dai confini sempre più incerti. Sono numerosi gli esempi di inserimenti pornografici nell'ambito della quotidianità, dal moderno design di oggetti di uso comune a tutte le riproduzioni, le illustrazioni e i richiami, anche di stile pubblicitario. In campo letterario, si devono distinguere le opere alle quali lo spunto o la partecipazione di un erotismo ragionevolmente introdotto ed equilibrato assicurano un interesse e uno stimolo alla lettura, dal pornografico letterario vero e proprio, in cui gli autori ricorrono alla ripetizione e all'esagerazione, a situazioni esasperate, con avventure erotiche in luoghi favolistici nel corso di viaggi immaginari ecc., e che ha un tono sempre teso e drammatico, descrive esperienze eccezionali, è privo di senso dell'humour, della contemplazione, del distacco e della logica, si sviluppa in situazioni di allarme o di angoscia nelle quali le valenze sadomasochistiche, distruttive e autopunitive sono reiterate per stimolare immaginazioni e pulsioni istintive inabituali. La letteratura, il cinema e i mass media abbinano spesso l'erotismo incontrollato con la violenza, l'aggressività, gli impulsi, cioè aggiungono ingredienti idonei ad amalgamare aspetti dell'istintività che cercano soddisfazione sia tramite l'eros sia attraverso manifestazioni distruttive. Si realizza, dunque, una specie di connubio fra i due estremi, erotismo e senso di morte, in cui affetti, sentimenti, emozioni, passioni possono esplodere in forme drammatiche. Questo amalgama di pulsionalità istintiva può essere catalizzato dalla droga e dal connubio fra sesso e violenza. L'effetto droga rispecchia la ricerca, presente nella letteratura a carattere erotico-osceno ma anche in alcuni aspetti della realtà quotidiana, di piaceri assoluti e immediati, di evasioni e di fantasie liberatorie, e mette in gioco l'erotismo, più fantasticato che reale, ma anche il rischio della vita, in un sempre possibile abbinamento con la pornografia, alla ricerca di potenziamenti reciproci. Tuttavia sia la pornografia sia la droga stimolano la realizzazione di soddisfazioni istintuali che smorzano le funzioni del razionale, della conoscenza della realtà e della morale, per cui la contemplazione, la fantasia, il piacere, gli istinti tendono a sostituire l'azione, l'attività lavorativa e creativa, il dinamismo operativo. L'associarsi di queste due esperienze può suscitare fenomeni di depersonalizzazione, sia del proprio corpo sia della realtà esterna, può sottrarre alla latenza tendenze oppure impulsi sessuali prima controllati o ignorati, può infine provocare sentimenti di diffidenza, di ostilità, di odio, con possibili reazioni auto ed eteroaggressive.

3. Pornolalia. La pornolalia è ormai utilizzata a tutte le età e da tutti i ceti sociali. Tale forma di linguaggio ha infatti enormemente dilatato i propri confini, contestualmente al graduale ridursi degli eufemismi, dei tabu terminologici, delle metafore. L'uso e l'abuso delle parole a contenuto erotico, sessuale e genitale, si possono prospettare come una vera e propria mentalizzazione dell'istinto che si realizza a livello verbale per dare un rinforzo e un potenziamento di significato nel rapporto comunicativo. Pornolalia si può definire come l'espressione di un'aggressività verbale, che in passato era essenzialmente maschile, ma che ora si è sviluppata molto anche nel linguaggio femminile, quasi come mezzo di autoaffermazione e rivendicazione della parità dei due sessi. Anche il bambino prova un gran piacere nel dire le parolacce: pur se ne ignora il significato, ne coglie al volo l'effetto dirompente e dissacratorio e le reazioni che provocano attorno a lui; l'impulso più immediato è, quindi, a ripeterle (Vegetti Finzi-Battistin 1994). Inoltre, il linguaggio osceno è molto vicino al corpo e alle sue funzioni, evoca impressioni tattili, olfattive, uditive, adatte a esprimere le pulsioni infantili, specie anali e genitali, ed è composto di parole che infrangono argomenti tabu, diversi tra loro, ma ugualmente intoccabili: il sacro, il sesso e gli escrementi. Nell'adolescenza, che riattualizza le trasgressioni e le dissacrazioni, specialmente se realizzate insieme al gruppo sociale, la pornolalia fa parte del linguaggio di gruppo, rappresenta forza, coesione e convalida l'identità verbale e comportamentale. Vanno poi considerati i fattori ambientali e sociali che ritardano lo sviluppo verso la maturità della personalità e che quindi mantengono a lungo comportamenti ed espressioni anche pornolaliche che si continuano mediante un condizionamento automatizzato.

4. Interpretazioni. La letteratura psicoanalitica sui principi costitutivi del perverso sessuale ha evidenziato, in particolare, che l'erotizzazione è una delle cure primitive della paura: quando una forma di angoscia infantile riprende vigore nella vita adulta, uno dei molti modi per fronteggiare questa crisi è il rafforzamento dei sistemi di erotizzazione primitiva, cioè di una sorgente originaria delle più svariate perversioni. Le angosce più profonde possono rappresentare il nucleo propulsore delle più varie patologie sessuali che, in fase di esasperazione, si abbinano spesso a fatti violenti, quali espressione concreta d'impulsi che esplodono e si scaricano tramite forme di aggressività; la criminalità a sfondo sessuale ha spesso questa patogenesi. Inoltre, nella nostra società si vanno palesando nuove tecniche erotiche in cui oscenità e violenza, insieme, sono più accentuate che nel passato. In questo scenario, la pornografia rappresenta un aspetto di dissoluzione della sessualità che si inserisce in una costellazione di crisi profonda dei valori, di negazione violenta e anche spietata del pudore, inteso come struttura portante della storia interiore dell'individuo. Il pudore del singolo non va confuso con il cosiddetto comune senso del pudore, che spesso è chiamato in causa proprio per circoscrivere il fenomeno pornografico. In ogni caso, il pudore può essere ricondotto alla delimitazione dei confini tra il lecito e il proibito, mentre alla pornografia vanno riconosciuti una componente ossessiva, in quanto comportamento ritualizzato fondato su un desiderio irrealizzato, e un suo affondare nei fantasmi più o meno perversi, universalmente presenti nell'inconscio individuale. Analizzando gli aspetti psicologici e antropofenomenologici del pudore, questo può essere inteso come barriera di protezione nei confronti dei valori affettivi che connotano la vita individuale nei suoi vari modi di manifestarsi (De Vincentiis-Callieri 1974); l'eros pubblicizzato dimostrerebbe che gli impulsi sessuali si sono scissi da quelli affettivi. Rispetto al pudore, l'analisi antropofenomenologica valuta una serie di condizioni necessarie al suo costituirsi: il corpo, l'altro o gli altri, il guardare e l'essere guardati. La genesi del pudore è relazionale, di spazialità, di distanza, di stimoli sensitivo-sensoriali, ed è espressione esistenziale ambigua perché può essere autentica o inautentica a seconda della sua fungibilità nel mondo dei rapporti interpersonali. L'incontro, il rapporto, la mondanità possono, dunque, oscillare in un'estensione ubiquitaria, dall'ossessionante pudicizia alla più sfrenata pornografia: in questo modo oggettuale (pudico od osceno) l'orizzonte esistenziale risulta povero o comunque costellato di oggetti anodini, senza rapporti dinamici, senza storia e quindi senza valori da offrire o da rappresentare. Oltre a ciò, sono noti gli aspetti psicopatologici nell'ambito sia del pudore sia dell'eros pornografico, con una serie di fenomeni che tendono in molti casi a unificarsi nella loro patologia (v. oltre). E. Borgna (1989), richiamando i fondamenti etici dell'esistenza umana, osserva che i valori hanno una costituzione eidetica autonoma e assoluta, che non può essere infranta senza rompere quell'ideale gerarchia in cui la dignità della persona ha un'importanza assoluta; il fenomeno della condotta pornografica s'inserisce nella costellazione della profonda crisi dei valori. La persona, con il suo corpo, viene reificata e parcellizzata dalle pulsioni della libido narcisistica che mantiene la cecità, il mutismo e l'anonimato di un oggetto strumentalizzato dalla cultura di massa. Anche dal punto di vista giuridico la pornografia si pone nel quadro dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, e in particolare contro il pudore (art. 529 c.p. riguardante la definizione legale dell'osceno, in riferimento agli atti e agli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore). Questa norma è formalmente esplicativa, in quanto individua il significato del termine osceno in riferimento all'effetto o al risultato sociale dei comportamenti e degli oggetti così qualificati, ammettendo anche la possibilità di un osceno non offensivo per il comune sentimento del pudore, di cui peraltro manca una specifica definizione, rinviata a un'interpretazione giurisprudenziale forzatamente aperta o elastica. In riferimento alla qualità dell'attuale vivere sociale, alla salute mentale e alle possibili manifestazioni di violenza collegabili a fenomeni pornografici, si può affermare che la pornografia riguarda una violenza suggestiva che permea tutta la società consumistica e cerca d'imporre al consumatore, soprattutto a quello poco in grado di difendersi dalla pressione dei mass media, beni di nessuna utilità materiale, ivi compresa una sessualità degradata. La pornografia può, quindi, nascere anche dalla frustrazione di non riuscire a ottenere i beni consumistici, come fenomeno sostitutivo e come risposta dell'individuo a un ambiente denso di stimoli egoistici. Gli pseudovalori della società consumistica costituiscono la premessa logica a un uso della pornografia come riferimento a modelli comportamentali molto attuali e sempre più valorizzati e pubblicizzati. Secondo alcuni, il comportamento sessuale illustrato dalla pornografia facilita reazioni che portano alla violenza, che può giungere fino alla criminalità sessuale (Ferracuti-Solivetti 1976). Sono tuttora numerosi i dati da verificare: in particolare se la criminalità sessuale possa essere collegata a un maggiore o a un più precoce consumo di pornografia, oppure se abbiano più importanza i fattori endogeni, riducendo quindi il ruolo della pornografia a fattore sociale capace di scatenare determinate reazioni solamente in individui diversi dagli altri per certi tratti di personalità. Questi dati non risultano ancora del tutto conosciuti, ma resta acquisito che i contenuti violenti dei materiali pornografici potenziano, nella loro combinazione, le valenze istintive pulsionali, e sono tali da contribuire al diffondersi di specifici comportamenti criminali. Altre indagini, come pure differenti orientamenti ideologici, sostengono che la pornografia, quale mezzo idoneo a liberare, a catalizzare oppure a metabolizzare tensioni o impulsi sessuali altrimenti irrisolvibili, possa produrre effetti catartici tali da contribuire alla risoluzione di problemi sessuali e da lenire problemi e angosce esistenziali con conseguente riduzione di forme di aggressività. Nel DSM-IV (Diagnostic and statistical manual of mental disorders), dell'American psychiatric association (1994), oltre alle più svariate disfunzioni sessuali, anche i disturbi d'identità in genere e in particolare tutte le perversioni sessuali (v. perversione) feticismo, 'frotteurismo', zoofilia, pedofilia, esibizionismo, voyeurismo, sadismo, masochismo, trasvestitismo sono elencati e descritti come casi clinici di disturbi psichici. È possibile che alcune di queste patologie trovino in qualche fenomeno di oscenità sessuale un compenso o un sollievo terapeuticamente valido. D'altra parte, è certo che le sollecitazioni provocate da perversioni pornografiche, eventualmente associate a violenza, a carico di soggetti già vulnerabili nei loro comportamenti sessuali, possono rappresentare fattori patogeni per la salute mentale, a maggior ragione se si tratta di soggetti con immaturità caratteriale, con difetti di sviluppo intellettivo o con disturbi o tratti abnormi della personalità.

La pornografia, o la logica culturale del nostro tempo, e scritto da Emiliano Morreale su “Le Parole e le cose”. Le immagini di sesso esplicito, per lungo tempo vendute e consumate in maniera più o meno sotterranea e illegale, nel corso del decennio hanno invaso gli schermi domestici. Dal 1988 al 2005 i titoli a luci rosse negli Usa sono passati da circa 1200 a più di 13.500 l’anno (la Hollywood “ufficiale” ne produce circa 400). Secondo i dati più attendibili, nel 2006 erano attivi almeno 4 milioni di siti porno: il 12% di tutta la distribuzione online (oggi saranno molti di più, visto che ne nascono circa 270 al giorno). Una parola su quattro inserita nei motori di ricerca, e un download su tre, sono di carattere pornografico. La vera mutazione però è qualitativa, e non riguarda i singoli prodotti, ma la struttura del sistema. Il cinema, la televisione, la moda hanno un “doppio” osceno sotterraneo e rimosso, che sempre più viene a galla al tempo di Internet. Questo mondo è interrogato dagli studiosi di rado, e con comprensibile imbarazzo. In America i cosiddetti porn studies sono nati all’inizio degli anni Novanta, da una costola della teoria femminista e dei cultural studies. Da qualche tempo, questo filone di studi è giunto anche in Italia, ad opera di una generazione di studiose e studiosi non a caso trenta-quarantenni, che in un mondo così sono cresciuti. Da un paio d’anni a Gorizia si tengono convegni internazionali sul tema (con titoli tipo “Economies, Politics, Discoursivities of Contemporary Pornographic Audiovisual”) ed è appena uscito un ponderoso volume intitolato Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media (a cura di Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca, Mimesis). Il libro offre i dati che abbiamo citato e ricapitola anche la vita clandestina della pornografia nel secolo scorso: dalla fase dei filmini mostrati nei bordelli o spediti per posta, all’ esplosione con titoli come Mona, the Virgin Nymph (1970) e Gola profonda (1972). Così il porno diventa un genere tra i generi, mutuando dal mainstream hollywoodiano un modo di fruizione (la sala), una forma narrativa (il lungometraggio di finzione) e uno standard tecnologico (il 35mm). Negli anni Ottanta, quando le sale (anche a luci rosse) cominceranno a chiudere, l’avvento del video moltiplicherà la produzione. Del resto, i contenuti per adulti guidano da sempre lo sviluppo dei media. Trent’ anni fa, il Vhs si affermò anche perché Sony, che sosteneva il formato Betamax, sosteneva una netta politica anti-porno. I dvd sono stati spinti dai “pornomani” perché rendevano più comodo trovare in modo rapido momenti specifici del film. E fondamentale è stato questo segmento di pubblico per avviare la tv via cavo, i servizi telefonici a pagamento o la banda larga. Oggi siamo davanti a un passo ulteriore, che non riguarda i singoli prodotti o mezzi di comunicazione. È quella che nel libro citato viene chiamata “pornificazione del mainstream“, una “invasione hardcore della cultura popolare”. La stessa che ha incuriosito scrittori come Martin Amis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk, che le hanno dedicato reportage e libri. Il porno espanso analizza il ruolo dell’ immaginario fetish nella creazione del divismo musicale, da Madonna a Lady GaGa; il porno “emerso” diventa glamour, alludendo fino a un certo punto a un universo osceno. L’ arrivo in Italia dei canali satellitari produce combinazioni di generi, nei quali anche l’ hard ha la sua parte: reality show, pseudo-inchieste, serie (ultima la francese Xanadu, una specie di Dallas sui magnati del porno), o inopinati talkshow (esiste una specie di versione inglese di Forum, con un giudice che dirime questioni sessuali tra partner). Potremmo dire che i due poli ideali dell’ “immaginazione pornografica” attuale sono la declinazione glamour e il suo opposto, la verosimiglianza bruta: il filmato domestico e amatoriale (il cosiddetto gonzo), autentico o più spesso finto, che presuppone, notano gli autori del libro, “una sorta di sovrapposizione semantica che assimila il concetto di reale a quello di privato”. Insomma il massimo del realismo, e la cosa più eccitante, è ciò che viola (o finge di violare) la privacy. Il consumo di pornografia domestico, immediato, prêt-à-voyeur potremmo dire, cambia. Si tratta forse della forma perfetta di consumismo: “Perseguire il piacere è uno dei principali modi di edificare la nostra soggettività in forme autorizzate”, sostiene il teorico inglese Mark Fisher. Il web 2.0 stimola nuove forme di voyeurismo, e anche di esibizionismo, e non solo in quelle forme che sono state definite IPorn (l’ esibizione erotica sul web). Ad esempio, di recente è sembrata rassicurante le notizia che il numero di utenti dei social network abbia superato quello dei consumatori di webpornografia: “Facebook batte il porno”. Ma tra i due consumi, nota uno degli autori di Il porno espanso, c’è una certa congruenza, dovuta alla natura vertiginosamente promiscua di queste piattaforme, che costituiscono “una innovativa forma di autoerotismo del sé”. La pornografia, insomma, non è oggi questione di contenuti: è quasi la logica culturale dei media; è il modo in cui funzionano le immagini, in cui noi spettatori/consumatori guardiamo e ci facciamo guardare.

Osceno e comune senso del pudore: Antropologia della pornografia di D. Stanzani e V. Stendardo su “Diritto”. La società attuale può essere considerata il luogo simbolico in cui avviene la continua esposizione delle merci; l'individuo si presenta ambiguo, ambivalente, contaminato, gioca con se stesso attraverso continue metamorfosi, sospeso tra marginalità e centralità, appartenenza e atomizzazione, produttività e parassitismo, consenso e conflitto, principi inappellabili del mondo tecnologico e labilissime e dolorose contingenze della vita quotidiana. Da qui, da questa identità fragile e polimorfa, le trasgressioni, le insubordinazioni, le perversioni, diventano mine per i codici simbolici esistenti e per la cultura dominante. Un aspetto inquietante di questa dimensione immaginaria dell'individuo che convive con le regole e le norme della società tutta è rappresentato da quanto di più  illusorio e mercificante possa esserci: la pornografia. Tentare di definire la pornografia non è semplice in quanto essa chiama in causa tutta una serie di elementi che sono riconducibili a coordinate psicologiche, sociologiche e culturali. Etimologicamente parlando, il termine deriva dal greco "pornè" (prostituta) e "graphos" (scrittura), starebbe quindi ad indicare tutto ciò che viene scritto intorno all'attività della prostituta. Tuttavia, questa definizione non è esaustiva del fenomeno che riguarda ben più ampi settori che sono andati modificandosi nel tempo, sia per la produzione che per i mezzi di comunicazioni. Secondo il vocabolario della lingua italiana Zingarelli, pornografia starebbe ad indicare la "descrizione e rappresentazione di cose oscene", ed il termine osceno si intende in relazione al concetto del comune senso del pudore. Nell'ambito del diritto, la pornografia è trattata in modi diversi e da diversi punti di vista, quello che noi abbiamo però voluto privilegiare riguarda due articoli del Codice Penale: l'art. 528 che individua chi crea la pornografia in colui che: "fabbrica, introduce sul territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente"; e l'art. 529 in cui si afferma che: "Agli effetti della legge penale si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore (c.p. 725, 726). Non si considera oscena l'opera d'arte o l'opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerto in vendita o comunque procurato a persona minore di anni diciotto'. Dunque osceno e comune senso del pudore sono elementi contrapposti, che esistono proprio in virtù della loro contrapposizione. Il pudore, sentimento di vergogna, di disagio, di repulsione è tipico dell'individuo quando questi, contro la sua volontà, si trovi di fronte a manifestazioni sessuali  di altri o quando sia egli stesso oggetto di sguardi durante gli approcci sessuali. Il pudore diventa senso comune nel momento in cui  la società umana di appartenenza condivide la stessa sensibilità nei confronti della sessualità. L'osceno sarebbe quindi l'offesa al pudore. Ma di osceno si parla già nell'articolo 527 del c.p. allorché si afferma: "Chiunque in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni (c.p. 529) è punito con la reclusione da tre mesi  a tre anni (c.p. 726). Se il fatto avviene per colpa (c.p. 43) la pena è della multa da £ 60.000 a £ 600.000".  La grande difficoltà nel definire il comune senso del pudore risiede nel tracciare un limen tra offesa alla morale pubblica e libertà individuale. Gli articoli 528 e 529 del Codice Penale convivono e confliggono con l'articolo 21 della Costituzione Italiana che afferma: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Questo era già implicito nell'articolo 2 della Costituzione Italiana che sancisce i diritti inalienabili di ogni singolo individuo: "La Repubblica sancisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Ma la difficile gestione giuridica dell'osceno e del comune senso del pudore in realtà è la risultante di una difficile gestione culturale di questi. Inoltre non possiamo non tenere conto dell'ampio capitolo riguardante la prostituzione minorile. E' importante sottolineare come sia il concetto di osceno che quello di comune  senso del pudore non solo si modificano nel corso del tempo all'interno di una data società, ma cambiano anche da società a società. La comprensione di questi concetti rimanda alla considerazione del corpo e della sessualità. "Il corpo è un universo simbolico immediatamente disponibile e sperimentabile da parte dell'individuo. La capacità del corpo di produrre significazione è legata al suo essere centro di ogni produzione immaginifica dell'uomo, centro del desiderio e delle pulsioni, più o meno controllate dall'educazione e dalla cultura" (M.Combi, 1998). Il corpo è quindi segnato, disegnato, gestito e mostrato dalla cultura di appartenenza. In molte società non occidentali il corpo non rappresenta la finitezza anatomica, altra rispetto al mondo contingente, ma "è il centro di quell'irradiazione simbolica per cui il mondo naturale e sociale si modella sulle possibilità del corpo, e il corpo si orienta nel mondo tramite quella rete di simboli con cui distribuisce lo spazio, il tempo e l'ordine del senso. Mai quindi il corpo nella sua isolata singolarità, ma sempre un corpo comunitario per non dire cosmico, dove avviene la circolazione dei simboli e dove ogni singolo corpo trova, non tanto la sua identità, quanto il suo luogo" (U. Galimberti, 1980). Il corpo naturale inserito in un fitto intreccio di simboli diventa corpo culturale, con delle norme di riferimento e le deviazioni da tali norme con le conseguenti  punizioni. La cultura di riferimento gestisce la vita dei corpi ed ogni loro aspetto e funzionalità, anche il discorso strettamente legato alla sessualità. Questa è stata definita da B. Malinowski un bisogno primario (bisogno di base): "Termine che indica il comportamento delle condizioni nell'organismo umano e nel sistema culturale in rapporto all'ambiente, necessarie alla sopravvivenza degli individui e del gruppo sociale" (U. Fabietti, 2001). I bisogni primari vengono soddisfatti attraverso risposte culturali per cui la sessualità è regolamentata, ad esempio, dall'insieme di norme che definiscono i sistemi di parentela e il matrimonio. Chiaramente questi cambiano a seconda delle culture. La sessualità è diversamente interpretata ed utilizzata. Presso i Basuto (popolazione africana che occupa l'area vicino il fiume Zambesi) è usanza che la nuova moglie abbia rapporti sessuali con il fratello più giovane del marito. Se poi il coniuge muore, il fratello del defunto si trasferisce nella capanna della cognata. I Basuto poi praticano l'ospitalità sessuale e permettono l'unione dei loro amici fraterni con la propria moglie. Per i Dagari dell'Alto Volta, invece, le donne sposate possono avere rapporti extraconiugali con molti amanti a patto però che questi si sottopongano ad una specie di lavoro forzato per il marito della donna infedele. Presso gli Agni in Costa d'Avorio durante la festa in onore degli spiriti, le donne dopo essersi purificate nelle acque del fiume si uniscono con gli uomini e dedicando il momento più bello dell'amplesso agli spiriti che proteggono la loro fecondità. Tutto il villaggio partecipa a questo rito in cui l'uomo diventa oggetto passivo, subisce il rapporto voluto in quell'occasione, soltanto dalle donne che lo dedicano appunto agli spiriti. Ancora in alcune culture la sessualità è utilizzata per definire le identità sociali e gli status all'interno della comunità, e per rafforzare legami, definire alleanze e rapporti sociali non è inusuale "prestare" le proprie mogli ad altri. Nella cultura occidentale il corpo e la sessualità sono vissuti in maniera completamente diversa. Il corpo, involucro finito dell'individuo è rappresentazione, specchio simbolico della perfezione divina. Per proteggerlo è necessario un rigido controllo sociale e culturale anche nelle sue funzioni più naturali come la sessualità. Questo perché il corpo materia definita dell'individuo non vada a contrapporsi all'aspetto spirituale di questo. E' necessario convivere e non contrapporsi, perché questo determinerebbe confusione e commistione tra il bene e il male. Le norme che regolamentano la gestione del corpo sono rigide, il corpo occidentale infatti è un corpo chiuso all'esterno, un corpo coperto totalmente, che non può essere mostrato. La nudità è associata al peccato, Adamo si rende conto di essere nudo solo dopo aver peccato e allora si copre. Dalla perfezione, dopo la caduta nel caos, si passa con dolore alla veste. Quindi l'indumento diventa simbolicamente norma culturale che gestisce i rapporti tra il bene e il male, che segna il confine tra natura e cultura. E' chiaro che da una tal rigida considerazione non può non derivare un'idea dell'osceno estremamente ampia. Ovviamente la sessualità ha risentito moltissimo di questa concezione per cui si  è sviluppata nel corso del tempo in special modo in Italia una duplice esperienza sessuale: quella legata alla vita familiare strettamente correlata alla procreazione e la vita nei luoghi di piacere. Il primo concetto rispecchiava la cultura religiosa, per cui il sesso al di fuori del matrimonio era condannato, associato al male e alla caducità dell'anima (è superfluo poi sottolineare come questa cultura condannasse i rapporti sessuali fra individui dello stesso sesso); l'altra esperienza era invece legata alle necessità della vita degli individui.  Se quindi parlare della sessualità è difficile, lo è ancora di più per quanto riguarda la pornografia considerata come l'industria della dominazione sessuale (R. Poulin).  La pornografia è un fenomeno moderno strettamente legato agli sviluppi della tecnologia, nello specifico della fotografia, del cinema e della videoregistrazione ed è solo in tempi recenti che si definisce il confine tra ciò che può essere considerato erotico e ciò che si può considerare pornografico. "L'erotismo, questo sì intrinseco ad ogni fatto amoroso, trova alimento all'interno della fantasia, dell'immaginazione, non è direttamente funzionale al fatto sessuale come tale, ma in qualche modo lo richiama per percorsi metaforici. E i segni dell'erotismo non sono tali perché veicolati da immagini sessuali, ma, anzi, proprio perché in apparenza lontani dal mondo del sesso e ad esso raccordabili solo, appunto, grazie alla fantasia ed all'immaginazione del singolo individuo" (A. Sobrero, 1992). Quindi l'erotismo è un fatto meramente individuale e nel momento in cui diviene collettivo per non tradire la sua nobile origine (infatti il termine erotismo deriva dal greco Eros, amore), deve essere riscattato da una interpretazione non mercificante. E' infatti il divenire merce che fa del sesso o dell'erotico pornografia. Le  pubblicazioni di innumerevoli riviste, le infinite offerte di homevideo, i tantissimi pornoshop, internet come ultima frontiera, per non parlare degli spettacoli itineranti e le fiere,  non hanno nulla a che vedere con la tradizione del romanzo, se vogliamo pornografico, della fine del Settecento o con le pubblicazioni più o meno clandestine del XIX secolo. La pornografia non coglie le sottili e conturbanti sfumature dell'erotismo e quindi per molti aspetti è la negazione di questo: mortifica l'aspetto immaginifico, proibisce il senso della scoperta, esaurisce la passione che c'è nell'unicità di ogni atto sessuale. "L'universo pornografico è utopico, privo di spazialità, di temporalità, di relazioni e di emozioni, pieno però all'infinito di gesti sessuali che non possono cessare perché, altrimenti, ristabilirebbero una scansione temporale. "Non vi è quindi reale azione, ma solo una rappresentazione asimbolica di desideri, di agiti, nei quali, di conseguenza, ogni personaggio resta lo stesso, prima e dopo l'evento , e, naturalmente, con essi, il fruitore cui fanno da specchio illusorio" (R. Dalle Luche). Oggi la pornografia crea sicuramente meno scandalo, i costumi del nostro paese sono cambiati, tanto che ad esempio, in televisione, anche in fasce orarie accessibili anche ai bambini, spesso sono ospiti di talk show, note pornodive. Si parla continuamente di sesso e lo si rappresenta in continuazione, in video le danze sono sempre più conturbanti ed esplicite (ovviamente opportunamente corredate di costumi inesistenti), si fanno programmi ad hoc per soddisfare quel senso di voyeurismo e pruderie propri dell'animo umano, le pubblicità sfruttano o tentano di farlo le nuove tendenze sessuali; note drag queen conducono programmi di costume; si cerca di creare ovunque ambiguità, doppi sensi, per non parlare di internet: ogni portale ha la sua piccola icona sessuale. Quindi a questo punto c'è da domandarsi: dove è l'osceno' E dov'è il comune senso del pudore' La pornografia paradossalmente è un fenomeno di massa (è l'enorme profitto economico lo sta a testimoniare. L'industria pornografica si è adeguata più velocemente al cambiamento di costume (esasperandolo per molti versi) di quanto non abbiamo fatto altre forme di comunicazione, determinato anche da una conquista e una riscoperta della sessualità da parte delle donne, che sono diventate esse stesse fruitrici di materiale pornografico. La pornografia veicola dei messaggi che sono distorti, ma non nel senso che parla (e agisce) di sesso ( e il sesso come tale è associato al peccato, al diabolico), ma per le forme che usa e gli strumenti che utilizza: nello specifico i corpi, corpi umani. Se ci si ferma per un istante ad osservare i corpi pornografici, vediamo che, come afferma R. Poulin : "Questi si trasformano per enfatizzare i propri attributi sessuali, i seni femminili ad esempio diventano enormi e duri, sono riempiti di silicone per occupare lo spazio. I corpi sono modificati al fine di soddisfare un'idea di ciò che i corpi dovrebbero essere, sono corpi definitivamente votati alla sessualità". La sessualità vissuta dalla pornografia è irreale, la sublimazione degli organi genitali, la promiscuità dello sguardo, l'ossessione per il dettaglio fisico vogliono rendere l'idea di una realtà che non esiste. L'immagine infatti non è una rappresentazione della sessualità ma una proiezione della fantasia che paradossalmente però è povera di contenuti. I film pornografici ad esempio hanno sempre la stessa struttura, ovviamente la trama è inesistente perché non serve, non c'è un'azione in crescendo che si sviluppa lungo l'arco di due ore, ma azioni immediate, piatte, meramente meccaniche che si ripetono all'infinito, per soddisfare all'infinito le fantasie (e le voglie) dello spettatore. "La pornografia è un lavoro di rappresentazione genitalizzata della sessualità" (R. Poulin, 1999). Più che un continuum di azioni, si tratta di una serie di scene che si chiudono con la consumazione dell'amplesso. Nei film classici ad esempio, ciò che conta è l'eccitazione e il soddisfacimento del maschio che si realizza, creando l'illusione che questa sia la verità riscontrabile nella vita reale, nella continua offerta consapevole da parte delle donne del loro corpo: un corpo quindi sempre pronto (anche quando è fintamente riluttante), sempre in pose suggestive ed estremamente provocanti. Banale sottolineare come il corpo femminile venga strumentalizzato e mercificato, ma paradossalmente la virilità maschile non può essere esercitata e provata se non attraverso questi corpi. La presunta superiorità maschile passa inevitabilmente per la presunta inferiorità femminile e quindi per la sottomissione della donna. La pornografia è una galassia in continua espansione, soddisfa tutti i generi "tutte le categorie,  come tutte le merci fabbricate per un mercato segmentato" (R. Poulin, 1999), per questo è difficile anche costruire un identikit del pornoconsumatore tipo. Nell'immaginario benpensante collettivo, il pornoconsumatore è un individuo ambiguo, lascivo, che vive ai margini della società e della realtà, un individuo di cui già l'aspetto esteriore tradisce la deviata moralità. Ma non è così. Moltissimi sono i fruitori, di tutte l'età, estrazione sociale, grado di cultura e status, e come abbiamo già sottolineato, molte sono anche le donne. Inoltre grazie al repentino sviluppo delle tecnologie, si sono aperti nuovi canali, il già citato internet, che è un mondo parallelo un cui è possibile eludere le sorveglianze e creare dei contatti con i fruitori della stessa merce. Se fino a qualche anno fa le pellicole hard venivano proiettate nei cinema di paese, progressivamente con l'avvento e la diffusione dei videoregistratori si è passati alla visione casalinga dei film. In molte videoteche erano e sono tuttora presenti spazi, magari un po' nascosti, appunto per non offendere il comune senso del pudore degli avventori, interamente dedicate alla pornografia. In tempi recentissimi abbiamo internet e la possibilità di cliccare e quindi ingrandire quel particolare anatomico che più sollecita. Oltre che la compravendita di qualsiasi tipo di merce. Anche qui la Legge cerca di intervenire, il delitto rientra infatti nell'art. 528 del c.p. e c'è anche la Decisione del Consiglio dell'Unione Europea del 29 maggio 2000, relativa alla lotta contro la pornografia infantile su Internet. A volte in ambienti medici si è anche parlato della possibilità della dipendenza dalla pornografia, ma il DSM IV, Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorder, ossia il manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali, più accreditato nel settore psichiatrico, non annovera la pornografia tra le parafilie cioè tra i disturbi dell'eccitazione sessuale, come invece la pedofilia. Ma ben sappiamo quanta pedofilia ci sia nella pornografia. Di pedofilia infatti, si parla già quando in pornografia vengono utilizzate adolescenti o giovani poco più che bambine. In questo caso si ha oltre  lo sfruttamento anche la riduzione in schiavitù, e poi c'è tutta la produzione che riguarda i bambini. In Italia è stata varata la legge n.269 del 3 agosto 1998 che reca Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù. L'articolo n.3 di tale legge, 600 ter, afferma: " Chiunque sfrutta minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico è punito con la reclusione dai sei ai dodici anni e con la multa da lire cinquanta milioni a cinquecento milioni". Come possiamo vedere quindi la pornografia è un fenomeno molto complesso e tentacolare. Ogni suo aspetto, anche quello più nascosto è quasi sempre la facciata di una realtà molto dolorosa e spesso crudele. Viaggiando in questa dimensione ci si rende conto come tutto sia un gioco di scatole cinesi, ogni cosa è strettamente correlata alle altre eppure ognuna di esse vive di vita propria. E' come un immenso organismo formato da tante particelle che assume forme sempre diverse e sempre uguali, perché una, fedele a se stessa è la sua natura: la dominazione. La pornografia è la dominazione del corpo sul corpo, dell'individuo sull'individuo, del potente sul debole. Vince la produzione industriale, la mercificazione delle illusioni dei consumatori che trovano piacere nell'osservare corpi smembrati e ricomposti per solleticare e appagare i loro desideri più reconditi, ma che si basano per la maggior parte delle volte sulle vite spezzate di tanti essere umani inermi.

Pornografia online, le censure Paese per Paese. Dalla Cina all'Iran, i blocchi dei governi contro l'hard 2.0. In Islanda è allo studio una nuova legge, scrive di Guido Mariani su “Lettera 43.”La pornografia online è nel mirino del governo islandese. Paese che vai porno che trovi. Il governo dell’Islanda sta lavorando a un disegno di legge che limiti l’accesso alla pornografia su internet. Non si tratta di una vera e propria censura, ma di un sistema, tutto da studiare, in grado di tutelare i minorenni dalla visione di immagini o video hard. L’iniziativa è partita dal ministro dell’interno Ogmundur Jonasson e, secondo le dichiarazioni ufficiali, non vuole essere una crociata anti-sesso, bensì contro la violenza. La legge, se approvata, renderebbe l’Islanda il primo Paese occidentale a varare una legislazione di questo tipo. Mentre in altri Stati come Cina e Corea del Sud, le misure repressive sono all'ordine del giorno. Il governo cinese dà una ricompensa ai cittadini che segnalano siti pornografici. In Cina, per esempio, il governo ha installato un sistema in grado di rilevare tutti i contenuti ritenuti non adeguati. E la pornografia viene trattata alla stregua del dissenso politico. Inoltre Pechino può contare su una serie di ostacoli tecnici che vanno dal blocco degli indirizzi Ip sino ai filtri legati a parole e immagini, che formano quella che è stata definita «la grande muraglia informatica cinese». Periodicamente, poi, le autorità diffondono notizie di arresti di persone che riescono ad aggirare i blocchi e a diffondere materiale proibito o di «cittadini esemplari» che fanno da delatori. Lo scorso marzo, 2 mila internauti hanno ricevuto un premio in denaro per aver segnalato alle autorità attività online legate alla pornografia. La repressione è altrettanto rigida nella democratica Corea del Sud dove, dal 2009, tutti i siti ritenuti osceni vengono bloccati. Nel settembre 2012, in seguito a una serie di reati a sfondo sessuale, è stata varata un’ulteriore stretta. La polizia ha denunciato più di 400 persone per possesso e distribuzione di materiale hard-core. A Seul si sta inoltre valutando l’obbligo di imporre ai gestori di servizi online l’installazione di software anti-porno. In molti però si interrogano sull’efficacia di questi provvedimenti: un’indagine ministeriale ha appurato che il 55% dei maschi che frequentano gli istituti medi e superiori visiona comunque materiale proibito sul computer o sul cellulare, e le percentuali sono in crescita. Sempre in Oriente, i Paesi a maggioranza islamica come Malaysia e Indonesia proibiscono per legge la pornografia, ma nonostante proclami e iniziative mediatiche, la Rete gode di sostanziale libertà. Il ministero della Cultura, dell’informazione e della comunicazione di Kuala Lumpur ha rinunciato nel 2009 a un piano che prevedeva l'inserimento di un filtro ai siti, ribadendo però il divieto alla diffusione di materiale osceno. La situazione è simile in Indonesia, dove la legge mette al bando il porno, e dove nel 2012 è stata istituita dal presidente Susilo Bambang Yudhoyono una task-force contro la pornografia online. Ma dopo una retata che ha portato alla chiusura di decine di siti, l’iniziativa è stata accusata solo di essere solo «fumo negli occhi», visto che non ha, di fatto, ridotto il fenomeno. Molto più seria invece la situazione in Iran dove la censura è onnipresente e la moralità pubblica è vigilata dalle milizie volontarie dei bassidjis, i gendarmi dell’Ayatollah che fungono anche da guardiani del buoncostume. Il principale obiettivo della politica repressiva è il dissenso politico e religioso. Seguono i contenuti web a sfondo sessuale. Si sta valutando di creare una Rete internet halal (lecita) e il ministero dell’Informazione ha predisposto l’installazione di telecamere negli internet cafè. Restrizioni esistono tuttavia anche in Paesi democratici. In India, la patria del Kamasutra, l’Information Technology Act ha dichiarato illegale la pornografia online. Ma il fenomeno nei fatti è raramente represso. Nel 2009 il pubblico indiano ha sperimentato la prima vera infatuazione di massa per una pornodiva. Il suo nome era Savita Bhabhi e il suo sito era diventato un fenomeno, prima di attirare l’attenzione ed essere censurato dal governo. Savita Bhabhi, una sorta di casalinga disperata in salsa hindi, era però solo un fumetto. Un’eroina cartoon che sul web si lanciava in avventure così scabrose da scandalizzare i moralisti, ma in grado di ammaliare un pubblico ormai sempre più permissivo nei confronti delle rappresentazioni esplicite del sesso. Ora è la volta dell'Islanda che potrebbe aprire a un più stretto controllo sul materiale pornografico nel resto d'Europa. Proposte di legge simili, infatti, sono già state valutate in Gran Bretagna. Per gli islandesi si tratta di difendere le fasce più deboli della popolazione. «Dobbiamo avere il coraggio di discutere sulla pornografia più violenta», ha dichiarato il ministro degli interni Jonasson. «Siamo tutti d’accordo che abbia un effetto dannoso sulle persone giovani e può avere un chiaro effetto sull’incidenza dei crimini».

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».

Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.

E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?

Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX  erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini.  Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe.  Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.

La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».

IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a  fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto?  E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.

Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il ”Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.

Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.

 “Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.

Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi  “Il Giornale”.

In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?

«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».

È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?

«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».

Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…

«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».

La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?

«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».

Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?

«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».

Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?

«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».

Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini,pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva,ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.

Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su ”L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Da quanto detto non si può che arrivare al negazionismo sulle foibe.

Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».

Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive  Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.

Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.

Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?

«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».

Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?

«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».

C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.

«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».

“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.

«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».

Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.

«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».

Com’è stato possibile?

«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».

Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?

«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».

La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.

La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?

«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».

Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.

«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».

C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.

«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».

Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».

Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer  su “Il Giornale”.

Perché questo tema?

«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».

Di cui pure lei sapeva poco?

«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».

Eppure lei ha fatto studi umanistici.

«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».

Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?

«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».

Quando è nata l'idea dello spettacolo?

«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».

Poi?

«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».

Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?

«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».

Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.

«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».

Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?

«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».

E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?

«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».

Ci anticipi qualcosa.

«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».

Una faida tra compagni.

«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».

Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?

«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».

Traditore? E perché?

«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».

Invece?

«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».

Che lei vuole riattaccare.

«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».

Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»

Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.

«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.

Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?

«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas  che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».

Che cosa è il Magazzino 18?

«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».

Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?

«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».

Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?

«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».

La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…

«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».

Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?

«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».

Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?

«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».

Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?

«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica  è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».

DI FRONTE A TUTTO QUESTO TROVIAMO UNA TV SPAZZATURA CHE CENSURA E DISINFORMA.

Quanto buonismo nelle nostre fiction. Alcune serie tv americane, così come i drammi storici inglesi di Shakespeare, celebrano il potere. Ma almeno sono fatte bene e vengono ricordate. Da noi, invece, si vedono acritiche agiografie di santi e padri della patria, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. La propaganda filogovernativa è sempre esistita e ha sempre utilizzato i mezzi più popolari, quelli più seguiti dal pubblico, quelli che spesso la critica di settore per snobismo o per acritico entusiasmo non ha saputo interpretare, se non a distanza di anni, talvolta decenni, altre addirittura a distanza di secoli. Questa riflessione parte da un articolo molto interessante pubblicato su Jacobin (un magazine “of the American left”) tradotto in Italia da Internazionale. “La fiction al potere” è l’argomento della riflessione e davvero credo valga la pena provare a comprendere come tutto ciò che sia di massa diventi immediatamente strumento utile per i governi, soprattutto nei momenti di transizione, di momentanea crisi o quando c’è necessità di giustificare azioni che agli occhi degli elettori potrebbero risultare incomprensibili. L'articolo si concentra su due serie televisive statunitensi: “24” e “Homeland”. La prima è stata prodotta dal 2001 al 2010 e riflette “lo stile cowboy dell’amministrazione Bush”; la seconda, a partire dal 2010, - i creatori delle due serie sono gli stessi - è, invece, un prodotto dell’era Obama. Osservare queste due serie è utile perché mostra quanto sia determinante l’influenza delle agenzie governative statunitensi sui prodotti culturali, che dal 2001 in poi si concentrano sostanzialmente su questioni legate alla sicurezza nazionale. Ma come spesso accade l’osmosi è perfetta: se da un lato le piccole concessioni da parte degli autori portano alla possibilità di poter accedere a location altrimenti inaccessibili, dall’altro il riuscire a inventare nuovi scenari inediti per attentati e pericoli imminenti, mette in guardia gli apparati di sicurezza cui troppo spesso manca la fantasia per poter prevedere il futuro. Incredibile: le fiction che suggeriscono ai governi dove cercare il pericolo e come eventualmente neutralizzarlo. Ma la propaganda oggi ha il sapore del complotto, solo del complotto, e quando diventa palese, tutto il resto finisce per perdere spessore. Questo mio non è un invito ad apprezzare la capacità che i governi hanno di piegare i prodotti culturali ai loro scopi - vale la pena sottolinearlo -, ma piuttosto all’osservazione critica anche dei prodotti culturali che ci piacciono cercando di comprendere se attirano la nostra attenzione per loro qualità intrinseche o per la capacità che hanno di intercettare lo Zeitgeist o il consenso dei governi. Insomma, non tutto ciò che ci piace è “buono” o eticamente corretto. Non deve per questo smettere di piacerci, ma spingerci a riflettere e a trovare gli strumenti per godere di un prodotto sapendo che è legato al contesto in cui nasce. A questo punto cerchiamo di recuperare, nella nostra memoria, altri lavori che sono stati propaganda ma che il tempo ha trasformato, senza sbagliare, in opere d’arte, in capisaldi della cultura mondiale. I drammi storici di Shakespeare sono forse l’esempio massimo di come si sia potuto celebrare il potere dei Tudor senza blandirlo e senza servilismo. I suoi ritratti dei Plantageneti - re, regine e nobili che hanno governato e rovinato l’Inghilterra - sono talmente potenti che ormai è difficilissimo distinguere la realtà dal mito. E quando, a settembre 2012 sotto un parcheggio a Leicester, sono stati ritrovati i resti di Riccardo III, il più terribile tra i re d’Inghilterra, ci si domandava se lo studio delle ossa non avrebbe per caso rivelato le stesse spaventose sembianze che Shakespeare aveva descritto nell’omonimo dramma, ovvero quelle di un uomo deforme, quelle di “un ragno gobbo”. Che gli Shakespeare di oggi siano i creatori delle serie tv farà sorridere, ma se pensiamo alla diffusione e alla popolarità del teatro in epoca elisabettiana a Londra, il paragone, per quanto incredibile, potrebbe anche essere calzante. E non è detto che nella miriade di produzioni non ce ne sia qualcuna che verrà ricordata a distanza di secoli, magari riadattata, attualizzata. Mi sorge invece il dubbio che nulla resterà delle tante acritiche agiografie di santi e padri della patria diffuse in Italia a mezzo fiction negli ultimi anni. Ritratti buonisti, senza chiaroscuri e sfumature - che dovrebbero costituire il senso di ogni narrazione - immortalmente liquidati dalla geniale caricatura di “Padre Frediani” che gli amanti di Boris, ricorderanno. Con amaro piacere.

Dopo l'articolo di Roberto Saviano: " Quanto buonismo nelle nostre fiction ", l'attore Beppe Fiorello ha replicato inviando questo messaggio su Twitter. Pubblichiamo qui la sua opinione. Capisco la critica e le osservazioni sulla fiction italiana, ma come ho detto altre volte non accetto generalizzazioni. Personalmente ho raccontato storie importanti e talvolta scomode. Il manifesto allegato nel tweet precedente riguarda un tv Movie di circa sette anni fa. Raccontò la storia (insabbiata per vent'anni) di Graziella Campagna. Tutti sapevano nessuno parlava e proprio per questo la fiction venne censurata dall'allora Ministro della giustizia che disse: "Questa fiction turba la serenità dei magistrati". Assurdo.

Il tweet di Beppe Fiorello: Quella censura però non venne denunciata da nessuno. Soltanto io, il regista, la stessa Rai e De Cataldo (che non c'entrava nulla con il progetto) lottammo affinché quella scomoda verità andasse in onda. Furono oltre sette milioni i telespettatori che poterono constatare quanto accadde alle spalle di una famiglia che non c'entrava nulla con il sistema Mafia e perse atrocemente una figlia di diciassette anni. Come questa, ho anche raccontato L'Uomo Sbagliato, la vera storia di Daniele Baroni, dieci anni di carcere per un errore giudiziario. E senza risparmiare chi commise l'errore. Anche qui si sapeva ma non si parlava. Solo per dire che la Fiction italiana ha delle eccellenze, e mi piacerebbe però far notare che in America oltre alle due serie citate nell'articolo (24 e Homeland), ce ne sono (in maggioranza) di totale buonismo, violenza e inutilità sociale. Difendo il mio mestiere perché lo faccio con passione e verità, ma non nascondo che la nostra fiction ha realmente bisogno di trovare una strada nuova. Io ci sto lavorando.

Dal governo pioggia di milioni al cinema "rosso", scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Ce l’ha fatta Walter Veltroni, che al suo esordio da regista cinematografico ha strappato il prezioso riconoscimento di «opera di interesse culturale» per il docufilm Quando c’era Berlinguer prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti (la stessa del commissario Montalbano). Non ce l’ha fatta invece Sabina Guzzanti, con la sua Trattativa che purtroppo per lei non pizzica solo Silvio Berlusconi, ma pure Giorgio Napolitano. La sottocommissione del ministero dei Beni culturali guidato da Massimo Bray non le ha concesso il riconoscimento culturale, che Veltroni è riuscito a strappare per il rotto della cuffia (17° sui 18 ammessi). Meglio di Veltroni è riuscito un altro esordiente che fa riferimento alla medesima area politico-culturale: Ascanio Celestini, che ha ottenuto anche 150 mila euro per produrre il suo Viva la sposa. Poco prima di Natale il ministero dei Beni culturali ha sfornato una bella pioggia di contributi diretti e indiretti attraverso i riconoscimenti che faranno incassare abbondanti agevolazioni fiscali (l’interesse culturale a questo serve). Fra i fortunati che hanno conquistato anche la dichiarazione di eccellenza che il ministero rilascia ai film di essai c’è pure La mafia uccide d’estate di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, la iena nota anche per essere il compagno di Giulia Innocenzi, da anni spalla televisiva di Michele Santoro. Il giudizio di eccellenza concesso all’opera prima di Pif consente infatti di ottenere vantaggi fiscali diretti e indiretti e anche un premio in denaro alle sale che lo trasmettono, calibrato sulla lunghezza del periodo in cui esso rimane in  programmazione. È un attestato che nell’ultimo anno e mezzo è stato concesso a grandissimi registi internazionali, come Roman Polanski (Venere in Pelliccia), Quentin Tarantino (Django), Ang Lee (Vita di P), Steven Spielberg (Lincoln), Martin Scorsese (Hugo Cabret) e fra gli italiani Paolo Sorrentino (La grande bellezza), Marco Bellocchio (Bella addormentata) e Giuseppe Tornatore (La migliore offerta). Nella doppia delibera di finanziamento della sottocommissione a dicembre ci sono per altro quasi tutti gli habituè della cassa del ministero. Ottiene un milione di euro Matteo Garrone per Il racconto dei racconti, trasposizione cinematografica de Lo conto de li cunti. Novecentomila euro a Ozpetek per il suo Allacciate le cinture, ottocentomila euro a testa per firme sicure del cinema italiano come Ermanno Olmi (Cumm’è bella ‘a muntagna stanotte) e i fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Meraviglioso Boccaccio). Ha ottenuto 300 mila euro anche Carlo Verdone (solo per la distribuzione) per il suo Sotto una buona stella, e centomila di più ne ha strappati Michele Placido con La scelta. Non mancano Francesca Archibugi (Il nome del figlio), che ottiene 500 mila euro, né Marco Bellocchio (La Prigione di Bobbio) e Cristina Comencini (Latin lover) che hanno incassato 400 mila euro di contributi pubblici. Fra i nomi noti strappa 350 mila euro Abel Ferrara per un film su Pasolini, stessa somma ottenuta dal regista più amato dalla Lega, Renzo Martinelli con il suo The missing paper. Hanno invece chiesto e ottenuto al posto dei contributi il riconoscimento di film di interesse culturale sia Nanni Moretti per il suo prossimo Margherita che Carlo Vanzina per Sapore di te, appena uscito nelle sale e perfino Enrico Vanzina per Un matrimonio da favola. È proprio un bello scherzo fatto da Bray, quello di mettere appaiati sullo stesso altissimo piano il cinema di Moretti e quello dei Vanzina. Il riconoscimento di interesse culturale è stato ottenuto a dicembre anche da Giovanni Veronesi (Una donna per amico) e da Paolo Genovese (Tutta colpa di Freud). Bocciati perché è stato ritenuto assai scarso il valore del soggetto e della sceneggiatura sia la Guzzanti, che ha ottenuto 28 punti nella valutazione finale, ben al di sotto del minimo di 36 utili ad essere presi in considerazione per finanziamenti e riconoscimenti, e anche Asia Argento (figlia del maestro dell’horror Dario), che ha proposto il suo Incompresa. Non è stato appunto compreso dalla sottocommissione ministeriale di Bray, che comunque ha assegnato a soggetto e sceneggiatura il punteggio di 34, a un soffio dalla sufficienza, e ben superiore a quello ottenuto dall’altra silurata eccellente. Grazie a questa piccola rivoluzione nelle classifiche tradizionali dei beniamini del ministero, qualche maldipancia a sinistra verrà certamente vissuto. Può diventare un caso politico quella sliding door grazie a cui è entrato Veltroni ed è uscita di scena la comica più amata dall’ala militante. Può attutire il colpo l’occhio di riguardo mostrato per Pif, ma non toglierà il sospetto su una bocciatura che sembra avere una fisionomia più politica e istituzionale che stilistica.

La notizia è che Film commission della regione Toscana è riuscita a elargire decine di migliaia di euro per finanziare il filmino di due indagati in diverse inchieste giudiziarie, scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, quando apprende la vicenda, scuote la testa: «Pensi che la Regione Toscana per mettere a posto i conti ha chiesto ai suoi cittadini di pagare, oltre al ticket, una gabella di 10 euro, con la scusa della digitalizzazione, per tac, radiografie e altri esami diagnostici anche se i pazienti sono poveri o malati terminali». La nostra storia riguarda Paolo Oliverio, commercialista quarantasettenne con la passione per gli affari con i padri Camilliani e gli 007, arrestato a novembre per sequestro di persona nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio. Oliverio dal gennaio 2013 è socio della Poyel produzioni, con capitale sociale di 100 mila euro, azienda trasferita a Napoli a ottobre e infine messa in liquidazione nel dicembre 2013, un mese dopo l’arresto di Oliverio. Nonostante la breve esistenza, la Poyel ha fatto in tempo, si apprende da Internet, a produrre il film «Giallo toscano», un thriller girato a Buonconvento (Siena), realizzato insieme con l’Accademia dei risorti, società di produzione cinematografica con sede proprio nel piccolo comune senese. Grazie al trailer si scopre pure che il film è stato realizzato con il contributo della Regione toscana e della Toscana film commission. Che ha versato, secondo i produttori, 30 mila euro. La trama è semplice: una mattina di giugno due tartufai in cerca di tuberi trovano il cadavere di una giovane archeologa. Inizia a questo punto la caccia all’assassino. Al film ha contribuito con la propria partecipazione gran parte della popolazione del paese. L’idea è stata del presidente dell’accademia, Lorenzo Borgogni, per quasi vent’anni influente portavoce di Finmeccanica, originario di Siena e residente a Buonconvento. La figlia Benedetta ha fatto l’aiutoregista. Anche Borgogni, come Oliverio, ha avuto le sue traversie giudiziarie: indagato nel 2011 nell’inchiesta su Finmeccanica, ha patteggiato una pena di tre mesi di reclusione per finanziamento illecito ai partiti e resta sotto processo per altri reati; attualmente è coinvolto anche nell’indagine sulle presunte mazzette pagate per la fornitura degli autobus di Roma Capitale. Tutto questo non ha impedito alla Regione Toscana di finanziare il progetto. «Ma il film di Buonconvento con Oliverio non c’entra nulla» puntualizza Borgogni con Libero. «È stato realizzato nel 2012 e la Poyel è nata nel 2013». Eppure nei titoli c’è scritto che è stato prodotto dalla Poyel: «In realtà l’abbiamo inserito in quel catalogo per vedere se si poteva domandare qualche contributo con questa nuova società. I soldi dalla Toscana film commission li abbiamo ottenuti come Accademia dei risorti, di cui sono presidente: 25-30 mila euro in tutto». La toppa sembra peggiore del buco: il pluriindagato Borgogni ottiene denaro pubblico per un’opera sul suo paese e poi con una società affidata a Oliverio e che millanta di aver prodotto un film non suo prova a ottenere altri finanziamenti. Ma come approda il fiscalista alla Poyel? «L’abbiamo fondata io e il mio amico Alfonso Gallo: lui ci ha messo dentro suo fratello e io Oliverio» risponde Borgogni. In effetti alla camera di commercio si apprende che soci al 50 per cento della Poyel sono la General holding company spa dei Gallo e Reb venture srl, in cui sono soci Borgogni e Oliverio, che possiede il 5 per cento delle quote. I due sono insieme anche nella System plus srl. «Nei giorni scorsi, dopo aver letto le notizie sulle presunte attività illecite di Oliverio abbiamo fatto dei controlli e scoperto numerose operazioni sospette e non autorizzate da Borgogni sui conti delle due società» avverte l’avvocato Stefano Bortone, difensore dell’imprenditore. «Per questo abbiamo presentato denuncia contro Oliverio per appropriazione indebita». L’ennesimo colpo di scena nella vicenda giudiziaria del fiscalista romano. Eppure i due erano diventati amici, dopo essersi incontrati per la prima volta tre anni fa: «L’ho conosciuto nel settembre 2010 quando ero ancora in Finmeccanica e cercavo un commercialista. Me lo presentò come professionista dello studio Lupi, un compaesano, un ex giocatore della nazionale di calcio che lo conosceva dai tempi di Milano» ricorda Borgogni. Dopo poco i due si persero di vista. Per poi rincontrarsi qualche mese più tardi: «Quando uscii da Finmeccanica Oliverio mi propose di realizzare un’attività immobiliare perché era in contatto con questa fondazione dei Camilliani che aveva molti appartamenti da valorizzare. Per questo abbiamo fondato la Reb venture, io ci ho messo i soldi, lui faceva l’amministratore. Successivamente mi ha detto che erano stati fatti dei compromessi per delle vendite, ma io non so come sia andata a finire». I due condividevano anche un ufficio a Roma, in via Gregoriana: «Ma io ci sono entrato una sola volta, poco prima che arrestassero Oliverio» aggiunge l’ex portavoce di Finmeccanica. Borgogni frequentava pure la casa del commercialista in piazza di Spagna: «Uno splendido appartamento all’angolo con via del Babuino. Ricordo che una sera a cena c’era pure padre Renato Salvatore (superiore generale dei Camilliani, arrestato insieme con Oliverio per l’accusa di sequestro di persona ndr); il commercialista nove volte su dieci parlava dei Camilliani, delle loro proprietà a Casoria, Palermo, Messina, mi chiedeva se avessi dei manager. Gliene trovai uno che lui, però, non ricontattò mai, perché cambiava continuamente idea. Il personaggio era strano, io me ne accorsi dopo un po’: per esempio non si presentava agli appuntamenti, trovando le scuse più assurde». Come quando Borgogni gli fece acquistare una casa a Montalcino del valore di 700 mila euro: «Io gli fissavo gli appuntamenti con l’architetto, con l’ingegnere per la ristrutturazione  e lui a volte non si presentava nemmeno». Con i commensali, Oliverio parlava anche del suo amore per le auto: «Girava in Mini, in Range Rover, ma aveva una grande passione per i rally. Ultimamente aveva fatto una gara a San Marino, dove aveva rotto la macchina». Forse quella Lancia Delta che gli investigatori sguinzagliati alle sue costole nel 2012 hanno imbottito di microspie e che Oliverio aveva acquistato di seconda mano, pagandola 9.400 euro. Il commercialista non aveva rapporti solo con i preti, ma anche con diversi appartenenti alla Guardia di finanza e ai servizi segreti. «Lui mi parlava di Giorgio Piccirillo (dal 2008 al 2012 direttore dei servizi segreti interni, l’Aisi ndr) e citava pure Paolo Poletti (ex numero 2 dell’Aisi ndr)» ricorda Borgogni. Due nomi già emersi nelle indagini. Ma ci sarebbero molti altri personaggi influenti nell’agenda di Oliverio. Uno dei collaboratori del fiscalista, arrestato con lui a novembre, davanti al gip ha dichiarato: «Io mi fidavo di Oliverio perché quando gli squillava il telefono io vedevo nomi noti. Vantava amicizie con A. B., ma più semplicemente con personaggi di alto rango istituzionale, con il presidente di Finmeccanica, con Lorenzo Borgogni. (…) Mi faceva vedere le telefonate forse per aumentare il suo credito nei miei confronti, io ancora non so chi sia questa persona». Un dubbio che perplime pure gli inquirenti.

Chi taglia i fondi spesi male non è nemico della cultura. Repubblica invoca la protezione del cinema italiano come avviene in Francia: ma così sarebbero finanziate solo le pellicole della solita matrice ideologica, scrive Renato Brunetta su “Il Giornale”. Sono tornati con i loro costumi damascati, la parrucca incipriata, la lingua forbita. Invocano l'intangibilità di un privilegio sacro: il cinema non si tocca! Così sabato Francesco Merlo su Repubblica ha stabilito che esiste un tempio intangibile ai comuni cittadini che, poveretti, sono costretti a fare i conti con il mercato globale. Gli imprenditori del tessile, e gli artigiani del mobile si arrangino. Non pretendano di dar lezioni ai sacerdoti del Sancta Sanctorum, il quale va preservato da mani immonde e venali: è la cultura, figlioli! Essa va difesa dai barbari americani e asiatici, da Hollywood e da Bollywood. La cultura, certo, va difesa. Senza cultura non esiste neanche l'uomo come tale. Il fatto è che bisogna pur stabilire che cos'è la cultura, e chi tra i suoi protagonisti meriti una tutela eccezionale. Ciò che è insopportabile è l'ipse dixit. È insopportabile e niente affatto democratico che Francesco Merlo ed altri pretendano di trasferire in Italia la legislazione francese sul cinema, e vogliano sigillare questo privilegio nella legislazione europea. Diciamolo: è l'eterna pretesa del carrozzone dello spettacolo e dei suoi tenutari di erigersi da se stessi a sovrani del mondo. Lo conosciamo quel vagone di primissima classe. Era dipinto di nero sotto il fascismo, si ritinteggiò di rosso e si lamenta sempre perché vorrebbe più rifornimenti e più riverenze al passaggio. Cambiano i regimi, ma non la rendita di chi vi si è accomodato con il biglietto pagato dalla gente comune. Ragioniamo da persone civili. Non è in discussione se finanziare la cultura: si tratta di stabilire cosa e come. I principi sono fissati dall'articolo 9 della Costituzione, che recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L'attribuzione del compito di tradurre questi principi in scelte operative, e la fissazione della forma e dei modi di svolgimento di questo compito, come è accaduto per diverse altre previsioni costituzionali, ha subìto varie mutazioni. Alcune felici, altre meno. Un po' di storia. Solo nel 1975 (governo Moro-La Malfa) fu istituito un ministero con compiti specifici, il ministero per i Beni culturali e ambientali, per volontà di Giovanni Spadolini, cui fu affidato. Nel 1998 nacque il ministero per i Beni e le attività culturali. Il passaggio della cura dello spettacolo da un ministero con finalità economico-industriali importanti (sport, turismo, spettacolo) a un ministero che doveva promuovere attività culturali non fu certamente casuale e costituì la premessa per le successive confusioni ideologiche. È bene ripartire dalla prima domanda: perché le arti e la cultura devono essere sussidiate? E ancora, assieme alle arti e alla cultura deve anche essere sussidiato lo spettacolo? Quando lo spettacolo - quello dal vivo e quello cinematografico - diventa cultura? L'arte e la cultura sono sussidiate in tutto il mondo. Per quanto riguarda lo spettacolo, in Italia gli aiuti statali sono anteriori all'istituzione, negli anni Ottanta, del Fus (Fondo unico per lo spettacolo). Per quanto riguarda il cinema, è utile oggi ricordare che nel 1963 fu introdotta una norma che subordinava l'erogazione del sussidio al divieto di realizzare opere in lingua inglese. La smentita venne da chi più se ne intendeva. Dino De Laurentiis ha più volte dichiarato che la decisione di trasferire la sua attività negli Stati Uniti fu causata da quella innovazione normativa. A questo punto s'impone un po' di sana teoria economica. Data la distribuzione esistente del reddito, i mercati competitivi soddisfano in modo ottimale, nella gran parte delle circostanze, le preferenze dei consumatori. In base a ciò ci sono due argomenti principali, e un terzo che li rafforza, per giustificare i sussidi pubblici. Il primo argomento ha a che fare con l'efficienza allocativa dei mercati. In presenza di certe imperfezioni che generano un'esternalità (negativa o positiva), una qualche forma di «fallimento di mercato» conduce a un'allocazione delle risorse non ottimale, che è l'oggetto dell'intervento pubblico correttivo. Un secondo tema ha a che fare con l'equità della distribuzione del reddito. La tesi può essere usata a sostegno di un intervento pubblico se si dimostra che la distribuzione ineguale del reddito rende l'arte e la cultura inaccessibili ai poveri. Il terzo argomento ha a che fare con il concetto di bene meritorio. I beni meritori sono quei beni che la società ha deciso, per qualche motivo, che sia desiderabile fornire in quantità maggiori di quelle che i consumatori acquisterebbero ai prezzi di mercato (senza sussidio). Per i beni artistici e culturali si può argomentare che l'ignoranza delle arti priva molte persone di esperienze da cui trarrebbero grande giovamento. In conclusione, il sussidio pubblico è giustificato essenzialmente dal fallimento del mercato nel produrre la quantità socialmente ottimale di arte e cultura. Ecco perché il finanziamento delle attività culturali pone non pochi problemi. Si può, infatti, decidere di sussidiare l'industria cinematografica semplicemente per proteggere gli occupati di quel settore giudicato per qualche motivo un settore sensibile, così come si può decidere di effettuare investimenti infrastrutturali utili al settore o sostenere scuole di formazione. Il cinema italiano sarà competitivo solo con produttori che rischiano in proprio, non con produttori che si limitano ad amministrare l'obolo pubblico. Il che vale in generale. Concludendo, aver mescolato «ministerialmente» la cultura e lo spettacolo ha complicato e confuso le cose. Ha prodotto una grande e ignobile mistificazione: ogni volta che si chiede di tagliare il denaro speso male (e cioè di fare più efficienza, produttività, mercato, trasparenza, qualità e merito) c'è subito qualcuno (interessato) che ti taccia d'essere un becero nemico della cultura. Oggi la protezione del cinema italiano, applicando la legge francese e «repubblichina» alla Francesco Merlo, porterebbe all'aumento dei biglietti dei cinema per le opere non europee. Con il risultato che chi non ha i gusti raffinati di Francesco Merlo, che si imbeve di Godard e squisitezze sublimi, si vedrebbe costretto per risparmiare a entrare nelle sale dove si cimenterebbe con qualche sicuramente interessante opera prima o seconda di allievi selezionati dai kapò del cinema italiano, tutti di una certa matrice ideologica... Vogliamo essere liberi di essere noi stessi, senza essere educati dai Merlo incipriati. Come diceva Pirandello, «gente volgare, noialtri...».

A proposito di stampa, sinistra e finanziamento pubblico, scrive Jacopo Venier, direttore di Libera.Tv. Solidarietà al Manifesto e a Liberazione ma...In questi giorni in tantissime redazioni di giornali politici e cooperativi si vivono ore drammatiche. Il quotidiano Terra è stato il primo a cadere, poi è venuto il turno di Liberazione ed ora è il Manifesto a dover piegarsi alla liquidazione coatta. Anche l’Unità è in pericolo mentre a Nuova Ecologia non si pagano gli stipendi. Decine di altre testate sono sull’orlo del baratro. E’ questa la conseguenza del taglio drastico dei finanziamenti all’editoria deciso dal Governo Berlusconi e confermato da Monti. Con la scusa di riordinare il settore, tagliando le “testate finte” che servono solo per ottenere il finanziamento pubblico, si sta producendo una moria di “testate vere” che fanno informazione spesso scomoda. Ovviamente la prima risposta necessaria è la piena solidarietà con queste testate, con i professionisti che le realizzano, con la loro battaglia per difendere, non solo il loro lavoro, ma un pezzo del pluralismo e quindi della democrazia. Ieri la direttrice del Manifesto, in un drammatico video-editoriale, si è appellata ancora una volta ai propri lettori perché comprino il giornale in edicola ed ha dichiarato che questa lotta per la sopravvivenza è lotta politica. Sono perfettamente d’accordo con lei MA vorrei aggiungere alcune considerazioni di fondo. Perché siamo arrivati a questo punto? La crisi dell’editoria di sinistra non è solo finanziaria ma, come in qualche modo ammette Norma Rangeri, prima di tutto politica. Esistono giornali come Il Fatto che sono nati proprio quando altri entravano definitivamente in crisi. Le testate, in un sistema funzionante, dovrebbero nascere e morire non perchè ricevono o meno finanziamenti ma se sono capaci di rispondere ad un bisogno dei lettori, degli ascoltatori, dei telespettatori, di coloro che si informano sul web. Invece nessuno affronta questa crisi politica delle testate della sinistra quasi che sia un eresia dire che come i partiti anche il giornalismo di sinistra ha perso nel tempo la sua “connessione sentimentale” con il proprio popolo. Se servono appelli drammatici per far partire sottoscrizioni, vendite ed abbonamenti il problema invece esiste ed è grave. Parliamone. Parliamo anche poi del fatto che esistono anche centinaia di esperienze editoriali, di redazioni formali ed informali, di luoghi e di professionalità dove si produce informazione di qualità senza alcun finanziamento pubblico. Questo è un punto delicato. Da anni infatti, giustamente, le testate che rientravano nel quadro del finanziamento pubblico ci chiedono di unirci a loro nel pretendere che lo Stato contribuisca al pluralismo finanziandole. E’ una battaglia giusta MA solo se vediamo che forse il finanziamento non è una soluzione ma parte del problema. Nell’immediato è evidente che è necessario rifinanziare queste testate per impedire che spariscano di colpo esperienze importantissime, storiche, di valore culturale oltre che politico. Però è possibile che i giornali e le testate della sinistra possano vivere solo con i soldi dello Stato? Vivere di finanziamento pubblico significa essere impiccati ai governi e, nel tempo, assumere comportamenti non sempre compatibili con la propria missione. Questo vale sia per i giornali che per i partiti. Dice la direttrice del Manifesto che ora come non mai i suoi lettori devono comprare il giornale. Ha ragione. Sono i lettori la forza di una testata e questa deve rapportarsi e misurarsi con il loro numero. Tutte le testate hanno bisogno del sostegno dei loro lettori. Ma quelle che non hanno un finanziamento pubblico, nè possono sperare di averlo, hanno bisogno dei loro lettori più delle altre. I lettori ed il loro numero non sono una variabile indipendente, un dettaglio. Se una testata parla a tremila persone questo è il suo peso. Lo dico perchè non sempre è chiaro se i giornali sono stati fatti per i lettori, per i giornalisti che li fanno, o per chi procurava o potrà eventualmente in futuro assicurare il finanziamento. Lo dico perchè al netto della storia, della influenza, della presenza nelle rassegne stampa e nelle mazzette non sempre la diffusione delle testate e dei loro contenuti è quella che la storia ci consegna soprattutto nell’epoca di internet. Le imprese editoriali, anche quelle di sinistra, devono avere anche una loro sostenibilità economica. Il direttore di Liberazione Dino Greco, in una intervista che gli ho fatto per Libera.tv, diceva che le vendite e le sottoscrizioni, pur generose, non riusciranno mai a sostenere il giornale. Beh questo è un problema, un problema serio che non trova risposta dal finanziamento pubblico. Se un giornale non può vivere di vita propria è sempre esposto al rischio di doversi piegare per sopravvivere. A Greco rispondo che in Italia esiste un mercato immenso per la stampa di sinistra. Ci sono oltre tre milioni di persone che si considerano di sinistra a cui vendere i nostri prodotti. Dobbiamo interrogarci su come farlo e soprattutto su quali prodotti queste persone possano essere interessate a comprare. Questo è molto, molto chiaro a chi deve far quadrare un bilancio senza contare che sulle proprie risorse. Noi (testate e giornalisti) dobbiamo cambiare e cambiare molto. Al contempo dobbiamo mandare al “nostro popolo” un messaggio chiaro. Se la sinistra vuole la sua stampa deve sapere che se la deve pagare. Un tempo questo era a tutti chiarissimo. Nessuno avrebbe pensato che De Gasperi finanziasse la stampa comunista. Ed allora si facevano le feste dell’Unità, gli abbonamenti, le distribuzioni e la raccolta pubblicitaria casa per casa, negoziante per negoziante. Reperire soldi per la stampa era il cuore della militanza politica. Non sarà che anche a causa del finanziamento pubblico questa pratica, che chiariva la natura intrensicamente partigiana della professione giornalistica, è andata perduta sostituita dalla passiva attesa dei soldi dello Stato o dalla ricerca del sostengo di “imprenditori democratici” che poi sempre imprenditori sono? Se non si impara da questa crisi non si imparerà mai. Per ricominciare serve un patto per l’informazione libera e critica dove tutti, piccoli e presunti grandi, possano stare sullo stesso piano. Bisogna che tutti partano dal presupposto che la morte dell’altro non è uno spazio che si apre ma una opportunità che si chiude. Bisogna che finiscano le gelosie di testata ed anche un modo burocratico e corporativo di sentirsi giornalisti anche durante le crisi aziendali. Per ricostruire l’informazione di sinistra serve innanzitutto un bagno di realismo e di umiltà che consenta di costruire progetti sostenibili anche economicamente, adeguati ad una comunicazione moderna dove, ad esempio, la carta, pur rimanendo importante, non è più il centro. Prima di tutto però serve una scelta politica chiara che dimostri nei fatti la natura “critica” di questa informazione, la sua impermeabilità agli interessi economici dominanti, la sua avversità ad ogni burocrazia politica o sindacale anche quando questa controlla “i cordoni della borsa”. Fare informazione è battaglia quotidiana. Si può fare. Lo spazio c’è ed il futuro anche. Basta vederlo e basta volerlo.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

Quel manipolo di "rossi" che soffoca Wikipedia. Chi propone voci storiche contrarie alla vulgata di sinistra è sbattuto fuori senza troppe cerimonie: alla faccia della conclamata neutralità, scrive Luca Gallesi su “Il Giornale”. Catalogare il mondo e metterlo a disposizione dell'umanità, ecco il sogno che Diderot e gli Illuministi volevano realizzare con l'Encyclopédie, un progetto che avrebbe messo in seria discussione il sapere e le autorità tradizionali. Quasi tre secoli dopo, sono le Enciclopedie a capitolare di fronte ad una nuova sfida, altrettanto ambiziosa e ancora più rivoluzionaria, che affida la catalogazione e la diffusione della conoscenza non più a una ristretta élite di dotti intellettuali, ma a una vasta massa di volonterosi dilettanti. Stiamo ovviamente parlando di Wikipedia, l'enciclopedia virtuale in cui si è imbattuto chiunque abbia un minimo di familiarità con Internet. Più simile alla Biblioteca di Babele immaginata da Borges che alla Enciclopedia Treccani elaborata da Gentile, Wikipedia è una delle poche realtà efficienti e gratuite che da oltre un decennio sono un saldo punto di riferimento nel caotico mare magnum della Rete, che ha inghiottito corazzate che sembravano inaffondabili come Second Life o Myspace e progetti simili come l'enciclopedia multimediale della Microsoft Encarta o quella lanciata da Google chiamata Knol e totalmente dimenticata. Concepita nel 2001 da Jimmy Wales, un utopista smanettone appassionato di Ayn Rand, e da uno scettico dottorando in filosofia all'Università dell'Ohio, Larry Sanger, Wikipedia prende il nome da un termine hawaiano, wiki, che significa veloce; sin dall'inizio si offre come piattaforma di contenuti prodotti e curati da chiunque ne avesse accettato le regole fondamentali, conosciute come i Cinque Pilastri: niente ricerche originali, punto di vista neutrale, verificabilità delle fonti, e due comandamenti che riecheggiano quelli di Steve Jobs: be bold, ovvero «sii audace», e «ignora tutte le regole». In questo caso, la differenza sta nel fine, che non è, come per Apple, il profitto mascherato da raffinatezza, ma la catalogazione e la diffusione di tutto lo scibile umano senza scopo di lucro. Il successo è immediato, e supera ogni rosea previsione: aperta a tutti e con la neutralità dell'informazione come requisito fondante, Wikipedia si diffonde a macchia d'olio, diventando la prima enciclopedia al mondo per mole di informazioni e lettori, mentre progetti di ben altre ambizioni e solidità innalzano bandiera bianca, come l'Encyclopedia Britannica, che nel 2012 ha rinunciato alla versione cartacea, o la nostra Treccani, che ha addirittura abdicato al suo ruolo guida, rimandando i suoi lettori online ad alcune voci di Wikipedia. Oggi, la libera enciclopedia del web è pubblicata in 285 lingue, comprese quelle morte come il latino, o artificiali come l'esperanto e il klingoniano, noto solo agli aficionados di Star Trek. La sola versione in lingua inglese, se stampata, oggi occuperebbe 2000 volumi come quelli di un'enciclopedia classica, con un indice superiore ai quattro milioni di voci, quasi tutte attendibili, grazie al lavoro costante dei collaboratori e degli amministratori, volontari eletti dalla comunità e preposti al controllo delle singole voci. Alla storia di questo progetto è dedicato un brillante saggio: Wikipedia, di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, edito da Bietti (pagg. 394, euro 16). Oltre a descrivere accuratamente la storia di Wikipedia, il libro getta qualche ombra sugli amministratori della versione in italiano, che, invece di essere gelosi custodi della neutralità del sapere, sono zelanti vestali del politicamente corretto. Come ha provato sulla propria pelle uno degli autori, chi non si conforma alla vulgata resistenziale, anche se è un ricercatore laborioso e affidabile, viene inesorabilmente espulso dalla comunità dei collaboratori italiani. Un piccolo ma agguerrito manipolo di amministratori fa catenaccio contro le forze oscure della reazione in agguato, vigilando contro la pubblicazione di versioni che possano anche lontanamente mettere in dubbio l'egemonia culturale della sinistra, vedi le voci sull'Attentato di via Rasella (derubricato a Fatti di via Rasella), per non parlare della Guerra civile in Italia 1943-45, realtà inconcepibile per chi conosce soltanto la gloriosa ribellione del popolo italiano contro la sanguinaria tirannide. I gendarmi della memoria agiscono come la psicopolizia descritta da Orwell in 1984, impegnata a riscrivere la storia; ma i nostalgici degli Anni Settanta, che, per fortuna, sopravvivono quasi solo su Internet, non sono gli unici colpevoli, dato che sarebbe facile impegnarsi a contrastarli con successo, come dimostrano i due autori. Purtroppo, anche in Rete, come sui grandi giornali e nelle televisioni nazionali, la cultura, se non è allineata, non interessa quasi a nessuno: è talmente noiosa.

Come taroccare una voce di Wikipedia. Uno degli amministratori italiani racconta come aggirare le regole dell’opera collettiva più influente del pianeta Minare la credibilità dei lemmi sgraditi e pilotare il voto democratico che decide i contenuti? Si può fare così...continua Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Wikipedia è l’enciclopedia più utilizzata al mondo (60 milioni di accessi al giorno al sito). Multilingue, on line e gratuita è nata il 15 gennaio 2001. Si basa sul principio che il contenuto, libero, è generato sul web dagli utenti stessi. Jimmy Wales, uno dei fondatori, la descrive «come uno sforzo per creare e distribuire un’enciclopedia libera della più alta qualità possibile ad ogni singola persona sul pianeta nella sua propria lingua». Grazie a Internet. I colossi di carta, già in difficoltà, sono andati in tilt. Semplicemente non c’è competizione: qui non si spende un centesimo ed è tutto a portata di clic. La versione italiana accoglie oltre 670 mila voci, quella in lingua inglese raggiunge i 3 milioni. Le gerarchie sono ridotte al minimo, per non dire inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La certezza che, nonostante tutto, ciò non arrechi danno all’accuratezza dell’insieme poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma automaticamente in qualità. Molto si è discusso di questi e altri aspetti per così dire «ideologici». Meno noti invece sono i meccanismi che regolano il funzionamento di Wikipedia. Ancora meno note sono le persone che oliano l’ingranaggio e mantengono operativa la macchina. Qualche notizia preliminare. Come abbiamo detto, chiunque può scrivere una voce di Wikipedia. Il contributo deve rispettare alcune caratteristiche, che vanno dalla neutralità al corredo di una documentazione sufficiente ad attestarne la credibilità, se non la veridicità. Una voce ritenuta insufficiente per qualsivoglia motivo può essere proposta per la cancellazione. Se nessuno protesta, dopo sette giorni, la voce scompare. Altrimenti segue dibattito in rete, al termine del quale si vota. Il quorum è di almeno 10 partecipanti. Per procedere all’eliminazione, è necessario il parere favorevole di almeno due terzi dei partecipanti. Come vedremo, centrale è la figura dell’amministratore al quale tocca il compito di «sorvegliare» le voci, segnalare lacune, dirimere le questioni. Per diventare amministratore non è richiesto alcun requisito particolare. È necessario solo candidarsi ed essere votati dagli utenti (il quorum è variabile e dipende dal numero dei votanti alle precedenti elezioni, la maggioranza richiesta per farcela è di 4/5). Un amministratore può decadere in due casi: se latita troppo a lungo oppure se gli utenti lo ritengono inadattato alla funzione e lo «abbattono» con la solita votazione. La versione italiana dell’enciclopedia dispone di 102 amministratori. Solo sei sono donne. La maggioranza ha tra i 18 e i 35 anni circa, benché ci siano alcuni ultracinquantenni. (Amministratori a parte, il decano di Wikipedia.it ha 87 anni, si chiama Antonio Angelo Caria e ha raccontato la guerra nelle pagine dell’enciclopedia: wikipedia.org/wiki/utente:Caria Antonio Angelo/Racconti). Sembra il paradiso della democrazia ma è davvero così? L’enciclopedia è imparziale? È possibile taroccare una voce? Le votazioni sono trasparenti? Le «sentenze» di vita o di morte si possono influenzare? Ci dà una mano a rispondere uno degli amministratori italiani, dal quale siamo stati contattati e del quale rispettiamo la richiesta di rimanere anonimo. Lo chiameremo, per comodità, «Admin». Il primo punto, nonostante le apparenze, è forse il meno interessante. No, l’enciclopedia non è imparziale. Ma quale opera dell’ingegno (individuale o collettivo) è realmente imparziale? Forse nessuna. Per rendersene conto basta fare una rapidissima verifica su voci politicamente sensibili ma non troppo legate all’attualità e quindi non frequentatissime. Difficile «sbarellare» nella voce dedicata a Silvio Berlusconi, presumibilmente molto letta e quindi sottoposta a continua verifica. Facile invece «sbarellare» nelle voci riservate, ad esempio, al liberalismo, al libero mercato, al neoliberismo, a economisti come Milton Friedman e così via. Qui emerge subito, neanche troppo camuffata, l’avversione al capitalismo così radicata nel nostro Paese. Comunismo e dintorni godono di un altro trattamento. «Se si dà un’occhiata ai profili degli amministratori in carica - spiega Admin - si noterà una seria maggioranza di sinistra con molte punte di “laicità” che sfocia spesso e volentieri nell’anticlericalismo». E ancora: «Quando venne eletto un candidato dichiaratamente cattolico, ci fu una pioggia di osservazioni sulla sua fede. Non è l’unico esempio di candidato rifiutato perché cattolico». In un caso la motivazione del voto negativo era questa: «Dichiara (il candidato, ndr) nella pagina utente di adorare uno Stato straniero che io invece respingo come nemico e invasore». Lo Stato nemico, ovviamente, è il Vaticano. «Notare che l’autore di questo commento è una delle figure di punta dell’UAAR (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, ndr), attivo in Wikipedia nella propaganda dell’anticlericalismo. L’UAAR per lungo tempo ha avuto molti utenti naturalmente impegnati a estirpare voci cattoliche o a modificare in senso anticlericale voci storiche sulla Chiesa». Forse è troppo dire che l’enciclopedia è schierata a sinistra: «La maggior parte degli utenti registrati è di sinistra ma per fortuna la nascita di quella porcata nota come ita.anarchopedia.org ha tolto un sacco di gente di torno. Pochi sono gli utenti palesemente schierati con Berlusconi o con il centrodestra, e purtroppo spesso sono dei perfetti imbecilli, talvolta buttati fuori perché utilizzatori di tecniche degne del peggior “troll”». Per i non addetti ai lavori: il “troll” nelle comunità digitali è un tizio che interviene a sproposito e con insulti. Il suo scopo è fomentare l’inimicizia e alla lunga rendere infrequentabile un sito. Al di là di questo, dice Admin, «il problema è che per ottenere di inserire o togliere un pezzo controverso all’interno di una voce, serve il consenso. Ed essendo molti utenti di sinistra, domina una certa vulgata». Comunque l’argomento di maggior dibattito sembra essere un altro: «Essendo italiani, gran parte delle discussioni verte sul calcio. Alcuni utenti insistono a inserire i curricula di calciatori che hanno giocato anche solo cinque minuti di Serie A. In politica credo sia inutile fare un elenco. Ai tempi degli insulti della Guzzanti si è aperta la sagra dell’aggiungere/togliere i riferimenti a Mara Carfagna. Più di recente si è discusso molto del caso Marrazzo. La voce su Noemi Letizia è stata cancellata ma i dipietristi di wiki hanno ottenuto che le discussioni sul caso rimanessero registrate. La religione è un altro argomento scottante, anzi il cattolicesimo dal momento che delle altre religioni pochissimi si occupano. Sempre calda la voce su Pio XII e l’Olocausto». Nessuno come s’è detto ha un reale potere di veto o di censura. «Ufficialmente no, o almeno non è codificato da alcuna parte. In teoria funziona così: se uno trova una voce che non funziona può apporre delle stringhe di testo che spiegano la natura del problema. Ad esempio: non si capisce dove stia l’enciclopedicità; va aiutata, voce troppo smilza e quasi incomprensibile; va controllata, dati o altro non tornano; non ci sono fonti di supporto a quanto scritto. Poi c’è questa stringa: è di parte e quindi va riequilibrata. E qui iniziano i guai. Trovo molto divertente la stringa che introduce la voce “persecuzione dell’omosessualità in URSS”. Si legge: “La voce contiene una serie di informazioni sulla persecuzione degli omosessuali in URSS senza avere nemmeno una fonte a sostegno dei concetti espressi; inoltre i comunisti vengono mostrati come crudeli omofobi”. Poveri cari, questi comunisti. Ma se si va a vedere la pagina utente di chi ha messo la stringa che mina la credibilità della voce, si scopre che si dichiara ateo, anticlericale e... comunista». Già ma poi la democraticità della votazione ripara ogni torto e riporta l’equilibrio... «Le regole sono facilmente aggirabili. Non si può fare “campagna elettorale”, nessuno può andare a chiedere a un altro utente di aiutarlo a salvare o bocciare una voce. È espressamente vietato. Peccato esistano le mail, i blog, i forum, le chat. Di fatto alterare quorum e consenso è facilissimo. Compito dell’amministratore è cassare i voti ottenuti in questo modo. Il problema è chiaro: se i membri dell’UAAR, o viceversa i cattolici, si mobilitassero e facessero gruppo per eliminare le voci che non piacciono loro, addio equilibrio ed enciclopedicità. Qualche tempo fa si aprì la votazione per cancellare la voce No Berlusconi Day, sbilanciata e affetta da “recentismo”, cioè troppo schiacciata sull’attualità per essere enciclopedica. Grazie al tam tam via Facebook ci fu un’impennata di votanti, tutti sfavorevoli alla cancellazione. Alcuni tornavano su Wikipedia dopo mesi di assenza. Altri si registrarono appositamente (e i loro voti furono cassati)». Complessivamente, dal quadro disegnato da Admin appare chiaro che la verità storica non si può decidere per alzata di mano. Wikipedia non si divide per comunità nazionali ma linguistiche. «A Wikipedia.it collaborano anche vari utenti svizzeri del Canton Ticino. Uno dei problemi di Wikipedia.es, quella di lingua spagnola, è che gli utenti vivono su sponde diverse dell’Atlantico, si esprimono in modo diverso e hanno mentalità diverse. Nessuno gestisce ufficialmente i rapporti tra le varie comunità, che spesso seguono principi diversi: quella di lingua inglese è di manica larga e accetta voci di ogni tipo, per questo ne ha tre milioni, quella di lingua tedesca è rigorosa. Esistono però le varie Wikimedia, associazioni no profit che hanno il compito di promuovere la cultura libera e i progetti gestiti dalla Wikimedia Foundation. Progetti sui quali non hanno alcun controllo. Wikimedia è divisa su base nazionale. Comunque non esistono vertici né assoluti né relativi». L’ultima curiosità: qualcuno guadagna attraverso Wikimedia o Wikipedia? «Ufficialmente non è possibile. Ci sono pettegolezzi relativi alla organizzazione di alcuni eventi o convegni ma sono chiacchiere non documentate. Il bilancio delle varie Wikimedia comunque è pubblicato in rete. Nel caso della Wikipedia vera e propria, credo sia difficilissimo guadagnare qualcosa, e non ne ho mai avuto notizia».

L’egemonia culturale della Sinistra, scrive Luciano Atticciati. Il nostro Paese è vissuto per decenni sotto la cosiddetta egemonia culturale della Sinistra, una specie di lunghissimo dopoguerra che ha portato gli uomini di cultura ad assumere posizioni e atteggiamenti anomali e forzati per dimostrare la validità di certe questioni decisamente insostenibili. Per costoro il fascismo era stato molto peggiore del comunismo, nonostante che tutto facesse pensare che il regime totalitario creato da Mussolini non fosse così coercitivo come quello dell’Unione Sovietica o della Cina Popolare, i crimini contro l’umanità commessi dai regimi comunisti erano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, le atrocità commesse dagli Jugoslavi verso il nostro popolo erano decisamente un argomento tabù, così come l’idea che gli uomini della Resistenza avessero commesso degli eccessi. Ovviamente per costoro la classe borghese costituiva qualcosa di spregevole, e aveva gestito il nostro Paese nel peggiore dei modi, il futuro apparteneva ad altre ideologie che avrebbero stabilito un mondo nuovo, decisamente superiore al presente o al recente passato ritenuto di scarso valore. L’egemonia culturale della Sinistra aveva naturalmente il sostegno degli intellettuali, ma trovava un altrettanto forte sostegno nelle istituzioni, che nei loro proclami ricordavano costantemente le nefandezze della Destra. Sebbene il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista. A rileggere oggi certi discorsi c’è da rimanere inorriditi, ma a quei tempi tutto era permesso, e nessuno poteva opporsi ai profeti del mondo migliore. I dibattiti culturali sui mass-media avvenivano rigorosamente fra esponenti di Sinistra, le librerie ospitavano solo libri di Sinistra, le poche voci dissonanti venivano messe a tacere con giudizi pesanti. Due casi sono degni di nota, quello di Montanelli, isolato come un infetto di un terribile morbo, e Renzo De Felice, lo storico che aveva azzardato a parlare del fascismo come fenomeno dei ceti medi e teso alla mobilitazione delle masse. I suoi denigratori coniarono addirittura un termine estremamente infelice per indicare le sue posizioni, «revisionista». I revisionisti erano in precedenza definiti i comunisti non allineati, considerati eretici dai marxisti ortodossi. Gli attacchi contro uno dei maggiori storici italiani da parte di intellettuali e politici furono estremamente pesanti. L’antifascismo dominante non permetteva che si potesse esprimere il minimo giudizio anche vagamente non accusatorio nei confronti di quel regime. Il mondo comunista aveva soppresso qualsiasi forma di libertà e aveva sottratto ai ceti operai di cui si considerava formalmente protettore, gran parte dei loro diritti. Non ci voleva molto a comprendere che il blocco dei Paesi comunisti produceva una eccezionale quantità di armamenti ma teneva la popolazione ad un livello di vita da Terzo Mondo. Nonostante ciò giovani entusiasti ed intellettuali proclamavano che la gente sotto quei regimi disponeva di un benessere, forse diverso dal nostro, ma comunque di una situazione felice. Fino al 1956, cioè fino a quando Kruscev non rivelò i crimini commessi da Stalin, gran parte della cultura marxista proclamava che i gulag non esistevano (vedi anche il caso Kravcenko), che erano una semplice invenzione della propaganda capitalista. Nel periodo successivo si parlò allora di «contraddizioni del mondo comunista», come dire che il terrore di massa era un semplice accidente storico, un limitato e inevitabile male che non pregiudicava la grandezza di quei regimi. Tutto il mondo doveva comunque essere grato all’Unione Sovietica per aver sconfitto, a prezzo di enormi sacrifici, il nazismo, ovviamente si taceva sul «Patto Molotov-Ribbentrop», sulla duplice aggressione alla Polonia, e sull’eccidio di Katyn. Negli anni Cinquanta sorse infine un ambiguo movimento pacifista, i Partigiani della Pace, che nonostante tutte le guerre e le minacce che provenivano dall’Unione Sovietica riteneva il pacifismo coniugabile con il comunismo. Anche personaggi di spicco del mondo europeo ne fecero parte. Non molto tempo dopo si scoprirono i legami dei vertici dell’organizzazione con il blocco sovietico. Uno spazio particolare nella cultura degli anni Sessanta fu dato alla questione Vietnam, vittima non si sa su quali basi di un’aggressione americana. La principale battaglia combattuta in quell’infelice Paese, avvenne nel ’68 a Khe San fra unità regolari nord-vietnamite che erano penetrate nel territorio sud-vietnamita e avevano circondato una base americana, eppure la Sinistra continuava a ripetere che principali protagonisti di quel conflitto erano i Vietcong, cioè comunisti locali insofferenti al regime alleato dell’odiato Paese capitalista. Analogamente si taceva sul fatto che fosse stato Kennedy, uomo della Sinistra, ad iniziare l’impegno americano a difesa del governo sud-vietnamita. Quando dopo il 1975 si scoprì la durezza e la crudeltà del comportamento dei regimi comunisti di quell’area geografica, la questione venne messa presto a tacere. Nello stesso periodo molti vedevano nel comunismo cinese, una forma di autentico comunismo «popolare» contrapposto a quello «burocratico» sovietico. I milioni di morti che avevano accompagnato quella triste rivoluzione, ammesso che potesse avere senso parlare di rivoluzione parlando del regime cinese, costituivano un normale inconveniente tipico di qualsiasi fenomeno storico. Le due questioni si inquadravano all’interno della cosiddetta guerra fredda. Le origini della guerra fredda apparivano decisamente confuse, forse era stato il discorso sulla «cortina di ferro» di Churchill (1946) a scatenarla, o forse «l’accerchiamento capitalista», anche se il mondo comunista appariva un po’ troppo vasto per essere considerato accerchiato. L’umanità si trovava a vivere una guerra in cui era scivolata senza sapere nemmeno il motivo, e il muro di Berlino suo simbolo, era sorto a causa di «reciproche incomprensioni», non dall’attività deliberata di un regime totalitario. Coronamento di tali discorsi era naturalmente l’antiamericanismo, il governo degli Stati Uniti controllava non si sa come, né in che modo le nostre scelte politiche. Se le Sinistre non riuscivano a conquistare il potere nel nostro Paese, ciò era dovuto non al fatto che i ceti medi preferissero altre forme di governo, e che una parte della stessa Sinistra, socialdemocratici e repubblicani avessero scelto il sistema di valori occidentale, ma a invisibili condizionamenti operati nelle forme più incomprensibili. Forse non ci voleva molto a comprendere le assurdità e le palesi falsità di quella cultura, bastava leggere le opere di uno storico come Luigi Salvatorelli sul Novecento, o quelle di Gaetano Salvemini che aveva messo in luce come nell’affermarsi del fascismo avessero pesato le violenze scatenate nel ’19 dall’estrema Sinistra. Anche gli storici fecero la loro parte di confusioni, molti storici di area comunista limitavano lo studio della storia all’esposizione di enunciazioni programmatiche, senza mai arrivare ai comportamenti reali dei governi e delle forze politiche. Un testo ritenuto importante di Enzo Collotti sulla storia della Germania (1968) considerava irrilevante l’assorbimento forzato del partito socialista da parte di quello comunista nella DDR, i Tedeschi sostanzialmente avevano accolto liberamente quel tipo di regime. Lo storico comunista forse più autorevole, Gastone Manacorda, ammetteva esplicitamente le esigenze della politica nello studio storiografico. Sembrava che il mondo dovesse vivere a tempo indeterminato in quella forma di forzatura mentale, ma la storia («l’astuzia della ragione» avrebbe detto Hegel) alla fine operava. A metà degli anni Ottanta il comunismo implodeva non a causa di un attacco militare, o di un oscuro complotto, ma per l’azione di quei popoli che lo vivevano. Il mondo di bugie aveva una falla, e da qui al crollo il passo non era lontano. Alla fine anche gli uomini di cultura di Sinistra più avveduti (tra i quali Giampaolo Pansa) hanno dovuto ammetterlo, i teoremi non stavano in piedi, erano costruzioni fondate sul nulla. Oggi la storiografia marxista è quasi inesistente, solo irriducibili dogmatici ci vengono a proporre le loro tesi un po’ trite, uno di questi è Toni Negri, convinto che il nemico capitalista trami nell’oscurità, alla stessa maniera con cui i nazisti si convincevano dell’esistenza del complotto giudaico-massonico. Dietrologi e complottisti sparano ancora le loro ultime cartucce, e se i fatti storici smentiscono tesi gloriose, per costoro si può ricorrere sempre a fatti non dimostrati né dimostrabili. Se il mondo della cultura oggi ha messo da parte la cappa soffocante dell’egemonia culturale della Sinistra, tuttavia in quella parte della società più portata a credere acriticamente nei grandi illuminati che nelle proprie capacità di discernimento, ancora continua a resistere un modo di pensare decisamente impossibile da comprendere. Le persone che in un certo senso desiderano ingannarsi non sono assolutamente scomparse.

Non se ne può più dell’egemonia culturale della sinistra, ma Berlusconi in 20 anni cos’ha fatto?, Scrive Mattia Feltri su “Tempi”. La superiorità antropologica della sinistra, rappresentata dalla Repubblica delle Idee, ci ha stufato ma la destra non è riuscita ad offrire un’alternativa. Con una spettacolare doppietta, giorni fa il Foglio di Giuliano Ferrara ha introdotto la questione. Da principio Andrea Marcenaro, nella sua rubrica quotidiana, immaginando quella catasta d’intelligenza riunita a Firenze dalla Repubblica delle Idee – naturalmente con la “i” maiuscola – e diciamo Alessandro Baricco, Umberto Eco, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky eccetera, eccetera, col formidabile peso della cultura non meno che enciclopedica: tutti a convegno per dire “Berlusconi merda”. Due mattine dopo, nella pagina della posta, il direttore spendeva una trentina di righe nell’esprimere il fastidio e la noia mortale per la dottrina dell’ovvio, del bello e del buono, incontrovertibile come l’espressione “la mafia è cattiva”, un piccolo manicheismo calzante a tutte le taglie, un bell’alibi per dirsi l’Italia migliore, e però – concludeva Ferrara – questa è la Repubblica delle Idee «ma se cominciassimo a imparare qualcosa, da come si sta a tavola a come si legge un buon libro, quello no?». Qui ognuno deve fare i conti con la libreria che ha in casa e le macchie di sugo che ha sulla camicia, ma se si pensa a una colpa collettiva, quella ascrivibile alla destra italiana – a qualsiasi destra imposta dal bipolarismo, post-missina, socialista anticomunista, liberale, democristiana, puramente reduce del pentapartito o leghista – è una colpa totale e senza perdono. Si sono spesi vent’anni, quelli trascorsi dall’appoggio di Silvio Berlusconi alla candidatura di Gianfranco Fini per il Campidoglio (autunno 1993), a contrastare colpo su colpo la cultura progressista nei suoi numerosi ed eterogenei sacerdoti, da Alberto Asor Rosa a Roberto Benigni, da Paolo Flores d’Arcais a Corrado Guzzanti, da Barbara Spinelli a Nanni Moretti. L’Italia descritta dall’utopismo pop di Walter Veltroni o dal moralismo univoco di Michele Santoro, dal femminismo saccente di Natalia Aspesi o dal giustizialismo rancoroso di Marco Travaglio, è l’Italia che sulla pelle di destra faceva spuntare foruncoli. C’era e c’è un’allergia esibita per la superiorità antropologica che la sinistra si è autoattribuita e per la quale si concede un vitalizio di autoassoluzione. Bene, tutto questo è normale, è condivisibile. Orrore per il manicheismo, per l’antipolitica consolatoria, per la mitologia della società civile, per il pacifismo ipocrita, per l’antifascismo eterno e bolso che marchia di filofascimo chiunque non lo abbracci, per il totem della Costituzione, per il puritanesimo febbrile. Orrore per la classificazione sprezzante dell’avversario, che deve giusto scegliersi la casella: mafioso? Tangentaro? Stragista? Razzista? Servo? Ladro? Però. Qualcosa oltre l’antitesi? Però, oltre all’antitesi, la destra che cosa ha proposto? Oltre all’antitesi automatica, immediata, di istintivo riflesso, qual è l’Italia alternativa che si è immaginato e si è cercato di costruire? Berlusconi, i suoi ormai dispersi alleati, i suoi precari luogotenenti, le sue televisioni, le sue case editrici, quale tipo di paese hanno delineato in questi vent’anni? E, evitiamo equivoci, non si sta dicendo il progetto di Italia anche abbastanza preciso venuto fuori da settanta o ottantamila comizi. Quell’Italia lì, di cui Berlusconi parlò da Arcore con la calza sulla telecamera, quella della meritocrazia, della sana competizione, dello Stato leggero, antiburocratica, del riequilibrio dei poteri incrinato da Mani pulite, della riduzione fiscale, anticorporativa, federalista, ecco, quell’Italia è rimasta nelle promesse e nei sogni. Morì nel medesimo istante in cui, vinte le elezioni del 1994, al ministero dell’Economia andò Giulio Tremonti, prelevato dal Patto Segni, e non il liberale Antonio Martino parcheggiato agli Esteri. Traduzione: morì di parto. Si sta dicendo, in venti anni di cui la metà trascorsi al governo del paese, quale altra Italia è venuta fuori? In che cosa è cambiata? Nel conflitto permanente col centrosinistra, il centrodestra quale visione ha opposto, fuori dal recinto del palco? Quale è l’assetto istituzionale a cui si è lavorato per rendere il paese aggiornato alla Seconda repubblica, all’Europa, alla velocità d’esecuzione imposta ai governi? Come sono cambiati i rapporti di forza fra esecutivo e legislativo? E Berlusconi, affranto dalla macchinosità con cui si arriva all’approvazione delle leggi, infine annacquate, quali contromisure ha studiato per accelerare e affilare la pratica? Se la soluzione impercorribile è ottenere il 51 per cento nelle urne, quale disegno diverso ha tratteggiato? Come è stata rimodellata la Costituzione per esempio davanti alla mutata legge elettorale, col referendum per il maggioritario del 1993, e alla mutata prassi? È entrata nella Carta quella correzione minima secondo cui il premier, come è stato di fatto, viene eletto direttamente dal popolo e, caduto lui, si torna a votare? Quale struttura economica si è fatta avanti? Non certo la rivoluzione, ma il riformismo liberale come si è concretizzato? Come si sono combattute le corporazioni? Come si sono affrontati i privilegi di casta? Come si sono liberalizzate le professioni? Come si sono snellite le procedure ministeriali, quelle del credito, quelle della tassazione? Come si è allentata la pressione fiscale? In quale modo si è pensato, se non di contrastare ferocemente l’evasione fiscale, di riconquistare gli evasori alla causa della contribuzione? Come si è ripensata la pubblica amministrazione nel suo complesso, compresa la riduzione dello sterminato personale e l’aumento della produttività? Quali sono stati i provvedimenti strutturali di sostegno all’impresa tanta cara al leader dei conservatori? Come si è inciso sul cuneo fiscale? Come si è agevolato l’export? Che cosa si aveva in testa e come lo si è tradotto nei fatti? Potere politico e giudiziario. Come si è messo mano alla giustizia? Dopo la notte in cui la Costituzione venne modificata con la cancellazione dell’immunità parlamentare, che cosa si è fatto per irrobustire il potere politico indebolito davanti al potere giudiziario? È arrivata la separazione delle carriere? È stato equiparato il ruolo del magistrato dell’accusa e quello dell’avvocato della difesa? Dopo i problemi emersi con Mani pulite, la questione della carcerazione preventiva come è stata affrontata? E quella dell’affollamento delle carceri? L’inappellabilità per i pm? Qual è stato il sistema di giustizia a cui si è lavorato per offrire una proposta più appetibile di quella propagata da Antonio Di Pietro, Giancarlo Caselli, il Fatto quotidiano? Quali studiosi hanno delineato un sistema che andasse oltre le decine di leggi ad personam buttate lì ogni volta che un processo ad personam intentato al sire di Arcore necessitasse di una contromisura? Oggi, rispetto al 1993 e al 1994, su quali ipotesi stiamo ragionando? Qual è la Rai voluta dal centrodestra? Qual è la tv pubblica che Berlusconi intende offrirci? Deve avere ancora tre reti? Deve avere ancora reti di riferimento di un partito o di quell’altro, in base a chi sta al comando e chi all’opposizione? Deve continuare a essere lo specchio di Mediaset – e viceversa – con una rete finto paludata (Rai1 e Canale 5), una rete finto giovane (Rai2 e Italia1), una rete di vera militanza (Rai3 e Retequattro)? Come si è pensato di elevare il concetto di servizio pubblico? Che tipo di palinsesti si ritiene di promuovere per uscire dalla retorica tanto detestata? Che cosa dovrebbe raccontare la Rai per superare gli schemi così esecrati del talk show alla Giovanni Floris e dell’intrattenimento alla Dario Vergassola? Se davvero quello è l’orrore, la cultura dirimpettaia di centrodestra quali giornalisti o comici ha individuato? Chi si è incaricato di raccontare il mondo da un altro punto di vista, e non in forma belligerante, ma dialettica? Quale mondo della cultura è nato in vent’anni attorno all’esperienza politica di Berlusconi? Il Sanremo di Tony Renis? Le canzoni di Van de Sfroos? Le fiction di Renzo Martinelli? Come si sono aiutati i registi che intendevano emergere senza sposare una causa ideologica o di schieramento? E i giovani musicisti? Come si è pensato di liberare energie creative per evitare che restassero prigioniere dell’industria della propaganda di sinistra? Come si è adeguata la politica editoriale? Si sono organizzati festival o premi aperti alle voci non scontate? In sintesi, quali rimedi sono stati adottati all’egemonia culturale di sinistra, che non fosse una reiterata e sguaiata denuncia, o qualche vaga contrapposizione muscolare e dunque sterile? Il modello eccellente della sanità lombarda, come è stato portato nel resto d’Italia? Quale studio ha ricondotto il welfare fuori dall’assistenzialismo? Quale modello di città si è fatto avanti? Quale architettura? Quale urbanistica? Quale politica energetica? Quale tipo di scuola (a parte gli sforzi di Mariastella Gelmini)? Come sono stati introdotti inglese e informatica alle elementari? Come si è affrontato il baronaggio nelle università? E come l’università di destra si è messa alle calcagna dell’università anglosassone? Quale politologia si è sviluppata? Quale storiografia? Quale informazione? Insomma, l’Italia che usciva dal pantano finale della Prima repubblica, e che era l’Italia diversa da quella difesa dai postcomunisti e dai loro alleati, che Italia era? E che Italia è? Dov’è?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

Il mito sinistro dell'intellettuale collettivo. Da Gramsci passando per il Sessantotto ha prevalso sempre il pensiero organico. Che ha incantato il ceto medio, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma cos'è poi questa famigerata egemonia culturale? Quando è nata, come è cresciuta, come si manifesta oggi? Dopo la denuncia del filosofo cattolico Giovanni Reale sulla dittatura culturale marxista in Italia poi mutata in laicismo illuministico, e il «Cucù» che vi dedicai, ho ricevuto varie lettere che chiedono di precisare meglio il tema. In che consiste questa becera egemonia? Per cominciare, il modello ideologico dell'egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società tramite la conquista della cultura. Il modello pratico si nutre invece di due esperienze: quella sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Lukács, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell'Ungheria comunista. E quella fascista, con l'organizzazione della cultura e degli intellettuali di Gentile e di Bottai, che è l'unico precedente italiano, anzi occidentale di egemonia culturale (ma fu ricca di eresie, varietà e dissonanze). La storia dell'egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell'immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine: da Alicata a Einaudi, per intenderci, per non parlare della stampa. È un'egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti «redenti» dal fascismo. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di «culturame» da parte del ministro democristiano Scelba. La seconda egemonia nasce sull'onda del Sessantotto e il Pci diventa poi il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell'estremismo rosso. Il distacco dall'Unione Sovietica viene motivato, pure all'interno del Pci, col tentativo d'intercettare quell'area radicale, giovanile e marxista che non contestava l'Urss nel nome della libertà, ma nel nome della Cina di Mao, di Che Guevara, di Ho Chi Minh, e altri miti esotici e rivoluzionari. Perfino Berlinguer, quando accenna a dissentire dal Patto di Varsavia, parte da lì. Dopo il '68 vanno in cattedra nugoli di giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni. La saldatura tra le due sinistre avviene con la nascita, da una costola de l'Espresso, de La Repubblica che raccoglie le sinistre sparse e concorre alla «secolarizzazione» del Pci nel progetto di un partito radicale di massa. Con La Repubblica e i suoi affluenti ha un ruolo decisivo nella nuova egemonia la sinistra televisiva, cresciuta in Raitre. Sul piano culturale Gramsci viene fuso con Gobetti e Bobbio diventa il nuovo papa laico dell'egemonia. Negli anni di piombo convivono l'egemonia gramsciana con l'egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del '68, dal manifesto a Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l'Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano dell'egemonia culturale. L'egemonia, sia gramsciana che radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell'Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell'editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell'arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l'egemonia nel segno di Gentile e d'Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare agli italiani. In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare, a partire dalla Rai democristiana, Bernabei e l'intrattenimento nazionalpopolare, lo sport e la musica leggera, e poi la tv commerciale e berlusconiana. Dunque un'egemonia dell'organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d'eccellenza e senza adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s'infiltrano a macchia d'olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di remore e tabù. L'egemonia culturale fagocita la cultura affine, asserve quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori. Qui converrà distinguere nel trattamento tra gli imperdonabili e i tollerati. Sono imperdonabili coloro che sono considerati legati a principi tradizionali e a una visione spirituale della vita, chi nutre un giudizio diverso sul fascismo, sul comunismo o sul berlusconismo, sulla religione e sulla famiglia, o chi non condivide il nuovo catechismo fondato sull'omolatria e sul permissivismo intollerante con chi non si allinea. Sono invece tollerati i neognostici che coltivano spiritualismi esoterici, fuori dal mondo e dal tempo, tipo Adelphi; si può arrivare a Guénon ma non a Evola, a Quinzio ma non a Sciacca, a Zolla ma non a Del Noce. Poi i dandy, che lasciano figurare i loro estremismi come stravaganze individuali o pose letterarie o puro vintage, che non contestano i valori dominanti e gli stili di vita; o infine, i fautori della destra impossibile che detestano ogni destra vivente e reale nel nome di quella che non c'è (genere montanelliani dell'ultim'ora). Sopravvive all'egemonia chi intrattiene buone relazioni coi suoi funzionari o si affilia ai clan ammessi o sottomessi. Particolare è il trattamento per i fuorusciti dalla Casa Madre dell'egemonia, gli ex-compagni migrati sulle sponde avverse: sono prima trattati con particolare disprezzo come traditori, cinici e venduti, ma alla fine sono accettati come interlocutori per via del pédigrée, di antichi rapporti e comuni circuiti di provenienza o pulsioni sinistre talvolta riaffioranti in loro. L'egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà. Ma alla cultura nuoce pure la noncuranza, il disprezzo, la sottovalutazione, assai diffusi nell'alveo sociale e politico cattolico, moderato, liberale o di destra. Alla fine chi non è allineato all'egemonia si trova tra due fuochi, anzi tra il fuoco degli intolleranti e il gelo degli indifferenti. E si destreggia per non finire bruciato o ibernato.

Quegli intellettuali che, vicini al fascismo, si trasformarono subito in fiancheggiatori del PCI, il quale, su suggerimento togliattiano, cercava di applicare i princìpi dell'egemonismo gramsciano. Ma nei limiti dell'intelligenza comunista su descritta. Infatti, tale operazione si limitò ad intercettare prima gli intellettuali reduci dai littoriali, poi quelli reduci dalle trincee, infine i reduci dalla prigionia e dalle file socialrepubblicane. Tale reclutamento all'italiana portò ad un'egemonia di facciata, molto esteriore e falsa, che gli italiani percepivano facilmente, ed al primo stormir di vento, qual foglie precocemente ingiallite, tutti (scrittori, cineasti, artisti, consulenti, mediatori, critici) s'involarono nell'azzurro cielo del conformismo atlantico.

Già alla vigilia della Prima guerra mondiale la reputazione degli italiani non era delle migliori. Tutti erano convinti che nella Grande Guerra avremmo cambiato di nuovo bandiera, cosa poi puntualmente avvenuta. E questa nostra attitudine a "correre in soccorso dei vincitori", come disse Flaiano, si manifesta con desolante regolarità da oltre un secolo. Le migliaia di camicie nere indossate solo dopo il successo della marcia su Roma. I fascisti diventati antifascisti nell'arco di una notte (25 luglio 1943). Il brusco voltafaccia di Casa Savoia, prima alleata e poi nemica dei tedeschi nel corso dello stesso conflitto. I partigiani dell'ultima ora. Gli intellettuali passati, dopo il 25 aprile 1945, dalla corte di Bottai a quella di Togliatti. Il viavai tra le porte girevoli delle correnti democristiane. La corsa in massa alle sezioni del Pci nel momento del "sorpasso" sulla Dc (1976). Craxi che, divenuto segretario del Psi, fu idolatrato come una divinità egizia e alla fine mollato in un nanosecondo. Berlusconi che, trasformatosi da "ragazzo coccodè" a eminente statista (1994), fu corteggiatissimo da ex supponenti rivali. Dirigenti d'azienda e giornalisti Rai che, dopo l'affermazione elettorale di Alleanza nazionale (1996), scoprirono di essere di destra, salvo poi dire, quando il leader cadde in disgrazia: "Fini chi?". Fino a Renzi, snobbato da tutti dopo la sconfitta subita da Bersani alle primarie del 2012 e oggi inseguito da uno stuolo di zelanti e insospettabili ammiratori.

Ed ecco il naturale sbocco letterario con Bruno Vespa: "Italiani voltagabbana". Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per ...Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito, è scritto nella recensione del libro della Mondadori. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè.

Opportunisti, paurosi, voltagabbana: italiani, non siete cambiati, scrive Fertilio Dario su “Il Corriere della Sera”. Dopo le rivelazioni dei colloqui telefonici tra il luglio e il settembre '43, gli storici si interrogano sull'oggi. Italiani, povera gente? Di certo opportunisti, paurosi, trasformisti. Persino patetici, nello sforzo di rimuovere la catastrofe del regime. Infantili, con l'illusione assurda di invitare a uno stesso tavolo nazisti e alleati. Gattopardeschi, e sicuri che dopo l'arresto di Mussolini tutto dovesse cambiare per poter restare come prima. Disinformati, al punto da immaginare che gli angloamericani (in accordo con la propaganda ufficiale) sarebbero stati "inchiodati sul bagnasciuga della Sicilia". Equilibristi, in omaggio alla celebre arte di arrangiarsi. Così almeno appare la nostra classe politica e intellettuale, stando alle intercettazioni telefoniche registrate dal Servizio d'informazione militare fra il 25 luglio e l'8 settembre del '43. Ieri le ha pubblicate il Corriere, con il commento di Renzo De Felice, e oggi l'interrogativo è al vaglio degli storici: possibile che in quegli anni gli italiani fossero proprio così? Che tutti, o quasi, si ostinassero a vivere in un mondo di favole littorie e slogan mascelluti quando già la situazione era precipitata? Possibile, certo, secondo Giorgio Spini. Anzi, addirittura scontato. "Già alla fine degli anni Quaranta, afferma, Federico Chabod mi chiese di analizzare autobiografie e memoriali dei generali italiani nei giorni della sconfitta. Ne venne fuori che nessuno aveva capito nulla, nè aveva avuto sentore del 25 aprile, eccetto il generale Cadorna per via dei suoi contatti con il Partito d'azione e La Malfa". Perciò le rivelazioni di oggi, secondo Spini, "sono soltanto la conferma del lavoro di allora: il deserto mentale e l'imbecillità della classe dirigente. Qui non c'entravano destra o sinistra. Il fatto era che la selezione dei gruppi dirigenti nell'Italia fascista, militari compresi, era stata realizzata alla rovescia, promuovendo i più stupidi. Le conversazioni telefoniche, le sciocchezze che venivano prese sul serio confermano come questi importanti generali e dirigenti di regime fossero veramente poveri diavoli". C'era allora una colpa collettiva? "Non la addosserei agli italiani: fra loro ce n'erano anche alcuni tutt' altro che scioccherelli, come De Gasperi. Il problema stava nella selezione negativa del regime, che dopo tutto era rimasto fedele alla ideologia del manganello". Un simile stato di minorità mentale, secondo il politologo Dino Cofrancesco, è testimoniato dall' atteggiamento collettivo nei confronti della guerra. "Proprio come i sudditi di due o tre secoli prima, i dirigenti concepivano il conflitto in corso come "limitato" e reversibile, parte di un destino che restava al di sopra di loro, e sul quale soltanto il capo supremo poteva intervenire. A differenza dei cittadini di uno Stato democratico, avevano accolto la conquista dell'Abissinia come un miracolo compiuto da un altro, ora si illudevano che un altro li avrebbe cavati d'impaccio. Come dire: abbiamo avuto una mano sfortunata alla roulette, dunque raccogliamo le fiches e torniamocene a casa. Il fascismo, che pure per molti aspetti aveva modernizzato il Paese, li aveva educati a dipendere da qualcun altro, ne aveva fatto soltanto dei sudditi. Oggi a nessuno sfugge che le democrazie, più restie delle dittature a intraprendere le guerre, sono poi inesorabili nel condurle a termine. Invece nessuno aveva detto agli italiani d'allora che le guerre contemporanee si combattono in un altro modo, sono conflitti totali nei quali tutti i cittadini vengono coinvolti più o meno allo stesso modo, sopportandone fino in fondo le conseguenze". Anche Paolo Alatri, di fronte alle rivelazioni sull'impreparazione psicologica degli italiani e alla disinformazione di cui erano vittime, è molto colpito. "Tutti si muovevano in una specie di gelatina - afferma - in cui trovavano accoglienza le possibilità e le ipotesi più inimmaginabili. C' era chi fantasticava su possibili alleanze con i russi, chi prevedeva un abbraccio con gli inglesi, chi avrebbe voluto volentieri gli uni e gli altri alla sua tavola. Incredibile, poi, la generale sottovalutazione del ruolo dei tedeschi, come se mettersi d'accordo con loro fosse stato facile quanto bere un bicchier d'acqua. E che dire poi degli americani? Nei discorsi collettivi parevano scomparsi, inghiottiti o rimossi dalla coscienza". Come si era potuto arrivare a simili autoinganni? "La radice del fenomeno va cercata nella politica di grande potenza: l'Italia si fingeva un Paese guerriero e attrezzato per tutte le evenienze, senza averne nemmeno le basi. Non c'è da stupirsi se fra i suoi esponenti o simpatizzanti più in vista non ne esistesse uno solo con una prospettiva realistica. Basti pensare al progetto di "Roma città aperta". Oppure a quel senatore Felici, nazionalista monarchico e per molti anni procuratore di D'Annunzio nei suoi rapporti col fascismo, convinto che la penetrazione degli Alleati in Italia non sarebbe mai potuta riuscire". Ma siamo poi tanto mutati, cinquant'anni dopo? Viene da dubitarne, se diamo retta ad Arturo Colombo, pronto a riscontrare nei discorsi dell'Italietta 1943 molte affinità con la cultura poi affermatasi nel dopoguerra. Ecco Spataro, destinato a diventare un leader della Dc, ragionare sulla necessità di creare un centro politico capace di "logorare" gli avversari. Ecco la costante paura del comunismo, un autentico spauracchio collettivo, che lascia in ombra qualsiasi volontà costruttiva di mettere in piedi un sistema politico liberaldemocratico. Ecco Missiroli, convinto che il vecchio non debba morire, e deciso a ritornare immediatamente a galla. Ed ecco infine il sacro slogan "Credere, obbedire, combattere" riadattato alle necessità del momento. Credere? A niente e nessuno. Obbedire? Ai vincitori. Combattere? Sì, ma per salvare la pelle.

Italiani, popolo di poeti, eroi e voltagabbana, scrive “L’Unità”. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto studioso di letterature comparate italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano - fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese - prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.

Professor Ceserani, come mai ha deciso di partire da Scilipoti per questa sua carrellata di voltagabbana?

«Perché Scilipoti è la caricatura del voltagabbana, è un voltagabbana all’ennesima potenza, quindi diventa quasi la parodia di una maschera della commedia dell’arte italiana. Il suo caso è talmente estremo da apparire quasi surreale. Ma sono ancora più paradossali i tentativi di giustificare i propri comportamenti che offre a chi gliene chieda spiegazione: un’autentica arrampicata sugli specchi, senza alcun vero argomento».

Che cosa la colpisce maggiormente nella sua vicenda?

«L’assenza della benché minima motivazione ideologica o anche solo ideale. Scilipoti è passato dal populismo di sinistra (Di Pietro) al populismo di destra (Berlusconi) senza battere ciglio, anzi, senza forse neanche accorgersi del triplo salto carpiato che ha compiuto. Il voltagabbana classico dà una giustificazione al proprio mutamento di posizioni. Qui siamo nella commedia dell’assurdo. Scilipoti è un personaggio pirandelliano: uno, nessuno e centomila».

Perché secondo lei il «voltagabbanismo» è un vizio tipicamente italiano?

«La radice storica di questo malcostume sta nel trasformismo parlamentare che ha connotato, sin dall’inizio della vita unitaria della nazione, la prassi politica. Nei primi decenni della vita parlamentare tale pratica trovava giustificazione nell’assenza di differenze ideologiche sostanziali tra destra e sinistra. Poi questa tendenza si è protratta nel tempo fino ai nostri giorni, seppure in un contesto radicalmente mutato. Non a caso i voltagabbana sono frequenti oggi, quando sono venute meno le grandi ideologie del ’900. Si tratta, insomma, di un sintomo tutto postmoderno, tipico di una società liquida come la nostra. Ma, va ribadito, di un sintomo assolutamente negativo, del sintomo, cioè, di un’autentica patologia del tessuto civile prima ancora che di quello politico».

In diversi personaggi tra quelli che ha nominato (da Pera a Capezzone) c’è, all’inizio della loro carriera, una militanza o quanto meno una simpatia per il Partito radicale. Come spiega questa costante?

«Perché Marco Pannella è stato davvero una nave scuola, ha insegnato a tutti loro tecniche di lotta politica alternative a quelle dei partiti tradizionali. Ad esempio Capezzone ha portato le proprie conoscenze nel campo della comunicazione al servizio di tutt’altra causa. Così l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo».

Ma non è lecito cambiare idea?

«Certo, e nella storia della cultura occidentale le grandi conversioni hanno dato origine a grandi narrazioni: da San Paolo a Sant’Agostino fino ad Alessandro Manzoni, nella conversione classica c’è sempre qualcosa di nobile, di ideale. Ma qui non compare nulla di tutto questo. Non c’è la dimensione alta, tragica, ma solo quella bassa, farsesca».

I politici che mutano bandiera, però, rivendicano la legittimità del loro comportamento richiamando l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»...

«Sì, ed è sacrosanto che i padri costituenti abbiano voluto questa frase. Ma va chiarita una cosa: quell’articolo della nostra Carta fondamentale è stato scritto per garantire la libertà di coscienza dei parlamentari di fronte alle grandi problematiche etiche. Le giustificazioni di chi cambia schieramento parlamentare snaturano il senso della legge».

Ma prima ancora di Scilipoti, forse bisognerebbe parlare di Berlusconi…

«Ma no, perché in questo Berlusconi è un modello inarrivabile, è un fuori classe, non sono possibili paragoni. Baciare la mano a Gheddafi e poi sganciargli le bombe sulla testa, essere un giorno per l’Unità d’Italia e il giorno dopo per un federalismo spinto, essere per il libero mercato e insieme favorire precisi gruppi di interesse economico, sostenere le posizioni morali della Chiesa cattolica e insieme diffondere tramite le tv commerciali di famiglia una visione assolutamente materialistica ed edonistica della vita, per non parlare dei modelli di comportamento offerti dalla sua vita privata… In Berlusconi c’è tutto e il contrario di tutto, da sempre. Per questo non può essere un volta gabbana. Perché non ha ideali, ma solo istinti: gli istinti più bassi del capitalismo».

Già, la solita sinistra. Vede la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei suoi occhi.

Descrizione: http://adv.ilsole24ore.it/RealMedia/ads/Creatives/default/empty.gifDa “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso, scrive Bruno Vespa su "Il Giornale". Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI. Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO. Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

INDRO MONTANELLI. Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA. «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l'8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d'ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORRESIO. Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell'animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI. Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI. Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L'assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

Pansa: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere "Eia eia alalà", un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall'inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l'estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all'inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo. In Eia eia alalà Pansa accompagna il protagonista nello scorrere degli anni e nella sfiducia crescente verso il regime. Abbiamo di fronte un ricco signore alle prese con tante incertezze e molti amori: Marietta, Rosa, Anna, Elvira e infine Marianna. Sarà questa giovane donna ebrea incontrata nel ghetto di Casale a fargli scoprire lo sterminio degli israeliti della città, con un viaggio tormentato che alla fine la condurrà a una decisione inaspettata. Grazie alle ricerche di Marianna, Magni conosce una dopo l’altra le storie degli ebrei uccisi ad Auschwitz. Nell’indifferenza gelida dei tanti che si voltavano dall’altra parte e fingevano di non vedere. Eia eia alalà è anche l’affresco di un’Italia che assomiglia non poco a quella di oggi: distratta, egoista e forse pronta ad accettare nuove tragedie.

.. Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si chiama Eia Eia Alalà ed è in libreria da oggi. Se non bastasse il titolo (a caratteri cubitali rossi in stile molto littorio), ci pensa il sottotitolo a spiegare che cosa si può trovare in questo volume (Rizzoli, pagg. 378, euro 19,90) a firma Giampaolo Pansa: Controstoria del fascismo. Pansa infatti, usando l'artificio del romanzo - «a me il lettore piace acchiapparlo per la coda, non annoiarlo a colpi di saggio» - mette i puntini sulle «i» della storia italiana della prima metà del '900 per spiegare che cosa sia stato e come sia nato il Ventennio mussoliniano. Il suo espediente narrativo è partire dalla sua terra e raccontare attraverso le vicissitudini del possidente terriero Edoardo Magni (personaggio di fantasia, ma nel libro ce ne sono molti realmente esistiti) come l'Italia sia diventata, convintamente, fascista. E lo sia rimasta a lungo. Non c'è bisogno di dire, viste le scomode verità venute a galla con i suoi precedenti libri (a partire da Il sangue dei vinti ) e il tema, che la polemica è garantita. E che qualche gendarme della memoria, per usare un'espressione dello stesso Pansa, avrà qualcosa da dire.

Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?

«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».

Per questo l'hai scelto come titolo?

«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».

Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...

«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».

Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!

«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: "A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano"».

Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?

«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».

Qualunquismo?

«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».

In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».

«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».

Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?

«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

“All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino” scrive Federico Guiglia del Messaggero.

«Ma quel grido lo sentivo di continuo», ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. «Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato», riprende il filo del discorso. «Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza», eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo». «Il nero nacque dal rosso» è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al vero edicolante di Pansa citato in prefazione).

Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

«Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte».

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

«A ogni azione corrisponde una reazione. È quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto sul loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. È un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia».

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

«La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. È proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana».

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

«Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato Il Sangue dei vinti, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea – poi pubblicata da Laterza – sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui».

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

«Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte».

"A 10 anni dal "Sangue dei vinti" lotto ancora con le bugie rosse". Il giornalista che per primo ha raccontato gli orrori della guerra civile ha scritto una nuova prefazione al suo "classico". E ci racconta perché, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'. A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa. Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista.
Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai "guardiani della memoria" partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «"Arrendetevi siete circondati!". Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?

«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?

«No, si fece molto più "rumore" di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...

«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.

«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei “gendarmi della memoria”. Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri gendarmi...

«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei "gendarmi della memoria", non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i gendarmi sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?

«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?

«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

La nostra storia. Illusi e disillusi dal fascismo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa “Eia eia alalà”, edito da Rizzoli (pagine 376, euro 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924. Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come “Il sangue dei vinti”, in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo. La forza di “Eia eia alalà” sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate. L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Pansa: «Partiti in crisi, sembra l’Italia prima del fascismo», scrive Antonella Filippi su “Il Giornale di Sicilia”. Non serve neppure scavare troppo: le analogie tra l'Italia di oggi e quella del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1922, vengono a galla con facilità. Estrema. Crisi economica, partiti inaffidabili come la casta di governanti litigiosi e inconcludenti, conflitti sociali. Deve essere un paese infrangibile il nostro, capace di resistere a tutto, se ancora, dopo quasi cent'anni, annaspa ma resiste. Nel suo ultimo libro Giampaolo Pansa, racconta quell'Italia cercando questa, contraddice teoremi, avanza ipotesi, ci consegna certezze. Sarà per questo che il suo “Eia Eia Alalà” (ed. Rizzoli), antico grido di vittoria adottato dallo squadrismo fascista, è già un best-seller. Una “controstoria del fascismo” nascosta in un romanzo. Pansa: «A un mese dall'uscita, delle 70 mila copie stampate è già stato venduto il 30%. Per aggirare la noia del saggio, ho usato l'escamotage del romanzo e ho cercato di rendere attraente la storia: Edoardo Magni è un personaggio di fantasia, un possidente terriero, prima sostenitore della rivoluzione fascista ma a poco a poco sempre più disincantato, fino a supportare il dissidente squadrista Cesare Forni che, invece, è realmente esistito. Tante incertezze quelle di Magni, accanto a una sfilza di amor che si chiamano Marietta, Rosa, Anna, Elvira. E Marianna: è lei ad aprirgli gli occhi sulle deportazioni degli ebrei ad Auschwitz». Questo paese e i suoi abitanti resistono a tutto, impermeabili a governi e crisi… «L'Italia è stata in grandissima parte attratta dal fascismo: tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Tutti hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943. Dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva un potere assoluto: il 99% degli italiani era fascista, sbaglia chi sostiene che l'Italia non voleva la dittatura. Il Duce ha commesso errori imperdonabili, avallando le leggi razziali, alleandosi con Hitler ed entrando in guerra: se non lo avesse fatto sarebbe morto nel suo letto, e non a gambe per aria, accanto alla Petacci. Come il generale Franco che tenne la Spagna fuori dalla guerra».

Lei viene accusato di revisionismo…

«E ne sono felice, anzi vorrei esserlo ancora di più. L'accusa viene da vecchi accademici di sinistra, a fronte di un dato incontestabile: in una guerra civile ci sono due antagonisti, uno nero e uno rosso, e i caduti si trovano da entrambe le parti, non solo da quella rossa. Il mio libro “Il sangue dei vinti” ha venduto un milione di copie, e ancora la gente mi fa i complimenti per quello sguardo differente sulla guerra e i suoi morti. Essere un revisionista per me è un vanto: la storia non si può tenere sottovetro, vengono fuori nuovi archivi, si chiariscono dei misteri, emergono personaggi ritenuti secondari».

Cosa ha in comune l'Italia odierna con quella che preparò la dittatura?

«Il nostro era un paese povero, fatto di un'economia agraria. L'Italia di allora, come quella di oggi, era stremata da una crisi economica forte, scoppiata subito dopo la fine di una guerra durata tre anni, che aveva fatto un gran numero di vittime e che aveva cambiato profondamente la società italiana. Allora, come oggi, il sistema dei partiti era screditato. Ed era esploso quello che ora è latente, cioè il conflitto tra ceti. Queste simmetrie mi hanno colpito».

Quella sua convinzione che «il nero nasce dal rosso» è la risposta alla domanda: chi, dopo il mattatoio delle trincee, ha fatto nascere il fascismo?

«Dimostro che il padre del fascismo è il sinistrismo parolaio, quello degli slogan, quello violento che non poteva non sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, primo atto verso una dittatura lunga vent'anni. Lo sciopero agrario del 1920 paralizzò le campagne. Esercitando uno strapotere dispotico, le leghe rosse arrivarono a impedire la mungitura, a timbrare le mani dei bovari, minacciando di far morire le mucche. Esplose l'odio di classe: concime che farà spuntare la pianta dello squadrismo. La sinistra si è uccisa da sola, non potevano non aspettarsi una reazione della borghesia agraria».

La nostra è una democrazia debole.

«Si sta costruendo una situazione istituzionale anomala, con un partito unico, senza opposizione: così la democrazia va in tilt. La democrazia, come la giustizia, si regge se i due piatti della bilancia sono in equilibrio o si alternano. Renzi egemonizza, procede a colpi di annunci, promesse mai realizzate, spese per cui non ci sono i fondi. L'Italia è ammalata, è come una persona che rischia una grave crisi, anche se non è esattamente in coma».

Potrebbe allora ri-presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?

«Il rischio non è immediato ma c'è: con gli errori che sta commettendo, la sinistra potrebbe rendersi complice della nascita di una nuova dittatura».

L'innamoramento di Berlusconi per Renzi cosa nasconde?

«Servirebbe uno psicanalista per capirci qualcosa. Berlusconi ha la sua veneranda età: io ho solo un anno più di lui ma non ho la pretesa di dirigere un partito, preferisco stare a casa, scrivere, leggere, guardare il calcio in tv. Berlusconi ha un partito che mia nonna Caterina definirebbe “ai piedi di Cristo”, cioè spappolato, in grande difficoltà: se pensa che Renzi possa essere il suo figlioccio, sbaglia di grosso. Lui ha 78 anni, il premier 39, c'è un abisso di energie, forze. E Renzi se ne frega, cerca di utilizzare Berlusconi come stampella. L'unico punto misterioso è il rapporto di entrambi con Denis Verdini, da dove derivi a Verdini tutto questo potere, non è mai stato scandagliato, raccontato. Per capire se si muove per Berlusconi, come credo possibile, o per Renzi, come qualcuno sospetta».

Vivere è anche conservare i propri ricordi: lei ne mette tanti nel libro

«Io sono stato un orgoglioso figlio della Lupa e, solo per pochi mesi, non sono riuscito a diventare un balilla, come succedeva in terza elementare. In questo libro c'è molto della zona in cui ho vissuto, quella padana, tra Piemonte e Lombardia, ci sono i racconti delle donne che avevo accanto. Mia madre aveva un negozio, una modisteria, sulla via principale di Casale, guadagnava più di mio padre che era un capo operaio delle Poste. Io facevo i compiti in negozio e ascoltavo le chiacchiere con le clienti pettegole: quei discorsi mi tornano sempre alla memoria quando scrivo un libro. Ricordo i ponti bombardati di Casale e la mamma che, per alleggerire la tensione, diceva: “Oggi non si può morire perché dobbiamo mangiare le frittelle”. I bombardamenti sono stati a lungo tra i miei incubi».

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta, scrive Emma Moriconi su “Il Giornale d’Italia”. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto.

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

Alla faccia della cultura. Come ti finanzio gli amici per purghe televisive.

I FINANZIAMENTI AL CINEMA: PRIVILEGI E SPRECHI.

Tempo fa, recensendo il film di Marco Risi "L’ultimo capodanno", ho scoperto che era stato sovvenzionato dallo stato per € 1.354.666 e che al botteghino aveva incassato € 96.567, scrive Capannelle su Davinotti. Ohibò, mi sono detto, come facciamo a dare così tanti soldi ad un regista peraltro noto per fare un flop simile? Ero convinto si trattasse di un caso isolato ma ero solo alla punta dell’ iceberg!

I NUMERI PARLANO DA SOLI

Basta guardare le cifre complessive per rendersi conto degli sprechi che nel corso degli anni hanno caratterizzato l’utilizzo dei finanziamenti pubblici. Negli anni dal 1994 al 2006, lo stato ha speso 817 milioni € destinati a 544 film, per  un importo medio di 1.524.000 € a film.

- Dei 544 film finanziati, ben 155 (il 28%) non sono mai usciti in sala.

- Di quelli usciti l’incasso medio è stato 378.000 €, gli spettatori medi circa 70.000

- Soltanto 25 film dei 544 finanziati sono riusciti a recuperare in toto i soldi ricevuti

- Hanno ricevuto fondi 61 case di produzione e 390 registi

Considerando il primo dato si può dire che almeno una volta ogni quattro (e anche l’annata 2007 lo conferma) viene finanziato un lavoro che nessuno vedrà. Spesso vengono costituite delle imprese già destinate al fallimento con l’unico scopo di far lavorare un gruppo di persone e di fornitori amici e magari trovare posto per un paio di ragazzotte amiche dell’onorevole. Tutto fattibile a cuor leggero tanto buona parte delle perdite se le accolla lo stato. E intanto mi sono costruito una solida rete di persone che mi devono un favore.

I beneficiari sono registi sconosciuti e bisognosi di affermarsi? Noooo. Tra i beneficiari troviamo anche:

- Michelangelo Antonioni, € 3.160.716 nel 1997 per un film mai uscito

- Bellocchio, finanziato 4 volte tra 1995 e 2003, con risultati al botteghino non disprezzabili

- I fratelli Taviani con 3 sovvenzioni

- La Wertmuller 4 volte, di cui una senza uscire e un’altra con un ritorno di € 6.625 a fronte degli 3.718.500 ottenuti per Peperoni ripieni e pesci in faccia.

- Pupi Avati beneficiario 5 volte con risultati altalenanti: dal 162% de Il testimone dello sposo al misero 13% di Festival; ma il tragico è che ottenne ben 3 finanziamenti in soli due anni (1996-97) e che riusci a far accedere ai finanziamenti anche la figlia Mariantonia per l’indimenticabile Per non dimenticarti (finanziato € 1.588.000, incasso 21.808)

- Barbareschi con 2 bei flop che hanno incassato il 3 e 4% del finanziamento: Ardena e Il trasformista.

UN CONTESTO DIFFICILE PER CHI "NON HA GLI AGGANCI".

Non è facile fare cinema al di fuori dello star-system americano, è risaputo. In Italia, la concorrenza della televisione, i gusti troppo esterofili e poco sofisticati del pubblico, la stagionalità del consumo non aiutano al botteghino. La crisi delle sale è compensata in parte da pay-tv e home video ma c’è anche tanta pirateria (ehm... meglio soprassedere). Che il quadro generale, a prescindere dal discorso sovvenzioni, sia poco allegro lo dicono anche i numeri: ogni anno escono in media 400 nuovi film, di cui circa 100 sono italiani; di questi 100 solo 20 sono redditizi: metà sono i classici “cinepanettoni”, metà sono opere di vario genere. Attenzione però a non enfatizzare questi aspetti (comuni del resto a tutti i paesi europei) per costruirsi un comodo alibi e non vedere che in fondo esiste anche un grosso deficit professionale a molti livelli del sistema cinema e un deficit di trasparenza. Esiste infatti in Italia una cerchia chiusa che comprende sia i personaggi più illustri (registi, sceneggiatori, attori) che quelle maestranze che lavorano dietro le quinte: elettricisti, falegnami, disegnatori, tecnici del suono etc. che, pur avendo un bagaglio professionale di primo ordine, ormai non lo utilizzano più in modo completo proprio perché non viene loro richiesto. Fanno parte di questa casta anche coloro che dovrebbero valutarla tramite recensioni e pareri: molti critici sono particolarmente benevoli verso i registi loro affini come background culturale e verso certi attori che all’estero faticherebbero a varcare la soglia di uno studio. Il cortocircuito è particolarmente dannoso - e limitante verso i nuovi autori - nella gestione dei finanziamenti statali, considerati alla stessa stregua di tanti altri fondi pubblici: non secondo fattori di meritocrazia culturale e professionale ma in base a conoscenze e amicizie.

IL SISTEMA DI SOVVENZIONI STATALI.

La maggior parte dei film italiani vengono finanziati, in misura variabile, da enti pubblici. Ogni anno vengono erogati circa 80 milioni di euro del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, istituito nel 1985). Si tratta di soldi del contribuente utilizzati per dare sostegno a opere, cineasti, scuole di cinema, centri sperimentali, sale cinematografiche. Una somma non alta né bassa, certamente non paragonabile alla Francia che ha deciso di considerare il cinema una risorsa strategica per la propria identità culturale e mette a disposizione fondi 8 volte superiori ai nostri grazie a tasse su biglietti del cinema (10%), tv commerciali (5,5% del fatturato) e dvd (2%). Sanno spenderli meglio di noi? Non lo so, ma se li danno a film come Asterix e Obelix o se magari finanziano anche un documentario su Cesare Battisti, stiamo freschi. Fino al 2004 i finanziamenti venivano erogati con criteri abbastanza discrezionali (un merito artistico che potevi attribuire in base a mille considerazioni) ma finivano comunque nelle tasche dei “soliti noti” e soprattutto senza alcun vincolo sul ritorno dell’operazione: se il film per cui avevi chiesto un contributo non era uscito nelle sale o aveva ottenuto scarsi risultati questo non importava a nessuno, potevi comunque continuare a chiedere e utilizzare i soldi pubblici come se nulla fosse. A fine 2004 la legge Urbani ha riformato il sistema ma ha corretto ben poco. Ha introdotto criteri di selezione più rigidi e basati su un punteggio ma ha così favorito i “soliti noti” che vantano le dimensioni e il curriculum per rimanere in prima fila nel magna magna generale. Ha ridotto il contributo dall’80% al 50% del costo totale dell’opera (eh sì, prima potevi farti finanziare quasi tutto senza dovere nulla in cambio, bell’esempio di responsabilizzazione!) ma da bravi italiani abbiamo semplicemente gonfiato i costi per ricevere più soldi. Ha introdotto la norma del “Product placement” (pubblicità palese e non occulta dei marchi) per permettere di raccogliere qualche elemosina supplementare. Almeno è stata eliminata una ricorrente ipocrisia già presente in molti programmi e fiction tv (vogliamo parlare delle vetture Mazda che Totti riforniva di carburante in un programma tv e che compaiono in pianta stabile nella serie Distretto di polizia?). Per finanziare le opere prime sono rimasti pochi soldi e la vita di chi si affaccia su questo mondo senza le dovute conoscenze è rimasta ardua. Qualche coraggioso si è esposto (ad esempio tale Mascagni col suo manifesto Davide contro Golia) per chiedere che fossero posti dei limiti all’ingordigia della casta. Ad esempio:

- minor peso attribuito al curriculum per consentire maggior ricambio

- introdurre un tetto massimo al numero di concessioni di soldi pubblici

- non si può chiedere un nuovo finanziamento prima di 2 anni dall’uscita del film precedentemente finanziato: per evitare che ci siano autori che ottengono soldi ogni anno.

- commissioni dove siedano rappresentanti di diverse tendenze e fasce d’età; dove non possano trovar posto persone legate da conflitti d’interesse

Non mi risulta che il suo appello sia stato ascoltato.

A completamento del discorso, aggiungo che la legge prevede anche premi commisurati ai risultati di botteghino: cinepanettoni vari che hanno sbancato nelle sale ricevono pure una percentuale, variabile secondo scaglioni, su quanto hanno venduto. Ad esempio, il pieraccioniano Ti amo in tutte le lingue del mondo si è beccato un bel premio di € 1.485.600. Il totale dei premi erogati nel 2007 è stato di 19.638.887euro. Mica pochi, su un totale di 79.434.180 di sovvenzioni!

Ciak! paga lo Stato. Il programma racconta  e documenta con taglio giornalistico gli aspetti meno noti dell’industria cinematografica. L’inchiesta di Sky Cinema prova a rispondere a queste e ad altre domande attraverso contributi e interviste inedite.  Come vengono utilizzati i soldi che lo Stato dà al cinema? Ci sono ancora i finanziamenti a film che nemmeno escono? O c’è un più oculato sistema per dare incentivi? E a chi? Fuori dai red carpet, dalle anteprime, dalle interviste in batteria, un mondo di addetti ai lavori, istituzioni, aziende, enti, ruota intorno al business del cinema, tra investimenti privati e finanziamenti pubblici che spesso generano polemiche e controversie.

Film soft core, catastrofiche pellicole horror  e soprattutto pellicole che nessuno ha mai visto, perché non sono mai nemmeno uscite in sala, scrive Barbara Tarricone. Sono i risultati dell’uso scellerato della prima legge di finanziamento pubblico al cinema, quella del 1965. Meglio conosciuta per avere prodotto gioielli come “Mutande Pazze”, di Roberto D’Agostino. Errori del passato, rimediati dalla nuova legge cinema del 2004? Sono riposti meglio i sempre più esigui fondi che lo stato destina alla cultura (e al cinema)? Negli ultimi anni sono stati finanziati grandi registi e autori: da Marco Bellocchio, 900.000 euro per "Bella Addormentata” a  Paolo Sorrentino  che ha portato a Cannes “La Grande Bellezza” con una produzione aiutata da 1.100.000 euro dello stato, a Paolo Virzi sul set in questi giorni con "Il Capitale Umano" che dal Ministero ha preso 700.000 euro. Tra le liste dei film che per lo stato sono di interesse culturale e che quindi meritano di essere aiutati e pagati dai nostri soldi abbiamo trovato anche mega commedie e blockbuster. Qualche nome? “Genitori e  Figli”  di Giovanni Veronesi con 1.100.000 euro, la saga goliardica “Amici  miei come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, con 400.000 euro, 650.000 euro a “Posti in Piedi in paradiso” di Carlo Verdone. E addirittura 1.000.000 euro a “Ex” di Fausto Brizzi. Ma lo Stato non doveva “aiutare a produrre e a diffondere opere difficili e di qualità”? Così non sembra, se guardiamo i film che, anche senza ricevere finanziamento, hanno richiesto e ottenuto il bollino di interesse culturale dal ministero. Un bollino che non è solo un’onorificenza ma garantisce un maggiore premio statale sugli incassi, sgravi fiscali per il distributore e premi agli esercenti. Cioè altri soldi pubblici. Tra i film che per lo stato sono a interesse culturale ci sono “Benvenuti al Sud” e il sequel  “Benvenuti al Nord”  “Immaturi”,  “Femmine contro maschi”, “Baciato dalla fortuna”, i mega comici   Aldo Giovanni e Giacomo con “La Banda dei Babbi Natale”,  Ficarra e Picone con “La Matassa”, il  fenomeno televisivo Giovanni Vernia con “Ti stimo fratello!”. E persino i Vanzina con il loro road trip “Mai Stati Uniti”!

Per scoprire perché Sky Cine News parla con registi, produttori, addetti ai lavori e si è avventurato all’interno della sezione Cinema del Ministero dei Beni delle Attività Culturali. Appuntamento su Sky Cinema 1 il 18 giugno 2013 alle ore 22.50

Ciak, si floppa. Tanto paga lo Stato. I fondi pubblici finanziano soprattutto commediole e registi noti. Come rivela un documentario di Sky, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si parla tanto di fondi alla cultura, e in particolare al cinema. Il dibattito assume subito toni alti ed ispirati. Si discute della necessità di preservare una «diversità» italiana, quella che ad esempio Francesco Merlo su Repubblica loda come «eccezione culturale». Il tema è tutt'altro che semplice e l'impegno a tutela della cultura è sancito dalla Carta costituzionale. Tuttavia al di là delle disquisizioni dotte e filosofiche sul tema - o anche della complessità del mercato degli audiovisivi - si potrebbe anche fare qualche riflessione più terra terra su dove sono andati a finire i finanziamenti erogati sin qui. In questo senso aiuta anche una trasmissioncina breve breve che andrà in onda il 18 giugno 2013 stasera su Sky Cinema 1HD e intitolata Ciak!Paga lo stato! (alle 22,50 sul canale 301 della piattaforma Sky). Ecco qualche numero e qualche titolo di quelli che verranno presi in considerazione. Il ministero ha erogato fondi per titoli di cui è difficile mettere in dubbio il valore culturale. Un esempio tra i tanti Bella addormentata di Marco Bellocchio (900mila euro) o La grande bellezza di Paolo Sorrentino (1 milione e 100mila euro). Diventa meno facile spiegarsi come mai si possa trovare culturalmente imprescindibile un finanziamento di un 1 milione di euro a Ex di Fausto Brizzi del 2009. O forse ad aver preso un abbaglio nel giudicare la commedia è stato il noto critico cinematografico Morandini nel suo dizionario del cinema: assegna al film una stelletta su 5, a causa della «banalità trionfante», la «volgarità a tutti i livelli» e l'«esterofilia turistica modaiola». E la lista è lunga. Genitori e figli di Giovanni Veronesi (1 milione e centomila euro); Amici miei come tutto ebbe inizio di Neri Parenti (400mila euro per un film che è stato un tremendo flop e secondo alcuni una vera e propria offesa agli originali di Monicelli)... Quando non si tratta di finanziamenti diretti il ministero sembra aver elargito con particolare generosità anche il «bollino» di interesse culturale. Non si tratta infatti semplicemente di una onorificenza: comporta sgravi fiscali per il distributore, un maggior premio statale sugli incassi e premi agli esercenti che proiettano la pellicola. Nell'elenco ci sono: Benvenuti al sud e Benvenuti al nord, Immaturi, Femmine contro maschi, Baciato dalla fortuna, La banda dei babbi natali di Aldo Giovanni e Giacomo, La matassa di Ficarra e Picone e anche il road movie all'americana dei fratelli Vanzina Mai Stati Uniti!. Questo, va detto, è il risultato della nuova legge del 2004 che ha tentato di emendare gli sperperi addirittura incredibili causati dalla precedente legge del 4 novembre 1965, quella che aveva consentito di finanziare film come Mutande pazze o La bella dalla pelle nera. Dal 2004 non solo si è tentato di dare una stretta ai cordoni della borsa ma persino di introdurre dei criteri oggettivi di valutazione. Oltre alle commissioni del ministero (che contano ancora per il 70% sulla decisione) ora a fare la differenza è il curriculum del regista e del cast. Ben vengano i criteri oggettivi ma, secondo alcuni, il risultato è che si vedono sempre le stesse facce, quelle di quegli attori che portano punti. Non proprio un modo di favorire le novità (culturali). Come spiega in Ciak!Paga lo stato! lo sceneggiatore Michele Pellegrini: «Non si può dare un punteggio elevato, con tutto il rispetto, a Valerio Mastandrea, perché Valerio fa già un sacco di film...». Ecco spiegato anche come il Mibac possa stanziare 400mila euro per un pornochic massacrato da pubblico e critica come E la chiamavano estate. Basta la presenza di Isabella Ferrari. Vi sembra una situazione surreale? Non abbiamo ancora parlato di quei film che prendono i finanziamenti e poi nelle sale non escono. Una volta il fenomeno era endemico e mandava in fumo cifre enormi. Dal 2004 si è cercato di mettere una pezza. Eppure dei 28 lungometraggi dei registi considerati «esperti» dalle commissioni del Mibac finanziati nel 2011 solo 16 sino a ora sono arrivati nelle sale. Resta da capire come andrà a finire per i 23 milioni di euro erogati nel 2012 a 79 pellicole. Speriamo meglio... Ah, ovviamente anche se un film va in sala e fa flop lo Stato va in perdita secca. Per fare un esempio: La scoperta dell'alba di Susanna Nicchiarelli è stato finanziato con 550mila euro, ne ha incassati 50mila. E se un film va bene? C'è un complicato sistema premiale per cui lo Stato spesso non rientra lo stesso.

CULTURA, INFORMAZIONE E SOCIETA’. A PROPOSITO DI WIKIPEDIA. L’ENCICLOPEDIA CENSORIA.

Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un'enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell'ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande, o i suoi 40 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana.

Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande ed inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, proprio perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

Ma tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi.

Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia.

La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile».

Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI. Tutto in famiglia. Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” ha titolato così il suo pezzo: La grande famiglia dei dipendenti SIAE, 4 su 10 legati da parentela. Per far sentire i propri dipendenti come in famiglia la Siae non ha rivali: pensa anche al bucato. Chi va in missione può far lavare e stirare camicie e mutande a spese dell'azienda. Dieci euro e 91 centesimi vale la speciale «indennità lavanderia» quotidiana che scatta in busta paga dopo il quarto giorno passato fuori sede. Quanti lo ritengono un privilegio anacronistico non sanno che la Società degli autori ed editori è anche tecnicamente un gruppo familiare. Al 42 per cento. Nel senso che ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato (il 42 per cento del totale, appunto) vantano legami di famiglia o di conoscenza. Ci sono figli, nipoti, mariti e mogli di dipendenti ed ex dipendenti. Ma anche congiunti di mandatari (cioè gli esattori dei diritti) di sindacalisti e perfino di soci. E poi rampolli di compositori e parolieri, perfino delle guardie incaricate della vigilanza nella sede centrale. La lista è sterminata, con intrecci che attraversano ogni categoria. Dei 559 entrati alla Siae durante gli anni per chiamata diretta, ben 268 sono parenti. Idem 57 dei 128 reclutati tramite il collocamento obbligatorio. E 55 dei 154 che hanno superato le selezioni speciali. Ma perfino 147 dei 416 assunti per concorso hanno rapporti di parentela. I nomi dicono poco o nulla. Ciò che importa è che in questo clan familiare gigantesco finora tutto sia filato liscio, senza bisogno di mettere nulla per iscritto. Ecco spiegato perché alla Siae non esiste nemmeno un contratto di lavoro vero e proprio. I rapporti fra l'azienda e i dipendenti, come hanno toccato con mano il commissario Gian Luigi Rondi, i suoi due vice Mario Stella Richter e Domenico Luca Scordino, nonché i loro collaboratori, sono regolati da micro accordi che hanno determinato condizioni senza alcun paragone in realtà aziendali di questo Paese. Cominciando dallo stipendio: 64 mila euro in media per i dipendenti e 158 mila per i dirigenti. Con un sistema di automatismi che fa lievitare le buste paga a ritmi biennali fra il 7,5 e l'8,5 per cento. Per non parlare della giungla dei benefit che prevede, oltre alla già citata indennità per il bucato, quella che in Siae viene chiamata in modo stravagante «indennità di penna». Altro non è che una somma mensile, da un minimo di 53 a un massimo di 159 euro, riconosciuta a tutto il personale per il passaggio dalla «penna» al computer. C'è poi il «premio di operosità», la gratifica per l'Epifania, tre giorni di franchigia per malattia senza obbligo di certificato medico, 36 giorni di ferie... Le conseguenze? Sono nelle cifre delle perdite operative accusate dalla Siae negli ultimi anni: 21,4 milioni nel 2006, 34,6 nel 2007, 20,1 nel 2008, 20,9 nel 2009, 27,2 nel 2010. Cifre cui dà il suo piccolo contributo anche il costo del contenzioso. Perché si litiga anche nelle migliori famiglie. Nonostante condizioni di favore che non hanno eguali nel panorama degli enti pubblici o parapubblici, negli ultimi cinque anni i dipendenti della Siae hanno attivato 189 cause di lavoro. Con un costo medio per l'azienda di un milione 469 mila euro l'anno. Insomma, un bagno di sangue. Del quale ancora non si vede la fine. I commissari hanno tagliato 2,8 milioni di spese generali e un milione e mezzo di costi della dirigenza, sperando poi di risparmiarne altri 3 rivedendo gli accordi con i mandatari: un groviglio di 605 agenzie disseminate irrazionalmente sul territorio con dimensioni medie ridicole, se si pensa che il ricavo medio di ciascuna è di 128 mila euro l'anno. Ma il vero problema è quello del personale, perché finora tutti tentativi di normalizzare la situazione applicando un qualsiasi contratto di lavoro sono miseramente naufragati nella melma di uno stato d'agitazione proclamato dai sindacati interni. La questione fa il paio con la vicenda del Fondo pensioni, istituito nel 1951, che deve provvedere al pagamento degli assegni di quiescenza del personale ed è una delle cause principali del dissesto che ha portato un anno fa al commissariamento. Ha un patrimonio interamente investito in immobili, con un valore di mercato di 205 milioni. Ma che non rende praticamente nulla. Tanto che finora, per riuscire a pagare le pensioni, la Siae ha dovuto mettere costantemente mano al portafoglio, aggravando non poco il proprio conto economico. Basta dire che il Fondo ha assorbito 130 milioni di contributi aziendali, con la previsione di ingoiarne altri 60 nei prossimi dieci anni. Nel tentativo di rimetterlo in sesto, e anche in conseguenza delle nuove regole sugli investimenti degli enti previdenziali, sono stati istituiti due fondi immobiliari. Il che ha scombinato i piani di vendita di alcuni stabili di proprietà della Siae a condizioni favorevolissime: minimo anticipo e dilazioni di pagamento quarantennali. Parliamo degli immobili a destinazione residenziale occupati fra l'altro dai dipendenti della Società degli autori ed editori. Che hanno una caratteristica comune: su 37 affittuari, 34 sono sindacalisti. Fra di loro figura anche il contabile dello stesso Fondo pensioni. Si tratta di Roberto Belli, responsabile della Slc-Cgil nonché fratello di una dipendente attualmente in servizio e di una ex dipendente Siae (rispettivamente Antonella e Patrizia Belli), destinatario di una recentissima e sorprendente contestazione disciplinare. Il 13 giugno la direzione generale gli ha spedito una lettera dove si dice che una verifica condotta dalla Ria&partners, la società di revisione del bilancio del Fondo, ha fatto saltare fuori alcuni bonifici per un totale di 30 mila euro che insieme ad alcuni assegni e versamenti, c'è scritto, «non risultano autorizzati e non trovano riscontro nelle registrazioni contabili». Denaro, dicono i documenti bancari, trasferito dal conto Bancoposta del Fondo stesso ai conti correnti bancari personali di Belli e della sua compagna. Inevitabile, adesso, la richiesta di spiegazioni convincenti.

Un sito web di promozione turistica dell’Italia.

Serve un sito internet all’altezza dell’Italia, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Antonio Giangrande: il sito web c’è www.telewebitalia.eu , oltretutto senza oneri per lo Stato, ma tutti lo ignorano.

Secondo il giornalista del Corriere cinque mesi abbondanti non sono bastati alla squadra del ministro del Turismo, Piero Gnudi, per rimuovere certe macerie del sito «italia.it», il portale da tempo immemorabile messo in cantiere prima dal governo Berlusconi, poi dal governo Prodi (memorabile lo spot in english-romanesco di Francesco Rutelli di invito agli stranieri: «Pliz, vizit Italy»), poi ancora dal nuovo governo Berlusconi e da Michela Vittoria Brambilla. La quale, dopo avere cambiato il logo scelto dal predecessore perché le pareva un errore la forma della «t» di Italia (titolo del Giornale : «La Brambilla cancella il "cetriolo" di Rutelli») aveva portato a compimento il faticosissimo cammino del sito web, costato ai vari governi nel complesso l'enormità di 35.451.355 euro, con alcune scelte contestate. Basti ricordare la home page della versione cinese dove spiccavano le foto prese col copia-incolla dal sito cinese dell'Emilia Romagna con il risultato che pareva che non solo la capitale fosse Bologna (con tanto di mappa con le freccette e di panoramica della città) ma che l'intero nostro Paese fosse riassumibile così: parmigiano, prosciutto, Ferrari e Ducati. Una «svista» che, dopo le pubbliche denunce, è stata rimossa. «Per favore - dice Stella - vista l'importanza di Internet per il turismo (il solo sito TripAdvisor ha 35 milioni di recensioni e 29 milioni di visitatori al mese ) potremmo una buona volta metterci una pezza?»

«Basterebbe – risponde Antonio Giangrande, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” con 40 libri all’attivo, e presidente di Tele Web Italia – non essere altamente autoreferenziali e prestare maggiore attenzione a ciò che vi è sul web e che non sia a se stessi o al sistema di potere riconducibile. Essere slegati dal sistema editoriale od istituzionale, con oneri per lo Stato, non vuol dire non produrre prodotti di alta qualità. Il nostro portale turistico ha ampi consensi e visite da tutto il mondo. In Italia per essere credibile e pubblicizzato devi per forza allattare dalle mammelle statali».

PARLIAMO DI PRODOTTI EDITORIALI E LORO DISTRIBUZIONE.

Lo facciamo attraverso un’inchiesta di Bernardo Iovene, in collaborazione con Antonella Cignarale pubblicata su “Il Corriere della Sera”. Internet, freepress e sempre meno tempo da dedicare alla lettura sono sicuramente fattori che stanno da tempo mettendo in crisi la filiera editoriale, in primo luogo le edicole. Secondo il Sinagi, Sindacato Nazionale Giornalai, negli ultimi 5 anni hanno chiuso circa 10mila edicole. Il problema più grosso è legato ai meccanismi di diffusione e tentata vendita dei prodotti editoriali. In media ogni settimana si muovono tonnellate di pubblicazioni, dai quotidiani ai mensili, dalle riviste di settore ai fumetti che dall'editore vengono inviati ai distributori e da questi smistati e consegnati alle edicole ogni notte. Un movimento che produce un'ingente quantità di denaro, gran parte sotto forma di anticipazione: l'editore riceve un anticipo sulla probabile vendita del distributore che, a sua volta, consegna e chiede il pagamento agli edicolanti entro una settimana. L'edicola riceve e paga anticipatamente la merce, se vende, recupera i soldi subito, altrimenti li vedrà solo dopo un mese, al momento della resa della pubblicazione. Questo meccanismo vale per i quotidiani, i settimanali e i mensili. Il resto delle pubblicazioni, come i bimestrali o i supplementi vanno in conto deposito, nessuna anticipazione, ma pagamento solo del reale venduto. Il meccanismo non sempre funziona, anzi rischia di collassare su sé stesso. Il distributore locale ha di fatto il monopolio della fornitura alle edicole della provincia e può fare il bello o il cattivo tempo. Il segretario nazionale del Sinagi, Giuseppe Marchica, dichiara che molti distributori chiedono il pagamento anticipato di pubblicazioni che, secondo l'accordo nazionale, devono essere pagati solo se realmente venduti. Inoltre gli edicolanti denunciano l'eccedenza di prodotti spesso invendibili: a fronte di un venduto pari ad 8 copie ne vengono consegnate 20, tutte con pagamento anticipato. Altri lamentano di essere l'unica categoria commerciale che finanzia le campagne pubblicitarie agli editori, infatti le riviste in offerta a metà prezzo costituiscono per gli edicolanti una perdita del 50% del guadagno, mentre gli editori recuperano con la pubblicità. «Ma la sofferenza della categoria degli edicolanti dipende anche dal rapporto di lavoro con il rispettivo distributore locale» afferma il segretario nazionale del Sinagi. «In diverse zone d'Italia molti distributori chiedono arbitrariamente ai rivenditori una percentuale per coprire le spese di trasporto e consegna merce. Un ricatto rivolto ai piccoli punti vendita, localizzati per lo più nelle frazioni e che svolgono un servizio di utilità sociale, spesso con un basso livello di guadagno». Secondo l'accordo nazionale i distributori devono assicurare il servizio di consegna franco punto vendita e i costi richiesti per il trasporto sono illegittimi. Nel 1994 si è cercato un equilibrio per risolvere questi casi all'interno della filiera, gli edicolanti hanno rinunciato al 1% del proprio agio per coprire il costo del trasporto su tutto il territorio nazionale. Una sentenza del tribunale di Tivoli ha rafforzato la validità di tale accordo, chiedendo il risarcimento danni a favore di un rivenditore che per 5 anni aveva pagato una quota al proprio distributore locale per la consegna delle pubblicazioni. Secondo l'art. 39 sulle liberalizzazioni gli edicolanti possono effettuare la resa immediata dei prodotti editoriali in eccesso, ma la diatriba tra i diversi soggetti della filiera non si ferma. Se per i punti vendita l'anticipazione finanziaria della merce costituisce un esborso settimanale eccessivo, per gli editori rappresenta la base per pubblicare. Oggi il meccanismo “tu anticipi, io stampo e diffondo” rischia di saltare. Tra il 50 e il 60% dei prodotti editoriali pagati anticipatamente rimangono invenduti e rimandati al mittente, una parte va al macero, un’altra viene riciclata, un’altra viene ristampata con copertine ex novo. Una perdita di soldi che pesa anche sul distributore che, oltre al lavoro di trasporto e consegna, si occupa anche della resa dell'invenduto delle edicole e della spedizione al mittente. E così le tonnellate che arrivano ogni notte nelle edicole ripassano per il distributore per ritornare indietro all'editore. Le edicole devono garantire gli anticipi con fidejussioni bancarie che devono coprire 4 settimane di fornitura; un esborso che per molte edicole è più alto del guadagno e infatti stanno chiudendo bottega. Secondo Stefano Micheli, direttore di Ndm (Network Diffusione Media), con l’art.39 del decreto sulle liberalizzazioni, che dà la possibilità di resa immediata da parte delle edicole: «I distributori vengono messi in ginocchio e la piccola editoria rischia di sparire dal mercato». L'accordo nazionale è ormai sorpassato, la liberalizzazione è attuata e la licenza di edicola ha già perso valore commerciale. L'attuale sistema ha dimostrato, secondo tutti i soggetti, il suo fallimento.

La Casta degli editori: la censura occulta.

“L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce  l’esercizio” Questo dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

La libertà di manifestazione del pensiero è una delle principali libertà e diritto fondamentale dell’era moderna. Tanto più se è mirata allo sviluppo socio-economico-culturale della comunità. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni. Ad essa è dedicato l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, come l'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. L'art. 21 della Costituzione italiana stabilisce che: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Tale libertà è, tra le altre, considerata come corollario dell'articolo 13 della stessa Costituzione della Repubblica italiana, che prevede l'inviolabilità della libertà personale, tanto fisica quanto psichica.

L'interpretazione dell'art. 21 dà vita a dei principi: Il diritto di critica e di cronaca, oltre alla libertà di informare e la libertà di essere informati.

Il pensiero per essere manifestato ha bisogno di formarsi come merce accessibile a tutti, quindi essere pubblicato e distribuito.

Ciò avviene in proprio o con l’editore.

La produzione in proprio con distribuzione porta a porta, è un’ipotesi fallimentare. L’opera non essendo sostenuta dalle istituzioni e non pubblicizzata dai media, non è acquistata da una moltitudine di utenti finali.

La produzione tramite un editore può avvenire, in modo improprio con la compartecipazione alle spese, ovvero senza oneri per l’autore. Naturalmente l’editore vaglia, corregge e censura le bozze dell’opera, oltre che valutarne la commerciabilità. Spesso non è importante l’opera, ma che l’autore sia un personaggio noto alle cronache, o che sia seguito dal pubblico, per usufruire dei benefici di visibilità. Spesso si privilegiano argomenti fatui e non di approfondimento e di denuncia, perché la società contemporanea sente l’esigenza di estraniarsi dalla realtà quotidiana.

L’editore, acquisendo i diritti dell’opera, la distribuisce e la vende, riconoscendo una minima parte dei proventi all’autore, per di più dopo molto tempo.

Paradosso: l’impedimento alla libertà di manifestare il pensiero è posto proprio dal sistema che ne prevede l’esistenza.

L’autore autoprodotto non ha benefici, né sovvenzionamenti, né visibilità.

L’editoria, quindi un’attività economica privata, ha finanziamenti pubblici e pubblicitari, benefici postali, regime speciale IVA, sostegno dei media e delle istituzioni.

A questo punto, per manifestare liberamente il proprio pensiero, si è costretti a rivolgersi ad apparati: che conformano l’opera alle proprie aspettative; che sono omologati, in quanto foraggiati dalla politica e dall’economia ed intimoriti dalla magistratura; che hanno distribuzione esclusiva e rapporti promozionali poco trasparenti. A riguardo è impossibile essere invitati o premiati a manifestazioni culturali, se non si è tutorati da qualche editore, pur avendo scritto un capolavoro. Spesso gli editori sono proprietari di testate d’informazione o di emittenti radiotelevisive, quindi si parla dell’opera o dell’autore solo se si fa parte dell’enturage.

Inoltre per poter pubblicare un articolo d’informazione si è costretti a far parte di un’altra casta: quella dei giornalisti.

C’è da dire che non tutti gli editori sono parigrado. C’è prevaricazione dei più forti a danno dei più deboli. Alcuni di loro, operanti nel campo radiotelevisivo, sono vittime di tentativi di acquisizione illegale delle frequenze assegnatele, con mancanza di tutela reale.

Quale è il trucco ?!

Ogni emittente ha una frequenza su cui è autorizzata a trasmettere con un'antenna di una certa potenza, per non disturbare le trasmissioni delle emittenti viciniori. Alcune di loro, tra cui alcuni grandi network nazionali, pensano bene di centuplicare illegalmente la loro potenza, irradiando il loro segnale di molto oltre a quello per cui sono autorizzati. In questo modo disturbano o oscurano le trasmissioni altrui, impedendo a questi l'acquisizione del mercato pubblicitario, fonte di sostentamento, che leso, porta al fallimento dell'impresa.

Il Ministero, informato dalla parte interessata, comunica la data dell'ispezione alla controparte, che ha il tempo di ripristinare la legalità, per poi ripetere l'abuso ad ispezione finita. Tempi e costi dell'operazione tecnica sono ammortizzabili da chi si avvantaggia illegalmente dell'acquisizione pubblicitaria indebita. Mal che vada, comunque, la parte colta in fragrante, deve sorbire solo una piccola multa.

Esemplare è il caso di Radio Padania. Il ministero dello Sviluppo economico zittisce la voce di Radio Padania Libera nel Salento. In una nota del 24 gennaio 2011 fatta pervenire in copia al Comune di Alessano, i competenti organi ministeriali scrivono che l’impianto dell’emittente leghista «non si intende autorizzato». Radio Padania dal 17 dicembre 2010 ha trasmesso nel Capo di Leuca da una postazione situata proprio ad Alessano e dotata di un sistema radiante collegato a un impianto da due kilowatt di potenza. Il segnale viaggia sui 105.600 MHZ in modulazione di frequenza e disturba quello dell’emittente salentina Radio Nice del gruppo leccese Mixer Media dell’editore Paolo Pagliaro, che trasmette su identico canale da Parabita. La radio lumbard ha i contenuti dei palinsesti carichi di risentimenti contro i meridionali espressi a chiara voce dai radioascoltatori padani, cui si lascia microfono libero. Ma la nota del ministero dello Sviluppo economico che sospende le trasmissioni di Radio Padania non risolve l’anomalia di mercato delle frequenze. Infatti il vero problema consiste nel fatto che Radio Padania gode del triplice privilegio di acquisire le frequenze in deroga, di avere un contributo annuale da parte del governo, di diventare proprietaria della frequenza trascorsi novanta giorni. La vera anomalia è proprio questa: in un momento in cui il mercato delle frequenze è bloccato, Radio Padania può, trascorsi novanta giorni, permutare le proprie frequenze ottenute in deroga con altre frequenze di radio commerciali. Occorre modificare questo privilegio concesso dalla finanziaria Bossi-Berlusconi del 2001. L’emittente della Lega Nord, in quanto comunitaria dovrebbe rendere un servizio, ma l’unica cosa che fa è quella di riempire di insulti i meridionali, senza che mai nessuno abbia denunciato il suo direttore per diffamazione a mezzo stampa.

Qualcuno spera che le opportunità tecnologiche, social network o blog,  superino la censura mediatica. Poveri illusi. Non basta una piattaforma d’elite, chiusa ed autoreferenziale, con tecnologie non accessibili alla massa, oltretutto soggetta a sequestro ed ad oscuramento giudiziario.

Nulla, oggi, per arrivare a tutti, può soppiantare un buon articolo, un buon libro, una buona canzone, un buon film, o una buona trasmissione radiotelevisiva.

In conclusione. Con questo sistema si può ben dire che il libero pensiero, pur lecito e meritevole di attenzione, è tale solo quando è chiuso in una mente destinata all’oblio, altrimenti deve essere per forza conformato al sistema: quindi non più libero.

PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.

Scrittopoli e premiopoli. Inchiesta di Stefania Parmeggiani su "La Repubblica".

Ogni anno in Italia si celebrano circa milleottocento concorsi letterari. Li alimentano circa quattro milioni di aspiranti romanzieri, poeti, saggisti. Ma dietro gli Strega, i Campiello, I Bagutta, e dietro il centinaio di piccoli premi promossi da enti locali e associazioni culturali, prospera una selva di gare improbabili e costose per i concorrenti. Cinque premi al giorno per un affare da 10 milioni di euro. Spuntano come funghi da Nord a Sud. Ogni anno nascono 90 concorsi letterari, tanto che oggi se ne contano almeno 1800. Ecco le cifre dei concorsi in grado di di spostare milioni di euro.

I PREMI

1800 premi letterari ogni anno

5 al giorno

90 nuovi ogni anno

500 quelli dedicati alla poesia

100 quelli giudicati interessati da una indagine dell'Istituto per il libro.

IL BUSINNESS

1 milione di euro, il giro di affari delle spese di segreteria e delle tasse d'iscrizione tra 5 e 50 euro la quota richiesta a ogni partecipante

10 milioni di euro, i contributi pubblici

DATI EDITORIA E LETTORI

3,4 miliardi di euro, il fatturato complessivo delle oltre settemila case editrici italiane

25 milioni, i lettori di almeno un libro in un anno in Italia

60 mila i titoli che ogni anno vengono pubblicati in Italia.

L'Italia è il Paese che ha più premi letterari. Una stima affidabile parla di milleottocento concorsi. Ma se quelli celebri si contano sulle dita delle mani, e se quelli "piccoli ma dignitosi" sono un centinaio, gli altri prosperano sull'esercito di aspiranti scrittori disposti a finanziarli con spese di segreteria, tasse di lettura, autopubblicazioni.

Ecco come. Oggi è una giornata importante per l’editoria italiana: si assegnano cinque premi letterari. Uno per la poesia e un altro per i racconti brevi. Poi c’è quello per i romanzi inediti, quello per i saggi, e il prestigioso Viareggio, ottantadue anni sulle spalle e un futuro minato dalle polemiche. Anche domani è una giornata importante: in cartellone ci sono altri cinque premi, tra cui il Capalbio. E così dopodomani e dopodomani ancora. Perché ogni anno in Italia si svolgono ben 1800 concorsi letterari, un numero arrotondato per difetto che sembrerebbe rendere giustizia a un popolo di poeti, scrittori e romanzieri. Eppure, ascoltando chi ha passato anni a inviare opere a misteriose giurie, si scopre una realtà diversa, tutt’altro che limpida. Lontano dai riflettori dei premi che contano, dallo Strega al Campiello, dal Bagutta al Calvino, lontano dai concorsi poco qualificati, ma tutto sommato innocui, emerge una girandola di gare improbabili, sfornate in serie da professionisti e minuscole case editrici, un mondo dove i sogni di carta si pagano a caro prezzo e dove, tra tasse d’iscrizione, spese di segreteria e contributi pubblici, il giro d’affari supera i dieci milioni di euro.

Chi sono i protagonisti di questa premiopoli tutta italiana? Qual è il vantaggio per gli scrittori e quale quello per gli organizzatori? Perché gli esordienti, riuniti in gruppi di guerriglia editoriale, puntano il dito contro il mercato? E perché a volte, a dispetto della logica, si collezionano riconoscimenti che sono carta straccia?

L’industria dei premi letterari. L’Italia è il paese al mondo con più premi letterari. Lo era già nel ‘99 quando Giuliano Vigini, esperto del mercato del libro, decise di farli censire. "Ne catalogammo 1200, scoprendo che crescevano al ritmo di una novantina l’anno. Anche tenendo conto di quelli che muoiono nel giro di poche edizioni oggi saranno 1800, forse duemila". Nella lista troviamo concorsi illustri come lo Strega, vinto 24 volte dalla Mondadori, 12 dalla Rizzoli e 11 dall’Einaudi. Prestigiosi come il Campiello, il Bancarella, il Bagutta e il Viareggio, che dopo avere attraversato il Novecento con alterne fortune e avere incassato il rifiuto di Moravia nel ’50 e quello di Calvino nel ’68 ("Non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato"), rischia lo sdoppiamento per una lite tra gli storici organizzatori e il Comune. Fino a qualche anno fa c’era anche il Grinzane, oggi rinato grazie alla fondazione Bottari Lattes, ma al tempo trascinato nella polvere dal suo fondatore, il professore universitario Giuliano Soria. Sotto processo, è accusato di avere trasferito denaro dalle casse del premio alle sue personali, distraendo fondi per oltre un milione e mezzo di euro e di avere trasformato uno degli appuntamenti letterari più attesi dell’anno in una mangiatoia a beneficio di molti, lui in testa. "Poi ci sono concorsi nati per emulazione — continua Vigini — e i premi organizzati per animare la vita culturale di una provincia, per ricordare un autore del posto o per invitare alla lettura". Ognuno ha una propria dignità e una ragione di esistere, ma anche sommandoli tutti non arriviamo a quota 1800. L’Istituto per il libro, in una indagine promossa qualche anno fa, ne selezionava un centinaio come prestigiosi e interessanti. E gli altri 1700? L'industria letteraria fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l'anno, le case editrici sono più di settemila. Aspiranti scrittori e poeti bussano a queste porte inutilmente, poi cercano la scorciatoia dei premi a pagamento.

Mimetizzato nel sottobosco dei micro premi si nasconde il mondo dello "scrivi, paga e vinci" in cui si aggirano ogni anno gli aspiranti scrittori, i protagonisti di quella che Umberto Eco quarant’anni fa chiamava "la quarta dimensione". Professionisti in cerca di un riscatto, giovani con ambizioni letterarie, insospettabili vicini di casa disposti a pagare pur di pubblicare libri destinati all’invisibilità. Sono un esercito sommerso che fa a pugni con i dati sulla lettura: solo il 46,8% della popolazione sopra i sei anni nel 2010 ha letto un libro. Nonostante la percentuale sia in leggera crescita, appena il 15,1% si può definire un lettore abituale con un romanzo al mese sul comodino. Non sembra molto diffuso l’amore per la letteratura, eppure chi scrive non conosce crisi. In prima linea i poeti (circa 500 i concorsi a loro dedicati), subito dopo gli autori per ragazzi, poi i romanzieri e i saggisti. Si aggirano nervosi ai margini di una industria che fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l’anno. Bussano alle porte delle oltre settemila case editrici con un unico chiodo fisso: come mostrare al mondo di avere talento. Da qui ai concorsi letterari il passo è breve e alla portata di tutti, bastano pochi euro. Paola Campanile, poetessa il cui talento è stato riconosciuto dopo lunghi anni di gavetta da un intellettuale come Antonio Porta e da un editore come Marsilio, ha vissuto nel sottobosco dei premi letterari per circa un decennio. Scriveva, pagava le spese di segreteria o la tassa di lettura, vinceva. E ricominciava da capo: "Ho accumulato un baule di pergamene, targhe, medaglie, statuine. Che piacere è stato buttare tutto, liberarmi di quell’inutile testimonianza". Inutile ed esasperante visto che dopo le sue prime partecipazioni, ha iniziato a essere contattata per concorsi di cui ignorava l’esistenza. "Ho avuto l’impressione che esistesse una specie di indirizzario, che alcuni organizzatori si scambiassero i nomi dei partecipanti".

La tassa di iscrizione. Se i nominativi degli esordienti valgono tanto da essere schedati in un computer, qual è il guadagno? Miriam Bendìa, autrice di un libro che qualche anno fa fece clamore — "Editori a perdere" (Stampa Alternativa) — individua due livelli: "Il primo è quello rappresentato dalle tasse di lettura o dalle spese di segreteria. Le cifre richieste non sono altissime, variano da 5 a 50 euro e l’incasso dipende dal numero di concorrenti". Spulciando i siti specializzati nella promozione dei concorsi si nota come più del 70% dei micro premi preveda un contributo economico. Calcolando una media di 10 euro e ipotizzando 100 partecipanti a concorso (ma non mancano le eccezioni con migliaia di iscritti) si può stimare un volume di affari superiore al milione di euro. Cifra ragguardevole, ma insufficiente a descrivere il vero businness. "Che è legato all’editoria a pagamento. Chi partecipa a un concorso - continua Bendìa - spesso riceve una lettera, in cui gli si comunica che la sua opera, pur non essendo stata premiata, merita di essere pubblicata, ovviamente a pagamento". Tra le testimonianze raccolte nel forum di “Libri Puliti”, campagna lanciata da Stampa Alternativa dopo la pubblicazione di "Editori a perdere", diverse segnalazioni hanno acceso i riflettori sul premio “L’autore”, indetto da Firenze libri. Alcuni dei contratti proposti ai partecipanti prevedevano un contributo per gli autori fino a cinquemila euro. Qualcosa di simile succede con il principale editore a pagamento d’Italia, Albatros-Il filo, anche se in questo caso non si parla di concorso, ma di selezione. Tutto legale, ovviamente. E, infatti, sul loro sito Internet scrivono: "I contratti da noi proposti possono prevedere sia un anticipo sui diritti a vantaggio dell’autore, sia l’obbligo di acquisto di un quantitativo minimo di copie da parte dell’autore". Gli aspiranti scrittori riuniti nel sito "Writer’s Dream" hanno fatto la prova del nove: un fritto misto di cento pagine, un copia e incolla volutamente sconclusionato di Wikipedia, blog, articoli di giornale... Risultato? Una lettera in cui li si elogiava per l’interessante opera e si proponeva loro la pubblicazione, a pagamento ovviamente. I sognatori si sono presi una rivincita: nel 2010 al salone del libro di Torino hanno sventolato contratto e manoscritto sotto il naso della direttrice editoriale. Immancabilmente il tutto è finito su You Tube. E non era neanche la prima volta, visto che un esperimento simile era stato già raccontato dalla giornalista Silvia Ognibene nel suo "Esordienti da spennare" (Terre di Mezzo), libro-inchiesta sull’editoria corsara.

Vanity press e vanity prize. Il motore di questo mercato sommerso è l'ambizione degli autori di veder pubblicato il proprio nome su una rivista o sulla copertina di un libro. I più avvertiti si sono organizzati e frequentano siti di auto-difesa come "Il rifugio degli esordienti". Moltissimi i concorsi patrocinati da comuni, province e regioni, organizzati dalle pro loco come il premio della montagna Valle Spluga in Lombardia, o da istituti religiosi come nel caso del premio Madonna dell’Arco organizzato da una parrocchia di Castellamare di Stabia. Ci sono poi i derby poetici, le competizioni in estemporanea e decine di altre fantasiose varianti come quelle organizzate dall’Accademia Francesco Petrarca di Capranica (Vt). («I 10 euro di iscrizione sono devoluti alla Croce Rossa Italiana e che non vi è alcuna speculazione da parte mia e dell’Accademia». In questo caso la dr.ssa Pasqualina Genovese D’Orazio, direttore e fondatore dell’Accademia Francesco Petrarca, lo tiene a precisare al dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CULTUROPOLI" e "IGNORANTOPOLI".  Libri facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare). Un mondo in continua moltiplicazione che spesso si avvale di sostegni pubblici: si va da poche centinaia di euro alle centinaia di migliaia. Ad esempio prima che scoppiasse il caso Grinzane, il premio incassava dalla Regione Piemonte, dalle fondazioni bancarie e da altri enti, quasi 5 milioni di euro. Se calcoliamo una media di 5.500 euro di contributi a premio e li moltiplichiamo per il numero di concorsi sfioriamo i dieci milioni di euro di soldi pubblici. Ma sono veramente gli aspiranti poeti o scrittori a beneficiare di un simile flusso di denaro? Leggendo “Il rifugio degli esordienti”, un sito che da quattordici anni raccoglie le testimonianze degli autori, la risposta è un secco no. Aperto da un ingegnere con la passione per la scrittura, Maurizio J. Bruno, autore del thriller "Ralf" e del romanzo di fantascienza "Eden", è diventato un punto di riferimento per i 17mila aspiranti scrittori che ogni mese lo frequentano. "Visto che sempre più spesso incontravamo autori finiti nelle reti dell’editoria a pagamento, con un passato infarcito di premi e un garage pieno di libri invenduti, io e gli altri autori del rifugio abbiamo dato vita a "Danae", un’associazione che si occupa di promozione, distribuzione e vendita di opere realizzate da altri". Peccato che la metà dei libri candidati a questa forma di autopromozione non superi la selezione del comitato di lettura, "sia per colpa dell’editore, sia per demerito dell’autore". Infatti, tra gli aspiranti poeti e narratori non manca chi animato dalla passione per la scrittura, dimentica quella per la lettura. Gli americani la chiamano vanity press, la vanità dell’autore che si ritiene appagato nel vedere il suo nome stampato su una rivista o sulla copertina di un libro. In Italia si accompagna alla vanity prize e l’effetto combinato delle due debolezze umane rappresenta un mercato inesauribile. Accade così che sempre più spesso facciano la loro comparsa associazioni culturali e accademie attivissime nel sottobosco dei micro premi. C’è la salernitana “Gli occhi di Argo” che organizza diversi concorsi, tra cui “L’almanacco dei cicli celesti” (50 euro per la pubblicazione) e un calendario delle pin-up da comporre grazie a inedite poesie sul nudo femminile (chi viene selezionato s’impegna all’acquisto di 10 copie versando 80 euro per il collettivo o 150 per il monografico). Decisamente prolifica la "Hermes Academy" di Taranto. Il direttore creativo e fondatore dell’accademia chiede ai partecipanti di pagare 10 euro di spese di segreteria per svariati premi: “Anima di Latta”, “Funambolo del cielo”, “Rette parallele”, “La freccia di Cupido”, “la vigilia della vita”, “(In) fine il mondo” e “La mensa dei sogni”. Altre associazioni legano la poesia al turismo: è il caso degli "Amici dell’Umbria" che ne organizzano una dozzina "nell’intento — si legge sul sito — di riproporre il messaggio d’amore e di pace degli uomini più illustri della nostra terra". E non serve neanche vincere, basta cercare uno dei tanti concorsi in cui l’importante è partecipare. Ad esempio in Ciociaria il bando della quinta edizione del premio di poesia “Giorgio Belli” riserva premi in denaro ai primi classificati, ma pubblica in una antologia tutte le liriche inviate. A parziale copertura delle spese gli organizzatori chiedono un contributo di dieci euro. Stesso discorso in Toscana con il premio il “Forte 2011” dedicato a poesie e racconti. Il bando de “La nuova rosa editrice” spiega: "Di tutti i lavori partecipanti ad ogni sezione, verrà scelta una poesia-sintesi di ogni autore che sarà pubblicata su un’antologia". Il contributo spese è di 25 euro, ma nel caso si voglia acquistare l’opera servono altri quindici euro.

Mercato in cortocircuito. Il desiderio di scrivere, di ottenere successo letterario è tale da autoalimentare il business. E' così che trova spazio il gioco sporco di premiopoli. Va ricordata la battuta di Montale quando vinse il Nobel: "Nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anche io?" "L’editoria a pagamento non è editoria, così come i premi che garantiscono la pubblicazione a spese dell’autore non sono veri premi letterari". E’ lapidario Marco Polillo, presidente dell’Associazione italiana editori. E le sue parole la dicono lunga sul peso che le case editrici assegnano ai curricula infarciti di riconoscimenti degli esordienti: solo carta straccia. L’opinione è condivisa anche da piccoli editori che cercano di fare il loro lavoro seriamente, anche se stretti in un imbuto: da una parte i giganti dell’editoria che si dividono il 93% del fatturato, dall’altra chi si è ricavato un mercato sulla pelle (e sulle aspirazioni) degli esordienti. Aldo Moscatelli della casa editrice “I sognatori” ha dedicato al meccanismo dei concorsi un capitolo del pamphlet “Le invio un manoscritto, attendo contratto”, pubblicato su Internet e in un anno scaricato già 1800 volte. "I premi lasciano quasi sempre l’amaro in bocca. Quelli più prestigiosi non sono accessibili ai piccoli editori, gli altri, nel migliore dei casi, tendono a premiare gli autori già famosi per via del ritorno d’immagine. Spesso, l’inappellabile giudizio della giuria, risulta del tutto incomprensibile". Il desiderio di scrivere è tale da autoalimentare il mercato. E così si crea un corto circuito tra domanda e offerta. Ed è questo il rischio vero che corre chi ha sogni di carta, il gioco sporco di premiopoli. "Gli esordienti devono interrompere la catena, rifiutarsi di partecipare a questo tipo di concorsi, evitare di pubblicare a pagamento", dice Mirian Bendìa. "Non devono preoccuparsi di vincere un premio o di trovare un editore, ma cercare una persona che li sappia indirizzare, correggere e stimolare", conclude la poetessa Paola Campanile. O forse, per non dare eccessiva importanza ai riconoscimenti letterari ed evitare le trappole di premiopoli, basterebbe ricordare come Montale reagì quando per telefono gli comunicarono che aveva vinto il Nobel. Lo scrisse Giulio Nascimbeni, che insieme a Gaspare Barbiellini Amidei, quel giorno era presente. "Dovrei dire cose solenni immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anche io?".

Strega, Campiello & Co. gli storici e gli emergenti. Il più antico è il premio Bagutta, nato nel 1926. I nuovi e i 'micro' ne contano almeno cinque. Tra tasse di partecipazione, coppe e diplomi, ecco come funzionano:

GLI STORICI

Bagutta. E' il più antico premio italiano, nato a Milano nella trattoria della famiglia Pepori l'11 novembre 1926. Sono ammessi i libri, senza distinzione di generi, segnalati da almeno due membri di una giuria composta da sedici persone. Premio: 12.500 euro.

Bancarella. Promosso dall'Unione librai pontremolesi fin dal '52 per libri di narrativa e saggistica. Giuria: 200 librai. Premio: distribuzione gratuita dei volumi, opera di divulgazione e la statuetta del "San Giovanni di Dio".

Calvino. Nato a Torino poco dopo la morte di Italo Calvino, è il più importante concorso per esordienti. Ai partecipanti è richiesta una tassa d'iscrizione di 60 euro. Premio: 1500 euro per l'opera vincitrice. Spesso i finalisti trovano un editore.

Campiello. Istituito nel '62 dagli industriali del Veneto, è assegnato a opere di narrativa italiana segnalate da una giuria di letterati. Le cinque opere finaliste ricevono un premio di 10mila euro. Una giuria di trecento lettori assegna il premio finale di 10mila euro.

Strega. Nato nel '47, è organizzato dalla Fondazione Bellonci. I 400 "Amici della domenica" scelgono i finalisti del Premio, scegliendo fra i libri di narrativa ammessi (ognuno deve avere l'appoggio di 2 giurati) e successivamente il vincitore. Premio: 5mila euro.

I NUOVI

Bottari Lattes Grinzane. E' nato nel 2010 dalle ceneri del Grinzane Cavour. Coinvolge sette giurie scolastiche che scelgono i vincitori, italiani o stranieri, nella rosa selezionata da un comitato tecnico. Premi da 2.500 a 10mila euro.

Città di Tropea. Nato nel 2007 per promuovere la lettura in Calabria, è organizzato dall'Accademia degli Affaticati di Tropea. Ha una giuria di 450 persone tra cui i 409 sindaci della regione. Premio: 5mila euro ai tre finalisti, più 5mila euro al vincitore.

Mario Luzi. Nato a Roma nel 2005 in memoria del poeta e senatore toscano, è dedicato alla poesia edita ed inedita. Si è dotato del manifesto "premio etico" per garantire la trasparenza. Sei sezioni, per iscriversi tassa da 16 euro. Montepremi: 25mila euro.

Pieve. L'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Santo Stefano, in provincia di Arezzo, organizza dal 1985 un concorso riservato ai diari dei nonni, alle lettere d'emigrazione, ai taccuini dalle trincee di guerra. Premio:1000 euro e pubblicazione.

Racconti dal carcere. Nato nel 2010 è un premio dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza, patrocinato dalla Siae e dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. I racconti finalisti vengono pubblicati insieme alle interviste ai loro autori. Rivolto a tutti i detenuti.

I MICROPREMI

Almanacco dei cicli celesti. Organizzato dall'associazione "Gli Occhi di Argo" ad Agropoli, nel Cilento. Dedicato a poesie, novelle, festività, curiosità, ricette, notizie mediche, astrologia... Premio: otto copie dell'almanacco che il vincitore deve acquistare al prezzo di 50 euro.

Biancospino Organizzato dall'associazione Amici dell'Umbria a Gualdo Tadino. Per l'iscrizione tassa di 15 euro per una poesia, 25 per due, 30 per tre componimenti, per libro edito, racconto, saggio e silloge. Premi: coppe, medaglie e prodotti tipici.

Estemporanea in Viterbo. Organizzato dall'Accademia Francesco Petrarca di Capranica è dedicato alla declamazione a voce alta delle poesie. Per iscriversi tassa di 10 euro. E' previsto un pranzo sociale al prezzo di 15 euro per i concorrenti, 20 per gli accompagnatori.

Funambolo del cielo. Organizzato a Taranto dall'Hermes Academy, riservato a poesie, racconti e drammaturgie, brani musicali, fotografie e cortometraggi. Soggetto, il funambolismo. Per iscriversi tassa di10 euro. Premi: targhe e diplomi.

Il Forte. Organizzato dalla Nuova Rosa Editrice a Forte dei Marmi, si rivolge a poeti e autori di racconti. Per iscriversi tassa di 25 euro. Un'opera per ogni autore viene pubblicata in un'antologia, che può essere prenotata al momento dell'iscrizione pagando altri 15 euro. 

LA TRUFFA DELLE CLASSIFICHE DEI LIBRI.

Perché i libri di racconti non finiscono in classifica?

raccónto s. m. [der. di raccontare] treccani.it/vocabolario/racconto/. – 1. Relazione, esposizione di fatti o discorsi, spec. se fatta a voce o senza particolare cura, oppure se relativa ad avvenimenti privati (si distingue perciò da narrazione come raccontare da narrare, ed è diverso anche da resoconto, che è più ufficiale e tecnico): il r. delle tue vicende familiari mi ha colpito; mi fece il r. particolareggiato del suo viaggio; l’attività stessa del raccontare: cominciare, terminare un r.; commuoversi nel r. delle proprie disgrazie; nel calore del r.; a un certo punto del racconto. Con riferimento al contenuto: r. storico, leggendario, favoloso, verosimile, inverosimile; al modo: r. prolisso, stringato, brillante, freddo, monotono. 2. Componimento letterario di carattere narrativo, quasi sempre d’invenzione, più breve e meno complesso del romanzo (in quanto dedicato in genere a una sola vicenda e destinato a una lettura ininterrotta) e distinto dalla fiaba perché tende a presentare i fatti come realmente avvenuti (per questi suoi caratteri si identifica sostanzialmente con la novella): un volume di racconti; r. popolari, per l’infanzia; r. lungo, breve, ben costruito, slegato. 3. Nel linguaggio della critica letter. (spec. nella critica formalistica), è sinon. di intreccio, contrapposto alla fabula, ed è pertanto usato per ogni opera narrativa in versi o in prosa. Dim. raccontino; spreg. raccontùccio; pegg. raccontàccio (tutti con riferimento per lo più a racconti scritti).

Racconto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il racconto è una narrazione in prosa di contenuto fantastico o realistico, di maggiore ampiezza rispetto alla novella e di minore estensione rispetto al romanzo. Chi si esprime nella dimensione del racconto normalmente ne compone una serie, e il suo mondo interiore si estrinseca in una costellazione di racconti: ciascun testo, per quanto in sé concluso (a differenza dei capitoli di un romanzo è portatore di una storia completa), va visto in collegamento unitario con gli altri appartenenti alla stessa raccolta. Se riferito ad una specifica persona, il racconto - di formato più o meno esteso - diventa biografico. Se il racconto è scritto in riferimento a sé stessi, si è davanti ad un racconto autobiografico.

Da distinguere da Romanzo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il romanzo è un genere della narrativa scritto in prosa. Origini e caratteristiche fondanti del romanzo sono argomento di dibattito tra gli studiosi. Certamente si può affermare che una premessa fondamentale del romanzo moderno è da individuare nella prima produzione in lingua d'oïl (XI secolo): le narrazioni in versi di questa tradizione, sia che recuperassero temi greco-romani sia che rielaborassero temi cavallereschi (cicli bretone e carolingio), venivano indicate già allora con il termine roman. Il principale carattere di novità rispetto alle tradizioni narrative immediatamente precedenti (e al genere epico in particolare, con le sue imprese militari collettive) è il modo diverso di porsi in rapporto col Tempo. Fa parte dell'arte moderna (nominata contemporanea alla nascita del Romanzo) e necessariamente deve contenere quel modo di narrare nuovo e di contrasto con l'arte del passato. La Teoria dell'Estetica di Theodor Adorno si sofferma sull'incompiutezza dell'opera, cioè il suo essere sempre in formazione: mentre gli altri generi epici tendono a fermare il Tempo partendo da un inizio e arrivando a una fine, il Romanzo non ha termine, non mette il punto. Altre caratteristiche stilistiche come il progressivo focalizzarsi dell'attenzione sul singolo individuo o su piccoli gruppi di cavalieri, immersi in vicende che hanno un misto di storico e di "meraviglioso". L'"esperienza assoluta" del cavaliere, irretito nella sua aventure (termine che in francese antico indicava inizialmente solo il destino o il caso e che finisce per indicare il complesso delle peripezie e il perfezionamento etico di chi le attraversa), sviluppa negli scrittori l'esigenza di una narrazione meno ingessata, "capace di rappresentare un mondo complesso e variamente articolata". Il romanzo è dunque costruito da una struttura della storia più o meno complessa e da una varietà di personaggi più o meno ampia. Questa profonda articolazione ha dato vita a numerosi sottogeneri: si passa dal genere storico al fantastico, dal giallo al romanzo epistolare.

Da distinguere da Novella. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La novella è una narrazione in prosa breve e semplice (di modesto respiro), generalmente più breve di un racconto (secondo molti critici, la distinzione tra le due modalità narrative è labile o nulla), nella quale c'è un'unica vicenda semplice e in sé conclusa, colta nei suoi momenti essenziali, i cui personaggi si possono facilmente ritrovare nella vita quotidiana. Essa nasce, non si sa con precisione dove e quando, nel contesto della letteratura orale. La novella non è un genere letterario indipendente, poiché è inglobata all'interno di altri generi. Tracce di novella sono presenti nelle letterature dell'antico Egitto e della Mesopotamia (Sumeri, Babilonesi). Il genere è presente nelle letterature orientali in particolare in quella indiana dove vi sono varie raccolte, tra cui la celebre Pañcatantra. In India nasce anche la struttura delle novelle precedute da una cornice narrativa, struttura che poi avrà diffusione anche in Occidente con il Decameron. La novella ebbe scarsa autonomia nelle letterature greca e latina. Si ricordano gli arguti e burleschi Racconti sibaritici e la Fabula Milesia. Nella letteratura orientale celeberrima è la raccolta Le mille e una notte. Alla base della struttura che la novella assumerà poi nel Medioevo troviamo l'exemplum, un genere che si potrebbe definire una forma semplice di novella ma che possiamo descrivere anche come a metà strada tra la fiaba e la parabola. Anche l'exemplum è inglobato in altri generi, come la vita dei Santi perché era usato molto spesso dai predicatori con finalità educative e morali. I predicatori se ne servivano allora per ricondurre sulla giusta strada coloro che avevano commesso qualche peccato. Nel Medioevo il fabliau è un altro antecedente della novella. La novella sorge più tardi, in età medievale, nell'ambito di culture molto diverse tra loro. Ancora assente in Francia e in Germania, la novella era un genere praticato in Spagna dove risentiva della novellistica arabo-orientale, come attestano Furberie e perfidie delle donne (1253), una versione del Libro de' sette savi scritta da Fadrique di Castiglia, fratello del re Alfonso X il Saggio; il Libro degli esempi del conte Lucanor e di Patronio (1335) di Juan Manuel e le novelle in versi del Libro del buon amor(1330-1343) di Juan Ruiz. In Inghilterra la novella si sviluppò a partire dai Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer (secolo XIV).

Il genere letterario del racconto ha le sue radici nel primo costituirsi dei gruppi umani: nasce dal bisogno di comunicare proprio dell’uomo ed ha una millenaria tradizione orale che arriva fino all’epoca contemporanea. (Stefano Turicchia - Beatrice Volpi, 5S2) Liceogalvani.it/lavori-multimediali/maniera/narrativo/racconto. Oggi il racconto comprende generi molto diversi fra di loro: il realistico, il racconto d’azione, il giallo ed il nero, lo psicologico e l’umoristico, il fantascientifico, il fantastico; a volte alcuni di questi generi si fondono, formando tipi di racconti del tutto nuovi. "Racconto"   una parola di origine novecentesca, nei secoli precedenti si preferiva invece chiamarlo "novella". I critici ritengono che la tradizione del racconto abbia avuto origine in India e che sia diffusa in Occidente a partire dal XII secolo, quando si intensificarono gli scambi economici e culturali fra l’Oriente e l’Europa medievale. Anche nella letteratura classica greca e latina si trovano esempi di racconti, che costituiscono digressioni all’interno di altre opere, soprattutto di genere storico; solo nel Medioevo il racconto si afferma come genere letterario autonomo, partendo dalla Francia, mentre in Italia si sviluppa fra il XIII ed il XIV secolo, con scrittori come Boccaccio. In questo tipo di narrazione le vicende si articolano secondo relazioni di causa-effetto ed arrivano ad una conclusione, non sempre positiva per il protagonista, che appare necessaria. Il racconto si presenta come una forma chiusa, che non ammette aggiunte o varianti; i personaggi sono realisticamente individuati e inseriti in un contesto descritto con precisione, spesso con riferimenti a situazioni storiche concrete. Nel racconto non troviamo più gli eroi del mito o i personaggi simbolo della fiaba, ma protagonisti che condividono con il lettore caratteri ed esperienze della natura umana. Tra questi generi letterari ed il racconto c’ una differenza fondamentale: mito e fiaba sono in larga misura predeterminanti, perciò il narratore è obbligato a muoversi entro gli schemi fissi stabiliti dalla tradizione. Sono inoltre destinati a perdere contatto con la realtà, mentre il racconto specie in talune sue tipologie, non estraneo al contesto storico, anzi ne vuole essere espressione e manifestazione: rappresenta la realtà in tutti i suoi contraddittori aspetti, al contrario del mito e della favola, che si propongono scopi educativi. Il racconto si differenzia anche rispetto al romanzo, che un testo molto più lungo, che cerca di dare una visione complessiva del mondo, mentre il racconto affronta aspetti limitativi e circoscritti, frammenti di realtà, senza la pretesa di offrire di essa un’interpretazione generale. Il racconto quindi una narrazione breve, in prosa, con personaggi umani, contenuti verosimili e generalmente non storici, per lo più senza finalità morali o conclusioni moraleggianti.

Le raccolte di storie scontano il pregiudizio di non vendere. Per questo i librai non le espongono, i premi le escludono e nelle top ten non riescono a entrare. Sarebbe il caso di allargare gli orizzonti, scrive Rossella Milone il 6 aprile 2018 su "L'Espresso". Alla domanda: «Quando vede un bel libro in classifica, come reagisce?», Giorgio Manganelli rispose: «La cosa mi insospettisce molto. Ci deve essere qualcosa che non va». Come anche ribadito su queste pagine da Wlodek Goldkorn, la classifica dei libri non è un luogo indegno a prescindere, in cui se ci finisci, allora significa che sei uno scrittore con la esse minuscola. Ci sono bei libri che in classifica pure riescono a comparire, ma - ci viene in soccorso Manganelli - è una specie di eccezione. Il problema a cui si riferisce Manganelli, e il nodo cruciale su cui ragionare, ha a che fare non tanto con le presenze, visibili, lampanti, ben evidenziate dal numero in grassetto; quanto con le assenze. Di quei libri che pur essendo belli e ben scritti, restano invisibili alla maggior parte delle persone. Questo vuoto, almeno nella narrativa, è il vero cruccio delle classifiche: una distrazione fatale per quei libri che pur possedendo un’importante qualità letteraria non sono lì, a svettare. Vengono sottratti, scippati agli occhi di chi rimane all’oscuro di tantissima buona letteratura che sprofonda in libreria. La visibilità, in questo nostro tempo di sovraesposizioni e di eccedenze, è la sola possibilità che ha il libro di vendere (anche se, spesso, il passaparola pure fa miracoli); e quindi, cosa accade a quei libri che, invece, per definizione, o per uno strano e contorto pregiudizio editoriale, restano impercettibili? A quei libri che scompaiono, cioè, nelle vetrine delle librerie, sugli scaffali, sugli espositori ammiccanti delle grandi catene libraie, nei premi letterari, nei festival, nei dibattiti, sui giornali, negli inserti, in televisione? Restano invisibili, e in questa invisibilità si coagula tutta la fatica del loro esistere. C’è una categoria specifica di libri, tra tante altre (e penso alla poesia), che subisce questa specie di ghettizzazione, conseguenza di un meccanismo complesso che attraversa tutta la filiera editoriale in cui si dipana la vita di un libro. Questi libri sono le raccolte di racconti. Fatta eccezione per le antologie di racconti in cui vengono raccolti, miratamente, le storie di Natale degli autori più disparati con l’avvicinarsi delle feste natalizie; oppure altre in cui i racconti vengono riesumati per affrontare un tema (le storie che parlano di madri in occasione della festa della mamma, o quelli per la festa della donna, o i gialli sotto l’ombrellone…); fatta eccezione anche per le raccolte di racconti di autori stranieri con un nome, però, ben radicato nella percezione collettiva, i libri di racconti nostrani (ma anche una miriade di stranieri) scompaiono dalla considerazione del pubblico ampio, e quindi dalle classifiche. Se una cosa sparisce dal nostro campo percettivo è come se perdesse la sua possibilità di esistenza in vita. O, quanto meno, fa molta più fatica a sopravvivere nel tritacarne delle nuove uscite.

I libri di racconti subiscono un radicato preconcetto secondo cui le raccolte non vendono. E se non vendono, allora si fa fatica a investirci molto, a produrre una buona campagna pubblicitaria, a spenderci energie per la promozione ad ampio raggio. E, a questo punto, si crea un cortocircuito malefico: se il lettore non trova i libri di racconti in libreria, nei festival, nei premi, nei dibattiti, nelle recensioni, sarà molto difficile che si creino le condizioni perché quel libro riesca a scalare le classifiche. Creando, così, le premesse per una più profonda oscurità, perché se quei libri non compaiono in classifica, allora i lettori non sapranno che i libri di racconti esistono. Peggio, si creerà qualcosa di più losco e pericoloso: si perderanno le condizioni per cui i lettori potrebbero affezionarsi ai racconti, si perderà l’occasione di fornire loro una mappatura di lettura specifica per questa forma letteraria, disabituandoli e diseducandoli alla lettura di racconti tout court. La classifica è il luogo in cui il libro è messo sotto il riflettore: al primo posto c’è l’étoile, poi i secondi ballerini, e via via tutto il coro. La classifica è il modo più semplice, veloce, sovraesposto, appagante e rassicurante che il lettore ha per venire a conoscenza di qualcosa, di cui, altrimenti, resterebbe all’oscuro. Vedere un libro di racconti in classifica sarebbe come veder ballare sul palco una prima ballerina bendata, sui trampoli, con le mani legate; dovrebbe ballare in condizioni difficili, quasi impossibili: sarebbe, cioè, rischiosissimo porla lì, con un pubblico che la osserva piena di scetticismi. Ma la ballerina brava ballerebbe comunque, perché è una ballerina. E un bel libro di racconti saprebbe raccontare comunque, perché sarebbe, semplicemente, un libro come un altro. Negli ultimi tempi, sono sorte molte realtà che si occupano di racconti, sviscerando la forma breve da varie prospettive, proponendo riflessioni, recensioni e nuove proposte. In una recente intervista a Daniele Di Gennaro di minimum fax, che molto ha fatto per il racconto come forma letteraria, l’editore ha detto: «Se si facessero i conti solo con il contenuto e con la scrittura, con il prodotto culturale e non con il prodotto, nel triste senso del nastro industriale, questo pregiudizio (i racconti non vendono, ndr) che è un errore per definizione, si dissolverebbe come il più sottile dei gas». Vale a dire, che in Italia si pubblicano tantissime raccolte di racconti, sia di autori italiani che di stranieri, dal contenuto letterario forte e credibile, in alcuni casi connotati da una qualità letteraria preziosa sia per il nostro patrimonio letterario, che per quello individuale di ciascun lettore. Per dirne una su tante: nel maggio del 2017 Racconti Edizioni ha pubblicato una delle raccolte più belle della stagione, di un’autrice poco conosciuta che, però, è una delle più grandi narratrici di racconti, una maestra, come dichiarò Alice Munro, premio Nobel per la letteratura del 2013, scrittrice di racconti anche lei. “Una coltre di verde” è il titolo di questa raccolta, di Eudora Welty, che, ovviamente, non è mai finita in classifica. Perché? Per una serie svariata di motivi. I più semplici: perché l’ha proposta, coraggiosamente, una piccola casa editrice con limitate forze economiche; perché quello dell’autrice non è un nome conosciuto ai più; perché la qualità letteraria fa un poco paura; perché è un libro di racconti. Lo stesso Giorgio Manganelli, i cui racconti hanno fatto risplendere la letteratura italiana, e che ancora oggi ispirano i più bravi scrittori (non solo di racconti), dovette veder scritto come sottotitolo a Centuria, un libro di narrazioni brevi fondamentale nel nostro patrimonio narrativo: “cento piccoli romanzi fiume”, per spaventare meno il lettore e invogliarlo a comprare il libro. Come diceva la giornalista Grazia Cherchi, molto spesso i servizi per i lettori, come le classifiche, sono non-servizi, qualcosa che finisce per trattarli come non-lettori. Saggiamente, la Cherchi suggeriva di inserire nelle pagine culturali dei giornali, insieme alle classifiche canoniche, anche le classifiche dei libri che meriterebbero di essere venduti meglio e che passano sotto silenzio. Aggiungerei io, con l’obbligo, etico o anche contrattuale, di inserire almeno uno, se non tre, o quattro, libri di racconti.

Aboliamo le classifiche dei libri. Sanciscono il successo di un volume o di un autore rispetto a un altro, ma confondono qualità con quantità. E fotografano gusti senza dirci niente della letteratura. Ecco perché dovremmo farne a meno per il bene di tutti, scrive Wlodek Goldkorn il 28 marzo 2018 su "L'Espresso". Domanda: come mai, sui giornali, quando si parla della moda non vengono pubblicate le classifiche dei capi d’abbigliamento più venduti? Eppure sarebbe interessante sapere come vestiamo, dove acquistiamo le nostre giacche, gonne, camicie, calze, quali marchi compriamo. E ancora, perché, quando si parla di cibo, un argomento frequentatissimo dai media, non si dedicano pagine e pagine alle classifiche della popolarità delle catene di ristorazione o delle singole trattorie, ma si opta invece per riportare il giudizio di qualità degli esperti culinari? Insomma, quando parliamo del cosa ci metteremo addosso la prossima stagione e che cosa mangeremo, quando porteremo a cena il nostro o la nostra partner, il discorso si fa sulla qualità, mai o raramente sulla quantità. E così sappiamo che il tal stilista ha imposto il linguaggio nuovo, interpretando attraverso i vestiti, lo spirito del tempo (guerra, pace, gioia, nostalgia e via esemplificando). Lo stesso discorso vale per i grandi chef, premiati con un certo numero di stelle in base alla loro capacità di raccontare attraverso il cibo (il cibo è idioma) alcune caratteristiche dell’avvenire.

Quanti libri si devono vendere per finire in top ten? E quali trucchi o strategie usano gli editori? Viaggio in un meccanismo sconosciuto ai non addetti ai lavori ma che condiziona il mercato. E allora, un’ulteriore domanda: perché invece, quando si parla dei libri è così importante informare i lettori su quali sono i volumi più venduti? E che cosa ci dicono le classifiche dei libri, specie (più che altrove) in Italia? A scanso di equivoci, una persona che voglia farsi aiutare dai giornali nella scelta dei libri da acquistare ha a disposizione, quasi sempre, una serie di recensioni. Ma allora, perché le recensioni dei libri, a differenze delle recensioni dei ristoranti e delle sfilate, non bastano? Perché appunto le classifiche?

Cominciamo dall’inizio. Fu la rivista newyorkese “The Bookman” a inaugurare, nel 1895, la rubrica “Libri nuovi in ordine di vendita”. E anche se qualche esperto spiega quanto l’idea fosse nata, sempre negli stessi anni nei circoli editoriali di Londra, è negli States che sapere quanto venda un libro fosse stato allora fondamentale. Siamo a una trentina di anni dalla Guerra civile, in un Paese che sta assorbendo masse di immigrati dall’Europa, costruisce città e edifici giganteschi; e dove si sta forgiando una nuova identità, basata sulla prevalenza dell’esperienza concreta, con il mito del self made man, l’uomo che diventa ricco e di successo grazie al proprio ingegno e non per via dei natali o dell’istruzione. Ricchezza e successo sono sinonimi. Dire quanto vendevano certi libri era una specie di moto di stampo populista e democratico; era l’emancipazione dall’accademico sapere dei professori universitari, interessati più ai classici del Vecchio Continente che all’esperienza del Mondo Nuovo. Le classifiche erano portatrici di un messaggio: vogliamo la velocità, la soddisfazione immediata; specie di anticipazione del futurismo. Senza perifrasi: oggi, le classifiche ci parlano ancora e sempre della soddisfazione immediata e della velocità dei consumi, ma non ci dicono più niente sulla letteratura. Peggio, ci inducono a scambiare il consumo e gli indizi di stampo sociologico, per indagine e giudizio letterari. Quanto sopra, non è un’affermazione per cui chi vende bene non è un bravo scrittore mentre chi non vende è un genio incompreso. Si può vendere benissimo e avere il posto assicurato nella storia della letteratura (è il caso di Philip Roth), si può essere un bestsellerista e grande scrittore (Stephen King). Il punto è un altro: è il tempo. Non il tempo di lettura, ma la durata del libro nel tempo.

Guardiamo le classifiche di questo ultimo periodo. I libri (stiamo parlando della narrativa) sono spesso ben scritti. E di cosa parlano? Delle bambine, che è bene che siano ribelli, delle malattie curate e fatali e quindi del dolore di chi ha attraversato il male o di chi deve confrontarsi con la perdita della persona amata; e anche libri che sono derivazione diretta del mondo on line delle adolescenti YouTuber. In parole povere: leggendo le classifiche si ha la percezione precisa dei temi e dei protagonisti della società italiana, oggi. La classifica ci parla della prevalenza delle donne, del linguaggio trasversale degli adolescenti e dell’enorme interesse in tutto ciò che riguarda i tumori. Quanti di questi libri resteranno? Quanti (anche tra quelli scritti bene; ed è pure giusto condividere angosce ed esperienze) verranno letti fra dieci, vent’anni? Non è una domanda oziosa. La letteratura, ripetiamo, vive nel tempo, altrimenti è morta nel momento in cui il libro viene dato alle stampe. La letteratura è sedimentazione, lentezza, riflessione. I libri non ci rendono migliori (talvolta possono renderci più cattivi), ma ci rendono consapevoli: di noi stessi, del Bene e del Male, dei nostri sentimenti reconditi; ecco perché la letteratura ridotta a un bene di consumo immediato non è più letteratura. E non dimentichiamo che le classifiche sono costruite su un campione di libri venduti in alcune librerie, nell’arco di una settimana, e quindi non fanno altro che suggerire: chi vende bene, velocemente e risponde al bisogno immediato, è un grande scrittore. Ha già raccontato su questo settimanale Marcello Fois quanto gli autori più venduti di prima della guerra siano stati Pitigrilli e Guido Da Verona. Del primo si ricorda oggi l’opera di delazione per conto dell’Ovra; del secondo niente, mentre tutti i liceali studiano Italo Svevo che vendeva pochissimo.

E allora, aboliamo le classifiche? Forse sarebbe un atto salutare. Specie in un Paese dove la confusione indotta dal sistema editoriale tra quantità, politica e qualità è molto più marcata che altrove. Un esempio per tutti: solo in Italia il premio più importante, lo Strega, è quasi sempre conferito in base alle manovre di politica editoriale e non alla qualità intrinseca dei libri (il che non esclude che talvolta vinca un buon libro e che quest’anno ci siano in lizza alcuni ottimi libri) e la stessa pletorica composizione della giuria favorisce la politica a scapito dei meriti letterari. Infine. Viviamo in un tempo di catastrofe, tra populismi, razzismi e il tutto e subito. Chi ancora pensa al futuro dovrà compiere la traversata del deserto, ma senza la guida di Mosè e di Dio. Occorre attrezzarsi. Occorre tornare alle cose essenziali, alle parole prime, all’indispensabile. 

Come funzionano davvero le classifiche dei libri. Quanti libri si devono vendere per finire in top ten? E quali trucchi o strategie usano gli editori? Viaggio in un meccanismo sconosciuto ai non addetti ai lavori ma che condiziona il mercato, scrive Caterina Bonvicini il 28 marzo 2018 su "L'Espresso". Le classifiche? Ambite o demonizzate. Autori che le controllano ossessivamente o che le ignorano sprezzanti. Editori sensibili, sempre. Ma quanto sappiamo di quel mondo? Poco, in realtà. È un universo più complesso di quel che sembra. E più sfuggente. «Le classifiche di oggi pesano il 40 per cento in meno di cinque anni fa. Perché i best seller vendono meno e il catalogo vende di più», spiega Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del gruppo Gems. «È una conseguenza dello sviluppo dell’e-com che rende tutto disponibile. Siamo davanti a una mutazione genetica: il consumatore che prima sceglieva fra 5000 titoli, oggi sceglie fra un milione. Si è dimezzata la vendita nei supermercati, che facevano il 50 per cento su un best seller e adesso fanno il 25 per cento. Ma è stata compensata dalla vendita on line. I primi 10 titoli dell’anno vendono il 40 per cento in meno, i primi 100 il 30 per cento in meno, i primi 1000 il 10 per cento in meno. Però tutti gli altri vendono un pochino di più». Tendiamo a pensare alle classifiche così come ci vengono proposte dai giornali (Robinson e La Lettura si affidano a Gfk e Tuttolibri a Nielsen). Quindi a concentrarci solo sui primi 20. Invece, gli editori si servono di uno strumento più profondo, più serio di qualunque spasmodico desiderio e di ogni demonizzazione, cioè di uno strumento asettico, professionale. Tanto che spesso rizzano le antenne studiando le posizioni medie o basse, che noi nemmeno vediamo. «Un indicatore molto interessante è quello che succede in mezzo, non in cima», dice Carlo Carabba, responsabile editoriale della narrativa italiana Mondadori. «Se un esordiente, su cui non c’è stato strepito, vende 200 o 250 copie a settimana, mi dico: però, che bella tenuta nel tempo». E Paolo Repetti, direttore Einaudi Stile Libero, racconta: «Le classifiche sono uno strumento utile soprattutto nelle parti basse. Io vado sempre a vedere fra il tremillesimo e il cinquemillesimo posto. Quando abbiamo preso De Giovanni era pubblicato da Fandango e io trovavo due o tre libri suoi nelle parti basse, ma sempre, tutte le settimane. Facevano 50 copie al mese però lui era fisso lì. Era come se la brace fosse un po’ accesa. Aveva una potenzialità di vendita inespressa». «Dopo il ventesimo posto sembra aprirsi un vuoto, che non aiuta a rendere conto di quello che si muove al di là della magica soglia», conferma Piergiorgio Nicolazzini, agente letterario (Pnla), «al lettore manca uno sguardo più completo e articolato, ne ricava un’impressione parziale, estremizzata, che alimenta il circolo vizioso del vende ciò che già vende e dà l’impressione che il mondo editoriale si concentri sulle punte più significative. La vera forza di una classifica invece è quella di alimentare una lettura trasversale e disincantata. Cioè scoprire linee di tendenza, potenzialità, far dialogare novità e catalogo, valorizzare autori che navigano sotto la magica soglia ma di sorprendente continuità, o altri di piccolo ma costante rendimento su cui investire». Marco Vigevani, agente letterario (The Italian Literary Agency), fa l’esempio di una sua autrice: «Un libro può vendere molto nel tempo e non entrare mai in classifica. Mariapia Veladiano, con “Lei” ha venduto 20.000 copie senza mai comparire. Se la classifica è molto alta, intorno a 900 o 1000 copie a settimana, certi romanzi non appaiono».

Perché troviamo sempre gli stessi nomi nelle top? Perché i librai tendono a ordinare lo stesso numero di copie vendute del libro precedente. Quindi gli autori da classifica continueranno a tornarci, raramente capita il contrario. Nessun editore cerca più di inondare il mercato. È una strategia vecchia, che oggi porta solo alla rovina. Adesso si fanno solo tirature vicine alle prenotazioni. Di solito meccaniche, ripetitive. «La cosa veramente complicata, specie nel mercato di oggi che è abbastanza conservativo, è immettere nuovi autori nelle classifiche», dice Carabba. «Quindi bisogna pensare in un altro modo. Io non credo in un’editoria del tutto e subito, del numerone, in cui conta il venduto dei primi due mesi, se no remi in barca. È un modello che non si può più sostenere. Bisogna tornare a un modello di maggior valorizzazione del medio e lungo periodo. Non parlo di mesi, ma di anni. Siamo in una fase storica in cui i venduti sono molto calati. E non tutti i libri devono essere giudicati solo dal risultato commerciale. Su alcuni c’è un obiettivo soprattutto commerciale e, se non si raggiunge, il risultato è insoddisfacente. Su altri invece ci si concentra di più sulla comunicazione, sulla valorizzazione dell’autore. Se poi non si raggiungono abbastanza lettori, pazienza. Imposti le basi per farlo con il romanzo successivo. Io credo all’idea di percorso. Se uno segue un autore, deve farlo con un’idea prospettica». Lo stesso pensa Nicolazzini: «Le classifiche sono una risorsa a disposizione dei professionisti dell’editoria per rafforzare una visione, soprattutto a medio e lungo termine, senza la quale non si può interpretare né gestire quell’inestricabile rapporto fra qualità e quantità che è insito nel mercato e nella natura stessa dei libri e di chi li scrive».

Come si fa a mandare un libro nella top ten? «Ahahah», risponde Mauri. E Repetti rilancia con una battuta: «Quando chiesero a Somerset Maugham le leggi per scrivere un best seller, rispose: Ci sono tre regole fondamentali. Peccato che io non sappia quali sono». Antonio Franchini, direttore editoriale Giunti Bompiani, parla di «una preghiera laica dell’editore. Se avessimo la formula…». Beatrice Masini, direttore di divisione Bompiani, ricorda i casi di Kent Haruf o di Annie Ernaux, il miracolo di un piccolo editore indipendente come NN: «Chiamando a raccolta i lettori forti si riesce a scansare un meccanismo che per sua natura sembra dominato dai grandi gruppi. È molto bello il rovesciamento». Quindi smettiamola di mitizzare il potere degli editori. Se fosse in vendita una formula matematica (o magica), sicuramente la pagherebbero più di qualsiasi loro autore. Invece tutti si trovano di fronte a una realtà complicata, per certi aspetti troppo conservativa e per altri in continuo mutamento. Ma se nessuno ha la formula per fare entrare un libro nella top ten e le classifiche sono uno strumento più sottile di quel che si pensa, naturalmente esistono delle strategie ben precise per lanciare un libro. La pubblicità sui giornali, a detta di tutti, ormai conta poco. Le cifre? Si va da 4.000 euro per una pagina su un supplemento di cultura agli 8.000 per un’uscita in prima di un quotidiano nazionale. Ben più di quanto ricevono tanti autori per un romanzo, magari costato anni di fatica. E se un libro viene pagato caro, cioè più di 50.000 euro, la preoccupazione diventa recuperare l’anticipo (per un anticipo di 50.000 euro serve vendere 30.000 copie, per esempio).

Dunque perché investire tanto per un paginone sui giornali? Per fare piacere agli autori, ti rispondono. Funziona come segnale al mondo culturale e ai librai (questo autore per noi è importante: vi invitiamo al nostro matrimonio R.S.V.P.). Sembra che sia più utile per i libri letterari che non per quelli commerciali, perché il pubblico che legge i supplementi culturali è medio-alto, e il resto così non si raggiunge. «In certi casi è meglio tappezzare gli autobus o gli spazi metropolitani con una pubblicità davvero massiccia», dice Vigevani. «Servono idee nuove», aggiunge Mauri. «Quando Mondadori ha fatto la prima pubblicità in tivù, ha funzionato. Non si usava. Ma quando hanno ripetuto l’idea, non hanno avuto gli stessi risultati». E poi, siamo nell’era dei social. Dice Repetti: «Siamo nel regno del politeismo assoluto, non c’è più un solo dio che governa il mercato. Come le firme autorevoli sui giornali di una volta. In America hanno spostato l’investimento pubblicitario al 70 per cento sull’on line e al 30 per cento sul cartaceo. In Italia questa cosa non c’è ancora. Al massimo si può sponsorizzare un post di un autore già molto seguito, come Michela Murgia, ma costa molto». Nel caso dei romanzi di genere, dicono, aiuta coinvolgere i blogger del settore. Ci sono poi dei piccoli accorgimenti che possono fare la differenza. «Può contare anche il giorno di uscita», spiega Vigevani. «Perché la classifica per gli editori esce di giovedì, anche se viene pubblicata la domenica. Se fai uscire un libro di mercoledì, hai un solo giorno di rilevamento. Se lo fai uscire di venerdì, per la settimana dopo, hai un vantaggio». Un lettore innocente e sprovveduto può affidarsi alle vetrine delle librerie di catena. Non sa che quegli spazi vengono comprati. Come quelli all’ingresso o alle casse. Si pagano anche gli espositori. Ogni posizione ha un prezzo, e anche molto alto. Si chiama attività di marketing punto vendita. Può costare fra i 7.000 e i 15.000 euro, un investimento oneroso, che però ha un suo ritorno, più efficace della pubblicità. Ma si può fare solo all’inizio, per una quindicina di giorni, mica si possono spendere cifre così per tutto l’anno. Uno può pensare che se pubblichi da Feltrinelli è facile riempire le Feltrinelli con la tua copertina. Come le Mondadori con un libro Mondadori. Invece no. È più complicato. Feltrinelli editori è una società diversa da Feltrinelli librerie. Le Mondadori sono in franchising. Più in generale, le grandi catene guadagnano grazie alla concorrenza, gli altri editori sono clienti importanti. Quindi un po’ di riguardo per il proprio gruppo c’è, ma non troppo: bisogna mantenere il giusto equilibrio, per fare tornare i conti. In poche parole: affittare spazi serve eccome per fare entrare chi si vuole in classifica. È ovvio che un lettore compri più facilmente un libro che vede piuttosto che uno subito messo a scaffale. Ma questa spesa si può sostenere solo per pochi autori, dal potenziale commerciale alto. Quelli che hanno sempre venduto poco, che hanno dei «pregressi» come si dice (la fedina pedale di uno scrittore, quasi sempre sporca), di solito ricevono un anticipo più basso dell’affitto di uno spazio in libreria, e i conti sono presto fatti. Esistono però dei modi per alzare le prenotazioni, se un editore ti sostiene. Un autore che vende poco non è necessariamente spacciato. «Il libraio tende a pensare che un libro replicherà il risultato commerciale del precedente e a prenotare lo stesso numero di copie», spiega Carabba. «Ovviamente si può ricredere. Per questo si fanno le “copie librai”». Si può mandare una staffetta del libro, cioè le bozze non corrette, il primo capitolo, un folder promozionale. «L’importante è creare un rapporto di fiducia. Il risultato commerciale non deve diventare un’ossessione. E bisogna superare l’idea che qualità e quantità siano contrapposte». «In ognuno di noi c’è un lettore letterario, una donna, un pensionato, un appassionato di romanzi storici, una casalinga», dice Franchini, «in ognuno di noi ci sono lettori diversi in grado di entusiasmarsi per libri che si comportano in modo diverso». L’imprevedibilità appartiene soprattutto al long seller, e Repetti cita il caso Agassi: «Siamo partiti con una prima tiratura di 11.000 copie, ne abbiamo vendute 700.000. Naturalmente non era programmato».

UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA

Il Balzello dei Balzelli, specie se doppio, anzi triplo o addirittura quadruplo. Oppressi, pur non guardando “le purghe di Stato”. Si dice TV di Stato, quindi TV pubblica al servizio del cittadino, invece è un baraccone mangia soldi in mano ai partiti politici ed alla loro claque. Foriera di censura ed omertà non offre qualità, ma straguadagni a giornalisti e dirigenti politicizzati ed immeritata visibilità a personaggi senza arte ne parte. Come tutte le cose italiane l’abbonamento RAI è regolato ancora dalla normativa del tanto bistrattato periodo fascista. Alla sinistra in Tv questo non gli fa schifo.

Gli Abbonamenti Ordinari riguardano la detenzione nell’ambito familiare (abitazione privata) di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive. (art. 1 e 2 R.D.L. 21-2-1938 n. 246 e modificazioni successive).

Gli Abbonamenti Speciali riguardano la detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive fuori dall'ambito familiare nell'esercizio di un'attività commerciale e a scopo di lucro diretto o indiretto: per esempio Alberghi, Bar, Ristoranti, Uffici etc..

In effetti la normativa, che si rifà a un Regio decreto del 1938 prevede che ‘apparati atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive’ debbano pagare il canone che, per le aziende, è appunto speciale.

L'obbligo è stato istituito di fatto con l'articolo 1 del regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, con la seguente disposizione: "Chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto. La presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l'impianto aereo, ovvero di linee interne per il funzionamento di apparecchi radiotelegrafici, fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio radio-ricevente"; il canone "speciale" di abbonamento alle radiodiffusioni è stato di fatto introdotto dall'articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 21 dicembre 1944, n. 458, sostituendo il secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto legge 23 ottobre 1925, n. 1917 con questa disposizione: "Qualora le radioaudizioni siano effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell'ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a scopo di lucro diretto o indiretto, l'utente dovrà stipulare uno speciale contratto di abbonamento con la società concessionaria". Tale norma introduce in modo più chiaro ed esteso il criterio di distinzione per l'applicazione del canone speciale e del canone ordinario. Corrisponde al vero che esiste l'obbligo di pagamento se si detiene in ufficio, studio o negozio un apparecchio televisivo (adatto alla ricezione delle trasmissioni). Tuttavia è importante evidenziare che il tutto non si applica nel caso di monitor non dotati di sintetizzatore di frequenza. Anche se in apparenza le pagine della Rai paiono dare la sensazione che si tratti di una disposizione riferita solo agli alberghi, bar, ed esercizi simili. Sottolineamo che l'obbligo c'è ANCHE PER UFFICI, NEGOZI, STUDI, indipendentemente dall'uso che ne viene fatto. Bisogna evidenziare che l'obbligo vale esclusivamente nel caso si tratti di un televisore dotato di sintonizzatore (o con un videoregistratore dotato di sintetizzatore), perché si tratta di apparecchi atti alla ricezione. Non esiste obbligo per i monitor "puri" che non sono in grado di decodificare il segnale trasmesso via etere, e per i lettori di cassette o CD (non videoregistratori) che si limitano a leggere il segnale del nastro. Del pari è giusto sottolineare il fatto che se non c'è apparecchio televisivo (ricordiamo che la RAI semplicemente "ci prova"), ovviamente non si deve pagare, e non si può essere obbligati a compiere alcuna azione in merito. Vale a dire non opererebbe il principio della presuntività; tuttavia potrebbe esserci una verifica di ispettori della Rai, che comunque per legge non possono procedere ad ispezioni personali, né reali né sulle persone, nè sui luoghi di lavoro in quanto la legge non prevede in capo ai medesimi un siffatto potere di agire che andrebbe, se posto in essere, denunciato immediatamente all'autorità giudiziaria perché integranti fattispecie di reati ben precisi. La Rai ha inviato un’ingiunzione di pagamento a 5 milioni di imprese chiedendo il pagamento del canone su qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo: personal computer, videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza.

Finora, la giurisprudenza non sembra lasciare molte vie d’uscita. Nel 2007, con sentenza del 20 novembre, la Corte di Cassazione ha stabilito che «il canone di abbonamento radiotelevisivo non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall’altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo». Ancora più stringente la posizione della Corte costituzionale del 1988: «Se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come tassa, collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell’articolo. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall’estero (sentenza n. 535 del 1988)».

Per l’ADUC il computer è soggetto al pagamento del canone Rai? L’annosa questione è stata oggetto di suoi quesiti alla Rai, interpelli all’Agenzia delle Entrate e di interrogazioni parlamentari al ministero delle Comunicazioni (ora Sviluppo economico), ma mai è stata fornita una risposta in tal senso. La Rai ha infatti risposto di non sapere se il pc era soggetto al canone e che si avrebbe dovuto chiederlo all’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima, deputata alla riscossione di questa tassa, ha risposto di non saper rispondere e di aver girato il quesito al Ministero delle Comunicazioni. Ad oggi non risulta che il Ministero abbia preso decisioni in merito. Nonostante ciò, la Rai sta comunque sollecitando le aziende e i professionisti a pagare il canone anche per i “computer collegati in rete (digital signage e similari)”.

E poi pagare per cosa?

Nel caos della prima serata del "Festival di Sanremo 2012" qualcuno della Rai, tra l'incredibile blocco del sistema di voto e il sermone di Adriano Celentano si è dimenticato di far trasmettere pubblicità per 650 mila euro. Chi è questo qualcuno? Forse riuscirà a scoprirlo, dopo "accurate e prolungate indagini", il "commissario" Marano "inviato prontamente sul posto" per "riportare l'ordine" al "Teatro Ariston". Nell'attesa, comunque, una cortese richiesta: poiché la Rai continua a buttare via in mille modi i suoi soldi, smetta almeno di assillare gli "abbonati per forza", cento volte al giorno, con la sua richiesta di versare il rinnovo del canone. I boiardi di Stato stanno bene attenti a costringere gli utenti a mantenerli con balzelli odiosi nella non curanza dei pseudo rappresentanti dei cittadini sganasciati in Parlamento.

Non dimentichiamoci una cosa e per chi non lo sapesse la diciamo ora. Di non solo Rai è vittima “rapinata” il povero imprenditore che ha una tv o una radio. Già. Per questo c’è un altro balzello: la SIAE. Società italiana Autori ed Editori. Be’, sì un tributo a chi crea arte e la pubblica e la distribuisce bisogna riconoscerlo. Si ma non è finita. A questi si aggiunge un altro mungitore alla vacca collettiva. Ecco a voi UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, denuncia l’ennesima anomalia italiana. “Non tutti sanno – dice il presidente – che, in tema di intrattenimento musicale, le direttive dell’Unione Europea e la legge sul diritto d’autore (vedi gli articoli 72, 73 e 73 bis, Legge n. 633/1941) riconoscono e tutelano sia i diritti degli autori, che compongono i brani (gestiti dalla Società Italiana Autori ed Editori), sia i diritti dei discografici, che realizzano le registrazioni musicali (gestiti in maggior parte dalla Società Consortile Fonografici). Il consorzio SCF è oggi composto da case discografiche major e indipendenti ed attualmente  tutela i diritti discografici di oltre 280 imprese, rappresentative di larga parte del repertorio discografico nazionale e internazionale pubblicato in Italia. Ciò significa, che per sentire un brano musicale registrato, in qualunque modo e forma, è necessario riconoscere anche un compenso al SCF, diritto autonomo rispetto a quanto dovuto alla SIAE. 

Ciò, per entrambi, avviene comunemente nei seguenti contesti:

Descrizione: *      trasmissioni radiofoniche e televisive;

Descrizione: *      trasmissioni via satellite;

Descrizione: *      attività che utilizzano musica a scopo di lucro (es. discoteche, sfilate di moda, corsi di fitness);

Descrizione: *      attività per le quali la musica in diffusione di sottofondo costituisce un elemento di valore aggiunto al business (es. bar, ristoranti, alberghi, esercizi commerciali, studi od esercizi professionali, oratori parrocchiali, circoli privati, feste patronali, ecc).

Il compenso è dovuto anche nel caso in cui la diffusione dell’opera avvenga senza fine di lucro (in auto o in casa). Ai sensi della legge sul diritto d’autore, non pagare i diritti alla SIAE o alla SCF comporta l’applicazione della sanzione penale, oltre che amministrativa. Per la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 00626/2007 resa l'8 giugno 2007 dalla terza sezione penale, la diffusione di musica registrata senza aver versato i diritti connessi alle imprese discografiche per la riproduzione dei brani musicali, in questo caso rappresentate da SCF, Società Consortile Fonografici, viola la legge sul diritto d’autore e assume rilevanza penale. Solo che il Conna, ente rappresentativo degli interessi di molte emittenti radiotelevisive, disconosce tale sentenza rilevando che l'articolo 180 della legge 633 del 22 aprile del 1941 dice che l'attività di intermediario è riservata in via esclusiva alla Siae e al punto 3 aggiunge che essa curerà la "ripartizione dei proventi medesimi fra gli aventi diritto". Un brutto colpo per i cittadini italiani, che dell’intrattenimento musicale fanno il loro stile di vita, salvo far finta di niente, fino a quando non si presenta qualcuno alla porta, che ce lo ricordi.”

SIAE: LA STORIA.

Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”  racconta di denunce, contro-denunce, avvocati, veleni, dossier... Alla Siae, da mesi, è in corso una guerra termonucleare. Di qua i nuovi vertici «mandati a mettere ordine» appoggiati da un pezzo del mondo politico. Di là i sindacati interni e un altro pezzo della politica. In palio, una società ridotta a un carrozzone sgangherato e traballante sotto i debiti.

In quali condizioni la Società italiana autori editori sia entrata nel terzo millennio lo dice l'Istituto Bruno Leoni: «Il monopolio legale risulta anacronistico, oltre che lesivo della concorrenza». «La conservazione del regime di esclusiva impedisce la creazione di soluzioni più efficienti di tutela e gestione dei diritti d'autore». Le omologhe società inglesi pur chiedendo percentuali minori, «riescono a distribuire agli iscritti una quota più elevata». Insomma, la Siae è una macchina che per anni ha alimentato soprattutto se stessa.

Per colpa di chi? Della società, denunciano i sindacati citando gestioni scellerate, stipendi da favola, piccoli e grandi lussi auto-concessi dai vertici. Della società e dei suoi vecchi vertici senz'altro, concorda la nuova dirigenza commissariale, ma anche dei sindacati che avrebbero profittato per spartirsi la torta. Ed ecco che di qua l'anziano commissario Gian Luigi Rondi, i suoi vice Domenico Luca Scordino e Mario Stella Richter e il direttore generale Gaetano Blandini (bollati come «le badanti del novantunenne, mai visto») sono accusati di avere «svenduto» il 28 dicembre scorso una serie di immobili di Siae e del Fondo Pensioni per un prezzo nettamente inferiore alla valutazione (260 milioni invece di 463 milioni) a due società, la Aida e la Norma. Di là quelli che rispondono di avere fatto «confluire gli immobili nei due fondi» proprio per «custodire il patrimonio» e sottrarlo agli abusi del passato dato che «Aida e Norma sono al 100% del Fondo Pensioni e di Siae». Quindi resta tutto in casa. Di qua la direzione viene denunciata da Cgil e Cisl, le quali chiedono ai giudici la revoca «della disdetta indiscriminata di tutti gli accordi sindacali» e la condanna «ad astenersi dall'attuare controlli e/o ingerenze sull'utilizzo dei permessi sindacali». Di là i vertici sventolano il verdetto che dà ragione alla società sancendo «l'infondatezza della doglianza in esame» e condannando Cgil e Cisl a pagare le spese processuali. E accusano a loro volta i sindacati di voler difendere un sistema indifendibile. Dove i dipendenti costano mediamente 64.200 euro (no, dice la controparte negando tutto: 41.700) cioè il doppio rispetto a quello (36.425) della pubblica amministrazione. Costo che contando anche la paga media dei dirigenti (157.700) schizzerebbe addirittura a 69.200. Per salire nel 2014, coi contratti vigenti, a 82.300. Troppi, accusa Blandini, che si è tagliato lo stipendio di 130 mila euro, per un'azienda in agonia che nel 2010 ha speso 127 euro ogni 100 incassati e quest'anno prevede comunque di andare sotto del 16%. Ma Fabio Scurpa, Cgil, contesta anche questo: «A parte il fatto che i soldi per i dirigenti li hanno trovati, la Siae è sana: dicono che è in rosso per massacrare chi ci lavora».

Non basta. Mentre i sindacati dicono di non fidarsi «di un amico della Cricca», dato che l'allora direttore ai Beni culturali del settore «Cinema» finanziò in quella veste un film con Lorenzo Balducci, (intercettazione imbarazzante: «Senti oggi abbiamo approvato... Sono stati bravi, si sono spicciati...»), escono tabelline fitte di nomi di dipendenti con accanto il marchietto: «figlia di», «nipote di», «fratello di», «cognata di», «genero di»... Assunti («Scurpa compreso») per chiamata diretta. Magari con la benedizione del babbo o della mamma sindacalista. Per non dire del patrimonio immobiliare affittato a canoni assai convenienti a volte neppure pagati per mesi. Al punto che la Siae, nella denuncia penale contro l'ex direttore del Fondo Pensioni, Eugenio Truffa Giachet e altri 12 dirigenti, scrive che il ricco portafoglio di immobili (il quale violando il tetto del 20% fissato per legge costituiva il 98% del «tesoro») non solo non rendeva, ma danneggiava le casse: 2.368.768 di affitti incassati, 3.325.175 di manutenzione. Tesi respinta ancora dalla Cgil: «Vanno presi i bilanci pluriennali e lì i conti sono diversi. Giocano sui numeri per comportarsi come Torquemada». La stessa svendita di case offerte ai dipendenti (tra i primi proprio il direttore Truffa Giachet e sua figlia) in cambio di un anticipo talora di 500 euro e rate modeste da pagarsi in 40 comodi anni al 2% d'interessi era secondo Fabio Scurpa una buona idea: «Non è che i tassi, in quel momento, fossero molto più alti». Dunque sbaglia la Siae a contestare tutto? «Non è vero che non aveva garanzie d'essere pagata per 40 anni da un ottantenne: c'era l'ipoteca, se nessuno avesse poi pagato, tornava in possesso dell'immobile».

Non mancano nello scontro frontale alcuni episodi, diciamo così, curiosi. Come la denuncia di due sindacalisti, marito e moglie, che stando a una lettera del direttore generale da molti anni risultavano «sistematicamente in permesso dalle ore 7.45 alle ore 10.00 /10.30». Sveglia mattutina: riunione sindacale. Caffè: riunione sindacale. Cornetto: riunione sindacale. Mai che Angelo D. e sua moglie Anna Rita avessero un solo giorno di normalità casalinga per lavarsi i denti, farsi una doccia, preparare un cappuccino alla figlia... Subito riunioni su riunioni. Tutti i giorni. Dalle sette e mezzo di mattina. O almeno così risultava in ufficio, dove si affacciavano a metà mattinata: «Scusate, eravamo in riunione».

Agli atti, ovviamente contestati, c'è la lettera della UilPa, che commissaria il sindacato interno contestando ai due «di avere danneggiato il prestigio dell'organizzazione attraverso l'utilizzo dei permessi sindacali in contrasto con gli indirizzi stabiliti...» A quel punto ecco le provvidenziali testimonianze di alcuni colleghi: quei permessi usati poco dopo l'alba «venivano notoriamente fruiti dagli stessi per lo svolgimento del mandato sindacale presso la propria privata abitazione». Nuova richiesta di chiarimenti e nuova risposta UilPa: «Non è nostro uso autorizzare la fruizione di permessi sindacali presso abitazioni private». E via così...

Il destino personale dei coniugi, ovvio, non ci interessa. I giudici diranno chi ha ragione. La storia, però, la dice lunga sui rapporti a lungo dominanti nell'ente. Dove si sono via via sedimentati dettagli contrattuali a volte «eccentrici». Tipo la cosiddetta «indennità di penna», concessa a quanti, deposti penna d'oca, calamaio e tampone assorbente, accettarono d'entrare nel XX secolo usando il computer. Per non dire del contributo di solidarietà nato per soccorrere artisti in difficoltà ma diventato, al di là della legge, una specie di pensioncina distribuita a pioggia. Perfino a chi incassa ogni anno diritti d'autore milionari e su questi paga peraltro una quota astronomica rispetto alla «pensioncina» che riceveva.

Nelle audizioni e nella relazione al Parlamento c'è di tutto. La facoltà di mettersi in malattia senza certificato medico fino al terzo giorno («Che c'entra? Siamo disponibilissimi a cambiarlo, ma senza criteri punitivi», dice la Cgil) col risultato che qualcuno, come abbiamo raccontato, è arrivato a marcare visita «in franchigia» 87 giorni in un anno. Le trasferte degli «accertatori musicali» che se sforano la mezzanotte sono formalmente contate su due giorni... Il turno «serale» che comincia alle 13.45...

Insomma, un pasticciaccio. Sul quale è bene che, al di là delle ragioni e dei torti che animano il micidiale scontro attuale, venga fatta in fretta chiarezza. E pulizia. Un paese poeti, santi, navigatori e artisti merita qualcosa di meglio.