Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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CONTRO

 

TUTTE LE MAFIE

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

 

Questo saggio non è un opuscolo opinabile polemico contro l’Italia, ma una constatazione di fatto di quello che è. Un sunto su quanto si è scritto in modo temporale, pluritematico e pluriterritoriale. Gli argomenti ed i territori trattati in questo pamphlet sono aggiornati, completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale attendibile e credibile. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUI PIU’ DEBOLI.

A COME MAFIA DELL’AFFIDO CONDIVISO.

A COME MAFIA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

A COME MAFIA DELL’AGROALIMENTARE.

A COME MAFIA DELL’AMBIENTE.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUGLI ANIMALI.

A COME MAFIA DELL'ANTIFASCISMO DEI CRETINI.

C COME MAFIA DEI CAPORALI.

C COME MAFIA DEI CONCORSI PUBBLICI.

C COME MAFIA DEI CONDONI.

C COME MAFIA DEI COLLETTI BIANCHI.

C COME MAFIA DEL CONTRABBANDO.

C COME MAFIA DELLA BUROCRAZIA E DELLA CORRUZIONE.

C COME MAFIA DELLA CULTURA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA DI STATO.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA BANCARIA.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA ASSICURATIVA (RCA).

G COME MAFIA DEL GIUSTIZIALISMO E DELL’IMPUNITA’.

G COME MAFIA DELLA GIUSTIZIA.

M COME MAFIA DELLE MAFIE E DELLE ANTIMAFIE.

M COME MAFIA DELLE MALEFATTE DELL’ANTIMAFIA.

M COME MAFIA DELLA MASSONERIA.

M COME MAFIA DEI MEDIA.

M COME MAFIA DEI MISTERI DI STATO.

P COME MAFIA DELLA POLITICA E DEI DISSERVIZI E DELLA SOCIETA’.

P COME MAFIA DELLA PRESCRIZIONE E DELLA MALAFEDE DI POLITICI E GIORNALISTI.

R COME MAFIA DELLA RITORSIONE SU CHI DENUNCIA. (SPIONI O ONESTI?). WHISTLEBLOWING: PIU’ DEL MOBBING O DELLO STALKING.  

S COME MAFIA DELLO SCIACALLAGGIO A DANNO DEI TERREMOTATI E DELL’OMERTA’.

S COME MAFIA DELLA SANITA’ E DELLA SCIENZA.

S COME MAFIA DELLA SCUOLA.

S COME MAFIA DELLO SPORT E DELLO SPETTACOLO.

T COME MAFIA DEI TRADITORI.

V COME MAFIA DELLA VIOLENZA E DEGLI OMICIDI DI STATO.

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.  

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012

 

 

 

SECONDA PARTE

 

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA DI STATO.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SPECULOPOLI.”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Eppure ve l'avevamo detto: l'Ente della riscossione deve stare in giudizio direttamente... 

L’ Agente della riscossione, che si chiami Equitalia o che si chiami Agenzia delle Entrate riscossione, deve stare in giudizio direttamente. Non può avvalersi di un procuratore generale o speciale e non può essere rappresentato in giudizio da un difensore esterno, scrive su "Il Corriere del Giorno" il 15 novembre 2018 Luciano Quarta, avvocato – Studio Legale e Tributario, Ce.S.F.I. – Centro Studi sulla Fiscalità Internazionale. Nemo propheta in patria. Noi l’avevamo detto (io e il mio compagno di merende, Giorgio Rubini), e da un bel pezzo anche: l’Agente della riscossione, che si chiami Equitalia o che si chiami Agenzia delle Entrate riscossione, deve stare in giudizio direttamente. Non può avvalersi di un procuratore generale o speciale e non può essere rappresentato in giudizio da un difensore esterno. I vari luminari con i quali ci siamo confrontati sul tema hanno storto il naso. Hanno trattato con sufficienza le nostre tesi giuridiche. Quando abbiamo ottenuto se non la prima, una delle primissime sentenze che confermavano la nostra interpretazione (CTP Varese (la n. 310/2017), a giugno del 2017 Italia Oggi, commentando il precedente, aveva parlato di una sentenza “potenzialmente devastante per numerosissimi processi e, in particolare, per quelli di secondo grado in cui appellante è proprio l’Agente della riscossione”. Molti però l’hanno presa come una delle tante sentenze balzane ed eccentriche di una corte di merito, periferica ed isolata. Altre pronunzie sono seguite, nello stesso senso e nel senso opposto. Ma oggi la Corte di Cassazione, con una sentenza dettagliatamente motivata, la n. 28684/2018 sviluppata su una attenta e puntigliosa analisi di tutto il quadro normativo, con passaggi logico giuridici consequenziali e rigorosi ha spazzato via ogni dubbio: l’Agente della riscossione, salvo casi eccezionali deve stare in giudizio direttamente o con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi di merito, con il solo patrocinio dell’Avvocatura nei giudizi di legittimità. Allora, vediamo: cosa dice esattamente la Suprema Corte? Afferma in sequenza questi principi:

a) l’Ente della riscossione non può avvalersi di avvocati del libero foro, se non in casi eccezionali. Nella normalità dei casi la difesa va affidata a dipendenti interni all’Agenzia o all’Avvocatura dello Stato, se si tratta di contenziosi di merito, alla sola Avvocatura dello Stato in caso di giudizi di legittimità;

b) la sussistenza di uno di questi casi eccezionali e la scelta del ricorso alla difesa esterna deve essere congruamente motivata, documentata e occorre che sia appositamente autorizzata;

c) per giustificare il ricorso ad avvocati esterni non basta il regolamento di amministrazione dell’Agenzia, perché esso fa rinvio a quanto previsto all’art. 43 RD 1611/1933 (sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato) che ancora una volta ribadisce l’eccezionalità del ricorso al patrocinio da parte di avvocati del libero foro;

d) pertanto occorre sempre uno specifico atto di autorizzazione dell’organo deliberante;

e) se tutto questo manca l’avvocato si ritrova sprovvisto del cosiddetto jus postulandi, quindi, in pratica non ha il potere di rappresentare in giudizio l’Ente e di conseguenza tutti gli atti difensivi, le produzioni, le istanze e quant’altro ne vengono travolti;

e) questo tipo di grave difetto può essere rilevato in ogni stato e grado e non è sanabile, salvo il caso di cui all’art. 125 cpc (cioè, prima dell’effettiva costituzione in giudizio).

Cosa comporta tutto questo? Un vero tsunami. Ad esempio, tutti gli appelli e i ricorsi per Cassazione proposti dall’Agente della riscossione con un avvocato esterno diventano inammissibili, perché proposti da un avvocato che non aveva il potere di rappresentare in giudizio il suo cliente (cioè l’Agenzia). Ma non solo: in tutte quelle cause in cui il debito del contribuente o la ritualità di una notifica viene provato attraverso le produzioni effettuate dall’avvocato esterno, siccome quell’avvocato non aveva il potere di rappresentare l’Agente della riscossione quei documenti è come non fossero mai stati depositati: il giudice non può tenerne conto e devono essere espunti dal fascicolo processuale perché non ritualmente presentati. In pratica è come se non fosse mai stato provato che il contribuente abbia mai avuto un debito verso il fisco, o che una cartella sia mai stata effettivamente notificata. E lo stesso vale per intimazioni di pagamento, iscrizioni ipotecarie, fermi amministrativi e qualsiasi altro atto impugnabile. La cosa è di estrema rilevanza perché nel processo tributario l’Ente della riscossione viene qualificato come “attore in senso sostanziale”: vuol dire che, anche se formalmente la causa la comincia il contribuente è l’erario che ha l’onere di dimostrare di avere una valida pretesa tributaria nei suoi confronti e di avere rispettato correttamente tutte le procedure. Un principio consolidato e ribadito ai massimi livelli anche dalla Corte Costituzionale con una storica sentenza: la n. 109/2007. Perciò, quello che oggi ci ritroviamo sul tavolo è di fatto il potenziale azzeramento, per motivi puramente processuali, di un buon 80% delle controversie in cui è parte l’Agente della riscossione, per il solo fatto che ha scelto di farsi assistere da avvocati del libero foro. A tutto vantaggio del contribuente, che non ci stancheremo di mai di difendere in tutte le arene processuali. Parliamo di contenziosi pendenti per miliardi e miliardi di euro. Ma come si è potuto arrivare a questo? La verità che le tortuosità del meccanismo normativo si sono ritorte contro chi le ha scritte. E non è la prima volta. Questo enorme pesticcio, infatti, è stato originato dalla combinazione tra una modifica delle norme sul processo tributario, apparentemente marginale (tanto che è sfuggita ai più), entrata in vigore nel 2016 (in particolare dell’art. 11 D.Lgs. 546/1992) e il DL 193/2016, di poco successivo, con cui è stata soppressa Equitalia ed è stata istituita al suo posto l’Agenzia delle Entrate Riscossione (società di diritto privato la prima, ente pubblico economico la seconda). È da questa specie di mix esplosivo che è scattata la preclusione per l’Agenzia di riscossione di avvalersi di difensori esterni. Questa preclusione è sfuggita a molti perché “nascosta” in un groviglio di rinvii, alle normative regolamentari interne dell’Agenzia stessa e alle norme sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Questo ha reso ancora più dirompente la miscela esplosiva perché l’Ente della riscossione, sottovalutando l’entità del problema, ha continuato a farsi difendere da avvocati esterni accumulando di fatto materiale esplodente. E adesso, come per incanto, possono essere rimessi in discussione i presupposti alla base di molte sentenze di primo e secondo grado delle Commissioni Tributarie, in cui il contribuente era soccombente. Potrà sembrare un’uscita fuori contesto, ma non riesco a fare a meno di pensare a quella battuta del film “Apocalypse Now” in cui Robert Duval, nei panni del Colonnello Kilgore, prima di lanciare il mortale assalto del suo squadrone di elicotteri dice “Mi piace l’odore del napalm la mattina” e poi “quell’odore… sai quell’odore di benzina? Tutto intorno. Profumava come… come di vittoria”. A buon intenditor…

Che differenza tra Equitalia e Agenzia delle Entrate-Riscossione? Scrive il 7 novembre 2016 Angelo Greco su laleggepertutti.it. Il nuovo ente pubblico avrà più poteri di investigazione ai fini del pignoramento dei beni dei contribuenti, ma la sostanza rimane sempre la stessa: un organo sotto il controllo dell’Agenzia delle Entrate. Il tutto sotto il rischio della nullità dei futuri atti. Con la recente approvazione del decreto fiscale che mette in liquidazione Equitalia e, al suo posto, crea un nuovo ente pubblico dal nome Agenzia delle Entrate-Riscossione, sono in molti a chiedersi quali sono le differenze, soprattutto in termini di poteri nei confronti dei contribuenti, tra i due soggetti deputati alla riscossione delle tasse. Il timore è, infatti, che con l’accorpamento delle funzioni di accertamento e recupero delle entrate tributarie in capo all’Agenzia delle Entrate ci possa essere un eccessivo accentramento di poteri e, quindi, il rischio di abusi. Agenzia delle Entrate che, peraltro, proprio in questi ultimi mesi è stata al centro di due delicate questioni che ne hanno scalfito l’immagine: la prima sollevata da Striscia la notizia sui riclassamenti del valore degli immobili operati – secondo le accuse – in modo illegittimo; la seconda, invece, relativa alla nomina “motu proprio” e senza alcun concorso di ben 767 dirigenti. Prima di comprendere quali sono le differenze tra Equitalia e Agenzia delle Entrate-Riscossione, dobbiamo anche capire di chi stiamo parlando: nel primo caso, Equitalia, di una Spa (società per azioni) di diritto privato, ma il cui capitale è in mano pubblica, essendo il 51% detenuto dall’Agenzia delle Entrate e il residuo 49% dall’Inps; nel secondo caso, ossia Agenzia delle Entrate-Riscossione, di un ente pubblico economico, sottoposto all’indirizzo e alla vigilanza del ministro dell’Economia e delle Finanze, ma – come dice il nome stesso – rientrante nell’ambito della struttura dell’Agenzia delle Entrate. Dal punto di vista sostanziale, quindi, le cose non mutano di molto: in entrambi i casi, infatti, l’Agente per la riscossione esattoriale è un soggetto sotto l’egida e l’influenza dell’Agenzia delle Entrate, ieri in veste di socio di maggioranza, oggi come struttura “madre”. Questo significa che, almeno dal punto di vista della politica nei rapporti col contribuente, cambierà davvero poco. Ciò è rafforzato anche dal fatto che il personale dipendente – quello che, cioè, troveremo dietro lo sportello o a dirigere le singole sedi territoriali – sarà lo stesso che prima sedeva sulle poltrone della società per azioni. Ma, dal punto di vista formale, le differenze sono notevoli e queste potrebbero implicare, a cascata, problemi non di poco conto. Vediamoli qui di seguito.

Innanzitutto, il nuovo Agente per la riscossione, divenendo a tutti gli effetti una Pubblica Amministrazione, ne acquisirà anche i poteri che la legge non aveva mai esteso a Equitalia: in particolare, proprio quei poteri più penetranti che spettano all’Agenzia delle Entrate. Il riferimento è alla possibilità di accedere a qualsiasi banca dati telematica per verificare il possesso, da parte dei contribuenti, di redditi o beni da sottoporre a pignoramento. In altre parole, la fase dell’esecuzione forzata nei confronti di chi non pagherà le tasse sarà più precisa, mirata e, quindi, efficiente. C’è da dire che Equitalia aveva più volte sollecitato Governo e Parlamento per ottenere un’estensione dei propri poteri e, in un certo senso, è stata ascoltata!

Il secondo punto nodale del passaggio di struttura da società privata a ente pubblico attiene al personale dipendente. Se per le Spa, così come per tutti i datori di lavoro privati, le assunzioni non sono subordinate a regole specifiche, potendo quindi avvenire a «chiamata diretta», senza peraltro alcuna verifica e garanzia, nel settore pubblico non è così: la Costituzione [1], infatti, subordina qualsiasi reclutamento a un bando di concorso pubblico (e questo, secondo la Corte Costituzionale, vale sia per le nuove assunzioni che per le promozioni del personale già assunto). Il tutto per garantire l’imparzialità e il buon andamento della P.A. attraverso una procedura di selezione rigorosa dei “migliori”. In teoria, quindi, con la nascita di Agenzia delle Entrate-Riscossione, i dipendenti dovrebbero essere sottoposti a un concorso. E invece non sarà così. Nel decreto fiscale approvato dal Governo, infatti, c’è una resa incondizionata alle richieste dei sindacati, preoccupati della sorte dei propri iscritti (e non, evidentemente, dei contribuenti). Sicché la nuova legge prevede il passaggio del personale prima assunto in Equitalia al nuovo ente pubblico. Gli stessi dipendenti prima assunti dalla società privata, verranno trasferiti alla pubblica amministrazione, senza alcun previo concorso. La nuova norma dice solo che: «…il personale delle società del Gruppo Equitalia con contratto di lavoro a tempo indeterminato, in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, senza soluzione di continuità e con la garanzia della posizione giuridica ed economica maturata alla data del trasferimento, è trasferito all’ente pubblico economico (…), previo superamento di apposita procedura di selezione e verifica delle competenze, in coerenza con i principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità». Una «procedura di selezione e verifica» che certo non è un bando pubblico: perché, altrimenti, non chiamare le cose col proprio nome, come Costituzione impone? Nessuno quindi dice come avverrà questa selezione, con quali criteri di valutazione, quali sono i requisiti minimi richiesti per l’assunzione: tutte circostanze che, invece, in un concorso pubblico vengono elencate nel bando, aperto peraltro a tutti e non solo a una fascia di ristretti fortunati. Chi ci dice come sono avvenute le assunzioni in Equitalia? Per pura ipotesi di scuola (e a voler pensare male), qualcuno potrebbe anche paventare il rischio di nomine clientelari, proprio perché non soggette ai controlli pubblici.

Da qui discendono due importanti conseguenze. La prima è davvero preoccupante: a un personale teoricamente non preparato e non formato secondo i crismi di un concorso pubblico, avremo accordato gli stessi forti poteri dei funzionari e dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Come abbiamo detto sopra, infatti, le attribuzioni del nuovo ente pubblico saranno molto più penetranti rispetto a quelle di Equitalia. Ci ritroveremo così con soggetti che, da semplici dipendenti di una società privata, saranno diventati, in un solo colpo, pubblici ufficiali – quelli stessi soggetti che, prima, facevano spallucce davanti alle richieste dei contribuenti dietro lo sportello e, al più, dinanzi all’incertezza delle decisioni, invitavano a «rivolgersi al giudice, perché noi non possiamo farci nulla». Questo personale potrà firmare atti, certificare copie di estratti di ruolo, notifiche e quant’altro, dando ad essi la fede privilegiata che viene attribuita, per legge, a tutti gli atti pubblici sottoscritti da pubblici ufficiali.

La seconda conseguenza è una diretta prosecuzione del ragionamento. Qualcuno domani potrebbe svegliarsi e ritenere tutto questo incostituzionale e, quindi, impugnare queste nomine proprio come avvenuto con quelle famose promozioni a dirigenti, all’interno dell’Agenzia delle Entrate, che la Corte Costituzionale solo l’anno scorso aveva annullato. Con la conseguenza che, caducati gli organi, cadranno anche i relativi poteri con effetto retroattivo e, con essi, gli atti e le cartelle firmate notificate da Agenzia delle Entrate-Riscossione. Questo significherà ricorsi dei contribuenti ai tribunali, spese processuali che sosterrà lo Stato e, in caso di soccombenza, mancato recupero dell’evasione fiscale. Ma intanto il Governo sarà cambiato e i costi di questa manovra populistica saranno sopportati dal successore. E indovinate chi paga…?

Fisco: la lodevole inchiesta di Striscia la Notizia sull'Agenzia Entrate, produce effetti, scrive il 30 aprile 2016 Agi. (Adusbef) - La lodevole inchiesta di Striscia la Notizia, Tg satirico di una TV commerciale che fa informazione, al contrario del servizio pubblico Rai finanziato dal canone dei cittadini da quest'anno sulle bollette elettriche spacciando pacchi su Raiuno in prima serata, che ha dedicato numerose puntate per smascherare usi, abusi, vessazioni ed ordinari soprusi dell'Agenzia dell'Entrate, che in alcuni casi ha portato a gesti sconsiderati di tartassati e maltrattati contribuenti, sembra abbia portato ad una modifica di comportamenti, nei rapporti non proprio idilliaci tra cittadini e fisco. Rosella Orlandi infatti, in una lettere ai dipendenti sulla "nuova strategia dell'Agenzia delle Entrate che punta a rivoluzionare i controlli fiscali che pone particolare attenzione a quello che il Tg satirico di Antonio Ricci ha denunciato, proprio  nel paragrafo "Contraddittori e accessi in loco per gli accertamenti sugli immobili" istituisce il confronto preventivo con il contribuente, per una inderogabile necessità il cui scopo principale è quello di fornire prima ancora dell'accertamento, tutti gli elementi utili a quantificare correttamente il valore dell'immobile oggetto dell'atto. La circolare incoraggia anche le visite presso l'immobile o l'azienda da valutare e i sopralluoghi nella zona di ubicazione, per acquisire una conoscenza diretta dello stato esteriore e delle caratteristiche del bene e intercettare così le corrette analogie e differenze con altri immobili o aziende presi a riferimento per la determinazione del prezzo di mercato. Sempre all'insegna della trasparenza, l'Agenzia per la raccomanda di allegare l'immagine dell'immobile accertato all'avviso di rettifica consegnato al contribuente, a supporto della motivazione che ha spinto la rivalutazione del bene da parte del Fisco. La sacrosanta battaglia informativa di Striscia la notizia, condivisa da Adusbef e dai contribuenti onesti spremuti, vessati e tartassati dall'Agenzia delle Entrate, i cui incentivi ai dirigenti sembrano tarati sull'imponibile accertato invece che sul riscosso, incentivando in tal modo anche una sopravvalutazione, in alcuni casi di puro stampo estorsivo, ha dato i primi frutti. Adusbef nel rammentare che bisogna continuare la lotta all'evasione ed all'elusione fiscale anche con il contrasto di interessi, grata a Striscia la Notizia per la coraggiosa battaglia a tutela dei diritti dei cittadini contribuenti e della legalità, auspica che l'Agenzia delle entrate, invece di minacciare azioni legali verso coloro che fanno informazione, diriga i suoi sforzi per una lotta alle grandi frodi fiscali, purtroppo non sempre perseguita, al contrario di vere e proprie persecuzioni verso chi dimentica, sbagliando, di emettere scontrini fiscali per modestissimi importi.

Agenzia delle Entrate contro Striscia la Notizia: la battaglia continua, scrive l'1 aprile 2016 blogdieconomia.it. Continua la battaglia tra l’Agenzia delle Entrate e la trasmissione televisiva, trasmessa su Canale 5, Striscia la Notizia di cui già vi avevamo parlato (clicca per leggere il nostro articolo). Nella puntata del 30 marzo Riccardo Trombetta nello spazio chiamato “Rapine in corso” ha intervistato Luciano Dissegna, ex dirigente dell’Agenzia delle Entrate chiedendo come funzionasse il sistema degli incentivi ai funzionari. Nell’intervista Dissegna va giù pesante dichiarando: “Più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi”, confermando che i dirigenti dell’Agenzia delle Entrate guadagnano in base agli obiettivi raggiunti in termini di accertamenti realizzati. L’ex dirigente spiega come l’Agenzia, a fronte di un accertamento da 100 milioni offra la possibilità di pagarne metà, e questa operazione viene definita dall’ex funzionario come una: “Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi”. L’Agenzia delle Entrate il giorno dopo, il 31 marzo, è intervenuta con un comunicato stampa di 3 pagine, (ecco il link) in cui ribatte punto per punto, accusa per accusa, tutte le puntate di Striscia la Notizia in cui veniva criticato lo strano modo di accertare e “Inoltre, l’Amministrazione puntualizza che non esiste – come si lascia intendere nella trasmissione – una stretta correlazione tra il singolo controllo o accertamento e il premio annuale attribuito al dirigente. Il trattamento accessorio, infatti, è conferito dopo una valutazione complessiva del suo operato annuale, che si basa sul raggiungimento degli obiettivi complessivamente assegnati alla struttura da lui diretta e sulla valutazione delle capacità gestionali e professionali”. Sempre sulla questione degli incentivi l’Agenzia delle Entrate spiega come: “In merito ai premi incentivanti riservati ai dirigenti, l’Agenzia precisa che per nessun dipendente la misura del premio è correlata all’importo di accertamenti emessi e andati a buon fine né, tanto meno, al numero o all’entità delle anomalie evidenziate. Gli obiettivi da raggiungere per far scattare gli incentivi, stabiliti dalla Convenzione con il Ministero dell’Economia, sono molteplici e non limitati agli importi riscossi derivanti dall’attività di contrasto all’evasione fiscale. Ciò che acquista rilievo per gli incentivi, infatti, sono una serie di parametri che riguardano, tra gli altri, l’indice di vittoria in giudizio, l’erogazione di rimborsi, la semplificazione e il miglioramento della qualità dei servizi di informazione e assistenza. In altre parole, non c’è alcun nesso meccanico fra il recupero di un determinato importo evaso e il premio di cui beneficerebbe il funzionario che ha effettuato quel recupero. L’incentivo è una somma che complessivamente è devoluta all’Agenzia e si ripartisce poi tra tutto il personale in servizio (non solo tra i dirigenti) come premio per il raggiungimento di tutto l’insieme degli obiettivi fissati dalla Convenzione. Questi obiettivi non riguardano solo l’attività di accertamento, ma anche gli altri processi di missione, e in particolare quelli concernenti la gestione del contenzioso, l’erogazione dei rimborsi, la semplificazione e il miglioramento della qualità dei servizi di informazione e assistenza ai contribuenti, la riduzione di conflittualità dei rapporti con i contribuenti e l’impulso agli istituti deflativi del contenzioso.” La battaglia sembra destinata a continuare e l’Ufficio delle Entrate sembra non volersi fermare a dei semplici comunicati stampa avendo infatti anche comunicato l’intenzione di procedere per vie legali per tutelare la propria immagine e la sicurezza dei propri dipendenti per difendersi dalle forti accuse del programma diretto da Antonio Ricci.

Striscia la notizia, Agenzia Entrate querela: “Istigano alla violenza contro di noi”. La trasmissione: “Ci ringrazino”. La campagna della trasmissione satirica di Canale 5 contro le modalità "discutibili" con cui l'Agenzia delle Entrate conduce gli accertamenti su case e terreni dei contribuenti va avanti da qualche settimana e adesso finisce a carte bollate. A far scattare la querela della direttrice Orlandi contro il tg satirico, il vademecum anti ispettori mandato in onda da Striscia. Che attacca: "Dovrebbero ringraziarci, hanno accolto i nostri rilievi", scrive "Il Fatto Quotidiano il 16 maggio 2016. L’Agenzia delle Entrate contro Striscia la Notizia, Rossella Orlandi (direttrice dell’Agenzia) contro Antonio Ricci. La campagna della trasmissione satirica di Canale 5 contro le modalità “discutibili” con cui l’Agenzia delle Entrate conduce gli accertamenti su case e terreni dei contribuenti va avanti da qualche settimana e adesso finisce a carte bollate. La Orlandi, infatti, ha comunicato in audizione davanti alla Commissione Finanze di aver querelato Striscia: diffamazione e istigazione e delinquere le sue accuse alla trasmissione, che avrebbe “attaccato un’istituzione creando rischi di violenza. Ricordo bene quando una collega a Torino fu assalita con una scimitarra”, ha detto. Spiegando: “Non siamo mai stati interpellati né ci hanno mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate nei vari servizi”. Da marzo fino a qualche giorno fa, “subissati dalle segnalazioni di contribuenti disperati” – affermano dalla trasmissione – una lunga serie di servizi ha dato voce alle “vittime” degli accertamenti fiscali condotti dall’Agenzia delle Entrate. In sovrimpressione, il tg satirico ha anche dato conto dei suggerimenti che i telespettatori avrebbero dato per superare tutto l’aggravio di burocrazia a cui li costringerebbe l’Agenzia per colpa di suoi stessi errori di valutazione. Una sorta di vademecum anti ispettori: “Denunciare il funzionario per estorsione”, “obbligare il funzionario ad acquistare l’immobile al prezzo della valutazione fatta da lui”, o ancora “darsi fuoco per far conoscere l’ingiustizia subita”. Che avrebbe suggerito invece, secondo la Orlandi, delle vere e proprie azioni di rivalsa. E non tutte legittime: fra le alternative “proposte” da Striscia, infatti, la direttrice dell’Agenzia delle Entrate cita anche “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”. Nella puntata di giovedì 12 maggio, Ficarra e Picone hanno replicato alle accuse della Orlandi accusando a loro volta l’Agenzia delle Entrate di portare avanti contro il tg satirico una “vessatoria campagna di bugie e minacce”: “La dottoressa Orlandi vuol far credere che abbiamo aizzato i cittadini contro i funzionari dell’Agenzia e che ‘solo per difendere i suoi dipendenti’ lei avrebbe deciso di farci causa per diffamazione e istigazione a delinquere. È vero il contrario. Ci siamo limitati a mostrare, stigmatizzandoli ogni volta, dieci sfoghi arrivati dai nostri segnalatori, che danno la misura di un’esasperazione sempre più diffusa. Soltanto la disperazione può spingere un contribuente a proporre quelle cose”. Gli episodi citati dalla Orlandi, cioè le aggressioni dei contribuenti ai danni del personale dell’Agenzia, “sono anteriori di anni ai nostri servizi sul fisco”, replicano da Striscia la notizia. Che ammette: “Abbiamo solo dato voce a un malessere che c’era da tempo”. Quindi il contrattacco. Come spiegato nei servizi mandati in onda nelle ultime settimane, Striscia sostiene che i controlli vengono effettuati sulla base di parametri virtuali calcolati su immobili o terreni analoghi. Senza alcun sopralluogo sul posto, nel fare l’accertamento, a dirimere ogni dubbio. Con una circolare del 28 aprile, fanno sapere dalla trasmissione Mediaset, l’Agenzia delle Entrate ha – nonostante le accuse e la querela alla trasmissione – di fatto accolto i rilievi del tg di Ricci, “invitando i funzionari a recarsi sul posto e documentare la pratica con fotografie”. Per poi, pochi giorni dopo, procedere per le vie legali. “Dovrebbe ringraziarci e invece ci denuncia”, chiosa il Gabibbo.

E con Equitalia ci si trova di fronte all’Usura di Stato. Si è sentito vessato da Equitalia. Anzi usurato. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Perché le somme chiestegli per il pagamento di un debito sarebbero esose ed ingiustificate. Una serie di esosi «orpelli» che avrebbero fatto schizzare alle stelle l’originaria obbligazione. Un imprenditore biscegliese, ma residente a Trani, non ne ha potuto più e lo scorso 22 dicembre 2011 ha denunciato la storia ai carabinieri. Il sostituto procuratore della Repubblica di Trani Michele Ruggiero ha aperto un’inchiesta che però non vede indagata né Equitalia, né alcun suo funzionario o dipendente. Il fascicolo è rubricato contro ignoti. Se il nome della concessionaria di riscossione, come persona giuridica, o di qualche sua figura lavorativa finirà nel registro degli indagati è prematuro dirlo. Molto dipenderà dall’esito degli atti d’indagine che ha in serbo lo stesso Ruggiero. Che però, per ora, ha compiuto un importante atto formale: ha espresso parere favorevole alla sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento; in pratica momentaneo stop alla procedura avviata da Equitalia contro il 46enne imprenditore biscegliese. Un parere in via cautelare che si basa sull’ipotesi che la vicenda denunciata possa esser connotata da fatti penalmente rilevanti, paventati nella denuncia. Il parere è stato chiesto alla magistratura tranese dal Prefetto della Provincia Barletta-Andria-Trani Carlo Sessa sulla base di quanto previsto dalle legge n.44/1999, ovvero «Disposizioni concernenti il fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura». La normativa contempla l’ipotesi di sospensione dei termini a seguito di parere favorevole da parte della Procura della Repubblica in merito agli atti, in questo caso di Equitalia, «per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo».

Denuncia Equitalia per usura e il pm gli sospende le rate, scrive “La Repubblica”. «Condannato ad un ergastolo finanziario». E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola: una procura della Repubblica, quella di Trani, che dà parere favorevole all'istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia. Protagonista un imprenditore di Bisceglie ridotto sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che ha contratto nei confronti dell'Agenzia dell'Entrate e dell'Inps. Si definisce una vittima di usura, "condannato", dice, "ad un ergastolo finanziario". E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola. Una procura della Repubblica che dà parere favorevole all' istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia, società pubblica incaricata della riscossione dei tributi. Protagonista un imprenditore nel campo della ricerca estetica di Bisceglie ridotto praticamente sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che pure ha contratto nei confronti dell'Agenzia dell'Entrate e dell'Inps. O meglio, sono al momento sospesi, in virtù della legge 44 del 1999, i ratei dei mutui ipotecari o bancari. E' stato il magistrato della procura di Trani Michele Ruggiero a firmare il provvedimento in questione dopo la denuncia dello stesso imprenditore presentata a dicembre dello scorso anno ai carabinieri. Pasquale Ricchiuti, questo il suo nome, ha chiesto la condanna di Equitalia spa e di Equitalia sud Bari per la violazione dell'articolo 644 del codice penale, il reato di usura. Questa la storia: nei mesi scorsi Ricchiuti aveva fatto periziare le cartelle di pagamento ricevute scoprendo, a suo dire, l'iniquità dei tassi applicati e quella che chiama "la maggiore pressione fiscale esercitata nei suoi confronti". Racconta di un dramma cominciato all'indomani della decisione della società pubblica di ipotecare la sua casa, sulla quale sta ancora pagando un mutuo, perché non era riuscito ad onorare dei debiti, 20mila euro cioè di contributi "dichiarati ma mai versati", dice. I problemi lo assalgono nel 2008 a causa della mancanza di liquidità, nel suo centro di estetica e di dimagrimento da quattro le assistenti assunte diventano due, poi una sola. E quei 20mila euro, tra interessi e sanzioni, raddoppiano e arrivano a quasi 40mila. «Ma se non potevo pagare quelli come posso pagarne tanti ora?», si è chiesto. Su Facebook ha formato un gruppo di "indignati" che non lanciano bombe alle sedi di Equitalia ma "si informano per resistere", spiega. Poi è diventato presidente di una lista civica nazionale "Italia libera" e ha messo insieme una serie di persone scontente, dal Friuli alla Sicilia. Negli ultimi mesi ha preso carta e penna e scritto proprio ad Equitalia, poi ha dispensato consigli a tutte le persone in difficoltà con le banche e la stessa società di riscossione: "Non stancatevi mai di lottare per i vostri diritti, fatelo per le vostre famiglie ma soprattutto per voi stessi, se le regole del gioco sono cambiate in corsa i falliti non siete voi, ma chi ha cambiato le regole senza pensare a chi si alza ogni mattina per poter mettere ancora un piatto sulla tavola per la propria famiglia». Non ce l'ha con le persone, conclude, "ma con il sistema, adesso altri imprenditori sanno che difendersi si può". E Trani, ancora una volta, diventa un caso nazionale.

GUIDA CONTRO L’USURA DI STATO. La Giovanna d'Arco degli imprenditori ci spiega come difendersi da Equitalia, scrive Giulia Cazzaniga su l'intraprendente.it il 18 febbraio 2013. C’è chi, come Marisa – «la prego, non scriva il mio vero nome, qui in paese ci conoscono tutti» – ha accudito il marito malato in ospedale più di dieci anni fa. Insieme titolari di due ristoranti, tra malattia e crisi hanno saltato alcune rate. E il debito si è ingigantito. «Trecentomila euro in più rispetto a quanto non abbiamo pagato». Succede nel ferrarese. Oppure c’è anche chi, come Nicola Bevilacqua, di fare il proprio nome non se ne fa scrupolo. Trentaseienne imprenditore originario di Domodossola, anche lui come Marisa ha presentato denuncia, dopo una cartella lievitata a 170mila euro. Chiedono entrambi che Equitalia sia perseguita per usura. A dare assistenza a loro e a centinaia di imprenditori che ogni giorno bussano alla sua porta è Wally Bonvicini, energica fondatrice di Federitalia. L’hanno definita la Giovanna d’Arco dei piccoli imprenditori che si ritengono vittime del fisco. L’Intraprendente le ha chiesto un piccolo vademecum: come si può capire se Equitalia sta passando il segno? Wally, iniziamo dal momento che toglie il sonno a tanti imprenditori: suona il campanello, arriva il postino, porta una raccomandata. È di Equitalia.

«Se la cartella viene inviata per raccomandata è nulla o inesistente. Deve essere notificata da un ufficiale abilitato. È quindi da contestare. Non vuol dire, ovviamente, che non deve essere pagata. Ma deve essere rispedita e notificata in modo corretto. Il costo della raccomandata, tra l’altro, viene addebitato a chi la riceve. Pure quello».

La cartella è arrivata, la apriamo.

«Nel 90% dei casi la prima pagina, la relata di notifica, non è compilata a dovere. Quindi si può contestare la cartella».

Bene, ma come faccio io imprenditore a capire se gli interessi che secondo Equitalia si sommano al mio debito con l’Agenzia delle Entrate sono da denuncia?

«Da solo purtroppo non posso. Ho bisogno di un esperto che faccia una perizia. E purtroppo devo stare anche attento che l’esperto non mi chieda una cifra esagerata: consiglio ai contribuenti che non volessero rivolgersi a Federitalia di tenere gli occhi aperti».

Da soli quindi non è possibile difendersi?

«La somma che viene contestata nella cartella esattoriale purtroppo è comprensiva, non consente di risalire al tasso di interesse praticato. Una violazione palese del diritto di difesa di ogni cittadino. Qualcosa però inizia a muoversi, per fortuna. Pochi giorni fa i giudici tributari hanno portato l’aggio della riscossione – tra l’8 e il 9% ad oggi – alla Corte Costituzionale. Da Torino e da Roma hanno sollevato il dubbio di incostituzionalità della somma che spetta a Equitalia per ripagare i costi del servizio di recupero di imposte e tributi. Violerebbe il principio di ragionevolezza insito nell’articolo 3 della Costituzione».

Quante tra le cartelle che esamina ogni giorno sono contestabili?

«Quasi tutte. Il 99,9% direi».

Perché Federitalia si muove attraverso denunce penali, per usura, e non come fanno la maggior parte delle altre associazioni, contestando solo responsabilità civili?

«Perché a nostro parere l’usura non si commette solo quando si presta denaro, ma anche quando si chiede una cifra sproporzionata per una prestazione come la riscossione. In presenza di una rateizzazione, è come trovarsi di fronte a un prestito. I tassi raggiungono in alcuni casi anche il 17 o il 18%, rendendo impossibile un concreto rientro del debito».

Equitalia, usura di Stato. "Troppo zelo e tassi di mora insostenibili. Il governo deve intervenire subito". Intervista a Elena G. Polidori, autrice di un libro sull'agenzia di riscossione, scrive il 9 gennaio 2012 Michela Rossetti su globalist.it. "Se Equitalia è diventata un bersaglio bisognerebbe capirne le ragioni, oltre che condannare le violenze". E’ stata questa la frase che ha scatenato la bufera su Beppe Grillo, reo di aver sottolineato "il problema Equitalia" al di là dei gesti di violenza che in queste settimane stanno colpendo l’agenzia di riscossione. Un problema che il leader del Movimento 5 Stelle non è il solo ad aver denunciato. Lo ha fatto con un libro - "Resistere a Equitalia" pubblicato da Aliberti Editore - Elena G. Polidori, giornalista del Quotidiano Nazionale (La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno), da sempre vicina ai diritti dei consumatori. Lei lo ha scritto nel testo chiaro e tondo. E oggi lo ripete ad alta voce al Salvagente.it: "Equitalia, per i contribuenti, è un incubo. E anche piuttosto ricorrente, considerando la frequenza con cui arrivano le cartelle esattoriali... Negli ultimi anni si è raggiunto il livello di saturazione, dovuto a un comportamento che disinvolto è dire poco".

Nel suo libro scrive che “una macchina da guerra creata per essere al servizio dei cittadini spesso si trasforma nel loro incubo peggiore”. Come succede?

"In molti modi. Con tassi di mora che dopo un certo periodo di tempo arrivano all’11%: una cifra altissima, se consideriamo che la soglia di usura è al 14%.  Succede con ipoteche sulla casa e sulla macchina per poche centinaia di euro, magari per una multa non pagata o il canone Rai evaso. Ci troviamo di fronte all’assurdo che si arrivano a pignorare gli strumenti di lavoro di un artigiano, o perfino le pecore di un pastore sardo. E’ successo anche questo, in Sardegna. Ma di esempi ne potrei fare a centinaia. Ad una persona di cui non farò il nome Equitalia ha ipotecato il garage di 80.000 euro, per un debito che era di 156 euro".

Anche lei ha avuto la sua esperienza personale...

"Come molti altri, sì. Per una multa non pagata Equitalia mi ha messo un’ipoteca sulla casa e anche protestato. Sa cosa vuole dire? Che mi potevano anche chiudere il conto corrente..."

Com’è finita?

"Fortunatamente bene. Ma non tutti, come me, possono permettersi i costi di una causa o di un avvocato per fare ricorso. Il problema è che Equitalia si comporta con un eccesso di zelo, e può davvero cambiarti la vita per una rata dell’immondizia mai arrivata, o un conto dell’Iva sbagliato dal commercialista. Fino a poco tempo fa non esisteva neanche una soglia di debito a cui far corrispondere un’ipoteca".

E oggi?

"Dopo un susseguirsi di ricorsi, la Cassazione - nel 2010 - ha stabilito un tetto di 8mila euro. Poi nel 2011 è intervenuta la legge ordinaria, anche grazie al pressing della Lega in difesa delle quote latte, che ha alzato la cifra a 20mila euro".

Qualcuno potrebbe obiettare - come è successo - che in un paese con una delle più alte evasioni fiscali Equitalia fa solo il suo dovere.

"Vero. Ma la questione non si risolve perseguendo i cittadini comuni e lasciando “in pace” i grandi evasori. Perchè questo succede con Equitalia. Succede che pagano coloro che denunciano al fisco case e macchine. Quelli, in sostanza, che normalmente le tasse già le pagano. Loro vengono perseguiti senza scampo, mentre i noti “furbetti delle tasse” che per far ritornare i capitali nascosti nei paradisi fiscali hanno preteso “scudi” e assicurazioni sul futuro che in nessun altro Paese un governo si sarebbe mai abbassato a promettere, la fanno magari franca. Pensiamo solo alla manovra di agosto scorso: mentre il governo Berlusconi prometteva una lotta serrata contro gli evasori, non si è riuscito a realizzare un accordo con la Svizzera, sul modello di quello già siglato da Germania e Gran bretagna, per imporre una tassa fissa ai propri cittadini titolari di conti correnti nelle banche elvetiche".

Il “Problema Equitalia” quindi esiste. Ma allora perché l’intera classe politica ha preso le distanze da Grillo quando ha semplicemente chiesto di analizzare le ragioni di un tema presente da anni?

"Perchè lo Stato non può sconfessare sé stesso. Equitalia è il braccio armato dell’Agenzia delle Entrate, controllata dal ministero del Tesoro. Un ministero oggi guidato da Monti, a capo del governo a cui i maggiori partiti hanno promesso sostegno".

Ieri Bersani si è “azzardato” a sollevare la questione di una riforma per Equitalia.

"Lo ripeto: Equitalia dipende dal governo. Non serve necessariamente una riforma, ma una volontà politica. Non a caso Attilio Befera - braccio destro di Tremonti sul fronte fiscale - è rimasto a capo dell’Agenzia delle Entrate anche con Prodi, di nuovo lì con Berlusconi e oggi con Monti. Serve una volontà politica precisa, che se da parte di Tremonti non c’era, con Monti non si è ancora vista".

Il "Robin Hood delle partite Iva", da esattore a difensore delle imprese, scrive Elena Filini il Sabato 26 Marzo 2016 su ilgazzettino.it. Vessati da Equitalia? Nel mirino dell'Agenzia delle entrate? Il vostro uomo si chiama Luciano Dissegna. È il "Robin Hood delle partite Iva", il Don Chisciotte della piccola impresa. Ex direttore dell'agenzia delle entrate di Montebelluna e poi in altre sedi del Nordest, ora difende i contribuenti dai soprusi del fisco, ovvero dai suoi ex datori di lavoro. Amante del Grappa, residente a Romano d'Ezzelino (Vi), con moglie trevigiana e cursus honorum nella Marca, Dissegna segue circa 30 casi sul territorio nazionale. E, per il 90%, a titolo gratuito: una crociata iniziata 7 anni fa con la richiesta di prepensionamento. Contattato da "Striscia la notizia", il tributarista ha rivelato il volto oscuro degli accertamenti esattoriali, esponendosi in prima persona. E non è certo la prima volta. Perchè ha deciso di dichiarare guerra all'Agenzia delle entrate? «Perché sta massacrando la piccola impresa in Italia. Con pratiche devastanti e una pressione psicologica inaudita. Il mio obiettivo è quello di far emergere il comportamento illegale delle agenzie». È questo che ha spiegato ai microfoni di Striscia? «Si, ho chiarito in linea generale qual è il meccanismo. Ogni anno le singole agenzie fissano un tetto di denaro da riuscire ad incamerare. Partono gli accertamenti, veicolati spesso dagli studi di settore. Ma non dobbiamo pensare che ad essere colpito sia solo chi ha effettivamente evaso. In moltissimi casi non è così. A tappeto significa, per lo più, arbitrariamente. Chi raggiunge il budget ottiene avanzamento di carriera e stipendio maggiorato. La tecnica è: impressionare l'imprenditore con cartelle esattoriali elevatissime, e poi cercare un patteggiamento inferiore ma in ogni caso importante. E devo dire che spesso i commercialisti consigliano di pagare, per evitare battaglie snervanti». Lei invece cosa suggerisce ai piccoli imprenditori? «Di tirare fuori tutto il coraggio possibile. Di difendersi non subendo, di venire in contatto con persone che hanno avuto esperienze simili». Cosa accade alle aziende post accertamento e riscossione? «Nel 44% dei casi, l'azienda chiude i battenti. Questi, almeno, sono i dati per il 2015». Ora che è diventato il paladino della piccola impresa, quale sarà la prossima mossa? «Ho deciso di fondare un'associazione: si chiamerà AgiReagire: anche quando la situazione sembra senza uscita, non bisogna mai perdere la speranza».

"Io, usato e dimenticato dai gialloverdi". L'imprenditore fallito per colpa dello Stato era stato osannato da Lega e M5s, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 07/09/2018 su "Il Giornale". Sergio Bramini, l'imprenditore fallito per colpa dei crediti mai pagati dallo Stato italiano, è stato per qualche giorno l'uomo simbolo dell'intesa politica tra Lega e M5s. A maggio, vincitori incontrastati delle elezioni ma non ancora ministri, i due leader Salvini e Di Maio erano andati a trovare personalmente (con corteo di parlamentari al seguito) l'imprenditore monzese, indicandolo come l'emblema dello Stato da cambiare con il nuovo corso gialloverde. «Questo simbolo - spiegò Di Maio - deve lavorare con noi al governo perché lo Stato possa smettere con questo genere di assurdità» spiegò Di Maio, annunciando che Bramini sarebbe diventato un suo consulente al ministero dello Sviluppo economico, perché con i grillini al governo «adesso lo Stato siamo noi». Finita la coreografia da inizio di governo, però, le cose sembrano aver preso una piega diversa per Bramini. Che è sì stato nominato dal ministro Di Maio come uno dei propri consulenti, ma con un ruolo a dir poco evanescente. Lo spiega direttamente Bramini (che nel frattempo, fallito e sfrattato per colpa dello Stato italiano, si deve arrangiare come agente di generi alimentari a pochi spiccioli) in una intervista a Panorama. Quando il settimanale gli chiede dell'impegno al ministero con Di Maio, l'ex imprenditore non ne vuole parlare («lasciamo perdere») e solo dopo insistenti richieste si sfoga con l'intervistatore. «Le dico solo che a oggi non ho preso un quattrino. Ho lavorato un mese senza nulla, poi mi è stato fatto un contratto che è partito a fine luglio, ma non bastava neppure a coprire le spese. Ci rimettevo. Ora è stato ritoccato ma non mi resta in tasca un euro». A Bramini non è andata giù la grande parata fatta quando serviva un testimonial, seguita poi dal disinteresse: «Ricordo Salvini che mi dice Sergio se ti cacciano da casa chiamami e vengo subito. L'hanno chiamato cinque volte e non s'è visto. Né lui né Di Maio». Il grillino, poi, sembra essersene dimenticato completamente, tanto che Bramini due settimane fa ha minacciato le dimissioni da consulente. Ha provato a proporre una norma nel Decreto dignità ma gli hanno detto che non è possibile, «e lì mi sono incazzato come una bestia». Meno male che i grillini gli avevano raccomandato di non parlare con la stampa, ma lui non è il tipo, «io dico tutto, passo dopo passo».

Dopo Bramini a Le Iene: salvati un'azienda e 700 posti di lavoro, scrivono Le Iene il 18 ottobre 2018. Siamo tornati a parlare di Sergio Bramini, l’imprenditore fallito e sfrattato nonostante vantasse 4 milioni di crediti mai pagati dallo Stato, ora consulente del governo. Con Alessandro De Giuseppe abbiamo affrontato anche il caso della Dusty srl, che aveva 17 milioni di questi crediti. Il giorno dopo quest’azienda è stata salvata. Ieri, domenica 17 ottobre, abbiamo parlato del caso dell'azienda Dusty srl, che rischiava di fallire per 17 milioni di euro di crediti mai pagati dallo Stato. Oggi quest’azienda, il giorno dopo il nostro servizio, è stata salvata assieme ai 700 posti di lavoro degli operai che ci lavorano. Abbiamo parlato della Dusty, nel servizio di Alessandro De Giuseppe su “Bramini collaboratore del governo” (sopra, potete vederne un estratto, in fondo all'articolo ve lo riproponiamo completo assieme a tutti gli articoli che abbiamo dedicato al caso). Con la nostra Iena, abbiamo seguito per primi la storia di Sergio Bramini, l’imprenditore monzese fallito nonostante vantasse 4 milioni di euro di crediti mai pagati dallo Stato e poi pure sfrattato di casa. L’imprenditore, che aveva ricevuto la solidarietà dei futuri vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio ai tempi dello sfratto, è stato chiamato a collaborare in particolare con il ministro per lo Sviluppo economico Di Maio, capo politico del Movimento 5 Stelle. A 71 anni Bramini vuole ancora lottare, “perché non succeda ad altri quello che è successo a me”. Nel servizio andato in onda ci ha parlato di 300mila persone sfrattate che potrebbero tornare a casa, del suo impegno per una nuova legge sui fallimenti e di quello per le migliaia di aziende che, come è successo alla sua, rischiano di fallire perché lo Stato non paga i crediti dovuti. Abbiamo parlato così di uno dei casi più emblematici, quello della Dusty srl, un’azienda siciliana impegnata proprio come quella di Bramini nello smaltimento dei rifiuti. “Abbiamo lavorato per due anni senza ricevere uno straccio di pagamento”, racconta ad Alessandro De Giuseppe la titolare Rossella Pezzino De Geronimo. In tutto per 17 milioni di euro di crediti mai pagati dallo Stato che hanno portato la Dusty sull’orlo del fallimento. Bramini si è impegnato per la “certificazione” di questi crediti dovuti dallo Stato, che così potrebbero davvero essere conteggiati a bilancio e tornare alle aziende. Quelli della Dusty non sono stati certificati per l’opposizione del Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco. Alessandro De Giuseppe lo ha incontrato e ha cercato di parlargli, ma Daniele Franco si è chiuso nel più totale silenzio. Oggi, subito il giorno dopo il nostro servizio, è avvenuto “il miracolo”. Icrediti della Dusty sono stati riconosciuti, “certificati”, senza nessuna opposizione e andranno a finire in tasse da pagare. “L’azienda ora è salva assieme ai suoi 700 operai”, ci racconta felice al telefono Sergio Bramini. “Non solo, la Dusty, che opera a Messina, ha vinto un appalto anche a Catania e ora potrà dare lavoro lì ad altre 700 persone. Mi ha appena chiamato la titolare Rossella Pezzino De Geronimo. Mi ha detto in lacrime: Ci volevate te e Le Iene, grazie!”.

La vera storia di Sergio Bramini, l’imprenditore a cui lo Stato deve 4 milioni di euro, scrive il 18/05/2018 Giornalettismo. Sta succedendo un certo movimento in quel di Monza. Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sono schierati a fianco di Sergio Bramini, 70 anni, ex titolare della “Icom“, azienda operante nel campo della gestione rifiuti. Bramini è sotto sfratto. La sua Icom è fallita nonostante vantasse 4 milioni di crediti dalle pubbliche amministrazioni. Soldi che l’azienda di Bramini non ha mai visto.

IL FALLIMENTO DELLA AZIENDA DI BRAMINI. “Fallito per colpa dello Stato”, ha spiegato più volte l’imprenditore. Perché però è sotto sfratto? Partiamo dall’inizio. Ovvero dalla sua Icom. L’azienda era florida, ha vinto diversi appalti nel Sud Italia, in Sicilia e a Napoli per l’emergenza rifiuti. Tutti contratti con pubbliche amministrazioni. Dal 2005 però gli enti pubblici hanno smesso di pagare. E quando raramente lo facevano lo facevano col contagocce. L’azienda – che nel suo core business vantava perlopiù questa tipologia di clientela – inizia ad avere grosse difficoltà. Per 5, 6 anni circa Bramini paga l’Iva su fatture “mai riscosse”. Che fare? Dichiarare fallimento e licenziare i dipendenti o andare avanti? L’imprenditore decide di fare due mutui. Uno di 500 mila euro sulla casa. E un altro, di 500 mila euro sugli uffici. “Per pagare il gasolio e il personale”, spiega alle Iene che lo seguono da mesi.

Nel 2011 l’azienda fallisce. Al momento del fallimento il credito delle p.a oltrepassava i 4 milioni di euro. In particolare l’Ato di Ragusa aveva la fetta di pagamenti più alta. Giovanni Vindigni, ex presidente Ato Ragusa ambiente spiegò al tempo a Le Iene: “L’Ato era una società per azioni, i cui azionisti erano i comuni. Se il Comune non pagava l’Ato da chi poteva prendere i soldi?”. Giuseppe Nicosi, ex sindaco di Vittoria (paesino del ragusano) rigetta però la patata bollente del collega: “Inadempienze? Si pagava. C’erano dei ritardi, come è nell’ambiente”.

“Ho venduto la Mercedes e quando ho avuto quei contanti li ho divisi con i miei dipendenti”. Bramini a Le Iene, ottobre 2017.

Ok, ci siete? Perché qui le cose si complicano. Il curatore fallimentare spiega a Bramini che doveva fallire prima e mandare tutti a casa. Andando avanti così per anni, in mezzo alle insolvenze altrui, avrebbe procurato un danno all’azienda pari a circa “un milione di euro”. Soldi che ora il Bramini deve. In pratica si risale così ai 500 mila euro chiesti sulla casa e quegli altri 500 mila euro di mutuo fatto sugli uffici. Il curatore fallimentare braccato da Le Iene ribadisce che Bramini ha sbagliato ma non fornisce ulteriori informazioni.

MA TORNIAMO ALLA CASA DEL BRAMINI. Come è stato chiesto il mutuo sulla casa di Bramini? A chiarire le cose è il Tribunale di Monza che ha scritto a Le Iene per il secondo servizio. L’immobile era intestato a Bramini e poi alla moglie (separata). A Monza si procede con lo sfratto sull’immobile pignorato da una banca con cui anni fa la Icom stipulava un contratto di mutuo. Contratto con cui Bramini da garanzia ipotecaria. Garanzia che per legge “dà diritto al creditore al creditore di agire direttamente sull’immobile ipotecato di fronte alla mancata restituzione del mutuo”.  La procedura di fallimento di Icom, spiegano da Monza, non è il fallimento personale del signor Bramini. A ciò si aggiunge il Tribunale di Milano, che invece segue il fallimento della società, e che ha dichiarato inefficace il cedimento dell’immobile alla moglie dell’imprenditore. Da Monza dichiarano la loro estraneità sulla procedura di fallimento seguita dei colleghi di Milano e spiegano che, per legge, non si poteva fare altrimenti. Nel servizio de Le Iene Bramini punta il dito sulla gestione del curatore. Anche perché la certificazione dei crediti, prevedibili per legge, non è stata chiesta. E così il tutto (inclusi i materiali di azienda) è stato svenduto e i debiti sanati con riduzioni consistenti. Lo sfratto è stato anticipato al 18 maggio, perché il primo giugno, a causa della Festa della Repubblica dell’indomani, le forze dell’ordine potrebbero essere sotto organico. Bramini intanto si è appellato anche alla neopresidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Finora inutilmente. La casa è stata scelta come domicilio parlamentare dal senatore Gianmarco Corbetta (M5S) e di un altro parlamentare leghista. Un tentativo questo, l’ultimo, per impedire uno sfratto su cui c’è già stato un rinvio.

LE MINACCE AI MAGISTRATI DI MONZA. I servizi de Le Iene e l’attenzione dei mass media hanno smosso critiche in rete. Perfino minacce, secondo quanto denuncia la sezione di Monza dell’associazione nazionale magistrati all’agenzia Ansa. L’associazione – in una nota – ha parlato di una eccessiva pressione mediatica sulla vicenda. “Non possiamo accettare che i singoli giudici siano oggetto di pressioni mediatiche volte a ostacolare il regolare corso del processo – si legge nella nota – attuate attraverso campagne denigratorie, che ledono la libertà personale del singolo e offendono l’intera magistratura monzese”. Secondo l’associazione dei magistrati “campagna mediatica” avrebbe l’intenzione di “condizionare l’attività dei giudici della terza sezione civile del Tribunale di Monza”. I magistrati hanno ribadito di non voler limitare il diritto di informazione, ma allo stesso modo “garantire l’opinione pubblica sul fatto che i Giudici di questo Tribunale esercitano e continueranno a esercitare le proprie funzioni con serenità e trasparenza, nel rispetto della legge, respingendo coercizioni di qualsiasi provenienza”. Ribadiscono “la regolarità delle procedure attuate dagli uffici preposti all’esecuzione”. Hanno precisato che “tutti i magistrati, e in particolare quelli che si occupano delle esecuzioni forzate, son ben consapevoli dei drammi umani di coloro che si trovano a subire l’esproprio della propria abitazione a causa di eventi sfortunati”. Tuttavia “non possono sottrarsi al dovere di applicare la legge”.

Banche e Stato contro cittadini: la parola di Bramini al LUC di Manfredonia, scrive Antonio Raffaele La Forgia su manfredonianews.it il 27 ottobre 2018. Ieri, al LUC, si è parlato di difesa dei cittadini che hanno debiti bancari nonostante siano creditori nei confronti della pubblica amministrazione. Il convegno – o “l’incontro tra amici” come ha preferito chiamarlo il nostrano On. Antonio Tasso durante il suo saluto al pubblico – è stato fortemente voluto dal gruppo locale dei 5S coadiuvati da una piccola delegazione leghista cittadina. Oltre 100 i partecipanti che erano lì per ascoltare Sergio Bramini, uomo simbolo della lotta, e chi come lui ha potuto contribuire al dibattito con la propria esperienza. Bramini è un imprenditore del milanese classe ’47 balzato alle cronache nazionali per le sue vicissitudini; vantava 4 milioni di euro di crediti nei confronti dello Stato, cosa che non ha dissuaso lo stato stesso a sfrattarlo da casa sua, il 18 maggio 2017, con l’intervento di ben 60 agenti in tenuta antisommossa. La sua storia è simile a quella di molti imprenditori, una storia fatta di leggi che spingono all’usura bancaria a scapito dei civili. Sono le leggi che Bramini sta modificando da quando il governo gialloverde lo ha voluto come consulente al Ministero dello Sviluppo Economico per dare un chiaro segnale di meritocrazia ai cittadini italiani. Dopotutto chi può conoscere il peso della burocrazia e della giustizia meglio di chi ne è stato vittima? Bramini, durante il suo intervento, è stato sintetico quanto chiaro: leggi come la Renzi-Boschi (“legge sulle esecuzioni e già il nome parla chiaro”, ha detto) prevedono 500.000 sfratti nei prossimi 6-8 mesi che colpiranno gravemente circa 135.000 famiglie. “E il sud sarà la zona più colpita”, ha confessato. “Mi chiedo che Paese stiamo diventando”, ha concluso il consulente del MiSE, al netto di un’Italia che sfratta i malati terminali, si accanisce contro i piccoli imprenditori e gli artigiani e sfrutta il lavoro del privato nel settore pubblico “dimenticandosi” di liquidare le fatture. Un’Italia che resta indietro rispetto alle altre nazioni che hanno capito che il benessere del cittadino, ogni singolo contribuente, è fondamentale per il progresso della nazione intera.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA BANCARIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SPECULOPOLI.”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

L'usura bancaria. Da wikipedia. L'usura bancaria è una fattispecie normativa introdotta dall'Art. 644 del Codice penale italiano ed è stata riformulata dalla Legge n. 108 del 7 marzo 1996, che ha apportato profonde innovazioni e modifiche in materia di usura nell'ordinamento giuridico dell'Italia.

Descrizione. La norma ha ridefinito il quadro complessivo descritto dalla fattispecie incriminatrice affiancando ai parametri puramente soggettivi, previsti dalla vecchia formulazione, nuovi parametri cosiddetti "oggettivi". L'intervento del legislatore, ha contribuito ad ampliare, in maniera notevole, l'ambito di applicazione del reato di usura, e conseguentemente l'area di tutela offerta dalla norma. Essa non è più relegata ad operare esclusivamente nei casi in cui sussista lo "stato di bisogno" del quale taluno abbia "approfittato" conseguendo vantaggi per sé o per altri, ma opera anche ogni qual volta il limite (cosiddetto Tasso Soglia d'Usura) posto dall'art. 2 della stessa L. 108/96 venga superato. Pertanto, quella che era una norma destinata ad offrire tutela in casi estremi, nell'ambito dei quali l'usura costituiva, nella pratica, l'anello di una catena di fattispecie delittuose spesso complesse e più gravi, grazie all'intervento legislativo del 1996, ha acquisito una diversa rilevanza. Il legislatore ha infatti inteso delineare un importante ed oggettivo discrimine tra il lecito e l'illecito nel settore dell'erogazione del credito. Resta però oggetto di critica il fatto che il reato sia indirizzato a sanzionare solo la condotta soggettiva dell'autore persona fisica, senza estendersi all'ente di cui egli è dipendente o preposto e che, oggettivamente, si avvantaggia dell'usura percependone i proventi: a tal fine è stata avanzata la proposta di estendere a questo tipo di reato la disciplina, sopraggiunta nel 2001, della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

Situazione precedente. Prima dell'introduzione della nuova norma, modalità e termini relativi all'erogazione del credito ed il costo del denaro erano rimessi alla volontà delle parti: ovviamente la parte contrattualmente più forte era nella situazione di poter dettare termini e condizioni in maniera arbitraria, stante l'assenza di regole, sanzioni e conseguenti responsabilità. Con tale liberalità di mercato, in assenza di regole specifiche, era frequente, possibile e legale, che l'erogatore del credito addebitasse costi elevati al cliente e pertanto la L.108/96 ha colmato una lacuna normativa. La norma è volta a sanzionare la condotta di chi (banche ed operatori finanziari), a fronte di operazioni di erogazione di credito, applichi "commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e [...] spese, escluse quelle per le imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito" (Art. 1 L. 108/96) superiori al limite determinato dall'Art 2 della L. 108/96 (Tasso Soglia d'Usura ), il principale ambito di operatività della disciplina è costituito dai conti correnti, dai mutui e da altre operazioni di finanziamento e credito.

Usura in conto corrente. L'Usura in conto corrente è determinata dai costi addebitati al correntista, connessi alle operazioni di erogazione del credito, ai sensi dell'art. 1, comma 3, L.108/96: Per la determinazione del tasso d'interesse usurario si tiene conto, delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del credito.

Determinazione dei Tassi Soglia. Il costo del denaro deve, dunque, essere contenuto entro il limite del Tasso Soglia d'Usura (TSU) pubblicato trimestralmente sulla Gazzetta Ufficiale, determinato dal Legislatore (art. 2 L. 108/96) sulla base del T.E.G. (Tasso Effettivo Globale) medio applicato dagli istituti di credito e rilevato trimestralmente dalla Banca D'Italia. Per la determinazione sono necessari, oltre al tasso d'interesse effettivamente applicato (TAEG), dati tra i quali alcune informazioni inerenti a costi non immediatamente rilevabili, ma deducibili tramite calcoli matematici come gli interessi generati dall'applicazione della valuta, gli interessi generati dall'anatocismo, gli interessi generati dall'addebito della Commissione di Massimo Scoperto ed anche le spese.

Mutui ed altri finanziamenti. In seguito alla riforma operata dalla L. 108/96, ed all'abbattimento dei tassi d'interesse negli anni successivi, si creava una situazione per cui i mutui contratti prima del 1996 sarebbero divenuti usurari. Inoltre, i tassi di interesse in essi previsti, in seguito alla riforma avrebbero superato il tasso soglia usura, e conseguentemente l'usurarietà del mutuo avrebbe consentito al mutuario (colui chi accende il mutuo) di invocare l'applicazione dell'art. 1815, comma 2 C.C.: Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. Inoltre, tale circostanza avrebbe consentito al mutuario di chiedere ed ottenere la restituzione di quanto versato in eccedenza.

Decreto "Salva Banche". Per evitare gravi ripercussioni nel sistema bancario e creditizio italiano, si ritenne opportuno varare il D.L. n. 394/2000, successivamente convertito nella legge n. 24/2001, noto, ai più, come Decreto Salva Banche. Tale norma è intervenuta ad arginare la situazione che si sarebbe potuta creare a seguito dell'applicazione della L. 108/96, mediante la previsione dell'art. 1, comma 1 L. 24/2001, il quale dispone che Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, secondo comma c.c. si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal loro pagamento. Tuttavia, al fine di non pregiudicare i diritti dell'utenza creditizia mediante tale disposizione (cosiddetta di interpretazione autentica) proprio in considerazione dell'inaspettata caduta dei tassi di interesse verificatasi in Europa e in Italia, il legislatore stabilì un Tasso di sostituzione, fissato per l'8% per i mutui sulla prima casa fino a 150 milioni di lire, a favore di tutti coloro i quali avevano stipulato un mutuo a tasso fisso prima dell'aprile 1997.

Decreto Sviluppo. Nel 2011 è stato emanato un Decreto attuativo detto "Decreto Sviluppo": è stato constatato che finora le banche erano soggette ad un limite sui tassi di interesse che potevano applicare al mutuo; il cliente poteva, nel caso avesse riscontrato un possibile tasso d'usura, rescindere il contratto, anche se da tempo, gli istituti di credito non accettavano molto volentieri questo vincolo ritenendolo leonino. Ora per effetto del Decreto Sviluppo questo limite è stato innalzato. In sintesi cambia il metodo per il calcolo del tasso di usura, prevedendo che la soglia venga definita aumentando del 25% il tasso medio rilevato con l'aggiunta di un ulteriore 4%. Inoltre, la norma fissa un differenziale massimo tra tasso soglia e tasso medio pari all'8%.

USURA BANCARIA. IMPORTANTE SENTENZA IN CASSAZIONE. Scrive l'1 novembre 2018 agoranews. Importante vittoria di un utente contro la banca in Cassazione con la Suprema Corte che bacchetta anche giudici di merito e la Banca d’Italia che disattendono alcuni principi che dovrebbero essere cristallizzati da tempo in tema di usura bancaria. Per i Giudici di Piazza Cavour con l’ordinanza 27442/18, pubblicata il 30 ottobre dalla terza sezione civile, infatti, dev’essere dichiarato nullo il patto con cui si convengono interessi convenzionali moratori che alla data della stipula vanno oltre il tasso soglia indicato dalla normativa antiusura per il tipo di operazione cui si riferisce l’accordo. La ragione sta nel fatto che la legge 108/96 non distingue fra interessi corrispettivi e moratori nel comminare la nullità. Analogamente ciò per l’ampia formula degli articoli 644 Cp e 1 del decreto legge 394/00. D’altronde anche lo stesso organo amministrativo ammette in modo esplicito che gli interessi moratori sono soggetti alla normativa antiusura nella circolare del 3 luglio 2013. Accolto il ricorso di una società che aveva stipulato un leasing e del fideiussore, che si vedono riconosciute le proprie ragioni dopo una doppia sconfitta innanzi al Tribunale di Milano e alla Corte d’Appello lombarda. Non sono persuasive le argomentazioni dei giudici di primo e secondo grado che escludono la nullità sul rilievo della diversità «ontologica» fra interessi corrispettivi e moratori. La tesi sostenuta è che gli uni remunerano un capitale, gli altri costituiscono una sanzione convenzionale e una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall’inadempimento e dunque assimilabili alla clausola penale. Ancora in quanto i primi sono necessari e con fine di lucro e i secondi eventuali e sono necessari al risarcimento. Ma la distinzione non vale comunque a giustificare una diversa disciplina sul piano dell’usura, che sarebbe sistematica e contrastante con la ratio della legge 108/96, oltre che «con una esperienza giuridica millenaria». A nulla vale, peraltro, che la normativa non comprenda l’obbligo di rilevare il saggio convenzionale di mora medio: la legge 108/96 risulta infatti fondata sulla rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto e risulta incompatibile con la rilevazione dei tassi medi per tipo di titolo giuridico. Le parti, poi, possono avvalersi o meno della facoltà di derogare al tasso legale previsto dall’articolo 5 del decreto legislativo 312/02 per le transazioni commerciali: il sistema della legge, quindi, è in sé razionale. Infine, i giudici di legittimità aggiungono che l’applicazione dell’articolo 1815, comma secondo del codice civile agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, perché la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa. In definitiva, di fronte a interessi convenzionali moratori usurari e alla nullità della clausola, è ragionevole attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale. Si tratta di una decisione molto importante non solo per la ricostruzione storico-giuridica della questione, ma anche perché pone un punto fermo su una questione dibattuta che spesso vede soccombenti nelle aule di giustizia di merito gli utenti che hanno lamentato tassi superiori a quelli legali a causa di un’interpretazione restrittiva che non avrà più senso di essere data quella odiernamente dalla Cassazione.

Usura bancaria e anatocismo: quello che c’è da sapere. Non sono poi così rari i casi di cittadini consumatori che si ritrovino ad avere problemi con le banche per quanto riguarda il calcolo degli interessi su altri interessi già maturati, scrive la Redazione di Varesenews.it il 13 luglio 2018. Non sono poi così rari i casi di cittadini consumatori che si ritrovino ad avere problemi con le banche per quanto riguarda il calcolo degli interessi su altri interessi già maturati. Una casistica che viene identificata con il termine tecnico di anatocismo. La Corte di Cassazione ha più volte etichettato tale pratica come illegale e in Italia si è cercato di regolamentarla spesso, soprattutto sotto la spinta delle varie associazioni a difesa dei consumatori. È del 2014 il primo tentativo di mettere questa pratica al bando con una norma precisa anti anatocismo, che è stata poi modificata prevedendo che il calcolo di interessi sugli interessi sia legale solo se a monte vi sia un accordo tra creditore e debitore. Perché in sostanza chi chiede un prestito con un tasso di interesse e non va poi a restituirlo, si vede calcolare le rate da restituire non più sulla somma iniziale ma su quella comprendente in tasso: ad esempio quindi, richiedendo la somma di 1.000 euro con un tasso di interesse del 2%, con l’anatocismo la cifra da restituire prevederà interessi non calcolati sui 1.000 euro bensì sui 1.200. E dall’anno successivo, il calcolo non sarà più sui 1.200 ma sui 1.440 e così via. Un meccanismo che genera una spirale di soldi e che spesso viene identificato anche con il termine di usura bancaria. Con la legge del 2014 come detto, si è tentato di porre un argine stabilendo che l’anatocismo bancario è possibile solo quando venga espressamente dichiarato e che vi sia un limite oltre il quale gli interessi sono ritenuti usurai. In sostanza quindi qualsiasi interesse sia ritenuto superiore a quello indicato dalla legge, noto come tasso di soglia, è inquadrato nella definizione di usura bancaria. Fattispecie che va ovviamente a costituire un reato. Una pratica che spesso è stata fatta passare in cavalleria per via della scarsa conoscenza che si aveva di questa materia con il risultato che, negli anni passati, diversi utenti si sono ritrovati a dover pagare somme stratosferiche. Oggi il tema è diventato per fortuna di dominio pubblico e sono tante le realtà, soprattutto associazioni a tutela del consumatore, che vanno a fornire un sostegno a chi incorra in problematiche di questo genere. L’ultima modifica alla norma è datata 2016 e parla di divieto di produrre altri interessi su interessi debitori maturati “salvo quelli di mora”. L’unica eccezione in materia di anatocismo bancario è quindi quella legata a interessi di mora per i quali si vanno ad applicare le disposizioni del codice civile.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA ASSICURATIVA (RCA). 

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SPECULOPOLI.”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Assicurazioni, il business dei sinistri cresce nonostante la congiuntura. Il suo segreto? Il risarcimento può attendere. Secondo le stime della stessa lobby degli assicuratori, l'Ania, le compagnie hanno archiviato il 2017 con quasi 32 miliardi di premi raccolti nel ramo danni (+1%). La vigilanza, intanto, tiene il conto dei reclami dei consumatori (90 gli esposti al giorno nel 2016) e della loro fondatezza (almeno uno su tre). Il quadro finale è di una strategia di business molto più cristallina di quel che non sembrerebbe a un occhio distratto: gli affari riprendono quota principalmente grazie a due fattori: la mano pubblica e la distrazione del consumatore, scrivono F. Capozzi e G. Scacciavillani il 4 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Quello appena concluso sarà ricordato come un altro anno di discreti guadagni per il ramo danni delle compagnie assicurative italiane che, ancora una volta, dovrebbero essere riuscite a far quadrare i conti tra il calo fisiologico del mercato Rc Auto e i propri doveri di risarcimento. E il 2018, grazie anche all’ultima Legge di Bilancio, promette ancora meglio. Vallo a dire ai consumatori, che sempre più spesso devono armarsi di ostinazione e pazienza per ottenere i dovuti risarcimenti. A tracciare i confini di un business che si sta reinventando facendo slalom tra le necessità dei consumatori e quelle degli azionisti, va precisato, non è il Codacons, bensì la stessa lobby degli assicuratori, l’Ania. Secondo le stime dell’associazione delle compagnie, le assicurazioni hanno archiviato il 2017 con quasi 32 miliardi di premi raccolti nel ramo danni (+1%), mentre la vigilanza tiene il conto dei reclami dei consumatori (90 gli esposti al giorno nel 2016) e della loro fondatezza (almeno uno su tre). Ne emerge un quadro in cui la strategia di business è molto più cristallina di quel che non sembrerebbe a un occhio distratto: gli affari riprendono quota principalmente grazie a due fattori: la mano pubblica e la distrazione del consumatore.

GLI AFFARI RIPRENDONO QUOTA – Un esempio per tutti: dal 2009 al 2016, sul mercato italiano si è assistito a un aumento esponenziale aumento dei guadagni delle compagnie sia pure in un contesto di redditività più basso rispetto a Paesi come la Germania o la Gran Bretagna. A fronte di una flessione di oltre 4 miliardi dei premi danni, a parità di costi di gestione, le compagnie nella Penisola hanno potuto contare su un calo di circa 8 miliardi alla voce importi liquidati e da liquidare (oneri relativi a sinistri) con un contestuale aumento dei guadagni di poco inferiore ai 3 miliardi. Sempre secondo l’Ania, nel solo 2016 i guadagni netti del settore danni sono ammontati a 2,1 miliardi su un totale di premi incassati (riassicurazione esclusa) di quasi 30 miliardi a cui sono corrisposti 18,7 miliardi di sinistri liquidati o potenzialmente liquidabili. Da notare che sulla base delle regole europee sulla contabilità delle compagnie, la cifra include anche i contenziosi di cui però non c’è il dettaglio né nei dati Ania né nei bilanci delle società. Il risultato è che a spanne esiste una differenza di quasi 11 miliardi tra quanto incassato e quanto potenzialmente pagato dalle compagnie. Di questa somma circa 8 miliardi se ne vanno in spese di gestione e 3 restano in tasca alle società.

ARRIVANO I PRIMI FRUTTI DELLE NOVITA’ NORMATIVE – L’Ania, nelle sue stime sul 2017 nota “un rallentamento dei tassi di riduzione dei premi del ramo r.c. Auto” accompagnato da “un ulteriore sviluppo di tutti gli altri rami danni”. Ovvero salute, casa, rischio di perdita del posto di lavoro e attività professionali (+2,9% a quasi 19 miliardi). In particolare il ramo malattia, il secondo dopo l’Rc auto, farà la parte del leone con un tasso di crescita del 7%, “come conseguenza di una maggiore domanda di copertura per i rischi legati alle spese mediche e interventi chirurgici, soprattutto di polizze collettive legate a strumenti di welfare integrativo aziendale; il volume dei premi di questo ramo supererebbe i 2,5 miliardi a fine anno”, come spiega il rapporto Ania sull’Assicurazione Italiana 2016-2017. Che conferma così come il merito della crescita del mercato delle assicurazioni danni non auto sia quindi in buona parte ascrivibile agli ultimi due ultimi governi. Alla fine del 2016 l’esecutivo di Matteo Renzi ha infatti introdotto importanti incentivi a favore del welfare aziendale sottraendo un miliardo di risorse alle casse pubbliche e favorendo lo sviluppo di polizze sanitarie ad hoc come chiesto dalle compagnie. Roma ha poi anche deciso di rendere obbligatorie alcune assicurazioni professionali. E’ il caso dei medici e delle strutture sanitarie e più recentemente degli avvocati. Infine il governo Gentiloni ha completato l’opera con l’ultima legge di Bilancio in cui ha concesso detrazioni (19%) a partire dal 2018 sulle polizze per la casa contro le calamità naturali.

I CONSUMATORI VOGLIONO SODDISFAZIONE – Le compagnie, però, stando ai dati snocciolati dall’Ivass non ringraziano. Almeno, non direttamente. Se infatti nelle città italiane fioccano ricche sponsorizzazioni come l’illuminazione natalizia della galleria milanese targata Unipol, i centralini dell’Ivass sono letteralmente intasati di telefonate dei consumatori. Gli esposti presentati nel 2016 all’autorità di vigilanza sull’attività delle compagnie assicurative, che ha ricevuto 130 chiamate al giorno per lamentele dei consumatori sulle polizze assicurative, sono stati oltre 21mila, quasi 90 per giorno lavorativo. Principalmente in relazione al ramo danni e, in particolare, alle polizze Rc Auto (18.699, pari all’87% del totale). Il dato sale fino a quota 120.435reclami se si considerano tutti gli esposti che hanno raggiunto le compagnie italiane nel 2016. E segnala una flessione (5,3% per Ivass e 1,7% per le imprese del settore) rispetto ad un anno prima, ma dimostra in maniera inequivocabile come il rapporto tra cittadini e compagnie assicurative sia tutt’altro che pacifico. E questo nonostante i premi pagati dai primi continuino ad essere fonte di discreti guadagni per gli assicuratori, che pure in questi anni stanno beneficiando di una discreta mole di “stimoli” pubblici.

QUESTIONI DI TIMING – Però quando viene il loro turno di pagare sono abilissimi a prendere tempo. Non a caso del totale dei reclami, più di un terzo (6.971, il 36,7%) sono poi totalmente accolti dall’azienda e il dato sale ancora se si considerano anche i reclami solo parzialmente accolti dalle imprese (3.163 casi, il 16%). Segno che, dopo un’iniziale resistenza ad accogliere le istanze dell’assicurato, la compagnia si vede costretta a ricredersi. Ma intanto ha guadagnato tempo e risparmiato denaro. Già, perché ovviamente i ricorsi vertono principalmente su questo: “I consumatori lamentano, in primo luogo, ritardi e inefficienze nelle procedure di gestione e liquidazione dei sinistri”, scrive l’Ivass nella relazione annuale 2016. Notevole, poi, il fatto che “i reclami riguardanti il sistema di risarcimento diretto – nel ramo danni – evidenziano un incremento dell’8,7%, passando da 4.991 a 5.424, mentre per i sinistri r.c. auto gestiti in base alle regole del risarcimento ordinario si registra una flessione del 18,1%, pari a oltre 400 reclami”, evidenzia l’autorità di vigilanza. Che certifica come il pomo della discordia, nel 72,8% dei casi, sia la liquidazione del danno, cioè il momento in cui realmente la compagnia assicurativa deve svolgere il suo ruolo di soggetto incaricato di coprire il rischio per cui è stato pagato un premio.

I PROBLEMI INIZIANO QUANDO SI TRATTA DI PAGARE – “Dall’analisi dei reclami è emersa anche per il 2016 una rilevante concentrazione dei motivi di insoddisfazione dei consumatori nel ramo r.c. auto e in particolare nell’area liquidativa, per ritardi nella liquidazione dei risarcimenti dei danni e per la non corretta evasione delle richieste di accesso agli atti dei fascicoli di sinistro”, si legge nell’ultima relazione annuale della vigilanza. Questo vuol dire che i consumatori accusano le compagnie di pagare in ritardo e/o di essere poco trasparenti quando invece sarebbero tenute e motivare chiaramente le proprie decisioni in tema di risarcimenti. Ed è proprio per queste note dolenti che l’Ivass è intervenuta su alcune assicurazioni con una lettera datata 15 dicembre 2016in cui le compagnie sono state “richiamate a rivedere entro il 30 aprile 2017, anche attraverso l’analisi dei reclami, i propri processi liquidativi, a riformulare i testi delle comunicazioni di diniego”.

LA STRIGLIATA DELL’IVASS – La missiva nasceva infatti in scia ai molteplici reclami sul rifiuto dei risarcimenti Rc auto “senza adeguata motivazione. Le imprese si limitavano, nei casi rilevati, a contestare al danneggiato in modo generico il nesso di causa tra i danni subiti e l’evento denunciato, senza alcun riferimento ai risultati dell’istruttoria (perizie sui veicoli; testimonianze; dati della scatola nera presente sul veicolo; ecc.) e agli specifici motivi di incoerenza riscontrati. In questo modo i danneggiati non sono in grado di conoscere i reali motivi che escludono il risarcimento del danno, con conseguente malcontento e contenzioso con l’impresa”. La questione non è di lana caprina: come si fa a contestare un mancato risarcimento se non se ne conoscono le motivazioni? Non a caso gli esperti come Massimo Quezel se ne ricordano raccomandando ai consumatori di non mollare e di attenersi a tre semplici regole in tema di assicurazioni: 1) Ricordati sempre che esiste un organo di vigilanza sull’operato delle compagnie di assicurazione che si chiama Ivass e può irrogare sanzioni anche di importo considerevole. Perciò, se del caso, fai sentire la tua voce: gli ostruzionismi ingiustificati non vanno tollerati; 2) Anche se il tuo è un micro danno, non rinunciare mai a far valere i tuoi diritti soprattutto se sei vittima di un colpo di frusta ben documentato e, tuttavia, respinto dall’assicurazione; 3) Ricordati che esistono molti strumenti per tutelare i propri diritti anche in via processuale, ma non solo. La causa civile è uno soltanto dei possibili rimedi contro l’inerzia delle compagnie assicurative. Ci sono anche altri istituti come l’accertamento tecnico preventivo, la negoziazione assistita, il procedimento sommario. Se anche i tempi si dilatano, una pratica ben gestita ti porterà, alla fine, al traguardo voluto.

Rc-auto e reclami: ecco le 10 compagnie con cui si litiga di più, scrive Ettore Cera il 19 maggio 2018 su ilsalvagente.it. Si paga a caro prezzo e spesso si litiga pure tanto. La Rc-auto continua ad essere una delle principali “scocciature” degli automobilisti italiani. L’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, come d’abitudine ha pubblicato gli ultimi dati (anno 2017) sui reclami ricevuti dalle singole compagnie di assicurazione e non è difficile valutare le aziende con le quali gli utenti litigano di più. Vuoi per ritardi nella liquidazione del danno, vuoi per la mancata attribuzione della classe giusta, vuoi per l’esosità dei premi, gli assicurati oltre a pagare le polizze tra le più care d’Europa spesso ricevono un servizio non adeguato. E presentano reclamo. Lamentele in diminuzione ma…. Complessivamente nel 2017 (considerando sia il ramo danni che quello vita) le lamentele degli utenti si sono ridotte del 13,7% rispetto al 2016. Le imprese di assicurazione italiane ed estere (che operano in Italia) hanno ricevuto complessivamente 103.974 reclami, di cui 49.896 (48%) relativi al ramo rRc-auto auto, 34.694 (33,4%) agli altri rami danni e 19.384 (18,6% del totale) ai rami vita... la Rc-auto fa sempre litigare. Se ci concentriamo sui reclami Rc-auto e prendiamo quelli ricevuti ogni 10mila contratti sottoscritti possiamo vedere quali sono le 10 compagnie peggiori:

DONAU VERSICHERUNG AG VIENNA INSURANCE GROUP (68 reclami ogni 10mila contratti)

VERTI ASSICURAZIONI – Ex Direct Line (66)

LE ASSICURAZIONI DI ROMA – MUTUA (45)

ADMIRAL INSURANCE COMPANY LIMITED (36)

AXA GLOBAL DIRECT SEGUROS Y REASEGUROS S.A.U. (35)

ZURICH INSURANCE COMPANY LTD (31)

AXA MPS ASSICURAZIONI DANNI (29)

GENERTEL (26)

ARISA ASSURANCES (24)

LINEAR (21)

Come si evince nella top ten ci sono ben 4 leader delle assicurazioni on line (Verti, Genertel, Zurich e Linear) segno che non sempre il servizio delle assicurazioni “dirette” si distingue in positivo.

DECRETO "FUFFA". Assicurazioni: a truffare non sono i meridionali ma le compagnie. Lo dice anche l'Antitrust, scrive Mario De Crescenzio su DUESICILIEOGGI il 14 gennaio 2014 su identitainsorgenti.com. Negli ultimi tempi il rapporto assicurato/compagnia assicurativa, in materia RCA AUTO, è diventato tremendamente complicato, problematico ed oneroso (per una sola delle due parti naturalmente). Tutto nasce venti anni fa circa con la cosiddetta liberalizzazione delle tariffe che avrebbe dovuto favorire la concorrenza tra le imprese assicurative, concorrenza di cui avrebbero dovuto beneficiare gli assicurati, ma che in realtà è diventata l’occasione per le compagnie di fare utili a spese degli assicurati stessi. Come si è potuti arrivare a ciò? Innanzitutto diamo atto alle compagnie assicurative di essere state molto scaltre nell’ aver saputo girare a proprio favore qualcosa di negativo per loro e che avrebbero dovuto contrastare nelle sedi di pertinenza, ovvero le truffe. Nessuno nega tale fenomeno, ma il fatto di non averle contrastate in alcun modo per anni nelle sedi preposte, per poi argomentare che le tariffe al Sud, ed in particolare a Napoli ed in alcune altre zone della Campania, erano lo specchio della disastrosa situazione legata al proliferare delle truffe in quelle zone, dà l’idea del disegno strategico da parte delle compagnie cui accennavamo poc’anzi. Se poi, come accade il più delle volte, le truffe cui fanno riferimento le compagnie sono solo presunte poichè ritenute tali all’ interno dei loro uffici di liquidazione e non certificate da organismi terzi, delegati dalla legge a farlo, il disegno più che strategico dà l’idea del diabolico poichè a causa di ciò il risultato per gli assicurati, quelli Meridionali in particolare, è quello di aver visto in questi vent’ anni decuplicato il costo della polizza RCA AUTO. Naturalmente in questa situazione sono da sottolineare i demeriti di una classe politica alternatasi al governo nel periodo sopraindicato, che se non è complice è quantomeno compiacente nei confronti delle suddette strategie dell’ ANIA dal momento che questi ultimi, sfruttando sempre l’argomento truffe, hanno fatto in modo da farsi approvare una serie di leggi ad hoc, dal risarcimento diretto ( la tristemente famosa legge Bersani ), al decreto Liberalizzazioni del 2012, all’ ultimo decreto emanato circa un mese fa denominato, quasi si trattasse di una beffa, Destinazione It..ANIA, che hanno avuto l’ effetto nel tempo di veder compressi sempre più i diritti degli assicurati a favore dei portafogli delle compagnie che, per citare un solo esempio, nell’ ultimo anno hanno prodotto nel solo ramo RCA AUTO la ragguardevole cifra di circa 1,8 Miliardi di euro. E gli organismi di controllo, in Italia ce ne sono ben due IVASS (ex ISVAP) ed ANTITRUST, nel frattempo cosa fanno? Questi confermano quanto sopra riportato relativamente all’ argomento truffe come chiaramente indicato nell’ Indagine Conoscitiva N. 42 dell’ ANTITRUST, nella quale, oltre a certificare che pur pagando tariffe di gran lunga più elevate, Napoli è sinistrosa al pari di Milano quanto a numero di sinistri e a costo medio degli stessi, si dice a chiare lettere che “anzichè adottare adeguati strumenti di contrasto alle frodi, le compagnie preferiscono scaricare i costi delle stesse sugli assicurati “, ma pur in presenza di tali riscontri gli organismi di controllo si limitano semplicemente a multare le compagnie con importi risibili che oltretutto vengono a loro volta scaricati indovinate un po’ su chi. Eppure la normativa comunitaria europea, che ha imposto la liberalizzazione di cui sopra, prevede a chiarissime lettere la possibilità, da parte degli organismi di controllo degli stati membri, di ritirare le autorizzazioni ad operare nel ramo danni alle imprese assicurative nel caso di reiterati comportamenti scorretti nei confronti degli assicurati: alla luce della situazione attuale, se si applicasse tale disposizione, immaginiamo che non opererebbero più compagnie assicurative in questo paese. Ma non ci illudiamo che ciò potrà mai accadere almeno finche’ chi ci governa nominerà ai vertici di tali istituti, L’ IVASS in particolare, persone che provengono dal mondo delle compagnie assicurative, classico esempio di controllato che controlla il controllore. Pertanto, alla luce di quanto sopradescritto, una domanda nasce spontanea: Nel rapporto compagnia/assicurato, chi è il truffatore e chi il truffato? A noi sembra che il vero truffato sia il cittadino Meridionale onesto, costretto a pagare importi abnormi, alle volte addirittura più alti del valore stesso del veicolo da assicurare, e magari sentirsi dire dal suo assicuratore, di fronte alla sua sacrosanta protesta, “eh ma che volete voi a Napoli fate le truffe”. E’ proprio vero che anche in questo siamo tutti frateLli d’It...ANIA. Mario De Crescenzio

Rc auto: compagnie truffate o truffatrici? Presentate 400 denunce alla magistratura, scrive il 26 Aprile 2013 Bruno Rossi su goleminformazione.it. In dieci anni le tariffe sono aumentate del 250%. Le più care d’Europa. Truffe e troppi incidenti al sud, si giustificano le Compagnie. I napoletani, con l’associazione “Mo Bast!”, rispondono denunciando le assicurazioni per aggiotaggio. Chissà perché, ogni volta che mi accingo a scrivere un pezzo sulle Compagnie assicurative italiane (lo faccio da almeno vent’anni), specie se devo parlare della Rca, mi viene in mente Pinocchio alle prese col gatto e la volpe. Sarà un caso, ma non c’è una sola volta che si possa dire: “bene, le Imprese assicurative italiane hanno capito il valore sociale del (loro) servizio pubblico e, insieme alle associazioni dei consumatori, si sono fatte promotrici di regole, prodotti e prezzi a favore della collettività”. Al contrario sono sempre alla ricerca del sistema che tuteli meglio i propri interessi. Non che non sia legittimo che un’impresa guadagni, ma perché farlo a tutti i costi e con ogni mezzo?  Guardando alle imprese assicuratrici Machiavelli sarebbe soddisfatto: le Compagnie hanno fatto proprio il principio secondo il quale “il fine giustifica i mezzi”. Ma quale fine deve essere raggiunto?  E quali sono i mezzi? Proviamo a chiarirci le idee.  

Quando l’obbligo non c’era. Prima del 1969, prima, cioè, che nascesse l’assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore (nel 1957 circolavano 340.000 auto), lo scenario assicurativo era quello di una quindicina di Imprese, per lo più italiane, che faticavano non poco a vendere i propri prodotti. Le polizze erano poco più di un oggetto misterioso e la filosofia dell’assicurarsi era tutta da spiegare. Lo sanno bene i vecchi agenti che, però, a fronte di tanta fatica, percepivano laute provvigioni e avevano tutti i costi a carico dell’impresa mandante che li gratificava anche con premi di produzione. 

1970: Il boom delle polizze. Quando nacque, l’obbligo assicurativo coincise col boom economico dell’Italia che, da 1.600.000 auto circolanti nel 1959, fece registrare nel 1970 oltre 10 milioni di autoveicoli (oggi sono 42 milioni). Le Imprese non avevano che da fregarsi le mani… potevano spartirsi un cospicuo “bottino”. Le regole erano semplici ed uguali per tutti anche perché, come i prezzi delle polizze, erano imposti da una legge (L.990/69) che, col CIPE, decideva annualmente sugli eventuali aumenti: mai superiori al 2-3%. A sparigliare le carte e, lo scoprimmo dopo…, la tranquillità degli automobilisti, ci pensò la liberalizzazione del mercato impostaci da una direttiva europea, ma nel 1994, quando la liberalizzazione fu attuata, l’euforia che aveva galvanizzato le Compagnie nel ‘69 si trasferì ai consumatori i quali ritenevano (che ingenui…), che la concorrenza avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel ribasso dei prezzi. 

Il cartello delle Compagnie e le megamulte Antitrust. Non fu così, anzi… le Compagnie, al pari delle “sette sorelle”, arroganti signore del petrolio, fecero cartello, tanto che dovette intervenire l’Antitrust con una megamulta di 700 miliardi di lire comminata a 40 imprese (l’80% del mercato assicurativo): “Un vero e proprio "circuito informativo" che ha fatto sì che gli automobilisti pagassero l'assicurazione più cara”. Gli assicuratori - spiegò l'Antitrust- hanno stretto illecitamente l'intesa nel '93, cioè nel periodo immediatamente precedente alla liberalizzazione del settore. Una fase "particolarmente delicata", proprio "in un momento in cui si sarebbero dovute cogliere le nuove opportunità per uno sviluppo del mercato in senso concorrenziale". Con le stesse motivazioni, anche se per un ramo diverso,  l’Autority è intervenuta, in tempi più recenti (settembre 2011), con un’altra mega sanzione di 13 milioni di euro a carico di tre Compagnie: Gerling, Faro, Navale e dell’agenzia plurimandataria Primogest: “per avere attuato dal 2003 alla fine del 2008 un’unica e complessa intesa per spartirsi le varie procedure di affidamento di servizi assicurativi rami Responsabilità Civile Terzi (Rct) e Responsabilità Civile Operatori (Rco), decise da Aziende sanitarie locali e aziende ospedaliere campane”.

Discriminazione… razziale. C’è da stupirsi quindi se, pensando alle Compagnie, mi vengono in mente il gatto e la volpe? Ma non basta. Ci sono fatti ancora più gravi, molto più gravi, come le conseguenze delle bugie raccontate agli italiani per giustificare gli aumenti. Quelle conseguenze investirono e investono la Campania e tutto il sud Italia per arrivare a colpire l’intera nazione.  Per le imprese assicurative Napoli e il Sud sono un vivaio di truffatori tutti dediti ad architettare incidenti falsi o, bene che vada, a guidare senza un minimo di prudenza al punto da creare una quantità enorme di incidenti stradali, magari anche gonfiati. Da questo radicato convincimento, sono scaturite, come abbiamo detto, diverse gravissime conseguenze che stanno mettendo in ginocchio l’economia dell’intera “macroregione” del sud che assiste alla chiusura di aziende del settore dell’auto e moto e a tutto l’indotto. Sul piano assicurativo le Assicurazioni hanno determinato:

- rincaro abnorme dei prezzi delle polizze,

- rifiuto (di fatto) di vendere polizze,

- chiusura delle agenzie,

- chiusura di centri di liquidazione sinistri.

In pratica succede che, tanto per chiarire uno dei punti in elenco, un automobilista napoletano che guida con prudenza, non provoca mai incidenti e si trova, quindi, in prima classe, paga molto di più di un automobilista piemontese o valdostano altrettanto attento e prudente. Le due “prime classi” non sono uguali. E questo solo per il fatto di essere napoletani piuttosto che piemontesi o valdostani. Ora, anche ammesso per un attimo che la Campania e tutto il sud siano effettivamente quello che dicono le Compagnie, per i singoli cittadini prudenti e onesti, si tratterebbe di una vera e propria discriminazione razziale sulla quale non potrà non intervenire la commissione europea per i diritti dell’uomo.

Tariffe senza controlli. Provate a rispondere a queste domande:

- quante sono le truffe subite dalle Compagnie? 

- Quali cifre le imprese assicurative hanno dovuto sborsare per pagare sinistri falsi?  

Ovviamente non saprete rispondere, ma il problema grave è che non sanno rispondere nemmeno le Compagnie salvo riferire una generica percentuale che va da zero a 3%. Eppure è proprio questo dato, mancante o troppo generico, il maggior responsabile dei costi insostenibili delle tariffe Rca, a Napoli come a Milano o ad Aosta. Il problema vero sono le tariffe Rca: nessuno sa come siano costruite e nessuno controlla niente. Non dico che le Imprese assicurative debbano svelare le loro politiche aziendali, ma in nome della trasparenza dovuta ad un servizio di pubblica utilità com’è la Rca –obbligatoria-, che le Imprese siano almeno obbligate a dichiarare, come per i prodotti alimentari, “gli ingredienti”, cioè le voci che vanno a comporre le tariffe e, quando si tratta di truffe, che siano obbligate ad indicare quelle subite (e denunciate) con cifre assolute e in percentuale. Invece no, tutto viene lasciato al caso, all’anarchia, al mistero.  E’ questo il vero problema a cui nessuno pensa: non ci pensano le associazione dei consumatori, non ci pensa l’Antitrust e non ci pensa il Governo (ormai parliamo di quello che verrà, quando verrà…) che non ha ancora varato il disegno di legge che fissa le regole della trasparenza che - da sole - sarebbero in grado di fermare il continuo sfibrante assillo annuale e forse illegale dell’aumento dei prezzi.

Le truffe in Europa. Eppure le truffe alle assicurazioni, stenterete a crederci, non sono un fenomeno solo italiano. Anzi   l’Italia, stando al grafico qui accanto (indagine “Frodi nel settore assicurativo” di KPMG Advisor S.p.A. 2011) sarebbe solo il fanalino di coda. Dico sarebbe perché, e qui ritorniamo al problema di cui stiamo trattando, in Italia, a differenza di quanto accade negli altri paesi europei che si sono già attrezzati per combattere veramente il fenomeno, le truffe scoperte e denunciate sono probabilmente solo la punta dell’iceberg. Comunque se tutti i paesi se la devono vedere con le truffe assicurative, com’è che è solo l’Italia ad avere le polizze più care d’Europa?  A sentire Vittorio Verdone, direttore auto Ania, sembrerebbe che il responsabile, a parte le cosiddette truffe, sia “il colpo di frusta” che si presta alla speculazione da parte di medici e avvocati che riescono sempre a gonfiarne il risarcimento. In effetti che un’invalidità temporanea del 100%, per una lesione di pochi giorni, sia decisamente scandalosa è vero, ma non può essere questo il solo motivo delle “rapine” tariffarie subite dagli italiani. Allora qual è il motivo? 

Denunciare le truffe? No, meglio aumentare le tariffe. A scorrere le pagine dell’indagine bipartisa della KPMG Advisor, l’idea che viene fuori è che le Compagnie italiane, a differenza di quelle europee, non hanno mai fatto niente, non dico per denunciarle, ma nemmeno per difendersi, per opporsi alle truffe. Loro si basano sulle sensazioni…sulle truffe “percepite”. Sentite come conclude la lunga indagine della Kpmg: “In sintesi, il premio pagato dagli assicurati in Italia è superiore del 65% rispetto alla media europea. La frequenza dei sinistri in Italia è superiore del 32% rispetto a quanto rilevato in media nei principali paesi europei ed il costo medio della liquidazione dei sinistri si aggira intorno ai 4.000 Euro, il 41% in più rispetto alla media europea. Infine l’incidenza dei sinistri con danni alla persona è in assoluto la più elevata in Europa (21,9%), più del doppio rispetto alla media europea. Ciò nonostante in Italia su 100 sinistri solo 3 sono frodi ACCERTATE, contro una media europea che si aggira intorno al 6%. Tutto questo fa pensare ad un sistema piuttosto “generoso” nella liquidazione dei sinistri e “lasco” nei controlli ai fini dell’accertamento di eventuali frodi. Quest’ultimo aspetto è imputabile alle difficoltà riscontrate dalle compagnie italiane nell’individuazione e nell’accertamento di sinistri connessi a eventi fraudolenti per la scarsa capacità probatoria nel dimostrare le frodi sospette, dovuta a sistemi e strumenti di controllo ancora inadeguati, soprattutto a livello accentrato. Emerge, inoltre, che nel panorama internazionale gran parte dei Paesi ha già attivato processi e sistemi di scambio di informazioni tra le compagnie e istituito efficaci organismi di controllo. In Italia, invece, al momento niente di questo avviene. Nel contrasto delle frodi, infatti, l’Ania dal 2005 svolge un debole ruolo di coordinamento perché nella sua attività è limitata dal rispetto dei limiti imposti dalla legge sulla privacy”. Insomma, come abbiamo detto, per le Compagnie torna molto più comodo aumentare le tariffe piuttosto che contrastare le truffe. Di questo è convinta anche la commissione governativa che ha approntato il DDL sulle truffe che, in cambio della legge (che prevede la creazione di un’Agenzia anti-frode), chiede alle Imprese maggiore trasparenza e, aggiungiamo noi, di non aumentare le tariffe basandosi sulle truffe “percepite” (che per loro supererebbero il 15%), ma solo su quelle denunciate (non superiori al 3%). Dice la Commissione Finanze della Camera nel DDL: “e Compagnie sono tenute a fornire informazioni sulle frodi ACCERTATE e a DENUNCIARE i sinistri ritenuti sospetti secondo i parametri di significatività desunti dalla banca dati sinistri dell’Isvap”.

Tariffe Rca: doppia truffa per gli italiani? Tornando alla composizione delle tariffe create nelle chiuse stanze delle imprese assicurative, va detto che è la totale mancanza di controllo da parte degli organi ministeriali e il vuoto legislativo sulla trasparenza che permette alle Imprese, tra l’altro, pericolose libertà come quella sulla “riserva sinistri” creativa… Per chi non lo sapesse, la legge impone alle imprese di creare le cosiddette “riserve sinistri”: somme di danaro, da accantonare ogni anno per pagare sinistri non ancora risarciti.  Una norma giusta a difesa dei consumatori, ma in assenza di controlli nessuno sa, ma il sospetto è fortissimo, se le Imprese assicurative gonfino o meno quelle cifre in modo da portare i bilanci in rosso (specie in tempi in cui il falso in bilancio non è più reato) per giustificare poi gli aumenti del prezzo delle polizze. Aumenti che, accrescendo pesantemente la crisi economica e l’inflazione, non puniscono solo gli automobilisti napoletani, ma tutti gli italiani indistintamente. Se così fosse gli automobilisti sarebbero doppiamente truffati: da cosiddette truffe alle Compagnie (se non sono denunciate le truffe non esistono) e da bilanci gonfiati. 

MO BAST! Intanto i napoletani, stanchi delle continue e gravi vessazioni subite (il sud è stato pressoché cancellato dall’Italia assicurata) hanno costituito “MoBast!”.  Di questa associazione e delle importanti iniziative che sta portando avanti, parleremo a lungo nei prossimi servizi a cominciare dalla pubblicazione dell’intervista all’avvocato Bozzelli autore della prima denuncia alle Compagnie. Per il momento vi segnalo che 400 iscritti al movimento hanno inoltrato alla Procura della repubblica di Napoli altrettante denunce per il reato di aggiotaggio (art.  501 del Codice penale:"Chiunque al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato"). Tra i documenti correlati a questo articolo troverete il testo completo e le motivazioni della denuncia .

Una promessa ai lettori. Nei prossimi numeri di Golem vi presenteremo i protagonisti di MoBast che ci parleranno delle loro numerose iniziative: audizioni presso la commissione Europea, raccolta di firme, denunce alla Procura della Repubblica, mobilitazione dei cittadini che dimostreranno come le imprese assicurative abbiano creato una situazione insostenibile per il sud e per tutta Italia. Per questo noi staremo sul problema fino a quando non conosceremo i pareri della Procura della Repubblica napoletana e se, come sarebbe auspicabile, se ne aggiungessero altre, fino a quando non conosceremo le decisioni anche delle altre Procure, ma anche dell’Antitrust e della Commissione europea. Soprattutto staremo sul problema fino a quando non si otterrà un cambiamento di rotta col controllo sulle tariffe e con la successiva riduzione dei prezzi delle polizze. Bruno Rossi

Caro Rca. Quando le Compagnie truffano… sulle truffe le tariffe sono da rapina! Scrive il 5 Luglio 2013 Bruno Rossi su goleminformazione.it. Col recente intervento del presidente dell’Ivass, l’Antitrust conferma che la Rca in Italia è la più cara d’Europa. L’Ania risponde è colpa delle truffe. Ma le Compagnie non denunciano i truffatori e scaricano il problema sulle tasche degli italiani. Perché le Authority non sanzionano quelle corresponsabili di questa situazione? “Per le tariffe Rc auto l'alto numero dei sinistri aggravati dalle frodi è un problema serio. Ma non possiamo escludere che alla base del livello comparativamente elevato dei premi vi siano anche altre cause, inerenti alla efficienza e alla concorrenzialità del mercato". Questo l’intervento di Salvatore Rossi, presidente dell'Ivass all'assemblea dell'Ania del 2 luglio. Rossi, dopo la critica alle imprese fatta la scorsa settimana per il caro tariffe, ha invitato (sic) ad agire per rimuovere il problema: "dobbiamo chiederci quali strumenti abbiamo, ciascuno nel proprio ambito, per porre riparo allo squilibrio. Il nodo dell'Rc auto” - ha dichiarato, "è un ostacolo da rimuovere". Bravo presidente! Allora lo rimuova sanzionando le imprese che non denunciano  i truffatori. Non neghiamo che le frodi ci siano, è solo che le “quattro” compagnie nostrane, a parte qualche caso sporadico, non fanno assolutamente niente per evitarle.  E’ solo di due anni fa l’approfondita indagine della Kpmg, nota società di consulenza aziendale di diritto italiano e svizzero che ha fotografato la situazione truffe assicurative in Italia e all’estero e che ha così concluso: ” In Italia su 100 sinistri solo 3 sono frodi accertate, contro una media europea che si aggira intorno al 6%. Tutto questo fa pensare ad un sistema piuttosto generoso nella liquidazione dei sinistri e lasco nei controlli ai fini dell’accertamento di eventuali frodi”. In altri termini: le Compagnie preferiscono pagare e scaricare i costi delle truffe sospette sulle polizze senza sobbarcarsi l’onere (e il dovere) di scovare i truffatori e denunciarli. Abbiamo chiesto al curatore dell’indagine, Giuseppe Latorre, se le cose, due anni dopo, siano cambiate: "si cominciano a vedere i primi segnali di una inversione di tendenza: le Compagnie si stanno attrezzando per contrastare il fenomeno delle frodi."  Più o meno la stessa risposta di Giovanni Romito della “Gamma Investigazioni” di Napoli.

Le Authority che fanno? Ci hanno parlato di “primi segnali”…Ma se sono vent’anni che le Compagnie, soprattutto per colpa delle truffe,  hanno portato le tariffe oltre il 250% ! E stiamo ancora parlando di…“primi segnali”? In un servizio di pubblica utilità com’è quello della Rca obbligatoria, visto che gli italiani devono sopportare costi da rapina, come minimo hanno diritto di pretendere: 

1. che le Compagnie agiscano per scovare i truffatori, 

2. che li denuncino alle Autorità di polizia,

3. che giustifichino, cifre alla mano, la reale, concreta ed effettiva incidenza economica delle truffe vere sul costo dei sinistri. Incidenza che diminuirebbe perché una truffa scoperta è un danno economico evitato,

4. Soprattutto, visto che l’Isvap ha indicato precisi parametri di significatività per scoprire una truffa, vedere sanzionate dalle Autority le Compagnie...pigre. Più precisamente: inadempienti.

Quali truffe? Ma quali e quante sono le truffe? L’indagine demoscopica della Kpmg ha ricondotto sostanzialmente a due le truffe possibili: quella contro gli assicurati e quella contro le Imprese assicuratrici. 

La prima è realizzata da soggetti terzi (solitamente organizzazioni criminali di piccolo cabotaggio, visto che i guadagni illeciti che ne possono derivare non sono tali da interessare la malavita organizzata) con la vendita di polizze e contrassegni falsi di Compagnie vere e di Compagnie inesistenti. E’ vero che le false Compagnie sono periodicamente elencate nel sito IVASS, ma prima di entrare a far parte dell’elenco devono essere scoperte e vengono scoperte solo operando. Quindi c’è sempre una zona grigia che lascia spazio per truffare un po’ di assicurati. Tra i soggetti terzi vanno annoverati, secondo noi, anche quegli assicurati che si inventano di sana pianta un sinistro, con tanto di compiacenti testimoni, mettendo in difficoltà il povero innocente preso di mira che difficilmente riuscirà a dimostrare, prove inconfutabili alla mano, di non avere nulla a che fare con quel sinistro.  

Il secondo tipo di truffa viene realizzato da soggetti esterni: medici, avvocati, carrozzieri, periti ecc. che, attraverso il cosiddetto “commercio dei sinistri”, lucrano sulle liquidazioni, e da soggetti interni : intermediari e dipendenti  che, stando alla cronaca e ai bollettini antifrode della Gamma service, le Compagnie normalmente non denunciano, anche se i danni sono di centinaia di migliaia di euro (lo hanno fatto però le Autorità di polizia). 

Gonfiare un sinistro è reato, ma…In Italia, esagerare un danno subito in un incidente stradale, non è percepito come un tentativo di truffa, ma come una rivalsa, una sorta di “dovuta” compensazione che pareggia i conti con le salatissime tariffe Rca. Questo, però, genera un dannoso e pericoloso circolo vizioso: il progressivo incremento della frequenza delle frodi determina, per le Compagnie, l’aumento dei costi di liquidazione che li scaricano in parte sull’aumento dei premi pagati dagli assicurati che, a sua volta…. incentiva le truffe. Ma c’è, per noi, anche un terzo tipo di truffa ai danni degli assicurati: quello delle possibili truffe delle Compagnie nel manipolare i bilanci gonfiando le cosiddette “riserve sinistri” (il punto interrogativo nel grafico sta a significare che, per quanto ci siano diffusi sospetti, al momento non ci sono denunce). 

Cosa sono le “riserve sinistri”. Le riserve sinistri rappresentano una voce del bilancio nella quale le Imprese, per obbligo di legge, inseriscono i sinistri che non sono stati risarciti e che dovranno essere pagati nell’anno o negli anni successivi. Le cifre messe a bilancio sono ipotetiche (basate su riferimenti aleatori) e, quindi, facilmente suscettibili di manipolazioni: più le cifre sono alte e più il bilancio della Compagnia diventa “rosso”. Se questo “giochetto” lo facessero, per pura ipotesi, tutte le Compagnie, la conseguenza sarebbe quella di far schizzare in alto, molto in alto, le tariffe di tutte le polizze Rca…. (ma… non è quello che succede attualmente?). 

Truffe assicurative in Europa. Come già detto in un altro nostro servizio, le truffe alle assicurazioni non sono un fenomeno solo italiano.  Anzi   l’Italia sarebbe il fanalino di coda. Ma allora com’è che siamo solo noi ad avere le polizze più care d’Europa?  Il fatto è che per la Kpmg Advisor le Compagnie italiane, a differenza di quelle europee che si sono già organizzate per combattere il fenomeno, non hanno mai fatto niente, non dico per denunciarle, ma nemmeno per difendersi, per opporsi alle truffe. In Italia le truffe scoperte e denunciate sono probabilmente solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati dell’ISVAP, nel 2009 l’incidenza dei sinistri connessi a fenomeni fraudolenti è aumentata di circa l’8,6%. I sinistri collegati a possibili frodi sono pari a 83.378, contro i 76.784 rilevati nel 2008. L’incidenza sul totale del numero di sinistri è passata dal 2,3% al 2,5%.  Nonostante tutto si parla di piccole cifre e di basse percentuali. Le Compagnie dicono (dicono) che le truffe si aggirano intorno al 10-15% dei sinistri denunciati. Ma quando parlano di frodi non si riferiscono a quelle denunciate, ma a quelle percepite. Sì, avete capito benissimo: percepite.

Ma la percezione è un dato tecnico di bilancio? Eppure, secondo KGM (35 Compagnie di ventisei gruppi finanziari italiani. Praticamente tutte) l’85% delle Compagnie del campione rappresentativo esaminato ha già una struttura organizzativa dedicata al contrasto delle frodi. La domanda è: a che serve avere una struttura organizzata se poi non la si adopera? Insisto, cosa aspettano le Autority a sanzionare questa “abulia”?

Banca dati sinistri Ania. Uno strumento per difendersi dalle truffe esiste già da tempo. L’ANIA ha istituito fin dal 2004 una banca dati sinistri alla quale pervengono- giornalmente- da tutte le imprese assicurative una valanga di dati (vedere il documento riservato dell’Ania in possesso delle sole Compagnie che “qualcuno” ha inviato al nostro giornale). In più l’Isvap ha individuato una lunga serie di parametri (art. 4, comma 3, del Provvedimento n. 2827 del 25 agosto 2010) che, se osservati, permetterebbero alle Compagnie di stanare i truffatori ripulendo le tariffe Rca. Il cervellone addirittura, essendo aggiornato quotidianamente, rende obsolete tutte le altre banche dati esistenti: dell’ACI e dello stesso PRA. Basterebbe solo interrogarlo. Anche per scovare ogni automobilista, tra i 4 milioni in circolazione senza polizza, che consentirebbero allo Stato di incassare, tra l’altro, un bel po’ di soldi. Ricordiamo che la sanzione per questi casi va da 841 a 3.366 euro, più ritiro della patente per un anno, confisca del veicolo e denuncia dell’automobilista all’Autorità giudiziaria. Facendo due conti e ipotizzando una sanzione media di 2.000 euro, arriviamo alla bella cifra di otto miliardi di euro. Quasi una finanziaria.

Aspettando l’agenzia antifrode. La Banca dati sinistri Ania qualche limite, però, lo ha. Le Compagnie perciò chiedono a gran voce l’istituzione dell’agenzia Antifrode o di una struttura ad hoc istituita presso l’ISVAP (il disegno di legge è ancora al vaglio della Commissione Finanze della Camera) che dovrebbe essere composta da un archivio informatico integrato e da un gruppo di lavoro, costituito da rappresentanti dei Ministeri competenti e da altri soggetti interessati, comprese le Forze di Polizia. Il provvedimento normativo chiede però, in cambio, maggiore trasparenza e migliore comunicazione da parte delle compagnie che sono tenute a fornire informazioni sulle frodi accertate e a denunciare i sinistri ritenuti sospetti secondo i parametri di significatività desunti dalla banca dati sinistri dell’ISVAP (vedi box).   Come si vede il Decreto “DDFL” la pensa come noi in fatto di cinico e irresponsabile menefreghismo delle Imprese assicurative. 

Uniqa denuncia. Qualche eccezione, però, c’è. Uniqa Protezione Spa di Udine ha denunciato decine di persone per truffe ai suoi danni. In alcuni casi si è trattato di sinistri stradali dichiarati dagli assicurati e, di fatto, mai avvenuti o non secondo le modalità dichiarate, in altri sarebbero false dichiarazioni fornite dagli assicurati relativamente alla località di residenza o alle caratteristiche dell’intestatario della polizza o alla classe di rischio, per pagare premi inferiori al dovuto. In altri casi ancora le denunce sarebbero scattate in seguito alla contraffazione del tagliando intestato all’assicurazione esposto sul parabrezza dell’auto da soggetti sconosciuti alla Compagnia.  

Nel mirino dell’Antitrust. Non che l’argomento che segnalo sia strettamente connesso alle truffe, ma col caro tariffe sì, perché si parla di concorrenza, o meglio, di mancata concorrenza e quindi di ostacoli alla diminuzione del caro Rca. “Otto assicurazioni nel mirino dell'Antitrust per ostacolo alla concorrenza”. Si tratta di: Unipol Gruppo Finanziario, Fondiaria-SAI, Generali, Allianz, Reale Mutua, Cattolica, Axa, Groupama. Le società interessate dal provvedimento rappresentano l'80% della raccolta premi nel ramo danni e nella Rc auto. 

Il lupo….. perde il pelo , ma non il vizio. Nel 1993, con la stessa motivazione, furono multate 40 imprese con 700 miliardi di lire, nel settembre 2011 sono state multate tre Compagnie con 13 milioni di euro. E poi (le Compagnie) dicono, e c’è qualcuno che ci crede, che il caro tariffe dipende dalle truffe…P.S. - in allegato pubblichiamo una lettera dell'Isvap del settembre 2012 con la quale si invitano le Compagnie ad eseguire i controlli preventivi e successivi contro le truffe. Un "invito" che di fatto non è stato mai accolto. Ecco perché auspichiamo che le Authority intervengano con adeguate sanzioni. Bruno Rossi

Polizze auto, tutti i trucchi per sopravvivere a truffe online e fregature. Polizze a prezzi stracciati ingolosiscono gli utenti ma dietro al prodotto che costa poco c'è sempre la fregatura. Ecco gli strumenti per evitare di cadere nella trappola, scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 26/02/2015, su "Il Giornale". Complice la crisi economica, le abitudini degli italiani sono cambiate anche in termini di mobilità, e dopo le spese per la casa e le utenze, c'è l'auto, indispensabile per andare a lavorare e muoversi. Insomma il mezzo di trasporto diventa quasi un bene primario. Pullulano quindi le offerte di assicurazioni, i prezzi stracciati, le offerte dell'ultimo minuto, "l'affarone" on-line. Eppure dietro a prezzi scontatissimi nella maggior parte dei casi si nasconde la fregatura, quindi è bene avere a disposizione gli strumenti per riconoscerle e prevenirle. Lo chiediamo a Carlo Marietti Andreani, Presidente di Aiba (Associazione Italiana Brokers di Assicurazioni) che ammette quanto sia difficile, anche per chi è del mestiere, riconoscere le truffe on-line: "Riuscire a scovarle sarebbe un'arte sublime" - dice. Ci spiega che l'assicurazione in sè é un problema culturale di difficile conoscenza e valutazione. Spesso gli utenti acquistano ignorando il contenuto o i benefici di quel prodotto. L'assicurazione infatti viene percepita come una spesa "obbligata" e ci si dimentica, un po' per pigrizia, un po' per disinteresse, dei benefici che si potrebbero trarre. Come ci difendiamo?" Uno strumento consiste nella capacità o nell'interesse del cittadino di conoscere gli strumenti, il secondo di affidarsi a un professionista". Lui per primo infatti si lascia ingolosire quando acquista le assicurazioni, ma fa notare che troppo spesso ci si ferma al costo valutando solo ed esclusivamente quello. Questo é un errore enorme che potrebbe avere ripercussioni non indifferenti. Perché infondo si pensa che tutti i contratti siano uguali. "Infatti - continua Marietti - il rischio che si corre in futuro è proprio quello della standardizzazione. Non solo. Guardando al panorama delle assicurazioni on-line, è fondamentale che le offerte diano informazioni di contenuto e non solo di prezzo, questo é sinonimo di trasparenza e di correttezza. " Secondo il mio punto di vista il web viene consultato per reperire informazioni sulle compagnie assicurative e sulle proposte, ma quando si tratta di concretizzare e comprare, la scelta viene fatta con un professionista del mestiere"- precisa Marietti. Perché in realtà la maggior parte degli utenti è restia a comprare un prodotto "virtuale" incontrato in rete. Tra le varie insidie c'è quella della burocrazia con le sue montagne di carta, infatti solitamente si firma un contratto senza conoscerne il contenuto. Un esempio pratico in cui tutti si riconoscono è l'apertura di un conto corrente in Banca, dove uno sottoscrive ma non controlla. "Automatismi che possono diventare molto pericolosi" - conclude Marietti. Dando anche uno sguardo ai dati delle tariffe Rc Auto scopriamo che a gennaio 2015 c'è stato un calo del 5,7%. Le riduzioni tariffarie hanno interessato tutte le province italiane, con diminuzioni molto marcate in alcune città considerate a rischio: Bari e Napoli. Cali superiori alla media anche a Trieste, Trento, Bologna, Catanzaro, Cagliari. Flessione sotto la media nelle grandi città Roma (-5,2%), Venezia (-5.1%), Milano (-5%), Torino (-4.6%). Un calo positivo che però dipende dal difficile contesto economico-sociale in cui viviamo. Nonostante si stia riducendo il gap con gli altri paesi europei, servirebbe un intervento strutturale per combattere il caro Rc Auto in Italia, iniziando proprio rivedendo il profilo fiscale decisamente oneroso: tra imposte (15,6%) e contributo al Servizio Sanitario Nazionale (10,5%) incide oggi mediamente per il 26,1% del premio lordo, con variazioni territoriali in funzione delle disposizioni provinciali. Di riflesso la continua diminuzione degli incassi nell'Rc Auto (in calo dal 2011) favorisce la corsa per trattenere i clienti e conquistarne di nuovi, attraverso l'utilizzo degli sconti. Il 74% degli assicurati che hanno cambiato compagnia nel 2014, ha avuto uno sconto medio del 14,6% sul prezzo di listino. Ma si ricorre agli sconti anche per mantenere i clienti: il 25% di assicurati ha avuto uno sconto del 14,3% al momento del rinnovo della polizza.

 Il fenomeno delle truffe nel settore assicurativo. Passando la parola a Paolo Panarelli, direttore generale Consap (Concessionaria Servizi Assicurativi pubblici), ci rivela che il livello delle truffe denunciate e scoperte in Italia é al di sotto della media europea, in particolare di quei paesi che vengono considerati più virtuosi di noi nei comportamenti collettivi. "Il fondo vittime della strada é soggetto più del portafoglio alle truffe. Si parla quindi del fenomeno dei non assicurati che si lega poi ad attività della malavita organizzata. Ma negli ultimi cinque anni, dopo picchi preoccupanti, emerge una sostanziale stabilità del fenomeno"- spiega Panarelli. Certamente non dobbiamo lasciarci abbindolare dagli sconti nonostante il periodo duro di crisi. Inoltre è consigliato affidarsi a compagnie italiane conosciute e riconosciute.

PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE

In Italia ognuno fa ciò che vuole, impunemente e nell’ignavia generale. Si guardino gli aumenti ingiustificati delle polizze auto. Ci inculcano l’idea, attraverso le redazioni dei giornali nei media foraggiati dalle compagnie assicurative, che gli aumenti sono dovuti all’aumentare della sinistrosità. Invece l'attacco dei consumatori contro l'RcAuto: "In 11 anni tariffe +104%, sinistri -34%". Secondo l'Ania solo nell'ultimo anno la frequenza degli incidenti d'auto è diminuita del 12%. I costi per assicurare la vettura sono invece cresciuti del 30% negli ultimi due anni e sempre più sfuggono all'obbligo di legge. Le tariffe Rc Auto, di anno in anno, hanno raggiunto "livelli incredibili, con percentuali impressionanti se consideriamo i rincari". E' la dura accusa di Adusbef e Federconsumatori, secondo cui in 11 anni il costo delle polizze ha registrato un'impennata del 104%, nonostante l'incidentalità sia diminuita del 34%. Una crescita continua ed irrefrenabile, - sostengono le associazioni - confermata anche dai dati di quest'anno che registreranno una nuova crescita media di circa il 6% (+78 euro a polizza), portando l'aumento complessivo al 104%". Si tratta di una cifra "inaccettabile, che per di più non ha alcuna giustificazione, visti i dati sull'incidentalità", diminuita secondo i consumatori del 34% in undici anni. "E' ora di porre un freno a questo andamento, francamente scandaloso - concludono dopo i dati dell'Ania -. Ci aspettiamo risposte ed interventi immediati per incrementare la trasparenza e la competitività, attraverso il potenziamento del ruolo degli agenti plurimandatari, indispensabile per un abbattimento dei costi e con la modifica del meccanismo del bonus malus anche attraverso la tariffa unica per gli automobilisti virtuosi". Secondo i dati dell'Ania, infatti, gli aumenti dei prezzi dei carburanti hanno spinto gli italiani a lasciare sempre più spesso la macchina a casa, con un impatto niente affatto indifferente sulla frequenza degli incidenti d'auto che sono diminuiti del 12% rispetto all'anno precedente. Ma secondo l'Ania con la crescita delle tariffe assicurative calano anche le auto assicurate. Quindi l’aumento delle tariffe, non solo danneggia gli automobilisti, ma l’intera produzione industriale. 

Assicurazioni, la lobby più forte secondo l’inchiesta di Corrado Giustiniani su “L’Espresso”. Il governo Monti non ha toccato i loro privilegi e noi continueremo a pagare le polizze più care d'Europa. Colpa di una piovra potentissima in Parlamento, che blocca ogni liberalizzazione e ogni possibilità di concorrenza.

Cari automobilisti, coraggio: continuerete a pagare l'assicurazione più salata d'Europa. Passaggio dopo passaggio, il decreto Monti s'è svuotato e la liberalizzazione promessa è svanita alla luce della Gazzetta Ufficiale. E' scomparso l'obbligo del plurimandato, grazie al quale si sperava che l'agente, avendo più compagnie in portafoglio, potesse cucirti addosso la polizza più adatta e più conveniente. Rischia di produrre una valanga di cause la prevista penalizzazione del 30 per cento sul rimborso del danno per chi preferisse il carrozziere di fiducia a quello offerto dalla compagnia. E' indefinito lo sconto che l'assicurazione ti deve praticare, se lasci ispezionare l'auto prima della stipula. Avvio quanto mai soft della scatola nera per scoprire se l'incidente era reale o fittizio: nessun obbligo per le compagnie di montarla, sconti imprecisati per chi accetta di farsela installare.

C'era da aspettarselo. Troppo forte, in Italia, è la lobby delle compagnie, che dalla Rc auto nel 2010 hanno ricavato 18 miliardi di euro, riducendo la concorrenza al minimo. La metà del mercato, nel ramo danni, è appannaggio di due colossi: il nascente Unipol-Fonsai, che ne controlla oltre il 30 per cento, e le Generali, che si avvicinano al 20. In tutto appena cinque gruppi si dividono il 70 per cento: un livello di concentrazione sconosciuto negli altri paesi d'Europa. Così, mentre nell'area dell'euro i prezzi medi per l'assicurazione dei mezzi di trasporto sono partiti nel 2000 dal livello 89,3 per attestarsi a quota 109,9 nel 2010, da noi, nell'arco di dieci anni, ci si è mossi da più in basso, 74,9, per schizzare nel 2010 al picco assoluto di 117,2, con un incremento del 4,6 per cento l'anno che fa gridare allo scandalo, rispetto al più 0,7 della Germania, al più 0,9 della Francia e persino al più 2,7 della Spagna. L'indagine conoscitiva presentata il 12 ottobre del 2011 in Senato da Antonio Catricalà, allora presidente dell'Autorità Antitrust prima di passare il mese successivo al governo, documentava queste cifre e denunciava un'inquietante "tendenza al rialzo continuo". In base a dati dell'Isvap, l'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, un quarantenne che si trovi nella classe di bonus più favorevole, la prima, si è visto caricare nel biennio 2009-2011 un aumento medio del 26,9 per cento. E stiamo parlando di una categoria di guidatori non certo spericolati. Fino al 1994 le tariffe Rc auto erano imbrigliate dal prezzo amministrato. Lasciate libere, hanno recuperato immediatamente l'equilibrio per poi continuare a crescere, sfruttando l'obbligo degli automobilisti ad assicurarsi.

Ma questa corsa non era finita nel 2007, grazie alla legge Bersani? «In un primo tempo l'impatto delle nuove norme è stato molto positivo - spiega Claudio Demozzi, presidente del Sindacato nazionale agenti, il primo del settore con 8 mila iscritti su 15 mila agenzie attive -Bersani ha infatti messo fuorilegge il mandato di esclusiva, spiazzando così le compagnie, e ha ridotto l'onere per i neopatentati, iscrivendoli alla categoria bonus malus più favorevole in famiglia, anziché d'autorità alla 14 - Ma poi le compagnie hanno reagito, riallineando all'insù le tariffe, anche per le classi più basse. Alla legge Bersani, inoltre, mancava un tassello decisivo. Non bastava dire no al monomandato - Bisognava anche obbligare le compagnie ad accordare i nuovi contratti di agenzia -continua Demozzi - ma anche qui, dopo lo sbandamento iniziale, queste si sono riorganizzate facendo cartello.»

Hai già un rapporto d'esclusiva con le Generali e chiedi di lavorare anche per noi della Zurich? Niente da fare, disco rosso. E così il sogno della concorrenza veniva soffocato sul nascere. Non che gli agenti lavorino oggi tutti in esclusiva: uno su quattro opera già con più compagnie. Semplicemente è stato bloccato questo processo di espansione. L'obbligo del plurimandato sembrava un punto fermo del decreto Monti, e invece nel testo in vigore non ne è rimasta che una traccia beffarda, all'articolo 34, dove si dice che gli agenti, prima della stipula della sottoscrizione, devono "informare il cliente, in modo corretto, trasparente ed esaustivo, sulla tariffa e sulle altre condizioni contrattuali proposte da almeno tre diverse compagnie non appartenenti a medesimi gruppi". Questi dati l'agente può attingerli da Internet. "Ma che senso ha proporre al cliente polizze che poi non posso intermediare?", si domanda il presidente del Sna. Niente di più facile che gli agenti, per vendere la loro, mostrino al cliente le proposte peggiori delle compagnie più scamuffe. Tutte le inefficienze del sistema Rc auto forniscono lo spunto per produrre aumenti. L'Isvap nel 2010 ha comminato alle compagnie circa 4 mila sanzioni per 35 milioni di euro, e l'anno prima per 45 milioni di euro, soprattutto con riferimento a illeciti nella liquidazione dei sinistri. Che problema c'è? Versi la sanzione e poi rincari la polizza. Si dice poi che in Italia le tariffe siano così care a causa dei falsi incidenti e delle frodi che le compagnie subiscono. Strano però, che dai loro dati ufficiali tale piaga non traspaia affatto. Nel periodo 2007-2009 le frodi accertate sono infatti il 2-3 per cento del totale degli incidenti. Appena la metà di quelle scoperte in Francia, un quarto rispetto al Regno Unito. "Le compagnie - commenta l'Autorità Antitrust - non dedicano energie sufficienti a individuare le frodi, anche perché non hanno adeguati incentivi a controllare i propri costi". Fuor di metafora: meglio liquidare comunque un danno che spendere tempo e soldi in periti e avvocati per dimostrare che l'incidente non c'è mai stato, o che gli effetti sono gonfiati. Tanto poi ci rifacciamo sui prezzi. Come per l'evasione fiscale, gli onesti pagano il conto dei furbi.

Ma il decreto Monti risolve questi problemi? E' la stessa Ania, l'Associazione nazionale delle compagnie di assicurazione, a rispondere di no. «Per ridurre davvero i costi, e quindi i prezzi, occorrerebbe varare la tabella per la valutazione dei danni gravi alla persona - sostiene Vittorio Verdone, che dell'Ania è direttore del settore Auto - in più, estromettere dai risarcimenti le pseudo-lesioni lievissime, che non siano provate da accertamenti diagnostici strumentali. Così si taglierebbero le tariffe di un 20 per cento in un colpo solo». Per i consumatori, infine, il decreto è soltanto un proclama di buone intenzioni. «Senza alcun effetto pratico - commenta Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum - Occorre rimodulare la "bonus malus", spostare l'assicurazione più sul conducente che sul veicolo, indurre le compagnie a un maggiore impegno contro le frodi. Speriamo che il Parlamento porti qualche modifica utile».

Dei cinque articoli del decreto che si occupano di Rc auto, il più concreto sembra quello che prescrive, di qui a due anni, l'abolizione di tutti i contrassegni cartacei sui vetri delle auto, per contrastare la piaga dei tagliandini falsi, e la loro sostituzione con sistemi elettronici o telematici in grado di rilevare anche le violazioni al codice della strada: sarà l'Isvap a dettare modalità e fasi di questa operazione. Ci sono poi le vaghe norme su ispezioni e scatola nera, la facoltà data alle compagnie di riparare l'auto, con l'improbabile penalizzazione del 30 per cento per chi fa da sé, e la presa in giro dei tre preventivi. Dopo la rivoluzione a metà di Bersani, i pannicelli caldi di Mario Monti. E dire che un sistema per aumentare la concorrenza e ridurre le tariffe già esiste ed è in funzione, ma pochi lo conoscono e lo praticano. Si chiama "Tuo preventivatore" e si trova sul sito del ministero dello Sviluppo economico e su quello dell'Isvap. Clicchi il bottone che ha il profilo di un'auto, ti iscrivi, fornisci alcune informazioni essenziali e, venti minuti dopo, ti arrivano per mail i migliori cinque o sei preventivi "su misura", validi per 60 giorni. Il congegno è in grado di determinare una significativa mobilità di utenti da una compagnia all'altra. Si tratta solo di integrare il ventaglio delle offerte contrattuali, di potenziare il servizio e di propagandarlo, sui giornali e in tv, con un po' di doverosa pubblicità progresso.

Peccato, però, che spesso le tariffe indicative e sono difformi da quelle reali che si potrebbero trovare presso le agenzie.

Si fa presto a dire liberalizzazioni. Questo dice Agostino Riitano in un articolo pubblicato su “L’Indro”. Le si nomina come panacea a tutti i mali dell’economia italiana. Ma appena un governo tenta di attuarle, c’è la corsa a erigere barricate. Tassisti, farmacisti, notai, avvocati, persino giornalisti. Tutti a rivendicare che va bene liberalizzare, ma “non si inizi da noi, noi non siamo una casta” e via protestando. L’unico settore dove la fine del monopolio, in questo caso statale, è stato salutato da un’ola lunga quanto l’Italia è stato quello delle assicurazioni. In teoria, ci avrebbero dovuto guadagnare tutti. Lo Stato, che si sarebbe liberato di compagnie vecchie e in perdita. I privati, che avrebbero potuto entrare in un mercato ’vergine’ e dai profitti potenziali enormi. I cittadini, che avrebbero dovuto vedere prezzi più bassi in onore della più spietata concorrenza. In pratica, gli unici a perdere sono stati gli unici che avrebbero dovuto vincere, i cittadini. I problemi sono quelli che tutti conoscono. Prezzi troppo alti e una fatica immane a farsi abbassare il premio. Ma la domanda è: “Perché?”. Beh, innanzitutto perché la concorrenza è rimasta sulla carta della legge voluta da Pierluigi Bersani. L’ultima condanna dell’Antitrust italiana è di settembre 2011. La motivazione suona come una campana a morto delle liberalizzazioni e della concorrenza: “Esistono accordi tra imprese volti alla fissazione dei prezzi di vendita. Questi accordi danno luogo ad aumenti dei prezzi e a riduzioni della quantità offerta e determinano, pertanto, una diminuzione complessiva del benessere sociale”. Il Parlamento, bontà sua, ha voluto vederci chiaro e, così, la commissione Prezzi ha convocato il presidente dell’Ania, l’associazione che riunisce le compagnie di assicurazione. Il direttore generale Paolo Garonna ha detto, più o meno: “Non siamo noi i colpevoli se le tariffe sono alte”. E ha elencato quelli che ha definito ’problemi di fondo’. E cioè: “L’assenza fino a oggi di strumenti efficaci per combattere le frodi; l’abnorme numero dei danni alla persona di lievissima entità di origine speculativa; il ritardo nell’emanazione della disciplina per il risarcimento dei danni alla persona di più grave entità; le norme tecnicamente sbagliate come quella che ha alterato il sistema bonus/malus o come quella che ha aumentato i costi di distribuzione mediante l’introduzione del divieto di monomandato agenziale; le incertezze normative e giurisprudenziali che hanno minato il sistema di risarcimento diretto; le carenze ed i ritardi della giustizia civile”. Il mensile ’Quattroruote’, specializzato del settore automobili, ha denunciato altre falle del sistema. E nel suo ’libretto rosso’ delle assicurazioni ha rimarcato dettagli risaputi ma mai troppo ’pubblicizzati’. Il giornale denuncia risarcimenti gonfiati ad arte per farvi rientrare l’onorario di un avvocato, che per legge non sarebbe dovuto, e periti sottopagati e disincentivati a scoprire truffe, anche perché bypassati a favore delle carrozzerie convenzionate, cui verrebbe data sostanziale libertà di gonfiare gli importi dei piccoli incidenti fino al massimo consentito dalle procedure interne delle compagnie prima di far scattare i controlli. Antonio Giangrande è il presidente della onlus Associazione contro tutte le mafie. Da anni si batte contro quelle che definisce la lobby delle assicurazioni. “In effetti - ci dice - questo dei carrozzieri è un problema che viene messo in evidenza troppo poco”. Giangrande non crede che le spiegazioni dell’Ania siano sufficienti per spiegare il livello delle tariffe della Rca. “Non ci sono numero certi, per esempio, che ci dicono che il Sud truffa più del Nord. Una truffa è tale solo quando c’è una sentenza definitiva di un tribunale, non quando lo dicono le assicurazioni. E se anche ci fossero tutte queste truffe, dove sono gli organi di controllo, come la magistratura?”. Per Giangrande la realtà è che c’è una ’discriminazione’ fra varie parti del Paese: “Un morto o un ferito in incidente stradale nel Meridione vale meno che nel resto di Italia. E’ giusto che chi subisce danni seri e reali paghi per altri? E poi che ci sta a fare un ente pubblico come l’Isvap, mantenuto dalle tasse di tutti noi, che dovrebbe controllare ma che non controlla un bel niente?”. Isvap, ovvero Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo. E’ un ente dotato di personalità giuridica istituito con legge 12 agosto 1982, n. 576, per “l’esercizio di funzioni di vigilanza nei confronti delle imprese di assicurazione e riassicurazione nonché di tutti gli altri soggetti sottoposti alla disciplina sulle assicurazioni private, compresi gli agenti e i mediatori di assicurazione. L’Isvap svolge le sue funzioni sulla base delle linee di politica assicurativa determinate dal Governo”. “Sa chi nomina i componenti dell’Istituto? - domanda Giangrande, dandosi una risposta -. Il governo. Quindi noi cittadini avremmo il diritto di conoscere perché l’ente non opera come dovrebbe. Gliene dico una per tutte: abbiamo verificato che i prezzi esposti sul sito istituzionale poi non hanno un riscontro nella realtà”. Giangrande aggiunge alle storture segnalate da ’Quattroruote’ altri casi pratici: “La legge diceva chiaramente che gli agenti sarebbero potuti essere plurimandatari, lavorare cioè per più compagnie. Di fatto, però, le compagnie obbligano gli agenti a lavorare solo per loro. E non è finita. Dopo l’entrata in vigore della norma, il successivo regolamento ha di fatto impedito ai subagenti di operare per più compagnie. Insomma, uno dei punti salienti delle liberalizzazioni è venuto a mancare”. Il Presidente dell’Associazione contro tutte le mafie chiude con un consiglio: “Le compagnie di assicurazione fanno cartello? Bene, gli automobilisti onesti rispondano con un altro cartello. Promettano di sottoscrivere contratti solo con chi garantisce prezzi e premi equi”.

Dello stesso tono è l’articolo pubblicato su “Prima da noi”.  I dati Isvap parlano chiaro: secondo le fonti Isvap, l’Italia nel 2002/2009 ha registrato un + 17,9% rispetto alla media UE del + 7,1 %. Un problema sentito soprattutto al Sud. E’ difficile spiegare perché, ma c’è chi come Antonio Giangrande, presidente dell’associazione “Contro Tutte le Mafie”, ha le idee abbastanza chiare.

Il premio di assicurazione (indennizzo) dovrebbe funzionare così: più l’automobilista è virtuoso (non fa incidenti stradali) meno alta è la tariffa che deve versare alla sua assicurazione, più l’assicurazione stessa è contenta. In realtà, secondo Giangrande, non è così. «Molti automobilisti», dice, «anche se non hanno fatto incidenti si vedono lievitare il premio di assicurazione. Quello che interessa all’assicurazione è il guadagno. L’obiettivo non è più la riduzione del rischio ma la convenienza o meno del meccanismo: più sei virtuoso, più il premio è basso, meno convieni all’assicurazione che ci guadagna poco. Allora le assicurazioni mettono in campo la storia degli incidenti e dicono che l’aumento della polizza è conseguenza di un aumento di incidenti stradali».

Secondo Giangrande il problema è l’oligopolio: poche compagnie assicurative concentrano il potere nelle loro mani ed impongono tariffe liberamente. La soluzione è la liberalizzazione del settore assicurativo.

La teoria di Giangrande trova riscontro nell’interrogazione parlamentare dell’onorevole Felice Belisario, nel 2007, con cui si chiedeva di verificare se i dati statistici sugli incidenti fossero manomessi per far figurare che ci sono più incidenti così da poter aumentare premi e polizze. Anche la Sna, (Sindacato Nazionale Agenti di Assicurazione) ha avviato una petizione popolare sul mercato assicurativo proprio contro il caro assicurazioni e contro l’impunità per i falsi sinistri. Gli autori della petizione chiedono al presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini di contrastare l’aumento smisurato delle tariffe, costituendo un Comitato Nazionale contro le frodi assicurative, con la massima partecipazione della Magistratura, dell’Isvap (organo preposto al controllo), delle forze di polizia, della rappresentanza degli agenti di assicurazione e dei consumatori. Tra le richieste anche una piena liberalizzazione del mercato assicurativo italiano che favorisca l’ingresso di altre compagnie assicurative estere, con aumento della qualità e quantità della offerta.

Liberalizzare, secondo Giangrande, significa soprattutto abolire il regolamento Isvap n.5 del 16 ottobre 2006 che impedisce il plurimandato assicurativo (cioè obbliga l’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’Isvap così da impedirgli di essere sub agente di un’altra compagnia). Tutto questo impedisce, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti. C’è poi la piaga del Sud dove l’assicurazione dell’auto costa molto di più e le compagnie decidono di chiudere i battenti perché non vi è interesse economico, provocando così disoccupazione e limitando la stessa concorrenza con lievitazione delle tariffe.

Naturalmente molte altre testate hanno pubblicato pari pari il pensiero del dr Antonio Giangrande.

Che la lobby delle compagnie di assicurazione autorizzate alla RCA fossero ben presenti in Parlamento, si sa.

Che questa lobby parlamentare gestisca i finanziamenti a giornali e tv, o sovvenzioni stampa e televisione con campagne pubblicitarie per comprare il loro silenzio, o sostenga campagne di “guida sicura” contro l’alcool nell’interesse di associazioni interessate, è risaputo.

Che ci siano associazioni che si dicono a difesa del consumatore e che si contano su adesioni fittizie, tanto da renderli meritevoli di percepire il finanziamento dello Stato, per questo da renderli muti in riferimento alla truffa della RCA, è un dato di fatto. 

Sicuro è che a guadagnarci dall’aumento dei premi assicurativi RCA sono il Fisco e le Compagnie.

Che si debba scrivere un resoconto di pubblico interesse per dimostrare che non c’è alcuna relazione tra l’aumento delle tariffe e la sinistrosità ed elemosinarne la pubblicazione è scandaloso, se si pensa che solo piccole redazioni ne danno il dovuto spazio.

Non capisco l’accanimento di certe “penne e tastiere saccenti”, che si ostinano ad ignorare il dr Antonio Giangrande. Questi giornalisti, le poche volte che lo fanno, parlano di un fenomeno, quale può essere la RCA, di cui nulla sanno, se non il sentito dire o il luogo comune.

Il Dr Antonio Giangrande, autore senza “peli sulla penna e sulla tastiera” della Collana editoriale “L’Italia del Trucco”, spiega il perché dell’aumento dei premi assicurativi. Ossia, essi sono solo frutto di orrida speculazione sostenuta dalla lobby in Parlamento.

Gli assicuratori dicono che l’aumento dei premi è colpa del numero dei sinistri ed il loro aumentato valore di dannosità.

Come dire che il carburante aumenta per colpa delle guerre e non dei petrolieri o del Fisco.

Come dire che l’accesso all’avvocatura è limitato perché vi sono molti avvocati e non per colpa degli avvocati che hanno abilitato parenti, amici ed amanti e vogliono limitarne l’esercizio esclusivamente a loro.

L’OLIGOPOLIO

L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso, rimasto lettera morta, al Ministro dello Sviluppo Economico contro l’ISVAP, per la violazione della Concorrenza, del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa in campo assicurativo.

La novella sulla carta prevede il plurimandato. Nel principio della legge ciò comporta che il plurimandatario offra al cliente la tariffa più conveniente. Ma di fatto non è così.

Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, che ha fatto propri i dubbi sollevati.

Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo e, di fatto, la ricerca della tariffa più conveniente.

Il Regolamento prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’ISVAP. In questo modo l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia.

Il Regolamento inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro.

Il Regolamento impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti.

Il Regolamento impone l’iscrizione dei subagenti solo se indicati dagli agenti presso cui operano, imponendo di fatto il mono mandato.

Lo stesso agente, però, è anch’esso mono mandatario, così obbligato dalla compagnia.

Il Regolamento è a favore di tutte le compagnie di assicurazione, le quali obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.

Le agenzie di assicurazione fidelizzano i clienti in sottoclassi non riconosciute da altre compagnie, per poi, quando il premio non è più redditizio per mancanza di sinistri, esercitano il loro diritto di recesso, obbligando il cliente a contrarre con nuove tariffe maggiorate. Maggiorate, sì, ma sempre più convenienti per il gioco delle sottoclassi di merito, non riconosciute altrove.

Le agenzie di assicurazione nell’assicurare la seconda auto, pur intestata ad un familiare, attingono sì alla stessa classe della prima auto, ma con tariffe maggiorate.

Molte agenzie non rilasciano l’attestato di rischio, impedendo al cliente di cambiare compagnia.

Molte compagnie non esercitano al sud perché non vi è interesse economico a farlo, tanto da limitare l’esercizio ad alcune di esse e limitare la stessa concorrenza con lievitazione delle tariffe.

Le compagnie di assicurazione dichiarano che i premi aumentano, in quanto vi sono più sinistri e maggiori danni. FALSO!!!

In premessa bisogna denunciare che un soggetto morto o lesionato al Sud Italia è risarcito in modo minore rispetto ad un soggetto del Nord Italia. Inoltre la normativa ha estromesso l’avvocato nella fase degli accertamenti peritali da effettuarsi in determinati termini temporali, investendo le carrozzerie per questo compito, con l’intento di limitare le spese legali.

Nonostante ciò le compagnie non definiscono le richieste di risarcimento nei tempi stabiliti dalla legge, che prevede delle sanzioni alla violazione dei termini indicati. Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili, difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. I liquidatori introvabili, poi, sono capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche. Questi signori hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un giudice di pace di Sestri Ponente a toccare il tempo alle assicurazioni. Si chiama Roberto Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a diventare un esempio per decine e decine di automobilisti. «Le cause pendenti sono circa 1.500», rivela l’avvocato Massimo Bianchi, nella doppia veste di difensore nella causa pilota di Sestri e presidente dell’Associazione genovese dei legali specializzati in incidenti stradali.

Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto controllo presso le agenzie.

Le compagnie assicurative ritengono che vi sia un rapporto tra aumento dei sinistri ed aumento dei premi. Responsabilità dei sinistri da addossare interamente agli utenti automobilisti.

Con tale inchiesta si dimostra il contrario.

RCA: LA TRUFFA DI STATO

Prima di rendicontare sulla questione si premette che il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è sotto processo a Taranto per calunnia, senza che vi sia un solo atto che lo dimostri, per il sol fatto di aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli assicuratori.

La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a questo comportamento apparentemente senza senso?

Lo spiega il Dr Antonio Giangrande

Nuove regole.

«Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale. Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono "disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15 giorni.»

Ma perché?

«Rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato. Quaranta milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie, molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie "espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più alti.»

Ma la stessa rilevazione del numero dei sinistri e truffaldina.

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-04166 presentata da FELICE BELISARIO

Martedì 26 giugno 2007 nella seduta n. 177 BELISARIO e RAITI. - Al Ministro dello sviluppo economico - Per sapere - premesso che:

nel numero del 2 febbraio 2007 del settimanale a diffusione nazionale «DIARIO» è apparsa un'inchiesta a firma del giornalista, Mario Portanova con la quale venivano segnalate una serie di possibili alterazioni dei dati relativi ai sinistri all'interno dei centri di liquidazione danni delle maggiori compagnie assicurative italiane che, come è noto, negli ultimi anni si sono consorziate per la gestione in comune dei servizi di liquidazione (fra questi Fondiaria - Sai - Milano, Generali - Assitalia-Fata, Ras-Allianz-Bernese, Unipolaurora-Navale, eccetera), mantenendo sostanzialmente scorporate le singole imprese per la raccolta dei premi e la fornitura dei prodotti e servizi assicurativi;

in particolare, un'intervista ad un ex ispettore sinistri, che aveva già denunciato tali prassi alla Procura di Lecce, evidenziava come attraverso «semplici trucchetti» venivano alterati alcuni dati «grazie ai quali i premi delle polizze continuano ad aumentare, i bilanci delle compagnie vengono alterati...»: fra questi l'apertura fittizia di sinistri allo scopo di aumentarne la frequenza;

esige il dato più inquietante che emergeva è che se «queste stesse manipolazioni fossero state eseguite a livello di tutti gli ispettorati dei maggiori gruppi assicurativi... il risultato sarebbe stato un aumento vertiginoso dei sinistri. Vale a dire un danno agli assicurati, poiché il solo scopo del trucco era il mantenimento di elevati livelli tariffari. Tanto nessuno può controllare queste procedure, se non le stesse compagnie...»;

queste circostanze sarebbero confermate anche da altri addetti agli ispettorati sinistri di altre compagnie del territorio nazionale;

in virtù dei sistemi informatici utilizzati all'interno degli ispettorati di gruppo avverrebbe uno scambio dei dati sensibili di assicurati e danneggiati delle compagnie consorziate, senza alcun riguardo per il diritto alla privacy;

tale scambio di dati relativi al numero dei sinistri, e ai pagamenti, se gli stessi fossero conosciuti da tutte le compagnie all'interno dello stesso gruppo, potrebbe comportare una violazione della normativa antitrust o un aggiramento della normativa stessa;

l'eventuale alterazione dei dati statistici all'interno degli ispettorati sinistri e le eventuali anomalie indicate nella citata inchiesta possono comportare un'alterazione del leale svolgimento dei mercati assicurativi e quindi possono essere in grado di aumentare le tariffe relative ai premi di assicurazione;

allo stato, ai sensi del decreto legislativo n. 209 del 2005 (Codice delle Assicurazioni), il nostro ordinamento affiderebbe il controllo e la vigilanza sulle compagnie e sui gruppi di assicurazioni, all'organismo di vigilanza ISVAP -:

se non intenda chiarire, anche attraverso eventuali iniziative legislative, se la normativa sui poteri di vigilanza dell'ISVAP, permetta il controllo diretto e la vigilanza sui dati relativi alla gestione interna e tecnica dei servizi di liquidazione sinistri delle Compagnie assicurative e di quelli di gruppo, e quindi l'esercizio dei poteri prescrittivi e repressivi conseguenti, o relega l'ISVAP ad un ruolo di mero organo accertatore dei dati e delle statistiche fornite dalle compagnie e dai gruppi assicurativi, specie in tema di numero di sinistri, pagamenti e costi;

quali siano i dati di cui il ministero dispone, anche ai sensi dell'articolo 136 del citato codice delle assicurazioni, in merito alle vicende esposte.

INSICUREZZA STRADALE: QUELLO CHE NON SI DICE

Sul portale della “Associazione contro tutte le mafie”, è stato pubblicato uno studio approfondito sulla sicurezza della circolazione stradale.

«Il tema dell’insicurezza stradale è sentito da tutti. Ognuno di noi, o un proprio caro, conosce l’esito di un sinistro: lesione o decesso - dice il suo presidente dr Antonio Giangrande - Nessuno conosce per certo i numeri e le cause del fenomeno, per porvi rimedio, salvo assistere alle strumentalizzazioni per interesse privato di enti ed associazioni tematiche.»

Quante sono le vittime?

«Secondo i dati ISTAT-ACI, ogni giorno in Italia si verificano in media 633 incidenti stradali, che provocano la morte di 14 persone e il ferimento di altre 893. Nel complesso, nell’anno 2007 (ultimi dati disponibili) sono stati rilevati 230.871 incidenti stradali, che hanno causato il decesso di 5.131 persone, mentre altre 325.850 hanno subito lesioni di diversa gravità. Si sono persi per strada ogni anno almeno 90 mila sinistri stradali con lesioni rilevati dalla polizia municipale. Manca infatti un sistema centrale informatico per la raccolta dell'attività della polizia locale che da sola rileva in Italia 3 incidenti su 4. Lo ha evidenziato l'Anvu con la pubblicazione del secondo stralcio della ricerca statistica sui dati dei sinistri stradali relativi al 2008, effettuata con il portale poliziamunicipale.it. Secondo l'osservatorio della polizia municipale i dati elaborati, analizzando un campione di comuni pari quasi al 30% della popolazione residente, evidenziano che i dati ufficiali diffusi ogni anno dall'Istat a fine anno sono gravemente carenti di informazioni. Nel 2007, secondo i dati ufficiali dell'Istat, infatti, il numero complessivo di incidenti con feriti o decessi ammontava a 230.871. Secondo la stima elaborata dall'osservatorio Anvu – poliziamunicipale.it - nel 2008, quelli effettivamente occorsi erano 320.000, quindi 90.000 in più rispetto ai dati ufficiali del 2007.»

Quale è la tipologia delle vittime secondo i dati Istat?

«Conducenti e passeggeri di autovetture, autocarri, autobus e Tir: 7 morti al giorno. Pedoni: 2 morti ogni giorno. Passeggiare tranquilli tra le vie della propria città, lasciando per una volta a casa la macchina, può purtroppo trasformarsi in un vero incubo. La conferma viene dagli ultimi dati statistici in tema di incidenti stradali: in Italia, ogni giorno, circa 60 persone vengono investite sulla strada. Di queste, oltre 2 al giorno perdono la vita, mentre circa 58 devono farsi medicare per lesioni più o meno gravi. Ci sono state 758 vittime. I feriti fra i pedoni si sono attestati a quota 21.062. Le cause di questa "strage" restano quelle di sempre: alta velocità, guida in stato di ebbrezza, distrazione, segnaletica verticale ed orizzontale insufficiente. Comportamento generalmente imprudente unito ad una sorta di vera e propria intolleranza degli automobilisti verso il pedone. A questi fattori bisogna aggiungere strisce pedonali che in diversi casi hanno perso il colore e sono praticamente invisibili; auto e scooter parcheggiati sui marciapiedi che costringono il pedone a slalom o passaggi obbligati sulla strada, magari con passeggini o sacchi della spesa al seguito; autobus che effettuano le fermate in mezzo alla strada. Sul versante delle responsabilità dell'incidente, le statistiche indicano che nel 51% dei casi di investimento nessuna responsabilità è da attribuirsi al pedone; nel rimanente 49% troviamo invece delle forme di corresponsabilità: non è vero, quindi, che, come si sente dire, "il pedone ha sempre ragione". Il pedone, infatti, oltre a diritti ha anche dei precisi doveri da rispettare elencati nell'art. 190 del CdS. I ciclisti: 1 morto ogni giorno. Ultimo dato Istat disponibile: morti 317 ciclisti. E non è tutto: in appena 3 anni, secondo un'inchiesta pubblicata sulla rivista il Centauro sono quasi 1.000 i ciclisti che hanno perso la vita sull'asfalto, con 12.476 feriti, (35.491 in tre anni). E sempre secondo le statistiche si sono contate 15 vittime fra i bambini che andavano in bici dagli 0 ai 14 anni. 13 maschi e 2 femmine. Sono state invece ben 161 le vittime fra i ciclisti over 65, pari al 50,8%. Fra gli anziani 122 erano maschi 75,8% e 39 le femmine 24,2%. I motociclisti: 4 morti ogni giorno. Il 90 per cento dei decessi avviene in ambito urbano, per colpa di un traffico caotico, di strade in pessimo stato, di trasporti pubblici inefficienti che spingono all'utilizzo delle due ruote come obbligo e non come scelta, dei mancati controlli sui comportamenti indisciplinati e pericolosi dei guidatori delle due e delle quattro ruote”. I dati emergono dall'indagine della Consulta nazionale per la sicurezza stradale del Cnel sull'analisi di rischio delle due ruote a motore.»

Quali sono le cause?

«Sono marginali i sinistri causati dagli autisti dei Tir, che secondo le inchieste svolte sono costretti dalle aziende a guidare per giorni senza dormire. Guidatori che si tengono su con la cocaina. E nessun rispetto delle leggi. Come non sono quantificabili le cause dovute al fenomeno dei collaudi falsi. Il fenomeno dei collaudi falsi è esteso, ma sottaciuto, se non con qualche servizio di Striscia la Notizia. Causa di incidenti stradali possono essere molteplici fattori. Si va dalle semplici disattenzioni a incidenti causati dalla cattiva condizione della carreggiata o condizioni meteorologiche. Ma stranamente si parla solo di ubriachi al volante. Incidenti dovuti alla condizione della strada: Fondo ghiacciato o innevato o presenza di fanghiglia o di pietrisco, fogliame o altro materiale scivoloso sulla carreggiata; macchie d'olio sull'asfalto; allagamento da forte pioggia. Incidenti dovuti alla struttura della strada: La ristrettezza della strada, presenza di strettoie non segnalate; la mancata segnalazione degli incroci; la mancanza di segnaletica orizzontale o verticale; la presenza di ostacoli occulti ed imprevedibili; presenza di animali; fondo stradale disconnesso, scarsa illuminazione. Incidenti dovuti alla condizione ambientale: Pioggia, neve o grandine; nebbia fitta; forte vento laterale. Incidenti dovuti alla condizione del mezzo: Manutenzione scarsa o assente; gomme lisce; rottura improvvisa di componenti meccaniche. Incidenti dovuti alla condizione soggettiva: Abbagliamento; curiosità quando sull'altra corsia dell'autostrada è successo un incidente o si è intervenuti in aiuto senza segnalare la propria persona né i veicoli coinvolti nel sinistro; guidare con il cellulare, magari fumando una sigaretta o armeggiare con l’autoradio; distrazione o disattenzione per fattori interni all’abitacolo o esterni; colpo di sonno; violazione delle norme del codice della strada quali il limite di velocità, sorpassi azzardati, non rispetto della segnaletica; stato psicologico alterato da alcool e droga.»

Dai dati ufficiali risulta che la distrazione è la causa principale per gli incidenti stradali.

«La ricerca sui fattori soggettivi degli incidenti stradali, condotta dall’Istituto Piepoli con il patrocinio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e su incarico dell’Anas Spa, della Fipe e del Silb, ha stabilito che la causa principale degli incidenti stradali è costituita dall’alterazione cognitiva dei processi di attenzione del guidatore, che può essere determinata da fattori psicologi, da stili di vita “irregolari” ovvero da stress o da stanchezza.»

Per gli aderenti al CNOSS 1/3 dei decessi è colpa delle condizioni delle strade.

«Gran parte delle associazioni aderenti al CNOSS si sono costituite proprio a causa di incidenti determinati dalla pericolosità delle strutture viarie italiane, ma le coscienze profumano più di pulito se queste responsabilità vengono viste con ingiustificata "benevolenza". Ecco il loro comunicato stampa: “Lo stiamo dicendo da anni, attirandoci le antipatie di molti enti gestori delle strade. In Italia un incidente mortale su tre è imputabile alle condizioni delle strade. Oggi giornali e televisioni hanno dato la notizia "scoop" con grande enfasi ed apparente sorpresa. Dopo il polverone iniziale, temiamo che alle migliaia di morti ammazzati, che ogni anno perdono la vita a causa delle vergognose condizioni delle strade italiane (gli altri) si aggiungeranno altre migliaia di ignari utenti della strada che oggi hanno appreso la notizia con fatalismo e senso di impotenza (da sorteggiare tra noi tutti). Alcune domande sorgono spontanee: Se un incidente mortale su tre è dovuto alle condizioni delle strade, perchè le responsabilità di questi omicidi non vengono quasi mai imputate agli Enti gestori? Perchè le forze dell'ordine o gli altri organismi istituiti per garantire la sicurezza sulle strade non denunciano queste situazioni di pericolo senza attendere che ci scappi il morto?»

E le istituzioni cosa fanno?

«I sinistri stradali colpiscono anche coloro che dovrebbero vigilare sulla sicurezza della circolazione. Il 70% delle vittime in divisa sono deceduti su strada e non per conflitti a fuoco (10%) o altro, per mancanza dell'uso delle cinture e macchine in stato pietoso. L'incredibile dato arriva dall'inchiesta pubblicata sul Centauro di giugno 2009, la rivista dell'Asaps, “Associazione amici polizia stradale”. Ma quanti di questi agenti si sarebbero potuti salvare se solo avessero indossato le cinture di sicurezza? “Probabilmente molti - spiega Giordano Biserni, presidente dell'Asaps - perché spesso le "divise" non le indossano ritenendole d'impaccio per una possibile fase operativa. Inoltre l'elevata velocità, in emergenze per servizio, sarebbe meglio gestita in termini sicurezza dopo un'apposita formazione con corsi di guida sicura, che una volta si facevano, ma che nel tempo si sono persi. A noi preme - continua Biserni - la sicurezza di tutti, quindi anche degli agenti e la perdita di una vita non in un conflitto a fuoco, ma in un drammatico incidente stradale non ci consola di più. Anzi, ci fa ancora più rabbia”. In ogni caso una cosa è certa: il 70% dei casi un poliziotto perde la vita in un incidente stradale. E stupisce come nessuno si ponga il problema se una piccola associazione di volontari sia l'unica che solleva un problema tanto grave: anche queste sono morti bianche e non si può negare che un uomo o una donna in divisa siano lavoratrici e lavoratori come tutti gli altri. “Ma quando un difensore dello Stato ci lascia la vita - spiegano all'Aspas - non è sempre detto che l'evento che ha cagionato un esito letale non debba essere studiato a fondo per evitarne una dolorosa ripetizione. Prendiamo il caso di uno spericolato inseguimento: è sempre necessario correre a rotta di collo per fermare un sospetto?”»

«Certo è che nessuno parla delle morti evitabili – continua il Dr Antonio Giangrande - secondo gli studi effettuati, il 30 % delle morti è riconducibile al soccorso inadeguato. Fatto che ha precise responsabilità. La tempestività di un intervento qualificato sul luogo dell’incidente consente di ridurre al massimo l’intervallo privo di terapia, considerato maggiormente a rischio ai fini della sopravvivenza, e di esaltare, invece, le possibilità di recupero delle funzioni vitali (la “golden hour” nel trattamento immediato del politraumatizzato) determinando una riduzione degli esiti infausti nel secondo picco di mortalità. Un’analisi retrospettiva di oltre 700 decessi ha evidenziato che il 52 per cento delle morti avviene sul luogo dell’incidente o comunque prima dell’arrivo in ospedale, mentre del restante 48 per cento delle vittime, il 23 per cento muore entro un’ora dal trauma ed un’ulteriore 35 per cento entro le prime 24 ore. La percentuale di “morti evitabili”, intendendo con questo termine quelle dovute ad insufficienza o ritardo nel soccorso immediato pre-ospedaliero, è stata valutata retrospettivamente in misura del 70 per cento qualora non coesistano gravi lesioni del SNC ed in misura del 30 per cento nel caso in cui queste siano presenti. È da considerare, inoltre, l’esistenza di una elevata quota di decessi e di sequele funzionali post-traumatiche gravi dovute non già al trauma di per se stesso, bensì al verificarsi di eventi successivi, connessi con un primo soccorso non qualificato o con l’invio in strutture non idonee: ad esempio, lesioni neurologiche irreversibili causate da uno stato di shock emorragico non adeguatamente corretto, lesioni ischemiche di arti fratturati non sufficientemente immobilizzati durante il trasporto, danni midollari spinali da incauta estrazione del traumatizzato dal veicolo, ecc. In Italia, un’analisi autoptica retrospettiva di 110 soggetti deceduti per trauma ha evidenziato che la causa principale di morte era rappresentata da shock emorragico per lesioni che sarebbe stato possibile trattare chirurgicamente.»

Collaborare alla divulgazione di tali inchieste è un modo alternativo per battere censura ed omertà.

RCA: LA TRUFFA DI STATO

Prima di rendicontare sulla questione con con l’inchiesta di “La Repubblica” si premette che il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è stato processato a Taranto per calunnia per il sol fatto di aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli assicuratori.

La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a questo comportamento apparentemente senza senso?

Nuove regole - Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale. Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono "disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15 giorni.

Ma perché? - Ma rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato.

Quaranta milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie, molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie "espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più alti.

La protesta dei consumatori e l'incapacità del sistema di trovare altre strade.

Mario, lo chiameremo così, non l’ha presa bene. La sua vecchia compagnia di assicurazione gli ha dato il benservito. Con una lettera che spazza via tutti quegli anni passati a pagare puntualmente la polizza. C’era stato un solo incidente con colpa, due anni prima di quella disdetta che lo mette alla porta. Mario però non ne vuole sapere, in fondo con quel "marchio" si trova bene. E allora, norme alla mano, pretende un altro contratto. L’assicuratore prima nicchia, poi risponde con una nuova proposta pronta per essere firmata. Manca solo un piccolo particolare: il prezzo. Che di colpo passa da 1.600 euro l’anno per la sola responsabilità civile, a 9mila euro, quasi sei volte di più. La storia di Mario è diventata un caso di scuola tanto che l’Isvap, ricevuta la denuncia del cittadino, ha aperto un fascicolo e tra qualche settimana appiopperà una multa salata all’impresa che ha tradito la fiducia del suo assicurato. Ma questa sanzione basterà a scoraggiare altri casi come questo?

Quel che sembra un caso limite, in realtà coinvolge ogni anno migliaia di automobilisti con pochi o a volte nessun incidente alle spalle. Improvvisamente arrivano disdette a pioggia, e l’obbligo ad assicurare viene aggirato con nonchalance. Ma perché le compagnie disdicono le polizze, invece di fare pulizia nell’azienda, tagliare i rami secchi e le inefficienze? Semplicemente perché preferiscono ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese. E puntano sulla scorciatoia della "cacciata" dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. Basta una piccola macchia (a volte nemmeno quella) per far suonare il campanello d’allarme negli uffici delle aziende del settore. Che, legge alla mano, procedono alla rescissione dei contratti. Sì perché le norme in vigore, nate per garantire l’assicurato e favorire la concorrenza, in realtà mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono disdettare polizze senza problemi. A partire dal 2006, infatti, il nuovo Codice delle Assicurazioni private ha introdotto una disciplina con tempi di preavviso ridotti a 15 giorni. Quello delle disdette è un fenomeno che, sulla spinta della crisi economica, rischia di esplodere: automobilisti con alle spalle decenni di guida "pulita" senza nemmeno un sinistro, e incappati magari in uno o due incidenti nell’ arco degli ultimi tre anni, si vedono recapitare dal postino il benservito. A quel punto scatta la spasmodica ricerca di una soluzione: c’è chi chiede di restare con lo stesso "marchio" (è un diritto dell’automobilista) e chi va in cerca dell’alternativa (spesso costosa).

Ma c’è anche un altro sistema per tenere lontani automobilisti poco affidabili, troppo giovani e inesperti, o semplicemente residenti in aree giudicate a rischio truffa (il Sud, ma non solo): si propongono tariffe fuori mercato, anche cinque o sei volte più alte del normale per convincere il malcapitato guidatore a cercare altrove la propria polizza. In questo caso si verifica una "elusione dell’obbligo a contrarre" le polizze, un dovere per le assicurazioni, che è stato sancito anche dalla Corte di Giustizia europea e che nei prossimi giorni verrà sanzionato con multe milionarie dall’Isvap. Negli ultimi mesi, i due fenomeni stanno rapidamente contagiando le agenzie e molti automobilisti rischiano di pagare polizze più care anche del 30% per assicurare di nuovo il proprio veicolo. Soltanto l’anno scorso le imprese hanno ricevuto ai propri centralini 114mila reclami. Di questi, 70mila riguardano la RC auto. E se il 70% tocca il tema dei risarcimenti, gli altri casi sono stati causati proprio da disdette e classi bonus-malus incoerenti. Nei prossimi giorni arriveranno le prime pesanti sanzioni nei confronti di tre società entrate nel mirino dell’istituto di vigilanza per il fenomeno dell’elusione. Entro il 2011 toccherà ad altre undici compagnie. In totale ci sono 14 gruppi assicurativi sui quali si abbatterà la scure dell’Isvap per un totale di quasi 30 milioni di multe che vanno ad aggiungersi ai 31 già cumulati per altre motivazioni nel corso del 2011 per un totale da record di 60 milioni di ammende. Le 14 compagnie rappresentano quasi il 20% del mercato. Segno che in alcune aree del Paese almeno due compagnie su dieci applicano sistematicamente l’elusione. Francesco Avallone di Federconsumatori conferma: "Soprattutto al Centro Sud le compagnie stanno violando l’obbligo a contrarre muovendosi in due direzioni: da una parte disdicono polizze a clienti che non hanno mai causato dei sinistri, dall’altra rinnovano polizze a prezzi quadruplicati, in modo da spingere questi clienti a non riassicurarsi. Così da abbandonare il territorio economicamente meno vantaggioso". Secondo l’Isvap, inoltre, tra il 2004 e il 2009 c’è stato un calo del 30% degli uffici di liquidazione dei sinistri, per lo più al Sud dove spesso le organizzazioni criminali scambiano i liquidatori per dei bancomat al loro servizio. Ecco perché nel Meridione oggi c’è un cosiddetto "punto di contatto" ogni 17.329 veicoli circolanti, mentre nel 2009 erano 15.854. In Campania si sale addirittura a 32.617. Al Nord ce n’è uno ogni 10.527 veicoli.

Per l’Ania, l’associazione che rappresenta il settore assicurativo, le disdette sono legali e non vanno intese come una "punizione del consumatore". "È vero che il cliente si sente come tradito dalla compagnia", spiega Vittorio Verdone, direttore "Auto, distribuzione e consumatori" dell’associazione, "ma dobbiamo pensare alle polizze auto come ad un contratto di assicurazione e non ad un servizio soggetto a tariffazione. E quando crescono le difficoltà per le aziende - con costi più elevati magari dovuti alle truffe, alle microinvalidità fino al 2%, o ad alcune norme come la Bersani - allora si seleziona il rischio". Il cliente allontanato può comunque rientrare, anche se il "premio" risulterà generalmente più alto del precedente.

Proprio le truffe restano uno dei punti dolenti del nostro sistema assicurativo auto. Se è vero - come ha spiegato il presidente dell’Antitrust Catricalà al Senato - che le tariffe sono aumentate del 25% per le auto e del 35% per i motocicli negli ultimi due anni, è anche vero che l’incidenza delle truffe deprime i bilanci delle compagnie. Non siamo ancora ai livelli della Gran Bretagna e della Francia, dove questi reati incredibilmente accadono molto più spesso che in Italia. Ma in alcune aree del nostro Paese le truffe raggiungono picchi insostenibili. È un business in costante sviluppo. I soli incidenti fraudolenti (e solo quelli scoperti) valgono 340 milioni. Poi ci sono le microlesioni (quelle inferiori al 9% di invalidità, come il colpo di frusta), una specialità della giurisprudenza nazionale. In Francia la disciplina n’existe pas, non esiste, ed è poco sviluppata nel resto d’Europa. Fatto 100 il totale costi dei risarcimenti Rc auto, solo il 35% va alle riparazioni, mentre il 41% (5,7 miliardi) è destinato a morti o invalidità gravi (superiori al 9%) e il 24% (3,4 miliardi) finisce alle lesioni di lieve entità. Quelle molto lievi, da 1 o 2 punti di invalidità, costano più di 2 miliardi l’anno e rappresentano due terzi delle lesioni con danni fisici. È la "sindrome del colpo di frusta", che flagella il Meridione e mantiene attorno al 40% i sinistri con feriti nelle province di Crotone, Brindisi, Taranto, Foggia, Bari, Lecce. Ma perché allora, non si combatte davvero il fenomeno delle truffe? Secondo l’Isvap le imprese dovrebbero investire per combattere questi comportamenti. Le compagnie — che a dir la verità preferiscono non denunciare certi reati — replicano che di frodi dovrebbe occuparsi l’autorità giudiziaria, perché spesso costa di più raccogliere le prove indiziarie che non liquidare qualche migliaio di euro. Talvolta, infine, false imprese si scambiano i ruoli (fraudolenti) con i clienti: i fenomeni di abusivismo e commercio di polizze contraffatte nel 2011 sono più che raddoppiati: sono 25 i casi individuati rispetto al 2010. Sono compagnie pirata che raggirano ignari cittadini offrendo premi stracciati, dietro cui non ci sono strutture né riserve né risarcimenti. Solo un contrassegno finto. I grandi aumenti: +30% in due anni In soli due anni i costi di una polizza Auto sono schizzati verso l'alto del 25% mentre quelli delle moto hanno raggiunto picchi di incremento del 35%. Secondo i dati dell'Antitrust, c'è stato un aumento del 25% tra il 2009 e il 2010. E un incremento con punte del 35% se si considerano gli anni che vanno dal 2006 al 2010.

Disdetta senza motivo. Mai un incidente, eppure la compagnia assicuratrice di Luciana di Gaeta ha cancellato la polizza per poi proporle di rientrare a una tariffa molto più alta. Mai un incidente, eppure indesiderata. Luciana S. di Gaeta ha ricevuto, incredula, la disdetta della polizza dall'assicurazione pur non avendo mai creato problemi alla sua agenzia: regolari i pagamenti del premio, mai uno scontro fatto o subìto. "Ho chiamato la mia agenzia - racconta Luciana - e mi hanno detto imbarazzati che la disdetta era dovuta a "motivi commerciali". Subito dopo mi hanno detto che, se volevo rientrare, dovevo azzerare il vecchio contratto e assicurarmi come nuovo cliente, a una tariffa notevolmente più alta. A questo punto sono stata costretta a rivolgermi a un'altra compagnia. E neanche qui è stato facile: ho perso giorni e giorni per trovare un assicuratore che applicasse condizioni almeno decenti".

Come diventare indesiderato. Due piccoli incidenti negli ultimi due anni dopo dieci senza un graffio. Tanto basta a Mario di Roma per ricevere una lettera e una telefonata che chiudono il contratto. Dieci anni senza fare un graffio alla macchina. Poi due piccoli incidenti (con colpa) negli ultimi due anni. Abbastanza per diventare un "indesiderato". La compagnia fa recapitare una lettera a Mario di Roma, e poi telefona per sancire il divorzio. "Dopo proteste e reclami, mi sono rassegnato a cercare un'altra compagnia. Ne trovo una telematica e faccio il preventivo denunciando i due incidenti avvenuti per mia colpa. Prezzo vantaggioso, pago il dovuto e attivo la polizza. Troppo bello. Un operatore mi contatta e mi chiede se, oltre ai due incidenti per colpa, ne avessi avuto anche uno senza colpa. Era così, in effetti. Risultato? Il preventivo quasi raddoppia. Io, rassegnato, non posso che pagare".

L'attestato di rischio negato. Gianluca di Rieti voleva cambiare compagnia ma quella vecchia gli fa lo sgambetto: non gli fornisce l'attestato di rischio e lui deve affrontare costi maggiorati. Prova a cambiare compagnia assicurativa, ma quella vecchia gli fa lo sgambetto: non gli dà l'attestato di rischio e Gianluca di Rieti finisce in un vicolo cieco. "Sono andato in agenzia per farmi fare un preventivo e sottoscrivere la nuova polizza. Avevo con me molti documenti della vecchia assicurazione. Ma non l'attestato. La nuova agenzia mi ha spiegato che avrebbe attivato l'assicurazione, ma io sarei rientrato nell'inferno della classe 14. Io, che partivo da una classe 4. Il risultato concreto? Costi da mal di testa per la nuova polizza. Avere l'attestato di rischio non è forse un mio diritto?". Nessun avviso e 170 euro in più.

Una polizza a consumo chilometrico, un aumento consistente senza avvertire e senza spiegare. E alla fine per Raffaella di Roma il rinnovo forzato per non restare scoperta. Raffaella di Roma ha dal 2006 una polizza a consumo chilometrico. Quest'anno si è vista aumentare il premio di 170 euro senza essere stata avvertita e senza aver ricevuto l'attestato di rischio (l'agenzia sostiene di averlo spedito, ma non può provarlo). "Se volessi rescindere il contratto, avrei l'obbligo di portare l'auto in una specifica officina per far rimuovere l'apparecchio che conta i chilometri. Costo: 120 euro. Quando ho chiesto che motivassero questa spesa, mi hanno detto di non poterlo fare. Alla fine, con la polizza scaduta da undici giorni, ho dovuto rinnovare, forzatamente, con la vecchia compagnia. Un altro anno, pur di non restare senza copertura".

Ritardo ingiustificato. Quando hanno capito che Angela di Roma stava per mollarli, quelli della compagnia hanno prima allungato i tempi dell'attestato di rischio, poi fatto un'offerta più vantaggiosa. Angela C. di Roma ha chiesto l'attestato di rischio, inutilmente: "Quando la mia compagnia ha fiutato che stavo per mollarli, mi ha avvertito che avrei dovuto aspettare oltre un mese per via di problemi burocratici interni. Ho tenuto la posizione: a me - ho precisato - l'attestato serviva subito. Alle mie proteste l'agente ha inviato una proposta migliorativa della polizza che alla fine, per forza di cose, ho accettato. Vorrei chiedere: non potevano applicarmi queste condizioni più vantaggiose senza aspettare il mio pressing?".

Tempi troppo lunghi. Tre anni senza macchina, poi Anna la ricompra e tenta invano di assicurarla con una compagnia online, respinta da richieste di documentazione eccessive e lungaggini. Anna era una cliente di un'assicurazione online. Ma la polizza era ormai scaduta da tre anni, non avendo più l'auto. Decide di acquistare una nuova vettura. Dopo una ricerca online trova una nuova assicurazione, più vantaggiosa della precedente, sempre telematica. Ottenuto a fatica l'attestato di rischio, la nuova assicurazione "mi chiede tutta una serie di documenti, tra cui un'autocertificazione dove dichiaravo di non aver avuto incidenti negli ultimi tre anni. Avrei ricevuto una risposta entro massimo un mese, a meno di stipulare l'assicurazione entrando in 14esima classe. Alla fine, sono rimasta con la vecchia compagnia, che nel frattempo mi ha proposto, a fronte di un piccolo sconto sulla polizza, la sottoscrizione di un'assicurazione sulla casa".

Il diritto di recedere. Cinque anni senza un sinistro, così per Lucio è stata una sorpresa ricevere una lettera in cui si dice che, per mutate condizioni di mercato, la tariffa va modificata. Lucio era assicurato dal 2006 con una compagnia. Tutti i pagamenti regolari, mai un sinistro, né con colpa né senza colpa. "Il 22 settembre mi hanno mandato una lettera in cui dicevano che - per mutate condizioni di mercato - non potevano confermare il contratto a quelle tariffe. Li ho chiamati per avere spiegazioni e mi hanno detto che era loro diritto recedere come lo è per il cliente. In ogni caso, non potevo ricevere spiegazioni via telefono. Avrei dovuto inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno. A quel punto, ho finto di abboccare: ho detto che avrei accettato le loro nuove condizioni. Erano così felici di sbranare la loro preda che sono rimasti al telefono minuti e minuti, diventando prodighi di informazioni".

Domande pretestuose. Una compagnia trovata su internet, un preventivo conveniente. Ma al dunque, per Marco da Genzano, è arrivato un interrogatorio così invadente da spingerlo a rinunciare. Marco M. di Genzano aveva individuato su Internet una compagnia assicurativa che applicava condizioni vantaggiose. "Mi hanno fatto un preventivo conveniente, mi sono preso alcuni giorni per valutare alcune clausole prima di prendere una decisione. Quando finalmente mi sono deciso a sottoscrivere la polizza, l'impiegato ha allungato i tempi con domande pretestuose sulla mia condotta di guida, costringendomi a tornare alla fine alla compagnia di provenienza".

L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso contro l’ISVAP al Ministero dell’Economia per la violazione della Concorrenza del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa in campo assicurativo, in cui si prevede il plurimandato e la conoscenza delle tariffe più convenienti.

Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, il quale ha rilevato che vi è fondato motivo di approfondire la tematica sottesa.

Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo ed ogni altra forma di divulgazione delle tariffe RCA, impedendone di fatto la conoscenza per valutarne la loro convenienza.

Il D.Lgs 209/2005 ha disposto l’iscrizione nel registro degli intermediari assicurativi di tutti coloro che svolgono la professione di agente o subagente assicurativo. Inoltre le ultime norme di riforma, per agevolare la concorrenza ed il mercato a tutela degli operatori e degli utenti, prevedono la possibilità del plurimandato per gli agenti assicurativi, e per effetto, estesa per i subagenti.

Invece di tutt’altro verso va il regolamento ISVAP n. 5 del 16/10/2006:

nella parte in cui prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione in una sola delle sezioni. In questo caso, l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia;

nella parte in cui prevede l’incompatibilità lavorativa, che inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro;

nella parte in cui impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti;

nella parte in cui impone l’iscrizione dei subagenti a mera facoltà degli agenti.

Tutte le compagnie di assicurazione, obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti, sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.

Alla mancata concorrenza si riscontra l’indecenza del costo della RCA, che spesso è superiore al valore del veicolo assicurato!

Le Compagnie assicurative indicano le spese legali come causa di maggiori esborsi risarcitori.

Se ciò è vero, perché non definiscono le richieste di risarcimento nei tempi stabiliti, nonostante la legge preveda delle sanzioni alla violazione dei termini indicati? Basta pagare per tempo e l’Avvocato non ha necessità di intervenire, ingolfando di cause il sistema giudiziario. Le compagnie, proprio per il vizioso sistema giudiziario, speculano sui tempi. Intanto il cittadino non saprà mai se la compagnia inadempiente, già segnalata, è stata punita, perché l’ISVAP, su richiesta di riscontri da parte del danneggiato a tutela dei suoi interessi, tace, celandosi dietro il segreto d’ufficio o alla legge sulla privacy.

Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili, difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Fatte salve le eccezioni riscontrate. Le assicurazioni che rispondono evasive alle richieste di risarcimento dei danni e i liquidatori introvabili, capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche, hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un Giudice di Pace di Sestri Ponente a toccare la tasca delle assicurazioni. Si chiama Roberto Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a diventare un esempio per decine e decine di automobilisti.

Le Compagnie assicurative indicano i sinistri truffa come causa di maggiori esborsi risarcitori.

Se ciò è vero, perché non smascherano i truffatori? Basta verificare la veridicità delle dinamiche indicate, le testimonianze prodotte, la vetustà dei danni. Questo non succede, perché metterebbero in dubbio la credibilità di alcuni Avvocati, quale parte avversa, minando la reciproca indulgenza.

I dati raccolti dall'Isvap sono contenuti nella relazione annuale dell'Ania: ogni cento incidenti vengono riscontrati tre tentativi di frode ai danni delle assicurazioni. La media nazionale è stata del 2,8%, ma il fenomeno è molto più frequente soprattutto al sud dove la media italiana si triplica arrivando all'8,3%, con il caso limite di Napoli (16,8%).

Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto controllo presso le agenzie.

Le Compagnie assicurative ritengono antieconomiche le polizze RCA.

Se la RCA è antieconomica per le compagnie, perché solo alcune di loro prevedono alla scadenza, senza disdetta, la cessazione automatica del contratto, lasciando liberi i loro clienti?

In conclusione. Se il rincaro ingiustificato RCA è dovuto ad aggravio di costi riconducibili a colpe delle Compagnie, ciò è civilmente illecito. Se il rincaro ingiustificato RCA è dovuto a dolo delle compagnie, ciò è reato da perseguire, senza impunità ed immunità. E’ una truffa contro l’utente, contraente coatto per obbligo di legge.

Intanto il cittadino nel disinteresse generale protesta inascoltato, emula e disimpara la legalità.

G COME MAFIA DEL GIUSTIZIALISMO E DELL’IMPUNITA’

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “STEFANO CUCCHI & COMPANY” E “IMPUNITOPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati in 26 anni. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più realistica responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la situazione effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione civile? Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi, visto che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Le domande sono di per sé pochissime: poco più di 16 all'anno. Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime, sta nella complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato. Del resto, fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di «ammissibilità» da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un'impugnazione da parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l'8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti (generalmente dopo lunghi anni dalla presentazione). E come sono terminati i giudizi? Malissimo per i ricorrenti: perché anche alla fine del tormentatissimo iter legale, quasi metà delle richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte: ben 17. E soltanto 7 sono state accolte. Sette in totale, sulle 410 avviate: ovverosia l'1,7%. A guidare la classifica dei giudizi negativi per i magistrati è il tribunale di Perugia, con 2 casi. Un caso a testa riguarda invece le avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce, Reggio Calabria e Trento. Al momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10 riguardano l'avvocatura di Messina, al primo posto; altri 7 sono a Salerno, altri 4 a Roma e altrettanti a Trento. Tre casi si segnalano a Potenza e ad Ancona. Due a testa sono pendenti davanti alle avvocature di Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova. Una riguarda Napoli, un'altra Brescia, l'ultima Venezia. I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto. 

La responsabilità civile dei Magistrati esiste dal 1988, in 26 anni solo 4 condanne. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione» Voltaire. Da quando esiste la legge sulla responsabilità civile i magistrati non hanno mai sborsato un euro. C’è una legge che regola la responsabilità civile dei giudici. Esiste dal 1988 ed è nota con il nome di “Legge Vassalli”, scrive Enrico Novi su Il Garantista del 6 agosto 2014. Quella norma prevede in teoria che lo Stato, se costretto a risarcire un cittadino per un errore giudiziario, possa rivalersi sul giudice. In teoria, appunto. Perché in pratica quest’ultima circostanza si è verificata zero volte. Da 26 anni cioè non è ma successo che un magistrato abbia pagato per un proprio errore. Il che fa comprendere per quale motivo il ministro della Giustizia Andrea Orlando intenda rivedere la norma. Meno comprensibili sono le resistenze opposte dall’Anm. Soprattutto se si pensa che ogni anno vengono intentate, per esempio, decine di migliaia di cause per errori sanitari (circa 600mila dal 1994), e che di queste un terzo si conclude con una condanna. Su una cosa il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli batte con insistenza, riguardo alla responsabilità civile: non vanno toccati i filtri di ammissibilità. Il che di fatto equivale a dire che la legge Vassalli deve sopravvivere così com’è. Perché i “filtri” – cioè la valutazione di ammissibilità delle cause per danno giudiziario – rappresentano il punto decisivo: se non si tolgono quelli non cambia niente. E se non cambia niente i giudici continueranno a non risarcire un euro. Un euro che sia uno, e non è un’iperbole. Dall’introduzione della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, infatti, non è mai successo che lo Stato si rivalesse su un giudice. Mai, neppure una volta in 26 anni, perché la Vassalli è dell’88. Venne approvata per recepire l’esito di un referendum promosso dai radicali l’anno prima. Dopo 26 anni, con tutto il rispetto del grande giurista di cui porta il nome, si può dire che quella legge è una presa in giro. Non nelle intenzioni, evidentemente, ma nei fatti sì. In 26 anni solo 4 volte è capitato che arrivasse a sentenza definitiva una causa di risarcimento intentata contro lo Stato per un errore giudiziario. Parliamo di 4 volte in 26 anni, cioè in media viene condannato un giudice ogni 6 anni e mezzo. Dopodiché neppure in queste 4 misere occasioni il giudice in questione ha tirato fuori un soldo. Perché? Lo si deve proprio alla formulazione della legge Vassalli. Che su un punto si è rivelata particolarmente vaga: l’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Tale obbligo è formulato in modo talmente vago che di fatto non esiste. Cosicché neppure in una delle 4 occasioni in cui lo ha dovuto pagare un cittadino per colpa di un giudice, lo Stato ha provveduto ha rivalersi sul responsabile. Certo, seppure lo avesse fatto, il giudice non avrebbe comunque tirato fuori un euro dalle proprie tasche. Dalle buste paga di tutti i magistrati italiani infatti viene trattenuta una piccola quota che serve a pagare l’assicurazione sulla responsabilità civile. A quanto ammonta? “Io ho smesso di fare il giudice nel 2001: all’epoca la trattenuta era di 100mila lire l’anno”, ricorda il presidente della commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma. Oggi si arriva a circa 150 euro l’anno. Cifra davvero bassa: per una categoria di medici particolarmente esposta alle cause civili come quella dei chirurghi possono scattare premi assicurativi superiori ai 15mila euro, come segnala l’Ordine dei medici di Pavia. In pratica per ogni euro pagato all’assicurazione da un giudice, un chirurgo ne paga 100. Come si può intuire la posizione rigida assunta dall’Anm su questa materia rischia di perpetuare un effetto paradossale, di certo non voluto: ossia di preservare non solo l’intangibilità delle toghe ma anche il lucro delle assicurazioni. In 26 anni di legge Vassalli le compagnie hanno occupato il tempo a stappare champagne. Due conti: oggi a ogni magistrato vengono trattenuti in media 150 euro l’anno per la polizza; moltiplicato per i 9.000 magistrati italiani fa un milione e 350mila euro l’anno; moltiplicato per 26 anni, pure a tenere conto dell’inflazione, siamo intorno ai 30 milioni di euro. Una cifra regalata alle assicurazioni, pulita. Perché come detto, in questi 26 anni le compagnie non hanno mai dovuto pagare neppure un risarcimento. È pur vero che in qualche modo l’interesse delle toghe coincide con quello degli assicuratori. Se infatti le maglie della responsabilità civile fossero allargate, come vorrebbe fare il ministro Andrea Orlando, e aumentasse il rischio di veder condannati gli errori giudiziari, da una parte le compagnie comincerebbero finalmente a risarcire qualche danno, dall’atra aumenterebbero anche i premi assicurativi. Cioè potrebbe succedere che lo Stato debba trattenere dalla busta paga di un magistrato una cifra un po’ più consistente degli attuali 150 euro. Sempre di soldi si tratta, dunque. Di soldi e di rischi: roba da broker più che da guardasigilli. Ecco perché nella riforma di Orlando ci sono almeno altri due aspetti, oltre all’eliminazione dei filtri di ammissibilità, che tengono in allarme l’Associazione nazionale magistrati. Il primo è la definizione precisa dell’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Secondo la scheda tematica pubblicata l’altro ieri sul sito del ministero della Giustizia, la rivalsa sarebbe automatica non solo nel caso estremo del dolo (lo è già oggi) ma anche di fronte a una particolare fattispecie di colpa grave: la cosiddetta “mancanza per negligenza inescusabile”. Il secondo motivo di tensione tra governo e giudici è l’estensione dei casi nei quali un giudice può essere citato in giudizio: l’esecutivo pensa di recepire un’indicazione della Corte europea, secondo cui la responsabilità civile di un giudice deve essere prevista anche in caso di mancata adesione alla giurisprudenza comunitaria. L’Anm vorrebbe che questa casistica venisse limitata il più possibile. Il match, come si vede, è destinato ad andare avanti per parecchie riprese.

LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE

ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma

Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione

Responsabilità Civile e Tutela Legale

(si prega di scrivere in stampatello)

Il sottoscritto_________________________________________________________________________________

Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________

Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________

Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:

Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________

Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________

Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza

Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:

a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.

Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.

_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma

Negli ultimi 50 anni si valutano 5 milioni di cittadini vittime di errori commessi dai magistrati. Responsabilità civile dei magistrati? 7 casi accertati in 26 anni. Tanto poi paga l'assicurazione con polizza del costo di 150 euro circa l'anno. Il filtro posto dalle toghe contro le toghe funziona. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona.  Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario.

Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione. Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.

"Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada". Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.

Si stima che, dal 1988, circa 50 mila persone siano state vittima di ingiusta detenzione e errore giudiziario, e che dal 1991 lo Stato abbia risarcito per circa 600 milioni di euro questi innocenti - viene spiegato a tempi.it dal presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio Spigarelli  Eppure, dal 1988, su 400 cause presentate per la responsabilità civile dei magistrati, solo 4 magistrati sono stati condannati. Com’è possibile e cosa ne pensa? La somma delle vittime e dei risarcimento è al ribasso. Si tenga conto che per l’ingiusta detenzione non sempre lo Stato concede il risarcimento, anche a fronte di una sentenza di assoluzione totale dell’ex detenuto. Purtroppo, anche la legge attuale sulla responsabilità civile è fatta male: c’è un filtro preliminare alle cause, di cui si occupa ovviamente la magistratura stessa. La legge oggi prevede la responsabilità solo per dolo o colpa grave, cioè solo per gravissimi casi. Restano esclusi ad esempio tutti gli errori di interpretazione delle prove o delle leggi, per cui se anche ci fosse un magistrato che compisse un errore clamoroso, come inventarsi una legge, paradossalmente non avrebbe responsabilità civile.

Entriamo nel mondo degli insabbiamenti e dell’impunità. Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”, scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm. E noi adesso lo diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa).

Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);

- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);

- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%);

- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);

- 2 sono stati  i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia?

Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di sanzioni disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è previsto un filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione. Tra il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498 (il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle denunce è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano...

9. E la responsabilità civile?

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte, pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.

10. Da zero a uno: meno di 0,5.

Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

Magistratura italiana: verità e omissioni. L'Associazione Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno, cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini.

Chi giudica i giudici? Nessuno a quanto pare, perchè non sono trasmesse le notizie dei procedimenti a carico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 28 settembre 1995, ha approvato la circolare in oggetto, (CSM. Circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995) che di seguito si riporta:

“Con deliberazione n. 151/91 in data 13 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura ha richiesto ai Procuratori Generali ed ai Procuratori della Repubblica:

a) di dare immediata comunicazione al Consiglio, con plico riservato al Comitato di Presidenza, di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio;

b) prescindendo dall’obbligo di informazione previsto dall’art. 129 disp. att. c.p.p. di informare di loro iniziativa il Consiglio, oltre che dei fatti cui il procedimento si riferisce e del suo inizio, anche del suo svolgimento, nelle varie fasi e nei diversi gradi, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone;

c) di trasmettere di loro iniziativa i provvedimenti più rilevanti e quelli conclusivi nelle diverse fasi e nei vari gradi dei procedimenti e dei processi a carico di magistrati.

Con la deliberazione in data 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il Consiglio ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità in linea di principio del segreto investigativo e della rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza.

Si sono dovute constatare notevoli difficoltà di adempimento da parte di numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le dovute comunicazioni ed il Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso la stampa di procedimenti riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti alla conclusione della indagine preliminare.

Quasi mai gli uffici del pubblico ministero provvedono ad una informativa sui fatti cui il procedimento si riferisce, né trasmettono di loro iniziativa gli atti conclusivi delle fasi e gradi del procedimento, né i provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi di indicazioni utili al Consiglio.

Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non siano nel medesimo tempo fatte ai titolari della azione disciplinare, con evidente pregiudizio per l’esigenza di pronta informazione del Ministro di Grazia e Giustizia e del Procuratore Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione.

Tale stato di cose impedisce al Consiglio di svolgere le proprie funzioni e si traduce in uno spreco di attività di comunicazione, richiesta, sollecitazione, ecc.."

Chi giudica i giudici? Si chiede Enzo Rosati su “Panorama”. Meglio di qualsiasi convegno, meglio di ogni polemica tra politici e magistrati, la realtà, se conosciuta, apre gli occhi all'opinione pubblica su come funziona la giustizia in Italia. E cioè male. Un solo lato positivo: molti hanno potuto rendersi conto dell'esistenza e dell'importanza di vari, differenti e stavolta antagonisti ruoli e livelli di indagine e giudizio anche in un'inchiesta all'inizio, prima dell'arrivo in tribunale. Procura, polizia giudiziaria, giudice delle indagini preliminari, tribunale del riesame. Ognuno ha giocato la sua parte, e questa è stata evidenziata, analizzata, sviscerata. Finora agli occhi dell'opinione pubblica esisteva in pratica una verità: quella dei pubblici ministeri, cioè della procura. Dell'accusa. Un indagato diventava quasi automaticamente un colpevole. Un indagato messo in galera, poi, un colpevole doppio, perché il carcere in nessun altro modo era (e purtroppo è) percepito se non come l'anticipo della "giusta" pena. "Giusta" sulla base delle indiscrezioni fatte filtrare dalle stesse procure e dalla polizia giudiziaria. Un circuito perverso, è stato detto inutilmente mille volte; la condanna morale e materiale emessa non da un giudice ma da una parte in causa. Quanti si ricordano della presunzione d'innocenza, che nessuno può essere dichiarato e considerato colpevole prima dei tre gradi di giudizio? Quanti tra la gente comune sanno che anche l'operato di una procura è soggetto alla verifica di un gip e di un tribunale del riesame? Non è certo la prima volta che un'inchiesta viene sconfessata, una sentenza ribaltata. Non raramente si è assistito a un contrasto così forte a palese sui fondamenti stessi di come si debba condurre un'indagine, di come si possa mettere in carcere una persona o semplicemente additarla al pubblico sospetto. È evidente che qualcuno ha sbagliato. La procura? I carabinieri? Il gip? Il Tribunale del riesame? Può capitare. Ma che cosa suggerirebbe la logica? Che chi sa di non disporre di prove e indizi certi per accusare una persona di un reato si rimetta al lavoro per capire gli errori, coprire le lacune o, se è convinto di ciò che fa, andare avanti. Ma soprattutto che taccia. Non per punizione, ma perché lo impongono l'etica professionale, il dovere d'ufficio, il rispetto degli altri e il semplice buon senso. «Non commentiamo, non rilasciamo dichiarazioni, proseguiamo il nostro lavoro». Ottima idea. Smentita 24 ore dopo da una raffica di interviste. E che interviste. 1) far capire che il gip è forse troppo giovane ed esuberante, e per questo «non ha dato adeguatamente conto del lavoro dei carabinieri»; 2) che la procedura del Tribunale del riesame «è del tutto nuova»; 3) che «a forza di dubbi finiremo per dubitare che un delitto ci sia stato. Meno male che abbiamo prove incontestabili che ci sia un moti. Mi scuso della battuta macabra, però...».  Nomi, persone, vite private. Tutto in piazza. E non per il lavoro della stampa; no, con il sigillo di magistrati che forse pensano di risolvere così contrasti e vendette interne. Perché proprio questo si intuisce dietro il profluvio di dichiarazioni, di allusioni, di «non mi sembrerebbe generoso», di «non vorrei dirlo», di «non mi faccia fare nomi». E lasciamo stare criminologi e psichiatri vari, con la verità in tasca da settimane: la loro unica scusante è che non sono pubblici ufficiali. Il problema ora è: qualcuno pagherà per gli errori? Chi è ancora in grado di risolvere credibilmente le indagini? Certo, questi contrasti dimostrano che la magistratura ha una dialettica al proprio interno e ciò può essere considerato una garanzia per i cittadini. Purtroppo una sfilza di precedenti dimostrano che la situazione della giustizia non è rassicurante. C'è dunque qualcosa che non va. Senza considerare i processi vip, quelli ai politici, è la giustizia che riguarda la gente comune che non va. Ma i magistrati, come categoria (anzi, come corporazione), continuano ad autoassolversi. Non accettano riforme, non accettano di essere giudicati, se non da loro stessi. Ma come si vede i giudici sbagliano, e dunque il nodo è inesorabile: chi giudica i giudici?

Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.

Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.

Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.

LA RESPONSABILITA' CIVILE IN EUROPA. La responsabilità civile secondo l’Unione Europea. Colpa semplice e dolo sono forieri di responsabilità.

L’Ue all’Italia: se i giudici sbagliano, lo Stato paga, scrive Guido Scorza su “Il Fatto Quotidiano”. È incompatibile con la disciplina europea il principio stabilito nella legge italiana secondo il quale lo Stato non risponde nei confronti dei cittadini per gli errori commessi dai giudici – con provvedimenti definitivi e, quindi, non ulteriormente impugnabili – ogni qualvolta si tratti di un errore di interpretazione della legge e/o di valutazione delle prove ovvero non vi sia la prova che i magistrati hanno agito con dolo o colpa grave. È questa la conclusione cui è pervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione europea all’esito di un procedimento promosso dalla Commissione nei confronti del nostro Paese. L’Italia, “escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave… è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.” Inequivocabile la posizione della Ue: non c’è ragione per la quale lo Stato debba sottrarsi al principio del “chi rompe, paga”, quando a “rompere” – o meglio a violare i diritti di un cittadino – siano i giudici. A leggere la sentenza, peraltro, si scopre una circostanza curiosa e, al tempo stesso, antipatica. Prima di avviare il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia che ha poi portato alla sentenza di condanna dell’Italia, facendoci fare la solita pessima figura, la Commissione ha dapprima ripetutamente sollecitato il nostro Governo a fornire spiegazioni con lettere del febbraio e dell’ottobre del 2009 e, quindi, con una comunicazione del 22 marzo 2010, lo ha diffidato dall’adottare una serie di provvedimenti per riallineare il diritto interno a quello dell’Unione. Il nostro Governo, tuttavia, evidentemente preoccupato di questioni ben più serie legate alla sorte dei processi contro il premier, non ha mai risposto. Curioso che l’ex premier sempre pronto a chiedere la testa di questo o quel magistrato non abbia condiviso la battaglia di civiltà giuridica promossa da Bruxelles e vergognoso che un Paese si permetta il lusso di ignorare comunicazioni su questioni tanto delicate provenienti dalla Commissione Ue. A questo punto, però, giustizia è fatta: se i giudici sbagliano – con una sentenza definitiva - lo Stato paga senza eccezioni e limitazioni. All’Italia, tocca ora adeguarsi alle regole Ue a pena, in caso contrario, di pesanti sanzioni economiche delle quali, francamente, non si avverte il bisogno. Peccato  che una regola tanto elementare ce l’abbiano dovuta prima spiegare e poi, visto il nostro ostinato silenzio, imporre i giudici europei con una condanna.

LA RESPONSABILITA' CIVILE IN ITALIA. La responsabilità civile secondo l’Italia. Colpa grave e dolo sono forieri di responsabilità, ma solo se rilevata dalle stesse toghe contro i colleghi.

Si dice spesso che in nessun Paese europeo esista e sia prevista la responsabilità diretta del magistrato, ma in essi non c’è neppure un articolo 28 della Costituzione che espressamente la preveda; né in nessun altro Paese europeo i pubblici ministeri hanno l’autonomia e l’indipendenza che hanno quelli italiani, dato che in tutta Europa gli stessi rimangono – chi più, chi meno – al riparo dal potere esecutivo. Una volta chiuso il processo, nulla impedisce che si possa agire nei confronti del magistrato, non allungando in tal modo alcun tempo né moltiplicando le cause. È utile ricordare che a oggi la categoria della colpa grave è stata identificata dai giudici di legittimità in maniera talmente restrittiva e spesso miope che, nella realtà, è stata resa invocabile in sparuti casi. In definitiva, la Corte di Cassazione ha sempre fatto rientrare le ipotesi giunte alla sua attenzione o in un ambito prettamente interpretativo facendolo poi sfociare nella inammissibilità, o interpretando la colpa grave con il carattere aberrante dell’interpretazione. La responsabilità è un valore assoluto – non può essere un privilegio a danno degli italiani – pertanto è sacrosanta l’introduzione della responsabilità civile personale dei magistrati e, nel farlo, si tenga ben presente che lo stato della giustizia in Italia è tale per cui, lungi dal “confidare” in essa, si è tutti esposti ad iniziative giudiziarie discrezionali e variabili da Paese incivile. Nel 1987, sulla scia del “caso Tortora”, più dell’80% degli italiani votò perche fosse introdotta la responsabilità civile dei magistrati. Un anno dopo, dietro l’impulso dell’allora Ministro della Giustizia Vassalli nacque la legge del 13 aprile 1988 sul “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio nelle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati“.

Il 2 febbraio 2012, il colpo di scena con Governo battuto a scrutinio segreto. La Corte di Giustizia aveva chiesto, anzi “intimato” più volte all’Italia di cambiare la legge Vassalli a causa della sua mancata corrispondenza con quanto previsto dal diritto comunitario poichè la responsabilità andava estesa anche agli errori commessi dal magistrato per un’interpretazione errata delle norme europee e per una valutazione sbagliata di fatti o prove. In realtà, questo è stato il pretesto per modificare invece un principio ben più rilevante per il nostro ordinamento: non più solo lo Stato a rispondere degli errori commessi dal magistrato ma anche la responsabilità diretta del giudice, con conseguente risarcimento del danno. In particolare, l’emendamento Pini approvato dalla Camera stabilisce che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento” di un magistrato “in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia”, possa rivalersi facendo causa sia allo Stato che al magistrato per ottenere un risarcimento.

Invece il Governo Renzi, con il Ministro Orlando propone una contro riforma.

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, COMUNICATO 4 AGOSTO 2014.

Un corretto funzionamento della responsabilità civile dei magistrati costituisce un fondamentale strumento per la tutela dei cittadini ed un necessario corollario all’indipendenza ed all’autonomia della magistratura. Il meccanismo previsto dalla legge Vassalli adottato in esito al referendum abrogativo del 1987 ha funzionato in modo assolutamente limitato. La legge, infatti, pur condivisibile nell’impianto, prevede una serie di limitazioni per il ricorrente che, di fatto, finiscono per impedire l’accesso a questo tipo di rimedio e rendono poi aleatoria la concreta rivalsa sul magistrato ritenuto eventualmente responsabile. Si tratta, quindi, d’intervenire per rendere effettivo questo strumento. Un’ulteriore esigenza di intervento è rappresentata dalle pronunce della Corte Europea di Giustizia, che sollecita una maggiore effettività nelle procedure previste per il riconoscimento delle responsabilità conseguenti alla errata applicazione del diritto comunitario da parte del giudice.

Ampliamento dell’area di responsabilità. L’intervento sull’attuale disciplina di settore riguarda in primo luogo il profilo dell’ampliamento dell’area di responsabilità su cui possa far leva chi è pregiudicato dal cattivo uso del potere giudiziario, in linea con il diritto dell’Unione europea che include le ipotesi di violazione manifesta delle norme applicate ovvero manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove. In secondo luogo la responsabilità sarà estesa, nella ricorrenza dei medesimi presupposti, al magistrato onorario. I giudici popolari resteranno responsabili nei soli casi di dolo.

Superamento del filtro. Uno degli obiettivi del progetto è il superamento di ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato, che lo Stato dovrà esercitare a seguito dell’avvenuta riparazione del pregiudizio subito in conseguenza dello svolgimento dell’attività giudiziaria.

Certezza della rivalsa nei confronti del magistrato. L’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, esercitabile quando la violazione risulti essere stata determinata da negligenza inescusabile, diverrà obbligatoria.

Incremento della soglia della rivalsa. Sarà innalzata la soglia dell’azione di rivalsa, attualmente fissata, fuori dei casi di dolo, a un terzo dell’annualità dello stipendio del magistrato: il limite verrà incrementato fino alla metà della medesima annualità. Resterà ferma l’assenza di limite all’azione di rivalsa nell’ipotesi di dolo.

Coordinamento con la responsabilità disciplinare. Saranno rafforzati i rapporti tra la responsabilità civile del magistrato e quella disciplinare.

Per armonizzarsi con l'Europa, scrivono in via Arenula, bisogna innanzitutto includere tra le ipotesi di responsabilità civile del giudice «la violazione manifesta delle norme applicate ovvero il manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove», una sorta di punizione per la negligenza grave. Punizione che riguarderà sugli stessi presupposti anche i magistrati onorari, mentre i giudici popolari (cioé i cittadini aggregati alle Corti d'Assise) resteranno responsabili solo per i casi di dolo.  Nel progetto dell'esecutivo salta il filtro a protezione dei magistrati: una volta che lo Stato sia stato condannato a riparare il danno da denegata/errata giustizia, «dovrà» esercitare l'azione di rivalsa contro la o le toghe responsabili, azione che in sostanza diventa «obbligatoria». La rivalsa dello Stato sarà, da un punto di vista patrimoniale, «illimitata» nei casi di comprovato dolo del magistrato, mentre se gli sia addebitabile solo una negligenza lo Stato potrà rivalersi solo fino alla metà (oggi è un terzo, ma l'azione non è obbligatoria) dello stipendio annuale. Resta comunque esclusa l'azione diretta del cittadino nei confronti del giudice. Le linee guida creano infine un legame diretto e necessario tra responsabilità civile e azione disciplinare. Una condanna per negligenza costerà al giudice anche un procedimento amministrativo che, pare di intuire, non potrà prescindere dall'esito della prima. Quanto alla riduzione del filtro per l'azione volta a ottenere il risarcimento, «bisogna stare attenti perché è alto il rischio di azioni strumentali, cioè di reazione a un provvedimento sgradito del magistrato. Se si toglie il filtro, occorre evitare la proliferazione di azioni infondate, attraverso disincentivi o forme di sanzioni», ha detto il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli».

“L’Anm grida al lupo, quando il lupo, di fatto, ha fatto marcia indietro”. Esordisce così il Senatore Enrico Buemi, Capogruppo del Partito Socialista Italiano (PSI) in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, interpellato dal Velino, a proposito della reazione del sindacato delle toghe alle linee guida del Governo sulla riforma della giustizia in materia di responsabilità civile dei magistrati. Buemi, che è relatore della norma al Senato e che sulla responsabilità civile dei magistrati ha presentato la pdl n. 1070, spiega che la sanzione applicabile in caso di colpa grave del magistrato “è molto limitata rispetto all’elaborazione fatta in commissione Giustizia, dove si profilava che il minimo recupero economico potesse essere intorno al 50% del danno arrecato”. Mentre nelle linee guida della riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando è previsto che il risarcimento per chi ha subito il danno può arrivare fino al 50% dello stipendio annuo netto del magistrato al momento in cui sono avvenuti i fatti. “Una briciola di incremento – commenta Buemi – rispetto a una situazione che prima era irrisoria. Stiamo infatti parlando di qualche migliaio di euro di incremento, passando dal 30% al 50% dello stipendio, e cioè a 25/30 mila euro di risarcimento del danno, in più col vincolo del prelievo mensile di un massimo del quinto dello stipendio”. Il risarcimento previsto dal ministero non e’ proporzionale al danno. “Di fronte a un danno che potrebbe essere di decine di migliaia di euro, penso in particolare ai magistrati del civile, c’è una non proporzionalità, tra il danno arrecato e la sanzione applicata”, osserva Buemi. Un discorso che vale anche per i comportamenti che prevedono la limitazione della libertà. “I magistrati – spiega ancora Buemi – non hanno mai risposto civilmente per gli arresti prolungati nel tempo che hanno generato azioni di risarcimento da parte di coloro che li hanno subiti. In 25 anni di applicazione della norma Vassalli – ricorda il senatore Psi – solo quattro casi sono andati a compimento, ma nessuno ha avuto un’azione di rivalsa”. Insomma “il lupo non c’è e nessuno c’è l’ha con i magistrati che svolgono azione meritoria – osserva Buemi rispondendo alle preoccupazione dell’Anm – inoltre è sempre un giudice che deve stabilire se un altro giudice ha commesso o no colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni”. Quando la riforma passerà all’esame del Parlamento “chiederò ai colleghi un atteggiamento coerente e lo chiederò anche al presidente del Consiglio, che in più riprese ha detto che ci deve essere lo stesso tipo di recupero rispetto al danno arrecato. Non dico che ci debba essere un recupero al cento per cento, ma ci deve essere una proporzionalità – ribadisce Buemi – tra il danno arrecato e l’azione di concorso all’indennizzo della parte che ha subito il danno, un indennizzo che non può essere irrisorio”.

Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani, intervistata da Andrea Barcariol su “Il Tempo” accoglie positivamente le linee guida sulla riforma della Giustizia ma con una grande riserva sul testo finale: «Dubito che rimanga così». Ampliata la responsabilità civile dei magistrati, in linea con le direttive europee, anche se non ci sarà responsabilità diretta.

Soddisfatta?

«Si tratta di una serie di intenzioni che mi sembrano piuttosto serie. Essendo passati 27 anni da quando il popolo italiano decise che voleva la responsabilità civile dei magistrati (legge Vassalli ndr), mi auguro che questa sia la volta buona».

Si aspetta dei cambiamenti tra la bozza e il testo finale?

«Le pressioni che farà l’Anm (associazione nazionale magistrati) saranno pesanti, come è normale in uno Stato dove non è affermata in modo chiaro la separazione dei poteri. Basti pensare a tutti i magistrati fuori ruolo che sono distaccati, in particolare presso il ministero della Giustizia. Affermare la responsabilità civile è giusto ma è necessario intervenire anche in altri settori come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale che oggi lascia completamente nelle mani della magistratura la scelta dei processi da celebrare e quelli da far cadere in prescrizione che sono circa 140 mila all’anno».

Il presidente Sabelli dell’Anm ha già parlato del rischio di cause strumentali.

«Saranno sempre i magistrati a giudicare... Cause strumentali ci possono sempre essere, a volte sono strumentali quelle che vengono fatte nei confronti dei cittadini che subiscono processi inutili».

Quali sono gli aspetti che la convincono di più del testo?

«Voglio vedere quanto regge il testo rispetto alle pressioni, ciò dimostrerà anche la determinazione del governo. L’aver previsto la violazione manifesta del diritto è un passaggio importante su cui c’era forte opposizione da parte dei magistrati. Sull’azione di rivalsa è vero che è sempre indiretta però lo Stato deve obbligatoriamente rivalersi nei confronti del magistrato quando c’è una negligenza inescusabile».

Quindi, secondo lei è stato centrato l'obiettivo dichiarato di togliere le limitazioni del ricorrente per facilitare l’azione di rivalsa?

«Se il testo rimane questo mi sembra un enorme passo avanti, ma io ne dubito».

Hanno troppo potere i magistrati...

«Comandano loro. Loro si scelgono i reati da perseguire e quelli da far cadere in prescrizione».

La responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…

La Camera ha dato il 2 febbraio 2012 l’ok alla norma sulla “responsabilità civile dei giudici” con un voto trasversale: 264 sì. Anche parlamentari di Pd, Idv, Terzo polo e gruppo misto quindi hanno votato a favore dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini. “Partendo da un pronunciamento della Corte di giustizia europea, introduce il principio per cui «chi ha subito un danno ingiusto da un magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave» possa chiedere il risarcimento non solo allo Stato ma anche al «soggetto colpevole», ovvero al giudice che l’ha mandato ingiustamente in carcere o che gli ha causato problemi materiali, morali e psicologici” La responsabilità civile diretta preoccupa i magistrati. Per ora, se sbagliano, è lo Stato a punirli (può prelevare non oltre 1/3 dello stipendio), scrive “Tempi”. Dal 1988 al 2012, i casi in cui è stata applicata la responsabilità (indiretta) sui magistrati si contano sulle dita di una mano più un dito: 6. La giustizia è chiaramente blanda con le toghe. E ciò sembra confermato da una recente sentenza sulle punizioni dei magistrati delle Sezioni Unite della Cassazione. Nelle motivazioni di una sentenza di aprile 2014, depositate ieri, a poche ore dal sì della Camera all’emendamento Pini, le toghe supreme affermano che è troppo penalizzante la legge che obbliga il trasferimento di un giudice o di un pm per ogni condotta contraria al suo dovere di magistrato, anche se il magistrato in questione ha violato i suoi doveri. Per questo la Cassazione ha chiesto un parere alla Corte Costituzionale. La Cassazione si è espressa sul caso di un magistrato del tribunale di Cesena (anonimo) che nell’autunno 2010 dimenticò di liberare due persone dalla custodia cautelare. Soltanto 56 giorni dopo la scadenza dei termini di custodia, i due cittadini furono liberati dal giudice. Il caso finì al Csm, che condannò il giudice di Cesena al trasferimento di sede per avere agito «con negligenza inescusabile» e perché «arrecava un ingiusto danno ai predetti imputati che sono stati ingiustificatamente ristretti sine titulo per un mese e venticinque giorni». Il giudice, prosciolto dall’accusa di «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», ma “condannato” al trasferimento, fece ricorso in Cassazione. Nella sua difesa in Cassazione, il giudice condannato ha spiegato che la dimenticanza era un fatto di «scarsa rilevanza», che «era conseguenza delle carenze organizzative dell’ufficio». Un fatto che «non aveva compromesso la sua immagine di magistrato». La risposta della Cassazione? Ha sospeso la pena del magistrato e bocciato la legge che prevede il trasferimento dei giudici, impugnandola davanti alla Corte Costituzionale. Secondo la Cassazione, infatti, «la misura del trasferimento di sede o di ufficio è particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale». Non può dunque essere sempre e automaticamente prevista, nemmeno nel caso in cui il magistrato violi i diritti degli imputati e i propri obblighi di «imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio».

Medici punibili solo "per colpa grave". I pazienti sono abbastanza tutelati? Scrive il 14 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano" Stefano Palmisano, Avvocato ambientale e alimentare. Per colpa grave. Solo in questo caso sarà possibile condannare per lesioni o omicidio colposi “l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita”. In ogni caso, “è esclusa la colpa grave quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”. Questa è una delle previsioni più rilevanti del disegno di legge “in materia di responsabilità professionale del personale sanitario” all’esame del Senato, dopo l’approvazione alla Camera. In realtà, questa riforma si pone in evidente continuità con la cosiddetta “legge Balduzzi”, che fece da apripista in ambito di limitazioni di responsabilità penale per la classe medica. La motivazione ufficiale di questa “normativa speciale” è quella del contrasto alla cosiddetta “medicina difensiva”, il fenomeno per il quale i medici, ormai, sotto la pressione minacciosa di un contenzioso giudiziario crescente, sarebbero indotti, con sempre maggiore frequenza, più a badare all’illibatezza del loro certificato dei carichi pendenti che alla reale cura dei pazienti. A tal fine, obtorto collo, disporrebbero accertamenti e somministrerebbero prestazioni di dubbia utilità agli effettivi fini terapeutici del paziente, pur di non esser tacciabili in alcun modo di negligenza o, soprattutto, imperizia. E’ questione di straordinaria complessità e nevralgicità, per la massa di fondamentali interessi e diritti che vi sono coinvolti, l’un contro l’altro armati. E’ difficile, però, sfuggire alla sensazione preliminare che ci si trovi in presenza della coda della nobile onda lunga della legislazione di privilegio, “ad qualcosa” (“ad personam, ad aziendam”), che ha segnato indelebilmente, “impreziosendolo”, l’ordinamento giuridico di questo paese nel ventennio berlusconiano; essendo a sua volta – quella legislazione – espressione di una connaturata tendenza delle classi dirigenti autoctone all’esenzione dal diritto comune, alla normativa di favore, all’insofferenza al controllo di legalità. In questo caso, si tratterebbe di una legislazione “ad professionem”, quella medica, riesumerebbe, nella sostanza, antiche visioni (in qualche modo, afferenti al cosiddetto “paternalismo medico”) e, soprattutto, prassi giurisprudenziali di favore verso gli epigoni di Ippocrate invalse in un’epoca in cui, ancora, il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, affermato dall’art. 3 della Carta, non era considerato particolarmente vincolante, per così dire, da larghi settori del mondo giudiziario, anche di livello apicale. Ciò posto, una conseguenza molto probabile di una normativa di sostanziale immunità (o impunità, a seconda dei punti di vista) come quella del ddl in esame (peraltro, di portata più ridotta rispetto ai principi cui è approdata di recente la Cassazione interpretando la stessa legge Balduzzi) è l’apertura di, più o meno ampi, vuoti di tutela penale nei confronti delle vittime di errori medici. Questo è uno dei fondamentali diritti che vengono in rilievo in questa vicenda. Dall’altro lato, però, ce ne sono di altrettanto nodali. I dubbi metodologici sulla reale vocazione di questa normativa restano ma non sarebbe serio rimuovere dal dibattito il ruolo dell’abnorme diffusione del contenzioso sanitario cui si faceva cenno sopra. O, per dirla tutta, l’altrettanto patologica superfetazione di pretese, più o meno fondate, “di giustizia”, ossia risarcitorie, verso il personale sanitario, spesso formulate all’interno di procedimenti penali appositamente promossi contro gli stessi medici. Con la collegata proliferazione di agenzie, negozi, baracconi che promettono risarcimenti sicuri, a costo zero e chiavi in mano per il cliente – danneggiato, vittima della malasanità. E’ quella che è stata definita brillantemente la “parafanghizzazione” della colpa professionale: la pretesa di ristoro di un presunto danno alla salute subito per mano di un medico alla stessa stregua di quello patito al parafango della propria autovettura a causa di un sinistro stradale più o meno univoco. E’ una dinamica sociale che, a tacer d’altro, pesanti danni alla salute pubblica rischia di provocarli sul serio. Giacché, forse, per avere una classe medica seria e qualificatail modo migliore non è quello di trattarla (con la relativa struttura sanitaria) come una grande vacca da mungere per ogni, più o meno reale, danno all’incolumità fisica, propria e dei propri cari. Con la pistola del processo penale sempre puntata alla tempia del presunto danneggiante in camice bianco.

L’assicurazione Rc professionale medico e le novità della legge Gelli, scrive Toscana News il 22 novembre 2018. La legge n. 24 dell’8 marzo 2017 ha introdotto l’obbligo per chi esercita una professione sanitaria di avere una “copertura assicurativa obbligatoria”. Nello svolgere la propria attività medici ed operatori sanitari hanno responsabilità precise considerando i danni che possono provocare ai pazienti. Parliamo di due responsabilità specifiche una civile ed una penale. A dirimere la materia interviene in prima analisi l’art. 43 del Codice penale che condanna chi, in seguito a condotta illecita, si macchi della morte o provochi lesioni gravi ad un paziente per negligenza, imprudenza o imperizia. Tuttavia per imputare una qualsiasi responsabilità è necessario provare espressamente la colpa. Il danno deve essere rigorosamente accertato, e lo si deve legare ad una specifica condotta illecita. Da queste considerazioni, davvero molto importanti, nasce la necessità per la categoria sanitaria, di godere di una protezione grazie ad uno strumento quale l’assicurazione professionale medica.

Obbligo anche per i medici di sottoscrivere polizza Rc professionale. Con la legge n. 24 dell’8 marzo 2017, entrata in vigore il 1° aprile 2017, è stato introdotto l’obbligo per chi esercita una professione sanitaria di avere una “copertura assicurativa obbligatoria”, un diktat preciso che coinvolge anche le strutture sanitarie. Qui è possibile saperne di più. Nella fattispecie parliamo della cosiddetta legge Gelli, che ha inteso porre rimedio alle interpretazioni del passato e al lassismo perpetrato da una medicina chiaramente ‘difensiva’, troppo spesso incapace di mettere al centro il bene e i diritti del paziente.

La legge Gelli l’art. 590 Sexies e le responsabilità del medico. La legge Gelli ha introdotto nel codice penale l’art. 590 Sexies, che norma la nuova disciplina della responsabilità penale colposa per morte o lesioni in ambito medico.

Il nuovo articolo esclude la punibilità del sanitario “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia” e nel caso in cui si siano rispettate “ le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. La nuova norma stabilisce che il medico deve essere considerato responsabile penalmente per i danni cagionati solo in caso di colpa grave. È sollevato dalle responsabilità invece nel caso in cui dimostri di aver agito in conformità alle linee guida e alle pratiche assistenziali definite dall’Istituto Superiore di Sanità. In pratica il medico deve rispondere solo laddove si profila il caso di omicidio colposo o lesioni personali. La seconda novità della legge Gelli considera invece la responsabilità civile. Entrando nel merito in pratica il medico deve rispondere del danno solo nel caso in cui sia evidente che agisca con dolo o colpa. Inoltre spetta al paziente che ha subito il danno provare che la prestazione del medico è stata eseguita in ritardo o in maniera errata.

La legge Gelli introduce definitivamente l’obbligo di stipula di una polizza assicurativa in campo sanitario. La legge Gelli ha messo nero su bianco l’obbligo di stipula di polizze assicurative a carico delle strutture sanitarie sia pubbliche che private, così come per i medici dipendenti da strutture pubbliche e non.

L’assicurazione Rc professionale medici è quindi un obbligo per:

il medico che esercita la professione in qualità di libero professionista indipendente, sia in attività di intramoenia che extramoenia;

 il medico che esercita la professione come dipendente, consulente o collaboratore di strutture ospedaliere pubbliche o private, di cliniche o di qualsiasi altro istituto che fornisce servizi sanitari o servizi di supporto sanitario.

È bene sottolineare che l‘obbligo coinvolge anche i dipendenti di ospedali pubblici che svolgono, anche saltuariamente l’attività professionale in ambito privato.

L’assicurazione medici: cosa tutela. Le polizze Rc professionali per medici, così come tutte le coperture riservate a chi opera nel mondo della sanità, proteggono l’assicurato ma soprattutto il suo patrimonio nel caso vengano avanzate richieste di risarcimento da parte di terzi. La Rc professionale medici inoltre offre una tutela adeguata nel caso si verifichino errori professionali, offrendo una copertura in grado di rimborsare le spese legali e garantire la difesa legate dell’assicurato.

L’appello dei genitori di Eleonora, disabile per le negligenze durante il parto: «Ci hanno rovinato la vita». I genitori della piccola, che durante il parto ha subito gravissimi danni cerebrali per negligenza dei medici, saranno in Aula giovedì prossimo alla Corte d’Appello di Venezia: l’udienza sarà decisiva per stabilire un risarcimento per permettere loro di curare la bambina, che ha 9 anni, scrivono Virginia Piccolillo e Valentina Santarpia il 10 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". «Il giorno in cui mia figlia stava per nascere era il più bello della mia vita, fatto di sogni e aspettative. Poi in un attimo tutto è cambiato, sono caduta in una un precipizio senza fondo, il mondo mi è caduto addosso»: sono strazianti le parole di Benedetta Carminati, la madre della piccola Eleonora Gavazzeni, nata con gravi danni cerebrali a causa di grave negligenza dei medici al momento del parto. Sono le parole con cui la mamma di Eleonora, che oggi ha nove anni e ha bisogno di cure e assistenza continue, giovedì prossimo cercherà di appellarsi ai giudici che dovranno decidere sull’entità del risarcimento. Soldi indispensabili per permettere a lei e al marito, Davide Gavazzeni, di assistere la piccola in maniera dignitosa. «Siamo molto arrabbiati come genitori perché vorremmo regalarle una vita più degna possibile, ma fino ad oggi ci è stato impedito», spiega il papà di Eleonora, che ha stimato il costo complessivo delle terapie e delle cure farmaceutiche in 5 mila euro al mese. Anche lui sarà in Aula per far sentire le ragioni di una bambina a cui è stato sottratto il futuro.

I minuti drammatici del parto. Giovedì i giudici della Corte d’Appello di Venezia metteranno la parola fine sulle responsabilità delle due ginecologhe che lasciarono Eleonora dalle 20.40 alla mezzanotte e 3 minuti, incastrata nel canale del parto. È la notte del 3 dicembre del 2008 quando Benedetta Carminati si presenta all’ospedale di Rovigo per partorire. Eleonora si presenta con la fronte: sarebbe servito un cesareo. Ma la prima dottoressa, Cristina Dibello, non se ne accorge, anche se il tracciato cardiografico indica una grave asfissia. Alle 21.40 stacca il tracciato e per un’ora e 10 fa manovre di kristeller (colpi sulla pancia della madre che fratturano il cranio della piccola). Solo dopo chiede aiuto alla reperibile, Paola Cisotto, che dalle 23.10 senza visitare la madre e accorgersi della posizione impossibile, e senza allertare l’equipe della sala operatoria, in presenza di un tracciato «severamente patologico», ricomincia con le manovre di Kristeller e tenta di estrarla con due ventose poliuso nonostante le monouso siano più efficaci per l’estrazione del feto. Il cesareo arriva troppo tardi. I danni cerebrali sono gravissimi.

Le imperizie e negligenze dei medici. Da subito la perizia dell’assicurazione dell’Ospedale (svolta dal luminare Salvatore Alberico, teoricamente a difesa dell’azienda e delle ginecologhe) riconosce che sono stati causati dalla «gravissima imprudenza, negligenza e imperizia» delle due. Per dare il senso del trauma a causa di «pressioni, depressioni e trazioni anomale esercitate sulla testa fetale», usa una metafora: «Ipotizziamo che un pugile riceva, senza neanche la soddisfazione di poter reagire, un simile trattamento per due ore e cinque minuti possiamo immaginare come uscirebbe la sua testa e comprendere di conseguenza quello che ha subito la piccola Eleonora». Ma all’incontro obbligatorio di mediazione per il risarcimento la Asl non si presenta. Il risarcimento che sarebbe servito per curare la piccola e darle la possibilità di migliorare si blocca. Parte il processo penale. Il giudice però non acquisisce quella perizia e non ne dispone un’altra e le ginecologhe vengono assolte senza neanche una Consulenza tecnica (Ctu). In Appello, la Corte di Venezia, invece accoglie la consulenza tecnica svolta nel frattempo per il parallelo processo civile che riconosce come «gravemente negligente» la condotta di entrambe le ginecologhe e la mette in relazione con l’origine del danno cerebrale. Ne dispone anche un’altra ad un collegio, tra cui il professor Adriano Tagliabracci, che riconosce il nesso causale, anche se sostiene che per la Dibello si è trattato solo di «grave imperizia», giacché non sapeva leggere il tracciato cardiografico. Considerato l’Abc in sala parto. Nelle more dei processi le due dottoresse sono rimaste in servizio. Ecco perché il padre di Eleonora chiede giustizia.

L’appello dei genitori. «Nessuna somma ci ripagherà del danno subito, ma permetterle di vivere e curarla degnamente soprattutto quando non ci saremo più- chiede Gavazzeni - Chiedo che la Corte di Appello condanni le dottoresse che le hanno cagionato lesioni gravissime e condannata ad una vita ingiusta e chiedo inoltre che si emetta una sentenza giusta perché ci è stata rovinata la vita». Da quando Eleonora è nata, per la famiglia è stato un continuo scontrarsi con visite, medici, assistenza difficile da ottenere, e problemi economici: nel 2012 gli fu sequestrato il furgoncino con cui portavano la bambina alle visite in giro per l’Italia perché non aveva pagato quattro rate del finanziamento. In questi anni sono stati soprattutto la generosità di associazioni e comunità religiose ad aiutare la coppia, in mancanza di un risarcimento giudiziario. «Noi genitori abbandonati a noi stessi con un fardello che ci strappa l’anima e il cuore», sottolinea la mamma di Eleonora. Poi guarda sua figlia e le promette: «Ti adoro e ti amerò per il resto dei miei giorni: ogni tuo sorriso ci dà forza, io e tuo padre lotteremo per i tuoi diritti fino all’ultimo respiro».

Figlia invalida al 100% per gravi errori dei medici, nessuno paga. Video di Veronica Ruggeri del 27 novembre 2018 su Le Iene. Dopo una condanna a ginecologhe e ospedale a pagare 5 milioni di euro per come è stato gestito il parto di Benedetta, mamma di Eleonora (nata con una invalidità del 100%), nessuno sembra voler pagare. Veronica Ruggeri ha incontrato i protagonisti di questa terribile vicenda. Eleonora fino al momento della nascita era un feto sanissimo. Tutto filava liscio, ma durante il parto succede qualcosa. La dottoressa Dibello e la dottoressa Cisotto commettono non uno, ma una serie di errori, che hanno lasciato danni irreversibili sulla piccola Eleonora, che oggi ha dieci anni e una invalidità del 100%. Dopo 10 anni di lotte in tribunale un giudice condanna ginecologhe, ospedale e assicurazioni a pagare più di 5 milioni di euro di risarcimento. Ma a oggi non solo nessuno ha pagato, ma sembra che nessuno sia intenzionato a farlo. La famiglia non ha più soldi per andare avanti e rischia di essere sfrattata di casa. “Noi questa bambina l’abbiamo voluta tantissimo”, racconta la madre. “Il 2 dicembre di 10 anni fa vado in ospedale con forti dolori e mi dicono che stava andando tutto bene perché stavo avendo il travaglio”. Ma i medici sembrano ignorare, come aveva invece suggerito il ginecologo di Benedetta, in quel momento fuori turno, che con un parto naturale la donna rischia gravi danni alla vista. “Stavo malissimo, la bambina spingeva e era posizionata male. Ho chiesto disperatamente il cesareo e mi è stato negato dicendo che andava tutto bene”. Il cesareo viene fatto d’urgenza dopo quasi quattro ore di travaglio e pesanti errori da parte delle ginecologhe e Eleonora nasce in condizioni gravissime. I genitori di Eleonora, che hanno speso molti soldi per prendersi cura della piccola, oltre a una pensione di invalidità di mille euro, non percepiscono molto altro. Oggi rischiano di essere buttati fuori casa, mentre chi è stato condannato ancora non paga. Veronica Ruggeri va così a parlare con Antonio Compostella, direttore generale dell’ospedale “Ulss Rovigo” per chiedere perché questi soldi non siano ancora arrivati alla famiglia nonostante la sentenza. Ma la Iena fa una brutta scoperta… l’avvocato dell’ospedale le comunica che vuole ricorrere in Appello.

Eleonora, tetraplegica dopo il parto: il caso a Le Iene. Genitori sul lastrico, e l'ospedale non vuole pagare, scrive Domenico Zurlo su Leggo il 28 novembre 2018. Eleonora ha appena dieci anni e la sua vita è rovinata dal giorno in cui è nata. Colpa di come è stato gestito il parto della mamma Benedetta da parte di due ginecologhe dell'ospedale Ulss di Rovigo, che - come è stato accertato dai processi - aspettarono quattro ore prima di ricorrere al parto cesareo, nonostante le sofferenze della mamma e utilizzando delle manovre che furono poi fatali alla nascitura. La piccola Eleonora porta sul suo corpo i segni di quel tragico giorno: è tetraplegica e le sue cure costano alla famiglia circa cinquemila euro al mese. La storia, già nota negli anni scorsi, è stata raccontata nella puntata di martedì sera de Le Iene, con un servizio di Veronica Ruggeri, che ha intervistato il direttore generale dell'ospedale Ulss di Rovigo, Antonio Compostella, l'avvocato della struttura e persino i vertici delle compagnie di assicurazioni che coprono i sinistri di parecchi ospedali e strutture sanitarie in Italia.

NON VOGLIONO PAGARE. Ciò che infatti ha davvero dell'assurdo di questa storia è l'ostinazione con cui ospedale e compagnie assicurative si rifiutano di dare ai genitori di Eleonora ciò che gli spetterebbe di diritto: il tribunale ha infatti stabilito che l'assicurazione, anche per via della situazione economica difficile di mamma e papà della bimba, deve immediatamente versare 5 milioni di euro di risarcimento alla famiglia. Ma come confermato anche dal legale della famiglia, non solo le assicurazioni non hanno alcuna intenzione di pagare il premio, ma gli stessi legali delle compagnie hanno già annunciato di voler fare appello contro la sentenza, così come gli stessi vertici dell'ospedale, nonostante la magistratura abbia già accertato le responsabilità delle due ginecologhe.

TRA SMORFIE E SPINTONI. Le stesse immagini delle due ginecologhe, apparse aggressive con l'inviata Ruggeri e quasi in crisi isterica, fino a darle uno spintone per tenerla fuori dalla porta, sono raccapriccianti. A maggior ragione per via della loro strenua difesa della loro verità: «Io ho la coscienza pulita e continuo a lavorare qui perché la verità è dalla mia parte», ha detto una delle due dottoresse, la Dibello, con la Ruggeri che le ribatteva: «No, lei lavora qui perché è stata salvata dalla prescrizione». Resta impressa anche la reazione dell'altra ginecologa, la Cisotto, che risponde alla Iena con delle smorfie, dopo aver cambiato un paio di versioni diverse di quanto accadde quella notte, e aggiungendo anche che «la signora rifiutò il parto cesareo», ipotesi seccamente smentita invece dalla mamma di Eleonora.

SOCIAL INDIGNATI. La vicenda di Eleonora ha indignato i social e il pubblico de Le Iene: in tanti sulla pagina Facebook della trasmissione di Italia 1 hanno lanciato un appello affinché si faccia qualcosa per questa famiglia, che dopo aver speso tutti i propri risparmi per cercare di mantenere la piccola, si ritrova con alcuni mesi di ritardo nei pagamenti dell'affitto, a rischio sfratto e con tantissime spese da affrontare. «Fossi nei panni del giudice che dovrà decidere nel prossimo processo non solo negherei l'appello, ma alzarei la quota dei soldi da dare alla famiglia», scrive Melania. «Aprite un conto corrente così chi vuole fa una donazione anche solo di un euro», suggerisce Mario. «Fate un conto corrente per poter aiutare questa famiglia distrutta», aggiunge MariaDolores. «L'ospedale ti rovina e nessuno paga» era il titolo del servizio delle Iene: ma una volta tanto sarebbe ora che qualcuno pagasse per davvero.

Esclusivo: tangenti agli ospedali per far impiantare protesi killer. I colossi dei device pagano mezzo miliardo all’anno a medici e strutture. Per vendere congegni a rischio. Spesso non necessarie. Nuovo allarme mondiale per i seni artificiali cancerogeni. In Italia nessun controllo su molte donne in pericolo, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 06 dicembre 2018 su "L'Espresso". Decine di pazienti in attesa. Hanno portato le loro cartelle sanitarie, ma non vanno in ospedale. Stanno entrando in una caserma della Guardia di Finanza. Per essere sentiti come testimoni e possibili denuncianti. I convocati sono più di cento, divisi in turni giornalieri. Tutti hanno nel corpo una protesi ortopedica prodotta dalla multinazionale francese Ceraver. E tutti sono stati operati nel più grande ospedale privato di Monza. Dove due affermati chirurghi sono stati arrestati per tangenti: mazzette di contanti per impiantare quei congegni artificiali nei pazienti. Uno scandalo di corruzione nella sanità, l’ennesimo. Con un sospetto inquietante: quegli interventi chirurgici non erano necessari, le protesi sarebbero state installate in persone sane solo per fare soldi. Più profitti per la multinazionale. E più soldi in nero per un plotone di medici corrotti.

L’inchiesta giornalistica internazionale Implant Files, coordinata dal consorzio Icij e pubblicata domenica 25 novembre da L’Espresso, ha rivelato dati mondiali impressionanti: più di un milione e mezzo di persone hanno subito gravi lesioni collegate a dispositivi (medical device) difettosi, guasti, usurati o malfunzionanti, dagli apparecchi per il cuore alle protesi ortopediche. Tra molti congegni efficaci e sicuri, realizzati con moderne tecnologie che salvano la vita a milioni di persone, ci sono anche dispositivi-killer. Dal 2008 al 2017 solo le autorità statunitensi hanno registrato oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni personali. Sono i costi sociali della mancanza di regole e controlli. Che favoriscono una massiccia corruzione, aggravando i disastri sanitari. Storie di soldi e malaffare sulla pelle dei malati. Gli oltre cento pazienti interrogati in Brianza sono stati operati da due chirurghi arrestati l’anno scorso per corruzione e associazione per delinquere. Erano i boss dell’ortopedia del Policlinico di Monza, un ospedale privato accreditato, e quindi rimborsato dalle casse pubbliche, con una decina di cliniche tra Lombardia, Piemonte e Liguria. La struttura monzese, nel quinquennio incriminato, era diventata una fabbrica di degenti, con 2.368 persone ricoverate per quattro volte o più (con punte di 19) e una media di 6 protesi impiantate in ogni seduta operatoria (con un record di 16) da moltiplicare per 1.243 giornate di interventi. Le intercettazioni spiegano il perché di questi ritmi: c’è una squadra di medici che incassa tangenti per ogni protesi impiantata. E ci sono anche dottori onesti, che rifiutano il sistema, ma vengono emarginati. Nel settembre 2017, dopo due anni di indagini, scatta la retata dei camici bianchi: 5 in carcere, 9 ai domiciliari, 7 sospesi dalla professione, 1 al soggiorno obbligato. Dopo l’arresto, i direttori commerciali della Ceraver Italia confessano di pagare mazzette da più di dieci anni in molte regioni. Una corruzione sistematica, a tutti i livelli. I manager, confermando le intercettazioni, fanno i nomi di decine di medici di base, dalla Lombardia alla Calabria, dall’Emilia alla Toscana, che incassano soldi per reclutare pazienti. Quei dottori di famiglia li chiamano nei loro ambulatori, li fanno visitare dagli specialisti venuti da Monza e intascano 20-25 euro, in nero, per ogni presunto malato che accetta di farsi applicare una protesi. Ai chirurghi ortopedici va il triplo, 75 euro per ogni impianto all’anca o al ginocchio (in media, tremila euro al mese) oltre a vacanze gratis all’estero, ristoranti di lusso con amici e amanti, bonus aziendali per l’alto numero di interventi. L’inchiesta si allarga ad altri ospedali e cliniche private: agli Istituti Zucchi di Monza finisce agli arresti il primario di ortopedia, a Lucca vengono indagati altri specialisti, tra cui un colonnello medico militare di Roma. I magistrati trasmettono fascicoli a molte procure per indagare su dottori di altre città, come Milano, Varese, Lecco, Como, Bergamo, Piacenza, Reggio Emilia, Torino, Massa, Pescara. I manager arrestati giurano che «il mercato delle protesi funziona così» e spiegano di aver cominciato a pagare dottori oltre dieci anni fa, quando lavoravano per industrie tedesche o americane: «Quando siamo passati alla Ceraver, abbiamo portato con noi anche i medici corrotti, coi loro pazienti». Le intercettazioni più gravi fanno temere un disastro sanitario. I due chirurghi poi arrestati arrivano a dirsi, con divertita volgarità, che «queste protesi francesi fanno veramente cagare» e i colleghi onesti «si rifiutano di impiantarle». Mentre loro continuano, anzi ne approfittano per chiedere tangenti più alte alla Ceraver «per il disturbo, che aumenta».

La multinazionale francese difende la qualità delle sue protesi, «comprovata da oltre vent’anni di studi clinici: la salute dei pazienti non è mai stata messa a rischio». Gli sfoghi dei chirurghi intercettati, insomma, potrebbero dipendere dalla loro incapacità di utilizzarle. Invece di azzardare un difficile processo sui dispositivi, approvati da illustri scienziati finanziati dalla stessa azienda produttrice, la Procura di Monza ha posto ai medici legali un quesito diverso: quelle protesi erano davvero necessarie? In più di cento casi, la risposta è stata negativa: i pazienti non erano invalidi, si potevano curare con mezzi molto meno invasivi. Per questo, nelle settimane scorse, la Guardia di Finanza ha raccolto le testimonianze delle vittime della corruzione sanitaria. Una patologia che infetta l’intero mercato dei device (oltre 350 miliardi di euro all’anno) dominato da mille conflitti d’interessi e rapporti incestuosi tra medici e aziende. Le multinazionali dei dispositivi hanno dovuto pagare, dal 2008 ad oggi, più di un miliardo e 600 milioni di dollari alle autorità americane per chiudere procedimenti per tangenti, frodi e altre violazioni. Nei device c’è una nuova tecnologia della corruzione, più moderna delle tradizionali buste piene di denaro che negli anni di Tangentopoli portarono in carcere l’intero vertice della sanità italiana, compreso il ministro De Lorenzo. Prima e dopo gli arresti di Monza, le protesi ortopediche fanno scandalo anche a Milano. Dove due squadre di chirurghi di fama internazionale vengono arrestati per tangenti. Organizzate con nuovi sistemi corruttivi: medici che diventano soci occulti delle aziende fornitrici dei device.

SOLDI E SEGRETI IN OSPEDALE. «Tutto molto bene»: è il messaggio inviato alle 14.49 del 16 febbraio 2017 da un imprenditore lombardo al responsabile dei laboratori dell’istituto ortopedico Galeazzi di Milano. Il manager è a Francoforte ed è raggiante: si è appena aggiudicato una lucrosa fornitura alla multinazionale Heraeus Medical. E suggella il messaggio (intercettato) con tre emoticon, tre faccine che sorridono: quel colosso tedesco, con un giro d’affari da 21 miliardi, venderà nel mondo migliaia di dispositivi brevettati proprio dall’imprenditore, dal dirigente medico e dallo specialista che guida il reparto interessato dell’ospedale privato. Tre minuti dopo, i due camici bianchi commentano il successo dell’imprenditore, che chiamano «il ciccione», pianificando con entusiasmo le spese che potranno permettersi: una Maserati Ghibli da centomila euro, «blu metallizzata, interni in cuoio, cerchi in lega bruniti...». Lo stesso imprenditore, arrestato nell’aprile scorso, è accusato di aver corrotto altri famosi chirurghi dell’ospedale ortopedico Pini, sempre a Milano. Anche qui si scoprono medici in affari con le imprese. Un primario dell’ospedale pubblico, attraverso una società anonima britannica, controlla il 33 per cento dell’azienda che commercializza un prodotto (Avn) per la rigenerazione dei tessuti ossei. Brevettato dal solito imprenditore e dallo stesso luminare dell’ortopedia. In aggiunta, il medico intasca altri 206 mila euro per presunte consulenze al gruppo (sei aziende) dell’amico. Che a sua volta incassa cinque milioni e mezzo dall’ospedale pubblico per le forniture raccomandate dal primario. Il processo, che chiama in causa anche la direttrice sanitaria nominata dalla Regione Lombardia, è iniziato in ottobre. L’imprenditore e il primario hanno confessato, risarcito oltre mezzo milione di euro e patteggiato condanne attenuate (tre anni al manager, due anni e 10 mesi al medico). A Monza il processo, che coinvolge anche i vertici francesi della Ceraver, si aprirà l’anno prossimo. In attesa del prossimo scandalo. Sotto la corruzione, tra medici e aziende c’è un’ampia zona grigia, ai confini della legalità. Le aziende pagano consulenze, studi, pubblicazioni e brevetti a decine di dottori e scienziati. Secondo i dati americani raccolti con l’inchiesta Implant Files, le dieci più ricche multinazionali dei device hanno versato quasi 600 milioni di dollari, solo l’anno scorso, a medici e ospedali. Una star californiana dell’ortopedia, Thomas Schmalzried, ha incassato circa 30 milioni di dollari dalla Johnson & Johnson per sviluppare due protesi “metallo su metallo”: una è stata poi ritirata dal mercato, quando nuove ricerche cliniche indipendenti hanno dimostrato che avvelenava i pazienti. Negli Usa le aziende di device sono obbligate a dichiarare tutte le donazioni. E dal 2010 una legge ammette solo versamenti «modesti» per finanziare studi o convegni medici. In Italia la trasparenza è ancora lontana. Assobiomedica, l’associazione delle aziende italiane dei dispositivi, ha varato l’anno scorso un codice etico, che entrerà in vigore gradualmente. Dal gennaio prossimo, alle aziende che invitano dottori a «convegni, corsi o seminari» si raccomanda di «non proporre alberghi a cinque stelle, viaggi in prima classe, località turistiche, prolungamenti di trasferte a spese dell’organizzazione». E solo dal 2021 le società saranno tenute a «rendere noti sul proprio sito tutti i trasferimenti economici a favore di società scientifiche, provider, organizzazioni sanitarie, consulenze, donazioni, borse di studio». Nell’attesa, le piccole e grandi industrie possono continuare a finanziare medici e scienziati, compresi quelli che certificano la sicurezza dei loro prodotti. Medtronic, la più ricca e contestata multinazionale dei device, ha dovuto pubblicare, negli Usa, le sue donazioni dirette agli ospedali italiani. Che poi acquistano i suoi prodotti. Nella lista compaiono il Niguarda (progetto CareLink) e tre diversi cardiologi di Milano (nel 2012 e 2013); il San Filippo Neri di Roma (15 mila euro nel 2013 al reparto di un cardiochirurgo poi sospeso); alcuni specialisti del San Matteo di Pavia (nel 2013); gli ospedali di Urbino (2017), Crema (2018) e Desenzano (2012); borse di studio per il San Carlo di Milano (2017) e il San Giovanni di Roma (2018); computer in regalo all’azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari (2013). Fra tanti generosi regali, spiccano 140 mila euro donati da Medtronic nel 2016 alla Città della salute di Torino, per un centro medico diretto da un professore che risulta anche autore delle linee-guida per la sua specialità. In base alla nuova legge Gelli, i dottori che rispettano quelle direttive non possono essere condannati per colpa medica. Finora s’ignorava che le linee guida pubbliche le avesse scritte uno specialista finanziato da un colosso privato dei device. Sempre secondo i dati resi pubblici dal consorzio Icij, la multinazionale americana ha donato almeno 60 mila euro anche a Federanziani, l’associazione italiana che ha promosso in televisione nuove terapie e dispositivi per la terza età, targati Medtronic. La sua controllata italiana Ngc invece non fa regali: ha investito 4,8 milioni di euro in una clinica privata di Castel Volturno, diretta da un cardiochirurgo che è un entusiastico sostenitore del Tavi. Il nuovo congegno cardiaco di Medtronic che sta conquistando anche il mercato italiano, nonostante i dubbi sulla sua durata.

TRAGEDIE INVISIBILI. I finanziamenti delle industrie a medici e scienziati sono leciti, fino a prova contraria, ma mettono in dubbio l’indipendenza delle verifiche che dovrebbero garantire la sicurezza dei pazienti. In Europa, dove i dispositivi sono autorizzati da società private pagate dagli stessi fabbricanti, l’inesistenza di controlli pubblici (e di dati imparziali) fa aumentare anche le tragedie nascoste. Il consorzio Icij ha schedato ben 2.100 casi di device associati a decessi, che invece erano stati registrati solo come guasti o lesioni minori. Un problema gravissimo di mancati allarmi (under-reporting) confermato anche dal nostro ministero della salute. La situazione più drammatica, in questi giorni, riguarda alcuni tipi di protesi al seno, sospettati di rompersi facilmente e provocare una rara forma di cancro. Dopo i primi allarmi in Gran Bretagna e Olanda, l’anno scorso la Fda americana ha rafforzato i controlli. E gli incidenti registrati sono schizzati alle stelle: dal 2008 al 2016 venivano segnalate meno di 300 lesioni all’anno; nel 2017 sono salite a 4.567, con 8 vittime. E solo da gennaio a giugno di quest’anno sono già stati censiti altri sette morti e ben 14.415 ferimenti. Pochi giorni fa l’agenzia francese Ansm ha invitato a sospendere questi modelli: entro febbraio si deciderà se vietarli e rimuoverli. In Italia però non esiste una banca dati per identificare migliaia di donne a rischio: da anni è previsto un registro nazionale delle protesi al seno, ma non è ancora attivo.

Migliaia di pazienti uccisi da protesi velenose o difettose: ecco l'inchiesta Implant Files. Pacemaker, valvole cardiache, seni al silicone, impianti artificiali: dagli Usa all’Italia sono oltre 82 mila le vittime di prodotti a rischio impiantati nei malati. Un business da 350 miliardi all’anno dominato da multinazionali senza controlli. Ecco il nuovo scoop internazionale dell’Espresso con il consorzio Icij, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, defibrillatori, protesi ortopediche, seni al silicone, infusori, cateteri, neurostimolatori. Sono una moltitudine di prodotti dell’industria sanitaria che vengono impiantati nei pazienti. Milioni di persone costrette a convivere per anni, o per sempre, con questi apparecchi dentro il corpo. Le aziende produttrici li presentano come innovativi strumenti salvavita: la medicina del futuro, le più moderne tecnologie applicate alla salute. Spesso è vero: protesi e congegni sempre più perfezionati proteggono milioni di persone. Alcuni però nascondono rischi e problemi gravissimi. In grado di rovinare masse di pazienti e provocare disastri sanitari su scala mondiale. La nuova inchiesta Implant Files coordinata dall’International consortium of investigative journalists (Icij), a cui hanno partecipato per l’Italia L'Espresso e Report, documenta per la prima volta come funziona e quali segreti nasconde il ricchissimo business dei cosiddetti dispositivi medici (medical device). Un mercato in continua crescita, dominato da multinazionali con un giro d’affari da oltre 350 miliardi di euro all’anno, ma totalmente fuori controllo. I dati ora rivelati mostrano che solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni personali collegate a migliaia di apparecchi segnalati come difettosi, guasti, usurati o malfunzionanti.

Finora si conoscevano solo episodi specifici di prodotti dichiarati pericolosi e già ritirati dal mercato. Come le migliaia di protesi al seno prodotte con silicone tossico dall’industria francese Pip, finita in bancarotta nel 2010. Oppure i risarcimenti milionari sborsati dalla multinazionale americana Johnson & Johnson per i danni causati dalle sue protesi ortopediche “metallo su metallo”, impiantate su oltre mezzo milione di persone. Nonostante questi allarmi, in Europa non esistono controlli pubblici prima dell’impianto: per vendere qualsiasi congegno da inserire nei pazienti, basta una certificazione rilasciata da società private, scelte e pagate dagli stessi fabbricanti. Una certificazione industriale, il marchio CE, come per i frigoriferi, i giocattoli e mille altri prodotti comuni, che non finiscono sotto la pelle dei cittadini. Anche i dispositivi a più alto rischio, dagli apparecchi per il cuore alle protesi permanenti, obbediscono a regole molto meno severe di quelle previste per i farmaci. E dopo l’impianto le autorità sanitarie, in Italia come in molti altri paesi, non sono in grado di rintracciare gran parte delle vittime.

Paradossalmente il mercato delle auto è più controllato. In caso di guasti o difetti di fabbricazione, una casa automobilistica può rintracciare tutti i clienti e richiamare interi blocchi di vetture a rischio. Se invece un congegno sanitario viene inserito nel corpo di migliaia di uomini, donne e bambini, non esistono procedure generali di allerta, sistemi standard di richiamo: una valvola difettosa viene scoperta con anni di ritardo; raramente i pazienti che devono conviverci vengono informati, visitati e curati; i medici possono continuare in buona fede a impiantare apparecchi di cui ignorano la pericolosità, anche se già ritirati da un’autorità estera perché uccidono troppi malati.

Ora, nell’inerzia dei governi, è il consorzio dei giornalisti ad aver creato il primo archivio informatico dei dispositivi medici, accessibile a tutti i cittadini via Internet: una banca dati globale, che permette a chiunque di controllare personalmente, per la prima volta, se l’apparecchio che porta addosso ha avuto problemi di sicurezza. È il maxi-archivio degli “Implant Files”, accessibile dal sito dell’Espresso, che permette di esaminare oltre 60 mila segnalazioni di guasti o incidenti, registrate dalle autorità sanitarie degli Stati Uniti e di altre nazioni, che riguardano migliaia di congegni sanitari di ogni tipo. Con dispositivi fuorilegge negli Usa, ma ancora in circolazione in Italia.

Pacemaker e defibrillatori difettosi: i dispositivi killer che hanno ucciso migliaia di cardiopatici. Il defibrillatore che diventa come una sedia elettrica. E il pacemaker con le batterie che perforano i tessuti. Così le grandi industrie vendono agli ospedali i device cardiaci più pericolosi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Milioni di persone devono la vita ai pacemaker, valvole cardiache, defibrillatori, stent coronarici e altri dispositivi per il cuore. Ma alcuni dei congegni impiantati nel corpo dei pazienti si rivelano, a distanza di tempo, difettosi, guasti, usurati o malfunzionati. Problemi che mettono in pericolo la salute delle persone. E vengono scoperti con mesi o anni di ritardo, per mancanza di controlli preventivi. Sprint Fidelis è il nome di un defibrillatore che la multinazionale Medtronic riuscì a far approvare nel 2004 dalle autorità americane. È stato ritirato nell’ottobre 2007, dopo essere stato impiantato su circa 268 mila pazienti in tutto il mondo. Il dispositivo era difettoso: impazziva, inviando ai malati raffiche di scosse «molto dolorose»: «Era terrorizzante», ricordano i pazienti intervistati dal consorzio Icij, ancora traumatizzati. Due anni dopo, la Medtronic ha riconosciuto che quel defibrillatore poteva aver causato 13 vittime. Ora i dati raccolti dall'inchiesta giornalistica Implant Files associano quel dispositivo alla morte di oltre duemila persone.

Il Far West della salute: pazienti usati come cavie da un’industria miliardaria senza controlli. Nessuna verifica di autorità pubbliche su milioni di device impiantati nel corpo. L’inchiesta giornalistica internazionale svela lo strapotere delle lobby dei dispositivi. E i guai con la giustizia degli istituti italiani, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, protesi ortopediche e mille altre altre tecnologie mediche. Sono una moltitudine i prodotti dell’industria sanitaria (medical device) che vengono impiantati nel corpo dei pazienti. Dovrebbero essere sicuri, efficaci, solidi, sottoposti a rigorosi controlli pubblici e verificati da studi clinici di livello scientifico. L'inchiesta giornalistica mondiale del consorzio Icij, a cui hanno partecipato per l’Italia L’Espresso e Report, documenta invece una situazione ad altissimo rischio: una specie di Far West della salute. Un business da 350 miliardi di euro all'anno che è totalmente fuori controllo.

Femminicidio silenzioso: il calvario delle donne intossicate da tecno-spirali e silicone velenoso. Ottomila pazienti lesionate da protesi al seno pericolose solo nel primo semestre 2018. E ora scoppia il caso Essure, impiantato su almeno settemila italiane, ritirato dalla Bayer dopo lo stop delle autorità irlandesi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Le donne pagano un prezzo altissimo alla mancanza di controlli pubblici sui dispositivi impiantabili nel corpo. Nel 2012 fu lo scandalo delle protesi al seno, prodotte con silicone tossico dalla ditta francese Pip, poi finita in bancarotta, a spingere le autorità di Bruxelles a varare il nuovo regolamento europeo sui medical device che entrerà pienamente in vigore solo a partire dal 2020. Nonostante le migliaia di vittime del caso Pip, alcuni molti modelli di protesi al seno sono ancora associati a problemi gravissimi: gli Implant Files segnalano, solo nel primo semestre 2018, sette casi di morte e oltre ottomila lesioni personali. Da mesi le donne di mezzo mondo si stanno mobilitando anche contro Essure, un anticoncezionale permanente creato dalla Conceptus, una ditta acquistata dalla Bayer. Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura per cicatrizzazione delle tube di Falloppio. I dispositivi, applicati a circa un milione di donne nel mondo, rilasciano sostanze sconosciute, si spezzano, possono infiltrarsi fino al cuore o ai polmoni. L’Espresso ha raccolto le testimonianze delle prime 33 donne italiane che si sono rivolte all’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, per spedire alla Bayer una formale richiesta di risarcimento dei danni, preludio a una possibile causa collettiva (class action). In Italia Essure è stato impiantato su almeno settemila donne.

Tutte le intervistate descrivono lo stesso calvario: «Mi chiamo M.B., sono nata in Brianza, abito vicino a Treviso, ho 44 anni. Nel 2014 la mia ginecologa, dopo due parti con gravi complicanze, mi ha consigliato di impiantare Essure, assicurando che era sicuro e non aveva alcuna controindicazione. Dopo l’impianto all’ospedale di Mestre, la mia vita è cambiata. Sono sempre stata una persona molte forte, in buona salute. Ho cominciato ad avere emicranie sempre più frequenti e intense, sono aumentate molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio. Ho pensato anche questo, prima di trovare altre donne con gli stessi problemi e capire. La mia nuova ginecologa dice che sono stati pazzi a impiantarmi Essure». La signora A.C., che ha organizzato un gruppo Facebook delle vittime italiane, ha tolto Essure ed è rinata: «Poche ore dopo ho ricominciato a camminare, a poter riafferrare gli oggetti, a vederci come prima, a non avere più mal di testa. Ora sono dimagrita, sto bene, sono tornata me stessa. Il problema più grande è che molte donne non collegano questi sintomi a Essure: i mariti ci credono impazzite, ci portano dallo psichiatra. Ora voglio aiutare le altre vittime».

Gli Implant Files segnalano 8.500 casi di rimozione negli Stati Uniti, altre migliaia in Europa, 769 solo in Belgio. Al ministero italiano risultano invece solo 13 «incidenti». L’Espresso però ha contato decine di rimozioni, con ginecologi che lavorano a tempo pieno per togliere Essure. La Bayer ha ritirato le sue tecno-spirali dal mercato italiano il 28 settembre 2017. Due giorni prima, il ministero aveva ricevuto un’email dalla rappresentante delle vittime, che denunciava l’inerzia italiana dopo lo stop deciso già il 2 agosto 2017 dall’ente certificatore irlandese Nsai, che aveva fatto perdere a Essure il marchio CE. L’indomani il ministero, senza dire nulla alle pazienti, ha inviato alla Bayer un avviso di sicurezza, invitando l’azienda a richiamare Essure. Sul sito del ministero, dal 2 ottobre 2017, i cittadini possono leggere solo il comunicato di Bayer Italia, che dichiara di aver ritirato Essure perché si vendeva poco, ma resta un prodotto «sicuro e benefico». Il colosso tedesco ha mandato negli ospedali a prelevare le spirali il suo «distributore esclusivo per l’Italia»: Cremascoli & Iris spa, un’azienda che appartiene alla famiglia dell'imprenditore Eugenio Cremaascoli, arrestato e condannato per corruzione nel 2005 a Torino. Dove ha confessato di aver pagato tangenti per oltre un decennio a tre famosi cardiochirurghi per vendere dispositivi medici e prodotti per il cuore ai più importanti ospedali pubblici. "Oggi come ieri chi detiene il potere sostiene che il giornalismo sia finito e che meglio sarebbe informarsi da soli. Noi pensiamo che sia un trucco che serve a lasciare i cittadini meno consapevoli e più soli. Questa inchiesta che state leggendo ha richiesto lavoro, approfondimento, una paziente verifica delle fonti, professionalità e passione. Tutto questo per noi è il giornalismo. Il nostro giornalismo, il giornalismo dell’Espresso che non è mai neutrale, ma schierato da una parte sola: al servizio del lettore. 

Esclusivo: ecco il database dei dispositivi killer. Chi ha una protesi impiantata nel proprio corpo può qui verificare quanto è sicura, scrive Marco Damilano il 22 novembre 2018 su "L'Espresso". Nel mondo ci sono milioni di protesi difettose impiantate nel corpo dei pazienti come spieghiamo nell'inchiesta Implant Files . Spesso le persone interessate non ne sono informate, perché non è detto che le aziende produttrici, gli enti governativi e gli ospedali abbiano segnalato il problema al paziente. L'Espresso e l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) per la prima volta danno la possibilità a tutti i cittadini di verificare se il proprio dispositivo è sicuro o se invece ha avuto segnalazioni negative in passato. Accedere all'International Medical Device Database, realizzato dal consorzio giornalistico sulla base di 60mila avvisi di sicurezza registrati dalle autorità in oltre dieci nazioni, è semplice: basta inserire il nome del proprio dispositivo nella griglia qui sotto, per verificare se in passato è stato segnalato un problema su quello specifico apparecchio sanitario (medical device). Il consorzio Icij e l'Espresso continueranno ad aggiornare e ampliare questa banca dati globale nelle prossime settimane, in base alle nuove segnalazioni ricevute.

AVVERTENZA: I dispositivi medici aiutano a diagnosticare, prevenire e curare ferite e malattie. L'intento dell'International Medical Device Database non è di sostenere o far credere che le società o gli enti qui citati siano coinvolti in comportamenti illeciti o che abbiano agito in modo improprio. Inoltre uno stesso dispositivo potrebbe avere nomi differenti nelle diverse nazioni e quindi non essere rintracciabile nell'elenco. Questo database non è destinato a fornire consulenza medica: i pazienti dovranno consultare i propri medici curanti qualora ritenessero che le informazioni qui contenute possano avere delle implicazioni rispetto al proprio quadro sanitario.

Il gigante Medtronic: migliaia di incidenti e maxi-affari in Italia tra corruzione ed evasione. La multinazionale ha il primato mondiale delle vendite, ma anche dei problemi di sicurezza: oltre 1.800 morti sospette solo nel 2017. E in Lombardia ha contratti d’oro con i più importanti centri cardiologici, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 25 novembre 2018 su "L'Espresso". La multinazionale americana Medtronic è diventata in pochi anni la più ricca azienda di device del mondo. Ha un giro d'affari di oltre trenta miliardi di dollari all'anno, ha lanciato migliaia di nuovi dispositivi e ha aperto filiali in più di 160 paesi. Nelle sue campagne di comunicazione Medtronic rivendica che le sue tecnologie hanno salvato o migliorato la vita a 70 milioni di persone. L'inchiesta del consorzio Icij documenta però che questo colosso dell'industria sanitaria è stato accusato dalle autorità, in diversi paesi del mondo, di frodi milionarie alla salute pubblica, evasioni fiscali, accordi illeciti contro la concorrenza, uso di prodotti non autorizzati, presunte corruzioni e pagamenti a medici e scienziati per orientare gli studi clinici e ottenere dati favorevoli.

«Why Not era arrivata al cuore dello Stato. Poi mi hanno fermato». Parla l’ex magistrato e oggi sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, scrive Simona Musco il 13 Novembre 2018 su "Il Dubbio".  Togliere a Luigi De Magistris le inchieste “Poseidone” e “Why Not” fu un grave abuso, ma i responsabili non potranno più essere puniti, perché il reato è ormai prescritto. Si chiude così, con la sentenza della Corte d’Appello di Salerno, il processo “Scontro tra procure”, che ha parzialmente riformato, accogliendo l’atto d’appello di De Magistris, la sentenza di primo grado, con la quale erano stati assolti tutti gli imputati per l’illecita revoca del procedimento “Poseidone” e l’illecita avocazione del procedimento “Why Not” all’allora pm De Magistris. Un abuso d’ufficio del quale sono stati ritenuti responsabili gli allora procuratore generale facente funzioni Dolcino Favi, il procuratore aggiunto Salvatore Murone, il senatore Giancarlo Pittelli, il sottosegretario alle attività produttive Giuseppe Galati ed Antonio Saladino, responsabile per il sud della Compagnia delle Opere, nonché il procuratore della Repubblica Mariano Lombardi, morto nel corso del procedimento. «Con questa sentenza – ha commentato De Magistris – si è acclarato per via giudiziaria quello che per giustizia e verità tutte le persone per bene avevano già capito. Sono stato fermato dai miei capi, in collusione con altri, che invece di tutelarmi mi hanno tradito. Quelle inchieste erano arrivate al cuore dello Stato ed avevamo scoperto un livello di collusioni impressionante, tale da destabilizzare istituzioni divenute deviate del nostro Paese». Inchieste, spiega, che erano andate così a fondo da portare alla luce i rapporti tra criminalità organizzata, politica, istituzioni, affari e massoneria deviata, dando dunque fastidio a chi è intervenuto per fermarlo. «Avevamo individuato corruzioni devastanti – ha aggiunto – miliardi di euro di sperpero del denaro pubblico, infiltrazioni a livelli apicali della magistratura e delle forze dell’ordine. Quello scippo illecito delle indagini fu il pretesto perché il Consiglio superiore della magistratura, con una decisione indegna ed ingiusta, mi strappasse la toga di pubblico ministero trasferendomi per incompatibilità ambientale. Lasciarono operare indisturbati corrotti e mafiosi trasferendo chi stava rischiando la vita per conto dello Stato. Chi ha violentato la mia vita da magistrato e chi ha impedito l’accertamento della giustizia e della verità ha le mani sporche di sangue istituzionale. Nulla potrà mai riparare il danno alla giustizia e quello subito da un magistrato onesto e dai suoi stretti collaboratori. Hanno distrutto un magistrato e il suo lavoro». Una guerra di logoramento, quella subita da De Magistris come pm a Catanzaro, bombardato da interrogazioni parlamentari da parte della politica e fiaccato dai colleghi, che hanno sottratto al sindaco di Napoli le sue inchieste per farle finire su un binario morto.

Intascava soldi dall'imputato La Consulta boccia il Csm: «Quel giudice è da cacciare». I colleghi provano a salvare il magistrato che andava licenziato. Stop della Corte Costituzionale, scrive Luca Fazzo, Martedì 13/11/2018 su "Il Giornale". Va a sbattere contro la Corte Costituzionale uno dei tentativi più arditi del Consiglio superiore della magistratura di salvare la poltrona a una toga scoperta a prendere soldi. Che nel giudicare le colpe dei giudici al Csm siano inclini al garantismo è cosa risaputa: di magistrati assolti, o puniti blandamente, nonostante prove granitiche sono piene le cronache di questi anni. Ma nel caso di Luisanna Figliola, giudice preliminare a Roma e oggi pm a Napoli, sembrava che non ci fosse scampo: la legge prevedeva per lei come unica sanzione possibile la destituzione, ovvero il licenziamento. Il Csm ha ritenuto che l'obbligo di sfilare la toga alla collega violasse addirittura la Costituzione, e si è rivolto alla Corte Costituzionale perché cancellasse la norma. Ricevendone in risposta una brusca bocciatura. Se un magistrato si fa pagare da un imputato, non può continuare a fare il magistrato: sembra una ovvietà, ma per farla digerire al Csm c'è voluta la Consulta. La Figliolia è un magistrato maturo e di grande esperienza, con alle spalle processi importanti nella Capitale (compreso quello alle nuove Brigate Rosse) e con un passato di militante in una delle correnti della magistratura. Ma questo rende ancora più grave quanto avviene tra lei e Vittorio Cecchi Gori, il produttore cinematografico finito in dissesto. La sentenza della Corte Costituzionale riassume così le colpe: alla Figliolia «è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro)». Più colorito il contesto dei rapporti tra i due come li ha raccontati, nel processo alla Figliolia, l'ex fidanzata di Cecchi Gori, Mara Meis: secondo cui la giudice avrebbe imposto al produttore oltre ai servigi del marito anche la presenza di una maga, grazie alla quale l'uomo poteva dialogare con la madre morta. La Figliolia è stata assolta in sede penale, perché non si è dimostrato quali favori - a parte i dialoghi con l'Oltretomba - fornisse a Cecchi Gori in cambio dei soldi. La cacciata però sembrava inevitabile. Il Csm, nel luglio 2017, prova a salvarla. Ma la Consulta, con la sentenza depositata ieri, va giù dura: se l'obiettivo deve essere «restaurare la fiducia dei consociati nell'indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario», allora «una reazione ferma contro l'illecito disciplinare può effettivamente contribuire all'obiettivo delineato (...) non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite». E il licenziamento lascia alla Figliolia «la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale».

Cucchi, la telefonata dei Cc al 118: "Un detenuto sta male". L'audio è stato depositato dal pm Musarò al processo, scrive l'ANSA il 25 ottobre 2018. "Abbiamo un detenuto che sta male, dice che ha attacchi di epilessia, ha tremori, non riesce a muoversi". Così un carabiniere della Stazione Tor Sapienza in una telefonata al 118 le prime ore del 16 ottobre 2009 parlava delle condizioni di Stefano Cucchi. Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della caserma e secondo le indagini era reduce dal pestaggio subito alla caserma Casilina. L'operatore del 118 chiede al militare, che è il piantone della stazione Tor Sapienza, se il detenuto è tranquillo. "Tranquillissimo -risponde il carabiniere- ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell'epilessia". Poi fornisce i dati anagrafici: "è nato l'1-10-1978". L'operatore chiude dicendo che manderà un'ambulanza a via degli Armenti sede della caserma di Tor Sapienza. L'audio è stato depositato dal pm Giovanni Musarò al processo.

Caso Cucchi, l’audio della chiamata dei carabinieri al 118: “Un detenuto sta male, dice che è epilettico”. Nell'audio, i carabinieri spiegano che un detenuto non riesce a muoversi a causa dei tremori, "ma non ha i sintomi dell'epilessia", scrive TPI il 26 Ottobre 2018. Continuano ad aumentare le rivelazioni sul caso di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 nell’ospedale penitenziario Pertini. L’ultima notizia riguarda la diffusione dell’audio della chiamata fatta dai carabinieri di Tor Sapienza al 118. “Siamo i carabinieri di Tor Sapienza. Abbiamo un detenuto che sta male, ha tremori e non riesce a muoversi. Dice che ha attacchi di epilessia”. L’operatore del 118 risponde chiedendo maggiori informazioni sulle condizioni di salute del detenuto: nello specifico vuole sapere se l’uomo è tranquillo. “Tranquillissimo, ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell’epilessia”. La chiamata risale al 16 ottobre del 2009, quando Stefano Cucchi è in una camera di sicurezza della caserma dove è stato fermato a Roma. Secondo le indagini, in quel momento il pestaggio nella caserma Casilina era già avvenuto. A seguito della chiamata, l’ambulanza arriva nella struttura di Tor Sapienza e gli operatori del 118 trovano Stefano avvolto in una coperta e tremante. Il giovane però dichiara di stare bene, nonostante non riesca a muoversi. A quel punto, dopo diverse insistenze, gli operatori vanno via. La registrazione della chiamata fra 118 e carabinieri è solo uno delle decine di documenti in formato cartaceo e audio depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte del giovane geometra romano. Solo alcuni giorni prima era stato diffuso un primo audio di una una conversazione telefonica, intercettata, avuta tra due carabinieri a poche ore dall’arresto di Stefano Cucchi. “Magari morisse, li mortacci sua”, si sente nell’audio, riportata in uno dei documenti che il pm Giovanni Musarò ha depositato mercoledì 24 ottobre ai giudici in Corte d’Assise. A parlare è uno dei carabinieri, poi imputati per calunnia nel processo-bis di Roma, con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale. In particolare il militare fa riferimento alle condizioni di salute del 31enne geometra che si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza, dopo essere stato pestato alla caserma Casilina. “Mi ha chiamato Tor Sapienza – dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c’è un detenuto dell’Appia, non so quando ce lo avete portato se stanotte o se ieri. È detenuto in cella e all’ospedale non può andare per fatti suoi”. E l’altro: “È da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua”. 

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 26 ottobre 2018. «Cioè, effettivamente la firma l'ho riconosciuta, è mia pure quella della seconda, ma mica l'ho fatta io», dice il carabiniere Francesco Di Sano a un'amica il 14 ottobre scorso. L' ennesima conferma della falsa annotazione sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi dopo l'arresto arriva da un'intercettazione telefonica registrata due settimane fa. Il militare aveva prima scritto che il detenuto «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare» (sintomi ipoteticamente collegabili a un pestaggio subìto in precedenza), e dopo firmò un altro rapporto, riveduto e corretto, dove tutto si riduce a un «dolore alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Ma la seconda versione, ammette anche nella telefonata, non l'ha scritta lui. La storia delle relazioni modificate su ordine della scala gerarchica dei carabinieri è ricostruita ormai nei dettagli - ma fino a un determinato gradino - dall' indagine-bis condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Il quale attende di conoscere la versione dei due nuovi indagati: il maggiore Luciano Soligo e il colonnello Francesco Cavallo, che secondo il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola chiesero e ottennero le modifiche alle annotazioni dei due carabinieri che avevano avuto in custodia Cucchi dopo il rientro in caserma (e il pestaggio ora confessato dal carabiniere Francesco Tedesco). La prova è nella e-mail con cui il colonnello Cavallo rispedì a Colombo le nuove versioni (accompagnate dalla frase «Meglio così»), che il luogotenente ha conservato ed esibito al pm nell'interrogatorio della scorsa settimana. E di cui parla diffusamente nelle telefonate intercettate dalla polizia nell' ultimo mese. In una conversazione del 26 settembre con il fratello, Colombo dice: «Per fortuna c' ho questa mail... l'ho stampata, l'hanno vista in tanti, ho fatto già un primo filmino ma non viene bene, lo devo rifare perché ho paura che me la cancellano. Quella è il mio salvavita». Una sorta di assicurazione che infatti il luogotenente ha consegnato al magistrato, a differenza di quello che fecero nel 2015 i suoi colleghi che andarono ad acquisire tutti i documenti relativi alla vicenda Cucchi, presero le doppie versioni delle annotazioni ma senza la mail inviata da Cavallo a Colombo. Una stranezza che fa il paio con quella rilevata dal maresciallo Emilio Buccieri nel nuovo interrogatorio del 19 ottobre, quando dice di aver trasmesso i documenti su Cucchi presenti nella stazione Appia al comandante della Compagnia Casalina, senza che gli fosse consegnato alcun verbale di acquisizione. «Questo rappresenta un'anomalia», ha ammesso davanti al pm il maresciallo, che aveva comunque conservato la copia di una lettera della Compagnia con l'elenco del materiale inviato al Comando provinciale, accompagnata da un suo biglietto manoscritto: «A futura memoria per ricordare cosa è stato consegnato da noi nell' occasione del Nov. 2015». Tra le «anomalie» che costellano questa vicenda spiccano quelle verificatesi subito dopo la morte di Cucchi, all'inizio della prima inchiesta giudiziaria. Dopo la testimonianza del carabiniere Colicchio (autore di una delle due relazioni manomesse) il maggiore Soligo chiese al luogotenente Colombo un appunto sulla deposizione: «Mi disse di portarglielo presso il Comando provinciale». Colombo eseguì scrivendo, tra l'altro, che Colicchio aveva notato dei segni rossi sul volto di Cucchi, collegandoli «non a percosse ma alla conformazione fisica anoressica e al dichiarato stato di tossicodipendenza del medesimo». Al pm che gli ha ricordato il divieto di rivelare a chiunque il contenuto di dichiarazioni rese durante un'indagine preliminare, Colombo ha risposto: «Prendo atto. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori. Certo oggi, col senno di poi, mi rendo conto di quanto mi evidenziate»

Cucchi, la frase choc del carabiniere: «Sta male? Magari morisse», poi una mail cambia le relazioni. La riunione coi vertici dopo la morte: pareva gli alcolisti anonimi. A raccontare l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda: in primis il luogotenente inquisito per falso che ha rivelato la manomissione dei resoconti, scrive Giovanni Bianconi il 24 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. «Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici e compagnia bella», disse. E l’altro carabiniere rispose: «E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci sua...». A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi assolti) disse che Cucchi quella sera «camminava bene, era in condizioni normali, tranquillissimo proprio». Sfortunatamente per Cucchi e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto, all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò. A raccontare nei dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava «forti dolori al capo e giramenti di testa», nonché «di non poter camminare, dolori al costato e tremore». L’indomani, racconta Colombo Labriola, «il maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr) mi telefonò e mi disse che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri». In caserma Soligo parlò con Colombo, Di Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa. Cavallo rispedì a Colombo due nuove versioni, scrivendo nella email: «Meglio così...». La situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare, con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova versione non andava bene. «Il maggiore Soligo cercò di farmi calmare — ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre —. Stava parlando al telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un po’ agitato”». Cavallo spiegò che in fondo era stata cambiata solo una frase, «ma io non volevo sentire ragioni». Il documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella nuova inchiesta. «Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da Cavallo — sostiene Colicchio —, però l’Arma è una struttura militare, e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma». Uscito dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida: «Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora». In una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della Regione Piero Marrazzo: «L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa correggere le due annotazioni...». Al pm, Colombo ha raccontato anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. «Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi — dice Colombo —; ognuno si alzava in piedi e spiegava il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato».

Caso Cucchi, nell'intercettazione il carabiniere dice: "Magari morisse". Negli atti depositati oggi dal pm Giovanni Musarò durante l'udienza per il processo sulla morte del geometra romano spuntano intercettazioni: così Vincenzo Nicolardi parlava di Stefano Cucchi il giorno dopo l'arresto. E otto giorni dopo il decesso ci fu una riunione "tipo alcolisti anonimi" al Comando provinciale dei carabinieri di Roma, scrive il 24 ottobre 2018 "La Repubblica".  "Magari morisse, li mortacci sua". Con questa frase shock, secondo quanto riportato negli atti depositati dal pm Giovanni Musarò durante il processo sulla morte di Cucchi, uno dei 5 carabinieri imputati, Vincenzo Nicolardi, parlava di Stefano il giorno dopo l'arresto. Nel documento vengono riportate intercettazioni di comunicazioni radiofoniche e telefoniche avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, tra il capoturno della centrale operativa del comando provinciale e un carabiniere la cui voce è stata ricondotta dagli inquirenti a quella di Nicolardi, oggi a processo per calunnia. Nella conversazione si fa riferimento alle condizioni di salute di Cucchi, arrestato la sera prima: "Mi ha chiamato Tor Sapienza - dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c'è un detenuto dell'Appia, non so quando ce lo avete portato, se stanotte o se ieri. E' detenuto in cella e all'ospedale non può andare per fatti suoi". Il carabiniere risponde: "E' da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua".

"Riunione al Comando provinciale tipo alcolisti anonimi". Non solo. Sempre secondo quanto emerge dalle carte depositate oggi dall'accusa alla I Corte d'Assise del Tribunale di Roma, otto giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il 30 ottobre 2009, ci fu una riunione "tipo gli alcolisti anonimi" al comando provinciale di Roma, convocata dall'allora comandante, generale Vittorio Tomasone, con i vari carabinieri coinvolti a vario titolo nella vicenda della morte del geometra romano. Lo afferma Massimiliano Colombo, comandante della stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza, intercettato mentre parla con il fratello Fabio. "Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede: 'Fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al Comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, 'cioè quelli dall'arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Tu che sei il comandante della stazione, anche se non hai fatto nulla, il comandante della compagnia Casilina, il maggiore Soligo, comandante di Montesacro, il comandante del Gruppo Roma, stavamo tutti quanti. Ci hanno convocato perché all'epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Abbiamo fatto tipo, hai visto 'gli alcolisti anonimi' che si riuniscono intorno ad un tavolo e ognuno racconta la sua esperienza, così abbiamo fatto noi quel giorno dove però io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla".

"Se non sei in grado di spiegarti con un superiore, come ti spieghi con un magistrato?" Colombo ha chiarito la vicenda anche durante l'interrogatorio tenuto la scorsa settimana davanti al pm Giovanni Musarò. A quella riunione presero parte anche "il comandate del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro, Luciano Soligo, il comandante di Casilina maggiore Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c'erano il generale Tomasone e il colonello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall'altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all'arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché - ha concluso Colombo - se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato".

I medici del Fatebenefratelli: "Aveva una frattura vertebrale". "Visitai Stefano Cucchi due volte: aveva una frattura vertebrale e gli proposi di rimanere ricoverato da noi. Lui rifiutò dicendo "Non voglio ricoverami, preferisco ritornare a Regina Coeli dove c'è il medico di cui mi fido che sicuramente mi dà più giorni". Nel corso del processo è stato ascoltato anche Fabrizio Farina, medico del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Fu lui a visitare il giovane due volte, il 16 ottobre 2009 e il giorno successivo. Il primo intervento si concluse con Cucchi che, dopo aver rifiutato il ricovero, "si alzò e venne verso di me a firmare il foglio di rifiuto ricovero". Cosa diversa il giorno successivo: "Non riusciva a muoversi". Circostanza, questa, confermata anche dal dottor Claudio Bastianelli, anch'egli del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che accolse Cucchi in occasione del secondo 'accesso' in ospedale. "Arrivò e mi disse che voleva essere ricoverato; aveva cambiato idea perché aveva dolore in sede lombare. Gli chiesi com'era accaduto e mi rispose che era scivolato per una caduta accidentale. Ebbi io l'idea di trasferirlo all'ospedale Pertini perché da noi non c'era posto. Per questo attivai la procedura di ricerca del posto letto".

L'avvocato della famiglia Cucchi: "Siamo scioccati". "Siamo basiti, scioccati, non sappiamo più cosa pensare. Quello che ci fa veramente molto male e arrabbiare è che da quest'inchiesta emergono fatti e comportamenti esecrabili, indegni per appartenenti all'Arma dei Carabinieri, di cui si sono rese responsabili persone che non erano coinvolte nell'arresto di Stefano Cucchi né direttamente coinvolte nella sua morte". Così l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, intervistato su Radio 24. "Io e Ilaria abbiamo preso atto che per i Carabinieri i problemi sono Casamassima, Rosati e Tedesco, noi abbiamo fiducia nell'Arma dei Carabinieri, ma qui emerge un quadro desolante ed esiste un grave problema da risolvere". Intanto un altro ufficiale dei carabinieri è stato iscritto nel registro degli indagati: si tratta del colonnello Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti numero due del gruppo Roma. Prossima udienza, il 7 novembre. Continueranno le audizioni testimoniali, e non sono esclusi ulteriori colpi di scena.

Omicidio Cucchi, genesi di un depistaggio: «Magari morisse, mortacci sua». Le carte modificate per coprire le responsabilità, la necessità di evitare brutte figure all'Arma in un momento difficile e per non distruggere le carriere. E una frase shock. Ecco cosa dicono i nuovi atti in mano alla procura, scrive Giovanni Tizian il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". «Magari morisse, li mortacci sua». Così parlò il carabiniere la notte dell'arresto di Stefano Cucchi. Il militare si chiama Vincenzo Nicolardi, al processo è imputato per calunnia. E nel 2009 proferisce queste parole mentre dialoga con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre. Nei dialoghi si fa riferimento alle condizioni di salute del geometra 31enne che era stato arrestato poche ore prima e si trovava nella stazione di Tor Sapienza. Questo è solo uno dei dettagli che emerge dagli ultimi atti depositati dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. Perché in realtà nell'aula della Corte d'Assise di Roma sta accadendo qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Il muro di omertà che per nove anni ha coperto i colpevoli del pestaggio di Stefano Cucchi continua a sgretolarsi. Granello dopo granello, udienza dopo udienza, la muraglia dei silenzi si sta assottigliando. L'ultima udienza del processo bis sulla morte del geometra romano ha restituito un altro tassello di verità, per troppo tempo nascosta volontariamente in un labirinto costruito ad hoc fatto di verbali modificati e depistaggi architettati dalla scala gerarchica che comandava i carabinieri coinvolti direttamente nell'arresto di Cucchi e poi nel pestaggio. E ora della nuova indagine sui responsabili dell'occultamento delle prove che dimostrerebbero come andarono davvero le cose quella notte si sanno diverse cose. Si sa, per esempio, che sono almeno sei le persone indagate nel nuovo filone in cui si ipotizza il reato di falso. Cinque carabinieri e un avvocato. Tra i militari dell'Arma c'è anche il tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, un ufficio di rilievo nella gerarchia. Secondo quanto emerge dalle nuove carte sarebbe stato Cavallo a suggerire al luogotenente Massimiliano Colombo - comandante della stazione Tor Sapienza anche lui sotto inchiesta - di effettuare modifiche all'annotazione di servizio sullo stato di salute di Cucchi. Gli altri indagati sono il carabiniere scelto Francesco Di Sano, sempre di Tor Sapienza, il maresciallo Roberto Mandolini- comandante della stazione Appia e tra i cinque militari imputati in corte d'assise- e il tenente colonnello Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti Montesacro. Tra gli indagati c'è anche l'avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano. Il coinvolgimento di Cavallo in questa vicenda è legato a una mail esibita in sede di interrogatorio da Massimiliano Colombo cui Cavallo avrebbe suggerito le modifiche da apporre all'annotazione di servizio sulla salute di Stefano Cucchi. Ma dai nuovi atti depositati dal pm Musarò emerge ancora più evidente la pista delle responsabilità più alte. Seppure estranei all'indagine, i generali superiori dei militari finiti nell'inchiesta sul depistaggio ne escono male. Le intercettazioni degli indagati in questo senso sono significative. Una in particolare apre scenari inediti. Si tratta di una conversazione tra Francesco Di Sano e il suo legale, Giuseppe Di Sano. «Francesco (Di Sano ndr), ascoltami, io quello che penso ora per telefono non te lo posso dire, ma tu queste cose per ora, conservatele, anche perché ... incomprensibile ... però se tutto va come spero io, ste cose, ci serviranno dopo ... (.) ... per ricattare l'Arma, per che non vorrei che, se tutto va come penso io ... bene, cioè che tutto si chiude e l'Arma ti dice ah guarda comunque tu per noi non puoi stare qua' no?! Allora, io ho queste cose in mano, che fate? mi fate restare o vado al giornale? .. hai capito? .. (.) .. conservale gelosamente». Ricattare chi e su cosa? Per gli ordini ricevuti per modificare le annotazioni su Cucchi? Di certo, quei documenti sono da conservare gelosamente e da usare in casi estremi, come nel caso di un procedimento disciplinare a carico del carabiniere Di Sano. Del resto l'Arma in quel periodo non poteva permettersi clamori, sostengono gli indagati intercettati. Il motivo, ipotizzano gli indagati, è semplice: subito dopo la morte di Cucchi è emersa l'estorsione di alcuni carabinieri ai danni dell'ex presidente della regione Piero Marrazzo: «È successo subito dopo pure il caso Marrazzo, che c'era successo, capito in quello pure erano coinvolti i carabinieri, mi spiego?». Gli investigatori della Squadra mobile che stanno indagando sul caso Cucchi confermano la consequenzialità degli eventi. E nelle loro informative scrivono: «Difatti, il 23 ottobre 2009, ossia il giorno successivo alla morte di Stefano Cucchi, quattro carabinieri della Compagnia Roma Trionfale, sono stati arrestati dai carabinieri del R.O.S., a seguito di un'attività d'intercettazione telefonica, con l'accusa di aver ricattato, a scopo estorsivo, il presidente della Regione Lazio, perché in possesso di un filmato di Marrazzo in compagnia di un transessuale». «L'Arma che ci tiene alla sua immagine, voglio dire, perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati? E fa correggere le due annotazioni», commenta un secondo indagato. Insomma, se così fosse la verità su Cucchi sarebbe stata tenuta nascosta per evitare altre figuracce? E magari per non sporcare la carriera di ufficiali lanciatissimi. Un'ipotesi tra le altre, di certo i carabinieri semplici finiti nei guai in questo secondo filone non ci stanno a pagare per tutti. Anche perché, ribadiscono nei loro dialoghi, hanno obbedito a un ordine. A quale ordine? Di chi? E da chi è partito? Su questo punto è netto Massimiliano Colombo: «Se hanno indagato me allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa, dovranno indagare Tomasone». Cavallo è il capo ufficio del gruppo carabinieri Roma attualmente sotto inchiesta; Alessandro Casarsa è invece l'ex comandante della compagnia Casilina, tra le più importanti della Capitale con una competenza in un territorio dove vivono 800 mila persone, oggi comandante dei Corazieri al Quirinale; Vittorio Tomasone era il comandante provinciale di Roma. Tomasone e Casarsa nel 2018 sono diventati generali. Ma torniamo alla scala gerarchica. Dai nuovi atti depositati dal pm Musarò è ormai certo che l'ordine di modificare le carte è partito dai superiori. Che ruolo ha giocato la riunione del 30 ottobre 2009 al comando provinciale, una settimana dopo la morte di Cucchi? L'incontro ritorna spesso nei racconti degli indagati. Erano presenti i comandanti delle stazioni dalle quali era passato Cucchi, il generale Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa. Assente, invece, Francesco Cavallo. Di quell’incontro non c’è alcun verbale, niente di scritto. Quella riunione - che a detta di uno degli indagati sembrava una riunione degli «alcolisti anonimi» - non produsse alcun risultato. Ma la sensazione, rileggendo i verbali di interrogatorio, è che ora il summit con i generali e i colonnelli sia al centro di approfondimenti investigativi. Perché sul vertice convocato d'urgenza il 30 ottobre, le domande del pm, sia nelle passate udienze che negli interrogatori dei nuovi indagati, sono insistenti. Chi era presente quel giorno ha risposto così: «Ognuno, a turno, si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda in cui era stato coinvolto Stefano Cucchi. Ricordo che uno dei Carabinieri di Appia che aveva partecipato all'arresto di Stefano Cucchi aveva un eloquio poco fluido, e un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (oggi tra gli imputati ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto il Col. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il Carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché, se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore, certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato». Il giorno prima della riunione al comando provinciale, il magistrato dell'epoca che seguiva il caso Cucchi aveva sentito nel suo ufficio alcuni dei militati coinvolti nella vicenda. Ma è dopo quattro mesi quella riunione alla presenza dei vertici romani dell'Arma che accade un altro misterioso fatto. Che verrà scoperto solo nell’ultima inchiesta aperta dalla procura di Roma. Si tratta di un documento “riparatore”. Due le firme, una è di Di Sano. È datato febbraio 2010, 120 giorni dopo la morte di Cucchi. In questa annotazione gli appuntati scrivono che il ragazzo si è rifiutato di firmare il registro «riservato agli arrestati». Un fatto che è smentito dalle testimonianze nel processo in corso. Dunque anche questo documento presenta delle inesattezze, che messe insieme compongono la tela del depistaggio che ha portato al primo processo i cui imputati erano gli agenti della polizia penitenziaria, poi assolti dalle accuse. Francesco Di Sano successivamente è stato promosso. Si è guadagnato la fiducia dei vertici militari. Ha lasciato la caserma di Tor Sapienza qualche mese dopo aver redatto l’ultima relazione sul caso che rischiava di travolgere l’Arma. Per una curiosa coincidenza è finito a fare l’autista del comandante provinciale, il generale Tomasone, che da lì a breve avrebbe salutato Roma per dirigere il comando regionale dell’Emilia Romagna. Non sono stati promossi, invece, a i due carabinieri che hanno testimoniato. A Francesco Tedesco è stato notificato un procedimento di Stato lo stesso giorno in cui si è presentato in procura per collaborare con il pm. Rischia la destituzione a causa del processo in cui è imputato. L’altro, Riccardo Casamassima, il primo a rompere il muro di silenzio, attraverso il suo legale sostiene di essere stato demansionato. Prima è stato trasferito nella stessa caserma del maresciallo che aveva accusato. E poi è stato messo a fare il piantone nella scuola di formazione. Un’umiliazione per uno “sbirro” di strada con alle spalle importanti sequestri di droga.

Cucchi, Salvini ai carabinieri: «L’errore di uno non infanghi il lavoro di tutti». Il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, alla cerimonia per i 40 anni del Gis: «La gravità dell’accaduto non si discute, ma non rispecchia la normalità del nostro modo di precedere». Trenta: «Chi nega i valori va isolato», scrive il 26 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". «L’Arma si deve ricordare che è nella virtù dei 110mila uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni; 110mila uomini che sono molti ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù». Così il comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri ha concluso il suo discorso nel corso della cerimonia per i 40 anni del Gis, il gruppo di Intervento Speciale, l’unità per il controterrorismo italiana. Il generale aveva difeso l’Arma all’indomani della confessione che aveva scosso la «Benemerita», da parte di uno dei militari che aveva partecipato al pestaggio di Stefano Cucchi dopo l’arresto. «La gravità di ciò che è accaduto non si discute - aveva detto Nistri - ma è un episodio che non rispecchia la normalità del modo di procedere dell’Arma». Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, presente alla cerimonia, ha fatto scattare l’applauso dagli spettatori in tribuna, dichiarando: «Da ministro non ammetterò mai che un eventuale errore di uno possa infangare l’impegno e il sacrificio di migliaia di ragazze e ragazzi in divisa». Mentre il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha concluso il suo discorso affermando che «L’Arma è sempre stata vicina al cittadino» e i Carabinieri sono un «punto di riferimento, esempio di rettitudine, integrità e senso del dovere»: ma nel caso in cui «si accerti l’avvenuta negazione di questi valori si deve agire e accertare la verità isolando i responsabili allo scopo di ristabilire la fiducia dei cittadini nell’Arma».

I ricatti dentro L’Arma “Quelle carte su Cucchi sono il mio salvavita”. La congiura del silenzio mostrò fin da subito le prime crepe. Perché molti nascosero le copie di documenti compromettenti, scrive Carlo Bonini il 25 ottobre 2018 su "la Repubblica". La congiura del silenzio sull’omicidio di Stefano Cucchi non solo ha fatto deragliare per nove anni la ricerca della verità ma ha impiccato i vertici dell’Arma al nodo scorsoio del ricatto. Come documentano gli atti depositati dal pm Giovanni Musarò, falsi, omissioni, menzogne hanno imbalsamato in un patto non scritto di omertà l’intera catena gerarchica. E in nome del simul stabunt simul cadent, appuntati hanno dunque potuto ricattare marescialli, mare...

L’arma dell’Arma su Cucchi: trasferire e delegittimare. Depistaggio - Nelle carte della nuova inchiesta sulla morte di Stefano le pressioni della catena di comando per nascondere la verità, scrivono Antonio Massari e Valeria Pacelli il 26 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Adesso c’è da aspettare che mi trasferiscano, in modo tale che poi delegittimano le mie dichiarazioni verso l’altro con il risentimento del trasferimento (…) Dice: ‘Quello è stato trasferito e adesso ce l’ha con la scala gerarchica’”. Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza a Roma (dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre […]

Caso Cucchi, i carabinieri e il dovere della fiducia. Il comandante generale dell'Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole che stronchino i sospetti e indichino una strada di riscatto, scrive Mario Calabresi il 25 ottobre 2018 su "La Repubblica". Non vogliamo e non possiamo credere che i carabinieri siano questi. Che l'immagine dell'Arma venga schiacciata sul comportamento di chi ha tradito la legge per nascondere la verità sulla fine di Stefano Cucchi. Che la fiducia di una nazione possa essere incrinata dalle accuse contro militari depistatori o corrotti. Le rivelazioni che emergono dal processo di Roma mettono sotto accusa, penalmente e moralmente, l'intera scala gerarchica della Capitale e richiedono una rispo... 

Valentina Errante per “il Messaggero” il 25 ottobre 2018. Nuove intercettazioni, sul caso Cucchi: il pm Giovanni Musarò le ha disposte un mese fa, mentre il film Sulla mia pelle raccontava la storia di Stefano e nelle udienze del processo, che vede alla sbarra cinque carabinieri, cominciava a sgretolarsi il muro di omertà. E in quelle conversazioni i militari ora accusati di falso parlano con amici e parenti, raccontano delle pressioni subite «Cosa avresti fatto se te lo ordinavano i tuoi superiori?», dice il maresciallo Francesco Di Sano al cugino avvocato. Così in ballo c' è la catena gerarchica dell'epoca: dovrebbero essere indagati. Gli atti depositati ieri in udienza da Musarò hanno rivelato un altro pezzo di questa storia, sul registro degli indagati è finito anche il nome di Francesco Cavallo, nel 2009 numero due del Gruppo Roma. Massimiliano Colombo, il comandante della stazione Tor Sapienza, da indagato per falso, ha parlato per sette ore davanti al pm, consegnandogli l'email che aveva custodito per tutto questo tempo: quella del 27 ottobre 2009 da Cavallo, nella quale venivano modificate le annotazioni redatte da Giancluca Colicchio e Francesco Di Sano, i piantoni che la notte tra il 15 e il 16 ottobre erano alla stazione mentre Cucchi stava in cella di sicurezza. «Meglio così», scriveva il colonnello, modificando gli atti. Il primo, dopo uno scontro con il colonnello Luciano Soligo, anche lui indagato, e con Cavallo, si era rifiutato di mandare ai pm la relazione modificata. Ma, soprattutto, Colombo racconta della riunione, «quasi una seduta degli alcolisti anonimi». E di come avesse dovuto redigere una relazione sulla testimonianza di Colicchio davanti al pm che allora indagava sulla morte di Cucchi, Vincenzo Barba. Sebbene il verbale dovesse rimanere segreto. Prima di riferire di quella riunione sul caso Cucchi, Colombo ne aveva parlato al telefono con un amico: «Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, cioè tutti coloro dall' arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Ci hanno convocato perché all' epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla». Circostanza ripetuta al pm: «Erano presenti: il comandante provinciale, colonnello Vittorio Tomasone, il comandante Gruppo Roma, colonnello Alessandro Casarsa, il Comandante della Compagnia di Montesacro, maggiore Luciano Soligo, il Comandante della compagnia Casilina, maggiore Unali, il maresciallo Mandolini (Roberto imputato per falso e calunnia ndr) e altri tre o quattro carabinieri del comando stazione Appia. Da una parte - racconta Tedesco - c' erano Tomasone e Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall' altra parte (posizione frontale). Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all' arresto, non era molto chiaro - ricorda Colombo - un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (Roberto, imputato per calunnia ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Tomasone zittì Mandolini, dicendogli che i carabinieri dovevano esprimersi con parole proprie perché, se non erano in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbero spiegati con un magistrato». Colombo racconta della relazione di servizio che aveva stilato sul contenuto del verbale reso da Colicchio davanti al pm Barba: «Prendo atto che, come mi evidenziate - dice - in fase di indagini preliminari non è consentito chiedere ad una persona escussa di rivelare il contenuto delle dichiarazioni rese al pm. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori». «Magari morisse, li mortacci sua». Così Vincenzo Nicolardi (il carabiniere imputato per calunnia nel processo davanti alla prima corte d' Assise per calunnia e falso), parlando di Stefano Cucchi con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale in una delle conversazioni registrate avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, il militare fa riferimento alle condizioni di salute del geometra che era stato arrestato da alcune ore e si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza.

Come ai tempi dei servizi segreti deviati: i depistaggi su Cucchi fanno venire i brividi. Le indagini hanno dimostrato che una catena gerarchica ha contribuito per anni a nascondere la verità sulla morte di Stefano. E questo è un problema serio in uno Stato democratico, scrive Gianni Cipriani il 25 ottobre 2018 su Globalist. Recitiamo la formula di rito che si usa sempre quando si tratta di apparati dello Stato: parliamo di una minoranza mentre la stragrande maggioranza dei carabinieri (polizia, finanza, penitenziaria, militari e via seguendo) fa il proprio dovere. Giusto dirlo ma sarebbe ancora più giusto dirlo sempre, magari includendo i napoletani (la stragrande maggioranza non truffa il prossimo) i meridionali (la stragrande maggioranza ha voglia di lavorare) e gli stranieri (la stragrande maggioranza, anzi la quasi totalità di quelli che vivono in Italia non sono terroristi). Però, come è noto dai tempi di Chicchennina, che in romanesco significa da molto tempo, c’è sempre la pessima abitudine di fare le distinzioni per gli amici e di fare di tutta l’erba un fascio per i nemici. Ora che la terribile verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la brutalità, forse qualche ragionamento più stringente va fatto. Perché non si tratta del carabiniere stressato e manesco che si è lasciato andare contro il "tossico di merda" (cit.) e poi ha cercato maldestramente di camuffare gli eventi. No. Sta emergendo una filiera gerarchica che partendo dall’ultima ruota del carro e risalendo man mano a chi del carro forse aveva le redini ha pianificato un castello di menzogne che per molti anni ha negato verità e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi, anche al prezzo di far finire sotto processo altri uomini dello Stato (gli agenti della Penitenziaria) che sono stati ingiustamente accusati anche a causa di quei depistaggi. La sequenza è impressionante. Il carabiniere che aggiusta e mente su ordine del superiore, che a sua volta obbedisce al superiore del superiore, che a sua volta obbedisce al superiore del superiore del superiore in una sequenza da Fiera dell’Est. Sarà l’inchiesta a stabilire chi siano penalmente i militari da portare a processo e saranno i giudici a valutare chi condannare o assolvere. Ma da un punto di vista politico - da cittadino e dalla parte del ‘popolo’ come va di moda dire - emerge chiaramente che una riflessione seria andrebbe fatta anche sull’Arma dei carabinieri e dentro la stessa Arma dei carabinieri. Perché quando non si muove il singolo, ma c’’è un’intera catena gerarchica a mettersi in modo per nascondere, depistare o - nella più favorevole delle letture - a minimizzare ritoccando, modificando e togliendo dalle relazioni di servizio, allora c’è qualcosa che non va. Non si può parlare di singola mela marcia, ma da un punto di vista politico (sempre se si vuole andare fino in fondo) c’è da capire quanti e quali servitori dello Stato abbiano preferito venire meno al loro dovere pur di coprire un misfatto e a costo di negare per anni la verità sulla brutale morte di un giovane ragazzo. Eppure - chi è più anziano lo sa - questo paese ha nella propria storia recente quella dei depistaggi dei servizi segreti sulle stragi e il terrorismo. All’epoca fu coniato il termine di ‘servizi segreti deviati’ che serviva a tanti per pulirsi la coscienza. Ossia c’era un apparato sano all’interno del quale c’erano alcuni poco di buono che - chissà perché - si divertivano a proteggere gli eversori. In realtà non esistevano i servizi segreti ‘deviati’, c’era semmai per ragioni storico-politiche ben note (la Guerra Fredda) un sistematico uso deviato dei servizi segreti e i depistatori che sono stati condannati erano solo un ingranaggio del sistema che in quanto tale non è mai stato messo in discussione e che è morto solo con la fine della guerra fredda. Ora i tempi sono totalmente diversi. La vicenda Cucchi non è la strategia della tensione, ma si tratta di qualcosa di gravissimo che getta un’ombra sullo Stato: la morte di questo ragazzo è avvenuta all’interno di un contesto poco lineare e che una democrazia ha il dovere di chiarire fino in fondo ed eliminare ogni zona d’ombra. Proprio chi ha grande considerazione dell’Arma dei carabinieri di Salvo D’Acquisto e Carlo Alberto Dalla Chiesa, di coloro che hanno combattuto le mafie e il terrorismo anche al prezzo della vita deve pretendere il massimo della trasparenza e della pulizia. Sono una minoranza? Sì. Una stragrande minoranza? Certo. Personalmente ho negli anni conosciuto decine e decine di carabinieri, poliziotti e servitori dello Stato del quale sono orgoglioso di essere stato o essere amico che in silenzio e senza diventare eroi mediatici hanno salvato vite, hanno difeso questo paese dai criminali, dal terrorismo e, in tempi più recenti, hanno impedito che nel nostro Paese ci fossero attentati come a Parigi, Londra o Bruxelles anche rischiando (sul serio) la vita. Ma non si parli di singoli o di isolate mele marce. La vicenda Cucchi fa vedere che c’è qualcosa di più. Girarsi dall’altra parte sarebbe ipocrita e vigliacco.

Cucchi è un’eccezione, scrive Luca Sofri venerdì su "Il Post. In mezzo alle tante cose sventate dette e sostenute intorno alla morte di Stefano Cucchi e alle indagini sulle circostanze di quella morte, ce n’è una su cui vale la pena dire due cose, perché ricorre in occasioni diverse ed è apparentemente convincente quanto ingannevole: ed è che i fatti dimostrino che “il sistema funziona” perché alla fine la verità emerge, le responsabilità vengono individuate, le “mele marce” si rivelano tali e soprusi, violazioni e reati finiscono per essere svelati. Insomma, il sistema di perseguimento dei reati, investigazione e amministrazione della giustizia funziona e prevale. È un argomento, dicevo, che ricorre spesso in contesti diversi: quello più frequente è quello dei veri “errori giudiziari” (che spesso non sono esattamente “errori”) quando vengono scoperti, corretti, annullati. In quei casi, qualcuno dentro o fuori dalla magistratura annuncia che quello a cui si è assistito non è un fallimento del sistema, ma la dimostrazione del suo funzionamento con la capacità di individuare ed emendare i propri errori. Naturalmente, è facile far notare che l’annullamento di quegli “errori” non annulla le loro conseguenze sulle vite di chi ne è stato vittima. Ma il punto non è tanto questo: punto a cui si risponde di solito che una quota di errore è inevitabile (soprassiedo su questa risposta). Il punto è che quello che ci viene rivelato in questi casi non è un errore individuato, una colpa smascherata, un sopruso svelato: quello che ci viene rivelato è l’esistenza certa di altri dieci, cento, mille, casi del genere che non sono stati individuati, smascherati, svelati. Cucchi è un’eccezione, ma in questo senso: è la storia che oggi conosciamo, a differenza delle altre. Quello che ci viene rivelato è un atteggiamento (violenza, prepotenza, incoscienza nei confronti delle vite altrui, cialtroneria, omertà) che chiaramente non si può essere manifestato solo quella volta lì, e pensa un po’ l’abbiamo puntualmente scoperta. Chi picchia gli arrestati, chi mostra disprezzo per le persone, chi nasconde la verità, chi fa prevalere altro sulla ricerca della verità, chi fa di tutto per mantenere il proprio partito preso a costo di tragedie, nelle caserme, nei tribunali, nelle carceri, nei luoghi chiusi della gestione di sicurezza e giustizia, non lo fa una sola volta, tutto da solo, contorcendosi dal tormento e giurandosi “non lo farò mai più” in un’autocritica dolorosa, prima di correre a mettere rimedio a quello che ha fatto. Ma quando mai. È quello che sono queste persone, queste culture, questi apparati, questi luoghi, a doverci preoccupare quando si svelano queste storie: non solo le singole storie. Il sistema funziona? Meglio che nel Cile degli anni Settanta, sì: dice il caso Cucchi.

Perché serve educare i poliziotti. Cambiare la cultura nelle forze dell’ordine è una sfida enorme. Ma indispensabile per la protezione di tutti, scrive Floriana Bulfon il 22 ottobre 2018 su "L'Espresso". Indagine su cittadini al di sopra di ogni sospetto, quelli con la divisa, che dovrebbero tutelare la legge e invece riescono a violarla senza correre rischi. Tra pochi giorni dalle scuole allievi usciranno quasi tremila Carabinieri pronti a raggiungere le stazioni in ogni parte del Paese. «Hanno avuto una formazione di 11 mesi e quest’anno per la prima volta, nel programma che prevede tecniche investigative, diritto, attività fisiche e tirocini, sono state introdotte 60 ore dedicate all’etica del comportamento», spiega il generale Michele Sirimarco. Punto centrale è il rapporto con le persone, in particolare con chi entra in custodia dello Stato: «Norme fondamentali come quelle del rispetto dei diritti umani, come dichiarare inagibili le camere di sicurezza che non hanno i requisiti. Tutti i giorni all’alza bandiera si legge un articolo della Costituzione, si sottolinea il rispetto dei diritti umani e si ricorda che il silenzio è illegittimo. Di fronte a un ordine che viola i principi costituzionali si è obbligati a denunciare. In questa scuola abbiamo parlato di quello che è accaduto a Stefano Cucchi, l’abbiamo fatto per stigmatizzare comportamenti che rifiutiamo e trarne insegnamento». La lezione da ricavare non riguarda solo la verità tradita sulla morte di Cucchi. Questo è solo l’ultimo episodio di una serie nera. Diciassette anni dopo le brutalità del G-8 di Genova, ci troviamo davanti alla stessa catena di violenze e omertà che pongono domande fondamentali per una democrazia. Anzitutto il rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. E quell’abitudine a costruire muri di gomma fino a negare l’evidenza, «una malattia contratta durante l’uso permanente e prolungato del potere», come diceva il commissario interpretato da Gian Maria Volontè nel film di Elio Petri “Indagine”. «Una malattia professionale, comune a molte personalità che hanno in pugno le redini della nostra società». La società, appunto: «Come cittadini rinunciamo a una parte dei nostri diritti per essere protetti dalle forze dell’ordine. Ma nel momento in cui un agente compie un atto di violenza contro un cittadino, com’è avvenuto nel caso Cucchi, che era inerme nelle mani del più forte, non è solo quel singolo agente a perdere legittimità. È lo Stato che diventa illegittimo. E se lo Stato abusa del potere, si incrina inevitabilmente la fiducia dei cittadini. Gli effetti negativi investono la democrazia», spiega Donatella Di Cesare. Lei, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma ha scritto di recente un libro sulla tortura, uno sulla violenza globale, intitolato “Terrore e modernità”, e uno sulla migrazione. «La polizia agisce in quei casi di oscurità giuridica, in cui, appellandosi alla sicurezza, interviene sulla vita del cittadino. È ambivalente, si situa in quella sfera dove è abolita la separazione tra violenza che pone il diritto e violenza che lo mantiene. In breve, il diritto sconfina nella violenza, e la violenza nel diritto. È la continuità inquietante tra il sovrano e il boia. Il mutamento recente della figura del boia da aguzzino spietato ad agente-eroe, carismatico e leale, non cambia i termini della questione. Semmai li aggrava». Non si tratta solo di un’anomalia italiana, sono coinvolte anche le altre democrazie occidentali. «Primi tra tutti gli Stati Uniti. L’uso eccessivo della forza e delle torture si concentra spesso contro le persone considerate marginali, quelle rispetto alle quali non ci si aspetta una critica dell’opinione pubblica», sottolinea Donatella Alessandra Della Porta sociologa alla Scuola Normale Superiore, autrice con Herbert Reiter di “Polizia e protesta” (Il Mulino, 2013) uno dei saggi più noti sul G-8 di Genova, dove evidenzia «il ruolo di una cultura che tende a privilegiare l’efficacia rispetto ai valori democratici, orientata alla chiusura verso l’esterno e per questo legata a un forte senso dell’impunità». Ogni potere ha bisogno di contrappesi e per contrastare il rischio di devianze serve l’innesto di valori diversi: «Formare spiegando che per svolgere bene il loro ruolo hanno bisogno di legittimazione da parte del cittadino, introdurre la trasparenza e la riduzione delle gerarchie interne, aprirsi alla società», evidenzia la professoressa Della Porta. I modelli ci sono, come quelli introdotti in Scandinavia o in Inghilterra. E anche la polizia italiana ha cercato di imparare dagli errori. Dopo la “macelleria messicana” della Diaz è nata la scuola per l’ordine pubblico: insegna ad agire usando “meno fumogeni e più etica”. «Deve essere chiaro che chi denuncia non è mai un traditore, e che chiunque compie un reato, a maggior ragione se è una persona in divisa, deve essere perseguito in maniera tempestiva», sottolinea Antonio Patitucci, segretario generale del sindacato Silp Cgil. Per lui le forze di polizia sono istituzioni sane, ma suggerisce: «Per migliorare nella difficilissima professione che svolgiamo sarebbe opportuno arricchire i corsi con una formazione sul piano psicologico». C’è però un’altra questione, che va ben oltre la mentalità del poliziotto o del carabiniere. Dopo la ferocia, dopo le botte contro i sovversivi o contro lo spacciatore, sono arrivati i depistaggi. Mattone su mattone, falso su falso, il sistema ha costruito il suo muro di protezione grazie alle coperture delle gerarchie. Una menzogna di Stato che nel caso Cucchi è durata nove anni. «Con le dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco il muro si è abbattuto per la prima volta. Non era mai successo che qualcuno protagonista e sotto processo parlasse. C’è stato sempre uno spirito di corpo granitico, che non si poteva scalfire», spiega Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Cucchi. Alle istituzioni devono gestire quella che Max Weber definiva “violenza legittima”, cioè usare la forza per la sicurezza comune rispettando però le leggi. «Con un mandato così particolare è necessaria molta coesione interna, identificazione con il compito, altruismo con i colleghi. Doti che possono degenerare, se non c’è un rigoroso controllo da parte dei superiori», analizza Fabrizio Battistelli dell’Università Sapienza di Roma, che ha compiuto molte ricerche sulla sociologia dei militari. Un deficit quindi nella gerarchia. Eppure i codici interni sono chiari. Era il 1822 quando il Regolamento dei Carabinieri Reali definiva “da delinquente” infliggere percosse e maltrattamenti a un prigioniero. «L’ostentazione della prepotenza non può mai essere il volto di una democrazia» si legge oggi su “L’Etica del Carabiniere” diventato il testo di riferimento delle scuole dell’Arma. Ha contribuito a scriverlo Stefano Semplici, docente di etica sociale e filosofia morale a Tor Vergata. Lui carabiniere ausiliario nel 1982 ricorda con emozione la prima volta che ha varcato un portone di una caserma a pochi giorni dall’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «I meccanismi più efficaci per rompere l’omertà sono la certezza che i muri del silenzio sono destinati a crollare. E poi la consapevolezza che le istituzioni sono, al fianco dei cittadini per scoprire la verità e non per occultarla». Ma i cittadini cosa vogliono? Dal 2001 si ha la sensazione che la paura abbia generato una tolleranza verso gli abusi di potere delle forze dell’ordine. «Dall’11 settembre il modello dello “Stato di sicurezza” ha finito per imporsi modificando dall’interno la democrazia» constata Di Cesare. Bisognerebbe però chiedersi come si traduce poi questa sicurezza. «Molti pensano semplicemente alla propria difesa contro gli altri, non riflettono alla possibilità di essere vittime di un abuso di violenza». Secondo Battistelli «da particella oscura oggi l’insicurezza si sta trasformando in una massa che ci sovrasta»: una costruzione della minaccia che tutto giustifica in nome della logica dell’emergenza. E per la Di Cesare, si arriva così «al crimine che si annida nel cuore di tenebra di ogni potere»: la tortura, che nel nostro Paese non era riconosciuta fino a poco tempo fa nemmeno come reato. «Il contesto politico in cui viviamo oggi in Italia - nota Di Cesare - è quello di una vera e propria fobocrazia. Con questo termine intendo un dominio della paura». Il governo della paura, quello che può farci accettare la negazione dei diritti umani. Un esempio? «Il decreto Salvini, dove la migrazione viene trattata come una questione di sicurezza e spacciata per un crimine. Il Ministro dell’Interno riduce il caso Cucchi a due mele marce, evitando di commentare quella complicità gerarchica che ha permesso di occultare la verità». Colpa anche dei modelli trasmessi dai media e dalla tv: «Penso a tante celebri serie poliziesche: da una parte il poliziotto eroe e dall’altra i “nemici”, dipinti sempre a caratteri foschi, il terrorista, il criminale. Il poliziotto-eroe, il torturatore gentiluomo, non è un carnefice, ma quasi una figura salvifica, e può permettersi di infrangere ogni regola, pur di garantire sicurezza. La violenza appare allora quasi purificatrice. Come ciò possa coniugarsi con la democrazia è difficile da comprendere». Sembra di tornare alle parole di Kafka: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».

Stefano Cucchi, ma i giudici di allora non videro nulla? Scrive il 17 gennaio 2017 Daria Lucca, Giornalista, su "Il Fatto Quotidiano". Per fortuna c’è un giudice anche a Roma… e finalmente sette anni dopo viene scritta la prima parola seria sulla fine del giovane Stefano Cucchi con l’unica ipotesi accettabile degli eventi: omicidio (seppur) preterintenzionale. Merito soprattutto della determinazione e del coraggio della sorella Ilaria, non c’è dubbio. Una determinazione, quella di cercare e mostrare al mondo la verità, viceversa non attribuibile agli organi istituzionali che si sono occupati del caso. Ripercorriamo i passaggi principali. La sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di droga. I carabinieri che lo fermano, lo tengono in caserma fino alla mattina successiva. Quando Stefano compare davanti al giudice per la convalida dell’arresto, mostra già i primi segni di uno stato fisico che nel giro di pochi giorni lo porterà alla morte. Prima domanda, rivolta a chi di dovere con tutto il garbo consentito dalla gravità dei fatti: il giudice che se lo trovò davanti non notò nulla di insolito? Qualcuno obietterà che Stefano non denunciò il pestaggio. Ettecredo, dicono a Roma. Se ti hanno massacrato fino a romperti una vertebra e causarti complicanze neurovescicali e infine cardiache (poi fatali), probabilmente sei anche terrorizzato. Non ce la fai a denunciare niente e tantomeno nessuno. Seconda domanda, rivolta con meno garbo: i medici dell’Ospedale Pertini considerano abitudinario il fatto di trovarsi davanti pazienti che presentano lesioni da tortura (così le voglio chiamare) e non sentire la necessità di presentare denuncia? Terza domanda, la più necessaria in uno Stato di diritto: ma il procuratore del tempo, quando si trovò fra le mani l’esposto della famiglia Cucchi e si cominciò il primo esame dei fatti, non ritenne opportuno mettere sotto indagine coloro che, persino agli occhi dell’ultimo dei rimbambiti, erano visibilmente i primi sospettati? I carabinieri. Non so voi, ma io me la immagino la scena, i magistrati riuniti a discutere come proseguire: che cosa abbiamo qui? Un fermo per possesso di droga, detenzione in caserma per l’intera notte… mhmm. Certo, tutto è possibile, possono esserci stati interventi successivi della polizia penitenziaria, più difficile che sia stato il personale ospedaliero a menarlo (gli inquirenti parlano come mangiano quando nessuno li ascolta, ndr), ma a noi corre l’obbligo di indagare anche i primi che lo hanno avuto in custodia. E invece no. Invece il procuratore capo del tempo (quando ci sono di mezzo eventuali reati contestabili alle forze dell’ordine e oltretutto di questa gravità, le autorizzazioni le dà il capo) decise che si potevano prendere per buone le calunnie (ora così sono state definite) agli agenti penitenziari in servizio al tribunale di Roma e che loro, i primi che lo ebbero in custodia, potevano tranquillamente essere esonerati da qualsiasi responsabilità. Perché? Questo andrà chiesto, da chi di dovere, a chi prese quelle decisioni. Ma certo il capitolo non si può chiudere così, fingendo che adesso è stato tutto rimesso in piedi, nella giusta prospettiva. Un giovane uomo è morto mentre era nella custodia dello Stato. Nonostante la denuncia della famiglia, i custodi hanno continuato a mentire, accusando altri e cercando di insabbiare la verità. Due processi non sono riusciti a fare chiarezza. L’istituzione che doveva rendere giustizia alla vittima si sente esente da qualsiasi responsabilità? Aspettiamo questa risposta.

Telese: Me ne sono andato dal Fatto perché non voglio morire manettaro, scrive Chiara Sirianni il 5 luglio 2012 su Tempi. «Non ce l’ho con nessuno, ma la mia linea non è quella di Travaglio. È da venti giorni che parla di Napolitano come se fosse Totò Riina. Basta, la politica non è un virus contaminante». Ecco perché Luca Telese si fa il suo Pubblico. «Ero stufo di papelli, politologia, teoremi astrusi. A volte, invece che stare sul campo a scotennare i pochi superstiti, è importante accorgersi che la guerra è finita». Luca Telese è spavaldo, ora che ha ufficialmente divorziato dal quotidiano di via Orazio per approdare in edicola, da settembre, con una testata tutta sua. Del resto anche il Fatto quotidiano, creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vicedirettore e uomo icona) è nato da alcuni “dissidenti” dell’Unità (Furio Colombo in primis). E la ruota, prima o poi, gira. Pubblico sarà un giornale di 20-30 pagine, formato Berliner (leggermente più grande del tabloid, utilizzato soprattutto dai quotidiani francesi), molto colorato, pieno di disegni. Il modello di business sarà lo stesso del Fatto: gruppo di soci promotori che detengono il 51 per cento del capitale, per un investimento iniziale complessivo di 650 mila euro. Distribuito su quasi tutto il territorio nazionale, con tre centri stampa in Sardegna, a Milano e a Roma. Aspettative? «Se vendiamo diecimila copie, andiamo in pareggio. Se non vendiamo, chiudiamo». Quindici i redattori, con l’obiettivo di raccontare l’Italia della crisi, «dagli imprenditori suicidi agli operai bidonati da Marchionne». Nonostante non sia un buon momento per l’editoria (Nielsen registra -241 milioni di euro di investimenti pubblicitari nel periodo gennaio-aprile 2012 rispetto all’anno precedente), il campo di gioco è piuttosto affollato. Mentre i partiti di centrosinistra si preparano a rimescolarsi in vista delle elezioni del 2013, anche un altro giornalista “compagno” è alle prese con un debutto cartaceo nel prossimo autunno: si tratta di Piero Sansonetti, già condirettore all’Unità e poi di Liberazione, che ha in cantiere un tabloid, Paese, in distribuzione con alcune testate del Sud. Poi c’è il Manifesto, “salvato” dal decreto editoria approvato dal Senato.

Telese, col Fatto quotidiano non vi siete lasciati benissimo, stando al comunicato stampa con cui le hanno sarcasticamente augurato «buona fortuna». 

«Al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati. Parlo di Marco Travaglio e del suo gruppo. Non ho insultato nessuno: ho solo precisato che c’era una differenza di linea. In generale non ci sono stati scontri, anche perché in questi tre anni sono rimasto in redazione certo più di Marco. Faremo persino una partita di calcetto, Pubblico contro i colleghi del Fatto».

Sarà una partita appassionante, visto che in una recente intervista Travaglio ha detto: «A Telese non rispondo: preferisco ricordarmelo da vivo».

«In casi come questo c’è davvero poco da aggiungere. Fa ridere? Non mi pare. È spiritoso? Nemmeno. Intende dire che è come se fossi morto? Se sì, mi preoccupo per lui. Io invece gli auguro di fare un ottimo giornale, e di parlare di mafia finché avrà fiato per farlo. Io faccio un altro mestiere».

Si riferisce alle conversazioni telefoniche, pubblicate sul Fatto, tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio in relazione alla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?

«È da venti giorni che il Fatto tratta la vicenda come se Napolitano fosse Totò Riina. È “giudiziarismo” giacobino, esasperato. Conduce alla non realtà. Il problema di Travaglio è l’antiberlusconismo tardivo, a oltranza. È come se nell’America odierna ci si ponesse il problema di liberare gli atolli dagli ultimi soldati giapponesi».

Eugenio Scalfari, fondatore ed editorialista di Repubblica, l’aveva predetto con un pizzico di sadismo: ora che non c’è più Berlusconi, Marco Travaglio avrà qualche problemino. 

«È l’ideologia del nemico. Il rischio è quello di recitare la commedia anche quando il sipario è calato. Marco è molto carismatico, ma è rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo. Che qualcuno pensi di essere portatore di una verità rivelata a me, personalmente, inquieta molto. Contemporaneamente, Beppe Grillo è sembrato una facile via d’uscita: è un partito in forte ascesa? Sì. Ha bisogno di un quotidiano di partito? Diamoglielo».

Perché no?

«Che senso ha scagliarsi per anni contro un imprenditore televisivo per poi mitizzare un comico? Serve altro per fare politica. Non basta urlare a un microfono “siete tutti morti!”. Purtroppo in tempo di crisi tornano in auge i comici e le fattucchiere. Quando invece serve fare, non distruggere».

Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, parlando del rotocalco Lavoro (organo della Cgil) si espresse così, riferendosi al prototipo di operaio da lui fotografato: «Si alzava la mattina troppo presto (…) e dopo troppe ore ecco che usciva e raggiungeva faticosamente casa, dove stanco morto cenava. Ora secondo la stampa illustrata di sinistra quel disgraziato, prima di andare a letto, avrebbe dovuto leggere un giornale che gli parlava della sua vita? Dio remuneri con la Gazzetta rosa tutta la stampa sportiva che è la sola che ha fatto allora, e spero continui a fare, qualcosa di utile per i lavoratori». È un rischio? La gente vuole solo evadere dalla crisi o vuole essere ritratta?

«C’era un bisogno, almeno per me, di puntare il riflettore sull’Italia che soffre. Vorrei raccontare storie di coraggio, di persone che pur nella crisi reagiscono, senza stipendio, senza paracadute. Di certo sarà un giornale di sinistra. Parafrasando Hollande, il giornale del cambiamento. Perché per uscire dalla crisi occorrono soluzioni. I cosiddetti tecnici si sono rivelati dei totali incompetenti, e sento l’esigenza di difendere lo stato sociale da un assalto che si compie togliendo i diritti ai cittadini, dandoci in pasto all’antipolitica».

E qualora i vendoliani di Sel rientrassero in Parlamento, voi accettereste un finanziamento pubblico?

«Vogliamo abbonati e lettori: ci basiamo su quelli, anche perché tutti i giornali finanziati sono falliti. Bisogna aspettare due anni, è rischioso. Stiamo presentando il giornale ovunque: andiamo ai circoli Idv, passando per Fli e le feste del Pd. Su Lusi e Penati andremo giù col Napalm, perché siamo al di là del bene e del male, siamo nel campo della criminalità. Ma con grande rispetto per chi cucina i cappelletti o fa volontariato, come i militanti Pd di Bagnacavallo, con cui parlavo qualche sera fa. Una signora, ostetrica, mi ha chiesto: vorrete mica criticare Bersani? Certo che sì. Serve un Bersani meno bollito».

Per esempio un Nichi Vendola?

«Un giornale non fa politica: suggerisce alla politica un’agenda. La mia sarà una posizione molto laica, dato che non ho tentazioni. Conosco Vendola da anni, e sono libero di dire quando sbaglia e quando la fa giusta. Conosco bene Di Pietro: su personaggi come Scilipoti lo critichiamo, se propone un referendum utile, come quello coltro la riforma Fornero, lo sosteniamo. Ho conosciuto bene pregi e difetti dei politici, e non ho il complesso del vampiro. È Travaglio quello che considera la politica come una sorta di virus contaminante».

Nina Moric contro Marco Travaglio: "Prima manettaro, poi garantista e infine inquisitore", scrive il 5 Novembre 2016 Libero Quotidiano". Marco Travaglio riesce nella mirabile impresa di farsi umiliare da Nina Moric, che lo fa a fettine con una precisione che, onestamente, non era così semplice attendersi. Lo spunto arriva da "un tale Andrea Paolini", così lei scrive, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo tutto dedicato alle battute infelici della Moric. "Io rispetto il parere degli altri - scrive Nina -, ma un giornalista dovrebbe usare aggettivi soltanto quando questi siano oggettivi o altrimenti specificare che si tratta di opinioni personali di chi scrive". E così, dopo la premessa e qualche insulto gratuito, la Moric demolisce Marco Manetta, alias direttor Travaglio. Lo definisce "una persona confusa, è diventato celebre per le sue accuse a Berlusconi e il suo scarso garantismo riguardo tutti i processi di Silvio". Ma, nota la Moric, "ad un certo punto con un cambiamento di idee da far impallidire Paolo Brosio, è diventato un garantista, uno che diceva che il carcere fosse per i criminali veri". Si parla della campagna condotta anche da Travaglio per la grazie all'ex marito della Moric, Fabrizio Corona. "Lanciò una vera e propria campagna per la sua liberazione - ricorda la croata -, cosa che a me non è dispiaciuta, sia chiaro, salvo poi sul giornale da lui diretto, pubblicare delle vere e proprie inquisizioni su Fabrizio favorendone il ritorno in carcere".

Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co, scrive il 16 giugno 2018 "L'Inkiesta". Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà. Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”

Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo.

In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.

Travaglio punito dal giudice, scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.

Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016.  Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro. 

Lo Stato di diritto contro Travaglio, scrive il 24 ottobre 2018 Democratica. La campagna mediatica giustizialista di Marco Travaglio subisce una brusca battuta d’arresto. Il paradigma giornalistico del “diamogli addosso” di Marco Travaglio non ha passato l’esame del Tribunale di Firenze. L’esito finale della sentenza che condanna il Fatto Quotidiano a pagare 95000 euro al padre di Matteo Renzi, Tiziano, può essere considerato come l’albero sul quale si è schiantato a tutta velocità il giustizialismo usa e getta messo in campo nella campagna mediatica travagliesca contro Renzi. Sulla sentenza che condanna Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi c’è molto da dire. Innanzitutto bisognerebbe dire basta alle campagne di odio politico svincolato dai fatti. Chi tenta di collocare il baricentro del discorso pubblico partendo dal garantismo diviene egli stesso oggetto di attacco. Succede di frequente: si viene inseriti nella black list della Casta, si viene classificati come servi del potere, persino scribacchini mercenari. Intanto Travaglio ha preannunciato che ricorrerà in appello perché è sicuro del fatto che il suo giornale abbia scritto la verità, nonostante i giudici civili, almeno in parte, gli abbiano dato torto. Una mossa lecita se non fosse accompagna dalla reiterazione dell’attacco fine a se stesso: “Cercheremo di farci ridare i soldi. Se le balle, poi, fossero reato, Renzi sarebbe all’ergastolo, quindi starei tranquillo al posto suo. Noi le balle non le abbiamo mai raccontate”. Ora più che mai Marco Travaglio appare un apprendista stregone che oggi paradossalmente incappa in una sentenza di quella magistratura che egli ha eletto al vertice del sistema. L’utilizzo delle notizie maneggiate, quelle prese e ricostruite artificiosamente, l’uso di certe parole offensive, finanche la storpiatura dei nomi per canzonare l’avversario: il direttore del Fatto ripensi al suo modo di fare giornalismo. Ma l’informazione politica, anche quella schierata, non dovrebbe essere altro?

Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell'ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli - firmati con Gaia Scacciavillani - sono stati ritenuti perfettamente veri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 ottobre 2018. Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri. “In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta. Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi”. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”. Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.

Ha ragione (sic!) Travaglio, scrive Piero Sansonetti il 24 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Beh, stavolta mi tocca dar ragione a Marco Travaglio. Ieri ha scritto un articolo appassionato, sul Fatto, per difendere se stesso e il suo giornale da una sentenza di condanna inflittagli dal tribunale per via di una querela che si era beccato da Tiziano Renzi, il padre del leader del Pd. Nessuno può negare che il Fatto da qualche anno abbia scelto Matteo Renzi, i suoi genitori, Maria Elena Boschi e chiunque altro abbia frequentazioni con l’ex premier, come bersagli fissi delle sue polemiche. A volte sensate, spesso costruite su notizie (non sempre vere) fatte recapitare da alcune Procure ai suoi cronisti (penso alla campagna battente su Consip, fondata anche su alcune false informazioni e conclusasi solo quando la Procura di Roma ha bloccato i rubinetti della fuga illegale di notizie proveniente da Napoli). E nessuno può togliere al Fatto la colpa o il merito di avere in questo modo (anche con metodi giornalistici che io francamente non condivido e che considero la quintessenza del giustizialismo) contribuito largamente alla pesante sconfitta politica di Matteo Renzi, al dimezzamento elettorale del Pd, al trionfo delle forze penta- leghiste. Ma tutto questo può essere – e a mio giudizio deve essere – il terreno di una battaglia politica e di cultura. Le Procure non c’entrano niente. E’ vero che né la politica, né tantomeno il giornalismo, sono stati capaci di contrastare le campagne del Fatto, da posizioni garantiste e liberali. Anzi, spesso gli sono corsi appresso. Ma questa circostanza non è colpa del Fatto e comunque in nessun modo investe i compiti delle Procure. Sarebbe bene metterselo in testa una volta per tutte: le Procure non possono e non devono svolgere una funzione di “surroga” della politica. Se la politica è assente è assente: non può un altro potere costituzionale assumerne i compiti. Altrimenti si realizza un corto circuito e questo cortocircuito comporta un disastro, perché riduce le libertà di tutti. E innanzitutto riduce la libertà di stampa. Una cosa è una polemica, dove si può prevalere o soccombere o nessuna delle due cose. Una cosa è una sentenza che ti manda in prigione o riduce drasticamente le tue disponibilità economiche. Travaglio su questo ha del tutto ragione. E’ probabile che sul Fatto sia uscita qualche imprecisione sugli affari economici del papà di Renzi, ed è anche molto probabile che queste imprecisioni fossero funzionali a una polemica esagerata nei confronti dello stesso papà, in quanto papà, e cioè che mirassero a danneggiare il figlio. Ma se ogni imprecisione nelle polemiche, anziché combattuta con l’arma della smentita e della rivalsa polemica, finisce con una sentenza severissima del tribunale, succede esattamente quello che denuncia Travaglio: chi svolge questo mestiere, cioè il giornalista, se mai tra le sue intenzioni ci fosse quella di criticare il potere, si rassegnerà a lasciar perdere e a diventare quieto e mansueto. Il potere non perdona, sa come intimidire, e per farsi valere usa la magistratura. Talvolta, come in questo caso, sono i politici o i parenti dei politici a usare la magistratura. Talvolta – io almeno ho questa esperienza – sono direttamente i magistrati a praticare lo stesso metodo. E’ vero che i giornalisti che criticano i magistrati sono molto meno di quelli che criticano i politici, ma quei pochi sono a rischio altissimo, anche perché i politici spesso le cause le perdono, i magistrati assai raramente. Travaglio alla fine del suo articolo propone la riforma del sistema delle querele e delle cause per risarcimento. Credo che abbia ragione da vendere stavolta. Magari dovrebbe tenere conto, nei prossimi anni, del fatto che tutto questo succede anche per un eccesso di potere assunto dalla magistratura. E dovrebbe ragionare sulla possibilità che questo eccesso di potere sia nato anche in seguito al “fiancheggiamento” della stampa giustizialista. Però è probabile che questa mia speranza sia eccessiva.

Mi sono fatto un paio di domande sulla condanna di Travaglio. Nessuna soddisfazione nel ricorrere alla magistratura nei confronti di qualcuno che mi sta sullo stomaco, scrive Andrea Marcenaro il 24 Ottobre 2018 su Il Foglio. Se c’è una cosa che mi fa onore è non aver mai voluto perdere tempo a chiamare alcuno dei miei amici anziani, ma che furono feroci ai loro tempi, per organizzare l’avvelenamento, o l’omicidio semplice, o peggio ancora lo squartamento di Marco Travaglio. Mai, non mi è nemmeno mai venuto in mente. Così ieri, quando ho visto che Travaglio stesso era stato condannato da un tribunale a pagare 95 mila euri per aver sputtanato uno dei mille che ha sputtanato, posso dirvi in tutta sincerità di essermi domandato, primo, se, come persona che aborre l’intervento della magistratura come risolutrice di ogni questione, avrei fatto un’eccezione per qualcuno che mi stava sullo stomaco. Mi sono risposto che non dovevo. E che non l’avrei fatta. Secondo, se avrei provato comunque, al di là della ragione, una per quanto piccola soddisfazione nel profondo del cuore per quella condanna. No, mi sono risposto per la seconda volta, non provavo alcun compiacimento. Neppure un’ombra. E non ho nulla di cui vantarmi, intendiamoci bene, sono fatto così. Dio, però, quanto mi piace sparare cazzate come queste.

Marco Travaglio sbancato in tribunale da Tiziano Renzi: 95mila euro sono troppi, da rivedere la legge, scrive Renato Farina il 24 Ottobre 2018 su "Libero Quotidiano". A Berlusconi dev’essersi sollevato il morale, nonostante i guai tirolesi, per l’umile e insieme dignitosa domanda d’ingresso di Marco Travaglio nel club del quale il Cavaliere è da circa 25 anni presidente. Il circolo si chiama “A me mi hanno rovinato i giudici”. Leggendo l’editoriale di ieri del direttore sulla prima pagina del Fatto quotidiano siamo messi davanti a due avvenimenti antipatici e ad uno stato d’animo atto a suscitare nel lettore un moto di solidarietà. Cominciamo dai fatti. È capitato che il Tribunale di Genova, in sede civile, abbia condannato per diffamazione Travaglio e una sua cronista ad un risarcimento di 95mila euro a ristoro di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Questa sentenza - ci racconta il salassato con una prosa meno satirica del solito - viene dopo un’altra decisione tribunalizia, ancora più pesante: da rifondere con 150mila euro sono in questo caso i giudici di Palermo maltrattati dal Fatto per aver assolto il generale Mario Mori in uno dei tanti processi cui è stato sottoposto. In entrambi i casi siamo al primo grado di giudizio, e non è stata deliberata l’esecutività dell’esborso. Non entriamo nel merito delle sentenze. Travaglio si difende con cipiglio, e le giudica sbagliate fino allo scandalo. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo una stanza dei trofei delle assurdità. Ci è capitato di essere condannati per aver scritto che un brigatista rosso aveva partecipato a tre assassinii, mentre pare fossero solo due, e gli avremmo così rovinato la reputazione. In un’altra vicenda, un imam espulso dall’Italia e restituito al Marocco in quanto teorico del terrorismo, è stato gratificato su ordine del Tribunale di 100mila euro: glieli ha dovuti fornire Libero per non averlo trattato come un noto pacifista. La speranza è che se li sia bevuti o spesi a donne, ma temiamo siano stati impiegati per far danni.

UMORE AMARO. Travaglio dice che se va avanti cosi, tra Tribunali e avvocati, il Fatto rischia di chiudere. «Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze». Chiede soccorso ai lettori, a questo punto. Ci risparmia di associarsi alla lagna di quelli che chiedono aiuto al sindacato unico e all’Ordine dei gazzettieri, entrambi enti non solo inutili ma dannosi. E di questo Dio gliene renderà merito: guai a invocare l’aiuto di Belzebù. A nostra volta non gli faremo il torto di fingerci accorati per lui e il suo giro. Siamo stati costretti dalla nascita, 18 e rotti anni fa, a grattarci le rogne da soli, e se le sentenze dei Tribunali ci hanno spennato, a zittirci hanno provato con qualche successo i consigli disciplinari della sventurata categoria, senza trovare sostegno da chicchessia. Amen.

Dicevo dei sentimenti toccanti che traboccano dallo scritto di Travaglio e quasi annegano gli eventi. Si avverte nel giornalista torinese l’umore sconfortato e amaro del cornuto, cui tocca persino versare l’assegno alimentare alla magistratura così amata eppur fedifraga.

REATI DI OPINIONE. Nessuno può mettere in dubbio la nostra cordiale partecipazione al lutto, avendo Libero dedicato al tema di tradimenti e ripicche una fortunata serie, dove Feltri non ha lesinato spigliati consigli per tirare su il morale agli sventurati. Ma uno buono Travaglio lo dà da solo a se stesso, associandosi a una causa che vede il nostro quotidiano, e il direttore in particolare, ingaggiato dall’età di Gutenberg in una battaglia senza quartiere. Quella per dare una regolata seria alle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa. Logico che chi sbaglia deve pagare. Ogni categoria professionale, dal medico al meccanico al giornalista, è esposta alla possibilità di errori. Che debba risarcire i danneggiati è ovvio, anche se da questa ovvietà sono immuni i magistrati, nonostante un referendum che nessuno ha osato dal 1988 applicare davvero. Occorre però misura e buon senso. Nel caso delle pretese diffamazioni - oltre alla depenalizzazione - occorre predisporre un tariffario certo e non assassino della libertà di stampa nel definire l’entità del danno, oltre a prevedere forme diverse o sostitutive del ristoro in pecunia, che vadano dalla rettifica alle scuse pubbliche. Sarebbe davvero il caso che questo “governo del cambiamento” mutasse il codice sfoltendolo dai reati di opinione e vilipendio, e impedendo che si punisca una parola esagerata come un omicidio stradale. Renato Farina

Stangata su Travaglio: dovrà versare altri 50mila euro al padre di Renzi. A fine ottobre fu condannato a pagare 95mila euro per aver diffamato Tiziano Renzi. Oggi un'altra sentenza a sfavore: dovrà versargli altri 50mila euro, scrive Sergio Rame, Venerdì 16/11/2018, su "Il Giornale". "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo". Ad annunciarlo sul proprio profilo Facebook è stato Matteo Renzi. È la seconda condanna che il giornalista riceve nel giro di un mese. Adesso dovrà pagare altri 50mila euro. "Sono ovviamente contento per mio padre - ha commentato l'ex presidente del Consiglio - bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva". "Il tempo è galantuomo". A guardare il passato Renzi è dispiaciuto. Ma adesso che Travaglio è stato nuovamente condannato non nasconde la propria soddisfazione. "Ci sono dei giudici in Italia - è il commento affidato a Facebook - bisogna solo saper aspettare". E per la seconda volta che un giudice ha dato ragione al padre dell'ex premier piddì. La prima volta era successo il 22 ottobre quando Travaglio, una sua collega e la società del Fatto Quotidiano erano stati condannati a sborsare 95mila euro a Tiziano Renzi. In quell'occasione matteo aveva avvertito: "È solo l'inizio...". E così è stato. "Non si può diffamare una persona senza essere chiamati a risponderne - commentano ora dal quartier generale del Partito democratico - è una lezione che spero impari anche Marco Travaglio". Mentre Travaglio chiedeva aiuto ai propri lettori lamentando che il pagamento dei 95mila euro avrebbero mandato il giornale in rovina, i giudici hanno portato avanti nuove cause. E oggi è arrivata un'altra sentenza che obbliga il Fatto Quotidiano a pagare altri 50mila euro. "Verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda - ha scritto oggi matteo Renzi - hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne". Quindi la stoccata: "Adesso sono solo curioso di vedere come i Tg daranno la notizia". Al Nazareno sono in molti ad applaudire alla sentenza. E non manca chi si mette a bacchettare il direttore del Fatto Quotidiano. "Diffamare e raccontare fake news non è giornalismo, non è cronaca e quindi è giusto che abbia un prezzo da pagare - ha detto il senatore dem Dario Stefano - Travaglio inizi a fare economie per onorare la Giustizia".

Matteo Renzi, 16 novembre 2018: "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo. Travaglio condannato due volte nel giro di un mese, insomma: dovrà pagare altri 50.000€. Sono ovviamente contento per mio padre, ben difeso dall’avvocato Luca Mirco. Ma soprattutto vorrei condividere con voi un pensiero: bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva. Il tempo è galantuomo. Ci sono dei giudici in Italia, bisogna solo saper aspettare. E verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda. Ci hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne. Adesso sono solo curioso di vedere come i TG daranno la notizia. Buona giornata a tutti".

L'impunità (dei giudici) è l'origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti su Il Dubbio, il 9 luglio 2016. Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell'indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all'indipendenza che fonda quella autolimitazione dell'indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull'indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all'autonomia, e cioè all'indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all'ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l'hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l'Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell'aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l'accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c'è assoluzione. Per capirci, c'è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all'imputato di rinunciare alla prescrizione e così' si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c'era e dunque era doveroso svolgere l'inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell'indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell'obbligatorietà dell'azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent'anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l'unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all'anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall'Anm?

La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo, Domenica 18/08/2013, su "Il Giornale". Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.

Quando Oriana diceva: Impuniti e impunibili, sono i magistrati che oggi comandano, scrive il giornale il 15 settembre 2013. I magistrati che sappiamo. I sindacati che da sessant’anni sono un feudo personale di Karl Marx. I banchieri che in barba al Popolo custodiscono i miliardi dell’ex Pci. I giornali che sognano di vederlo penzolare a capo in giù da un gancio di piazzale Loreto. Le televisioni che egli possiede invano. (…) L’Olimpo Costituzionale che, non avendo con lui debiti di gratitudine, ha sempre fatto di tutto per dimostrare che non lo può soffrire. E la stessa Confindustria che al solito va dove la porta il vento dei suoi calcoli finanziari, sicché non meravigliarti se il suo presidente si presenta come un Agnelli alla festa che la Cgil ha organizzato a Serravalle Pistoiese e gli operai lo applaudono nel modo in cui applaudivano Togliatti o Berlinguer. Ferito, infine, dal fatto di non appartenere alla mafia politica e d’essere in quel senso un parvenu. I parvenus, cioè i new-comers, i self-made men, piacciono in America dove la moderna democrazia è stata inventata. Non in Europa dove neanche la Rivoluzione Francese servì a spengere l’asservimento psicologico al concetto di aristocrazia. D’accordo, la storia d’Europa è colma di parvenus e new-comers e self-made men giunti al potere. Ha ragione Bill Kristol quando sul suo Weekly Standard chiede al Congresso di condurre un serio dibattito per distinguere l’indipendenza dei giudici dall’arroganza del potere giudiziario. (…) Pensi all’Italia dove, come ha ben capito la sinistra che se ne serve senza pudore, lo strapotere dei magistrati ha raggiunto vette inaccettabili. Impuniti e impunibili, sono i magistrati che oggi comandano. Manipolando la legge con interpretazioni di parte cioè dettate dalla loro militanza politica e dalle loro antipatie personali, approfittandosi della loro immeritata autorità e quindi comportandosi da padroni come i Padreterni della Corte Suprema statunitense… Chi osa biasimare o censurare o denunciare un magistrato, in Italia? Chi osa dire che per diventar magistrato bisognerebbe essere un santo o almeno un campione di onestà e di intelligenza, non un uomo di parte e di conseguenza indegno d’indossare la toga? Nessuno. Hanno tutti paura di loro. Anche quando subiscono un torto palese, una carognata evidente, si profondono in inchini di deferenza reverenza ossequio. «Io-ho-fiducia-nella-Legge. Io-ho-fiducia-nella-Magistratura…».

L'autogiustizia dei giudici: chi sbaglia non paga mai. Nei procedimenti disciplinari al Csm le condanne sono irrilevanti. Così le toghe mantengono posto (e stipendio), scrive Lodovica Bulian, Venerdì 24/03/2017, su "Il Giornale". C'è chi si dimentica di liberare un imputato entro i termini previsti, come quel poveretto che è rimasto trentasette giorni in più dietro le sbarre perché il gip non si era premurato di ordinare la sua scarcerazione. C'è anche chi si è letteralmente inventato un provvedimento «non previsto dalle norme vigenti», con cui anziché sottoporre a interrogatorio una nigeriana accusata di riduzione in schiavitù e sfruttamento, l'ha liberata perché l'ordine di arresto era «in una lingua a lei non conosciuta». L'errore, definito dai giudici disciplinari «macroscopico», è solo un esempio delle storie che macchiano il buon nome delle toghe italiane. Che però, nella maggior parte dei casi, quando sbagliano se la cavano con qualche tirata d'orecchie, mentre il comune cittadino è costretto a misurare la propria vita con il caos calmo della giustizia. Colpevole o innocente, spesso vittima inconsapevole degli errori di chi lo giudica. Sviste, interferenze, ritardi, violazione degli obblighi di diligenza, inescusabili negligenze. L'altra faccia della magistratura si materializza ogni anno in 170-190 procedimenti all'esame nella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il regno dove giudici giudicano altri giudici. Dove si infliggono sanzioni ma molte più volte si assolvono i colleghi distratti sotto le formule di «irrilevanza del fatto», «insussistenza», «non luogo a procedere». Appena il 70% delle richieste finisce col rinvio a giudizio e poco meno del 50% dei processati subisce una condanna, secondo fonti del Csm. Per non parlare di certi comportamenti «riprovevoli» che sfuggono alle maglie che classificano gli illeciti disciplinari: condotte che germogliano nella zona grigia che esula dall'esercizio delle funzioni e pertanto non sanzionabili. Non per questo meno disonorevoli. Quando e se si arriva a condanna, fioccano ammonimenti, poco più che un invito a fare più attenzione, censure, un semplice biasimo formale, molto più raramente si registrano sospensioni dall'incarico. Poco male, visto che i magistrati che vi incorrono incassano comunque i due terzi del loro stipendio. Quasi mai si arriva alla rimozione, la sanzione più pesante prevista dall'ordinamento: «Io in questi anni non ne ho viste» dice Pierantonio Zanettin, membro laico del Csm. Così, se il sistema disciplinare viene sventolato a garanzia dell'autonomia della magistratura, la credibilità dell'autocritica della categoria rischia di sgonfiarsi in un «sistema inefficace - aggiunge Zanettin - in cui troppe volte certe opacità sono rimaste tali». I numeri snocciolati in un convegno di Magistratura indipendente a Torino dal già vicepresidente del Csm Michele Vietti rivelano che dai procedimenti svolti dalla sezione disciplinare tra settembre 2014 e gennaio 2017, sono uscite 122 condanne, 118 assoluzioni, 124 ordinanze di «non luogo a procedere» e 17 sentenze di «non doversi procedere». Al primo posto nella classifica delle lacune dei magistrati, oltre alle violazioni delle libertà personali e delle garanzie dell'indagato, come le tardive scarcerazioni per negligenza, ci sono «incoerenza e mancanza» delle motivazioni e clamorosi ritardi nelle sentenze. Un giudice invece ha pensato di sbrigarsela con un verdetto di assoluzione facendo copia e incolla dell'arringa difensiva dell'avvocato. Un suo collega ha collezionato ritardi, superiori a un anno, nel deposito di 164 sentenze. Errori «formali» che diventano «sostanza» micidiale quando la giustizia intercetta vite, storie, persone. Se i procedimenti svolti dal Csm confermano la «serietà» e il rigore nell'autogiudizio, secondo Vietti però «non tutto funziona». La «tipizzazione degli illeciti lascia non poche smagliature», apre varchi di impunità che non permettono «di intercettare condotte riprovevoli» perché non classificate dalle norme. Così comportamenti «irrispettosi» scivolano nell'oblio grazie a «formule tortuose». Un magistrato per un anno ha fatto campagna elettorale per diventare vicesindaco della propria città con una lista collegata a un partito. È stato assolto perché la partecipazione alla vita politica «non si è configurata come continuativa» e passibile di sanzione. Contraddizioni. Paradossi. E l'ammonimento: «La materia disciplinare - avverte - non diventi una trincea in cui l'ordinamento si chiude a difesa di se stesso e delle sue prerogative».

Come nasce l’impunità dei magistrati. Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Parla Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. C’entra anche la possibilità di influenzare la politica, scrive di Maurizio Crippa il 20 Maggio 2015 su "Il Foglio". Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, dalle pensioni ai ricorsi sugli Autovelox, il paese di decenni consumati nella guerra senza vincitori tra magistratura e politica, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia, sul petto le medaglie di inchieste importanti condotte rifuggendo i clamori mediatici, ha preso spunto sul Messaggero di lunedì dal ricorso alla Corte costituzionale da parte di un giudice civile di Verona contro la legge sulla responsabilità civile per dire cose importanti: non solo sulla magistratura, ma sui guasti illiberali che da tempo minano la convivenza civile. Argomenta, Nordio, che al primo ricorso altri seguiranno, e verosimilmente saranno accolti perché non esiste una “manifesta infondatezza” tecnica. Anche il principio del “chi sbaglia paga” sventolato spesso dalla politica, è mal posto: “In tutto il mondo ci sono due o tre gradi di giudizio, proprio per il principio di poter rimediare a errori; ma non esistono sale operatorie di primo, secondo, o terzo grado. La giustizia prevede di poter sbagliare. Per questo la legge parla di errore in quanto "travisamento del fatto", non di errori di merito o di interpretazione”. Ma tutto questo non fa dire a Nordio, come magari a qualche suo collega, che debba esistere una sostanziale impunità. E non toglie che ci siano “errori non scusabili. Primo: il magistrato che non conosce la legge. Secondo: il magistrato che non legge le carte. Ma io dico che porre un risarcimento pecuniario in questi casi non serve, tanto siamo già tutti assicurati. No, ci vuole una sanzione sulla carriera, a seconda della gravità. Se un magistrato non sa fare il suo dovere, deve essere giudicato e sanzionato”. Questo sul merito di una legge che è stata vissuta da una parte della magistratura come un assalto. Ma la cosa più interessante, per Nordio, è spiegare perché le cose vadano così. Perché non solo sia difficile risarcire gli errori giudiziari e sanzionare i colpevoli, ma anche valutare le carriere. In una visione liberale e di sostanza come la sua, il guasto sta nel manico. Andiamo per ordine. “Siamo l’unico paese al mondo con un processo accusatorio e con azione penale obbligatoria. Per cui abbiamo creato l’informazione di garanzia da inviare quando si apre un fascicolo, “obbligatoriamente”. Ma siccome siamo un paese, diciamo così, imperfetto, l’informazione di garanzia è diventata una condanna preventiva in base alla quale un politico può essere costretto a dimettersi. Fate due più due: obbligatorietà dell’azione penale più obbligatorietà dell’informazione di garanzia uguale estromissione dalla politica. Ovvero, i pm condizionano la politica. Qui nasce lo strapotere. Oltre al fatto che è lo stesso pm che comanda la polizia giudiziaria e sostiene l’accusa. E al fatto che detiene il potere di estrapolare dall’indagine un’ipotesi di reato anche diversa, e di estendere le indagini ad altri reati e altre persone”. Così parte un altro avviso di garanzia, e si ricomincia: la possibilità di influenzare la politica è davvero enorme. “Ma è colpa di un sistema che lo permette, questo strapotere. Da qui nasce la commistione perversa tra giustizia e politica”. Da un lato la magistratura condiziona la politica, dall’altro c’è la sua non giudicabilità. Nordio preferisce muoversi nei territori di una visione liberale e non delle polemiche. “Nel 1989 abbiamo adottato il nuovo Codice di procedura penale, ma abbiamo lasciato le basi del sistema come erano prima. Prendiamo gli Stati Uniti: lì l’Attorney ha molto potere e c’è la discrezionalità dell’azione penale. Però le carriere sono separate e inoltre il giudice – la sua controparte – non decide del fatto, di quello decide la giuria. Ha presente i telefilm? “Obiezione accolta… la giuria non ne tenga conto”. Per questo alla fine l’Attorney è giudicato secondo i suoi risultati. E allo stesso tempo nessuno ha il problema di fare causa al giudice, dovrebbe al massimo farla ai giurati. Ma questo nel nostro ordinamento non c’è, noi abbiamo inserito la riforma su un impianto costituzionale basato sul codice Rocco. Senza separazione delle carriere, senza meccanismo di valutazione esterna dei magistrati. E’ come prendere una Ferrari e metterci il motore della 500”. Di Nordio è nota la posizione sulle intercettazioni. “Sono un male necessario, come le confidenze alla polizia. Detto questo, la soluzione c’è senza imbavagliare la stampa. Il problema che da elemento di ricerca di una prova (e che quindi dovrebbero rimanere fuori dai fascicoli processuali) sono diventati elemento di prova e come tali vengono trascritte. E una volta che i fascicoli sono depositati è difficile dire a un giornalista di non pubblicarle. Ma c’è di più: poiché diventano prove, allora è giusto siano inserite tutte, anche quelle irrilevanti. Basterebbe non abusarne, ma ne abusiamo”. Così la libertà di stampa ridotta a circo mediatico-giudiziario: “La cosa grave è che alla fine della catena spesso al giornalista non arriva il nome che gli interessa, ma quello che i pm hanno messo nel fascicolo”. Bisogna portare Nordio un po’ fuori dal suo terreno d’elezione per sentirgli esprimere giudizi ponderati sul paese del “nessuno mi può giudicare”. Individua il retaggio profondo, atavico, “nel paese di cultura cattolica, dove alla fine tutto è perdonato”. Con buona pace di Bergoglio, è “la riserva mentale di un gesuitismo profondo. A differenza di paesi protestanti che hanno introiettato la responsabilità personale. E’ l’angoscia dei giansenisti, dei calvinisti, per il rimorso. In Italia continuiamo a parlare di etica della responsabilità, ma è sempre la responsabilità degli altri”. A questo si somma un’altra pecca, la vocazione a supplire con le leggi alla mancanza di regole condivise, per cui “abbiamo dieci volte le leggi della Gran Bretagna e continuiamo a metterne, o ad alzare i massimali di pena, senza che ciò abbia conseguenze pratiche, anzi”. E’ un po’ il caso delle nuove leggi sull’anticorruzione? “E’ un buon esempio. Invece servono poche leggi, chiare, rispettate”. E’ anche per questo che assistiamo al debordare del potere giudiziario, quello che gli anglosassoni chiamano “giuridicizzazione”, in cui ogni decisione diventa questione di magistrati, non di scelta politica? “E’ un altro problema culturale. Ma tanto più è debole la politica, tanto più lo spazio viene occupato dalla magistratura. E a molti livelli sul diritto per come è scritto prevale quello che viene chiamato con uno slogan ‘il diritto vivente’. Ad esempio è quello che ha fatto la Consulta sulle pensioni ritenendo, credo, di dover dire qualcosa sui livelli di salvaguardia dei redditi, cosa che dovrebbe decidere invece il Parlamento”. Hanno notato in molti: la Consulta forza la mano alla politica. “Un aspetto mi inquieta. La sua sentenza aggrava i conti pubblici, impone al governo di operare senza la necessaria copertura, cosa che invece la Costituzione prevede. Siamo a un caso in cui la Corte costituzionale, per assurdo, forza l’esecutivo ad agire al di fuori della Costituzione”.

G COME MAFIA DELLA GIUSTIZIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “IMPUNITOPOLI” E “GIUSTIZIOPOLI” E “MALAGIUSTIZIOPOLI” E “MANETTOPOLI” E “IL DELITTO DI PERUGIA” E “SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA” E “STEFANO CUCCHI & COMPANY” E “YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Il libro mastro delle sentenze truccate: sotto inchiesta venti magistrati, scrive l'11 giugno 2018 Alessandra Ziniti su "La Repubblica". Di che cosa stiamo parlando. Sentenze amministrative comprate e un’azione di dossieraggio per inquinare e depistare importanti inchieste penali. A febbraio una grossa indagine delle procure di Roma e Messina ha portato all’arresto di 15 persone per corruzione in atti giudiziari. In manette anche un pm della procura di Siracusa e il regista di questo giro di mazzette, l’avvocato siciliano Piero Amara con una grossa clientela internazionale. Tra gli indagati anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato Virgilio. Sono partiti da un elenco di 35 sentenze trovato a casa di uno dei faccendieri e sono arrivati lì dove non avrebbero mai voluto arrivare, per di più consapevoli di essere solo sull'uscio di una porta che spalanca la strada a quella che potrebbe essere una delle più esplosive inchieste italiane sulla corruzione degli ultimi anni. Ci sono più di venti magistrati iscritti per corruzione in atti giudiziari nel registro degli indagati delle procure di Roma e di Messina per un giro enorme di processi aggiustati nell'ambito della giustizia amministrativa. Lo scenario che si apre, gravissimo e desolante al tempo stesso, è quello di un Consiglio di Stato e di un Consiglio di giustizia amministrativa fortemente condizionati dall'attivismo di un numero molto consistente di giudici a libro paga che avrebbero preso mazzette per favorire i clienti più importanti rappresentati dallo studio legale Amara-Calafiore, i due avvocati siciliani arrestati tre mesi fa e che da alcune settimane stanno facendo importantissime ammissioni riempiendo decine di pagine di verbali davanti ai pm romani coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e messinesi diretti dal procuratore Maurizio de Lucia. Alcuni atti, che coinvolgono seppure in maniera marginale un magistrato del penale di Roma il cui nome emerge dagli atti per alcune cointeressenze in società, sono stati mandati per competenza alla procura di Perugia ma l'indagine promette di allargarsi e interessare altri uffici giudiziari italiani. L'inchiesta è quella che, a febbraio, ha visto finire agli arresti quindici persone (e tra questi anche l'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo) per un giro di corruzione allora valutato in 400 milioni di euro. Bazzecole rispetto al vorticoso passaggio di mazzette, molte delle quali estero su estero, che gli investigatori della Guardia di finanza stanno faticosamente ricostruendo in questi mesi. Partendo da questa sorta di libro mastro delle sentenze aggiustate, ma grazie anche alle dichiarazioni fatte dai due avvocati accusati di aver costruito questo fittissimo reticolo di relazioni capace di condizionare le sentenze della giustizia amministrativa in favore dei loro facoltosi clienti, tutti interessati ad appalti milionari, molti dei quali affidati dalla Consip. L'altra ma non meno importante faccia della medaglia era l'ingegnoso metodo, quello dei procedimenti cosiddetti "a specchio", che il pm amico di Amara, Giancarlo Longo, apriva a Siracusa con l'obiettivo o di entrare a conoscenza di elementi riservati di inchieste delicatissime (come quella milanese sulle tangenti Eni in Niger) condotte da altre procure o addirittura di inquinarle o rallentarli con atti appositamente compiuti. Un'attività di depistaggio e dossieraggio che viaggiava tra Roma, Milano, Siracusa e Trani e che resta al centro di un capitolo tra i più delicati dell'inchiesta. Il primo a parlare, dopo tre mesi in carcere, è stato il rampantissimo Piero Amara, 48enne avvocato originario di Augusta ma con una importante clientela internazionale e amicizie nelle stanze dei bottoni. Messa da parte la linea di difesa iniziale, quando aveva negato di aver pagato magistrati per indirizzare le sentenze, ha finito con spiegare, almeno in parte, qual era il meccanismo messo in piedi per facilitare i suoi clienti: ricorso al Tar se la gara andava male e da lì verdetto sicuro o in primo o in secondo grado. Di cose interessanti ne ha raccontate diverse ma avrebbe in parte cercato di spostare le responsabilità sul collega di studio Calafiore. Il quale non l'avrebbe presa benissimo. E così, quando i pm gli hanno contestato le dichiarazioni di Amara, anche Calafiore ha deciso di rompere il silenzio contribuendo a sua volta a mettere tanta carne al fuoco delle due procure. E alla fine, due settimane fa, anche lui si è "guadagnato" i domiciliari. Nomi su nomi di magistrati amministrativi "avvicinati" e una lettura, adesso ovviamente al vaglio degli inquirenti, dell'elenco delle sentenze aggiustate (qualcuna con relativa cifra accanto) custodito da uno dei faccendieri che lo studio legale Amara-Calafiore utilizzava per sbrigare i suoi affari. Almeno quindici i nomi dei componenti del Consiglio di Stato finiti sotto indagine a cui si aggiungono quelli iscritti a Messina tra giudici del Consiglio di giustizia amministrativa e dei Tar di Palermo e Catania. Un "cerchio magico", quello messo su negli ultimi anni da Amara e Calafiore, del quale facevano parte anche diversi avvocati (anche qui molti nuovi indagati) rappresentanti delle imprese favorite nei contenziosi amministrativi: tra i più importanti il contenzioso Ciclat e quello della Exitone. Anche Fabrizio Centofanti, imprenditore anello di questa catena, haottenuto i domiciliari. Ma lui continua a tacere.

Dossier e depistaggi per condizionare i processi, spiata anche l'inchiesta sulle tangenti Eni. Quindici arrestati tra Roma e Messina, tra cui l'avvocato Piero Amara e il magistrato Giancarlo Longo. Avevano messo in piedi una finta indagine per inquinare quella della procura di Milano su Descalzi e le mazzette per il petrolio in Nigeria. In manette anche Enzo Bigotti, già coinvolto nel caso Consip. Ed è indagato Riccardo Virgilio, ex presidente del Consiglio di Stato, scrive Alessandro Ziniti il 6 febbraio 2018 su "La Repubblica". Alla fine l'avvocato più rampante d'Italia è finito agli arresti, insieme ai componenti di quel cerchio magico, magistrati, avvocati, professionisti, consulenti, docenti universitari, con i quali - grazie ad una sapiente quanto spregiudicata opera di dossieraggio e depistaggi - sarebbe riuscito negli ultimi anni a condizionare l'esito di procedimenti amministrativi per un valore di svariate centinaia di milioni di euro, a vantaggio dei propri clienti a anche delle aziende in cui aveva interessi personali, e a frenare o intorbidare procedimenti penali in procure di mezza Italia, da Siracusa a Roma a Milano.

L'avvocato rampante. Piero Amara, 48enne avvocato di Augusta, una clientela internazionale di primissimo piano tra le aziende ma anche consigliere per gli investimenti di molti magistrati della giustizia amministrativa, tra il Consiglio di Stato, il Consiglio di giustizia amministrativa e il Tar Sicilia, è il protagonista principale dell'operazione della Guardia di finanza che questa mattina, in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare firmate dai gip di Roma e Messina, ha eseguito i provvedimenti restrittivi.

Nella rete giornalisti, magistrati e professori. Quindici quelli in Sicilia chiesti ed ottenuti dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Maurizio de Lucia. Oltre ad Amara, è finito agli arresti il magistrato Giancarlo Longo, fino a qualche mese fa pm alla Procura di Siracusa e poi trasferito per motivi disciplinari dal Csm al tribunale civile di Napoli, dove sono in corso perquisizioni. Tra gli arrestati figurano anche Enzo Bigotti, imprenditore già indagato per il caso Consip, l'avvocato Giuseppe Calafiore, socio e collega di Amara, il professore universitario della Sapienza di Roma Vincenzo Naso. Provvedimenti restrittivi, tra gli altri, anche per il dirigente regionale Mauro Verace e per il giornalista siracusano Giuseppe Guastella. Indagato per concorso in corruzione l'ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio: la richiesta di arresto è stata respinta perché non ci sono esigenze cautelari.

Inchieste specchio per spiare i processi. Associazione per delinquere, corruzione, falso, intralcio alla giustizia la sfilza di reati a vario titolo contestato agli indagati che, negli ultimi cinque anni, avrebbero pesantemente condizionato l'azione della giustizia sia in sede civile che penale. Di particolare gravità la posizione del giudice Longo, secondo le indagini a libro paga di Amara e del suo socio Calafiore. Ottantottomila euro in contanti più il prezzo di vacanze offerte a lui e a tutta la sua famiglia a Dubai e un capodanno a Caserta, il prezzo della corruzione del magistrato che, nella sua veste di pm a Siracusa, avrebbe servito gli interessi di Amara mettendo su un sofisticato meccanismo di procedimenti giudiziari "specchio" che, pur senza averne alcun titolo, gli avrebbe consentito di venire a conoscenza di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. A cominciare da quella, aperta presso la Procura di Milano, che vedeva indagato l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, proprio un mese fa rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria.

Il caso Eni e il finto rapimento. Proprio nel tentativo di inquinare l'indagine milanese, Amara ( difensore di Eni) avrebbe messo su un tentativo di depistaggio facendo presentare alla Procura di Siracusa il suo amico Alessandro Ferrara che, nell'estate 2016, denunciò di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano interessati a sapere da lui notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi ordito dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Ad aprire il fascicolo, che gli diede la possibilità per mesi di scambiare informazioni con il collega di Milano Fabio De Pasquale (che non cadde nel tentativo di depistaggio) fu proprio il pm Giancarlo Longo.

Le sentenze pilotate. L'attività inquinante del magistrato sarebbe invece stata decisiva nel consentire ai clienti o alle imprese vicine ad Amara  (a cominciare dal noto gruppo imprenditoriale Frontino di Siracusa) di aggiudicarsi importantissimi contenziosi amministrativi davanti al Tar Sicilia o al Cga, come quelli sul centro commerciale Open Land di Siracusa, per il quale il Comune fu condannato a pagare un risarcimento da 24 milioni di euro, o come quello sulla discarica Cisma a Melilli, o ancora quello sulla costruzione di un complesso edilizio a Siracusa che valse all'Am group un risarcimento da 240 milioni di euro.

L'esposto dei colleghi e le telecamere. A dare nuovo impulso alle indagini sul comitato d'affari diretto da Amara è stato un esposto firmato da 8 degli 11 sostituti della Procura di Siracusa nei confronti del collega Longo, ripreso poi dalle telecamere piazzate nella sua stanza dalla Guardia di finanza mentre, ricevuta notizia di microspie nel suo ufficio, cerca di rinvenirle per neutralizzare le indagini a suo carico. 

La rete delle toghe a libro paga: «Così i processi si aggiustavano». L’avvocato Piero Amara e l’imprenditore Fabrizio Centofanti gestivano il sistema, scrive Fiorenza Sarzanini il 6 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Un giudice del Consiglio di Stato, un magistrato della Corte dei Conti, un pubblico ministero di Siracusa, un ufficiale della Finanza, un alto funzionario del ministero dell’Economia: nella “rete” tessuta dall’avvocato Piero Amara e dall’imprenditore Fabrizio Centofanti c’erano le giuste pedine per avere informazioni riservate sulle indagini in corso e soprattutto per “aggiustare” i processi. Personaggi di alto livello che sarebbero stati messi a “libro paga” per garantirsi decisioni favorevoli nel settore amministrativo e così avere la certezza di aggiudicarsi gli appalti pubblici, primi fra tutti quelli di Consip. Ma anche per “spiare” le inchieste, in particolare quella sulle tangenti dell’Eni avviata a Milano. Amara e Centofanti sono stati arrestati su richiesta delle procure di Roma e Messina. Ai domiciliari ci sono altre 13 persone, compreso Enzo Bigotti, l’imprenditore amico di Denis Verdini e già finito nel fascicolo Consip proprio per aver ottenuto commesse milionarie.

Soldi a Malta. Per Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato, i magistrati coordinati dall’aggiunto Paolo Ielo avevano chiesto l’arresto. Nell’ordinanza si spiega che «la misura non è necessaria perché è ormai in pensione», ma nei suoi confronti rimane l’accusa gravissima di aver “pilotato” ben 18 tra sentenze, ordinanze e decreti in modo da favorire le società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore (sfuggito alla cattura visto che due giorni fa è partito per Dubai). Virgilio avrebbe anche annullato una decisione del Tar che escludeva un’azienda di Bigotti dalla gara per le “Buone scuole”. L’appalto rientrava, secondo l’accusa, nella spartizione dei lavori assegnati da Consip decisa a tavolino tra le imprese partecipanti. In cambio il giudice avrebbe ottenuto il trasferimento di 750 mila euro che aveva depositato su un conto svizzero «in un veicolo societario maltese, la Investment Eleven limited messa a disposizione da Amara». E secondo il gip «l’operazione ha rappresentato un’utilità concreta per Virgilio assicurandogli, da un lato, di non dover dichiarare al fisco italiano la somma di denaro detenuta in Svizzera e, dall’altro, di essere garantito nell’investimento effettuato».

La “soffiata”. Tra le persone perquisite ieri c’è Emanuele Barone Ricciardelli, funzionario del ministero dell’Economia. In una intercettazione del 3 agosto scorso parla con Bigotti e lo avvisa «di segnalazioni della Guardia di Finanza per turbativa d’asta nella gara Consip», e soprattutto «di accertamenti con le Procure». Le indagini del Nucleo Tributario di Roma sono effettivamente in pieno svolgimento e il dirigente promette di attivarsi. Scrive il giudice: «Nella stessa giornata Barone Ricciardelli inoltrava alla procura di Roma, tramite mail certificata, una richiesta formale per conoscere l’esistenza di iscrizioni a carico di Bigotti nel registro degli indagati».

Accertamenti sono in corso anche sulla ristrutturazione di una casa che Luigi Della Volpe ha affittato a partire dal 2014 ad una società di Centofanti che a sua volta lo ha subaffittato ad Amara. Della Volpe potrebbe infatti essere un ufficiale della Guardia di Finanza ora ai servizi segreti, e il sospetto degli inquirenti è che quel contratto sia in realtà fittizio e utilizzato semplicemente per l’emissione di false fatture.

L’ex assessore. È lungo l’elenco degli indagati e comprende altri giudici che si sarebbero messi a disposizione. Uno è Nicola Russo, che faceva parte dello stesso collegio di Virgilio e con Centofanti è legato da antica amicizia. Nel 2016 il giudice, nel ruolo di componente della Commissione tributaria di Roma, è stato accusato di aver favorito l’imprenditore Stefano Ricucci. E di essere stato ricompensato con pranzi, viaggi e i favori di alcune ragazze. Cinque anni fa fu invece accusato di sfruttamento della prostituzione minorile e a difenderlo c’era sempre l’avvocato Amara. Verifiche sono state disposte pure sul consigliere Raffaele De Lipsis e sul giudice contabile Luigi Caruso, entrambi avvisati da Amara di essere sotto intercettazione. Violazioni fiscali sono state invece contestate a Umberto Croppi, assessore alla Cultura quando sindaco di Roma era Gianni Alemanno. Croppi è presidente del Cda di Cosmec, azienda che fa capo a Centofanti. Secondo l’accusa avrebbe «evaso le imposte sui redditi e l’Iva per un totale di quasi 43mila euro grazie ad una serie di fatture relative ad operazioni inesistenti inserite nella contabilità societaria».

Siracusa, magistrati contro un pm. Ecco chi ha fatto saltare il banco, scrive Riccardo Lo Verso Martedì 6 Febbraio 2018 su Live Sicilia.  Il retroscena: otto magistrati denunciarono Giancarlo Longo. L'inchiesta. “È con profondo imbarazzo...”, inizia così l'esposto che ha dato vita all'inchiesta delle Procura di Roma e Messina. Sono guidate da Giuseppe Pignatone e Maurizio De Lucia che ai tempi in cui entrambi lavoravano a Palermo erano maestro e allievo. Stamani sono stati arrestati magistrati, avvocati, professioni e giornalisti. Si sarebbero messi d'accordo per inventare complotti come quello che scuote l'Eni, aprire fascicoli fantasma, acquisire le carte di altre indagini, minacciare e spiare colleghi. Sono stati proprio otto magistrati siracusani, il 23 settembre 2016, a firmare l'esposto per denunciare i rapporti fra un collega, Gianluca Longo, e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, tutti e tre raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare richiesta dalla Procura di Messina. Anticipavano tutto ciò che sarebbe emerso nel corso delle indagini. “Nell'ambito della gestione di diversi procedimenti penali - si leggeva nell'esposto – si sono palesati elementi che inducono a temere che parte dell'azione della Procura della Repubblica possa essere oggetto di inquinamento, funzionale alla tutela di interessi estranei alla corretta e indipendente amministrazione della giustizia”. In calce i nomi dei magistrati Margherita Brianese, Salvatore Grillo, Magda Guarnaccia, Davide Lucignani, Antonio Nicastro, Vincenzo Nitti, Tommaso Pagano e Andrea Palmieri. L'esposto partiva dalla vicenda Open Land, società della famiglia di imprenditori Frontino, che ha costruito il centro commerciale “Fiera del Sud” in viale Epipoli, a Siracusa. Si è aperto un braccio di ferro tra l’amministrazione comunale ed il gruppo imprenditoriale che ha chiesto un risarcimento di oltre 20 milioni di euro al Comune per un ritardo nella concessione edilizia. È stata una sentenza del Cga, allora presieduto da Raffaele De Lipsis, a stabilire che Open Land, assistita dagli avvocati Amara e Calafiore, doveva essere risarcita. Per quantificare il danno fu scelto un commercialista di Pachino, Salvatore Maria Pace. Pure quest'ultimo è finito nei guai giudiziari e si trova agli arresti domiciliari. Solo che lo scorso giugno il Consiglio di giustizia amministrativa, con una nuova composizione, ha revocato la sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento. Bisogna rifare la perizia e valutare di nuovo il danno. Nel frattempo il Comune di Siracusa è stato costretto a pagare 2 milioni e 800 mila euro.

Quei veleni tra pm che hanno portato all’arresto di Longo, scrive Errico Novi l'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’indagine di Messina è partita da un esposto di 8 sostituiti della procura di Siracusa, contro il collega che maneggiava fascicoli relativi agli appalti del Comune. Che a Siracusa ci fosse un verminaio il Csm lo aveva accertato poco meno di un anno fa. La lista dei protagonisti, nel vortice dei veleni in Procura, includeva già Giampaolo Longo, l’ex pm dell’ufficio inquirente siciliano (da luglio trasferito a Napoli come giudice nella sezione distaccata di Ischia) arrestato martedì scorso con accuse di corruzione e falso, in un quadro da associazione a delinquere. Secondo il gip di Messina Maria Vermiglio, il collega sarebbe il perno della presunta cricca che vedrebbe coinvolti imprenditori, avvocati e appunto magistrati, e che avrebbe depistato indagini per favorire, in particolare, i clienti del legale di Eni Piero Amara. Non c’era solo Longo, nell’elenco dei cattivi finito già a maggio scorso nel mirino di Palazzo dei Marescialli, in parallelo con i primi passi dell’inchiesta di Messina: con lui anche il capo della Procu- ra siracusana, Francesco Paolo Giordano, e un altro sostituto, Maurizio Musco, protagonista a sua volta di un primo “ciclo” di intricatissime vicende relative allo stesso ufficio inquirente e già condannato in via definitiva per il reato di abuso. È fissato per oggi alle 13.30, nel carcere di Poggioreale a Napoli, l’interrogatorio di garanzia per Longo. Dovrà rispondere alle contestazioni mossegli nell’ordinanza del gip di Messina: sarebbe stato al soldo degli interessi di Amara, con una «mercificazione» della propria attività di pm. Avrebbe acquisito informazioni utili ai suoi sodali attraverso l’apertura di fascicoli sui reati attribuiti agli imprenditori clienti dell’avvocato presunto correo. Ma la ricostruzione dei fatti non si annuncia semplice. Perché appunto molte delle attività illecite con cui l’ex sostituto di Siracusa avrebbe approfittato della propria funzione riguardano proprio le vicende attorno alle quali si è scatenata la guerra tra toghe monitorata l’anno scorso dal Csm, in seguito alla quale Longo ha chiesto e ottenuto il trasferimento d’ufficio. Il difensore del magistrato, Bonny Candido, contesta intanto «la sproporzione della misura cautelare», la custodia in carcere, «anche tenuto conto del fatto che il mio assistito da diversi mesi non svolge più funzioni inquirenti». Secondo l’avvocato Candido dunque, «l’ordinanza non può non essere carente dei requisiti di attualità e pericolo di reiterazione di reati». Ma la difesa segnalerà nel corso dell’interrogatorio anche un altro aspetto: «Pochi giorni fa Longo ha presentato alla Procura di Messina due corpose e circostanziate denunzie sui fatti oggetto del procedimento in questione che avrebbero dovuto essere approfondite prima di chiedere e disporre la misura», dice il difensore del magistrato. Si tratta delle ricostruzioni fatte dall’ex pm di Siracusa sui conflitti insorti nell’ufficio in cui ha lavorato fino a meno di un anno fa. Una tensione in cui non si sono risparmiati colpi, e che ha spinto altri otto magistrati a presentare l’esposto al Csm e alla Procura di Messina (competente per i reati commessi dai colleghi di Siracusa), da cui si è sviluppata l’inchiesta sui presunti depistaggi. Al centro dei veleni c’era anche il fascicolo aperto da Longo per indagare sul presunto complotto ai danni dell’ad dell’Eni Claudio Descalzi, ma non solo. Si trattava anche di affari che vedevano coinvolta l’amministrazione cittadina di Siracusa. Non a caso il sindaco Gancarlo Garozzo ieri ha ricordato con perfidia «l’impegno» di Longo nei confronti della sua giunta. Dal porto di Augusta agli appalti comunali, dai servizi di gestione delle risorse idriche ai rifiuti, i fascicoli maneggiati dall’ex pm toccavano non solo gli interessi dell’Eni, ma anche quelli della politica locale. Ed è questa l’altra faccia dell’intreccio che oggi Longo proporrà al giudice nell’interrogatorio.

Peculato e pe(R)culati, scrive Giampaolo Rossi il 25 marzo 2018 su "Il Giornale".

IL SENATORE E IL MAGISTRATO. Che differenza c’è tra un senatore e un magistrato di fronte ad un’accusa di peculato provata? La differenza è che il primo viene condannato (da un magistrato e dalla stampa); il secondo viene perdonato (da un magistrato e dalla stampa). Il senatore in questione è Paolo Romani forzista della prima ora, ex ministro di Berlusconi e uomo di punta del centrodestra. Il magistrato in questione è Nicolò Zanon, togato illustre della Corte Costituzionale scelto direttamente nel 2014 dall’allora Presidente Napolitano. Il primo finisce nei guai per un telefonino. Il secondo per un auto blu.

IL CASO ROMANI. Romani, nell’Ottobre del 2017, è stato condannato in via definitiva per peculato; l’inchiesta, scaturita da uno scoop giornalistico del 2011, rivelò che il senatore, allora Ministro del Governo Berlusconi ma anche assessore all’Expo di Monza, aveva fatto utilizzare il telefonino di servizio del Comune alla figlia quindicenne. Romani si è sempre difeso affermando che non era a conoscenza dell’uso di quella Sim da parte della ragazza avendo lui un’altra utenza di servizio (quella del Ministero); e quando ha preso coscienza del guaio l’ex Ministro si è recato immediatamente in Comune a risarcire di tasca propria l’intero ammontare delle utenze telefoniche (circa 12 mila euro) tanto che l’amministrazione di centrosinistra di Monza non si è costituita neppure parte civile. Per il giudice invece Romani era a conoscenza dell’utilizzo che ne fece la figlia e anzi ne diede “pieno consenso” e per questo è stato condannato. In questi giorni il caso è tornato alla ribalta essendo stata questa condanna alla base della decisione del M5S di non appoggiare la candidatura di Romani alla Presidenza del Senato.

IL CASO ZANON. Il Giudice Zanon nei giorni scorsi è stato invece costretto ad auto-sospendersi poiché è emersa una vicenda più imbarazzante: dalle risultanze del suo autista di servizio si è scoperto che il magistrato ha fatto utilizzare una delle due auto blu di cui sono dotati i giudici della Consulta, ai suoi parenti per scopi del tutto privati. La storia è emersa perché l’autista ha dovuto motivare le troppe ore di straordinario accumulate durante il servizio: ore che ovviamente paga lo Stato, cioè noi. E a quel punto si è scoperto l’uso non proprio d’ufficio dell’automobile con in più una nota curiosa: e cioè che spesso era la moglie del magistrato a chiamare direttamente il carabiniere-autista per dargli disposizioni di come usare l’auto blu del marito; insomma, era un “auto di servizio familiare” a tutti gli effetti. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta che è stata velocemente archiviata due giorni fa. Il motivo? Semplice: l’utilizzo “dell’auto di servizio a persone terze” è previsto dal Regolamento che i giudici si sono fatti da soli. È quindi del tutto lecito che l’auto blu del giudice Zanon sia stata utilizzata dalla moglie (esponente del Pd milanese) per recarsi più volte nella loro casa al mare in Versilia, per andare a prendere la cognata alla stazione o per accompagnare la figlia nei suoi giri privati. Incredibile vero? La cosa è molta strana per due ragioni.

Primo, perché se fosse così, non si capirebbe il motivo per cui la Procura avrebbe aperto un’inchiesta; bastava leggere il Regolamento in vigore.

Secondo, perché questo significa che anche altri giudici della “Corte suprema” utilizzano le auto di servizio pagate dai cittadini magari per scorrazzare in giro parenti, amici, vicini di casa o per “ragioni istituzionali” di shopping, vacanza, cene fuori o serate a teatro.

Questo significa, tra le altre cose, che a differenza del Senatore Romani (che ha rimborsato il danno causato di tasca sua ancora prima dell’inchiesta), il Magistrato non pagherà lui le ore in cui il suo autista ha fatto da autista a moglie, figlia e cognata. Ma il vero problema è che è stato applicato il principio giuridico della “autodichia” che prevede che la Consulta è un organo “autogiudicante”; e cioé il magistrato Zanon può essere giudicato solo dai suoi colleghi della Consulta, che ovviamente (potendo per “Regolamento” fare la stessa cosa) difficilmente riscontreranno un abuso nel suo operato. Ora alla Corte Costituzionale spiegano che stanno cambiando il Regolamento, ma finché il nuovo non entrerà in vigore, l’auto blu rimane un diritto inalienabile per i magistrati e i loro parenti. Ovviamente la storia del senatore Romani ha trovato maree di editoriali scandalizzati (compreso quello dell’immancabile Travaglio) mentre quella del giudice Zanon, no (neppure uno dell’immancabile Travaglio).

LA VERA CASTA. Le due storie sono l’ennesima riprova di quale sia la vera casta intoccabile nel nostro Paese; e di come ai magistrati sia concesso fare ciò che per qualsiasi altro cittadino (politici compresi) sarebbe reato. Perché in Italia la vera differenza che c’è tra un magistrato e un cittadino normale è la stessa che passa tra il peculato e i pe(r)culati.

Le scomode verità di Enrico Zucca, scrive Lorenzo Guadagnucci il 24 marzo 2018 su vari portali web. Parafrasando un aforisma del compianto Roberto Freak Antoni potremmo dire, pensando alla bufera mediatica esplosa attorno a Enrico Zucca, che non c’è gusto in Italia a dire la verità. Invece d’essere ascoltato e ringraziato, il magistrato è stato additato come una minaccia da buona parte della nomenclatura istituzionale, con il chiaro obiettivo di non discutere le questioni da lui sollevate. Enrico Zucca, che fu pm nel processo Diaz (il cui esito non è mai stato digerito ai vari piani del Palazzo), durante un convegno a Genova ha messo in fila alcune evidenze processuali degli ultimi anni. Ha detto che la tutela dei diritti fondamentali è diventata più difficile dopo l’11 settembre e l’avvio della cosiddetta guerra al terrorismo, tanto che la ragion di stato, in più casi, ha prevalso sulle regole scritte nelle Convenzioni sui diritti umani. Ha detto che l’Italia ha violato più volte queste convenzioni, ad esempio nel caso Abu Omar (l’imam rapito a Milano dalla Cia e consegnato all’Egitto dove è stato torturato), subendo così una condanna davanti alla Corte europea per i diritti umani, e anche nelle vicende riguardanti il G8 di Genova, quando il nostro paese ha disatteso l’impegno a sospendere e rimuovere i funzionari condannati per le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Ha aggiunto che simili condotte, con l’implicita indifferenza verso gli impegni dettati da Carte così solenni, mina la statura morale del nostro paese quando si trova a chiedere ad altri paesi, com’è il caso dell’Egitto per l’omicidio di Giulio Regeni, di punire e consegnare i responsabili di abusi e torture. Enrico Zucca ha quindi offerto una dettagliata e articolata ricostruzione di vicende giudiziarie ben conosciute, arrivando a conclusioni assai fondate: è noto, addirittura stranoto, che i funzionari processati e poi condannati per le torture alla Diaz e a Bolzaneto sono stati nel tempo protetti, promossi (almeno quelli di grado gerarchico più alto) e infine reintegrati in servizio, anche in ruoli di vertice, alla scadenza dei cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. È bene ricordare un passaggio contenuto nella dirompente sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Diaz (Cestaro vs Italia, del 7 aprile 2015), una sentenza che non suscitò alcuna seria reazione da parte di chi oggi grida allo scandalo per l’intervento di Enrico Zucca. È il paragrafo 216: “(…) l’assenza di identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti in causa deriva dalla difficoltà oggettiva della procura di procedere a identificazioni certe e dalla mancata collaborazione della polizia nel corso delle indagini preliminari. La Corte si rammarica che la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura”. Quel “rifiutarsi impunemente” è un macigno che pesa sulla credibilità della nostra polizia quanto la mancata sospensione dei funzionari durante indagini e processi e la loro mancata rimozione dopo le condanne definitive (paragrafo 210). Il quadro d’insieme è tanto limpido quanto desolante: nei nostri recenti casi di tortura, la protezione istituzionale verso indagati, imputati e condannati è stata la rotta seguita dai vertici amministrativi e politici dello stato. Per questi motivi l’ondata di indignazione e sdegno per l’intervento di Enrico Zucca avviata dal capo della polizia Franco Gabrielli e molti altri, tutti attenti a non entrare nel merito delle constatazioni e delle valutazioni espresse dal magistrato, appare come una montagna di panna montata sotto la quale si conta di occultare alcune scomode verità. Né Gabrielli né altri hanno spiegato perché la polizia di stato abbia coperto, promosso, reintegrato i responsabili della cosiddetta perquisizione alla scuola Diaz, qualificata come un caso di tortura dalla Corte di Strasburgo, ed è proprio questo il punto dell’intera vicenda. Per la reputazione della polizia di stato non sono oltraggiose le parole di Enrico Zucca, bensì le condotte tenute nel corso del tempo, dal 2001 in poi, da numerosi funzionari, dirigenti e responsabili politici. Condotte delle quali non si vuole parlare. Si tace sulla sostanza e si urla su immaginari oltraggi. Fra tante grida scomposte, le parole più serie e sincere le dobbiamo ai genitori di Giulio Regeni, che hanno espresso “stima e gratitudine al dottor Zucca per il suo intervento preciso ed equilibrato”.

Lorenzo Guadagnucci. Giornalista e scrittore, fa parte del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Trai suoi ultimi libri Era un giorno qualsiasi. Sant’Anna di Stazzema, la strage del ’44 e la ricerca della verità. Una storia lunga tre generazioni (Editore Terre di Mezzo). Ha aderito alla campagna “Un mondo nuovo comincia da qui”. Questo il suo blog.

La risposta del pm Zucca a Gramellini che il Corriere non ha (ancora) pubblicato, scrive Enrico Zucca il 23 marzo 2018 su "Altra Economia". Pubblichiamo la richiesta di smentita che il pm Enrico Zucca ha inviato al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in risposta a Massimo Gramellini, che alle frasi del Sostituto Procuratore Generale di Genova aveva dedicato il 21 marzo la sua rubrica sul quotidiano milanese. Pubblichiamo la richiesta di smentita che il pm Enrico Zucca ha inviato al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in risposta a Massimo Gramellini, che alle frasi del Sostituto Procuratore Generale di Genova aveva dedicato il 21 marzo la sua rubrica sul quotidiano milanese.

A oggi, 23 marzo 2018, nonostante sia doveroso farlo, il Corriere non ha pubblicato la missiva del dr. Zucca.

Egregio Direttore, Le sottopongo le seguenti considerazioni in replica al commento di Massimo Gramellini apparso oggi, in prima pagina, sul suo giornale con il titolo “Sale in Zucca”. La prego di considerare comunque la presente come una smentita ai sensi delle leggi sulla stampa essendomi attribuiti nell’articolo parole e pensieri, come dimostrabile dalla registrazione dell’intervento, del tutto arbitrari.

Grazie della attenzione.

"Le democrazie occidentali dopo l’11 settembre hanno purtroppo relativizzato i principi su cui si fondano. I Giudici continuano a sostenerne invece l’assolutezza ad ogni costo, pur rendendosi conto che il mondo reale non è quello che dovrebbe essere. Spesso non si è raggiunto l’elevato standard posto a tutela dei diritti umani ed anche l’Italia ha violato convenzioni facendo prevalere la c.d. ragion di Stato. L’ha fatto nel caso Abu Omar, consentendo la tortura per conto terzi e per questo è stata condannata dai Giudici di Strasburgo. L’ha fatto in altre occasioni e, infine, con il reintegro di funzionari condannati per aver coperto torture, commesse dalla polizia durante il G8. Punire e rimuovere i funzionari coinvolti è un obbligo convenzionale, non un’opinione. Ho ben sottolineato la diversa valenza dei fatti di Genova, ma ciò rende più biasimevole la violazione accertata dalla Corte Europea. L’Italia nel suo passato remoto ha tuttavia storie più gravi d’impunità di torturatori istituzionali. Se adesso la democrazia è più solida, lo si deve non a quelle torture, ma alla scelta di fondo del ricorso alla sola forza della legge. Oggi l’indifferenza per la violazione delle convenzioni che dimostriamo, in un contesto internazionale che ha visto vacillare i valori di civiltà, è in grado di minare lo standing morale per pretendere dai paesi dittatoriali “amici” il rispetto delle stesse convenzioni, che impongono di scovare e punire i torturatori, indipendentemente dalla convenienza delle ragioni di Stato. Se le istituzioni non hanno sempre fede nei principi, non la possono avere i cittadini. Io non posso che parlare con la bocca dei Giudici che, grazie al cielo, da questa parte del mondo, quella fede la testimoniano. Concordo quindi con Gramellini, che però ha confutato un suo (cattivo) pensiero, non il mio. Enrico Zucca Sostituto Procuratore Generale Genova.

Bufera sul Pm che accusa i vertici della polizia, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 Mar 2018 su "Il Dubbio". Il più duro è il capo della polizia Gabrielli che ha definito «oltraggiose» le parole del magistrato Enrico Zucca sugli agenti “torturatori”. Come era abbondantemente prevedibile, le parole del sostituto pg di Genova Enrico Zucca hanno ancora una volta acceso i riflettori sui tragici fatti del G8 del 2001. «Chi ha coperto i nostri torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?», si domandava Zucca l’altro giorno intervenendo ad un convegno sul diritto internazionale alla presenza dei genitori di Giulio Regeni. Immediata la replica stizzita al “parallelismo” con le forze di sicurezza del generale Al Sisi da parte capo della polizia Franco Gabrielli che ha definito «oltraggiose» le affermazioni della toga genovese. Sia il ministro della Giustizia Andrea Orlando che il pg della Cassazione Riccardo Fuzio, titolari dell’azione disciplinare, hanno comunque già fatto sapere che avrebbero acquisito l’intervento integrale del magistrato per gli accertamenti preliminari sulla sua condotta. Sempre ieri, in apertura di Plenum, il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha voluto esprimere alla polizia «piena fiducia e sostegno per l’opera insostituibile cui assolve, per la sicurezza nazionale», ricordando che a breve saranno emanate delle linee guida per «orientare i magistrati sulle modalità di esternazioni opportune». Per il consigliere togato del Csm Claudio Galoppi, infatti, le dichiarazioni di Zucca «sono di inaudita gravità e non meritano alcun commento». Ancora più dure il consigliere Antonio Leone che chiede il «trasferimento per incompatibilità ambientale». Con cadenza ormai periodica, la vicenda dell’irruzione nella scuola Diaz e quella della caserma di Bolzaneto infiammano i rapporti fra magistratura e politica. Zucca, che da pm condusse le indagini sui pestaggi, non è nuovo a queste affermazioni. In una intervista aveva parlato anche di «totale rimozione» delle vicende del G8 e del rifiuto per anni da parte della polizia italiana, diversamente da quella straniere, di «leggere se stessa» per «evitare il ripetersi» di errori. Anche in quella occasione immediata era stata la reazione dell’allora capo della polizia Alessandro Pansa che, d’intesa col ministro dell’Interno dell’epoca Angelino Alfano si attivò per aprire un procedimento disciplinare a carico del magistrato. Magistratura democratica, la corrente di Zucca, difese allora il pm. La vicenda, polemiche a parte, è complessa. I poliziotti materialmente autori delle violenze sui manifestanti, che hanno determinato la condanna dell’Italia per tortura da parte della Corte Edu di Strasburgo, non vennero mai identificati. Un “muro di gomma” impedì di risalire ai nomi dei picchiatori in divisa. Chi venne condannato furono invece i funzionari responsabili dei falsi verbali che trasformarono nelle armi «trovate sul posto» per inchiodare i black bloc le molotov portate poco prima dalla polizia nella scuola Diaz. Funzionari che «hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero», scrissero i giudici e che sono stati condannati in via definitiva, aprendo la strada a maxi risarcimenti. Scontata la condanna, definito il procedimento disciplinare, sono tutti tornati in servizio secondo le regole ministeriali vigenti. Alcuni anche con incarichi di prestigio. Gilberto Caldarozzi è diventato il n. 2 della Dia, Piero Troiani, quello che portò fisicamente le molotov, dirigente della polstrada del Lazio. Un fatto che ha destato “perplessità”, come ricordato da Raffaele Cantone.

Anche il Csm contro Zucca, il pm che infanga la polizia. Per il parallelo tra G8 di Genova e l'Egitto delle torture rischia l'indagine. Difeso solo dalle toghe rosse di Md, scrive Riccardo Pelliccetti, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale". Un putiferio è dir poco. Le parole del pm di Genova Enrico Zucca continuano a scatenare reazioni a tutti i livelli. Il magistrato, fra i giudici del processo per la scuola Diaz, durante un convegno di diritto internazionale, a cui partecipavano anche i genitori di Giulio Regeni, non aveva fatto mistero delle sue opinioni sull'operato delle forze dell'ordine italiane. «I nostri torturatori sono ai vertici della polizia», aveva dichiarato senza mezzi termini. Nel suo discorso aveva affrontato il tema della morte di Regeni, il ricercatore friulano assassinato in Egitto nel 2016, il ruolo delle forze di sicurezza egiziane e il pantano in cui sono finite le indagini al Cairo. Secondo Zucca l'11 settembre 2001 e il G8 di Genova «hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper fare. I nostri torturatori, o meglio chi ha coperto i torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della Polizia. Come possiamo chiedere all'Egitto di consegnarci i suoi torturatori?». Parole pesanti, che generalizzano, come se le illegalità di alcuni trasformassero in fuorilegge tutti i poliziotti italiani. Dura, perciò, la replica del capo della Polizia, Franco Gabrielli, il quale ha definito «oltraggiose» le parole del magistrato genovese. «Noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno - ha sottolineato -. Noi sappiamo riconoscere i nostri errori. Noi, al contrario di altri, sappiamo pesare i comportamenti. Ma, al contrario di altri, ogni giorno i nostri uomini e le nostre donne su tutto il territorio nazionale garantiscono la serenità, la sicurezza e la tranquillità. E in nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita, chiediamo rispetto. Gli arditi parallelismi e le infamanti accuse - ha sentenziato Gabrielli - qualificano soltanto chi li proferisce». Anche i vertici della magistratura hanno preso le distanze. Il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha detto che quella della toga genovese «è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata». Legnini, nel corso dell'apertura del plenum del Csm, ha espresso «piena fiducia e sostegno ai vertici delle forze di polizia per l'opera insostituibile nella sicurezza nazionale». Il vice presidente del Csm ha anche rilevato che con quelle le dichiarazioni il magistrato «è intervenuto, facendo riferimento a un procedimento di cui si è occupato con impegno e professionalità, su un altro procedimento molto delicato, che vede anche la gestione di rapporti internazionali, della Procura di Roma, esprimendo giudizi sulle forze di polizia, facendo riferimento a quelle vicende processuali». Insomma, per Legnini, Zucca ha espresso «un giudizio inappropriato sulla polizia». Il magistrato genovese ha cercato poi di correggere il tiro. «La frase riportata è imprecisa, estrapolata da un contesto più ampio», ha precisato. «La rimozione di un funzionario condannato è un obbligo convenzionale non una scelta politica», ha aggiunto riferendosi a Gilberto Caldarozzi, condannato per la Diaz e oggi vice direttore della Dia. E ha spiegato il senso del suo discorso: «Il governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Noi violiamo le convenzioni, quindi è difficile farle rispettare ai paesi non democratici». In sua difesa accorrono Area e Magistratura democratica: per Md le parole di Zucca «non sono oltraggiose per le forze dell'ordine». Ma nel frattempo il pg della Cassazione, che assieme al Guardasigilli è titolare dell'azione disciplinare, ha avviato accertamenti preliminari per quelle dichiarazioni, disponendo l'acquisizione degli atti relativi alle parole di Zucca.

Sicuri che non abbia qualche ragione? Scrive Piero Sansonetti il 22 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Le dichiarazioni molto aspre del Pm genovese Enrico Zucca, a proposito dei vertici della polizia, aprono almeno due problemi complessi e di difficile soluzione. Tutti e due riguardano il rapporto intricato che esiste tra libertà ( e diritti individuali) e Istituzioni ( e doveri istituzionali). Zucca ha usato frasi- shock per sollevare il problema, e forse (probabilmente) ha sbagliato. Ma la sollevazione contro di lui da parte dei vertici delle istituzioni rischia di nascondere sotto il tappeto molta polvere. Polvere che esiste ancora nel funzionamento di alcune nostre istituzioni che dispongono di grandi poteri. Per esempio la polizia, per esempio la magistratura. Vediamo la prima questione, che è la più bruciante. Il dottor Zucca, certo, ha torto però ha anche un po’ ragione…Zucca ha messo sul tavolo il tema del diritto al reintegro dei funzionari di polizia condannati per reati che riguardano l’esercizio delle proprie funzioni e il rapporto con i cittadini. Lo ha ha fatto usando parole un po’ più ruvide di quelle che sto adoperando io. Ha detto: «Torturatori». La giustificazione formale per l’uso di questo termine, molto ingiurioso, è che effettivamente a Genova, nel 2001, ci furono episodi gravi di vera e propria tortura da parte di poliziotti e altri tutori dell’ordine. E questo fatto gettò un grande discredito sul nostro paese: ne sfregiò l’immagine a livello internazionale. Il problema è che una cosa è dire che ci fu tortura, e un’altra cosa è indicare i nomi dei torturatori, o almeno farli intuire, riferendosi a persone – dirigenti di polizia – che sono stati con- dannati da un tribunale ma per reati diversi dalla tortura (reato che all’epoca, peraltro, non esisteva). Domanda: può un magistrato, il quale ha il dovere di dimostrare rigore ed equilibrio di fronte a tutti i cittadini – perché tutti i cittadini, potenzialmente, potrebbero essere giudicati da lui – usare giudizi approssimativi in un suo ragionamento politico? E per di più, approssimativi sul piano giuridico? O invece deve astenersi, o dal ragionamento politico, o comunque dalle forzature polemiche?

Mi spiego meglio. Io penso che la sostanza del ragionamento di Zucca abbia un fondamento. Anch’io mi sono sempre chiesto come possa uno Stato che per dire – ha visto un suo cittadino (penso a Stefano Cucchi) picchiato a morte in una sua prigione (nella quale, oltretutto, era stato portato per motivi discutibili), e che dieci anni dopo non sa ancora dirci chi ha picchiato a morte Stefano, dove, come e perché; come può, dicevo, indignarsi perché lo Stato egiziano non sa dirci come è stato ucciso Giulio Regeni? Ipocrisia massima. Io però non sono un magistrato, e – volendo – posso anche esagerare nella polemica. Il dottor Zucca – che ha sollevato esattamente questo tema, con più di una ragione – è autorizzato a farlo usando toni ancora più alti e azzardati di quelli che sto usando io, libero cittadino senza incarichi nello Stato?

E’ la sostanza del problema, vecchio – e che ci si ostina a non affrontare – del rapporto tra magistratura e politica, e dei limiti che i magistrati devono imporsi. Naturalmente il pensiero va immediatamente ad altri magistrati, anche con incarichi molto più alti di quelli del dottor Zucca, che varie volte hanno distribuito alla stampa e alla Tv pareri molto spericolati, ad esempio, sulla colpevolezza a prescindere dei politici, e non solo, ed è impossibile non notare che nei confronti di quei magistrati le reazioni sono state molto più blande e quei magistrati non sono mai stati sottoposti a procedimenti. In ogni caso il problema c’è, è lì, e andrebbe affrontato una volta per tutte. Fino a quale confine può spingersi la libertà politica di un magistrato senza mettere in discussione la sua credibilità e la sua terzietà?

Quando la politica porrà mano a questo problema sarà sempre un po’ tardi. La seconda questione è quella del rapporto tra garanzie individuali e funzione pubblica. Io non so bene a quali poliziotti si riferisse il dottor Zucca. Sicuramente c’è il caso del dottor Gilberto Caldarozzi, che è appunto uno dei poliziotti condannato per le violenze di Genova e che, dopo aver scontato la pena, è stato reintegrato ed è stato nominato ai vertici della Direzione nazionale antimafia. Ha assunto il ruolo di vicedirettore. E’ chiaro che ci sono due esigenze giuste che cozzano. La prima è il rispetto del senso della pena. Aver scontato la pena estingue il reato. E una volta estinto il reato e pagato il prezzo per i propri errori, ciascuno di noi ha il diritto di essere pienamente reintegrato nella società. Anche il poliziotto che ha sbagliato a Genova. Ma, detto questo, mi chiedo: è giusto che sia assegnato un compito delicato come quello di guidare la lotta alla mafia e al terrorismo, a una persona che in passato ha svolto i suoi compiti usando metodi inaccettabili e che hanno provocato grandi ingiustizie? Quali certezze ho che questa persona, seguendo le indagini e quindi occupandosi di cittadini sospetti ma innocenti, non userà ancora i metodi che ha usato a Genova? Sono – lo vedete bene – due esigenze tutte e due sacrosante ma inconciliabili. Vi confesserò che questo problema non so risolverlo, nemmeno sul piano teorico. Stavolta, in modo clamoroso, rivendico il diritto al dubbio.

G8 e torturatori, continua la polemica. Sansa si schiera con Zucca: «Ha detto solo la verità», scrive il 23 marzo 2018 Marco Grasso su "Il Secolo XIX". È un’altra giornata di polemiche sulle dichiarazioni di Enrico Zucca, pm che indagò sull’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 del 2001, pronunciate a un incontro con i genitori di Giulio Regeni («chi ha coperto i torturatori del G8 è ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di rispettare convenzioni che noi stessi violiamo?»). In sua difesa interviene Adriano Sansa, ex pretore d’assalto ed ex sindaco di Genova: «Esprimo massima solidarietà a Zucca e non posso che stimarlo, se a sessant’anni ha ancora voglia di indignarsi. Anche a me capitò di subire due procedimenti disciplinari per dichiarazioni che feci, ne uscii sempre pulito. Le cose che ha detto sono tutte vere. Nessuno infatti le ha confutate nel merito e ora il dibattito, in modo surreale, ruota attorno “all’opportunità” delle sue opinioni. Oggi non è più come vent’anni fa, i giovani magistrati hanno paura a esprimere il proprio pensiero, c’è un clima di sfiducia nella magistratura nel Paese, e più in generale di disinteresse nei confronti della cosa pubblica. E questo è un male: un giudice per essere indipendente, e immune dal potere, deve sentirsi protetto dalla cittadinanza».

«Ci vuole equilibrio». Dopo l’attacco del capo della polizia, Franco Gabrielli («da Zucca accuse infamanti e parole oltraggiose»), anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte ha espresso parole critiche nei confronti del magistrato genovese: «Il pm deve essere imparziale ed equilibrato, sia nel corso del processo, sia nella fase successiva, quando ormai lo stesso processo è chiuso. Un’eccessiva aggressività anche nel commentare i fatti del processo dopo anni potrebbe dare l’impressione di un atteggiamento animoso che ha influenzato le scelte processuali». Parole che, a loro volta, hanno provocato reazioni sdegnate da parte di molti iscritti a Magistratura democratica, corrente progressista delle toghe, cui appartiene lo stesso Albamonte. «Non sa di cosa parla - commenta Zucca - lo stesso Gabrielli ha riconosciuto che nelle inchieste sul G8 non è mai mancata imparzialità». Sempre ieri, è arrivato un appello di solidarietà al pm firmato dalla sigla Giuristi democratici. Nel frattempo la procura generale della Corte di Cassazione ha acquisito la videoregistrazione del convegno, per valutare eventuali procedimenti disciplinari.

«Scomodo chi dice il vero». Sansa, un po’ come Zucca, porta su di sé la fama di magistrato “scomodo”: «È una definizione che di solito uno non si sceglie, lo posso assicurare - scherza - Zucca è una persona onesta e un magistrato rigoroso. Forse per questo dà fastidio. Tutti parlano di sovrastrutture e continuano a evitare il merito della questione: è un fatto che il G8 fu una vergogna per la città e per la polizia; è un fatto che alcuni poliziotti che si macchiarono di reati gravi, come il falso, abbiano fatto una grande carriera; ed è un fatto che l’Europa ha definito quei comportamenti torture, e che abbia condannato l’Italia per non aver portato avanti procedimenti disciplinari e non esserci dotati di legge sulla tortura. Dovremmo riflettere sul generale restringimento del spazio del dibattito pubblico. Quando fui sottoposto a un procedimento disciplinare, scoprii con stupore che uno studente, su un treno, raccolse in mio favore 400 firme a mia difesa. Temo che oggi non accadrebbe più».

Zucca. Tortura e vertici di polizia. La verità fa sempre scandalo anche a un corso per avvocati e giornalisti, scrive il 23 marzo 2018 su "Articolo 21" Marcello Zinola. Una scomoda verità sulla quale, allora, “dagli addosso alla pelle dell’orso”. E se poi l’orso è un magistrato, oggi sostituto procuratore generale, ma protagonista di molte delle indagini sul G8 di Genova allora ancora meglio. Perché così si può scatenare il capo della polizia che si era scusato (alla luce delle reazioni sui fatti dell’altro ieri erano e sono state sincere e credibili?) con una lunga (ritardata di oltre 15 anni) confessione giornalistica su Repubblica proprio per i fatti di Genova 2001. Ma questa volta per bastonare il magistrato, Enrico Zucca, perché a un corso di formazione dell’ordine degli avvocati di Genova, condiviso anche dall’Ordine dei giornalisti della Liguria, quindi in un consesso di noti attentatori delle istituzioni, ha ricordato come ai vertici della polizia in passato e nel presente si siano tenuti «dei torturatori o chi li ha coperti». Con riferimenti precisi anche agli anni di piombo (l’ex funzionario Ucigos De Tormentis (1) e i “quattro dell’Ave Maria”) e al 2001 «anno tragico e drammatico non solo per la vicenda genovese del G8 ma per il quadro internazionale, l’11 settembre e quanto ne derivò». I processi hanno confermato come ci fu tortura anche se all’epoca non era prevista come reato (difficilmente potrà esserlo anche con la legge approvata nei mesi scorsi) nella sezione del carcere provvisorio (primo e unico caso dell’Italia repubblicana) nella caserma di polizia di Bolzaneto, o abusi vari su arrestati che non dovevano essere arrestati come nel caso della Diaz. Enrico Zucca non ha detto nulla di sconvolgente e, tantomeno, ha parlato tanto per ottenere “due righe in cronaca”, basta ascoltare il lavoro-video della giornalista genovese di Repubblica, Giulia Destefanis (componente della giunta della Associazione Ligure dei Giornalisti della Fnsi). E vanno tenuti presenti alcuni elementi anche per chiarire cosa molti politici (ma non sarebbe quasi una notizia), alti vertici della polizia e anche un po’ i media hanno confuso o fatto finta di non sapere per creare ancora più confusione. Posso dirlo perché c’ero, dall’inizio alla fine e le registrazioni del confronto sono lì a dimostrarlo.

Innanzitutto IL LUOGO. Ovvero il centro formazione degli avvocati genovesi. Il corso era sui diritti delle persone all’estero oltre che nel loro paese. Con al centro il caso Regeni i cui genitori erano tra i relatori con l’avvocato Alessandra Ballerini e il giornalista Giuliano Foschini di Repubblica, il presidente della sezione ligure dell’Anm Domenico Pellegrini e il presidente dell’ordine forense genovese, Alessandro Vaccaro. Un legale, Vaccaro (tanto per capirci), criticato da alcuni legali (tranquilli, non è un pericoloso anarcoinsurrezionalista, è un laico) per avere partecipato all’inaugurazione della sede degli avvocati di strada di Genova nella sede dell’associazione di don Gallo ribadendo che i diritti sono di tutti e i legali devono sempre ricordarsi di tutelare i deboli.

I FATTI. Enrico Zucca è stato introdotto nell’intervento da Giuliano Foschini che ha collegato la domanda al magistrato con quanto avevano detto poco prima i genitori di Giulio, sulle istituzioni, sulla tortura, le loro delusioni, la volontà di esserci sempre e di non mollare. Zucca ha centrato, in sostanza, tre elementi.

I PRINCIPI E LA LORO “FEDE”. Principi di diritto e di democrazia, dei diritti delle persone (tema peraltro sottolineato nell’intervento del presidente dell’Anm Ligure, Domenico Pellegrini), la credibilità delle istituzioni che si misura anche sulla capacità di reazione alle violazioni e sulla nostra capacità di rivendicare i diritti umani: oggi come e quanta ne abbiamo? O diamo per scontato che determinati fatti, regole cadute o non rispettate per esigenze di sicurezza o ragion di stato siano accettabili?

LA RAGION DI STATO E LE RAGIONI DI SICUREZZA. Elementi che nei fatti hanno come effetto, con la loro accettazione, «quello di annullare o di impedire l’accertamento della giustizia (…) di impedire la giustizia (…) ripetendo il corto circuito non c’è verità senza giustizia, non c’è giustizia senza verità (..) insomma non c’è pace senza giustizia». Temi e parole da sovversivo? Forse, ma detto da laico, più da scandalo evangelico (Zucca ha anche sottolineato un paio di volte come i diritti siano oggi un principio molto relativizzato) che da richiesta di sanzioni o stracciamento delle vesti del capo della polizia.

LA TORTURA, CHI LA COPRE, CHI LA PRATICA: ROBA DA PROFESSIONISTI. A spiegare che la tortura non è cosa “banale” o occasionale, parlando dell’Egitto, era stata poco prima di Zucca, la mamma di Giulio Regeni. Zucca ha costruito il suo ragionamento dopo quello sui principi. Ricordando – facendo le debite differenze tra Italia ed Egitto – la difficoltà o talvolta anche il ritardo nell’azione dei pm in queste indagini. Ancora: «la tortura non è una una cosa sporadica (…) Non possiamo trascurare il fatto che la tortura non è da dilettanti ma da professionisti (…) è istituzione perché non è sporadica o eccezionale (…) se in Egitto si tortura in quel modo è perché “necessita”» ovviamente «al sistema dittatoriale». A questo punto lo snodo per dire, in sostanza «come facciamo con la nostra storia (…) persone che hanno coperto o tenuto torturatori ai vertici della polizia (…) con che voce possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci la verità cioè i torturatori?».

Ecco lo scandalo, la notizia clamorosa (?). Zucca ha semplicemente ricordato dei fatti: le sentenze del G8, indirettamente le promozioni (ne abbiamo parlato a lungo qui in Articolo 21) di condannati e inquisiti. I fatti degli anni di piombo (il caso De Tormentis e i “quattro dell’Ave Maria”). Cosa ha detto di diffamatorio? Che (da sentenza) «le nostre forze di polizia non ci hanno consegnato un torturatore (…) a Bolzaneto non siamo stati in grado di consegnarci nessun torturatore (..)». Oppure che «a una verità brutta, scomoda, ci siamo abituati»? Certo ha ribadito il concetto un paio di volte. E allora? Sconvolgente e diffamatorio per il capo della Polizia avere ricordato fatti e sentenze? Il “pudore” e i ritardi (e solo dopo reiterate condanne della Cedu) con cui l’Italia ha approvato una (blanda e di difficile applicazione) legge sulla tortura? Oppure avere invitato i genitori di Giulio a non «sentirsi petulanti (…) o portatori di istanze scomode (…)» continuando «a sbatterci faccia la realtà»?

Ecco cosa 17 anni dopo il G8 è accaduto in un pomeriggio guarda a caso, nuovamente di Genova, non in un rodeo di piazza con vetrine in fiamme, ma a un corso di formazione sui diritti. La verità, infatti, spesso è scomoda e a quella odiosa, schifosa, citata da Zucca o ci stiamo abituando o c’è chi lo ha già fatto da tempo. A Genova 2001 arrivammo (anche molti di noi) assopiti e tranquilli. Anzi scandalizzati per quelli come Zucca, i genitori di Giulio, Alessandra, che continuano a «sbatterci in faccia la realtà».

Nicola Ciocia Era un funzionario di polizia noto nell’ambiente con lo pseudonimo di professor De Tormentis con squadre speciali di intervento una detta i 4 dell’Ave Maria. Il professor De Tormentis parla diffusamente il libro di Nicola Rao: Colpo al cuore. Dai pentiti ai metodi speciali: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Venne intervistato da Il Corriere della sera (10 febbraio 2012) e ammise di essere la persona indicata appunto con lo pseudonimo di «professor De Tormentis». Ad attribuirgli il soprannome spiega il Corriere – fu Umberto Improta del quale Ciocia fu uno stretto collaboratore.

In libreria: INNOCENTI. Il nuovo libro di Alberto Matano, scrive l'1 aprile 2018 "Da Sapere". “L’errore umano esiste in ogni campo, ma dobbiamo ricordarcelo, prima di puntare il dito su chiunque venga anche solo indagato, figuriamoci se viene arrestato. Potrebbe capitare anche a noi. La realtà è complessa, il sistema giudiziario affaticato, la giustizia, parola meravigliosa, a volte sembra un’utopia. Non per questo dobbiamo smettere di crederci e di pretenderla”.

Dalla Prefazione di Daria Bignardi. Gridare la propria innocenza e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con un marchio indelebile. È l’incubo che ciascuno di noi potrebbe trovarsi a vivere, con le foto segnaletiche, le impronte digitali, i processi, gli sguardi della gente e i titoli sui giornali, l’esperienza atroce del carcere tra pericoli e privazioni. Un inferno, e in mezzo a tutto questo sei innocente. È una ferita che rimane aperta, anche a distanza di anni, nonostante le assoluzioni e – non sempre – le compensazioni economiche. Lo sanno e lo raccontano i protagonisti di questo libro, presunti colpevoli, riconosciuti innocenti. Maria Andò, accusata di una rapina e di un tentato omicidio avvenuti in una città in cui non è mai stata. Giuseppe Gulotta, la cui odissea di processi e detenzioni in seguito a un clamoroso errore giudiziario dura quarant’anni, di cui ventidue in carcere. Diego Olivieri, onesto commerciante che finisce in carcere per una storia di droga, per colpa di un’intercettazione male interpretata. E gli altri protagonisti di queste pagine, che raccontano le loro esperienze e i loro incontri, i loro traumi e la loro ostinata volontà di rinascita. Alberto Matano costruisce in questo libro una narrazione intensa e cruda, in cui ogni singola vicenda è un capitolo avvincente di una storia più grande, quella dell’ordinaria ingiustizia che accade accanto a ognuno di noi, senza che la vediamo. Un invito a esercitare la nostra attenzione e la nostra umanità, ogni giorno. “Quando finisci in carcere e dici di essere innocente non ti crede nessuno, lì sono tutti innocenti”. Immaginatevi, soltanto per qualche secondo, di trovarvi in questa situazione, di finire dietro le sbarre, senza neanche capire perché, e con la consapevolezza di non aver fatto nulla. Gridare la propria innocenza, e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con quel marchio indelebile, anche a distanza di anni quando tutto è finito, quando la giustizia, che ha sbagliato, alla fine è giusta. È l’incubo che ciascuno di noi può trovarsi a vivere e di cui sappiamo spesso troppo poco.

Alberto Matano, giornalista, conduttore del Tg1 delle 20, dal 2017 è autore e conduttore della trasmissione di Rai3 “Sono Innocente”, giunta alla sua seconda edizione.

L’8 aprile torna, su Rai3, “Sono Innocente”. Alberto Matano racconta le novità della nuova edizione, scrive il 31.03. 2018 Renato Franco su Il Corriere della Sera. L’impersonalità della legge e la fallibilità dell’uomo, la giustizia che diventa ingiusta, persone innocenti la cui vita si trasforma in incubo. È in questo perimetro narrativo in cui si muove «Sono innocente», il programma condotto da Alberto Matano che torna da domenica 8 aprile in prima serata su Rai3. «Raccontiamo storie di gente come noi, persone comuni, che all’improvviso si ritrovano in una prospettiva di vita ribaltata — spiega il giornalista —. Persone che senza sapere bene perché finiscono ingiustamente in carcere». In questa nuova stagione il racconto si dividerà in tre momenti, con tre storie differenti tra loro: le vicende di persone comuni; quelle di persone famose; quelle a tinte più oscure che trattano di pedofilia, satanismo e omicidi efferati. Cosa c’è alla radice di questi clamorosi errori giudiziari? «Indagini frettolose e fatte male, la necessità di trovare un colpevole, in molti casi uno scambio di persona, spesso il pregiudizio: sulla famiglia di origine, sulle frequentazioni, sul luogo dove si vive, come è successo a due ragazzi — uno di Scampia e l’altro di Casal di Principe — che sono stati accusati e condannati per il solo motivo di abitare nel luogo sbagliato. L’errore è umano, ma quando si può influire così tanto sulla vita delle persone, un supplemento di responsabilità e rigore è necessario». Sulla storia più dura Matano non ha dubbi: «La vicenda di Aldo Scardella, lo studente universitario di Cagliari, ingiustamente accusato di omicidio e morto suicida in carcere». «Sono innocente» rievoca anche quei casi di ingiustizia di rilevanza nazionale che hanno segnato il vissuto collettivo: da Enzo Tortora, con la presenza in studio della figlia Gaia, al delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba. Anche lo chef Filippo La Mantia finì in carcere negli anni 80 per un delitto di mafia: «All’epoca faceva il fotoreporter a Palermo e fu accusato di favoreggiamento nell’ambito delle indagini sull’omicidio Cassarà. La Mantia racconta che nelle cucine del carcere sviluppò quell’attenzione al gusto che è poi è diventata la passione della sua vita». Il risarcimento però è una magra consolazione. Chi baratterebbe 22 anni di carcere con 6 milioni di euro quando esci a 60 anni? «Tutti gli innocenti ingiustamente condannati dicono la stessa cosa, nessun risarcimento ti darà indietro quello che hai vissuto, quello che hai provato, quello che hai perso». Anche la riabilitazione sociale non ha lo stesso impatto che hanno avuto le condanne sulla vita delle persone: «Quando la giustizia rimette le cose a posto, l’eco è decisamente minore rispetto al clamore precedente. Vito Gamberale, il dirigente pubblico arrestato con l’accusa di abuso d’ufficio e concussione, mostrerà la rassegna stampa che lo riguarda: centinaia di pagine sulla sua condanna, appena tre fogli sull’assoluzione con formula piena».

M COME MAFIA DELLE MAFIE E DELLE ANTIMAFIE.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CASTOPOLI” E “LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA” E “MAFIOPOLI” E “MASSONERIOPOLI” E USUROPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Bergoglio, Ratzinger e Wojtyla, i tre papi antimafia. Le condanne e gli anatemi dei pontefici nel tempo: una sola voce contro la criminalità organizzata, scrive Orazio La Rocca il 17 settembre 2018 su "Panorama". "Mafiosi, convertitevi! Chi uccide non è cristiano!". "Mafiosi, convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!". Sono i due storici pubblici anatemi contro cosche mafiose e malavita organizzata in Sicilia e altrove lanciati con parole quasi uguali da due papi a poco più di 25 anni di distanza l'uno dall'altro. Il primo è di Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyla, pronunciato in Sicilia il 9 maggio 1993. Il secondo, esternato qualche giorno fa da papa Francesco, l'argentino Jorge Mario Bergoglio, a Palermo nel suo secondo viaggio in Sicilia, dopo quello dell'8 luglio 2013 a Lampedusa. Ma nelle condanne antimafia, Wojtyla e Francesco nel corso dell'ultimo quarto di secolo non sono stati soli. Un analogo anatema antimafia l'ha pronunciato il più grande teologo contemporaneo, il tedesco Benedetto XVI, a Palermo nel 2010.

I tre papi stranieri contro la mafia. Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, vale a dire i 3 papi non italiani - solo un caso? - che si sono sentiti in dovere di correre in Sicilia per dire con una simbolica sola voce "mafiosi, basta! Convertitevi! Cambiate vita! Quello che fate non è cristiano, Dio non è con voi! Dio ha ordinato non uccidere!". Una positiva casualità che, ovviamente, non cancella gli interventi contro guerre, dittature, mafie, malavita, oppressioni, sfruttamento dell'uomo contro l'uomo, fatti anche dai papi del secolo scorso, da Leone XIII a Benedetto XV il papa che disse no alla prima guerra mondiale definendola "inutile strage"; da Pio XI, il papa dell'enciclica contro il nazismo e il comunismo, che si rifiutò di ricevere Hitler nella sua unica visita alla Roma di Mussolini, a Pio XII, condannò le persecuzioni antiebraiche in un messaggio diffuso dalla Radio Vaticana, e salvò migliaia di ebrei nelle cattedrali e nelle chiese di Roma; da Giovanni XXIII, il papa della Paem in Terris, l'enciclica che contribuì a raffreddare le tensioni Usa-Urss; a Paolo VI, il papa che all'Onu gridò: "Mai più la guerra! Mai più la guerra! Svuotate gli arsenali e riempite i granai per sfamare poveri e affamati!.

Dire no ai boss in casa loro. Il merito storico di Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio è, in sostanza, aver affrontato tutti e tre il cancro della mafia a viso aperto sul suo stesso territorio. Giovanni Paolo II lo fa senza averlo programmato in Sicilia nel '93 quando - parlando alla spianata della Valle dei Templi di Agrigento, appoggiato alla croce astile come una sorta di protezione e col dito della mano destra puntato in alto - pronuncia con rabbia e determinazione parole antimafia che hanno segnato la storia in termini di chiarezza e di indiscutibile scelta a favore della legalità, nel tormentato rapporto tra boss e Chiesa. Quella Chiesa troppe volte “usata” dalle cupole mafiose per ostentare “una religiosità falsa e antievangelica”, avverte tra l'altro Wojtyla parlando a braccio. Seguendo poi il suo istinto di antico pastore che lotta per salvare il suo gregge in pericolo ordina "mafiosi convertitevi, verrà un giorno il giudizio Divino! Dio ha detto non uccidere! Basta! Fermatevi! Questa Sicilia non merita tutto questo...pentitevi!...!". Parole inequivocabili che toccarono il cuore della gente siciliana, e non, anche dei diretti interessati, i mafiosi nascosti nelle loro tane o intrufolati tra i pellegrini.

Bombe e morti, le "risposte dei mafiosi. Ma la risposta, purtroppo, non tardò a venire con gli attentati mafiosi alla biblioteca-museo dei Georgofili di Firenze e alla basilica di San Giovanni in Laterano, e a un'altra chiesa rinascimentale sul Palatino. Quando la mafia si sente accerchiata ed è colpita "risponde con la morte" - ha sempre sostenuto in libri e in migliaia di articoli Attilio Bolzoni, firma storica del quotidiano La Repubblica e tra i massimi esperti del fenomeno malavitoso italiano - perchè così "tenta di recuperare il terreno perduto e il dominio sul territorio attraverso la paura e la pressione sulle istituzioni civili e religiose, e sugli uomini". Ma dopo le bombe di luglio, il 15 settembre 1993 a Brancaccio due sicari uccidono don Pino Puglisi, il primo martire di mafia beatificato dalla Chiesa. Anche Benedetto XVI nel suo viaggio a Palermo nel 2010, in occasione del 17esimo anniversario dell'omicidio di don Puglisi, si pronuncia contro mafia e criminalità, appellandosi in particolare ai giovani: "Non abbiate paura di contrastare il male!... Non cedete alle suggestioni della mafia... Strada di morte".

Gli inchini della Madonne ai mafiosi, "scandalo anticristiano". Parole in totale sintonia con quelle pronunciate ancora a Palermo da Francesco che, nel celebrare il 25esimo anniversario del martirio di don Puglisi, rilancia il "mafiosi convertitevi!" di wojtyliana memoria. Ma condanna pure "l'inchino forzato delle statue della Madonna e dei Santi Patroni durante le processioni davanti ai capi mafiosi". Destinatari del monito di Bergoglio anche quei parroci che, per quieto vivere, ignorando la testimonianza di don Puglisi, si rendono complici, sebbene indirettamente, degli inchini delle Madonne davanti alle case dei boss. Deleterie scelte di "pace" sociale a scapito della vera fede che il papa ha bollato come "errate, anticristiane, umilianti per la religione e per i simboli della religiosità popolare". Qualche parroco, in verità, negli ultimi tempi si è opposto interrompendo le processioni e chiamando i carabinieri. Ma se Francesco ha sollevato il problema evidentemente la strada è ancora lunga perchè tutto il clero, siciliano e non, ma anche la società civile, si pongano sulle orme di don Pino Puglisi, come pure di don Giuseppe Diana martire della camorra in Campania, arrivando se necessario a sacrificare la vita per opporsi ai poteri mafiosi. L'argentino Bergoglio lo ha ammonito senza preoccuparsi di invadere campi socio-politici forse non propriamente ecclesiali. A parte i deleteri inchini delle Madonne. Ma è singolare che dai Palazzi delle Istituzioni e dai leader di tutti i partiti politici sono arrivati solo elogi ed apprezzamenti per papa Francesco "pubblico nemico" di mafiosi e delinquenti. Buon segno.

''La cupola che non c'è. La strana dimenticanza del Procuratore de Raho'', scrive Chris Barlati su Sa Defenza il 6 dicembre 2018. La notizia dell'arresto della "nuova cupola" di Cosa Nostra è una fandonia incommensurabile, errata storicamente e giornalisticamente, al punto da suscitare ilarità. La commissione di Cosa Nostra, tenendo presente il codice della Mano Nera, si è dissolta con Totò Riina che, a seguito dell'arresto nei lontani anni della lotta allo Stato, viene sostituito da Bernardo Provenzano, nuovo interlocutore della milizia siciliana tra i partiti di Governo e Falange Armata. Nessuna commissione si costituì per eleggere Provenzano che, di fatto, divenne il successore legittimo di Salvatore Riina. Tale circostanza indusse in molti ad ipotizzare una consegna del capo dei capi da parte dell'organizzazione mafiosa nelle braccia dello Stato a causa della sua spietata condotta stragista che attuò non solo nei confronti delle forze istituzionali, ma all'interno dell'organizzazione stessa con terrore ed assassini di amici e familiari. Con il raggiungimento della pax mafiosa, declassa anche il ruolo di Provenzano che, arrestato l'11 aprile del 2006, verrà completamente relegato ai libri di storia ed ai manuali della Dia. Nuovo capo indiscusso della Mafia, o meglio della "Cosa Nuova", sarà Matteo Messina Denaro, rampante "mafioso economista", colui che in passato scalò le vette dell'associazione criminale più potente d'Italia, collegandosi alla massoneria, alla ndrangheta ed ai Servizi Segreti.

La commissione provinciale è un organo che, ribadiamo, storicamente si riunisce per eleggere il capo dei capi, ovvero di tutta Cosa Nostra e non solo di Palermo. Le parole dei rappresentanti delle istituzioni hanno lanciato un messaggio inequivocabile, ribadendo come il prossimo della lista potrebbe essere il noto Matteo Messina Denaro, personaggio "al di fuori comunque della commissione provinciale e sicuramente il soggetto sul quale c'è tantissima indagine, tantissima attenzione". Ci si domanda, arrivati a questo punto, per quale motivo lo Stato ha così facilmente tratto in arresto quattro nostalgici sprovveduti che facilmente si sono lasciati andare in commenti intercettabili, mentre non è riuscito e non riesce nemmeno a stilare un identikit di chi ha assistono in diretta all'omicidio di Falcone e Borsellino, di chi ha saputo raccogliere l'eredità di Provenzano e coagulare in un super soggetto criminale, una "Cosa Nuova" unione di Cosa Nostra e 'Ndrangheta. E perché sottolineare, come ha fatto Cafiero de Raho, che Matteo Messina Denaro è estraneo alla commissione di Cosa Nostra, dunque non il capo dei capi, quando sappiamo che invece è esattamente il contrario?

Appare alquanto sospetto e pericoloso tutto ciò, questa voluta disinformazione sull'organigramma della criminalità siciliana che, iniziata con i servizi del programma di Berlusconi "le Iene", ha dato avvio ad una martellante campagna mediatica volta alla svalutazione dell'importanza di Matteo Messina Denaro ed allo spostamento di ogni pregiudizio ed attenzione al filone "Riina", oramai abbandonato da ogni inchiesta giornalistica a seguito del suo arresto e, in definitiva, della sua morte.

Le dichiarazioni di De Raho diventano anacronistiche ed errate nel prosieguo, e sarebbe troppo stupido pensare ad un errore del procuratore De Raho per le seguenti affermazioni: "Vi era un'esigenza per i capimandamento di individuare una disciplina di condivisione per tutti soprattutto in relazione alla nuova mafia. La nuova mafia è quella che si proietta sul globo intero. E' quella che si proietta sugli affari. E' quella che, sostanzialmente, riesce a cogestire anche con le altre organizzazioni: 'ndrangheta, camorra. E' questo che emerge dalle altre indagini. E' evidente che di fronte ad uno scenario di questo tipo, Palermo non poteva restare così arretrata da non condividere

con tutti i capimandamento quello che doveva essere il programma."

De Raho sembra dimenticare i colloqui avuti con Carmine Schiavone, il pentito che permise la scoperta di "terra dei fuochi" lo scandalo dell'interramento di fusti nucleari in aree dedite all'agricoltura, che avevano contaminato anche le falde acquifere campane. Carmine Schiavone, appartenente a Cosa Nostra campana, aveva più volte espresso stima nei riguardi di De Raho, al quale aveva confidato gli ostacoli interposti dallo stesso nucleo nazionale antimafia all'avanzare della verità.

De Raho pecca anche d'ignoranza nel definire la "nuova mafia" come una mafia che tenterebbe di cogestire e di immettersi nel "globo intero" (un paradosso di definizioni). La "nuova" mafia a cui fa riferimento De Raho è stata la mafia degli anni 2000, la mafia quotata in borsa e degli investimenti in buoni del tesoro. Tale mafia non può coesistere con altre organizzazioni poiché priva di centralismo. Senza un capo che possa stabilire una successione, un'organizzazione criminale non potrebbe per nulla al mondo prendere accordi ed immettersi sul mercato. La dimensione palermitana della cupola appena dileguata di Cosa Nostra è troppo piccola e priva di un capo per immettersi nei circuiti economici "globali", figuriamoci per convivere con 'ndrangheta e camorra. L'unica mafia in grado di proiettarsi nel mondo è la 'ndrangheta, non quella ufficiale, ma quella che da tempo ha conquistato i circoli massonici europei ed imprenditoriali, e che è arrivata addirittura a gestire lo spaccio di stupefacenti e ad assoldare la Black Axe, la mafia nigeriana, manodopera intoccabile dal punto di vista legislativo, perfettamente adatta ai traffici di basso livello. De Raho speriamo si sia solo confuso con tali affermazioni, poiché è troppo informato sulla deviazione e la corruzione all'interno della stessa direzione nazionale antimafia, nonché sui patti espliciti tra servizi segreti e criminalità.

Con il tempo, saremo in grado di vedere se De Raho abbia voluto inviare uno specifico messaggio citando Messina Denaro o se sia stato solo un caso eccezionale ed isolato questo suo errore di linguaggio. La nuova cupola è stata arrestata? La mafia non ha più bisogna di una cupola per proteggersi. Certe cose le fa tranquillamente a cielo aperto. Oramai, è un'istituzione protetta da Governo, Servizi e libero mercato.

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017, su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Il 416 bis, quell'articolo che fa tanto discutere, scrivono il 18 settembre 2018 su "la Repubblica". Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli - Link Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. E' questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’“accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza.

Fiammetta Borsellino: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier», scrive Damiano Aliprandi il 5 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre. «Nessuno ha dato un contributo di verità negli anni, possibile che tutti siano stati fatti fessi da Arnaldo La Barbera?». Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater. Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione. In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia. Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002. Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio (e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela. Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?

Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori?

«Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre».

Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto.

«Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa».

Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto.

«Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni».

Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto?

«Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evidenza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli?»

Clan al porto, Coop Ariete vittima per la Procura, collusa per la Prefettura. L'azienda aveva in organico (ereditato da altro appaltatore) tre pregiudicati che ha subito licenziato. Nel frattempo è stata interdetta dagli appalti, scrive Massimiliano Scagliarini il 14 Ottobre 2018 su "la Gazzetta del Mezzogiorno". In Tribunale siederà a fianco del ministero dell’Interno per chiedere i danni ai presunti mafiosi che avevano trasformato il porto di Bari nella loro base operativa. Ma per la Prefettura di Bari, la Cooperativa Ariete sarebbe stata strumento del clan Capriati, quelli di cui facevano parte i tre dipendenti arrestati ad aprile scorso. Un evidente paradosso tra due diversi approcci. Eppure venerdì alla coop barese delle pulizie, 1.200 addetti, 35 milioni di fatturato, è stata notificata una interdittiva ai sensi della legge antimafia che potrebbe avere conseguenze pesantissime. Un corto circuito anche temporale. Perché il provvedimento firmato dal prefetto Marilisa Magno è stato notificato proprio nelle stesse ore in cui il gup Antonella Cafagna ammetteva la costituzione di parte civile della Ariete nei confronti delle stesse tre persone contigue al clan Capriati che, secondo l’Ufficio territoriale del governo, sarebbero riuscite a «infiltrarsi nei complessi meccanismi del porto di Bari». Parliamo di un appalto da 1,5 milioni di euro per la gestione della viabilità del porto che rappresenta una piccola parte del fatturato della cooperativa e ne assorbe meno del 5% del personale. I 21 arresti chiesti in aprile dalla pm Isabella Ginefra, che ha qualificato Ariete come parte offesa, hanno riguardato anche Vito Capriati, figlio dello storico capoclan Filippo, e i due responsabili operativi dell’appalto, Giovanni Rossini e Vito Genchi, quest’ultimo procugino di Filippo Capriati, accusati di aver consentito agli uomini del clan di spadroneggiare nel porto. Genchi e Rossini erano stati assunti per effetto della clausola sociale (dal precedente appaltatore) e risultavano incensurati. Capriati, pure lui all’epoca incensurato, era invece transitato dalla Porti Levante Security, la società interamente partecipata dall’Autorità Portuale che si occupa della gestione degli accessi. Tutti e tre sono stati licenziati tra maggio e giugno scorso, dopo gli arresti. Ma per la Prefettura non è sufficiente: «Tale licenziamento, intervenuto poco prima dell’emanazione del provvedimento interdittivo, non solo appare “tardivo” ma ragionevolmente preordinato a preservare il controllo mafioso attraverso l’artificiosa creazione di una “ripulitura” della società». La tesi è insomma che Ariete «non poteva non sapere» chi fosse Vito Capriati, e che la sua presenza (e quella di altri pregiudicati impegnati nell’appalto del porto di Bari, anche loro «ereditati» dai precedenti appaltatori) sia sintomatica «di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società». In questo senso, la Prefettura - che si basa sulle risultanze dell’indagine della Procura e sulle relazioni della Dia - valorizza un episodio dell’agosto 2014, riportato nell’ordinanza di arresto, ovvero la nomina di Genchi a nuovo responsabile operativo dell’appalto: il suo predecessore era il marito di una cugina di Filippo Capriati, da cui aveva divorziato perdendo così il ruolo di responsabilità all’interno del porto dove gli uomini del clan, secondo le indagini, erano in grado di spadroneggiare. La cooperativa, che ha licenziato complessivamente otto persone tra quelle considerate più «critiche» in relazione all’appalto del porto, farà ricorso al Tar. Ma nel frattempo l’interdittiva comporta il diniego all’iscrizione nella «white list» delle imprese, e dunque lo stop alla partecipazione alle gare d’appalto. Gli attuali contratti che Ariete ha in tutta Italia dovrebbero invece andare avanti sotto la gestione di commissari nominati dalla prefettura.

«Vi restituiamo le aziende, purtroppo son fallite…». Il tribunale dissequestra i beni dei Niceta: “Non siete mafiosi”, scrive Errico Novi il 10 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". L’avvocato, Roberto Tricoli, offre un prodigio di eufemismo: «La perizia del Tribunale di Palermo è stata lunga e complessa, alla fine si è accertato che i fratelli Niceta non erano affatto pericolosi, che le accuse di aver alimentato l’attività economica con soldi mafiosi era infondata: ma servono correttivi nelle norme sui sequestri di prevenzione, perché il meccanismo non va». E certo che non va. L’attività economica di Massimo, Pietro e Olimpia Niceta, nello specifico una quindicina di accorsatissimi (un tempo) negozi di abbigliamento tra Palermo e Trapani, è stata incenerita dagli amministratori giudiziari. Ieri la sezione Misure di prevenzione del capoluogo siciliano, ora presieduta dal dottor Raffaele Malizia, ha depositato l’ordinanza di dissequestro. Ha restituito alla famiglia di imprenditori un patrimonio che all’epoca valeva 20 milioni di euro. Peccato che, in 5 anni, sia fallito tutto. Tutto. Non c’è più una vetrina, né un dipendente: solo debiti da quantificare fra i 3 e i 4 milioni di euro. Non li hanno fatti Massimo, Pietro e Olimpia Niceta, no. Loro sono stati estromessi dalla gestione nell’ormai lontano 2013. Fu l’allora presidente della sezione Misure di prevenzione, Silvana Saguto, a ordinare il maxi sequestro. Adesso Saguto è sotto processo a Caltanissetta con tutta la rete di amministratori a cui era solita affidare le aziende. Su di loro incombe un’ottantina di capi d’imputazione. Ma i danni del “sistema” sono irreparabili. E la conferma viene proprio dalla vicenda dei Niceta, felicemente conclusa per modo di dire. «Oggi viene restituito l’onore, ai Niceta e ai loro dipendenti, ma non resta nulla delle loro attività», commenta il dirigente radicale Sergio D’Elia. Che ha praticamente reclutato uno dei fratelli, Massimo, come altre vittime dell’antimafia spericolata, nella campagna del partito di Pannella per cambiare le misure di prevenzione antimafia. E lui, l’imprenditore, si è fatto coinvolgere eccome. Ha girato la Sicilia e non solo con le “carovane della giustizia” radicali. Ha portato la propria testimonianza. E oggi la battaglia per cambiare le norme del Codice antimafia costituisce la sua vera ragione di vita. Ma di quel patrimonio fondato addirittura dal bisnonno dei tre fratelli “riabilitati”, restano solo i debiti fatti dall’assai allegra gestione degli amministratori giudiziari. Come nasce l’uragano che travolge i Niceta? A descrivere la follia della macchina governata fino a pochi mesi fa da una giudice poi radiata dalla magistratura, era stato Massimo Niceta in un’incredibile testimonianza pubblicata sul Dubbio lo scorso 10 aprile. Vale la pena di recuperarne ampie citazioni. «Nel 2009 io e mio fratello Pietro eravamo stati raggiunti da un avviso di garanzia per il reato di intestazione fittizia di beni in concorso con la famiglia Guttadauro. Il procedimento si basava su una serie di intercettazioni e su alcune audizioni di collaboratori di giustizia e, all’esito della naturale scadenza dei 18 mesi di indagini, era stato archiviato in quanto non sussistevano i presupposti per un rinvio a giudizio». Ma, scriveva ancora Niceta, «nel 2013 sulle stesse identiche basi, utilizzando le stesse identiche intercettazioni, siamo stati raggiunti da due diversi provvedimenti di prevenzione patrimoniale e personale. Uno, del Tribunale di Trapani, si è concluso con sentenza passata in giudicato, che ci ha dato ragione su ogni punto. L’altro, a firma della dottoressa Saguto, aveva come oggetto il sequestro del nostro intero patrimonio…». La meccanica sembrerebbe dunque questa: dove c’era un appiglio pur vago, pur smentito da precedenti ordinanze di archiviazione, si sequestrava e si affidava a una rete ben nota di amministratori giudiziari. I quali, scriveva sempre Niceta sul Dubbio nell’aprile scorso, «hanno preso un milione di euro in due anni: ben ventisette persone sono state collocate a vario titolo dentro la mia azienda causando la chiusura di quindici punti vendita e il licenziamento di centoventi dipendenti. Quindi il costo della legalità in realtà è questo: togliere il pane a qualcuno e darlo a qualcun altro che se lo mangia». Nessuno per quelle parole si è azzardato a querelare Niceta. Che ricordava d’altronde come «l’amministratore giudiziario nominato per la gestione del patrimonio» fosse «Aulo Gigante, oggi a processo a Caltanissetta, per fatti relativi alla gestione della nostra azienda». E in quel processo, Massimo e i suoi due fratelli si sono costituiti parte civile. Tutto chiaro? C’è bisogno di altro? Ieri Niceta si è tolto via facebook un bel po’ di sassolini dalle scarpe. Su di lui aveva infierito anche la delegazione M5s alla Regione Sicilia, che lo scorso 2 ottobre aveva protestato per il suo ingresso nella sala intitolata a Piersanti Mattarella in occasione di una delle assemblee radicali. Bersaglio di quegli anatemi era stata, con Massimo, un’altra vittima della giostra dei sequestri antimafia, Pietro Cavallotti, che ieri Niceta ha ringraziato così su facebook: «Con lui abbiamo avuto il coraggio di sognare un cambiamento e abbiamo cominciato un percorso che ci ha permesso di dire a tutti cosa succede con le misure di prevenzione» . Sergio D’Elia spiega di essere «felice per Massimo e per il segnale positivo che arriva dall’ordinanza: è da un anno e mezzo che questo imprenditore lotta, anche insieme con il Partito radicale. Si batte contro un sistema in cui le misure di prevenzione sono stabilite con procedimenti privi di contraddittorio, senza possibilità di difesa», ricorda il segretario di Nessuno tocchi Caino. Il “bello” è che nella legislatura appena trascorsa tale irragionevole compressione dei diritti è stata estesa anche ai reati associativi di corruzione. Un’impennata anziché un dietrofront. L’unica è sperare, in effetti, che casi come quello dei Niceta riaccendano una scintilla anche nel legislatore.

Mala gestio dei beni sequestrati. Prof e avvocati sotto accusa, scrive Riccardo Lo Verso Martedì 9 Ottobre 2018 su Live Sicilia. Un docente universitario, due avvocati e amministratori giudiziari. Per tutti e tre c'è la richiesta di rinvio a giudizio della Procura. Walter Virga, Luca Nivarra e Fabrizio Morabito, il prossimo 22 novembre, conosceranno il loro futuro processuale. L'udienza preliminare è fissata davanti al giudice Filippo Serio. Sono due le vicende che si intrecciano: il sequestro dei beni Rappa e la gestione di una grossa eredità. Furono gli eredi del ricco possidente Bartolomeo Sapuppo ad impugnare il testamento e a farlo annullare dal Tribunale. Il patrimonio era stato gestito fino a quel momento da Nivarra, professore di Diritto privato all'Università, e successivamente da Morabito. Dal 2006 erano stati incaricati dal Tribunale civile di occuparsi degli affitti di una settantina di appartamenti. Nel 2014 il testamento di Sapuppo fu annullato per “incapacità del testatore” e fu ordinato all'amministratore provvisorio di rilasciare i beni agli eredi. Nivarra, in carica fino al 2014 aveva nel frattempo passato l'incarico a Morabito, nominato dal Tribunale su indicazione dello stesso docente universitario. Erano amici e collaboratori. Nonostante le richieste e le diffide degli eredi, Morabito non ha consegnato la documentazione e i rendiconti del patrimonio. E così nel 2016 il Tribunale ha chiesto a un consulente contabile di ricostruire la situazione patrimoniale. Il procuratore aggiunto Sergio Demontis e i sostituti Francesca Dessì e Claudia Ferrari si sono affidati ai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria. Il risultato è spiegato nel capo di imputazione: i due legali si sarebbero appropriati di oltre trecento mila euro di affitti pagati in contanti dagli inquilini e mai versati sul conto corrente. Per coprire gli ammanchi Nivarra avrebbe presentato “relazioni ideologicamente false”. Morabito, invece, si è difeso sostenendo che la colpa era degli inquilini morosi. Da qui l'accusa di peculato contestata ad entrambi. Nel corso delle indagini Morabito ha prima restituito 67 mila euro che, così ha detto, aveva trovato tra i carteggi della gestione, e poi ha effettuato diversi bonifici sul conto corrente della procedura per quasi 99 mila euro. Un modo, dicono gli investigatori, per rendere meno pesante il buco finanziario. Questa indagine è stata riunita con quella per falso e truffa, ipotesi contestate a Nivarra e Virga. Nivarra e l'avvocato si erano conosciuti all'Università. Il prof, infatti, aveva dapprima nominato Virga “cultore della materia nel 2003”, poi era stato relatore della sua tesi di dottorato nel 2007 e infine era stato membro interno nella commissione aggiudicatrice del titolo di ricercatore assegnato a Virga jr nel 2014. Il 2014 è l'anno in cui l'ex presidente delle Misure di prevenzione Silvana Saguto nominò Virga amministratore del patrimonio Rappa (la decisione sul dissequestro o la confisca è attesa nei prossimi giorni). A sua volta Virga scelse Nivarra per alcune consulenze legali: circa 30 mila euro di incarichi inutili anche perché Finmed e Med Immobiliare (due delle società del gruppo Rappa) avevano già dei professionisti. Una duplicazione, secondo l'accusa, decisa per favorire Nivarra.

Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza

Dietro ogni grande boss c'è una (grande) donna, scrivono il 30 agosto 2018 su "La Repubblica" di Teresa Santangelo, Lucia Coco e Virginia Ciancio. Cosa Nostra organizza le vite dei mafiosi dalla nascita alla morte ed in questo il ruolo della donna è centrale. E’ importante porsi una domanda: chi insegna la cultura mafiosa ai figli con il padre spesso assente o latitante? No, le donne, le madri, che creano nell’immaginario dei figli una figura di padre esemplare da imitare. È proprio la donna che insegna ai figli che prima di tutto vi è l’organizzazione mafiosa, all’interno della quale vi è ricchezza, potere: la madre inculca quegli ossimorici “valori negativi” a cui il figlio deve ambire. Alle donne sin da piccole, infatti, viene inculcato che è necessario uccidere per vendicare la morte di un padre, un fratello o un marito. Esse si prostrano davanti le loro bare, ma saranno loro stesse ad ordinare una vera e propria vendetta di sangue. Le donne delle famiglie mafiose rappresentano, di fatto, il loro biglietto da visita con l’esterno. Numerosi sono gli esempi nella storia mafiosa; indubbiamente dietro la violenza di Totò Riina, boss di Corleone e latitante dal 1969 al 1993, c’è stata Ninetta Bagarella. Il suo è un caso emblematico: cresciuta in una famiglia mafiosa, sorella di Leoluca Bagarella, killer e mafioso ha contribuito a radicalizzare un modus operandi et cogitandi tale da pensare d’essere sempre nel giusto.  Non ha salvaguardato i figli pur di non tradire la cultura mafiosa, al punto tale che due di essi, uno addirittura alla pena dell’ergastolo, verranno poi condannati per associazione mafiosa. Altra figura femminile rilevante in Cosa Nostra è stata quella di Giusy Vitale, sorella dei potenti boss mafiosi di Partinico Vito e Leonardo, che, dopo il loro arresto, prese il loro posto all’interno dell’organizzazione. Durante la latitanza dei fratelli fece da tramite per le loro relazioni. Nominata capo mandamento, organizzava omicidi e gestiva il denaro della famiglia. È stata, di fatto, la prima donna condannata per il delitto di associazione mafiosa dalla Procura di Palermo. Collaboratrice di giustizia all’età di 33 anni, venne ripudiata dalla sua famiglia; oggi, all’età di 40 anni vive con i figli sotto il programma di protezione testimoni, senza mai rinnegare il suo passato da criminale, ricusando l’appellativo di “pentita” ed affermando che il pentimento non avrebbe riportato in vita le persone da lei uccise. Un’ulteriore figura di donna, certamente “di rottura” rispetto alle due summenzionate è stata sicuramente Rita Atria.  Figlia di Vito e sorella di Nicolò, esponenti della famiglia mafiosa di Partanna, uccisi dal loro stesso clan, nel 1991, all’età di 17 anni, si presentò spontaneamente dinanzi alle autorità giudiziarie, fornendo utili informazioni sugli affari e sulle dinamiche della cosca. Grazie a Paolo Borsellino riesce a collaborare, nonostante il ripudio da parte di madre e sorella rimaste fedeli al sodalizio, considerata da queste una “infame”. Dopo la morte del giudice, qualche giorno dopo quel 19 luglio 1992, Rita Atria si suicidò buttandosi da un balcone di un appartamento a Roma in cui viveva sotto copertura, comunicando, con il suo gesto estremo, che la mafia aveva vinto contro lo Stato, e anche contro di lei. Nessun compaesano partecipò ai funerali della giovane, e anche in questa occasione verrà trattata con disprezzo dalla propria famiglia. Solo Michela Buscemi, prima donna ad aver testimoniato contro la mafia, fu tra coloro che portarono il suo feretro ai funerali ma, successivamente, la stessa, costituitasi parte civile al maxi processo del 1986, revocò la sua costituzione nel processo a seguito una minaccia telefonica. Malgrado, però, le donne, all’interno della famiglia mafiosa, siano l’anello di congiunzione con il latitante e garantiscano l’omertà o siano loro stesse ad organizzare omicidi e gestire il denaro, vi è poca parità tra uomo e donna – sia livello interno che giudiziale -; si è rilevato, infatti, che vengono comminate ad esse pene senza dubbio più lievi. Da vittime a carnefici, infatti, da sottomesse a padrone del proprio destino, il ruolo della donna ha avuto una veloce evoluzione negli ultimi decenni e non solo nel modo in cui la società le vede, ma anche e soprattutto in termini di diritti, legge e sociologia. Per lungo tempo le teorie criminologiche hanno preso in considerazione fattori sociali, biologici e personali, escludendo la differenziazione di genere e conseguentemente non concependo la figura della “donna criminale”. Secondo questa vecchia prospettiva le donne erano considerate biologicamente e psicologicamente inferiori, paragonate in un certo senso ai bambini. Per questo motivo la devianza femminile non era considerata come un atto cosciente perché si pensava che le donne non fossero capaci di compiere atti o pensieri criminosi volontariamente, bensì che questi derivassero da una malattia mentale o addirittura possessione. Caratteristiche come l’aggressività e la violenza giudicate prettamente maschili, non affini alla figura femminile che veniva perciò esclusa dalle indagini di polizia. La partecipazione delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose è così sempre stata ambigua. Sulla base di questo errato assunto, le donne all’interno del gruppo criminale sono state idealizzate come “vittime inconsapevoli”, sottomesse e servili, ciecamente obbedienti al proprio uomo. Solo da pochi anni la recente criminologia ha iniziato a vedere le figure delle donne come soggetti in grado di delinquere, superando l’antico dogma di donna moglie e madre. Al contrario, le donne, all’interno delle organizzazioni mafiose, sono state in grado di agire indisturbate per molti anni, traendo vantaggio dal modo in cui la società le vedeva. Di conseguenza, nei procedimenti penali, almeno fino agli anni '90, non fu contestata la partecipazione dell'associazione mafiosa o della collusione, ma la possibilità di favoreggiamento di conseguenza che, in presenza di un rapporto familiare, stava operando la causa di punibilità prevista dall'art. 384 c.p. Emblematica è la sentenza emessa nel maggio 1983 dal Tribunale Penale di Palermo che non dispose le misure personali e patrimoniali contro Francesca Citarda, moglie e figlia di due boss, nonostante siano state riscontrate prove circostanziali, incluso il riciclaggio di denaro. Questa sentenza ha sollevato le organizzazioni femminili, perché stereotipi culturali e sentenze sottolineavano la condizione di sottomissione della moglie a suo marito, così come la condizione di ignoranza e inferiorità culturale, per escludere definitivamente la consapevolezza, in relazione alla natura illecita delle operazioni finanziarie effettuate, sebbene le fossero state date merci, società o altri beni e, nonostante la legge Rognoni-La Torre, permettendole di impadronirsi dei beni della mafia, estendendo le indagini anche alla famiglia. Al contrario, al giorno d'oggi, le donne hanno iniziato a essere davvero coinvolte in un ruolo da protagoniste. Quando il boss (padre, marito, fratello che sia) è in prigione, le donne in effetti giocano un ruolo dominante e lo sostituiscono in tutto e per tutto. Di estremo interesse processual-penalistico, sottolineando come la Procura abbia compiuto un’evoluzione ed un’apertura nei confronti delle donne e del loro ruolo all’interno delle organizzazioni mafiose, il dato secondo cui soltanto nel 1996 venne applicato per la prima volta il regime del carcere duro disciplinato dall’art. 41 bis del c.p.p a Maria Filippa Messina. In Italia, poi, la prima donna condannata per reati di mafia è stata Anna Mazza, a capo della Camorra per quasi vent’anni. Mentre la prima donna siciliana condannata per appartenenza a Cosa Nostra è stata invece Maria Catena Cammarata soltanto nel 1998. Le risultanze processuali hanno quindi svelato profili criminali assai strutturati con curriculum pieni di accuse tra le più gravi quali omicidio, tentato omicidio, estorsione ed associazione mafiosa. Donne sempre più frequentemente sottoposte al 41 bis come Nella Serpa, una vera e propria donna boss, capo cosca della ‘ndrangheta di Paola, Cosenza. Per non parlare di figure intimidatorie e violente di madri dell’area barese, come testimoniato dalle sequenze televisive della recente aggressione alla giornalista RAI Maria Grazia Mazzola. Dunque si è finalmente prospettata l’applicazione del regime del 41 bis anche per le donne mafiose.   Come è noto, il regime di carcere duro è fondato sulla necessità di isolamento dei detenuti con l’esterno onde evitare qualsiasi rapporto con altri esponenti mafiosi. Essi vivono in spazi ridottissimi, avendo a disposizione una sola ora d’aria giornaliera ed un colloquio al mese concesso con la famiglia. C’è, però, chi non ce l’ha fatta a resistere in queste condizioni, come nel carcere delle Costarelle, l’Aquila, dove la detenuta Diana Blefari, non riuscendo a sopravvivere a tali restrizioni, si suicidò.  Qui le detenute vivono in condizioni estreme e in celle dalle dimensioni molto ridotte.  Ecco che, a 25 anni dall’introduzione nel nostro ordinamento del regime di carcere duro della Legge 26 luglio 1975 n. 354, interviene la circolare n. 3676/6126 diramata il 2 Ottobre u.s. dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai Provveditori Regionali e ai Direttori degli Istituti penitenziari. Tale circolare regolamenta la detenzione speciale affinché si garantisca l’uniformità di applicazione, evitando forme di arbitrio di carattere afflittivo. Inoltre, come recita il testo, si definiscono “le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al Direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; la limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; la possibilità di tenere all’interno della camera detentiva libri ed altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; la possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti ed il loro contatto con i familiari”. Sicuramente una normativa più giusta, in attesa della riforma del sistema penitenziario, che si avvicini di più alla trasparenza e guardi al rispetto dei diritti umani.

«Così il sistema Saguto spolpava le aziende e arricchiva gli amici». Gli stipendi d’oro degli amministratori nominati dall’allora presidente delle misure prevenzione, scrive il 18 Agosto 2018 "Il Dubbio". Quella che è segue è la testimonianza portata da Vincenzo Mogavero all’assemblea del Partito radicale svolta a Capo d’Orlando lo scorso 30 luglio. Mogavero è tuttora dirigente di un’azienda che negli anni scorsi era stata indebitamente posta sotto sequestro per presunti legami con la mafia del suo proprietario, legami di cui un processo penale ha poi svelato l’insussistenza. Mi chiamo Vincenzo Mogavero e sono il responsabile del personale della “Abbazia Santa Anastasia”. L’azienda ha sede a Castelbuono, in Provincia di Palermo, e svolge due attività: quella vinicola e quella di ricezione alberghiera nel contesto di un agriturismo a cinque stelle. Dal 2001 al 2008, la cantina è stata dotata di moderne attrezzature per la produzione di vini biologici e di alta qualità, mentre l’esistente antico monastero dei benedettini, con relativa chiesa per il culto, è stato trasformato in un resort di 29 camere dotato di sala ristorazione, sala conferenza e piscina. Nel giugno del 2010 il proprietario, il signor Francesco Lena, è stato arrestato con l’infamante accusa di mafia. Contestualmente, l’azienda è stata posta sotto sequestro preventivo penale ed è stato nominato un amministratore giudiziario che, sin da subito, ne accresciuto vertiginosamente i costi. Se prima la gestione era condotta dal proprietario, dai due figli, dagli impiegati, da un commercialista e da un consulente del lavoro, l’amministrazione giudiziaria ha costituito un Consiglio di Amministrazione formato da ben tre persone che hanno percepito un corrispettivo mensile di 9.000 euro ciascuno. I componenti del Consiglio di Amministrazione, in mancanza di liquidità, pur di pagarsi le parcelle, hanno svenduto a un importo di 20mila euro un mezzo aziendale che aveva un valore di 90mila euro. Il figlio del signor Lena è stato allontanato dall’azienda e, al suo posto, è stato assunto il parente di uno dei membri del Consiglio di Amministrazione che ha fatto “crollare” le vendite. Nel novembre del 2011 il signor Lena è stato assolto e il Consiglio di Amministrazione è decaduto. Tuttavia, per effetto del sequestro di prevenzione nel frattempo disposto dal Tribunale di Palermo, sezione Misure di prevenzione, allora presieduto dalla dottoressa Silvana Saguto, è stato nominato un nuovo amministratore giudiziario, il dottor Scimeca, che ha inaugurato nei confronti di tutti i dipendenti un vero e proprio regime del terrore. Scimeca ha cercato di estorcere da me dichiarazioni su inesistenti atti illeciti compiuti da Lena in seno all’azienda, finendo col notificarmi una contestazione disciplinare, all’evidente scopo di licenziarmi. “Quali intrecci devo riferire?”, rispondevo. Replicavo che in azienda non si era mai svolto lavoro in nero; che l’azienda rispettava tutte le norme in materia di sicurezza; che possedeva tutte le autorizzazioni indispensabili per esercitare una attività avviata con risorse economiche tracciate nei conti correnti bancari. L’amministratore giudiziario, appena insediatosi, assunse un coadiutore che, senza alcuna esperienza, organizzava e gestiva l’attività con l’autorità di un padrone. Fu assunto anche un agronomo che, a differenza del suo predecessore – il quale percepiva emolumenti non superiori 12mila euro annui, spese incluse – incassava 29mila euro all’anno, oltre al vitto ed all’uso dei mezzi aziendali. Lo stesso ha arrecato un grave danno alle colture. Non eseguendo sui vigneti le lavorazioni necessarie, ha dimezzato la produzione. Ciononostante, gli veniva corrisposto un “premio di produzione” di 12mila euro. Venne assunto anche un soggetto che avrebbe dovuto occuparsi della vendita del vino, cui fu corrisposto uno stipendio di 28mila e 800 euro. Quest’ultimo si dimostrò da subito incompetente: banchettava e ospitava i suoi amici a spese dell’azienda. Venne assunto inoltre un “esperto del turismo” con uno stipendio di 15mila e 600 euro che si recava in azienda non più di una volta a settimana portando con sé, alla stessa stregua del collega responsabile delle vendite, amici che mangiavano a spese della azienda. Oltre all’assunzione di figure professionali non adeguate, l’amministrazione giudiziaria ha messo in atto scelte gestionali antieconomiche che vanno dalla produzione di grappa (mai finita né commercializzata) alla creazione di altre linee di vino e di spumanti, noncurante delle reali esigenze di mercato e della difficoltà di immissione dei prodotti nei vari segmenti commerciali. Il signor Lena adesso si ritrova tra le mani una serie di prodotti estranei alla linea storica aziendale. A dicembre del 2016 il nuovo collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ha revocato l’incarico al dottor Scimeca che, come si evince da alcune intercettazioni telefoniche, aveva ordito insieme alla Saguto una “truffetta” per fare fallire le società del signor Lena. A gennaio del 2017 si è insediato un altro amministratore giudiziario con il compito di verificare l’operato del suo predecessore. A maggio del 2018, dopo otto anni di processo, ciò che rimane dell’azienda è stato riconsegnato al signor Lena, a seguito della revoca del sequestro disposta dal nuovo collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo.

"Negati i diritti umani di Provenzano": la Corte europea condanna l'Italia. Il boss rimase in regime di carcere duro fino alla morte. Per i giudici di Strasburgo negli ultimi 4 mesi fu violato il suo diritto di non essere sottoposto a trattamenti degradanti. Il pm Di Matteo, che si occupò del caso: "E' stato costantemente ricoverato in strutture civili ricevendo le cure necessarie", scrive il 25 ottobre 2018 "La Repubblica". La Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia perché decise di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 alla morte del boss mafioso, avvenuta 4 mesi dopo. Secondo i giudici, il ministero della giustizia italiano ha violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Allo stesso tempo la Corte di Strasburgo ha affermato che la decisione di continuare la detenzione di Provenzano non ha leso i suoi diritti. Provenzano morì il 13 luglio 2016 mentre era detenuto al regime di 41 bis nell'ospedale San Paolo di Milano. Il decesso arrivò dopo un lungo periodo di malattia e numerose polemiche sulle sue condizioni di detenzione. Prima della morte i medici gli avevano diagnosticato un grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento. Nelle loro conclusioni i medici dichiaravano il paziente "incompatibile con il regime carcerario", aggiungendo che "l'assistenza che gli serve è garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza". Di parere diverso i provvedimenti del ministero della Giustizia, che si fondavano sui pareri della direzione distrettuale antimafia di Palermo e della direzione nazionale antimafia. Dice oggi il sostituto procuratore Nino Di Matteo, ex pubblico ministero del processo "Trattativa Stato-mafia" in cui il boss era imputato: "Provenzano, benchè sottoposto al regime del 41 bis, negli ultimi anni è stato pressocchè costantemente ricoverato presso strutture ospedaliere civili fruendo delle cure necessarie approntante da medici specialisti di quelle strutture. Il 41 bis quindi - prosegue Di Matteo - non ha certamente impedito a Provenzano di essere assistito e curato probabilmente meglio di quanto avrebbe potuto essere assistito e curato se fosse stato rimesso in libertà". Dice ancora Di Matteo: "Spero che la precisa ricostruzione dei fatti, così come realmente avvenuti, blocchi sul nascere eventuali strumentalizzazioni finalizzate a rivedere il sistema del 41 bis, che è stato e resterà fondamentale nell'impianto complessivo di contrasto efficace alle mafie". Da anni l'avvocato del boss, Rosalba Di Gregorio, chiedeva la revoca del regime carcerario duro e la sospensione dell'esecuzione della pena per il suo assistito, proprio in virtù delle sue condizioni di salute. Il legale aveva presentato due istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell'esecuzione della pena. Tutte sono state respinte. "Quella che abbiamo combattuto - dice Di Gregorio - è stata una lotta per l'affermazione di un principio e cioè che applicare il carcere duro a chi non è più socialmente pericoloso si riduce ad una persecuzione". Adesso Di Gregorio attende di leggere il provvedimento: "Non ci è stato notificato. dice - perché la decisione è stata presa al termine di un procedimento camerale, ma da quanto ci hanno riferito la Cedu non avrebbe stabilito un risarcimento. Per noi era importante l'affermazione del principio, questa battaglia non aveva come fine l'ottenere risarcimenti monetari". "Se lo Stato risponde al sentimento di rancore delle persone, alla voglia di vendetta, lo fa a discapito del diritto - commenta invece il figlio del boss, Angelo Provenzano - Questo credo sia ciò che la Corte di Strasburgo ha affermato sul 41 bis applicato a mio padre dopo che era incapace di intendere e di volere".

Il governo: "Il 41 bis non si tocca". Gli esponenti del governo sono invece fermi nel ribadire la necessità del 41 bis. "I comportamenti inumani - commenta invece il vicepremier Luigi Di Maio- erano quelli di Provenzano. Il 41bis è stato ed è uno strumento fondamentale per debellare la mafia e non si tocca. Con la mafia nessuna pietà". Per l'altro vicepremier Matteo Salvini si tratta invece dell'"ennesima dimostrazione dell'inutilità di questo ennesimo baraccone europeo. Per l'Italia - scrive - decidono gli italiani, non altri". "Rispetto questa sentenza - dice invece il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - ma non la commento. Voglio sottolineare solo una cosa: il 41 bis non si tocca".

Maria Falcone: "Strasburgo non mette in discussione il 41bis". "La sentenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo - annota Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso a Capaci - non mette in discussione il 41 bis che, impedendo ai boss di continuare a comandare anche dal carcere e spezzando il legame dei capimafia col territorio, è stato e rimane uno strumento irrinunciabile nella lotta alla mafia". "Da Strasburgo neanche quando sono morti ci risparmiano di menzionarli, e ci ricordano i nostri aguzzini, caso mai cercassimo di dimenticarli - dice invece Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili - Dove era Strasburgo dei diritti dell'uomo la notte del 27 maggio 1993 quando Provenzano ha mandato i suoi uomini a Firenze ad ammazzarci per far annullare il 41 bis, giusto sulla carta bollata? La Corte di Strasburgo ci offende, ci fa indignare mentre riconosce i diritti ai mafiosi post mortum e non batte un colpo sul fronte delle vittime di mafia". “Credo che Provenzano sia stato privato del diritto di morire nella sua abitazione con la sua famiglia vicina, lui come altri - osserva infine Claudio Fava, presidente della commissione regionale Antimafia della Sicilia, in un'intervista a InBlu Radio - Se fosse dipeso da me nel momento in cui si avviava verso la fine dei suoi giorni, lui come Riina, avrei immaginato che potesse chiudere suo tempo sulla terra in modo più umano invece che in una stanza d’ospedale guardata a vista e blindata. Il giorno in cui noi saremo in condizione di fare a meno del 41 bis sarà una vittoria non solo dal punto di vista dell’umanità della pena ma anche perché sarà una vittoria dal punto di vista della sicurezza”.

La Cedu: «Non si torturano neanche i boss mafiosi». La Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per il 41 bis a Bernardo Provenzano morente, scrive Damiano Aliprandi il 26 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". L’Italia condannata per aver rinnovato il 41 bis a Bernardo Provenzano, violando così il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Una condanna che arriva, a camere chiuse, dalla Corte europea dei diritti umani. Un ricorso presentato tempo orsono dall’avvocata Rosalba Di Gregorio, divenuta il difensore di fiducia di Bernardo Provenzano. La Corte aveva chiesto una serie di documenti e approfondimenti al governo italiano. La sentenza giunge a più di due anni di distanza della morte dell’ex capo della mafia che dal punto di vista celebrale era gravemente compromesso, in stato vegetativo tanto da essere nutrito con un sondino. Da diverso tempo, prima di morire, era in coma. Eppure, nonostante diverse istanze che chiedevano la revoca del regime duro, Provenzano alla fine è deceduto senza che i familiari potessero dargli l’ultima carezza. Morì in una stanza singola dell’ospedale San Paolo di Milano, video- sorvegliato tutto il giorno e con le ristrettezze afflittive contemplate dal regime duro come appunto il vetro blindato, che nel gergo carcerario viene chiamato “l’acquario”. I familiari potevano vederlo solo una volta al mese, dietro un vetro, e tentare di parlagli tramite un citofono che uno del Gom (gruppo operativo mobile) gli teneva vicino all’orecchio. Ovviamente del tutto inutile, visto che Provenzano non rispondeva, né riusciva ad aprire gli occhi. La sentenza della Corte di Strasburgo ripercorre la storia di Provenzano e la sua vicissitudine clinica durante la detenzione al 41 bis. Indica ovviamente il contesto, spiegando che Provenzano era stato in fuga per oltre quaranta anni, ed era stato poi arrestato l’11 aprile 2006. Parecchie serie di procedimenti penali furono avviate contro l’ex capo della mafia, al seguito delle quali arrivarono le condanne a venti ergastoli per omicidio multiplo, tentato omicidio aggravato, traffico di droga, rapimento, coercizione criminale, furto aggravato, possesso illegale di armi da fuoco e, naturalmente, appartenenza a Cosa Nostra. Altri procedimenti penali erano ancora pendenti nei confronti di Provenzano. Nell’ambito di uno di tali procedimenti – esattamente il processo sulla cosiddetta trattativa stato – mafia, il 7 dicembre 2012 il Giudice istruttore preliminare del Tribunale distrettuale di Palermo aveva ordinato una valutazione da parte di esperti sulla salute del richiedente al fine di valutare la sua capacità di comprendere e quindi alla possibilità di partecipare razionalmente all’udienza preliminare. Il 12 dicembre 2012 gli esperti nominati dal tribunale effettuarono un primo esame. Che però non arrivò a una conclusione perché il 17 dicembre 2012 l’ex boss fu sottoposto ad intervento chirurgico per rimuovere un ematoma subdurale dal suo cervello. Sulla base del loro primo esame e delle cartelle cliniche di Provenzano, gli esperti riferirono comunque che mostrava una ridotta consapevolezza e reattività nei confronti dell’ambiente circo- stante, nonché una limitata capacità di esprimersi. Con un’ordinanza dell’8 gennaio 2013 il Gup rinviò il procedimento nei suoi confronti. Nello stesso periodo furono organizzate numerosi consulti specialistici e Provenzano fu esaminato da un cardiologo, uno specialista in malattie infettive, un urologo, un endocrinologo, un otorinolaringoiatra uno pneumologo, un ortopedico, un fisiatra e uno specialista in nutrizione. Furono eseguiti numerosi test diagnostici su di lui. Il 7 giugno 2013 fu trasferito all’Ospedale di Parma, dove è rimasto fino al suo trasferimento al Centro di Trattamento e Diagnostica (centro diagnostico terapeutico) del carcere Opera di Milano. Il 9 aprile 2014 venne ricoverato, sempre al 41 bis, dell’Ospedale San Paolo di Milano, e ci rimase fino alla morte.

Secondo la più recente relazione medica in archivio, rilasciata dall’ospedale San Paolo di Milano nell’aprile 2015, la situazione neurologica del richiedente era stabile, sebbene il suo progressivo declino nel funzionamento cognitivo viene descritto come grave. È costretto a rimanere al letto, ha un catetere urinario e riceve il suo supporto nutrizionale attraverso un sondino naso- intestinale. La sua situazione si è ulteriormente aggravata, portandolo a uno stato comatoso fino a morire il 13 luglio del 2016. Ora la Corte di Strasburgo condanna il governo dicendo che gli è stato rinnovato il 41 bis, nonostante i referti accertassero il suo grave stato di salute. La Corte, indirettamente, punta l’indice anche sulle relazioni della Dda di Palermo, che riteneva la necessità del 41 bis (ancora capace di mandare messaggi all’esterno e quindi resta un soggetto pericoloso, requisito che la legge richiede per il mantenimento del regime detentivo speciale) senza prendere in considerazione i referti medici che attestavano il suo stato vegetativo. Secondo la Corte, l’Italia ha quindi violato l’articolo 3 della Convenzione in cui si dice che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Raggiunta da Il Dubbio, l’avvocata Rosalba Di Gregorio, ha espresso felicitazioni per la sentenza di condanna e racconta la sua battaglia legale per chiedere la revoca del 41 bis. «Non ho mai fatto alcuna istanza di scarcerazione – ci tiene a sottolineare l’avvocata -, ma ho chiesto la revoca del 41 bis in tutte le sedi possibili, a Parma, Milano e a Roma. A questo si aggiunge che i tre ministri della Giustizia che si sono susseguiti, quindi la Severino, la Cancellieri e infine Orlando, si sono preoccupati di rinnovare il 41 bis nonostante Provenzano non fosse capace di intendere e di volere, infatti avevamo ottenuto dal tribunale di Milano la nomina dell’amministratore di sostegno perché incapace, appunto, persino di capire le notifiche che gli arrivavano. Ma per i ministri che si sono susseguiti, il regime duro era necessario». La Di Gregorio non riesce ancora a capacitarsi di quei rinnovi, visto che lo scopo del 41 bis è quello di mantenere misure speciali nei confronti di chi è ancora pericoloso e quindi potenzialmente abile nel comunicare con l’esterno. «L’ultima istanza che feci era al tribunale di Milano, per chiedere che Provenzano fosse spostato dal regime duro dove era ricoverato all’ospedale San Paolo, a un reparto diverso per consentire ai parenti di poterlo salutare senza il vetro divisorio». La risposta è stata paradossale. «Il tribunale – spiega Di Gregorio – rispose che Provenzano era curato meglio al 41 bis; feci ricorso alla Cassazione che purtroppo confermò la motivazione». Alla luce di tutti questi dinieghi che si erano succeduti, l’avvocata Di Gregorio si dice soddisfatta delle sentenza che è giunta dalla Corte Europea. «Ripeto che non chiedevamo nessuna scarcerazione, nessuna richiesta dei domiciliari, ma semplicemente la revoca del 41 bis. Questa sentenza ci dà ragione, perché certifica che il Diritto è stato messo sotto i piedi».

L’avvocata di Provenzano: «Quanti sconosciuti lasciati morire al 41 bis», scrive Valentina Stella il 12 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista alla legale Rosalba Di Gregorio che difese il vecchio boss: «Ci sono centinaia di persone in condizioni gravemente malate solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa». Riina, il cosiddetto carcere duro, alla presunta trattativa Stato-mafia. Di questi temi parla l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di numerosi boss come Bernardo Provenzano. «Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa».

Continua a tenere banco la condizione di salute di Riina rispetto ai suoi status di detenuto e imputato. Dello stato di salute di Provenzano non si discusse con lo stesso approfondimento.

«Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato: quando la Suprema corte afferma che bisogna motivare sull’attualità della pericolosità. Sostiene cose talmente ovvie, scontate e conformi al diritto che non ci sarebbe proprio da discuterne, se non per dire che andrebbe applicata a chiunque. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose dal punto di vista sanitario, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa. Vorrei chiedere all’onorevole Bindi perché non è andata a verificare anche le condizioni di salute di Provenzano, quando all’epoca la stampa se ne occupò dopo che sollevammo l’incompatibilità con il 41bis per una persona che era un vegetale. Perché non sono andati a visitarlo quando anche lui era a Parma? Io ho documentato che quando si ritiravano le magliette intime di Provenzano erano intrise di urina perché lì gli cambiavano il pannolone solo due volte al giorno e quindi poi l’urina arrivava dappertutto, fino al collo. Ho fatto fare persino il test del Dna sull’urina perché non si dicesse che non era la sua. Tutto è stato denunciato alla Procura di Parma che naturalmente ha archiviato. Ora l’onorevole Fava della commissione Antimafia dice che le condizioni di Riina non sono paragonabili a quelle di Provenzano: allora deduco che all’epoca la Commissione era in ferie».

L’Antimafia all’epoca era senza dubbio attiva: quale altra spiegazione si può trovare?

«Si scelse di dare una risposta ai familiari delle vittime lasciandolo al 41bis. Ai quali va tutta la mia comprensione, ma i problemi giuridici andrebbero affrontati in quanto tali».

Rita Dalla Chiesa, dice "mio padre non ha avuto una morte dignitosa": perché concederla a Riina?

«Il dolore è comprensibile, la solidarietà è massima, ma ciò non significa che uno Stato di diritto possa abrogare o non applicare le norme perché esiste la sofferenza delle vittime».

La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, al termine della visita a Parma dove ha verificato le condizioni di Riina, ha dato l’impressione di voler anticipare la sentenza del Tribunale di Bologna sul differimento pena.

«È bene precisare che la Commissione è andata nel reparto detenuti 41 bis dell’ospedale Maggiore di Parma. Io invito tutti invece ad andare al carcere per rendersi conto se quello al suo interno è un centro clinico e se non ci dobbiamo vergognare dei nostri cosiddetti centri clinici nei penitenziari. Ma per tornare alla domanda, a me hanno insegnato che siamo in una Nazione in cui il potere giudiziario è indipendente da quello politico. Non credo che i parlamentari dell’Antimafia abbiamo acquisito capacità medico diagnostiche e possano stabilire, con uno sguardo, al posto dei Tribunali, cosa sia giusto per un detenuto. Io non ne faccio un problema per Riina ma per tutti i reclusi. Il 41 bis si lascia ai soggetti pericolosi».

Bindi è certa che Riina sia "ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia".

«Per principio lo dice. E così si disse di Provenzano. Bisogna che si mettano d’accordo su chi era il capo dei capi. Se muore anche Riina avremo allora una organizzazione acefala».

Lei ha lanciato un appello ai politici affinché visitino i reparti del 41 bis.

«Più che un appello era una sfida che credo nessuno raccoglierà mai. Per fare una cosa del genere bisogna recarsi lì all’improvviso e visitare tutte le sezioni, non solo quelle che vogliono farti vedere i direttori delle carceri».

Sul 41 bis si sono espresse riserve sia nella relazione di Luigi Manconi sia negli Stati generali dell’esecuzione penale.

«Il problema è la modalità di attuazione del 41 bis, ovvero la vivibilità in termini umani. E che si tratta di un provvedimento emergenziale diventato la norma. Non ci può essere una presunzione della presenza del contatto del detenuto con l’organizzazione criminale. Ci devono essere segnali precisi, per ipotizzare che il recluso stia veicolando ordini all’esterno. I pareri sulla permanenza al 41 bis vengono elaborati dal profilo criminale, dalle vecchie schede, ma c’è gente nel carcere che dopo anni ha fatto percorsi di ravvedimento, di cui nessuno prende atto».

In realtà come ha documentato Ambrogio Crespi nel docufilm Spes contra Spem, prodotto da Nessuno Tocchi Caino, anche persone che hanno commesso 40 omicidi dopo decenni possono riabilitarsi.

«Il problema oggi, e lo ha detto il presidente del Senato Grasso, è che o accedi alla collaborazione oppure si deduce che non vi è stata rivisitazione critica del proprio vissuto. Teoricamente si dovrebbero trasformare tutti in collaboratori di giustizia».

C’è il rischio che non si abbia nulla da dire e che si offrano false informazioni su cui poi però si imbastiscono processi.

«Il problema è a monte: lo Stato non può pretendere di usare il 41 bis per farti pentire».

Al processo Borsellino bis, Vincenzo Scarantino ha mandato al 41 bis per 20 anni degli innocenti.

«Il Borsellino quater ha stabilito che Scarantino è stato indotto a ‘ collaborare’. Si può presupporre un mancato vaglio da parte dei magistrati, prima inquirenti poi giudicanti, sul lavoro degli investigatori. Che cosa c’è stata a fare tutta la Procura in questi anni?»

Del processo Borsellino quater si è parlato pochissimo.

«L’agenda rossa di Borsellino non l’ha presa Toto Riina e neppure Graviano, non se ne facevano niente. Se Borsellino avesse annotato "la Mafia mi fa schifo" era una notizia già nota ai mafiosi. Dal processo è emerso l’intervento di terzi un po’ più in alto rispetto a quelli che io considero esecutori del depistaggio, a partire da dirigenti della Polizia, e a qualcuno non fa comodo che si sappia».

Capitolo "trattativa": Mori è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia per non aver catturato Provenzano quando si poteva.

«Non ho letto le carte processuali, ma qualcosa si può dedurre dal fatto che c’è una triplice conformità sull’assoluzione. O buttiamo via i processi o dobbiamo prendere atto di queste sentenze».

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato come inedita la dichiarazione di Graviano secondo cui Pannella nell’ 87 andò in carcere a raccogliere iscrizioni tra i detenuti.

«Da sempre in carcere si trova sostegno per le battaglie garantiste. Non mi pare una notizia che possa scalfire l’immagine del Partito radicale».

Al 41 bis a 90 anni suonati: si chiama crudeltà di Stato, scrive Damiano Aliprandi il 18 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Follia nel carcere di Parma dove tre ultra novantenni sono reclusi in regime di carcere duro, uno di loro, Francesco Barbaro, ha il morbo di Alzheimer. La denuncia di Rita Bernardini. Nel carcere di Parma ci sono almeno tre detenuti novantenni reclusi al 41 bis (cioè nel regime di carcere duro), tra i quali uno che presenta i sintomi dell’Alzheimer. L’istituto di Parma è un carcere di alta sicurezza noto per aver ospitato negli ultimi anni detenuti al 41 bis come Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio dello scorso anno), Raffaele Cutolo (il fondatore della Nuova Camorra Organizzata), Totò Riina (che ha raggiunto la soglia degli 86 anni) e Massimo Carminati che è in attesa di giudizio. Poco noto il fatto che al 41 bis ci sono numerosi detenuti ultra ottantenni, tra i quali Francesco Barbaro – 90 anni compiuti il 13 maggio scorso – che presenta patologie cliniche incompatibili con la carcerazione speciale. A rivelarlo è Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale. Dalla cartella clinica penitenziaria, sempre secondo l’esponente radicale, è emerso che Barbaro presenta dei deficit cognitivi, disturbi della memoria e altre patologie legate alla sua età avanzata. Al momento risulta che non ci sono criticità tali da ricoverarlo d’urgenza, ma potrebbe da un momento all’altro peggiorare. Infatti gli stessi sanitari dell’istituto penitenziario avrebbero espresso il parere favorevole per un suo trasferimento. Eppure, nonostante ciò, persiste la carcerazione speciale al 41 bis in quanto è considerato ancora un soggetto pericoloso e in grado di mantenere rapporti con la criminalità organizzata. Francesco Barbaro, detto U castano, appartenente alla ‘ ndrangheta, era conosciuto negli anni 80 come il re dei sequestri. Fu arrestato il 5 gennaio del 1989 e detenuto fino al 5 febbraio del 2013. Dopodiché, all’età di 88 anni, accusato di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio del brigadiere dei carabinieri Antonino Marino, ucciso a Bovalino il 9 settembre del 1990, viene arrestato a settembre del 2015 e condannato all’ergastolo. Avendo avuto un passato di ‘ndranghetista, l’ergastolo lo sta scontando tuttora nel regime del 41 bis. La sezione speciale del 41 bis del carcere di Parma, più che a un carcere assomiglia sempre di più a un ospizio per anziani con problemi di salute e acciacchi dovuti dall’età. L’età media continua ad alzarsi. A confermarlo è il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri. Raggiunto da Il Dubbio, spiega che attualmente alla sezione del 41 bis vi sono reclusi 65 detenuti, con l’età media che raggiunge quasi i 65 anni. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario. Sì, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Infatti, appena si liberano i pochi posti della sezione terapeutica alla quale l’amministrazione penitenziaria assegna i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso, subito vengono rimpiazzati da coloro che stanno male. A tal proposito il garante Cavalieri spiega che tale reparto – adibito per un massimo di 30 posti – è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari: inviano i loro detenuti (anche comuni) malati che, una volta superata la fase diagnostica, rimangono nel carcere. Cavalieri, riferendosi al reparto sanitario, parla di un vero e proprio “parcheggio”. Ma non solo. Il garante denuncia che nell’ospedale parmense c’è il “repartino” adibito per i detenuti che necessitano di cure urgenti. Non a caso viene definito con un diminutivo: è composto solo da tre stanze e attualmente vi sono ricoverati tre detenuti del 41 bis. Pluri-ottantenni anche loro. Una assistenza sanitaria così carente che va a sommarsi alle patologie legate sia alla vecchiaia che alla salute precaria dei detenuti reclusi nell’istituto penitenziario. Il garante Cavalieri spiega che il carcere di Parma è una casa di reclusione che al suo interno è suddivisa in quattro strutture: una per i detenuti in alta sicurezza (AS3), un’altra per i detenuti comuni di media sicurezza, un’altra ancora per l’alta sicurezza per gli ex 41 bis (AS1) e infine il 41 bis. In totale risultano 610 detenuti, il 10% dei detenuti ha più di 65 anni e – secondo una stima del garante – tra 10 anni raddoppieranno. Il 17% hanno 5 o più diagnosi croniche: patologie respiratorie, delle arterie, cerebrovascolari, delle basse vie respiratorie e quelle osteoarticolari registrano valori di prevalenza più che doppi per il servizio. Una vera e propria bomba sanitaria che produce disagio e ostruisce i percorsi di riabilitazione prevista dalla nostra costituzione. Un problema che porta al disagio psichico fino a concludersi anche con il suicidio. Come già denunciato dal garante Cavalieri, l’ultimo suicidio avvenuto al carcere di Parma riguarda un 76enne che viveva in un reparto per disabili. Lo scorso aprile invece un uomo di 62 anni, A. T. cittadino italiano, è deceduto in una sezione di alta sicurezza dopo che da diverso tempo protestava per le sue precarie condizioni di salute e la insufficienza delle cure ricevute. Sul caso, sentito il legale del detenuto, si è potuto appurare che alcuna diagnosi era stata ancora rilasciata dai sanitari.

A proposito del 41 bis il garante ci ha consegnato questa sua riflessione: «L’attenzione per questi detenuti va posta al fine di evitare l’innescarsi di fenomeni afflittivi limitando gli strumenti di impedimento all’esercizio della libertà personale alle sole attività finalizzate all’impedire la relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono quindi legittime ma non lo sono quelle che rendono più intollerabile la pena». Ad esempio si domanda che bisogno c’è – come accade al carcere parmense di puntare la videocamera anche sul water?

Mafia, stampa, tv: i casi celebri trattati dalla Cedu. Da Contrada a Ricci di «Striscia la notizia», quanti ricorsi contro le sentenze nazionali, scrive Mercoledì 01/03/2017 "Il Giornale". Dal superpoliziotto Contrada ad Antonio Ricci di Striscia la notizia. La Corte di Strasburgo è intervenuta spesso su temi e personaggi di rilievo dell'attualità italiana. I casi più numerosi, almeno nel passato, hanno riguardato due tradizionali pecche del sistema giudiziario del nostro Paese (sesto per casi pendenti dopo Ucraina, Turchia, Ungheria, Russia e Romania): il sovraffollamento delle carceri e l'eccessiva lunghezza dei processi. Le sentenze della Cedu hanno portato all'approvazione della cosiddetta legge Pinto che prevede il diritto di richiedere un risarcimento per il danno subito per l'irragionevole durata dei procedimenti (anche questa legge è stata però oggetto di numerosi ricorsi). Nel 2015 è arrivata la sanzione al nostro Paese per la pena inflitta a Bruno Contrada, ex capo della squadra mobile di Palermo e numero tre del Sisde, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il principio violato, secondo Strasburgo, era quello dell'irretroattività della pena: le condotte sotto accusa erano precedenti all'elaborazione giurisprudenziale della figura di reato. Del 2014 è invece la pronuncia contro l'Italia per il processo e la multa Consob affibbiata a Franco Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e Virgilio Marrone per la vicenda dell'«equity swap Fiat». Pochi giorni fa, invece, a essere sconfitto è stato Marco Travaglio: era stato condannato per diffamazione ai danni di Cesare Previti e aveva fatto ricorso. La Corte gli ha dato torto. Quanto ad Antonio Ricci, Striscia la Notizia aveva divulgato un fuori onda tra il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi. Su richiesta della Rai era stato processato e condannato. Per la Corte, i magistrati italiani hanno violato il principio di libera espressione del pensiero.

Così la sentenza Cedu su Contrada è andata “di traverso” alla giustizia italiana. Come, dopo 25 anni, si arrivati da Strasburgo all'assoluzione dell'ex superpoliziotto, scrive Fabio Cammaleri il 17 Luglio 2017 su "Il Dubbio". La vicenda di Bruno Contrada, nonostante tutto, è ancora stretta fra parole un po' esoteriche e un po' tartufesche: come solo quelle del diritto, quando vogliono, sanno essere. Da un lato, il “titolo di reato”, che non c’era, ma fecondo di dieci anni di reclusione; dall’altro, una condanna che, pur divenuta “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, rimane tale. Il “titolo di reato” è l’attribuzione ad una condotta umana di un certo valore criminoso; l’Autorità Giudiziaria penale esiste in ragione di questo potere di attribuzione. Perciò, quando se ne discute, non si discute di una parte: ma del tutto. E, sappiamo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, decidendo sul ricorso “Contrada contro Italia”, ha sancito che questo benedetto “titolo”, il c.d. “concorso esterno in associazione mafiosa”, doveva esistere al tempo dei fatti, poi contestati; e, invece, allora non esisteva. L’ignaro di mirabilia giuridiche si aspetterebbe che finisca lì. Perché, allora, quella formula? Alla fine della fiera, sembra che la proposizione “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, implichi una sorta di significato “suicida”. Come se, dichiarato “inesistente” il “titolo”, contasse averne almeno un feticcio: sterilizzato, ma con un residuo stigmatizzante. Contrada in questa storia ha fatto lo scalatore e, anche dopo Strasburgo, ha dovuto seguitare a farlo. Provato la revisione (Novembre 2015), e a Caltanissetta avevano respinto; poi, il ricorso straordinario per “errore materiale o di fatto” (Luglio 2016), e la Cassazione l’aveva dichiarato inammissibile; quindi, “l’incidente di esecuzione” a Palermo, per ottenere “la revoca” della sentenza, e lì, la Corte di Appello aveva dichiarato inammissibile pure quella richiesta. Alla fine, la Cassazione ha annullato senza rinvio tale ultimo diniego: tuttavia, decidendo nei termini visti. Si ha l’impressione che la sentenza CEDU su Bruno Contrada sia andata di traverso al sistema giudiziario italiano. Perciò, cavillare, sopire. Il punto è che quella pronuncia era stata dirompente non solo, e non tanto, perché aveva censurato l’impreciso conio “giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno” al tempo dei “fatti”; ma, soprattutto, perché ne aveva colto acutamente proprio “l’origine giurisprudenziale”. Si erano resi penalmente rilevanti i comportamenti di Contrada, rendendolo reprobo retroattivamente: in maniera analoga a come sarebbe accaduto se fosse stata emanata una norma successiva ai fatti, e appositamente incriminatrice. Da Strasburgo sono formalmente baluginate movenze persecutorie. Alla Corte di Appello di Palermo, quella dell’ultimo diniego, dopo lunghe e dotte distinzioni in punta di diritto, era come scappata un’affermazione, piuttosto illuminante, nel suo genere: si era trattato di “una interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”. Non solo; ma si aggiungeva che andava negata la stessa “origine giurisprudenziale” del concorso esterno: non c’entrano i giudici, è la legge italiana (peraltro fissando una tesi che verrà diffusamente ripresa). Tanta perentorietà, nell’affermare quello che non è (la natura “normativa” del concorso esterno); una così poco sorvegliata “autarchia ermeneutica”, ragionevolmente, non si spiegano con la sola questione procedurale. Pare più plausibile un’altra spiegazione. Probabilmente, si avverte il rischio che, a partire da una singola vicenda, pur di capitale portata simbolica, si possa porre l’accento sul presupposto di quella “origine giurisprudenziale” del “titolo”; e, dunque, si offra il fianco ad una questione “ordinamentale”: “La” questione. Sulle “vere storie d’Italia”, di cui il c.d. “concorso esterno” è stato il lievito giuridico, si è costruito un complesso sistema di legittimazione emotiva e culturale, coercitivamente presidiato: dove è sempre meno agevole distinguere le “avanguardie” dai “moderati” (ad es., l’idea, recepita a maggioranza parlamentare, per cui “la pericolosità sociale della P.A. merita Misure di Prevenzione uguali a quelle già previste per la mafia, è solo l’ultimo frutto, in ordine di tempo, di quella legittimazione); e che, proprio per questa comprensiva complessità, a riscuoterlo dalle fondamenta, potrebbe aprire vaste voragini. Ecco perché, quasi fra le righe, si insiste sulla natura “normativa” del “concorso esterno”, con il coinvolgimento/ammonizione dell’intero sistema istituzionale, compreso il legislativo. Ecco perché, gli argomenti di tipo negazionistico (“non è successo niente”), anche in queste ore, si dispongono a seguire questo accomunante solco “patriottico” e “legislativo”. Ecco perché, quella formula tortuosa, “condanna improduttiva di effetti” (ma ancora tale), finisce col fungere da puntello sistemico: permette di estenuare l’equivoco sui “fatti” i quali, nonostante la carenza del “titolo di reato”, sarebbero ancora tutti lì. Ma il “titolo di reato” non è un inerte contenitore di “fatti” che siano già rigidamente conformati, e debbano solo accatastarsi al suo interno, mantenendo quella loro forma immutabile; agisce piuttosto come un calco su una materia malleabile, gommosa; che, una volta liberata dalla erronea costrizione, si riespande, e riprende forme e configurazioni autonome. Gli stessi fatti, con il “titolo” hanno una forma, senza, ne hanno un’altra. Entrare in una casa altrui e asportarne un bene, si chiama furto; farlo con una divisa addosso si chiama sequestro. Contrada teneva condotte di intelligence che, alla valutazione imposta dal “titolo”, dal calco, non si presentavano commendevoli. Ora si è capito che era stato un errore ritenerle, “conformarle” come tali. La “condanna”, dunque, è una riprovazione formalmente qualificata di una condotta; la riprovazione prende legittimo corpo nei suoi “effetti penali”; disconoscere questi, significa negare che la riprovazione, e il giudizio che l’ha sostenuta, fossero fondati. 

Dopo venticinque anni, per “dignità gnoseologica”, per decenza istituzionale, per verità morale, non ci dovrebbe essere altro. Cavilli a parte.

M COME MAFIA DELLE MALEFATTE DELL’ANTIMAFIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CASTOPOLI” E “LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA” E “MAFIOPOLI” E “MASSONERIOPOLI” E USUROPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Ecco perchè la mia associazione nazionale si chiama "Associazione Contro Tutte le Mafie", perchè quelli come me i veri nemici li hanno nelle istituzioni. I servitori dello Stato, quindi "servi" nostri e pagati da noi, abusano dei loro poteri e nessuno li perseguita. Sbandierano leggi e sparlano di legalità: leggi e legalità che "lo stato" (s minuscola) calpesta sotto i piedi. Mi si dica: qual è la differenza tra chi ti fa chiudere l'azienda con le bombe e chi non te la fa riaprire? Io, Antonio Giangrande, non trovo differenza e per questo non sono pubblicizzato come Don Ciotti e "Libera": sostenuti da magistratura, media e politica e sindacati di sinistra.

Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la stessa cosa.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stata impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Don Ciotti, presidente di “Libera”: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra".

Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: “I beni confiscati sono cosa di tutti, non degli apparati appoggiati dalla sinistra. Basta favoritismi ed ipocrisie. Ben venga la riforma. I proventi della vendita dei beni non assegnati vadano a finanziare i bisogni della Giustizia e non essere un peso al bilancio dello Stato”.

“Libera”, è un coordinamento di oltre 1500 associazioni o comitati locali, che spesso si appoggiano presso le sedi ARCI, ACLI, CGIL. Esse sono assegnatari dei beni confiscati e beneficiari dei finanziamenti per la fruizione e la funzionalità di immobili ed aziende. Loro santificano i magistrati e sono appoggiati dall’apparato dei media, dei docenti, degli intellettuali, dei politici e dei magistrati di sinistra. Con un apparato del genere e con molte Giunte che la sovvenzionano, “Libera” non ha bisogno di elemosinare sostegno, finanziamenti e visibilità.

La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

In prima battuta ogni associazione antimafia con regolare sede legale in una determinata provincia poteva chiedere l’iscrizione all’elenco dei sodalizi antiracket ed antiusura tenuto dalla Prefettura di riferimento e poteva, altresì, chiedere l’iscrizione presso altre prefetture, con la nomina di rappresentanti locali, sostenuti da sodali e vittime di racket ed usura. Questo al fine di espandersi e diffondersi, per potersi iscrivere al Registro Nazionale ed accedere ai relativi fondi.

Fatto sta che improvvisamente uscì fuori un decreto Ministeriale n. 220 del 24 ottobre 2007 a firma del Ministro dell’Interno Amato e del Ministro della Giustizia Mastella.

Tale decreto impose requisiti specifici atti a favorire specificatamente solo alcune associazioni, impedendo altresì l’espandersi delle più meritevoli.

Democraticità Se da una parte la democraticità prevista è legittima, diventa strumentale quando la si usa per poter gestire il potere da parte di chi è abituato a farlo. Per questo spesso e volentieri la CGIL ha propri iscritti in queste associazioni.

Capacità ad operare. La capacità, se perviene da titoli di studio o esperienza sul campo, è fondamentale. E’ impeditiva se impone la collaborazione con alcune le forze dell’Ordine, anche quando pare chiaro che vi sia commistione e coperture con le organizzazioni criminali. E’ strumentale, altresì se impongono per la permanenza nell’elenco la denuncia e la costituzione di parte civile, anche quando non ve ne sia ragione.

Tutto questo contornato da ambigua e farraginosa burocrazia.

Ma la cosa principale prevista è il divieto alle associazioni antiracket ed antiusura di iscriversi al di fuori della provincia competente sulla propria sede legale.

Di fatto “Libera” di Don Ciotti è l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale.

Di fatto non potrebbe essere iscritta perché l’associazione "Libera" è solo un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali.

L’antimafia pirandelliana, ovvero l’antiracket che chiede il "pizzo"…, scrive I Nuovi Vespri il 30 ottobre 2018. Quello che viene fuori in queste ore da un’inchiesta a Catania è una storia paradossale. Ma, ragionando, è la stessa storia che la Sicilia vive dalla fine degli anni ’80 del secolo passato, quando alla finta antimafia politica si unisce la finta antimafia sociale. Confindustria Sicilia di Antonello Montante non nasce dal nulla, ma è il prodotto di un inganno che ancora continua, nella politica e nella società della Sicilia. Per ora ci sono arresti. Il seguito di questa storia chiarirà meglio che cosa è avvenuto. Ma dalle prime battute siamo davanti a una vicenda che non è esagerato definire paradossale, quasi pirandelliana: il protagonista di un’Associazione antiracket che finisce agli arresti per falso ideologico e peculato. Indagato, anche, leggiamo su La Sicilia on line, “per estorsione continuata nei confronti di alcune vittime del racket che avevano richiesto accesso allo specifico fondo di solidarietà statale”. Una conferenza stampa, prevista i tarda mattinata, chiarirà i contorni di questa ennesima storia di malaffare all’insegna della ‘legalità’. Proprio in questi giorni si celebra il processo ad Antonello Montante, l’ex presidente di Confindustria Sicilia che, appena qualche anno fa, era considerato il paladino dell’antimafia. Come dimenticare gli anni in cui Montante e i suoi amici distribuivano ‘patentini’ di antimafiosi a destra e a manca? La lotta alla mafia di qua, la lotta alla mafia di là, indietro non si torna, la legalità, i protocolli antimafia con i Prefetti: di tutto e di più. Sceneggiate a mai finire e, dietro, grandi affari: commesse, appalti, acqua, rifiuti e via continuando. Oggi le cronache ci raccontano di un’Associazione antiestorsione che ne combinava di cotte e di crude. Ribadiamo: in questi casi è bene attendere non soltanto l’esito delle indagini, ma anche il finale di eventuali processi. Ma alcune considerazioni ci sembrano quasi obbligatorie. Non su questa storia, ma sull’atmosfera che si respira i Sicilia dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo passato. Quando, ad esempio, gli appalti venivano gestiti dai mafiosi con il ‘bollino’ del parastato. O quando a Palermo, in piena "Primavera", si scopre che Vito Ciancimino continuava a controllare i grandi affari della città. Insomma, quello che succede oggi con i “Professionisti dell’antimafia” finiti alla sbarra ha una propria storia, e affonda le radici in un’antimafia politica che non sempre è stata seria. Dal 1962 al 1976 – anni in cui operò la prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia – le speculazioni politiche erano all’ordine del giorno. C’era, è vero chi, dai banche del Parlamento nazionale, cercava di combattere la mafia. Ma c’era anche chi utilizzava le polemiche su mafia e antimafia per eliminare avversari politici. I democristiani e i comunisti, in questo particolare sport tutto italiano, erano maestri insuperabili. Accuse da una parte e dell’altra, quasi sempre senza prove. In qualche caso c’erano indizi seri, in altri casi solo chiacchiere. Da ricordare il ‘cannibalismo’ dentro la Dc siciliana, dove, in alcuni casi, i colpi bassi, tra esponenti dello stesso partito, erano una mezza prassi quando c’erano di mezzo poltrone e candidature. Insomma, quando, nel 1988, lo scrittore Leonardo Sciascia scrisse il celebre articolo sui “Professionisti dell’Antimafia”, il terreno, in Sicilia, era stato ben ‘arato’ dalle maldicenze. E dai profittatori. Perché se le accuse di mafia potevano servire per eliminare avversari politici, ebbene, potevano servire pure per fare veloci carriere politiche. E così, in alcuni casi, è stato. Perché stupirsi se, dalla politica, l’uso disinvolto della finta antimafia – dell’antimafia di facciata – sia arrivata a pervadere anche altri "gangli" della società? Se sbandierando la finta antimafia da politico si facevano soldi e carriere, perché non farlo pure in altri settori della vita pubblica? Forse il salto di qualità, ovvero il momento i cui le antimafie si fondono in un progetto politico è il 2008, quando si prepara il Governo regionale del ribaltone. Nel 2009 l’antimafia politica del centrosinistra si unirà all’antimafia di Confindustria Sicilia. Quest’ultima organizzazione entrerà nel Governo regionale con un proprio rappresentante. Nel 2012, alle elezioni regionali siciliane, antimafia politica del centrosinistra e l’antimafia di Confindustria Sicilia vinceranno le elezioni. A stento, certo, con l’appoggio di una parte di ex democristiani e con mezza Forza Italia: ma vinceranno. E governeranno. E, benché azzoppata, questa ‘temperie’ è ancora oggi presente, se è vero che nell’attuale Governo regionale ci sono personaggi che, a vario titolo, hanno fatto parte dei due Governi regionali precedenti. Che significa questo? Che la lotta per liberare la Sicilia da questi soggetti è ancora lunga.

Il pizzo dell'antimafia, scrive Antonio Condorelli su Live Sicilia Martedì 30 Ottobre 2018. Il passaggio del pizzo viene immortalato dalle telecamere nascoste della guardia di finanza. I soldi, in contanti, per non lasciare tracce, sono contenuti in una busta bianca. Passano di mano in mano velocemente. A pagare è, ancora una volta, una vittima di usura ed estorsione, riconosciuta dallo Stato, che ha ricevuto il sostegno economico necessario a fare andare avanti la sua impresa, taglieggiata da Cosa Nostra. Ma a incassare la somma non è un boss né uno scagnozzo, ma il presidente di una delle più importanti associazioni antiracket siciliane: Salvo Campo, fondatore della A.SI.A., associazione siciliana antiracket. Volto notissimo a livello nazionale, più volte ospite del Maurizio Costanzo Show, secondo quanto accertato dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza etnea, chiedeva il 5% sulle somme che riusciva a far ottenere agli associati, tutte vittime di usura e del racket mafioso, imprenditori in ginocchio che spesso rischiavano la vita e si affidavano a lui per avere sostegno psicologico e assistenza processuale. Ma poi, secondo quanto accertato dal gruppo sui reati dei colletti bianchi, coordinato dal sostituto procuratore Fabio Regolo, le vittime della mafia si ritrovano, nuovamente, davanti a quell'inferno dal quale erano scappati: corrispondere una percentuale fissa, del 5% a colui che, in quel momento, rappresentava lo Stato. Proprio per questo a Campo viene contestato il peculato, reato tipico dei pubblici ufficiali, anche perché si trattava di fondi pubblici.

L'ASSOCIAZIONE – Nasce nel 2008 la A.SI.A. con lo scopo di “esercitare una costante azione di stimolo nei confronti dell'opinione pubblica e nei confronti di tutte le autorità costituite affinché il problema dei delitti di estorsione e di usura vengano considerati primari ed essenziali non solo per le categorie che li subiscono ma anche per l'intera comunità che direttamente da tali delitti viene gravemente danneggiata”. Non si tratta di una piccola associazione antiracket, ma di una delle più importanti in Sicilia, con ben 152 associati.

LE INTERCETTAZIONI – Campo si sentiva sicuro, pubblicamente era stato in prima linea fondando anche il Consorzio per la legalità siciliano. Ma a lui piacevano i soldi, in contanti. Soldi provenienti dal fondo antiracket che avrebbe utilizzato per scopi strettamente personali. Ad ogni associato faceva firmare una documento, che lo obbligava a corrispondere il 5% all'associazione antiracket che presiedeva. La cifra doveva essere corrisposta con puntualità. Comunque stiamo attenti – dice Campo a una vittima di usura - questo per me è lavoro e tu lo sai che non voglio ricordare nulla ... ma nel caso noi dovessimo riuscire, veramente, ad avere quello che compete a te ... il 5% me lo riconosci...” “Perché no! Non sono stato sempre...”, risponde l'associato. Ma lui, il presidente antimafioso insiste: “Va beh! Ma io ... la percentuale già l'abbiamo detta... la sappiamo dall'inizio... io già lo so e mi batterò, perché il 5% sul valore degli immobili saranno soldi...”. La vittima di usura si mostra perplessa: “Sì, ma dico... io credo di non essere mai mancato ad un impegno...”. “Firma”, tuona Campo, che pretende il rispetto degli accordi. “La vittima – hanno documentato gli inquirenti – a fronte di un risarcimento economico di 43mila euro, aveva corrisposto a Campo la somma di 4mila euro”.

QUESTIONE DI SOLDI - Tutto documentato dalle cimici della Finanza. “Il mio lavoro – dice il presidente dell'associazione antiracket - me lo ha pagato lei? Ah... io non me lo ricordo...il mio lavoro...di questi 43.000,00 euro me lo ha pagato lei? Non mi ha dato niente!”. A questo punto, il socio dell'associazione, è meravigliato e chiede: “Come pagato? La prossima volta io le domando la ricevuta... se lo è scordato che gli abbiamo fatto il regalo anche alla signora?”. “Che mi ha dato?”, ribatte Campo: “Quattromila euro le ho dato – conclude l'associato – dottor Campo”.

“LAVORO” - I fondi statali concessi alle vittime di usura ed estorsione, per il presidente dell'antiracket rappresentavano un “lavoro”, una somma dovuta per quello che faceva e per riscuotere faceva pressioni. “Eh, ho capito – dice il presidente antimafioso alla vittima della mafia – che dobbiamo fare?”. La vittima, che non aveva corrisposto il “dovuto”, tenta di prendere tempo: “No, ma tranquillo, non si preoccupi, anche, poi le spiego”. Ma il paladino insiste: “Non è che possiamo fare sta cosa!”. La vittima tenta di rassicurarlo: “Non si preoccupi”. Ma a questo punto della conversazione, Campo ammette candidamente che per lui, è un motivo di lavoro. “Il mio lavoro – dice Campo intercettato – deve essere soddisfatto...il lavoro deve essere, per me è lavoro, non è che per dire...”.

OSSIGENO – I fondi nazionali antiracket per il presidente arrestato erano ossigeno. “Ah! - dice a una parente - un poco di ossigeno (OMISSIS)... mi ha portato mille euro”, dice. E poi precisa: “Così i soldi della pensione non li tocchiamo lunedì ...”. Quei fondi, però, servivano per salvare l'impresa dai danni provocati dalla mafia. Ma per uno strano scherzo del destino, erano finiti nelle tasche dell'antimafia.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è   stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».

 “L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…).

Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti.   

«L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!».

Va giù duro il presidente Antonio Giangrande.

«Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D'altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!»

Continua Antonio Giangrande.

«Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Le associazioni antiracket ed antiusura riconosciute dal Ministero dell’Interno sono pubblicate sul sito ministeriale.

Alcune non sono schierate, molte di loro, invece, fanno capo al FAI (Federazione Antiracket Antiusura Italiana) di Tano Grasso ed a LIBERA di Don Ciotti. Notoriamente, questi coordinamenti sono destinatari dei fondi statali e regionali.

Quei sette milioni che spaccano l'antiracket, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. L'ultima polemica nell'antimafia è scoppiata dopo la firma di quattro convenzioni, per quasi 7 milioni di euro, fra il ministero dell'Interno e le associazioni che fanno capo al leader storico del movimento antiracket, Tano Grasso. «Convenzioni basate su un finanziamento milionario», accusa Lino Busà, presidente nazionale di Sos Impresa, animatore di un'altra rete nazionale di associazioni antiracket, la Rete per la legalità: «D'ora in poi potremo dire che esiste un antiracket no profit e un'industria dell'antiracket», accusa Busà. «Stiamo valutando la legittimità di quelle convenzioni, che hanno assegnato finanziamenti davvero esorbitanti senza alcun bando pubblico», aggiunge il presidente di Sos Impresa. «Quei finanziamenti tolgono soprattutto autonomia alle associazioni», dice l'avvocato Fausto Amato, legale di parte civile in molti processi di mafia, impegnato anche lui nelle iniziative di Sos impresa e della Rete per la legalità. Una delle convenzioni riguarda anche l'attivissima associazione palermitana Addiopizzo: con la collaborazione della federazione di Tano Grasso si occuperà di promuovere la diffusione del "consumo critico antiracket", fra Palermo e Gela. Per questa iniziativa, che proseguirà per tre anni, il commissario antiracket del governo ha previsto un milione e 400 mila euro. Dice Tano Grasso, presidente onorario della Fai, federazione delle associazioni antiracket e antiusura: «È necessario dare una svolta all'impegno importantissimo delle associazioni sul territorio. E per farlo sono necessari strumenti. Per il resto, le associazioni continueranno ad operare in autonomia, senza alcuna soggezione nei confronti della politica, anche perché quei finanziamenti arrivano dall'Unione Europea, non dallo Stato. Cosa avremmo dovuto fare? Rinunciare a questa opportunità, che è anche un riconoscimento che l'Europa fa del lavoro svolto dalle associazioni sul territorio?». Grasso spiega che Fai e Addiopizzo avranno solo il compito di coordinare le iniziative: «Gli operatori degli sportelli sono stati selezioni attraverso rigide selezioni avvenute attraverso un bando pubblico», spiega. «Sono stati scelti professionisti che neanche conosco - dice ancora Tano Grasso - sono tutte persone che concretamente, e in modo professionale, potranno aiutare le vittime degli esattori». È ormai scontro fra le due anime del movimento antiracket: da una parte il Fai, dall'altra la Rete per la legalità. «Da due anni abbiamo fatto una scelta netta - dice Busà - vogliamo essere liberi dalla politica. Non riesco davvero a comprendere come si possa arrivare a finanziamenti così elevati: vengono dati 700 mila euro per realizzare uno sportello che noi offriamo da anni gratuitamente». La settimana prossima, il ministro dell'Interno firmerà un'altra convenzione, questa volta con il presidente Confindustria Emma Marcegaglia: il cuore di altre iniziative antiracket sarà la provincia di Caltanissetta. «L' antiracket non è solo Palermo o Napoli, dove tanti commercianti hanno scelto di denunciare», prosegue Tano Grasso: «In tante realtà, soprattutto in provincia, la situazione è ancora difficile, e non basta il volontariato delle associazioni, bisogna costruire progetti e sostenerli con adeguate professionalità, solo così potremo vincere davvero la lotta al pizzo». Busà ribatte: «Le associazioni antiracket devono nascere dal basso, dagli stessi commercianti. Non servono soldi, solo tanta buona volontà».

Il venticello della calunnia sfiora e avvelena il fronte dell'antiracket, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera” . Non perché i boss siano passati al contrattacco nell'era della ribellione di commercianti e imprenditori. Ma perché a temere una burocratizzazione delle strutture «anti» e, addirittura, a sospettare un giro di mazzette per pilotare i rimborsi del Fondo appositamente costituito è qualche «vittima» adesso lanciata contro i vertici delle associazioni. E un nome s'impone su tutti, quello di Tano Grasso, mitico condottiero dei commercianti di Capo d'Orlando ai tempi di Libero Grassi, presidente onorario della Fai, la federazione antiracket, casa a Napoli dove è consulente del sindaco per la stessa materia. «Spazzatura», dicono di ogni accusa i suoi amici, da don Luigi Ciotti a Pina Grassi, comprese le icone dell'antiracket in Calabria e Campania, Maria Teresa Monaco e Silvana Fucito. Come l'avvocato di Grasso, Fausto Amato, già alla settima querela. Mentre lui sale al Viminale temendo la «delegittimazione» e trovando solidarietà nel ministro Amato. Sembra riecheggiare la polemica sui professionisti dell'antimafia dopo le prime frecciate arrivate attraverso «L'Espresso» con la storia di Giuseppe Gulizia, il costruttore siciliano che ha denunciato il coordinatore Fai nell'isola Mario Caniglia, altro simbolo dell'antiracket. Un terremoto. Perché Gulizia sostiene di avere «ringraziato», dopo i primi rimborsi del Fondo, con bottiglie di champagne imbottite da mazzette da cento euro e di avere dovuto comprare olio a prezzo maggiorato. In totale, una tangente di circa 60 mila euro, il dieci per cento di una prima tranche da 600 mila euro incassata dallo stesso imprenditore con le pratiche antiracket. La vicenda è complessa. Di certezze nessuno ne ha. L'indagine appare difficilissima. E chi denuncia potrebbe passare per un calunniatore. Ma il sospetto soffia come una bufera. Anche contro Grasso che Gulizia giura di avere informato. Quanto basta per scatenare un fuoco di sbarramento a difesa, ma anche nuovi forti attacchi. Come quello di Sonia Alfano, quasi conterranea di Grasso visto che la mafia le ha ucciso il padre giornalista a Barcellona, vicino a Capo d'Orlando, adesso candidata per Grillo alla presidenza della Regione: «L'antiracket non può essere una sola persona. Si faccia da parte per un momento Grasso, se ci sono ombre. Come abbiamo chiesto tante volte a chi ha i riflettori della giustizia puntati addosso. E' il caso di Caniglia. Altrimenti si da la sensazione di una casta. Se si tocca uno di loro ci si scotta...». Non piace questa posizione a don Ciotti che invita piuttosto «ad accertare le responsabilità di chi sparge zizzania». Un po' come Pina Grassi, arrabbiata con i cronisti: «Le notizie vanno verificate prima di questi subdoli attacchi...». E Maria Teresa Morano, coordinatrice dell'antiracket in Calabria: «Noi, con Grasso, siamo quelli che da 15 anni accompagniamo le vittime in tribunale. Il resto lascia il tempo che trova». Severa Silvana Fucito, presidente dell'associazione San Giovanni a Teduccio, tre anni fa indicata da Time «personaggio dell'anno in Europa»: «Sono infuriata contro chi si erge a giudice additando le associazioni e Tano Grasso. Mi sento parte offesa in prima persona». Un fiume in piena e anche se Rita Borsellino non risparmia «solidarietà» a Grasso, la Fucito che sa di una frizione con Don Ciotti bacchetta pure su questo fronte: «La Borsellino ormai non riesce a guardare verso il basso, dove noi operiamo accanto a chi soffre e vive i problemi...». Altra frecciata interna ad un mondo sul quale non tollera «il rischio delegittimazione» lo stesso Grasso: «Per questo sono andato da Amato, pronto alle dimissioni. Ma io sono sciasciano puro. E, da professionista dell'antimafia, convinto che Sciascia avesse ragione, ho usato la sua lezione come antidoto. Ombre? Vedo solo quelle di chi vuole ridimensionare il ruolo dell'antiracket e normalizzare».

Esponente della Terra dei fuochi allontanato dall’aula del Suor Orsola. Angelo Ferrillo senza autorizzazione per entrare. «Toglietemi le mani di dosso», scrive “Il Corriere della Sera” il 20 novembre 2015. Durante l’apertura del nuovo anno accademico all’Università Suor Orsola Benincasa, in attesa dell’arrivo del Capo dello Stato Sergio Mattarella, il leader del movimento “Mai più la Terra dei fuochi” Angelo Ferrillo è stato allontanato dall’aula Magna dove si sta svolgendo la cerimonia. Gli uomini della polizia sono intervenuti in quanto Ferrillo non aveva espletato le procedure per accreditarsi ed essere autorizzato ad entrare. «Sono un cittadino, non ho fatto niente. Voglio stare qua, non sono un camorrista e dovete togliermi le mani di dosso. Come è possibile che nessuno mi venga a difendere? Mi state strappando tutti i vestiti. Basta, presidente. Mi trattate così perché sto facendo una battaglia per la terra dei fuochi», queste le urla di Ferrillo che ha opposto resistenza all’intervento delle forze dell’ordine.

Mattarella a Napoli: momenti di tensione, allontanato attivista della Terra dei fuochi, scrive “La Repubblica” del 20 novembre 2015. Dopo numerosi inviti a uscire da parte delle forze dell'ordine e dal questore, Angelo Ferrillo, attivista e fondatore del blog "laterradeifuochi.it", è stato trascinato all'esterno dell'aula magna del Suor Orsola Benincasa, poco prima dell'arrivo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l'inaugurazione dell'anno accademico. Ferrillo era seduto in sala pur non essendo accreditato. Mentre le forze dell'ordine tentavano di portarlo via l'attivista ha urlato: "Sono un cittadino. Ho diritto a stare qui. Al Presidente stanno dicendo bugie, non vogliono che sappia la verità sulla terra dei fuochi". 

Mattarella a Napoli, tensione al Suor Orsola. Disturbatore Ferrillo portato via dalla digos. L'uomo si sarebbe introdotto all'Università accreditandosi come studente, scrive il 20-11-2015 Salvatore Piro su “Lo Strillone” mettendolo in cattiva luce. “Lasciatemi mi fate male. Sono un cittadino, non un camorrista. A Mattarella dicono solo bugie sulla Terra dei Fuochi. Io voglio raccontargli la verità”. Così Angelo Ferrillo, da anni la voce contro i rifiuti tossici nelle province di Napoli e Caserta, portato via con la forza stamattina da quattro agenti della digos. Ferrillo ha provato oggi a disturbare la visita del Capo dello Stato. Visita in programma all’Università Suor Orsola Benincasa, in occasione dell’apertura del 114esimo anno accademico dell’Ateneo. L’attivista della Terra dei Fuochi, secondo le prime ricostruzioni in polizia, avrebbe evitato i controlli ai varchi d’ingresso della sede di Corso Vittorio Emanuele, accreditandosi come studente. In questo modo, sarebbe riuscito a non mostrare il suo documento di riconoscimento. In basso, il video integrale dell’intervento con la forza della digos in Aula Magna.

Ferrillo cacciato dalla sala in attesa di Mattarella, la replica: “Avevo l’accredito”, scrive il 20 Novembre 2015 “Il Meridiano News”. Il blogger è stato allontanato di forza dalla sala dell’Università Suor Orsola Benincasa prima dell’arrivo del Capo dello Stato. “Caro Presidente, su Terra dei Fuochi le hanno detto un mare di bugie”. Attimi di tensione stamani durante la cerimonia di apertura del nuovo anno accademico all’Università Suor Orsola Benincasa. L’attivista-blogger della Terra dei Fuochi Angelo Ferrillo è stato portato via di forza dal personale addetto alla sicurezza prima dell’arrivo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ferrillo è stato portato anche in Questura ed ora ha deciso di affidare la sua versione dei fatti ad un post pubblicato su facebook: “Sono entrato chiedendo permesso e mostrando i miei documenti, – afferma – non trovato l’accredito inviato all’ufficio del cerimoniale, allora chiedevo e mi hanno lasciato entrare sedendomi tra il pubblico in ultima fila con gli universitari. Quella dell’accredito è stato un pretesto perché forse qualcuno non vuole arrivino certe informazioni al Presidente Mattarella. Tant’è che anche il capo dell’ufficio stampa del Suor Orsola, il dottor Conte, aveva detto davanti a tutti che potevo restare. Non immaginavo che una pubblica Università sarebbe diventata un’accademia militare o un circolo privato. Ripeto, volevo solo assistere alla conferenza stampa e consegnare nelle mani del Presidente della Repubblica la nostra lettera che sin dal suo insediamento nessuno pare gli voglia consegnare! Caro Presidente, nonché Capo delle Procure di tutta Italia e presidente del CSM, su terra dei fuochi le hanno detto un mare di bugie. Attendo fiducioso – conclude il blogger – di essere ricevuto da Lei per comunicarLe importanti notizie di reato. Solo Lei può ascoltarci”.

Ferrillo cacciato dal Suor Orsola, cinque giorni di prognosi. Il blogger: “Trattato come un criminale”, scrive il 21 Novembre 2015 “Il Meridiano. Il portavoce de “La Terra dei Fuochi” ha riportato ecchimosi ed escoriazioni. In Questura è stato trattenuto cinque ore in stato di fermo. Non se l’è vista bene ieri Angelo Ferrillo, il portavoce dell’associazione “La Terra dei Fuochi”, cacciato con la forza dai poliziotti dall’aula magna del Suor Orsola Benincasa perché – secondo gli stessi – privo di accredito. Dopo essere stato vittima di quell’episodio, la cui notizia ha fatto subito il giro del web, Ferrillo è stato trattenuto in Questura, in stato di fermo, per cinque ore con i vestiti stracciati. Una volta rilasciato, si è recato in visita al Pronto Soccorso dell’ospedale dei Pellegrini. I medici gli hanno diagnosticato ecchimosi ed escoriazioni in varie parti del corpo, guaribili in 5 giorni. “Il nostro portavoce Angelo Ferrillo dopo i fatti di ieri – si legge sulla pagina ufficiale dell’associazione – accusa ancora forte dolore al collo e alla gola dovuto alla stretta procuratagli attorno alla testa con violenza. L’associazione pertanto chiede le scuse del Questore di ‎Napoli, il quale, come si vede anche nel video, ha condotto personalmente tale operazione, e si riserva di difendersi in ogni sede contro questo abuso e le lesioni cagionate al nostro portavoce”. Ancora oggi Ferrillo – contattato dalla nostra redazione – lamenta dolori alla gola, nausea e mal di testa. E’ tornato in ospedale per accertamenti. “Un trattamento che non si riserva manco ai criminali – ci ha scritto -. Mi hanno strangolato quasi affogandomi, con lesioni ed ecchimosi, e senza reagire solo perché mi hanno voluto tirare via”.

LUCA ABETE PORTA A “STRISCIA” IL CASO ANGELO FERRILLO. Scrive il 27 novembre 2015 “Isola Verde tv”. L’inviato di Striscia la Notizia nel servizio andato in onda ieri sera al tg satirico di Antonio Ricci ha mostrato i modi barbari utilizzati per allontanare Angelo Ferrillo (fondatore dell’associazione La TERRA dei FUOCHI) dalla sala dove era atteso il presidente Mattarella. La violenza con cui Ferrillo è stato trascinato di peso fuori dalla sala riempie di sconcerto e stupore. Le immagini andate in onda su Canale 5 mostrano come alcuni agenti in borghese prendano di peso, con la forza l’uomo per poi trascinarlo via dalla sala del Suor Orsola, tra le sue grida disperate. Luca Abete ha intervistato Ferrillo sulla questione per avere spiegazioni sull’accaduto. L’uomo, blogger e fondatore dell’associazione Terra dei Fuochi, ha affermato di essere entrato da comune cittadino, accreditato come portavoce della sua associazione, e di essere stato cacciato in quanto voleva dare al Capo dello Stato un invito sottoscritto dagli associati. Al termine dell’intervista Ferrillo si è commosso e Luca Abete ha rivolto un appello o a Mattarella perché prenda a cuore il dramma dei territori campani interessati dai roghi tossici. “Ognuno può pensarla come crede, ma in una terra dove non si contano i disastri ambientali, un rappresentante dei cittadini non andrebbe trattato come un CAMORRISTA.” ha scritto su facebook Abete.

È accaduto nella giornata di Mattarella a Napoli. Il presidente dell'associazione "La terra dei fuochi" a Luca Abete: "Sono stato letteralmente strozzato, strangolato, ho sentito un dolore cane", scrive Valeria Scotti il 27 Novembre 2015 su "Napoli Today". È approdato a Striscia la Notizia il caso di Angelo Ferrillo cacciato dall’aula magna del Suor Orsola Benincasa in occasione della visita del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. A parlarne in un servizio è Luca Abete. Dopo aver riproposto il video delle polemiche -  il blogger de La Terra dei Fuochi viene strattonato e portato via dall'aula - il racconto del blogger notevolmente commosso. "Sono stato letteralmente strozzato, strangolato, ho sentito un dolore cane, si vede dale immagini. Ancora adesso ho dei dolori al collo. Dopo aver ascoltato in religioso silenzio la sua conferenza, volevo consegnare nelle mani dello staff del Presidente un documento in cui gli chiedevo un incontro per dirgli come stanno i fatti. La Terra dei fuochi brucia ancora ed una una vicenda su cui sono state raccontate molte bugie”. "Lotta contro la TERRA dei FUOCHI e lo trattano come un CRIMINALE. I modi utilizzati per allontanare Angelo Ferrillo (fondatore dell'associazione La TERRA dei FUOCHI) dalla sala dove era atteso il presidente MATTARELLA riempiono di sconcerto e stupore. Ognuno può pensarla come crede, ma in una terra dove non si contano i disastri ambientali, un rappresentante dei cittadini non andrebbe trattato come un CAMORRISTA. Ed ora... #‎presidenteTOCCAaLEI".

Terra dei Fuochi, è scontro tra i comitati. Sale la tensione in vista della nuova manifestazione del sedici novembre, scrive il 28 ottobre 2013 su “La Repubblica” Conchita Sannino. L’obiettivo è comune, ma il popolo che protesta e chiede giustizia, per la Campania inquinata, resta pericolosamente diviso. Con la temperatura dello scontro pronta a salire. Dopo la coda di polemiche con cui si è chiuso il corteo dei 50 mila promosso dal blogger Angelo Ferrillo e dagli attivisti de “La Terra dei fuochi” che sabato ha attraversato tutto il centro, si temono scintille e nuove tensioni per l’altro evento gemello in programma per sabato 16 novembre. È la manifestazione che si annuncia imponente e vedrà in prima fila il parroco Maurizio Patriciello, il medico Antonio Marfella e migliaia di famiglie colpite da lutti e malattie che vengono ricondotte, pur in assenza di una correlazione scientificamente condivisa, allo sversamento di rifiuti e veleni nelle terre del giuglianese e dell’agroaversano. Sabato scorso, proprio l’assenza del prete e dei tantissimi cittadini che si riconoscono nella sua battagliera leadership ha mostrato, platealmente, ciò che prima si poteva solo intuire: la Terra dei fuochi non è solo la drammatica fotografia di territori rimasti per anni sotto il dominio delle ecomafie e dei business criminali, non è solo bandiera di un riscatto civico per un’intera provincia che aveva finto di non vedere e non sapere, ma rischia di diventare anche “brand” di una lotta dagli istinti diversi. Da un lato, quelli che come Ferrillo pensano che «sia inutile chiedere ora le bonifiche se prima non si spengono i roghi» e denunciano «aspirazioni personali di pochi, nel business e nella vigilanza dei luoghi». Dall’altro, il coordinamento guidato da don Patriciello, a cui si accompagnano i comitati antidiscariche e del “No all’inceneritore di Giugliano”, che dialogano con istituzioni e politica, chiedono l’intervento del ministro Andrea Orlando, ritengono «necessario» un grande investimento sulle bonifiche «per salvare altre vite umane» e riconquistare «vivibilità per queste terre martoriate». Lo stesso Patriciello, nei giorni scorsi, ha dialogato con il Capo dello Stato, incontrato la commissione Ambiente del Senato, inviato accorati sos a Papa Francesco. Tanto da dire: «Da un momento all’altro, il Papa mi chiamerà sul cellulare. Sono convinto che, dopo aver visto una parte delle 150 mila cartoline che ritraggono le undici mamme con i loro piccoli uccisi dal cancro, Sua Santità si farà vivo». Resta il dubbio: cosa resterà dell’escalation mediatica, della collezione di testimonial? Cosa cambierà davvero, nel quotidiano, per famiglie che si sentono, a ragione o a torto, esposti all’“avvelenamento”? Rintracciato, don Patriciello non può rispondere perché «impegnato a ritirare il premio Moscati a Carinola», nel casertano. Ma dopo, per ore, fino a tarda sera, il suo cellulare squilla invano. Posizioni ormai inconciliabili. L’altro giorno, durante il corteo, numerose scintille. Prima le tensioni con esponenti di CasaPound, allontanati poco dopo. Poi le contestazioni contro Ferrillo, che ha guidato il corteo via microfono, dall’inizio alla fine, fino a quando non sono scattate le proteste. Un gruppo di partecipanti issa lo striscione: “No all’inceneritore”, chiede di esprimersi. Ferrillo li “richiama”, ricordando che «non devono esserci protagonismi e striscioni», quelli reagiscono con urla, insulti, accuse contro il “monopolizzatore” Ferrillo, mentre quest’ultimo chiede ordine e arriva a dire “Chiamate la Digos”. Ieri su Facebook lo stesso Ferrillo definisce «camorristi» gli atteggiamenti di alcuni partecipanti. «Noi abbiamo ricevuto un attacco — scrive infatti — Questi sono atteggiamenti in stile camorristico organizzato». E poi: «Non ci faremo intimidire, né dai partiti né dai loro riferimenti associativi. Siamo solo all’inizio». Per oggi, alle 12, Ferrillo annuncia nuova conferenza (ma i giornalisti non erano il bersagliopreferito?) presso lo studio legale Bersani, al 60 di vico Tre Re a Toledo (accrediti: a staff@laterradeifuochi.it; oppure al 338/2601669). E ora il movimento promette di tornare a marciare anche il 16 novembre: vicini, nonostante le divisioni. Impazza ovviamente il flusso del web, reazioni di pancia comprese. Pochi, ma accorati, gli appelli al buon senso: «Dividetevi tra voi in privato, ma cerchiamo di essere compatti per le nostre terre e il futuro dei nostri figli». 

La terra dei fuochi è mia, la versione di Ferrillo, scrive Adriana Costanzo il 25 ottobre 2013. A cura di Vincenzo Strino su “Rete News”. L’ennesima guerra tra poveri. Ulteriore dimostrazione che non sono solo i partiti politici a dividersi. Ma anche li compulsa ogni giorno richiamandoli al loro dovere. In queste ore infatti si sta consumando lo strappo definitivo tra i sostenitori di don Maurizio Patriciello e del medico Antonio Marfella, e tra quelli di Angelo Ferrillo, deus ex machina del comitato della Terra dei Fuochi. La diatriba è nata a causa della manifestazione indetta da Ferrillo per domani pomeriggio a Napoli alla quale sia don Patriciello che Marfella non parteciperanno perché, come loro stessi hanno dichiarato, avevano già dato la loro adesione ad una manifestazione a Macerata Campana. Da qui la reazione di Ferrillo pubblicata sul suo profilo Facebook: “E’ proprio vero le delusioni non finiscono mai. Si parla di unione e poi si dice, o questa o quella…Andiamo avanti!”. Ma i sostenitori del duo Patriciello-Marfella non ci stanno e giudicano la manifestazione di domani soltanto una contro-manifestazione rispetto a quella contro il biocidio in programma per il 16 novembre, creata quindi solo per semplice personalismo di Ferrillo. Come se non bastasse, trattandosi di una polemica in cui il terreno dello scontro è il social network per eccellenza, la guerra si è estesa persino agli hastag di twitter: #fiumeinpiena quello della manifestazione di novembre e #ondainarrestabile quello comparso da pochi giorni sui link della manifestazione di domani, con Ferrillo accusato di aver “pezzottato” l’hastag del 16 novembre. Ecco la rettifica inviata da Ferrillo: “Si fa riferimento a informazioni inventate di sana pianta in base a un discorso non ascoltato ma preso dal web da interviste altrui e smentite dallo stesso autore del pezzo al quale il vostro cronista dice di aver fatto riferimento”.

Vertice in prefettura Don Patriciello attacca Ferrillo, si legge sul canale youtube di Angelo Ferrillo in allegato ad un video pubblicato il 24 luglio 2014. Don Maurizio Patriciello ancora una volta parlava per mezze frasi dicendo "finti attivisti e finti scienziati", così al mio invito a fare i nomi è venuto fuori il vero don Patriciello. Se queste sono le parole di un uomo di Chiesa intenzionato a unire giudicate voi. Quello che ha detto nei nostri confronti è vergognoso. Ora, si assuma le responsabilità. Intanto attendiamo pazienti le sue pubbliche scuse. Reduci dall'ennesimo vertice in Prefettura, questa volta a un anno dall'entrata in vigore del cosiddetto "patto per la terra dei fuochi", pur riscontrando l'impegno del delegato del Ministero dell'Interno, Donato Cafagna, rilevando una serie di criticità da lui stesso confermate, lo abbiamo invitato a portare sul tavolo del Governo le sue dimissioni qualora non ci fossero le condizioni ulteriori per continuare a svolgere in modo incisivo e decisivo il suo compito. A quasi due anni dal suo mandato i dati forniti sono parziali e i #roghitossici non sono affatto diminuiti, anzi! Inoltre, (come vedete dal video) denunciamo che nel suo intervento di apertura don Maurizio Patriciello anziché prendersela -esclusivamente- con chi detiene ruoli e obblighi istituzionali, lancia accuse diffamanti verso di noi e di quanti assieme a noi stanno facendo emergere la farsa che si protrae ai danni di tutti. 

Patriciello shock sui falsi attivisti e Ferrillo: "Si vendono per un piatto di lenticchie". Scontro in prefettura, spunta un «fuori onda». A Roma i ministri annunciano: pronti con visite gratis, scrive "Il CorrieredelMezzogiorno" il 28 luglio 2014. Impazza sul web lo scontro polemico che c’è stato quattro giorni fa in Prefettura, al tavolo sull’emergenza ambientale, tra il parroco di Caivano, don Maurizio Patriciello, ed il responsabile della pagina web LaTerradeiFuochi.it Angelo Ferrillo. Il secondo ha interrotto don Patriciello mentre, riferendosi allo scontro scientifico sul tema, sempre caldissimo, della correlazione tra le malattie oncologiche ed i rifiuti tossico-nocivi smaltiti o bruciati illegalmente in Campania, il sacerdote accusava genericamente fila «negazioniste» di presunti esperti - o che includono personaggi in passato al vertice di autorità preposte alla tutela dell’ambiente e della salute, anche nel doppio ruolo di controllori e controllati - responsabili, secondo Patriciello, del confondere ancora le acque davanti ad un’emergenza per la salute gravissima. A quel punto Ferrillo ha detto al parroco: «Faccia i nomi». Quindi Patriciello non si è risparmiato nel criticare Ferrillo e suoi intimi: «Vi vendete per un piatto di lenticchie».

TERRA DEI FUOCHI IL PARROCO DI CAIVANO POLEMIZZA CON IL COORDINATORE DEL SITO SUI ROGHI. Terra dei Fuochi: divampa l’incendio tra Don Patriciello e Ferrillo, scrive il 26 Luglio 2014 Martina Brusco su “L’Espresso”. Decisamente incandescente il tavolo tecnico tenutosi l'altro ieri in Prefettura. Convocato e coordinato dal Prefetto Donato Cafagna, commissario contro i roghi tossici in Campania, incaricato dal Ministero degli Interni, ha visto la partecipazione di rappresentanti della Regione Campania, delle Forze dell'Ordine, Legambiente, comitati e associazioni impegnate nella tutela dell'ambiente. Tra i presenti Don Patriciello, il parroco di Caivano divenuto icona della battaglia per il risanamento della Terra dei Fuochi, Angelo Ferrillo, attivista e creatore di un seguitissimo blog che da anni denuncia i numerosi roghi tossici nell'area e il Dott. Antonio Marfella, oncologo presso l'Istituto Nazionale Tumori "Pascale" di Napoli e membro dell'IISDE Medici per l'Ambiente. Sin dai primi interventi la tensione è alta e non solo nei confronti delle istituzioni presenti. L'intervento di Don Patriciello, denuncia la staticità della situazione, l'inefficienza delle strutture ospedaliere, una sanità sempre più privata che pubblica e il deludente servizio svolto dall'esercito nell'ambito dei provvedimenti stabiliti dalla legge Terra dei Fuochi. Il controllo del territorio promesso dal Governo, che avrebbe dovuto mettere in campo per due anni 850 militari - denuncia don Patriciello - al momento ha fornito solo un centinaio di unità, insufficienti per presidiare un'area così vasta e che quindi non si sono quasi mai visti nelle zone a rischio. Ma la verità scomoda quanto innegabile, che Don Patriciello urla a gran voce, è l'impossibilità di risolvere la questione attraverso una semplice raccolta differenziata. Il problema non sta nella "monnezza della nonna", ma in qualcosa di ben più serio, ovvero un sistema di illegalità. Le accuse di ipocrisia, che il parroco scaglia contro chiunque affermi il contrario o ometta tale punto, sono sferzanti e colpiscono soprattutto Ferrillo: "Sei tu, Ferrillo, che insieme ai tuoi amici stai rendendo un pessimo servizio perché ti avranno offerto un piatto di lenticchie". Divampa immediatamente un'aspra polemica tra le parti, polemica che ha radici ben più profonde frutto di divisioni in merito alle proposte. Ferrillo, infatti accusa le Istituzioni di interventi parziali e insufficienti e propone, essenzialmente, una maggiore sensibilizzazione ad opera dei media, l'ottimizzazione degli interventi delle forze dell'ordine che, a suo parere, svolgono un ruolo esclusivamente di repressione, ma ancora troppo poco di prevenzione e l'istituzione di "sentinelle ambientali" al fine di favorire una partecipazione più attiva dei cittadini e rendere gli interventi delle Forze dell'Ordine più diretti. Piuttosto eloquente l'implicito invito, rivolto al Prefetto Cafagna, di rassegnare le dimissioni qualora i ministeri preposti non fossero in grado di fornirgli mezzi adeguati. Ad avere un ulteriore ruolo nell'accesa discussione, è il Dott. Antonio Marfella. L'oncologo, da sempre in prima linea soprattutto in merito alle inefficienze scientifico-sanitarie, ha contestato duramente l'operato del Ministero della Salute e dell'Assessorato regionale della Sanità, in particolare contro coloro che, possedendo conoscenze adeguate, dovrebbero impegnarsi maggiormente nella risoluzione della problematica. Denuncia inoltre la mancanza di impianti per lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri radioattivi e le difficoltà nella realizzazione dei Registri Tumori, ottenuti dopo anni di opposizioni politiche e lungaggini burocratiche dalla Regione Campania. Nonostante numerosi attacchi incrociati appare evidente come gli interventi convergano su diversi punti: l'inutilità degli interventi repressivi condotti da Forze dell'ordine ed Esercito come stabilito della legge sulla Terra dei Fuochi, la denuncia di un servizio sanitario sempre più attento alle esigenze del privato, destinando quindi pochi fondi al pubblico che risulta inefficace nell'affrontare una tale emergenza e l'assenza delle Istituzioni, assenza confermata, tra l'altro, dalla scarsissima partecipazione delle stesse alla discussione svoltasi al tavolo tecnico. Ma tra i punti deboli di tale questione non è forse opportuno annoverare anche l'inconcludenza delle parti in causa che, sebbene attive ed impegnate sul territorio, hanno speso gran parte del tempo nello scagliarsi l'una contro l'altra piuttosto che fare fronte comune con lo scopo di porre fine alla vergognosa catastrofe che è la Terra dei Fuochi? Del resto, l'obiettivo è comune, eppure sembrano infinite le futili polemiche che sottraggono tempo ed energia alla ricerca di soluzioni efficienti. E intanto, mentre le Istituzioni si nascondono, la sanità e le industrie badano al proprio tornaconto, la malavita organizzata continua nella sua opera di distruzione del territorio, nella 'Terra dei Fuochi' l'incidenza dei tumori continua ad aumentare e la gente continua a morire.

Perché questo astio nei confronti di Ferrillo? Forse perché non è omologato e genuflesso al potere istituzionale come le altre associazioni e comitati antimafia? Forse perché ha il coraggio di denunciare le omissioni dei Vigili del Fuoco, delle Forze dell’Ordine e della Magistratura, cosa che altri non fanno? Conosciamo meglio il pensiero di Angelo Ferrillo attraverso la lettura dei suoi post della sua pagina facebook. “Ogni volta che un magistrato dà spiegazioni sulla #‎terradeifuochi, è evidente che in questo Paese non cambierà mai niente. Scuse. Solo e sempre giustificazioni. "Non ci sono le leggi". "Non possiamo fare più di tanto". "Non dipende da noi". Insomma, in questa dannata Italia, pare che le responsabilità non siano mai di nessuno... Nel frattempo anche oggi il nostro avvelenamento da #‎roghitossici continua indisturbato. Questi signori o non hanno compreso la gravità dei fatti o fanno finta di non capire. Quanto ancora durerà questa Farsa (?)”

La Terra dei fuochi è fuori controllo? Secondo la Prefettura i roghi illegali di rifiuti sono in calo, ma le foto dei residenti mostrano ancora decine di incendi al mese, scrive Gianluca Dotti, Giornalista scientifico, su “Wired” l'1 settembre 2014. L’associazione La Terra dei fuochi, presieduta da Angelo Ferrillo, ha dichiarato che le forze dell’ordine e le istituzioni non sono in grado di controllare il territorio tra le province di Napoli e Caserta. La Terra dei fuochi sarebbe ancora tempestata ogni mese da centinaia di incendi illegali di rifiuti speciali, come confermato delle foto di roghi scattate durante il mese di agosto e dalle decine di segnalazioni dei residenti sia sul portale laterradeifuochi.it che sulla sua pagina Facebook. Le denunce dell’associazione sono in contrasto con i dati recentemente diffusi dalla Prefettura, che invece testimoniavano una diminuzione degli incendi di rifiuti speciali a 8 mesi dal decreto, a quasi due anni dalla nomina del commissario e 4 mesi dopo che l’esercito ha inviato sul posto 100 militari. Secondo Ferrillo, invece, la situazione continua come prima, se non peggio: richieste di intervento alla Polizia non evase, Vigili del Fuoco in carenza di organico in particolare di notte, “assenza di intelligence” nelle operazioni di contrasto alla malavita. A questo poi, secondo Ferrillo, si aggiunge la disorganizzazione delle istituzioni a tutti i livelli, “dai magistrati ai prefetti fino agli amministratori locali e governativi”, definiti “come dilettanti allo sbaraglio”.

Ferrillo: Terra dei fuochi fuori dal controllo delle forze dell’ordine di Angelo Ferrillo Presidente Associazione "La terra dei fuochi” su “La Voce Sociale” del 30 agosto 2014. Il territorio della cosiddetta terra dei fuochi è completamente fuori il controllo delle forze dell’ordine e di ogni istituzione preposta. È sufficiente consultare il portale www.laterradeifuochi.it o la sua pagina facebook utilizzata dai residenti, per trovarsi di fronte a un quadro apocalittico. I territori a nord di Napoli e a sud di Caserta sono tempestati da centinaia di incendi illegali di rifiuti speciali al mese. Decine le segnalazioni e testimonianze dei residenti. Richieste di intervento alle forze di polizia non evase. Vigili del Fuoco in carenza di organico non sempre tempestivi nel rispondere alle centinaia di chiamate soprattutto notturne. Denunce fatte da anni e depositate nelle Procure che non intervengono a dovere su ogni livello di responsabilità. Assenza di Intelligence nelle operazioni di contrasto finora messe in campo. Insomma istituzioni come dilettanti allo sbaraglio. Dai magistrati ai prefetti fino agli amministratori locali (Regione e Comuni) e governativi. Questo il quadro drammatico della situazione a ben 8 mesi dal Decreto, e dopo che si sono spesi in prima persona ben 8 ministri della Repubblica degli ultimi 3 governi (Monti, Letta, Renzi) , 2 primi ministri (Letta e Renzi) e ultimo tra tutti, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. I ministri coinvolti in ordine sono stati Cancellieri, Clini e Balduzzi del Governo Monti, poi Lorenzin, De Girolamo, Orlando, Alfano del Governo Letta, e ancora Orlando, Galletti e Alfano sotto il Governo Renzi. Ricordiamo inoltre che sono passati quasi due anni dalla nomina di un commissario ad acta incaricato dal Ministero dell’Interno (vice prefetto Donato Cafagna) e 4 mesi dall’invio di 100 uomini dell’Esercito Italiano. Recentemente la Prefettura ha diffuso dati confortanti parlando di una diminuzione degli incendi di rifiuti speciali, ma essi non corrispondono assolutamente alla realtà. Malgrado tutto questo, l’avvelenamento da roghi di rifiuti speciali continua come se non peggio di prima.

CAMERA DEI DEPUTATI SENATO DELLA REPUBBLICA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE ATTIVITÀ ILLECITE CONNESSE AL CICLO DEI RIFIUTI. RESOCONTO STENOGRAFICO MISSIONE GIOVEDÌ 16 LUGLIO 2009 PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GAETANO PECORELLA INDICE Audizione del dottor Angelo Ferrillo, responsabile regionale di «Terra dei fuochi», accompagnato dal dottor Gianluca Manco.

Pecorella Gaetano, Presidente …………………………………………………

D’Ambrosio Gerardo (PD) …………………………………………………….

De Angelis Candido (PdL) …………………………………………………….

Ferrillo Angelo, responsabile regionale di «Terra dei fuochi» ……………….

Izzo Cosimo (PdL) ………………………………………………………………

La seduta comincia alle 13.50.

PRESIDENTE. Signor Ferrillo, lei è responsabile regionale di «Terra dei fuochi» e mi pare che abbiate fatto oggetto di alcune riprese il fenomeno degli incendi notturni appiccati per eliminare immondizie e in particolare copertoni. Vorrei sapere innanzitutto se, in queste occasioni, ci siano stati interventi della forza pubblica, dell'autorità giudiziaria, per impedire di registrare, o se invece abbiate potuto registrare tranquillamente, in assenza di chicchessia.

ANGELO FERILLO, responsabile regionale di «Terra dei fuochi». Interventi ce ne sono stati, però non in misura sufficiente, rispetto alla mole di fenomeni criminali che si verificano sul territorio. Molte volte abbiamo registrato la carenza di risorse (uomini e mezzi) da parte dei vigili del fuoco e delle stesse forze dell'ordine, nella fattispecie la polizia e i carabinieri. Parlo della mia zona di residenza, la provincia di Napoli nord: Giugliano, Villaricca, Qualiano, in cui abbiamo due commissariati (carabinieri e polizia). Tra poco sarà inaugurato il terzo commissariato a Villaricca. Si parla di due sole pattuglie «volanti» per il turno notturno, una in forza ai carabinieri e l’altra in forza alla polizia. Allo stato dei fatti, le forze dell'ordine sono in grande difficoltà nell’intervenire, qualora i cittadini segnalino questo tipo di problematiche. Anche alcuni vigili del fuoco, tramite le testimonianze video che abbiamo registrato mantenendo la riservatezza della privacy, dichiaravano di non essere in numero sufficiente per sopperire alle esigenze dell'intero territorio.

PRESIDENTE. Vorrei sapere come fate a essere tempestivamente presenti dove si verificano questi incendi.

ANGELO FERILLO, responsabile regionale di «Terra dei fuochi». È presto detto: abbiamo stabilito una rete informatica su internet, tramite la quale i cittadini dislocati sul territorio, qualora si manifesti un fenomeno del genere, ci avvisano mediante e-mail, sms, telefonate o altri modi consueti. Ad esempio, c'è un amico che fa parte della nostra associazione, che abita in una zona panoramica, sui Camaldoli, e ha tutta la situazione sotto controllo. Non volendo, stiamo svolgendo un compito che spetterebbe alle istituzioni e in particolar modo alla Protezione civile. Abbiamo istituito un sito che è un punto di raccolta informazioni e, se vogliamo, è anche un'unità speciale di gestione di questa crisi e di questa emergenza. I roghi, talvolta, si verificano in vicinanza dei centri abitati, non solo nelle zone abbandonate di campagna o poco controllate. Si parla di Scampia, territorio cittadino del comune di Napoli, di Giugliano, località Ponte Riccio, dove, oltre alla zona ASI (Area sviluppo industriale), ci sono abitazioni, oppure di Casoria, altro sito interessato da questo fenomeno. Le persone, insomma, hanno il fumo in casa, quindi sono direttamente interessate. Non ci vuole un mezzo speciale per intervenire, o per sapere dell'evento. Avendo tempo a disposizione, avendo sposato questa causa, ci stiamo dedicando alla raccolta di prove di reato inconfutabili, dal momento che i fatti dimostrano continui fumi neri che si levano dal suolo e non sono imputabili a fabbriche o industrie (peraltro non sono presenti sul territorio), bensì a incendi indiscriminati, incontrollati e dolosi di rifiuti speciali, tossici e nocivi, ovvero tutti quei rifiuti che non rientrano nei rifiuti solidi urbani. Non si tratta di malcostume, o di un fenomeno culturale antropologico, come si potrebbe pensare. Queste componenti, magari, sono anche presenti nel fenomeno globale; tuttavia, questo fenomeno è imputabile prevalentemente a un’economia «in nero», che deve smaltire «in nero». Si tratta di un intero indotto economico, che va dal gommista (prima sono stati citati i copertoni) a chi ha un’impresa di termoidraulica e produce resti di lavorazione (tubi di rame ricoperti da guaine di coibentazione). Sapete benissimo che il rame è ritenuto «l’oro rosso», ha un costo e un mercato nero, ragion per cui questi materiali vengono riciclati in modo illegale, recuperando il rame e bruciando le guaine e le plastiche. Come abbiamo documentato, questa attività avviene un po' su tutto il territorio regionale: un rogo l'abbiamo individuato proprio ora sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, venendo qui. Sappiamo che sono roghi tossici, perché partono dal suolo e si trovano in aree delocalizzate. Non può essere, quindi, l’incendio di un capannone, ma potrebbe essere un incendio di altro tipo di materiale. Insomma, si tratta di roghi la cui unica ipotesi di reato è quella dell’incendio di rifiuti, per le aree in cui si trovano. Spesso, quando ne abbiamo avuto il tempo e le condizioni ce l’hanno permesso, siamo arrivati fin sul posto per riprendere quello che bruciava. Si evince dai video che si bruciano copertoni e carcasse di elettrodomestici. Molte volte le finalità degli incendi sono due: per smaltimento e per far perdere le tracce della provenienza del rifiuto. Ad esempio, se ho una fabbrica che produce «in nero» calzature e manifatture in genere di pellame o tessile, devo per forza smaltirne i residui «in nero». Se ci sono dei segni che possono permettere di risalire alla produzione, questi scompaiono con l'incenerimento che, però, lascia spazio ad altri scarichi e quant’altro. Il fenomeno, quindi, è molto complesso. In particolar modo, ci sentiamo di denunciare – fino ad ora non abbiamo sentito voci nella pubblica opinione di questa parte del reato – che purtroppo la maggioranza di questi fenomeni si verifica nei campi Rom localizzati sul territorio, o nei loro pressi. Comunque, si manifestano in tutte le zone degradate, o lontane dai centri abitati e poco controllate. Il fenomeno, però, ha una particolare gravità nei campi Rom, dove dal calar del sole, in tutti i periodi dell'anno, fino all'alba si producono incendi a ciclo continuo. È come una centrale che non si ferma mai.

PRESIDENTE. Ho capito. Vorrei sapere se, nel momento in cui ricevete una segnalazione, non la trasmettiate anche all’autorità di polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Certamente: è stata sporta una denuncia, in cui specifichiamo questi fatti. Al momento, chiamiamo sempre tutte le forze dell'ordine, telefonicamente.

PRESIDENTE. Le chiedo anche se queste forze dell’ordine intervengano sempre.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Molte volte non intervengono, perché i vigili del fuoco – sono due le caserme che competono la nostra zona, quella di Scampia e quella di Monte Ruscello – sono fuori per altri tipi di intervento.

PRESIDENTE. Non ci ha detto niente riguardo a carabinieri e polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Carabinieri e polizia non intervengono quasi mai: ci dicono di chiamare i vigili del fuoco.

PRESIDENTE. Il problema non è di spegnere l'incendio, ma di individuare i responsabili.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Infatti abbiamo pronta una citazione per grave condotta omissiva anche nei confronti delle forze dell'ordine locali, perché, ogni volta che chiamiamo, riscontriamo questo scaricabarile tra la polizia, le forze dell'ordine e i vigili del fuoco. La prima telefonata che si fa è ai vigili del fuoco; poi, provvediamo a chiamare Polizia, Carabinieri e qualche volta anche il Corpo forestale dello Stato. Ebbene, ogni volta ci sentiamo rispondere che dobbiamo chiamare i vigili del fuoco, perché, se non li chiamiamo, loro non intervengono. Da parte nostra sottolineiamo che si tratta sempre degli stessi posti. Non stiamo parlando di luoghi diversi e bisognerebbe svolgere un'attività di controllo per prendere in flagranza di reato questi criminali, Il decreto n. 90 del 2008, istituito dall'attuale Governo, prevede l'arresto, in flagranza di reato. Puntualmente, però, ci troviamo di fronte a questo scaricabarile di responsabilità tra le forze dell'ordine e i vigili del fuoco. Molte volte, ci viene detto che non hanno pattuglie per intervenire. Questa è una situazione paradossale e drammatica. Voglio fare un richiamo alla denuncia che abbiamo sporto. In base ai fatti appena detti, si denunciano seri danni per la salute dei cittadini sottoposti a questi fumi nelle aree indicate, sulla base dei dati emersi dagli studi condotti dall'Istituto superiore di sanità e dall’OMS. Inoltre, sussiste una contaminazione di tutta la catena agroalimentare. Come ben sapete, il problema del latte alla diossina può essere facilmente ricondotto anche a questo tipo di fenomeni. Per di più, i danni sono anche biologici, esistenziali, morali, economici e all'immagine dell'intero territorio. Pertanto, in base alle normative vigenti, visti gli articoli di legge 32 della Costituzione, 40 del codice penale, 2043, 2050, 2051, 2053 e 2059 del codice civile, chiediamo l'adozione di provvedimenti urgenti e cautelari a carattere di straordinarietà e ai fini della salvaguardia della salute e della sicurezza pubblica. La mancata adozione di tali misure integrerà gli estremi dei già gravi reati omissivi a carico della pubblica amministrazione competente, in riferimento al codice penale. Riteniamo che uno dei tanti modi per risolvere la questione (che va al di là dell'emergenza, poiché questa è una questione che risale a vent'anni fa, come già testimoniano i rapporti di Legambiente, i rapporti ecomafia e le varie denunce dei cittadini), sarebbe quello dell’istituzione di un'unità di crisi per coordinare tutte le forze sul territorio (comuni, province, regioni) affinché si affronti il problema a 360 gradi. Partendo da queste economie, che producono i loro rifiuti «in nero», o dalle economie legali, che smaltiscono per abbattere i costi, bisogna cercare di risolvere il problema alla radice, così impedendo alla criminalità locale o extracomunitaria di fare da manovalanza per questo tipo di smaltimento. Le consegno un dossier, con allegata una breve descrizione dei fatti, assieme ad alcune copie per tutti i presenti.

PRESIDENTE. Vorrei sapere se abbiate presentato una denuncia alla procura della Repubblica, per omissione di atti d'ufficio, o se vi siate limitati a un atto politico.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Abbiamo presentato alla procura della Repubblica una denuncia a carico d’ignoti, per reati contro l'ambiente. In base ai documenti prodotti, il prossimo passo sarà….

GERARDO D’AMBROSIO. Mi scusi, vorrei chiedere se abbiate anche indicato, in questa denuncia, tutte le località, note e precise, in cui questi roghi di solito avvengono. Lei parlava prima, ad esempio, di campi Rom: vorrei sapere se ne abbiate indicato l’ubicazione.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Sì, queste località sono specificate e la ringrazio per la domanda, che mi offre la possibilità di precisarlo.

COSIMO IZZO. Quando provvedete a comunicare alle autorità di polizia dell’incendio in corso, vorrei sapere se lo facciate verbalmente, comunicando soltanto che c'è un incendio, o se invece indichiate qualcosa di più particolare in riferimento al sito ed eventualmente, atteso che vi rechiate anche sul posto, comunichiate anche quello che può essere un sospetto sul materiale che viene incendiato.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. La ringrazio per questa domanda, che trovo molto pertinente. Tengo a precisare che, ogni volta che intervengono i vigili del fuoco, viene redatto un verbale d'intervento, dal quale scaturisce una notificazione alla procura e alla prefettura di notizie di reato. I vigili del fuoco riscontrano il materiale che sta bruciando, per cui penso che il Comando generale provinciale dei vigili del fuoco abbia faldoni enormi, relativi a interventi di questo tipo. Questa è una delle tante cose che evinciamo con questa denuncia e ci chiediamo per quale ragione, se le istituzioni sanno, nessuno intervenga. Nell'ultimo anno, solo a Scampia, i vigili del fuoco hanno fatto circa 4.000 interventi, di cui l’80 per cento circa per spegnimento di incendi di rifiuti, con una percentuale di rifiuti speciali. I dati sono in possesso del comando provinciale dei vigili del fuoco. Inoltre, abbiamo fatto una segnalazione unica, mediante una petizione di 700 firme, denunciando questo tipo di reato a carico di ignoti, alla sede della procura della Repubblica di Napoli. Tuttavia, è impossibile da parte dei cittadini fare una dichiarazione scritta di quello che sta bruciando, anche perché non compete loro.

PRESIDENTE. Vogliamo capire se c'è un disinteresse da parte delle forze dell’ordine. Vogliamo sapere, ad esempio, se, quando telefonate, comunichiate specificamente che in una certa località si sta sviluppando un incendio con fumo, oppure se vi limitate a fare una comunicazione dopo l’intervento.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Il disinteresse lo possiamo riscontrare da parte dei vigili del fuoco, in alcuni casi. Non voglio giustificare i vigili del fuoco, ma sono costretti a intervenire nei campi Rom decine di volte al giorno, in particolar modo in quelli di Giugliano e di Scampia. Molte volte – è una testimonianza che ho raccolto con una telecamera che puntava a terra senza riprendere le persone e si sentono solo le voci – la centrale operativa a volte degrada la priorità di questi interventi, perché non possono stare sempre nel campo Rom: non appena si allontano, tornano a incendiare.

PRESIDENTE. Voi sapete che esiste un reparto speciale dei carabinieri, il NOE. Quando si sta verificando un incendio, voi venite avvertiti e, chi vi avverte, vi comunicherà il posto preciso. Ebbene, le chiedo se facciate la stessa cosa con i carabinieri e con la polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. È matematicamente impossibile farlo ogni volta. Chiamiamo i carabinieri, il 113 e il 115, però al numero del NOE non risponde mai nessuno. Aggiungo che, nel momento in cui facciamo la telefonata d’emergenza, al 113 e al 112, specifichiamo il posto dove si sta verificando l’incendio. Addirittura, facciamo di più: sul sito internet, che adesso è diventato un portale, abbiamo raccolto su una mappa digitale – usiamo una tecnologia GPS – ogni singolo luogo che è stato oggetto, fino a oggi, del nostro intervento. Sono stati censiti, quindi, oltre 400 siti da bonificare e da verificare, non presenti nei rapporti ufficiali – questo è specificato nel foglio che vi ho dato – con tanto di coordinate GPS. Abbiamo chiesto anche alla procura di ascoltarci, perché abbiamo del materiale utile per fare intervenire direttamente le forze dell'ordine, o i commissariati per la bonifica. Ripeto che si tratta di siti che non sono presenti nei rapporti ufficiali ARPAC e del Commissario per l’emergenza.

COSIMO IZZO. Al di là dei complimenti per questa attività che svolgete, alla luce di questo censimento che fate dei siti, vorrei che ci chiarisse se ci sono siti ricorrenti.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Sono sempre gli stessi.

COSIMO RIZZO. Le chiedo se, come associazione, non abbiate avuto l'idea di esporre alle autorità e alla magistratura questa ripetizione di incendi, che avvengono sempre nello stesso sito. Non ho capito se lo abbiate già fatto, o meno.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Nella denuncia di novembre 2008 è stato specificato tutto ciò.

CANDIDO DE ANGELIS. Nel materiale bruciato non ci sono solo copertoni. Le chiedo che cosa si bruci d’altro.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. I rifiuti speciali bruciati in questi incendi sono i più svariati possibili. I copertoni sono una parte del problema, perché, come si è accertato da parte di questa Commissione nella riunione che si è tenuta in prefettura in questi giorni…

CANDIDO DE ANGELIS. Mi scusi, la interrompo per chiederle se, secondo voi, si tratti di una questione di criminalità organizzata, oppure di rom. Lei ha fatto un presupposto preciso, poco fa.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Il fenomeno è complesso. Secondo noi dietro tutto ciò si cela un sistema: lo rivelano la sistematicità degli eventi, l’esistenza di un indotto economico, come testimoniano anche le operazioni della procura di Torino fatte un mese fa, che hanno smantellato una banda italo rumena che faceva traffico e ricettazione di rame per un valore di 8 milioni di euro all'anno, 22.000 euro al giorno. Non dimentichiamo che Torino è una città quattro volte più piccola di Napoli e provincia. Se solo volessimo citare il settore specifico del rame, qui in Campania, in particolare nella provincia di Napoli, immaginate di quali cifre stiamo parlando: cifre forse quattro volte superiori a quelle di Torino, quindi siamo nell’ordine dei 30 milioni di euro all'anno. A questo, poi, bisogna aggiungere il mercato degli altri metalli (acciaio e ferro) che vengono ricavati. Pensate che, nell'incendio dell’altra sera nel campo Rom di Giugliano, dove i vigili del fuoco sono intervenuti per merito nostro – i vigilantes all'esterno del campo non volevano farci passare, tanto che ho ricevuto anche intimidazioni verbali – abbiamo trovato che stavano bruciando (ho girato alcuni video) resti di climatizzatori, privati delle parti interne per bruciare le carcasse e per separare le materie plastiche dall’anima di metallo. Immaginate l’inquinamento che si sta producendo! Mentre siamo qui a preoccuparci di ben altri problemi, noi abbiamo definito questa come la vera emergenza della Campania.

PRESIDENTE. Grazie.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Signor presidente, le chiedo di farci sentire la vostra vicinanza, poiché abbiamo ricevuto minacce, non limitate alle sole intimidazioni verbali. Personalmente, ho subito un inseguimento e ho dovuto rottamare una macchina. Hanno cercato più volte di scoraggiarci in questo tipo di attività che svolgiamo. Vista l’attività condotta fino ad ora, senza mettersi contro le istituzioni e cercando sempre il dialogo e un modo civile di servire la cittadinanza, penso che sarebbe il minimo.

PRESIDENTE. Faremo veramente quello che è possibile fare, anche parlando di nuovo con il questore, che abbiamo sentito questa mattina.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Ringrazio la Commissione e buon lavoro.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa l’audizione La seduta termina alle 14.15

Mafia capitale, M5s: “Indagare sulle associazioni antimafia di Ostia”, scrive il 2 dicembre 2015 “Il Nuovo Corriere di Roma”. A due giorni dalla visita della Commissione parlamentare Antimafia ad Ostia, l’unico Municipio di Roma sciolto per le infiltrazioni della criminalità organizzata, M5S ha chiesto «un’indagine approfondita su tutte le associazioni antimafia attive nel X Municipio – dicono fonti parlamentari del Movimento -, che si concilia con la volontà di far luce su ogni attore che opera sul territorio ostiense, visto l’alto grado di permeabilità criminale del territorio». Nella relazione su Ostia, firmata dai consiglieri M5S in Campidoglio – poi decaduti per la fine dell’amministrazione Marino – si fa riferimento «all’Associazione daSUD», al «Comitato Civico 2013», a «I cittadini contro le mafie e la corruzione», a Luna Nuova e a Libera di don Luigi Ciotti. La polemica tra associazioni antimafia a Ostia – un territorio di 300 mila abitanti in cui operano Camorra, Cosa Nostra e clan nomade Spada – e tra Pd e M5S è infuriata soprattutto negli ultimi mesi, specie dopo le dimissioni e il successivo arresto nell’inchiesta Mafia Capitale del presidente Pd del X Municipio Andrea Tassone. Il senatore dem Stefano Esposito, commissario del partito a Ostia e assessore ai Trasporti nell’ultima fase della Giunta Marino, ha più volte accusato i 5 Stelle di essere ambigui con personaggi criminali o chiacchierati di Ostia. «Alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi del Pd» chiediamo di svolgere le opportune verifiche di indagine al fine di valutare in modo certo e inequivocabile la natura politica e legale di ognuna delle suddette associazioni – si legge nella relazione M5S -, ricorrendo ai poteri che l’ordinamento giuridico. «Il fenomeno dell’associazionismo – scrivono ancora i grillini – dev’essere considerato con molta attenzione in quanto, se da una parte può sicuramente rappresentare uno strumento fondamentale di azione civile per il contrasto e la lotta alla mafia, dall’altra si può rivelare uno strumento per la gestione di imponenti interessi economici dietro apparenti attività non lucrative, sociali o culturali che, come dimostrano le indagini riguardanti Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, possono essere spesso un facile strumento operativo in mano a gruppi criminali». «Dopo l’arresto dell’ex presidente di Ostia Andrea Tassone (PD) esistono attualmente, per la prima volta, tutte le condizioni per una rivoluzione innanzitutto culturale nel X Municipio – ancora dalla relazione -, che potrebbe raggiungere il fine di isolare i clan criminali e mafiosi, infondere coraggio ai commercianti onesti che si ribellano alle estorsioni del racket e rafforzare l’azione sociale di contrasto all’illegalità da parte della rete di associazioni del territorio». «Ad Ostia – scrivono i 5 Stelle – la mafia è un cancro da estirpare ed è possibile farlo». Inoltre nel testo si chiede che la Commissione Antimafia «sviluppi un’indagine approfondita e accurata sul grado di permeabilità criminale che interessi o possa interessare» sia «il Partito Democratico capitolino e nazionale», sia «Forza Italia» ed in particolare l’ex giunta Vizzani del X Municipio.

L’antimafia che indaga l’antimafia, scrive Giulio Cavalli il 2 dicembre 2015 su Left”. Il paradosso è che, come conferma il vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ormai si arrivi ad indagare se stessi: i parlamentari decidono di aprire una serie di audizioni per capire cosa sta succedendo nel movimento antimafia che negli ultimi anni vive un lento e inesorabile declino di credibilità che di sicuro non rende felice nessuno. Mafiosi a parte, ovviamente. E così mentre si cerca di capire come è potuto succedere che in Sicilia scoppi il bubbone della gestione dei beni confiscati (con la giudice Saguto, intercettata, in preda a deliri di onnipotenza, senza che nessuno se ne accorga). E proprio sui fatti siciliani e sul processo romano di “Mafia Capitale” ha acceso la luce l’addio a Libera di Franco La Torre, storico componente del movimento nonché figlio di quel Pio La Torre che ebbe l’intuizione di una legge (quella della confisca e riuso sociale dei beni mafiosi) che gli costò la vita. E La Torre, senza mezzi termini e con molta lucidità, ha parlato di «inadeguatezza della classe dirigente» riferendosi a Libera in tutte le sue ramificazioni. Perché se l’antimafia è un cosa seria allora è utile che il movimento sia plurale, con una classe dirigente all’altezza e al passo con i tempi e soprattutto trasparenza. Il magistrato calabrese Nicola Gratteri (uno che l’antimafia la vive al fronte tutti i giorni, mica nei palazzi) ha dato una soluzione che se a prima vista può sembrare banale in realtà sarebbe sicuramente chiarificatrice: togliete i soldi all’antimafia, quei soldi dateli alle scuole e sarà facile capire chi c’è per passione e chi per mestiere. E sarebbe un’ottima idea. Già.

ALTRA TEGOLA SULL'ANTIMAFIA! Scrive il 02/12/2015 Telesud3. A sbattere la porta dell'associazione guidata da don Ciotti è stato il figlio di Pio La Torre, ex segretario regionale del PCI assassinato dalla mafia; entrato in rotta di collisione con il leader torinese, Franco La Torre diventa l'ennesima tegola che si abbatte sull'Annus horribilis dell'Antimafia political correct. Nella seconda edizione del nostro Tg, La Torre ha spiegato a Telesud i motivi della sua decisione di lasciare Libera. A pochi giorni dalle parole del presidente del Senato Pietro Grasso, un’altra tegola si abbatte sull'Antimafia "praticante": Franco La Torre lascia polemicamente Libera. Già l'ex Procuratore Nazionale Antimafia era andato giù duro rivolgendo parole di fuoco al fronte della lotta alla criminalità organizzata invitandola "a guardare al proprio interno ed a abbandonare sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, corsa al finanziamento pubblico e privato". E l'uno-due è arrivato ieri dal figlio dell'ex segretario regionale del PCI, trucidato da Cosa Nostra nel 82. La Torre mette nero su bianco il suo sconforto, sottolineando "l'inadeguatezza della classe dirigente di Libera" rea di ostacolare quel confronto che servirebbe alla sua crescita, rifugiandosi spesso "in un silenzio assordante" mentre "è crescente l'eco dell'Antimafia di convenienza schermo d'interessi indicibili". Parole durissime che si sommano nell'Annus horribilis delle star della lotta alla mafia caduti in disgrazia; dall'inchiesta sul leader di Confindustria Montante al presidente della Camera di Commercio Roberto Helg, tratto in arresto mentre intascava una mazzetta. Ma soprattutto, lo scandalo del Giudice per le Misure di prevenzione di Palermo Saguto, caduta nelle polveri per una indagine che definire imbarazzante è poco; tanto da far decidere al CSM la sua sospensione dalla professione. Ora, l'uno-due di Grasso e La Torre; soggetti che conoscono bene quel mondo, motivo per cui risultano ancora più inquietanti le loro parole. Da registrare che don Ciotti si è detto addolorato per le critiche dell'ex responsabile di Libera Europa, difendendo però la sua creatura "con le unghie e con i denti" ribadendone "l'integrità e correttezza" nel proprio operato; il fondatore di Libera in verità aveva anticipato la "cacciata" di La Torre, con uno stringatissimo sms, dopo che il figlio dell'ex segretario comunista aveva criticato l'associazione all'assemblea generale tenuta ad Assisi lo scorso 7 novembre, in un intervento dal palco dove anticipava le frasi poi ribadite in questi giorni alla stampa.

“SONO STATO CACCIATO NEMMENO CON UNA TELEFONATA MA CON UN SMS DI DON LUIGI CIOTTI. PERBACCO, HO 60 ANNI E PENSO DI MERITARE RISPETTO E BUONA EDUCAZIONE”. La voce di Franco La Torre è pacata, il fraseggio elegante e misurato. Eppure non si capacita della rottura clamorosa con il fondatore di Libera, che l’ha allontanato dall’associazione e persino dalla cura del premio dedicato al padre Pio La Torre, il politico Pci ucciso nel 1982 a Palermo dalla mafia. Una vicenda che scuote il mondo dell’antimafia perché Franco La Torre è uno dei nomi più altisonanti nella battaglia alla criminalità organizzata: “Don Ciotti è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario, questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio ma io un padre ce l’ho e me lo tengo stretto”, dice al telefono con l’HuffPost. Tutto è cominciato con un intervento all’assemblea generale di Libera il 7 novembre ad Assisi. Dal palco, apertamente, La Torre aveva sollevato questioni imbarazzanti come la mancata comprensione di Mafia Capitale o le problematiche di Palermo, dove in pochi mesi un simbolo dell’antimafia come il presidente di Confindustria Sicilia è stato arrestato per rapporti con Cosa Nostra mentre la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati ed è stata intercettata mentre sproloquia contro la famiglia Borsellino. E Libera non si era accorta di nulla, o almeno questa è la lettura di La Torre. Dopo qualche giorno un secco messaggio di don Ciotti: “Si è rotto il rapporto di fiducia”. Poi il nulla. La Torre è categorico: “Una modalità impropria e irrispettosa: di quale fiducia parliamo se si può neutralizzare con un messaggio di 140 caratteri?”.

Cacciato da Libera. Ha capito il motivo?

Provo un grande dolore per questa vicenda. Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi, posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all’assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia. E invece nonostante i miei numerosi tentativi per il momento ho saputo che don Ciotti non desidera parlare con me, o forse lo farà prossimamente. Chissà.

Perché ha mosso critiche a Libera? Cosa non va nell’associazione?

Libera è cresciuta in maniera straordinaria grazie a don Luigi e alle migliaia di attivisti che lavorano volontariamente a livello locale. Ma anche la mafia è cambiata negli ultimi anni. Le classi dominanti che noi chiamiamo mafia hanno assunto caratteristiche differenti e basti guardare all’inchiesta Mafia Capitale. Ecco, all’interno di Libera eravamo molto concentrati su Ostia, dove avevamo fatto un ottimo lavoro, ma abbiamo perso la visuale d’insieme che invece è stata compresa perfettamente dal procuratore Pignatone. Purtroppo avevamo sottovalutato il fenomeno così come abbiamo sottovalutato i casi della giudice Segato a Palermo. Da quel palco ad Assisi ho detto che dovevamo alzare l’asticella.

Ha accusato Libera di mancanza di democrazia interna. Questa caratteristica è legata alla mancata comprensione della nuova mafia?

La crescita vertiginosa di Libera non ha permesso il rafforzamento, la formazione e la selezione di una classe dirigente. Non vedo i criteri di alcune nomine dall’alto, poiché penso che una persona debba essere testata sul campo prima di affidarle un compito dirigenziale. Allo stesso tempo se in pochi mesi cinque figure di primo piano si allontanano allora significa che occorre rivedere gli schemi. A don Ciotti forse non è piaciuto che lo dicessi così apertamente: gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma ma è un personaggio paternalistico con tratti autoritari.

Libera non è più all’altezza del suo compito?

L’associazione ha dei meriti enormi, a partire dalla lotta per i beni confiscati. Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Don Luigi proprio a causa di queste inefficienze è costretto a occuparsi in prima persona di assemblee provinciali e regionali e troppi in Libera sono ancora convinti che “tanto c’è don Luigi”. Ma fino a quando porterà la croce? Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità.

Si è dimesso anche dal premio intitolato a suo padre, Pio La Torre. Lo lascerà in mano a Libera?

Il premio Pio La Torre è libero e indipendente ma per comprendere cosa succederà dovrebbe chiederlo ai referenti di Libera.

Se don Ciotti dovesse tornare sulla propria decisione?

Ho raccontato la mia verità e probabilmente devo fare anch’io autocritica. Sulla vicenda della mafia ad Ostia non sono stato presente e avrei dovuto dare una mano. Io mi auguro di parlare presto con don Luigi, queste sono le mie idee e se non siamo d’accordo possiamo anche dividerci ma non capisco perché la discordanza di vedute debba portare a un litigio che ricorda le rabbie famigliari e non certo un’associazione matura come dovrebbe essere questa. Credo che l’antimafia debba compiere un salto ulteriore per continuare a svolgere il suo compito importante. E’ una grande opportunità, spero che a Libera sappiano coglierla. Articolo di Laura Eduati su "L'huffingtonpost" dell'1 dicembre 2015.

Estremisti dell'antimafia riflettete sul caso Libera. La lite Ciotti-La Torre manda in crisi un mondo che crede di avere la verità in tasca, scrive Peppino Caldarola il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. La rottura al vertice di Libera racconta molte cose sui cambiamenti nell’Italia di ieri. Scrivo l’Italia di ieri perché fino a poco tempo fa alcuni nomi, alcune associazioni, alcune situazioni apparivano inattaccabili e ogni critica veniva presa come lesa maestà o, peggio, collusione con il nemico. Libera si è spaccata perché Franco La Torre, figlio di Pio, è stato estromesso con un sms di don Luigi Ciotti dal vertice dell’associazione dopo un suo duro intervento nell’ultima assise. Don Ciotti è un prete benemerito a cui dobbiamo tanta parte della crescita civile del Paese. Instancabilmente ha girato l’Italia per sollecitare prese di posizione singole e associate contro il crimine, ha segnato con la sua presenza stagioni intere dell’Antimafia, ha salvato ragazzi dalle droghe. Una bella storia, una bella biografia. Franco La Torre è un uomo mite e colto. A differenza del suo papà, di cui mi onoro di essere stato amico e che mi chiese di collaborare con lui quando diventò responsabile del Mezzogiorno del Pci, Franco non ama le grandi platee. Era un conduttore molto bravo di Italiaradio, l'emittente del Pci di cui fu la “voce” con un altro personaggio ora scomparso di grande valore, Romeo Ripanti, poi scelse l’associazionismo. Insomma, stiamo parlando di due persone di qualità, diversissime che hanno per anni collaborato e che ora si lasciano bruscamente e con un filo di rancore. Non so se riusciranno a ricomporre il rapporto, sappiamo che un vero terremoto sta scuotendo il mondo che ha segnato la cultura di sinistra in Italia negli ultimi trenta anni. È caduto il mito della magistratura integerrima e infallibile. Si sono moltiplicati i casi, l’ultimo a Palermo, di magistrati infedeli, troppi pm hanno scelto la strada della politica rivelando la propria modesta statura (basta pensare alle ultime dichiarazioni di Ingroia contro il Pd legato a gruppi criminali), i magistrati litigano fra di loro come comari inselvatichite, persino Travaglio comincia a nutrire qualche dubbio sul casino che lui e i suoi hanno combinato. Sul versante politico il movimento 5Stelle, la cui crescita è stata agevolata dagli errori della sinistra e dalla strada spianata del giustizialismo, mostra di non voler avere debito verso alcuno: hanno messo alla porta Di Pietro, ignorato Ingroia, attaccato don Ciotti su Ostia. C’è solo un piccolo drappello di politici e giornalisti ( e uso il termine “drappello” non a caso perché notoriamente indica un gruppo ristretto di uomini comandati da ufficiali di rango inferiore) che continua a muoversi sulla scena pubblica come se stessimo nel passato. La ricreazione, invece, è finita anche per loro. Vedete la fine dei talk serali interamente politici, inventati a sinistra e oggi dominati da centurioni della destra. Ciascuno è vittima delle proprie macchinazioni. Il tema di oggi è come salvare il meglio di quelle esperienze, come mettere in sicurezza quei settori della magistratura che hanno ben lavorato senza secondi fini spettacolari o politici, dare fiducia a quegli uomini e donne dell’associazionismo che hanno faticato per costruire una tela che ha aiutato l’Italia a salvarsi, quel mondo intellettuale, specie siciliano, ma non solo, che ha analizzato la mafia con gli strumenti scientifici (Fiandaca, Lupo, Sciarrone) e non con i teoremi di magistrati in vena di spettacolarizzazione. Forse bisognerebbe invitare questi mondi antimafia, e quelli pacifisti che gli sono stati a fianco, a fare un’analisi realistica sui limiti culturali della loro esperienza, sul prezzo pagato al protagonismo di leader e capipopolo, su una maggiore apertura verso chi non ha sposato le loro tesi estremiste. Insomma loro, come tutti sapevamo, non avevano la verità in tasca e spesso nelle loro fila qualcuno in tasca non aveva buone intenzioni, come teme Franco La Torre.

Maledizione Antimafia su Libera. Volano gli stracci tra i duri e puri, scrive Martedì 01 Dicembre 2015 Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Il network di associazioni fondato da don Ciotti, che negli anni ha visto accrescere il suo peso anche nel rapporto con la politica, non viene risparmiato dai veleni che hanno attraversato in questo anno il mondo dell'antimafia. E alla fine, proprio negli ultimi scampoli, l'anno maledetto dell'Antimafia non ne risparmiò nemmeno l'ultimo baluardo. Investendo persino Libera, l'ultimo moloch rimasto in piedi dell'antimafiosità organizzata, con una polemica interna innestata da Franco La Torre, figlio di Pio, che lascia la creatura di don Ciotti sbattendo la porta. Una baruffa che scuote il coordinamento di associazioni antimafia, fondato e presieduto del sacerdote torinese. La Torre, nell'articolo apparso oggi su Repubblica, parla di “autoritarismo” e “mancanza di democrazia”, sollevando dubbi sulla classe dirigente del movimento. Un network che in questi vent'anni ha visto crescere esponenzialmente le sue dimensioni e il suo peso. E ampliare sempre di più la sua influenza sulla politica. Libera è un coordinamento di associazioni antimafia, punto di riferimento per oltre 1.600 realtà nazionali e internazionali, impegnato su diversi fronti contro la criminalità organizzata. Un mondo articolato e variegato il cui cuore economico, ricostruiva in un dettagliato articolo su Livesicilia Claudio Reale qualche mese fa, è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. All'impegno sul fronte dei beni confiscati, la galassia di don Ciotti affianca altre attività di impegno sociale come i percorsi educativi in collaborazione con 4.500 scuole e numerose facoltà universitarie e il sostegno alle famiglie delle vittime delle mafie, che passa anche dalla mobilitazione annuale del 21 marzo, “Giornata della memoria e dell’impegno”. Affollatissima quella di quest'anno a Bologna, presenti tra gli altri la presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi e l'immancabile Giancarlo Caselli, che con don Ciotti da tempo forma un ideale tandem, germogliato in quel cattolicesimo torinese di sinistra (cattocomunista, direbbero i detrattori), dialogante con la tradizione azionista del capoluogo piemontese. Un ambiente culturale e politico rappresentato ai massimi livelli, non solo nell'associazionismo e nelle procure. Ma anche nella politica, dove la galassia di Libera si è fatta e si fa sentire eccome. Ad esempio spingendo anni fa, a suon di imponenti raccolte di firme, per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati. Ma anche, negli ultimi anni, con una più diretta attività di lobby, entrando direttamente nelle Istituzioni con propri rappresentanti. Come già era avvenuto con Rita Borsellino, cofondatrice, vicepresidente e poi presidente onoraria dell'associazione. Alle ultime Politiche, i candidati vicini a don Ciotti furono ben quattro, tra Piemonte e Calabria, distribuiti tra Pd e Azione civile di Antonio Ingroia. Tra loro il piemontese Davide Mattiello, per anni dirigente di Libera, che in Parlamento è andato a fare anche il relatore della legge di riforma della gestione dei beni confiscati, tema quanto mai caro a Libera. Riverita dai politici di sinistra (che fanno a gara ad apparire pubblicamente a fianco al “don”), la creatura di don Ciotti negli ultimi tempi è stata presa di mira dal Movimento 5 Stelle per una vicenda che riguardava la gestione di lidi balneari a Ostia. Vicenda sulla quale Libera rispose punto per punto alle accuse grilline. Fu la rottura di quello che era sembrato un mezzo idillio con i pentastellati. Ora arriva il “caso” La Torre. Raccontato oggi da quello che in questi anni è stato uno dei giornali più attenti alle vicende della creature di don Ciotti, quella Repubblica diretta (ancora per un po') da un altro figlio della Torino crogiolo di ideologie in cui confluivano il Pci, la cultura azionista e pure un certo "intransigentismo" cattolico, cioè Ezio Mauro. A sua volta già direttore de La Stampa, quotidiano che negli anni della Primavera seguì da molto vicino le mosse di quell'antimafia politica che prendeva corpo in Sicilia e che per lessico antisistema e contenuti aveva quasi un filo rosso a collegare la Palermo di Padre Sorge, Padre Pintacuda e Leoluca Orlando alla Torino di Cesare Romiti. Proprio negli anni caldissimi della procura guidata da Giancarlo Caselli. Nell'anno in cui l'Antimafia s'è rotta, insomma, nessuno sembra immune dal terremoto. Azzoppata l'antimafia-lobby in giacca e cravatta degli imprenditori, "mascariata" persino quella togata dopo lo choc dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati, ha tenuto botta quella delle t-shirt, del clergyman e dei cappellini. Che pur restando lontana da scandali giudiziari, vede adesso irrompere l'ombra dello scontro e dei veleni. Scatenati, spiega La Torre a Riccardo Lo Verso, anche dal “caso Saguto”. Già quella Silvana Saguto che raccontò in un'intervista di avere ricevuto da Libera e Addiopizzo segnalazioni sugli amministratori da nominare. Circostanza questa smentita dagli interessati. Che pararono il colpo, così come era accaduto con la polemica dei 5 Stelle. Ma che stavolta si trovano a dover fare i conti con le accuse di chi ha vissuto sotto quel tetto per anni. È l'annus horribilis dell'Antimafia, in cui ogni giorno ha la sua pena. Proprio per tutti.

Clamoroso, Don Ciotti vuole abolire la parola “antimafia”: Libera in crisi, scrive “Sicilia Informazioni” il 2 dicembre 2015. “Antimafia è una parola che non bisognerebbe più usare, è stata svuotata di ogni significato”. Don Luigi Ciotti in una intervista a La Repubblica, ha lanciato la sua provocazione. La sua “creatura”, Libera, vive una stagione difficile. Crisi nera. Cinque dirigenti dimissionari e l’uscita di scena di Franco La Torre, figlio di Pio, che se ne va accusando Libera di non avere saputo prevenire ed intercettare fenomeni gravi, come Roma Capitale e il caso Saguto, Palermo, i beni sequestrati alla mafia. E’ stata la magistratura a scoperchiare la pentola. Libera non ha mai avvertito alcuna delle anomalie diventate oggetto di inchiesta giudiziaria. Sulla gestione dei patrimoni sequestrati si è osservato il silenzio. Non sapevano niente o andava bene così? Ora le domande se li fanno anche all’interno di Libera. A cominciare da Franco La Torre che propone il suo j’accuse, dopo le dimissioni. “Libera – sostiene – unisce l’autoritarismo, l’assenza di democrazia, l’inadeguatezza della sua classe dirigente. E ricorda le dimissioni dei dirigenti, il silenzio assordante sull’antimafia di convenienza, “schermo di interessi indicibili”. Libera, accusa La Torre, non è riuscita ad “intercettare interessi oscuri che si muovono in campi di sua competenza”. Don Luigi Ciotti confessa di essere addolorato per ciò che avviene, ma raccomanda di uscire dalla generalizzazione, di indicare fatti precisi su cui intervenire e riflettere. Altrimenti si fa danno e basta. Ma le accuse di Franco La Torre “bruciano”. Chi è il destinatario principale? Chi gestirebbe Libera con pugno di ferro? Chi sono gli incompetenti che l’hanno danneggiata? Chi protegge gli oscuri indicibili interessi? Don Luigi Ciotti, amareggiato, avverte che lanciare strali generici fa solo male a Libera, ma lancia a sua volta accuse molto gravi sul mondo dell’antimafia, contro “chi ha approfittato del lavoro e del sacrificio di migliaia di persone”. Libera non è una holding, ricorda, ma un tante associazioni insieme, che agiscono in piena indipendenza ed autonomia. “Ci sono comportamenti che hanno fatto venir meno il rapporto fiduciario”, osserva Don Ciotti, lasciando anche lui molte domande senza risposta. Stanno esplodendo, uno dopo l’altro, i casi di un uso “privato” della lotta al crimine organizzato. Mafia Capitale e la sezione dei beni confiscati di Palermo sono stati, forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La crisi di Libera è, infatti, la crisi dell’antimafia. Libera è il cuore dell’antimafia, la sua proiezione nazionale più forte e, finora, più rispettata. Ma è anche qualcos’altro, le sue associazioni di Libera gestiscono patrimoni colossali ovunque nel Paese, ed in particolar modo in Sicilia, Campania e Puglia, Calabria. La gestione “autoritaria”, denunciata da Franco La Torre, e l’ingente patrimonio amministrato forse spiegano, in qualche misura, la crisi di Libera. Don Ciotti, preoccupato, vuol abolire la parola “antimafia”. Potrebbe servire ben altro.

A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l'isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell'ora di libertà. Proprio mentre era sottoposto a regime di 41 bis, il 24 maggio 1994 durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l'uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto dal capo-redattore della Gazzetta del Sud Paolo Pollichieni, al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli ed altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L'intervento di Riina causò l'apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41 bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno. Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell'ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell'udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e riferisce dei contatti fra l'allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo al tempo non convocato in dibattimento. Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all'ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci. Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte del Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato. Il 31 Agosto 2014 i giornali riferiscono che nel novembre dell'anno prima il Riina avrebbe rivolto minacce anche nei confronti di Don Luigi Ciotti.

Le marchette a favore di Libera e di don Ciotti. Dal carcere duro di Opera, Totò Riina, pericoloso e potente boss di Cosa Nostra minaccia Don Luigi Ciotti, uomo semplice, sacerdote con il Vangelo sempre in tasca e le mani sempre tese verso l'altro. Ma perché tanta paura di un solo prete?, si chiede Desirèe Canistrà su “Parolibero”. Le intercettazioni pubblicate da La Repubblica, risalgono al 14 settembre scorso, vigilia del ventesimo anniversario dell'omicidio di Padre Pino Puglisi; sono le solite chiacchierate tra Riina e il suo compagno d'ora d'aria, Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita, ascoltate in diretta dagli investigatori della Dia di Palermo. A rendere irrequieto Riina sembra essere il desiderio della Chiesa di rilanciare il messaggio del prete di Brancaccio, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno e beatificato lo scorso anno. «Questo prete- afferma Riina in riferimento a Don Luigi Ciotti - è una stampa e una figura che somiglia a padre Puglisi; il quartiere lo voleva comandare. Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare... il territorio, il campo, la Chiesa, lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva fare iddu nel territorio... cose che non ci credete». Don Ciotti prende le distanze da questo paragone con Padre Puglisi, «Sono un uomo piccolo e fragile» afferma, preferisce definirsi un membro della «Chiesa che interferisce». Ma il punto é proprio questo: c'è una Chiesa che interferisce? O gli uomini consacrati, che si impegnano ogni giorno per il bene comune, sono solo persone stra-ordinarie? Nel dialogo Riina-Lorusso, l'ex boss di Cosa Nostra ha poi minacciato di morte il sacerdote presidente di Libera «Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo...Salvatore Riina, uscendo, è sempre un pericolo per lui... figlio di puttana». Nella Chiesa che interferisce, queste parole non fanno paura, «la forza si trova nel "noi", è un "noi" che vince» ripete anche in questa occasione Don Luigi, un "noi" che racchiude vent'anni di lotta contro la criminalità organizzata attraverso l'associazionismo laico e attraverso la testimonianza del Vangelo da parte di un sacerdote che non si impone con catechismo e magistero ma dimostra l'amore per Dio e per gli altri attraverso l'impegno quotidiano, «Per me l'impegno contro la mafia - afferma Don Ciotti - è da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, delle violenze, al suo stare dalla parte delle vittime, dei poveri, degli esclusi». «Sono sempre agitato perché con questi sequestri di beni..."; è con questa frase a metà del Boss di Corleone che, ancora ora oggi, l'intuizione di Rognoni e La Torre e la legge sul riuso sociale dei beni confiscati ai malavitosi si dimostrano le armi più potenti per la lotta contro la mafia. «Quei beni restituiti a uso sociale segnano un meno nei bilanci delle mafie e un più in quelli della cultura, del lavoro, della dignità che non si piega alle prepotenze e alle scorciatoie - prosegue Ciotti - C'è una mentalità che dobbiamo sradicare, quella della mafiosità, dei patti sottobanco, dall'intrallazzo in guanti bianchi, dalla disonestà condita da buone maniere».

La verità è che Riina è un vecchio ergastolano, che non fa più paura a nessuno, ma che, nonostante sia al 41 bis, quindi in isolamento, ogni sua affermazione stranamente trapela e viene diffusa in tutto il mondo. Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto ad ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all'interno del carcere ed i contrasti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri. La legge specifica le misure applicabili, tra cui le principali sono il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all'aperto (cosiddetta ora d'aria) e la censura della corrispondenza. Eppure, come spesso si legge su “La Repubblica”, le intercettazioni sono passate e pubblicate. I pizzini ora li danno i magistrati ed i giornalisti. Che senso ha diffondere una notizia di procurato allarme per una minaccia inesistente e montare un coro unanime di solidarietà con destinatario Don Ciotti. Che avesse bisogno di ulteriore visibilità, rispetto alla sua flebile notorietà destinata all’oblio?

Di seguito vi è un articolo di "la Repubblica", noto giornale fan sfegatato dei magistrati e di Libera di Don Ciotti. Un esempio lampante di come il sistema di pennivendoli corrotti dall’ideologia, prono alla sinistra ed ai magistrati, riesca a fare una pubblicità ingannevole a favore di Libera, infangando centinaia di associazioni antimafia locali, che non possono difendersi, proprio perchè non hanno soldi per pagare l'informazione. Sì. Perchè l'informazione si paga.

«Cari miei amici giornalisti e magistrati comunisti – afferma Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte Le mafie” – il fatto che denigrate o ignorate o addirittura perseguitate quelli che come me danno fastidio al vostro tornaconto, non mi esime dal dirvi che non un euro è stato versato alla mia associazione, sia da privati, che dallo Stato, né un bene confiscato alla mafia mi è stato affidato. Non per questo, però, mi si impedisce di far leggere i miei libri in tutto il mondo. Giusto per raccontare una verità storica in antitesi alle vostra verità artefatte ed ingannevoli.»

Il lato oscuro dell'antimafia. Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo e Alan Davis Scifo su “La Repubblica”. Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.

Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparente.

Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio.

Gli inganni dell'antimafia. Nel composito -  e talvolta oscuro -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.

Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?

"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: 'O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casinò".

Lei come ha risposto?

"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".

Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?

"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".

Da chi è composta questa associazione antimafia?

"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telematico.

"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?

"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".

Lei ha paura di queste persone?

"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?

"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".

La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".

Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?

"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?

"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?

"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?

"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".

Che tipo di controlli si possono fare?

"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".

Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?

"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?

"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?

"Assolutamente sì".

Un'associazione per tutti i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie tutti i testimoni di giustizia d'Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione che raccoglie tutti i testimoni di giustizia?

"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?

Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?

Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?

Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.

Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi…

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

Foggia, sottoscritto il protocollo contro il racket delle estorsioni, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 12 ottobre 2015. E' stato sottoscritto oggi nella prefettura di Foggia, alla presenza del commissario straordinario di governo per le iniziative antiracket e antiusura, Santi Giuffrè, un protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni estorsivi nei cantieri edili. Alla cerimonia della firma sono intervenuti il prefetto di Foggia, Maria Tirone, il presidente onorario della Fondazione antiracket, Tano Grasso e il presidente dell’Ance Foggia, Gerardo Biancofiore. (Mancavano tutte le altre associazioni tematiche locali). L'iniziativa consente il rafforzamento di tutte le azioni a sostegno delle imprese di costruzione e a tutelarne il libero esercizio. Mira, in particolare, a incrementare il senso di sicurezza percepito dagli imprenditori e a divulgare le informazioni per la conoscenza delle iniziative e delle norme esistenti in materia di racket. "La firma dei protocolli sta ad indicare la volontà da parte dello Stato e delle istituzioni di muoversi in una direzione compatta e congiunta verso la legalità". Lo ha dichiarato nel corso di un incontro in prefettura il commissario straordinario di governo antiracket e antiusura, Santi Giuffrè. "Il punto – ha spiegato – è far capire che la firma dei protocolli rappresenta solo il punto di partenza verso un percorso comune, una strada difficile e complessa ma che rappresenta l’unica strada che può portare ad una sorta di riscatto del Sud e del Mezzogiorno. La realtà di Foggia è una delle più complesse d’Italia. La mia ennesima presenza qui è la testimonianza della volontà di dare una mano a questo territorio". "Siamo qui per testimoniare la presenza di uno Stato – ha proseguito Giuffrè – che oltre ad essere repressivo possa essere un momento di ristoro per le vittime che intendono fare una scelta di legalità e di denuncia. L’edilizia è il volano dell’economia nazionale ed è dunque il settore più colpito dal fenomeno estorsivo. Un settore delicato in cui gli interessi sono contrapposti, però anche in questo caso bisogna provare a cambiare, forti della convinzione che lo Stato dà aiuti e contributi a chi si dirige verso la legalità". "Quindi – ha concluso – è una scelta non solo di dignità ma anche di necessità anche perchè non praticando legalità le aziende hanno una durata temporale molto contenuta. Molte volte gli imprenditori sono stati prima complici e poi vittime, questo perchè la linea di confine è molto labile".

Antiracket Foggia nel caos, la famiglia Panunzio lascia l’associazione: Grasso tace, scrive “Il Resto del Gargano” il 13 ottobre 2015. Non è solo lo scontro tra Tano Grasso e Franco Landella a tenere banco. La famiglia di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso per aver denunciato i suoi estorsori, chiede la restituzione del nome. Clima tutt’altro che sereno a Foggia per l’associazione antiracket nata nel capoluogo pugliese appena un anno fa. Al centro delle polemiche lo scontro tra il Comune di Foggia e Tano Grasso, presidente della FAI (Federazione delle associazioni antiracket) e presidente onorario della Fondazione di Foggia.

Ad accendere la discussione sono state le parole di Grasso nel corso della sottoscrizione, ieri in prefettura, del protocollo di intesa per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni estorsivi nei cantieri edili. “Una delle cose che mi ha stupito in questo anno di esistenza dell’Antiracket a Foggia – ha detto Grasso – è stato l’atteggiamento negativo del Comune. Nel processo ‘Corona’, uno dei più importanti processi in corso contro il racket delle estorsioni, il Comune di Foggia inspiegabilmente e gravemente non si è costituito parte civile né nel rito ordinario né in quello dell’abbreviato. Nel momento in cui si tenta di attivare un meccanismo virtuoso, nel momento in cui prefettura, magistratura e forze dell’ordine manifestano un impegno di questo tipo – ha concluso – è molto grave che in questo circolo virtuoso manchi proprio il soggetto che rappresenta la comunità, ovvero il Comune”.

Parole che naturalmente non sono state apprezzate a Palazzo Città, in particolare dal primo cittadino di Foggia Franco Landella: “Il tono e il contenuto delle dichiarazioni rilasciate questa mattina contro il Comune di Foggia da Tano Grasso sono inaccettabili – ha commentato Landella – Delegittimare le istituzioni liberamente e democraticamente elette dai cittadini non solo non è d’aiuto per sconfiggere il racket delle estorsioni, ma, cosa ancor più grave, rappresenta una palese ed intollerabile mancanza di rispetto verso la città”. “Come ha già ampiamente dimostrato l’assessore al Contenzioso, Sergio Cangelli, si è trattato di un mero disguido – precisa il primo cittadino –. Questa Amministrazione in altre circostanze si è già costituita parte civile in altri processi, proprio a dimostrazione della sua sensibilità verso questo tema, e continuerà a farlo, a prescindere dalle polemiche strumentali messe in campo in queste ore”.

Non è mancata una frecciata personale del sindaco nei confronti di Tano Grasso: “Vale la pena ricordare al presidente Grasso – sottolinea Landella – che mentre oggi punta l’indice contro la politica e le istituzioni, in passato ha preferito tenere lontani proprio i rappresentanti della politica dalle sue iniziative antiracket. Mi riferisco in particolare al 5 dicembre 2012, quando Grasso impedì al sottoscritto di partecipare, come cittadino (benché all’epoca fossi anche vicepresidente del Consiglio comunale) alla ‘passeggiata antiracket’ organizzata per le strade di Foggia dalla sua Federazione. Sarebbe dunque il caso che Grasso chiarisse in modo più preciso la sua posizione sul punto: la battaglia contro il racket è una prerogativa esclusiva della sua Federazione ed è lui a decidere quando è opportuno l’intervento dei rappresentanti delle istituzioni (e, soprattutto, di quali rappresentanti)?”.

A spiegare perché il Comune di Foggia non si è costituito parte civile nel Processo "Corona" è l’assessore comunale all’Avvocatura Sergio Cangelli: “Restituiamo al mittente le considerazioni espresse dal Presidente onorario della FAI, Grasso. Sul caso specifico, il Comune aveva dato l’indirizzo di costituirsi parte civile nel processo ‘Corona’. Non essendo, però, parte lesa in questo procedimento, ha dovuto acquisire autonomamente, grazie alla collaborazione della Camera di Commercio, i relativi dati identificativi. Pertanto, quando si è materialmente provveduto a formalizzare l’atto di costituzione di parte civile, erano scaduti da un giorno i termini per la detta costituzione. Ci rammarichiamo per il disguido, ma non riteniamo che possa essere oggetto di strumentalizzazione da parte di chicchessia”. Una risposta però che potrebbe non bastare a placare le polemiche in corso.

Ad inasprire ulteriormente gli umori c’è un altro fattore: le dimissioni della famiglia di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso per aver denunciato i suoi estorsori, di cui l’associazione foggiana porta il nome. La notizia, ieri sussurrata, è stata confermata oggi dalla stessa famiglia. Michele Panunzio e la moglie Giovanna Belluna hanno inviato, infatti, sia a Tano Grasso che alla referente foggiana dell’antiracket, Cristina Curci, una lettera di abbandono dell’associazione chiedendo di non utilizzare più il nome del loro congiunto.

Una decisione alla quale il presidente Grasso finora non ha dato risposta, come ha fatto notare il capogruppo de La Destra in Consiglio comunale, Bruno Longo: “Il presidente l’ha stranamente taciuta. Così come a fronte di cospicui finanziamenti comunitari ottenuti, non siamo a conoscenza dei numeri che ha prodotto la FAI in provincia di Foggia, ovvero quante denunce siano state effettuate da imprenditori e commercianti taglieggiati. Sembra, addirittura, che la Corte dei Conti di Napoli abbia aperto un’inchiesta sui fondi comunitari ottenuti dall’associazione che fa capo a Tano Grasso, ex parlamentare del Partito Democratico della Sinistra”.

Duro scontro tra l'associazione antiracket e il sindaco foggiano per la mancata costituzione di parte civile al maxi processo contro la mafia locale. Una grave assenza, denuncia il presidente Tano Grasso, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso” il 20 ottobre 2015. A Foggia la lotta alla mafia istituzionale fa dieci passi indietro. Il Comune infatti ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo iniziato ormai il mese scorso alla “Società foggiana”, un'organizzazione feroce e affaristica allo stesso tempo. Una grande famiglia criminale composta da una testa, un vertice, e da tante batterie per quartiere. Da troppo tempo sottovalutata, e proprio per questo cresciuta a dismisura. Ma a tenere banco è la polemica tra l'associazione antiracket guidata da Tano Grasso (parte civile nel dibattimento in corso insieme alla camera di commercio e all'associazione capitano Ultimo), e il sindaco di centro destra Franco Landella. Già, perché mentre a Roma, contro mafia capitale, a Palermo, contro Cosa nostra, a Reggio Calabria, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria e in Emilia contro la 'ndrangheta, ormai è prassi che i municipi si costituiscano parte civile nei processi di mafia, nella città pugliese l'antimafia istituzionale perde una grande occasione. La mancata presenza al maxi processo è un pessimo messaggio agli imprenditori vittime della cosca foggiana e ai cittadini. Così almeno la vede il presidente dall'associazione antiracket Grasso, che a “l'Espresso” dichiara: «Tale processo è il più importante procedimento penale degli ultimi anni per associazione mafiosa che riguardi la città di Foggia. Un assessore, nel giustificarsi, ha dichiarato che il Comune non era parte lesa in tale procedimento. Si tratta di una grave inesattezza: per definizione una comunità è sempre parte offesa allorchè l’autorità giudiziaria persegue un’associazione mafiosa; il Comune in quanto rappresentante della comunità ha il dovere di intervenire nel processo per la tutela degli interessi della comunità ed in suo nome rivendicare il risarcimento dei danni». Il primo cittadino Landella si è difeso dagli attacchi giustificando l'assenza con non meglio precisati ritardi burocratici dovuti alla mancata comunicazione dell'inizio del processo e alla lentezza nella risposta da parte degli uffici preposti a predisporre la documentazione necessaria. Insomma, per sindaco e assessori si è trattato solo di un disguido tecnico. «Troviamo per nulla convincente la spiegazione addebitabile al cosiddetto “disguido temporale”. E’ bene richiamare l’ampia disponibilità di tempo avuta: l’udienza preliminare nel corso della quale si è costituita parte civile la Fai e la Camera di Commercio si è tenuta il 25 marzo e, tra l’altro, molto annunciata sui media locali; il 25 maggio ha avuto inizio il processo con il rito abbreviato, scelto in prevalenza dai boss imputati; il 14 settembre, infine, quello con il rito ordinario. C’era tutto il tempo per intervenire nel procedimento!», replica Grasso, che aggiunge: «Così avviene pacificamente in ogni parte d’Italia sin dal 10 febbraio 1986 quando per la prima volta il Comune di Palermo si è costituito parte civile nel maxi processo di Falcone e Borsellino. Inoltre, l’intervento nel procedimento penale del Comune assume un rilevante significato politico: è un segnale per i criminali e allo stesso tempo un segnale per la comunità che si amministra. Vedendo gli avvocati del Comune nel processo, seduti accanto alla pubblica accusa e alle altre parti civili, i criminali capiscono che contro di loro è schierata in maniera inequivocabile la comunità contro cui hanno compiuto i loro delitti». C'è da dire, poi, che il Comune non è il solo a non essersi costituito contro la “Società”, delle 36 parti offese infatti, neppure una ha deciso di chiedere i danni ai boss. Segno che il lavoro da fare è ancora molto. E che la paura è diffusa. Come, del resto, accadeva molti anni fa nei feudi delle tre grandi organizzazioni mafiose del Paese.

Parte civile contro racket polemica tra Grasso e il sindaco Landella, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" del 14 ottobre 2015. L’accusa di Grasso: «Assenza grave quella del Comune nel processo antimafia Corona dove non si è costituito parte civile». La replica degli amministratori: «la legalità non si afferma delegittimando le istituzioni». La lotta al racket vive anche di polemiche, come quella tra Tano Grasso, simbolo italiano della lotta al racket, presidente onorario della Federazione antiracket italiana che tanto si è speso per la nascita anche in città di un’associazione antiracket; e il Comune. Oggetto della querelle la mancata costituzione del Comune nel processo «Corona» alla mafia (di cui riferiamo a parte, ndr), stigmatizzata da Grasso in prefettura lunedì mattina in occasione della firma del protocollo d’intesa tra prefettura, Fai e sezione foggiana dell’associazione nazionale costruttori edili «per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni estorsivi nei cantieri edili». Nella polemica, dopo il botta e risposta tra Grasso e l’assessore comunale alla legalità Sergio Cangelli, è intervenuto anche il sindaco Franco Landella. «Il tono ed il contenuto della dichiarazioni rilasciate mattina contro il Comune di Foggia da Tano Grasso sono inaccettabili» le parole del primo cittadino: «Delegittimare le istituzioni liberamente e democraticamente elette dai cittadini non solo non è d’aiuto per sconfiggere il racket delle estorsioni, ma, cosa ancor più grave, rappresenta una palese ed intollerabile mancanza di rispetto verso la città. Al contrario, ci saremmo aspettati da Grasso un coinvolgimento diretto del Comune di Foggia in una sfida così importante ed ambiziosa che però non è mai giunto». «Come ha già ampiamente dimostrato l’assessore Cangelli la mancata costituzione di parte civile del Comune nel processo Corona è stata solo un mero disguido. Questa amministrazione in altre circostanze si è già costituita parte civile in altri processi, proprio a dimostrazione della sua sensibilità verso questo tema, e continuerà a farlo, a prescindere dalle polemiche strumentali messe in campo in queste ore». Il sindaco prosegue ancora più duro contro il presidente della Fai: «vale la pena ricordare al presidente Grasso che mentre oggi punta l'indice contro la politica e le istituzioni, in passato ha preferito tenere lontani proprio i rappresentanti della politica dalle sue iniziative antiracket. Mi riferisco in particolare al 5 dicembre 2012, quando Grasso impedì al sottoscritto di partecipare, come cittadino (benché all’epoca fossi anche vicepresidente del consiglio comunale) alla “passeggiata antiracket” organizzata per le strade di Foggia dalla sua Federazione. Sarebbe dunque il caso che Grasso chiarisse in modo più preciso la sua posizione sul punto: la battaglia contro il racket è una prerogativa esclusiva della sua Federazione ed è lui a decidere quando è opportuno l’intervento dei rappresentanti delle istituzioni (e, soprattutto, di quali rappresentanti)?». «Piuttosto che bacchettare in modo pretestuoso il Comune e la sua attività istituzionale, il presidente onorario della Fai ed ex parlamentare dovrebbe impegnarsi per realizzare un allargamento della partecipazione dei commercianti e degli imprenditori della città alla sua associazione ed alla sua attività - sottolinea il sindaco di Foggia - Un allargamento che, evidentemente, può essere promosso soltanto attuando una logica inclusiva, che unisca e non divida il fronte antiracket; che non delegittimi le istituzioni e non consideri questa battaglia come una esclusiva prerogativa dell'associazione, perché per sconfiggere questa piaga occorre unire le forze ed essere per davvero tutti dalla stessa parte della barricata».

Antiracket, la famiglia di Panunzio lascia l’associazione fondata a Foggia. Dimissioni del figlio e della nuora dell’imprenditore ammazzato dalla sigla presieduta da Cristina Cucci e affiliata alla Fai di Tano Grasso, scrive Antonella Caruso su “Il Corriere del Mezzogiorno”. L’associazione antiracket aderente al Fai non potrà più utilizzare il nome di Giovanni Panunzio, l’imprenditore ucciso per aver denunciato i suoi estorsori. La famiglia Panunzio ha lasciato l’associazione antiracket presieduta da quasi un anno da Cristina Cucci ma di fatto coordinata dal presidente onorario nazionale, Tano Grasso. Questo quanto contenuto in una lettera con la quale Michele Panunzio, (figlio di Giovanni) una ventina di giorni fa, si è dimesso dall’incarico di presidente onorario dell’associazione, così come ha fatto sua moglie Giovanna Belluna che ha lasciato il sodalizio. In queste ore l’associazione foggiana è nell’occhio del ciclone, sia per lo scontro intrapreso da Grasso con il Comune di Foggia e il sindaco, Franco Landella; sia per questa notizia delle dimissioni di Panunzio sussurrata ieri e oggi ufficialmente confermata dalla stessa famiglia. «La lotta al racket delle estorsioni ed ad ogni forma di devianza sarà sempre al centro delle attività e delle attenzioni della famiglia Panunzio anche se ufficialmente da qualche giorno non è più parte dell’associazione antiracket nata lo scorso ottobre a Foggia» è stato precisato. A quanto sembra le dimissioni erano maturate mesi fa, all’interno dell’associazione il clima sarebbe tutt’altro che sereno. Ma solo una ventina di giorni fa sono state formalizzate. Cosa sia accaduto e perché si sia creata questa frattura la famiglia Panunzio non lo dice né Tano Grasso ha ritenuto ieri, in Prefettura, di rendere nota e chiarire questa novità, non da poco. «La nostra città è capace, seppur con i suoi tempi, di alzare la testa e di opporsi come movimento civile al sistema criminale» sottolinea Panunzio, evidenziando che il «disimpegno ufficiale dalle attività che l’Associazione riterrà di mettere in atto, non coincidono con un disimpegno morale, anzi rafforzano l’intento di combattere in favore della legalità, al fianco della Magistratura e delle Forze dell’Ordine». La famiglia Panunzio ringrazia il prefetto Maria Luisa Latella che «ha sostenuto l’intero percorso di costituzione», il procuratore capo e i vertici delle Forze dell’ordine. Poi l’annuncio: «Da oggi, senza alcuna contrapposizione alle attività dell’Associazione Antiracket, per noi inizia un nuovo percorso che moltiplicherà le azioni sul territorio e, quindi, amplificherà il senso che ognuno di noi può e potrà dare alla lotta al racket, all’usura, alla criminalità. Siamo certi che le istituzioni saranno al nostro fianco e che, con noi, continueranno un percorso che non si è mai esaurito con la pur apprezzata manifestazione di solidarietà e sostegno per quanto di così doloroso è accaduto alla nostra famiglia». Insomma qualcosa, anzi più di qualcosa, si è rotto. Prova ne sia che il 6 novembre la famiglia Panunzio sarà presente alla manifestazione in memoria di Giovanni Panunzio promossa dall’associazione «Progetto Foggia – Eguaglianza, legalità e diritti» alla quale parteciperanno tra gli altri il presidente della Regione, Michele Emiliano, l’associazione Libera, e il senatore Corradino Mineo. Il punto è capire se in quella giornata del 6 novembre le istituzioni saranno impegnate in altra manifestazione commemorativa.

Antiracket Capitano Ultimo: Il Silenzio degli Innocenti, scrive su “Stato Quotidiano”. Purtroppo la memoria ci da ragione poiché ci saranno altre passeggiate, altre fiaccolate con in testa saccenti politici, ma al “Processo Corona” non ci sarà nessuno. Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. Adesso è facile dire ve l’avevamo detto. Lungi da noi far leva sulla situazione di disagio che la F.A.I –Federazione Antiracket Italiana-, in particolare quella di Foggia, e Tano Grasso che in questi giorni stanno affrontando per la presa di posizione della famiglia Panunzio. Un disagio rafforzato dalle dichiarazioni dello stesso Lino Panunzio, figlio di Giovanni Panunzio ucciso a Foggia nel 1992 dal racket locale, che addirittura richiede il non utilizzo del nome del congiunto, dimettendosi da presidente onorario della F.A.I. di Foggia. Sembra che sia quasi una testimonianza indiretta che letta fra le righe (non troppo…) attesta che le cose in quella sezione non funzionino come dovrebbero. Certo è, e ci rammarica come associazione che ha lo stesso obiettivo costitutivo, che la F.A.I. di Foggia da quando si è costituita ha usufruito dei cospicui finanziamenti comunitari previsti dalla legge e che, purtroppo, non ha portato a conoscenza opinione pubblica e istituzioni varie dell’utilizzo in base alle azioni intraprese. Non si conoscono i numeri delle denunce fatte da chi è estorto e ciò non è un buon gesto, specie se parliamo di attività associative che alla base hanno la trasparenza e la fiducia di tutti. Ripetiamo, è facile sparare a zero su di un personaggio (Tano Grasso) spesso risultato “Ingombrante” e a volte arrogante; noi non lo faremo. Noi, dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo, dal canto nostro ci soffermiamo a quanto di buono Tano Grasso ha saputo costruire sul territorio. Un lavoro svolto con mille fatiche. A lui va dato atto di averci messo impegno e abnegazione nel mettere in piedi a Foggia un’associazione antiracket. A differenza nostra lui ha avuto inizialmente l’appoggio istituzionale delle due Marie (i Prefetti foggiani Maria Latella e Maria Tirone) che gli hanno spalancato le porte di Corso Garibaldi, quella di una Prefettura che conserva nel dimenticatoio il nostro Modello Antiracket e anti Soprusi consegnato mesi fa. Alla F.A.I. porte aperte finanche da Colonnello dei Carabinieri e dal Questore di Foggia, tanto da mettergli in “mano” una task-force antiracket, poi soppressa. Beh, come vedete c’erano tutti gli elementi per far si che la suddetta associazione, la F.A.I. di Foggia appunto, operasse sul territorio della Capitanata nel migliore dei modi. Forse, ma non troppo, e ve lo chiediamo, la motivazione potrebbe risiedere che questi signori sopraelencati non sono di Foggia, eccetto il Questore, e perciò non comprendono ancora come ragioni un foggiano? Può essere, ma non lo diamo per scontato; altri interessi prevalgono su scelte di bene comune e legalità comune. Ne siamo convinti! Spesso è stato detto che il foggiano è omertoso; noi lo ripetiamo a gran voce, il foggiano parla e anche troppo. Il motivo dell’incomunicabilità tra i foggiani e questi signori è la comprensione del linguaggio che il foggiano adotta quando deve dir qualcosa. Il foggiano parla tra le righe, mima, lancia messaggi ironici per far conoscere verità scomode, spesso “vomita” il sopruso senza clamori, ma parla, anzi comunica, non fa soffiate esplicite tanto per intenderci. Lo fa per non essere portato alla ribalta poiché il racket uccide. Il punto è che questi signori non riescono a comprenderli fra le righe, non sanno codificare ciò che dicono e spesso li mettono innanzi a deposizioni ufficiali anche con tanto di nome in prima pagina, senza citare le gole profonde, luoghi comuni in tutte le realtà dove la giustizia dovrebbe proteggere l’anonimato. Noi siamo del parere che certe attività debbano essere svolte da gente esperta, non solo in divisa (e ci sono ma non ben utilizzate), bensì da cittadini addestrati a tal compito. Ecco perché siamo fermamente convinti che uno degli strumenti per far pervenire le “soffiate” è la denuncia passiva. Li si che il foggiano dirà tutto. Gli addetti ai lavori e le persone addestrate e istruite a tal compito sanno di cosa parliamo. Ed il tutto è totalmente legale per chi si sta chiedendo il contrario. Contrariamente il foggiano, messo innanzi a una denuncia attiva e o ad una confessione spontanea scritta e firmata, rinnegherà anche i suoi avi per non passare come un infame e preservare l’incolumità sua e dei suoi cari. Solo con gli strumenti adatti si ottengono informazioni e collaborazioni, per poi diventare oggetto d’indagine da parte degli inquirenti preposti. Invece a Foggia massimamente avviene il contrario. Tutti Voi fate proclami, fate sfilate, fate sentire il cittadino onesto impotente dinanzi la criminalità organizzata con un vittimismo che presta il fianco alla criminalità. La criminalità, specie quella organizzata, non teme la polizia o i carabinieri ma teme fortemente una ribellione delle coscienze da parte dei cittadini, delle sue vittime predefinite, quella ribellione che li porta a temere di perdere il controllo del territorio ottenuto con l’organizzazione tentacolare diramata in tutte le istituzioni; ecco perché la chiamiamo “organizzata” la criminalità. Noi, ed è triste dirlo, in terra di Capitanata a tutto questo abbiamo desistito già da tempo. Lo abbiamo fatto quando abbiamo provato a trasmettere alcune delicate e importanti note informative alla caserma dei carabinieri e alla Questura, senza mai essere ascoltati e, ancor più grave da parte loro, senza essere convocati per dei chiarimenti, e questo ci ha sempre fatto riflettere. Interpretate voi come…. Voi urlate che le cose devono cambiare, ma cambiate al vostro interno perché è li che bisogna prima “candeggiare” per poi uscire in strada a ramazzare il marciume. Il silenzio degli innocenti è assordante perché prodotto da chi dovrebbe parlare, agire, farci sentire sicuri. D’altro canto la nostra operatività è ben radicata in altri territori, anche più “caldi”, dove la criminalità organizzata è disumana e dove il cittadino, snervato del sopruso, ci chiama, si rivolge a noi. Gli atti conservati in associazione ci danno ragione e sono a disposizione per gli organi preposti dalla legge. Siamo attivi in tutta Italia e lo facciamo volontariamente (siamo una Onlus, non un’associazione che prende soldini…. e iscritta ad albi prefettizi), ottenendo consensi e risultati significati e risolutori per gli estorti, per chi ha bisogno di aiuto. I proventi sono utilizzati per la beneficenza, non per noi; noi siamo volontari. Ne andiamo fieri e continueremo. La scelta di rimanere come sede in Capitanata è strategica geograficamente e per la mappatura della criminalità organizzata, poiché questa stupenda terra è ahinoi un importante crocevia della mala. In tutta Italia ci sono caserme dove sono comandate da Marescialli Superiori da oltre 20 anni che, causa forza maggiore, sono depositari di inciuci e intrallazzi perpetrati da persone ormai divenute col tempo “amiche”. Pertanto quando un onesto cittadino deposita una denuncia contro gli amici degli amici spesso questa finisce nel dimenticatoio. Lo stesso è per le ordinanze di Organi Giudiziari che intimano a queste Caserme, comandate e gestite da questi “Comandanti”, un provvedimento di perquisizione e sequestro presso aziende, commercialisti, imprenditori, e poi vieni a sapere che l’acquisizione di tali documenti è avvenuta non con una perquisizione in loco, bensì con una semplice telefonata partita dalla caserma. Una comunicazione che invitava l’amico a portare determinati documenti per trasmetterli in procura, per poi redigere un regolare verbale di perquisizione e di sequestro, come se tutto questo fosse avvenuto sul serio, lasciando l’amico nella sua “buona continuazione a delinquere” alle spalle di cittadini inermi e oltraggiati, ottenendo in cambio chissà cosa. Di chi è la colpa? Noi la conferiamo a quei sindaci disinformati che fanno politica “spoliticando” senza avere nessuna cognizione del potere che hanno a disposizione in termini giudiziari, lo stesso che va attuato se nel loro circondario non è presente un commissariato di Polizia. Voi sindaci in territori del genere siete i mammasantissima. Se non avete le palle e il fegato per fare determinate azioni, “gentilmente” fatevi da parte. E se proprio non potete fare a meno della poltrona, “ancora gentilmente” (in nome della legalità e giustizia), delegate ai posti chiave Assessori esterni (non eletti, perciò non frutto del mercimonio della politica) che hanno il coraggio di richiedere agli organi preposti una istanza di situazione patrimoniale contro un impiegato presso la Pubblica Amministrazione che viva sopra le righe, ovvero sopra le proprie possibilità economiche. Sindaci abbiate il coraggio di farlo anche se si tratta di carabinieri, di poliziotti, di finanzieri, di impiegati comunali, di vigili urbani o agenti di polizia municipale e/o locale, di agenti penitenziari, etc… etc… . Indossare una divisa è un dovere morale verso gli altri e mai per se stesso; se ognuno di questi sopra elencati trae benefici personali indossandola, va buttato fuori con disonore. Eppure, pur avendo desistito in terra di Capitanata, noi volontari dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo non ci siamo arresi, anzi ci siamo rafforzati in toto. Ciononostante abbiamo smesso di passare informazioni ai locali organi competenti perché ci siamo resi conto che siamo pesci fuor d’acqua in un contesto saturo di melma. Ci manca l’ossigeno, quello puro, quello che ti da la guarigione. Molti dicono che siamo avanti di 20 anni perché operiamo convenzionalmente con operatività all’avanguardia. Ma dove risiede la conservazione, dove vige la regola “A deo rex, a rege lex”, dove the Untouchables sono tutt’uno con la società pubblica e civile, è difficile scardinare, smembrare, sgrovigliare la matassa che intrecciando la trama ha prodotto nodi divenuti metastasi avanzate di un territorio governato con il beneplacito degli amici degli amici. Noi, comunque, non ci arrendiamo; in Capitanata stiamo in ascolto e, credeteci, i risultati arriveranno. I Prefetti cambiano, i Questori diventano Prefetti, i Colonnelli diventano Generali, a chi frega mettersi contro chi e cosa, e poi contro la criminalità se poi questa risiede anche nei palazzi, spesso sostenendola (e Mafia Capitale ne è un ampio esempio)? Noi crediamo, e ne siamo certi, agli stessi che di professione fanno gli incantatori di piazze, anche spoliticando. La gente vuole il cambiamento, ma lo vuole in silenzio e con forza.

I distinguo fra soggetti che fanno capo ad associazioni che si riempiono la bocca con la parola “Legalità”, che si riuniscono intavolando sedute fine e se stesse senza produrre risultati consistenti per arginare il fenomeno malavitoso, che diventano belligeranti per un diniego personalistico, non servono a ridar legalità, bensì a ottenere crediti che sfociano in voti. La politica dei politicanti purtroppo ha questa potenza. Tutto ciò fa ribrezzo perché la legalità si ottiene con la condivisione degli intenti, con la collaborazione tra persone-associazioni-istituzioni, credendo fino in fondo e rimettendoci la faccia, il nome, le proprie risorse, non quelle comunitarie, ovvero pubbliche, quelle versate dai cittadini con le tasse. Quindi Sig. Grasso se ne ritorni nella sua terra; qui non si è perso niente, solo una magra figura che lei è in grado di metabolizzare precocemente perché l’associazione che l’andrà a sostituire sarà un’altra manovrata da burocrati con fini politici (chi oggi ne è parte ha avuto esperienze attive in politiche, ed il politico è sempre in campagna elettorale). Chi vivrà vedrà. Noi speriamo che sia il contrario anche perché alla nuova realtà, che riprende nel suo Progetto il termine “Legalità” e che nascerà a breve, noi tendiamo la mano perché siamo convintamente degli irrinunciabili collaboratori d’intenti e di azioni. Una chiosa comunque dobbiamo dirla su di lei, sig. Tano Grasso: non ci è piaciuta la sua apparizione in pompa magna, con al seguito i suoi aderenti, dinanzi alla Questura di Napoli quando manifestava per la vicenda di Nicola Barbato che lottava tra la vita e la morte, pubblicizzando la F.A.I. Sappiamo che la vicinanza c’era, ma il momento, secondo noi, non era adeguato. Sarebbe stato più bello tacere li davanti e parlare quando Nicola poteva farlo da se, così da testimoniare personalmente la sua azione. Purtroppo la memoria ci da ragione poiché ci saranno altre passeggiate, altre fiaccolate con in testa saccenti politici, ma al “Processo Corona” non ci sarà nessuno. E pensare che noi la richiesta per costituirci parte civile l’avevamo formulata per essere al vostro fianco, ma ci è stato detto che eravamo lì per metterci in mostra. Noi a questi malpensanti della stampa servizievole, perché la colpa è loro e di chi li manovra dai palazzi, gli rispondiamo “non avete capito un c…”, tenetevi la criminalità organizzata, che se non lo avete capito dal nome ve lo rinfreschiamo noi, il termine organizzata è perché sono ORGANIZZATI a differenza di altri, e qui ci fermiamo. E come da consuetudine, salutiamo tutti insieme la nostra “beata sonnecchiante” Marije che dorm…Noi ci siamo!!!

NOI DELL’ASSOCIAZIONE ONLUS CAPITANO ULTIMO ABBIAMO UN MODUS OPERANDI CHE SPESSO FUNGE DA RICETTACOLO PER SEGNALAZIONI E VARI SFOGHI PERSONALI". Nella Tan”O” dell’Antiracket. La Trilogia (I parte). "Non basta accompagnare la vittima all’ufficio preposto per la denuncia quando ormai a parer nostro non c’è più nulla da salvare", A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. Ed in riferimento al Decreto del Ministero dell’Interno del 24 Ottobre 2007, n. 220, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (GU n. 276 del 27-1 -20 7), in particolare all’art. 1 comma 1 e 2 che recitano espressamente:

1. Presso ogni Prefettura – U.T.G. è istituito l’elenco provinciale delle Associazioni e delle Fondazioni Antiracket ed Antiusura;

2. Possono essere iscritte nell’elenco di cui al comma 1, le Associazioni, anche non riconosciute, le Fondazioni e i comitati di cui all’articolo 13, comma 2, della legge 23 febbraio 1999, n. 4, e le Associazioni e le Fondazioni Antiracket ed Antiusura, aventi tra gli scopi sociali, risultanti dall’Atto Costitutivo, quello principale di prestare assistenza e solidarietà a soggetti danneggiati da attività estorsive. Dunque, è nostra premura dirlo e scriverlo per puntualizzare ed informare i disinformati che, nonostante sia un nostro diritto iscriverci presso l’elenco Provinciale delle Associazioni, a decorrere da un anno dalla nascita della nostra associazione non è nei nostri intenti inserirci in un elenco Prefettizio. Il motivo? È semplice ed è sempre quello che abbiamo detto e scritto fino a ora, e che continueremo a dire e scrivere, ovvero che tale scelta, l’iscrizione in termini di legge è utile solo ed esclusivamente per far accedere al fondo vittime del racket chi denuncia. Difatti, a tal riguardo la legge permette all’interessato (la vittima) di presentare direttamente domanda per la concessione dell’indennizzo mediante apposito modulo da presentare presso la Prefettura di residenza o, col consenso di questi –che è facoltativo- di avvalersi dell’associazione di categoria o ordine professionale di appartenenza. Ma può anche avvalersi delle associazioni istituite al fine di tutelare (parola a parer nostro molto ambigua, perché si parla solo di tutela economica) le vittime del racket iscritte in un apposito albo prefettizio. Pertanto, il nostro compito -sempre a parer nostro- non è quello di istruire pratiche di “finanziamento”, bensì quello di affiancare lungo tutto il “percorso – calvario” che una vittima affronta dopo una richiesta in queste circostanze. Il nostro dovere sociale -dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo- è di trasformare una vittima in un denunciante; il resto burocratico e Istituzionale spetta agli organi preposti. “Noi” siamo del parere che un’Associazione che si definisce Anti-Racket non debba mai e poi mai maneggiare o beneficiare di soldi pubblici. Lo ribadiamo a gran voce affermando che se i soldi non sono messi al servizio di chi realmente necessita di liquidità per salvaguardare la sua persona e la sua azienda da atti ignobili, diventano strumento terzo e non prioritario e fondamentale per la Sua Persona, quella della vittima – denunciante. Noi dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo abbiamo un modus operandi che spesso funge da ricettacolo per segnalazioni e vari sfoghi personali. Vi citiamo uno su tutti, vittima, e poi con noi denunciante, in uno dei territori più “caldi” della male estorsiva: il Sig. F. G. C., dopo aver fatto richiesta d’aiuto a un’Associazione Antiracket d’“Elite” presente sul suo territorio, maledisse il giorno in cui denunciò le “N’drine Calabresi”, Lo fece poiché trovò innanzi a lui quel muro di gomma che rimbalzava il suo aiuto. Ebbene, quel muro si chiamava, e si chiama tuttora, ricerca di beni da confiscare e contributi vari per poterlo assistere. Altri ci dicono addirittura che alcune Associazioni, per il caso del Sig. F. G. C., non si sono volute costituire Parte Civile nei processi per il sol fatto che gli imputati non possedevano beni da confiscare e quindi da poter beneficiare. Per noi tutto questo è assurdo, non vi è Onore. Sentiamo parlare più volte di legalità, di invogliare alla denuncia chi subisce. Ma è un dato incontrovertibile che denunciare oggi equivale ad una condanna a morte. E non ci riferiamo a quella fisica, della persona, ma alla morte dell’azienda, costruita col sudore e col sacrificio, perché, e tutti lo sanno bene, che i primi a “darsela a gambe” -in ordine cronologico- sono i fornitori, la clientela, i conoscenti, gli amici, i parenti e infine lo Stato. Noi abbiamo capito e compreso che la Politica/Stato, con determinati atteggiamenti, con le disgrazie altrui ne fa un cavallo di battaglia per i propri obiettivi. Sul territorio nazionale, ma in particolare quello della provincia di Foggia, ci sono abbastanza Associazioni Antiracket da poter soddisfare le esigenze di un denunciante. È bene ricordare, specie a chi del presenzialismo ne fa un dovere irrinunciabile senza però mettersi in gioco e stare tra la gente, che l’operato di un’Associazione Antiracket lo si percepisce sul campo, con la presenza costante e preventiva nei confronti dei commercianti e dei cittadini, anche se non associati. Questo per Noi è un atto dovuto a salvaguardia del Bene Comune, della Legalità. Non basta accompagnare la vittima all’ufficio preposto per la denuncia quando ormai a parer nostro non c’è più nulla da salvare. È giusto parlarne, specie se a farlo sono realtà associative che perseguono la Legalità, ma poi ci vuole il “polso duro e credibile” di un’Associazione Antiracket che mette sul campo azioni e modelli risolutori, non propositivi: di quelli ce ne sono già tanti e tutti sorvolati dalle Vittime del Racket, dell’usura, dei Soprusi. Noi dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo ci chiediamo, non per polemica ma per precisa e corretta informazione, come può un’Associazione Antiracket sostenere delle campagne onerose e di sensibilizzazione contro il fenomeno estorsivo promuovendo e sensibilizzando e soprattutto invogliando il cittadino nel non acquistare prodotti da chi non espone quel bollino blu, quasi a testimonianza che chi non aderisce paga il pizzo? La nostra decisa irreversibile e corretta risposta è semplicemente “ASSURDO”. Lo affermiamo giacché in tutto questo non vi è contropartita. Ma volete comprendere che inserendo il commerciante nella cosiddetta “lista nera” quelle attività commerciali, dai cittadini, vengono –e non verrebbero- viste come disoneste e complici, e non come vittime terrorizzate da una giustificata paura nel non esporsi? Noi lo abbiamo capito perché abbiamo parlato con tanti commercianti che purtroppo convivono con questa assurda situazione, lo abbiamo compreso parlando con la gente che evita quelle attività, cittadini impauriti di comperare merce che credono che parte dei proventi delle vendite vada nelle mani del racket. Tutto questo, malgrado gli sforzi profusi da chi come noi cerca la Legalità anche con la corretta informazione, non produce una campagna riparatrice alla riabilitazione morale del commerciante. Veda egregio dott. Tano Grasso, la gente si aiuta, non si affossa per loro scelte risultate sbagliate nell’aver acconsentito ad una richiesta di “pizzo”, spesso terrorizzate da malavitosi che con una pistola puntata alle tempie la costringe a sborsare soldi lavorati onestamente. Lei lo sa molto bene e ci meravigliamo come può affermare che «I commercianti non collaborano, Foggia sottomessa alla “Società”». Lei c’è passato, ha avuto il coraggio di denunciare in tempi che le associazioni antiracket erano inesistenti. Ha avuto coraggio e ne prendiamo atto. Ma oggi il coraggio lo deve profondere e non indurre con proclami lesivi per un territorio che fa fatica a fidarsi di chi si fa chiamare “Antiracket” e poi si muove solo se ha fondi a disposizione. Il ricattato –e Lei lo sa molto bene- da vittima, per cavilli forensi, diventa perseguitato da chi lo deve proteggere, lo è per aver inconsciamente, in quel preciso istante, quello dell’estorsione, salvaguardato se stesso e la propria famiglia da atti ignobili e da un pericolo immediato, pagando il pizzo senza avvisare le Forze di Polizia. Non a caso il legislatore ha pensato bene di creare una legge chiamata Stato di Necessità -art. 54 c.p.-, proprio a tutela di quelle persone che sbagliano sapendo di sbagliare, o meglio, mentono sapendo di mentire. Per noi tutto questo è sconcertante. L’estorto ricade in un ricatto morale velato, nonostante sia vittima del cosiddetto “Pizzo”. E anziché aiutarlo, che fa la giurisprudenza e le sue machiavelliche applicazioni? Lo isola, lasciandolo solo più che mai, sperando di indurlo alla denuncia. Tutto questo come si chiama? Per noi è RICATTO, come a dire (anzi a fare) ti lascio in mutande senza via di scampo per farti denunciare. Ed ancora, perché di carne al fuoco ce n’è così tanta che un barbecue non basterebbe per sfamare quei lupacchiotti bramosi di apparire vicino a quel “Grasso che cola e cala i suoi anatemi”, Noi ci chiediamo come le Associazioni possano accaparrarsi strutture sottoposte a sequestro per reati di Mafia aggiudicandosele senza un bando pubblico? Noi ci chiediamo con tutti questi beni e questo denaro pubblico come mai nessuno di questi “Colossi” dell’Antimafia ha utilizzato un solo euro per la salvaguardia personale di chi denuncia? Oggi al vertice della Regione Puglia c’è un magistrato che conosce bene il fenomeno estorsivo e del sopruso: speriamo che abbia lungimiranza nell’ascoltare più cori, diversamente dal suo predecessore che ha lasciato campo libero a chi oggi non ha sortito risultati, solo assegnazioni di soldi e strutture pubbliche. Il “Nostro Modello Antiracket e anti Soprusi” (che nessuno ha voluto visionare, o meglio non prendere in considerazione, visto che le due “Marie” il nostro plico lo hanno ricevuto e tenuto in un cassetto in Corso Giuseppe Garibaldi, 56) è stato studiato e messo a punto da uomini di legge e di Stato, immedesimandosi nella vittima di estorsione, affinando quei temi primari che un denunciante richiede nel momento devastante della richiesta estorsiva e nella meditazione che lo porta alla denuncia e di conseguenza di riporre la fiducia in terze persone. Noi lo abbiamo fatto; peccato che non apparteniamo a nessuna Associazione d’Elite Nazionale, ma siamo semplici umili e straccioni con le idee altruiste e pertanto non meritevoli di tanta attenzione, ma semplicemente di una insana incuranza mascheratasi dietro una non appartenenza (per scelta) ad una lista Prefettizia, la quale secondo il principio di associazionismo vigente in Italia non vi è nessun obbligo di legge che ne impone l’iscrizione, ma non per questo emarginati a prescindere e consapevoli di agire contro i propri interessi. Vi sono politici, come spesso avviene in campagna elettorale, che acclamano la tanto agognata legalità e sicurezza, per poi accorgersi, nel confrontarsi lontano da resse acclamanti, che di legalità e trasparenza nessuno vuol sentirne parlare se non con proclami propagandistici tra folle teleguidate per unanimi consensi. E i fatti? Sul campo cosa fanno? Niente di niente! Noi dell’Associazione -nostro malgrado e analizzando bene la non voglia di cambiamento che i potenti della Capitanata ostentano o meglio giacciono tranquilli fra le braccia di Morfeo- siamo consapevoli di aver dato il massimo a chiunque si sia rivolto -a noi-. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo seppur andando contro corrente, spesso incappando in una ottusità Istituzionale e Politica alquanto disarmante che non lascia apertura a soluzioni che potrebbero realmente essere di sostegno per quanti, indotti a sfidare la criminalità organizzata, ci mettono faccia cuore e vita, oltre che pericoli familiari, i più cari tanto per intenderci. Una nota, anzi una precisazione è doverosa: ci siamo chiesti più volte il motivo che ha spinto dapprima, Sua (e non nostra) Eccellenza il Prefetto Maria Luisa Latella e poi Sua (ancora n.p.) Eccellenza Maria Tirone, entrambe Prefetti di Foggia, a non darci mai udienza pur sapendo quanto impegno e quanto di buono abbiamo fatto e costruito nel limite delle nostre possibilità sul territorio. Ma non basta. In quel Palazzo ci si fida e ci si deve fidare di quelle Associazioni definite “Autorevoli e Ministeriali”, o meglio deve dar credito al pourparler degli amici degli amici, senza interrogare gli interessati. In altre parole, cambia il capo ma rimangono i subalterni che indicano le vie maestre, i “fidati”, i confidenti, chi è buono e chi è cattivo. Allora, Le diciamo in tutta franchezza che a Foggia e in Italia se l’andazzo è questo non cambierà mai nulla. Sono i dati che lo dicono, non noi. Al denunciante occorre PROTEZIONE PERSONALE e vi assicuriamo che i mezzi e le leggi per farlo ci sono: basta volerlo. Noi lo diciamo sempre, fino allo sfinimento. In Italia le leggi ci sono e sono fatte anche molto bene, e non solo nel limitarsi ad accompagnare alla denuncia chi si ribella al racket, quasi a testimoniare che la persona offesa sia un portatore di handicap non in grado di andare da solo in una Caserma o in Questura per esporre una denuncia. Poi se qualcuno dei “potenti” fa orecchie da mercante solo perché noi non garantiamo voti e favoritismi o avanzamenti di carriera a nessuno, beh…, il marciume, la purulenza, l’infezione della società ha sconfitto le sue difese. Noi siamo pronti a lottare per i nostri ideali di giustizia, quella sana, quella povera di denaro ma ricca di idee propositive, proattive e funzionali. Dalla nostra parte ci conforta il fatto di avere numerose richieste per aperture di nostre sedi in altre province italiane, come Messina e Bagnara Calabra (RC). Ne abbiamo avute molte altre da svariate Amministrazioni Comunali, perlopiù campane, che non badano alla poltrona ma al bene collettivo. Siamo certi che nel territorio Italiano troveremo un Prefetto, una “Eccellenza”, che ci accolga non per chi siamo ma che ci identifica per ciò che facciamo. Però non si dica che l’Associazione Onlus Capitano Ultimo non sia stata presente e non lo è sul territorio di Capitanata. È sola dalle istituzioni ma è al fianco del cittadino indifeso. Chi ha avuto il nostro appoggio ci ha sempre lodato per la nostra professionalità e competenza, e soprattutto per il nostro aiuto incondizionato e gratuito. Pertanto, la classe politica governante in Capitanata si assuma le sue di responsabilità nei confronti dei cittadini, lo faccia come garante di trasparenza, di legalità, del buon lavoro. E sappiate che la Capitanata è un bene di tutti, non un bacino di voti e di avanzamenti di carriera per sfamare la Vostra bramosia di potere. Ci riferiamo anche a Lei dott. Michele Emiliano, neo eletto Presidente della Regione Puglia, il Sindaco di Puglia, “venuto fra noi” in terra di Capitanata come il Messia portatore di ripristino della sicurezza, di trasparenza e di legalità, per sentirci dire che è sua intenzione aprire uno sportello Antiracket F.A.I. nella cittadina di San Severo, quasi a dirci implicitamente (voi non contate un c…) beh…! Le ricordiamo, Sindaco di Puglia, che il giorno 24 Ottobre 2014 “Noi” eravamo in tribunale a Foggia per un importante Processo che riguardava la nostra Comunità, che è anche sua, e lei e il “Suo” Sindaco del Comune di cui ricopre il ruolo di Assessore alla Sicurezza (San Severo) dove eravate? Non certo al fianco delle vittime, quegli imprenditori che hanno subito l’onta e il male dell’estorsione e i suoi distruttivi effetti. Probabilmente eravate in giro per la Puglia e la Provincia di Foggia con i vostri rispettivi ruoli ormai acquisiti, ad aprire le acque e chiedere consensi, dato che erano prossime le elezioni cui Lei ha vinto. Noi ci definiamo umili al servizio di umili. Con ciò non possiamo e ci rifiutiamo di essere al servizio di Caste programmatrici a discapito della collettività, inermi allo strapotere dei Palazzi. Il Colonnello Ultimo in prima persona, e lo rivendichiamo con sano e sincero orgoglio, ci ha fatto prendere visione di cosa sia l’umiltà e di cosa significhi essere al servizio del Popolo, ma soprattutto ci ha insegnato a saper dire “Rinuncio”. Pertanto, fiduciosi di aver a Tutti fatto cosa corretta e gradita, sperando di non aver offeso nessuno, cogliamo l’occasione di augurare a Tutti il nostro più sincero augurio di una pronto risveglio di Legalità in una terra dove vige subdolamente in modo latente lo strapotere Politico/Mafioso. Non a caso Istituzionalmente e Ufficialmente lo dissero sia Sua Eccellenza il Questore di Foggia e Sua (e non nostra) Eccellenza il Prefetto di Foggia Maria Luisa Latella dinanzi una recentissima Commissione di Governo. Noi ci siamo!!!

''OGGIGIORNO LA SITUAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI ANTIRACKET IN CAPITANATA VE LA RACCONTIAMO NOI, NUDA E CRUDA, SAPENDO DI SUSCITARE NON POCHE POLEMICHE''. Nella Tan”O” dell’Antiracket – La Trilogia’(2^) A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. Rieccoci con il sequel della prima parte della trilogia “Nella Tano”O” dell’Antiracket” pubblicato in data 15 Giugno 2015. Se avessimo dovuto attribuire un titolo alla prima parte, indubbiamente sarebbe stato “FUCK BLACKLIST”. Oggigiorno la situazione delle associazioni antiracket in Capitanata ve la raccontiamo noi, nuda e cruda, sapendo di suscitare non poche polemiche. Noi a differenza dei cronisti sordi e ciechi per volontà, la verità la pubblichiamo, pronti ad affermare e a dimostrare in qualsiasi contesto quanto da noi esposto. Cosa differenzia un’associazione antiracket da una dell’antimafia o da una semplice associazione? Innanzitutto che nel proprio statuto è sancito che combatte i soprusi ed ogni forma di criminalità organizzata. Poi, citando il motto di Cetto La Qualunque, “Na’ beata minchia!” È sotto gli occhi di tutti che in questi anni gli attuali “signori antimafia” hanno avuto l’esclusiva di sedere alla destra dei potenti. Un monopolio per il sol fatto che erano in pochi, riferendoci al territorio di Capitanata. Questi si sono arrogati il diritto di partecipare a tavole rotonde e tavoli tecnici che riguardavano temi come mafia e sicurezza, quasi avessero in mano un progetto per il bene comune. Il FAI –Federazione Antiracket Italiana- ha fatto il suo ingresso in Foggia da pochi mesi, portando un nome importantissimo. Lo ha fatto dopo anni di corteggiamento con l’intento di unire i commercianti affinché abbracciassero la causa. Alla fine il matrimonio si è consumato, ma ad oggi rischia di rimanere solo un grande amore. Il motivo è semplice, intuibile e più volte esposto da chi chiede aiuto: se dal matrimonio non nasce un’idea funzionale che non si limiti al solo bollino blu, il parto non avverrà mai. Anzi, oltre ad abortire, rischia di implodere mettendo a rischio quegli commercianti che vi hanno riposto fiducia. Con ciò, e lo diciamo con onestà intellettuale e pieno rispetto delle persone citate, c’è da chiedersi se i famigliari di Panunzio siano contenti degli strumenti contro la lotta al racket messi in campo dal FAI. E dire che prima della nostra nascita, per una forma di reverenza, noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo fatto richiesta di un incontro con l’associazione Antiracket Vieste. Come detto per far conoscere la nostra volontà di collaborare insieme sul territorio. Altro contatto, e direttamente con la sede centrale del FAI, quella di Napoli, lo inoltrammo chiedendo un appuntamento diretto con il sig. Tano Grasso, appuntamento mai accordato. Ed infine contattammo direttamente il figlio di Giovanni Panunzio per rendergli noto che era nostra intenzione accomunare il nome di suo padre al nostro. Sapete perché? Per noi Giovanni Panunzio è Giovanni Panunzio, come Francesco Marcone è Francesco Marcone, uomini capaci di dare la vita per non sottomettere i loro ideali di libertà, giustizia e piena legalità. Ma le ragioni del suo diniego il sig. Grasso forse un giorno ce le renderà in tutta franchezza. Noi ci siamo! Noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo un modo di “fare antiracket” di per se innovativo: chi ha avuto l’opportunità di conoscere il nostro modello ci detto, -e lo hanno detto tutti- «Modello davvero stupefacente, innovativo, fuori dagli schemi dei soliti piani e modelli proposti. Siete avanti di 20 anni, mentre noi siamo ancorati a chi e cosa vuol essere al di sopra. Ci penseremo…» Quel “…ci penseremo” oggi non l’ha ancora fatto, forse indotto da chi lo controlla. Nel nostro “Modello Antiracket e Anti Soprusi” la vittima è tutelata in pieno, oltre che essere provvista di strumenti per essere immediatamente preservata. Ma il punto cardine del nostro Modello, che ci differenzia dagli altri è che in tribunale noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo andiamo con loro e vi rimaniamo. Stiamo al loro fianco, a quelli che denunciano, ma non come parte civile, bensì come persone informate dei fatti. Mentre voi del FAI, di Libera, di tutte quelle associazioni antiracket presenti sul territorio nazionale, ad ora non avete mai fatto questa scelta. Ecco la differenza che, a parer nostro, è fondamentale per sedere a tavoli tecnici. E se un giorno sarete in tribunale al fianco del denunciate, rischiando come noi in prima persona, allora chapeau. Se avete fatto caso all’ultimo video-proclama di Tano Grasso, Presidente onorario del FAI, riportato sull’articolo pubblicato da ilmattinodifoggia.it in data 09/06/2015 “Tano Grasso: «Commercianti foggiani omertosi»” è palese che in mano sia lui, sia l’associazione che rappresenta, non hanno nessun progetto volto all’abbattimento del fenomeno omertoso, non hanno un piano con strategie per far sì che un estorto non risolva i problemi da solo godendo delle dovute coperture in termini di “soffiate”, che sottolineiamo sono quelle che danno il via per una indagine di polizia giudiziaria. A rafforzare questa nostra affermazione, ci sono anche considerazioni e affermazioni pubblicate nell’articolo “Foggia, una città presa a schiaffi” da ilmattinodifoggia.it in data 14/06/2015 sul blog Controverso, dove si dice che «Tano Grasso incontra la stampa. Cosa dice? C’è omertà, i commercianti danno del tu ai mafiosi (ma chi sono i mafiosi? A chi si riferisce? Chi dà del tu a chi?), non bisogna andare nei negozi di chi non denuncia – come se fosse stata già consegnata ai cittadini una mappa – basta invocare l’intervento dello Stato – quello c’è -, Foggia è la città peggio messa in tutta la Puglia, sarà sempre sottomessa alla “Società'”…». Insomma, una sequela di proclami rafforzando quelli precedenti, dove Grasso invitava i cittadini a non comperare laddove il pizzo era pagato. Lui, Tano Grasso, si è soffermato (secondo il diritto di critica degli autori del testo,ndr) nel far passare il concetto che un commerciante qualora subisca un atto intimidatorio e lo non denunci, va inesorabilmente lasciato solo, invitando i cittadini a non comprare merce nella sua attività. Una specie di boicottaggio, cui noi siamo allibiti al solo ascolto di queste parole “indefinibili…”. Lo rimarchiamo: questo concetto è più che sbagliato perché vuol dire che, noi compresi, non siamo capaci di garantire quella dovuta rassicurazione agli operatori commerciali nell’affidarsi a noi associazioni. E questo la dice lunga sul lavoro da fare sul campo e intorno ai tavoli. Purtroppo la società attuale, quella che si definisce perbenista, legale, rassicuratrice, scelta, bada più alla leadership venendo meno ad un confronto per unire gli intenti. Questo è un atteggiamento che favorisce la criminalità. Come abbiamo sempre sottolineato, a noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo non interessa il riconoscimento di aver prodotto una denuncia, ma quello di mettere in campo un sistema che porti a più denunce. Lo diciamo a prescindere dall’associazione che si fa promotrice del progetto, perché per noi sono tutte uguali, purché si raggiunga l’obiettivo. Se poi ci mettiamo ad analizzare il video-proclama possiamo anche ipotizzare un certo nervosismo del soggetto che parlava (..) Tutti i foggiani sanno che tra Tano Grasso e il Sindaco Franco Landella non c’è feeling. Tutti ricorderanno di quel gesto sconsiderato da parte del Presidente onorario del FAI e di Sua (e non nostra) Eccellenza Maria Luisa Latella, allora Prefetto di Foggia, i quali pur sapendo di essere alla mercé di telecamere non si fecero scrupoli di estromettere l’attuale Sindaco di Foggia in una delle tante sfilate o meglio come le amano chiamare, passeggiate per la legalità. Un gesto che fece passare un messaggio sbagliato nei confronti di Landella, come a dire non degno di partecipazione. A quel tempo, nel dicembre 2012, Franco Landella era consigliere comunale, lontano da proclami elettorali. E se anche si ipotizzava una sua volontà a farla, diteci voi qual è quel politico che non sin fa campagna elettorale 365 giorni l’anno, 24 ore su 24? Eh..? Allora…? Siate più pragmatici e onesti, e vedrete che lo specchio rifletterà un’immagine più bella. Tuttavia, a quel diniego Franco Landella non la mandò a dire. Anzi, come è nel suo stile, rispose immediatamente e direttamente, paventando una sua auto-sospensione dall’assise comunale foggiana. Eccovi le sue parole riportate fedelmente: «Che senso ha continuare a rappresentare la città in cui sei nato, cresciuto e che ami in un consiglio comunale che il Prefetto di Foggia rinnega come istituzione degna di essere al fianco dei cittadini che lo hanno eletto in una qualsivoglia manifestazione promossa per sostenere le ragioni della legalità contro il sopruso del malaffare? Che ragione ha dare ancora un senso ad una rappresentanza politica che viene scacciata, perché ritenuta malevola, da consessi democratici in cui dovrebbe trovare legittima espressione?». Mettiamo in chiaro un punto: noi non siamo schierati con l’uno o altro politico, non siamo politicamente di nessun partito, movimento, lista, ecc… Siamo con chi vuole legalità, giustizia, libertà, con chi aiuta. Dal canto nostro abbiamo imparato, perché ci è stato insegnato, che “L’efficienza delle associazioni Antiracket non si misura in base ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla canonizzazione di toghe e divise”. L’attività delle Associazioni Antiracket, Antiusura a Anti Soprusi, non si misura in base alla visibilità mediatica, né tantomeno in base alle denunce presentate o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte a vantaggio di truffatori e, ancor più grave, sempre bene attenti a non toccare i poteri forti, come per esempio le banche e chi le rappresenta in cerchie istituzionali e politiche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica Regionale o Provinciale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antiracket non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di qualcuno. La capacità delle Associazioni, nel caso Antiracket, è legata alla loro competenza e al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire, e tutto senza fare politica. Il loro compito è informare forze dell’ordine, inquirenti, chi deve rappresentare in tribunale il denunciante, è assistere l’estorto, e perciò il denunciante, nella stesura degli atti. Quindi, l’associazione Antiracket inevitabilmente diventa soggetto informato dei fatti. Con ciò, e lo ripetiamo apertamente, le denunce le presentano le vittime, o presunte tali, e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allontanare a questo punto della vicenda, come avviene, purtroppo. Noi pensiamo che la vittima di sopraffazione e violenza non ha bisogno di pubblicità. Per questo noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo ci mettiamo la faccia, perché ogni forma di reato è e verrà sottoposta alle forze dell’ordine o direttamente alle Procure della Repubblica del territorio dove si è perpetrato il reato. E lo facciamo anche se in quest’ultimo periodo non mancano le lamentele di un ipotetico abbandono da parte dello Stato, e questo non bisogna ometterlo. Inoltre, Noi non siamo affiliati, associati, aggregati, seguaci, aderenti, fate un po’ voi giacché ce ne avete dette di tutti i colori e di più, a nessuno e quindi non riceviamo nulla da qualcuno e qualcosa. Né abbiamo un ritorno di immagine, né copertura delle spese. Del resto che volontariato è se poi si è finanziati e quindi diventa una professione? Il nostro grido va ai Media, a tutti quelli che informano e comunicano, ai quali diciamo di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche che catturano l’attenzione dei lettori, e non solo, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni Anti…. che vanno per la maggiore chi vengono pagate e chi votano e come mai aprono sportelli Antiracket in città. Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare; più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né tantomeno di mistificatori. L’abito non fa il monaco. Lo veste e lo accomuna a qualcosa. La legalità non va promossa solo nella forma, va coltivata anche nella sostanza. È sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di Ufficiali e giornalisti e il sornione atteggiamento degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica quella contemporanea, anche scomoda ai potenti di turno, e rapportandola al passato e proiettandola al futuro, non è cosa facile e umilmente affrontabile, in particolare per non reiterare vecchi errori. Il tutto perché la massa è indotta con solerzia dai poteri forti e loro seguaci a dimenticare o non conoscere. Questa è sociologia storica. Questo accade perché la maggior parte di noi cittadini non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso. In 16 mesi di attività intensa sul campo, Noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo potuto riscontrare un totale disinteresse da parte di chi avrebbe dovuto metterci il tappeto rosso sul nostro percorso. Ma abbiamo solo percepito invidie, timori e paure da parte di qualcuno “minacciato” nel veder minato un campo ormai monopolizzato e ben collaudato. No, non siamo esuberanti; i fatti ci danno ragione. E lo ripeteremo fino allo sfinimento quando diciamo che dopo sei mesi dal nostro insediamento in Capitanata ci sono giunte ben 135 notizie criminis: questi sono fatti di una battaglia civile in nome della legalità e non parole. Capitano Ultimo disse “Questa battaglia si perde solo se non si fa”. Notizie criminis giunte sia dalla provincia di Foggia, sia, e ne sono molte di più, da quelle campane, calabre, siciliane, terre molto più “calde” di questa e che hanno anche altre associazioni Antiracket che evidentemente sono “allineate” al modus operandi del FAI. Tuttavia, visti gli eventi criminali che si sono succeduti e ripetuti sul territorio, e nonostante la “venuta o scesa qualsivoglia definirla” della Commissione Parlamentare Antimafia, per tutta risposta nella stessa giornata venivano scarcerati boss di grido della criminalità locale. Questo per noi vuol dire prendersi gioco delle persone che combattono coi denti e con la vita determinati atteggiamenti sociali. Da qui, ed è amaro dirlo, nasce la rassegnazione di tanti operatori di polizia “avviliti” da tali atteggiamenti superficiali, spesso messi alla gogna quasi fosse colpa loro che le cose non cambiano. Noi non smetteremo mai di dire che le leggi in Italia ci sono e sono fatte anche molto bene, basta saperle far applicare ed avere il coraggio a costo della Poltrona, senza cavilli che inficino il buon funzionamento della giustizia. Una guerra la si combatte uniti. Pertanto, l’Associazione Antiracket Capitano Ultimo chiede a mezzo stampa, a tutte quelle realtà sul Territorio Nazionale e ci riferiamo ad Amministrazioni Comunali, Procure, Prefetture, Comandi Provinciali dei Carabinieri e Questure, Noi se interpellati, saremo ben lieti di dare il nostro contributo attivo sul campo per un’attività seria e concreta contro il fenomeno criminale; Noi daremo la massima disponibilità a patto che ci sia la reale voglia di cambiamento. Vede, Sua Eccellenza il Prefetto di Foggia dr.ssa Maria Tirone, capiamo la diffidenza che abbiamo suscitato, ma 13 mesi per chi l’ha preceduta e 6 mesi per lei sono tanti per non aver preso cognizione di quanto fatto sul territorio, perlomeno in termini di sostanza. Quantomeno poteva riceverci come da sua competenza. Non faccia come Sua (e non nostra) Eccellenza dr.ssa Maria Luisa Latella, allora Prefetto di Foggia, che ad una richiesta di audizione presso il suo ufficio, ci dirottò presso il Comando Provinciale dei Carabinieri. Noi avevamo chiesto un incontro con un organo di Governo sul territorio e non con un organo di Polizia Giudiziaria. A lei Prefetto Tirone è stato consegnato il nostro “Modello Antiracket e Anti Soprusi” e non ci ha fatto sapere nulla, neanche un no. Come siamo certi che da altre realtà associative che si definiscono Antiracket, non ha uno stralcio di modello fattivo sul campo, solo proposte “intavolate” innanzi a microfoni e telecamere. Noi da Umili fra gli Umili diciamo passi anche questa. Ci dispiace dirlo per non peccare di presunzione, ma il nostro nome è una garanzia alla Legalità che lei e chi prima di lei non ha saputo dargli dovuta attenzione. Noi ci siamo!!!

"PER IL NOSTRO PIANO O MODELLO TERRITORIALE DI FARE ANTIRACKET OCCORRONO ZERO EURO PER LA SUA REALIZZAZIONE. SI SIGNORI, ZERO EURO. " Nella Tan”O” dell’Antiracket – La Trilogia – (III). A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. "Alcuni, in certi territori italiani, dicono che in certe istituzioni ci sono le Lady di Ferro". “E…Marije dorm…!!!” Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. E in riferimento al Decreto del Ministero dell’Interno del 24 Ottobre 2007, n. 220, pubblicato in Gazzetta Ufficiale (GU n. 276 del 27-1 -20 7). Questa volta ci limitiamo ad un piccolo articolo, sperando di arrivare diritto al punto. Siamo giunti alla parte finale della trilogia dove, nostro malgrado, abbiamo espresso con la “verità di cronaca” che ci contraddistingue ciò che abbiamo da dire, da far conoscere, da rendere pubblico. Nonostante tutto ci teniamo a precisare che non siamo depositari della verità. Pertanto, siamo aperti ad ogni qualsivoglia smentita in merito. Come detto, nel miglior modo possibile, ci siamo limitati nel far comprendere a tutti voi il mondo ovattato che le persone “importanti” vogliono farvi credere nell’azione di contrasto al malaffare. In realtà quelle azioni non fanno un bel niente e non sono così rischiose da fa saltare le loro poltrone dorate. Noi abbiamo presentato il nostro modo di fare antiracket ovunque ci siamo rapportati e a persone cosiddette “importanti”, individui che ricoprono cariche funzionali, di Governo, Comunali e Ministeriali, sia nel circondario della Capitanata e da qualche tempo anche oltre il distretto foggiano. Lo abbiamo con umiltà, in prima persona, ponendo in primo luogo la mission del “nostro fare” associazione. Vedete -per chi non ancora l’avesse compreso- il nostro programma ha alla base il sociale, l’aiuto reciproco nel supportare una vittima di un sopruso, ha nel proprio pacchetto la salvaguardia e la sicurezza di chi per ragioni di estorsione ed usura varca la soglia di una caserma per denunciare il suo aguzzino, ha nel proprio fagotto la sicurezza di ogni cittadino, oltre la creazione di posti di lavoro. Ve lo abbiamo detto in tutti i modi, in tutte le salse –se preferite comparare le parole al cibo, sempre ben apprezzato nei salotti dove i tavoli sono utilizzati convivialmente piuttosto che per decidere-. Il Modello Antiracket e Anti Soprusi che utilizziamo lo abbiamo creato e partorito Noi dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo. Lo hanno fatto, per dirlo in parole povere, dei perfetti sconosciuti e quindi incapaci di avere quella lungimiranza intellettuale che solo i “Grandi” possono avere. Sconosciuti che conoscono il mondo malavitoso perché lo contrastano da anni, sconosciuti che indossano divise, sconosciuti civili volenterosi e addestrati a tal fine, sconosciuti forensi, sconosciuti psicologi, sconosciuti agenti governativi. Pur non ricevendo risposte da Voi, gente delle locali istituzioni, noi una risposta ce la siamo data: se il nostro piano o modello –scegliete voi la forma migliore- di sicurezza avesse preso piede, le Associazioni “supposte” d’Élite, come avrebbero giustificato anni e anni di contributi Statali ed Europei elargiti a loro favore per non aver fatto nulla di concreto alla lotta contro i soprusi e la criminalità in genere e soprattutto alle estorsioni? Un dato è certo ed è sotto gli occhi di tutti e, da qualche tempo, nelle riflessioni si sindaci eletti in liste civiche piuttosto che nei partiti politici: chi ha avuto tanto dalle amministrazioni pubbliche, soldi e strutture in primis, ad oggi non ha fatto nulla, e quel poco che è riuscito a fare non è servito a risolvere il problema e neanche ad arginarlo. Come è anche vero che mai nessuno di questi luminari ha partorito (con i fondi ricevuti) un sistema di protezione individuale di chi denuncia una estorsione. Le carte parlano, basta consultarle. Da articoli di giornali di stampa campana, e nello specifico partenopea, nel “Il Fatto Quotidiano” e precisamente nell’articolo “Associazioni Antiracket i conti non tornano”, si evince chiaramente che la Corte dei Conti di Napoli ha indagato un’associazione Nazionale, cosiddetta d’élite, per aver mal distribuito ai loro associati un importo di circa 3,5 milioni di euro. Per farla breve, le associazioni che facevano e fanno capo a quella d’élite non sono state trattate tutte nello stesso modo, differenziandole in quelle di serie A e quelle di serie B. Ovviamente questa disparità ha generato nelle piccole associazioni un malcontento che ha portato alla denuncia dell’Associazione “Madre”. Ma il dato che salta agli occhi – ed è un bel flash…- è l’importo di 3,5 milioni di euro che questi hanno ricevuto, soldi che non hanno sortito azioni, soldi per non fare nulla. Se vi diciamo che noi con la metà di un quarto di quella cifra avremmo potuto far tanto; la dimostrazione sta nel nostro modello di fare antiracket. Ciononostante, per fortuna per alcuni ma anche malauguratamente per taluni, chi pone il visto per queste iniziative di sicurezza sono i Prefetti, i quali si susseguono. Lo fanno nelle poltrone, e dove arrivano trovano i galoppini del posto che li ragguagliano su chi evitare, perché rompi scatole, e su chi ascoltare, perché amico dell’amico. Un circolo (anche un circo…) vizioso o virtuoso – secondo i punti di vista…- ben visibile poiché chi siede a quei tavoli cosiddetti tecnici su sicurezza e legalità, e ci chiediamo con quale diritto ci si arroga di questo privilegio, son le stesse persone che intrecciano rapporti amicali più che amichevoli, come a far comprendere che il rapporto è più stretto, pur essendo i due termini sinonimi di entrambe. Per quanto ci riguarda siamo orgogliosi di essere premiati in altri contesti territoriali, come nel casertano, dove abbiamo ricevuto un riconoscimento sulla legalità. Siamo fieri che in Sicilia, ed esattamente nella città di Messina, la Confcommercio addivenendo a un protocollo d’intesa con Noi, ci ha dato disponibilità di aprire un nostro ufficio all’interno della struttura. Siamo soddisfatti che a Bagnara Calabra, in Calabria, presto apriremo un’altra sede della nostra Associazione. Mentre ci fa specie che il Nostro territorio, quello della Capitanata, di noi se ne “fotte” altamente, mentre gli altri ci accolgono come innovatori di un sistema di fare antiracket risultato negli anni inerme, amorfo, in parole povere, morto. Di tutto questo siamo rammaricati, delusi e nel contempo consapevoli che altri poteri coprono quelli dediti alla libertà di scelta. Scusate se abbiamo usato il termine “fotte”, “scusate il francesismo”, ma il termine è appropriato per la gente cui recapitiamo il messaggio. Ma, scusate, per ottenere un incontro con Prefetto c’è bisogno che a Foggia in via Giuseppe Garibaldi 56 qualcuno faccia rumore, perché Marije dorm? Eppure la cura che doveva somministrare alocale, rimanendo in tema con la sua omonima provincia di Foggia non era debilitante, ma dimagrante per la mala. Alcuni, in certi territori italiani, dicono che in certe istituzioni ci sono le Lady di Ferro. Sono fortunati giacché nel nostro, come ci risulta, due lady ci sono state e che più della latta non hanno. Impressioni…? Mah…. Con questo articolo, se non lo specifichiamo, possiamo indurre qualcuno a capire che noi ci lamentiamo perché non abbiamo ricevuto alcun fondo statale. Non è così e lo ribadiamo pubblicamente e a gran voce. Noi precisiamo che per il nostro piano o modello territoriale di fare antiracket occorrono ZERO euro per la sua realizzazione. Si signori, ZERO euro. Allora capite perché a qualcuno stiamo sulle palle? Perché non siamo come Loro, noi i soldi non li vogliamo. Ri-scusate il “francesismo”, ma la chiarezza, spesso, ha bisogno di termini comprensibili da chi ci snobba. Noi ci siamo!!!

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. Il suo presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali  e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.

L’associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

200 mila euro. In favore della Cooperativa “Terre di Puglia – Libera Terra” (100 mila euro) e dell’Associazione Libera di don Luigi Ciotti (100 mila euro).

La cooperativa denominata «Terre di Puglia – Libera Terra» è formata da giovani pugliesi e si occupa della gestione dei terreni agricoli e degli altri beni confiscati alla Sacra Corona Unita. Attualmente, in partenariato con la Prefettura e la Provincia di Brindisi, con l’Associazione Libera ed Italia Lavoro Spa, gestisce un progetto che prevede l’impiego a fini agricoli dei terreni confiscati alle mafie nella provincia di Brindisi, nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico.

L’Associazione Libera di don Luigi Ciotti in Puglia sosterrà il progetto MOMArt (Motore Meridiano delle Arti), che prevede la trasformazione di una ex discoteca di Adelfia (Ba), centrale di spaccio e illegalità, in un luogo generatore di sviluppo sociale e civile per i giovani pugliesi. Per il raggiungimento di questo obiettivo la Giunta il 15 luglio 2008 ha approvato un protocollo d’intesa tra Regione Puglia, Tribunale di Bari, Commissario governativo per i beni confiscati e Associazione Libera.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia una palese ingiustizia e discriminazione politica che viene perpetrata da parte della Giunta della Regione Puglia guidata da Nicola Vendola e dal suo assessore competente Loredana Capone.

«Sin dal 27 settembre 2008, avendone titolo anche in virtù di una verifica della Guardia di Finanza che ne attesta la reale attività, il sodalizio nazionale riconosciuto dal Ministero dell’Interno ha chiesto l’iscrizione all’Albo Regionale delle associazioni antiracket ed antiusura – dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie -. La risposta che è stata data è che l’Albo non è stato ancora costituito, nonostante in pompa magna si sia dato risalto della sua emanazione per legge. Intanto però la Giunta Vendola si prodiga a finanziare ed a promuovere “Libera” e le sue associate in ogni modo, pur non essendo iscritta all’albo non ancora costituito. Ciò che dico è confermato dalle varie determine di finanziamento delle varie convenzioni e così come appare su “Striscia La Notizia”del 18 novembre 2011. In occasione del servizio di Fabio e Mingo in tema di favoritismi e privilegi l’assessore alle risorse umane, Maria Campese, pur non essendo competente sulla materia della mafia, in bella vista presso i suoi uffici sfoggiava un muro tappezzato di manifesti di “Libera”, da cui si palesava la scritta “I beni confiscati sono Cosa Nostra”.

Spero che questa ipocrisia antimafia cessi e la Giunta Vendola sia meno partigiana, perché oltre a discriminarle, perché non sono comuniste, nuoce a quelle associazioni che si battono veramente contro le mafie. Spero che sia dato dovuto risalto alla denuncia, in quanto abbiamo bisogno del sostegno istituzionale per poter continuare a svolgere la nostra attività.»  

In un'intervista a Magazine del Corriere della Sera, si rivela che non c'erano motivi perchè a Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, Mondadori editore, venisse assegnata la scorta. Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli, è un poliziotto con gli “attributi” che ha ottenuto l'importante incarico all'età di 40 anni; rischia la pelle tutti i giorni e, persona seria in questo mondo di quaquaraquà e opportunisti. Intervistato da Vittorio Zincone ha detto le cose come stanno: “Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni”.

Da notare che Pisani non è il solo uomo d'azione in prima fila contro la criminalità organizzata ad esprimere perplessità sulla figura di Saviano. Ricordiamo il "precedente" del prefetto di Parma, Paolo Scarpis, già questore con al suo attivo importanti successi contro le mafie italiane e internazionali, che aveva liquidato come "sparate" certe uscite del giornalista napoletano.

All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba; eppure, rivela Pisani, “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta”. In cosa consistevano le pretese minacce subite dal giornalista campano? Si parla di volantini e scritte sui muri: armamentario da studentelli, tutte cose che hanno ben poco a che fare con il modus operandi dei camorristi. Si arriva così al “fiore all'occhiello” di Saviano, il presunto attentato con autobomba che avrebbe dovuto consacrarlo come uomo da abbattere, proiettandolo nell'olimpo dei Falcone e Borsellino: una chiacchiera presa subito per buona, che venne completamente smontata dalle indagini rivelandosi una clamorosa bufala, tuttavia strombazzata ai quattro venti e senza alcun rigore dalla grancassa dell'informazione-spettacolo di sinistra.

D'altro canto, gli scritti del giornalista napoletano non tolgono certo il sonno alla criminalità organizzata, al punto che il film prontamente tratto da Gomorra viene clonato tale e quale dai camorristi e venduto nei circuiti della contraffazione. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times. Intanto continua a lamentarsi dell'opprimente presenza di autista e guardaspalle (un benefit per cui tanti vip fanno carte false) piangendo sul conto in banca che giganteggia.

Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi ?

Il pm "arresta" don Ciotti. "Libera? Partito pericoloso". La toga anticamorra Maresca su "Panorama" accusa: "Gestisce i beni mafiosi con coop non affidabili". Il sacerdote: "Fango, quereliamo", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 14/01/2016, su "Il Giornale". In principio, a fine estate, è stato il caso Ostia, lo scontro con i grillini che li hanno accusati di essere come le coop poi finite in Mafia Capitale nella gestione dei lidi, altro che garanzia di trasparenza e legalità. Quindi, ai primi di dicembre, c'è stato lo strappo più doloroso, quello con Franco La Torre, il figlio di quel Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982 e padre della legge che inventò il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai boss. Un addio al vetriolo al consiglio di presidenza, quello di La Torre, che ha accusato il leader e padre di Libera, don Luigi Ciotti, di essere «autoritario e paternalistico». Ma ora l'attacco all'associazione contro le mafie che raccoglie oltre 1500 associazioni di vario genere sotto lo scudo della legalità è se possibile ancora più pesante. Perché a muoverlo è un magistrato. Un giovane pm anticamorra come Catello Maresca, che in un'intervista a Panorama in edicola oggi lancia l'affondo: «Libera dice è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anti-concorrenziale. Personalmente, sono contrario alla sua gestione, la ritengo pericolosa». Parole pesantissime cui don Ciotti, ieri in commissione Antimafia proprio per rispondere ai veleni sulla gestione dei beni sequestrati, replica furibondo annunciando querela. Brutta aria per la creatura di don Ciotti, nata 20 anni fa sulla scia dello sdegno per le stragi del '92 e del '93. Maresca, 43 anni, non è un pm qualunque. A dispetto dell'età è uno dei magistrati di punta dell'antimafia napoletana e vanta una lunga esperienza in prima linea, costatagli anche minacce personali: è lui che ha inchiodato latitanti del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine; è lui che in aula, durante un processo, si è visto apostrofare da un killer dei boss con minacce pesanti all'indirizzo della sua famiglia; è ancora lui che a Ferragosto del 2013 ha subito in casa un raid di strani ladri, che hanno rubato foto con i suoi familiari. Ecco perché l'attacco frontale a Libera di questo pm è più incisivo degli altri: «Libera - dice Maresca a Panorama - gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Per combattere la mafia è necessario smascherare gli estremisti dell'antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo, insomma l'estremismo dei settaristi, e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così». Un siluro. Cui don Ciotti risponde a muso duro: «Noi questo signore - tuona - lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti». Don Ciotti davanti all'Antimafia si è difeso a spada tratta: «Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono. Tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna». Con don Ciotti si schiera la presidente Bindi che parla di dichiarazioni «offensive» del pm: «Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse gratuite e infondate».

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su "L'Inkiesta". I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia. Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica, scrive Antonio Amorosi, Domenica, 15 luglio 2012, su "Affari Italiani". Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza?

«Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”».

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine…

«No. E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico.  A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana.  Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che dà a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”».

Non sono solo casi isolati!? Libera è un’associazione grandissima per dimensioni…

«Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!»

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta.

E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia?

«Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce».

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia.

«A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va».

Ai nostri microfoni anche Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo.

«Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti».

La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E “Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

Libera, arriva la scissione: se ne vanno quattro gruppi del Lazio. Nell’area tra la Capitale e Caserta gli attivisti ribelli alla resa dei conti: “Dissenso non più ammesso, addio”. Replica l’associazione di don Ciotti: “Realtà manipolata”, scrive Andrea Palladino il 23 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Era il 22 marzo 2014. L’appuntamento annuale di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti contro le mafie, sbarcava a Latina. Terra difficile, incastonata tra Caserta e Roma, asse dove tutte le mafie hanno trovato da decenni una seconda patria. Una città che tanti chiamano la “lavatrice” della capitale, il luogo giusto dove ripulire soldi e carriere per le mafie. Era un simbolo quella sfilata di migliaia di persone arrivate da tutta Italia, che sanciva il rilancio di Libera nel sud del Lazio, grazie al protagonismo di tantissimi volontari, in gran parte ragazzi. Oggi quella parabola sembra affievolirsi, diventando la coda di un momento di difficoltà dell’associazione fondata da don Ciotti, che – nel 2015 – si era giù trovata al centro di una dolorosa bufera, con l’addio di Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare comunista siciliano assassinato da Cosa nostra. I presidi di Latina, Cisterna, Anzio e Nettuno hanno ufficialmente lasciato la casa madre, aprendo un cammino autonomo, con la nuova sigla di Reti di giustizia. “In questo ultimo periodo i rapporti tra la dirigenza dell’associazione e gli iscritti di questi territori si sono profondamente deteriorati – si legge in un comunicato stampa firmato dai presidi che facevano riferimento a Libera nel sud del Lazio – a fronte di una linea di chiusura verso il nostro territorio non motivata e delegittimando il lavoro svolto da tutti noi”. Una scelta che viene definita “molto sofferta, perché continuiamo a riconoscerci in tutti i principi che Libera ha proposto e portato avanti dalla sua fondazione fino al passato recente”, spiegano i volontari. I gruppi – che riuniscono poco più di una sessantina di attivisti, ora usciti dall’associazione di don Ciotti – evitano lo scontro: “Non vogliamo fare polemiche – spiega Fabrizio Marras, già referente per il Lazio di Libera e ora in prima fila con il gruppo di fuoriusciti – non siamo antagonisti o in contrapposizione. Preferiamo non commentare in questo momento, continueremo la nostra attività antimafia sul territorio”. Più chiaro e diretto è il documento che è stato diffuso martedì sera: “La centralizzazione autoritaria delle decisioni, l’incapacità di riconoscere gli errori, il permettere alla dicotomia fedele/infedele (e infedele è chi non la pensa come l’Ufficio di presidenza o osa porre problemi o obiezioni) di predominare dentro l’associazione, il ricondurre tutti i problemi che nascono ad aspetti personali e non politici, nascondendo il tutto dietro un generico e velleitario ‘va tutto bene’ o un altrettanto generico vogliamoci bene generalizzato, sono alcuni dei sintomi di questa deriva dell’associazione”. Nell’area del sud pontino i volontari delle città di Formia e Gaeta – luoghi con alta densità mafiosa – hanno deciso di rimanere all’interno dell’associazione di don Ciotti, mantenendo così la presenza, almeno parziale, di Libera nella provincia. “Ancora una volta siamo davanti alla manipolazione della verità – spiega in un comunicato Libera, replicando al documento dei presidi che hanno abbandonato l’associazione – Una verità che deve essere ripristinata per il rispetto delle tante realtà associative, dei tanti giovani e volontari che compongono e fanno Libera ogni giorno nel paese”. L’associazione di don Ciotti assicura di non aver mai allentato “in questi anni l’attenzione al territorio della provincia di Latina e continuerà a farlo con determinazione e responsabilità garantendo sempre il supporto alle realtà sociali impegnate” assicurando di voler mantenere in ogni caso una presenza nell’area a sud di Roma.

Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

25 anni dalla strage di Capaci, l’antimafia è più divisa che mai. Dopo 25 anni dall’uccisione del giudice Falcone, della moglie e di tre uomini della scorta, l’antimafia è attraversata da veleni, divisioni e accuse. Il fratello di Montinaro, caposcorta di Falcone: “L’antimafia di facciata esiste. Il problema vero è riuscire a smascherarla”, scrive Lidia Baratta il 23 Maggio 2017 su “L’Inkiesta”. Venticinque anni fa, 23 maggio del 1992. Sulla Fiat Croma marrone, la prima delle tre che accompagnano Giovanni Falcone e la moglie Francesco Morvillo, viaggiano tre agenti della scorta. Vito Schifani guida, Antonio Montinaro è seduto accanto, Rocco Dicillo dietro. Alle 17:58 la loro auto è la prima a saltare in aria all’altezza dello svincolo di Capaci. Mille chili di tritolo che fanno volare la Croma marrone dall’altra parte dell’autostrada, in un campo di ulivi. Mentre la Croma bianca, su cui viaggia Falcone con la moglie e un agente di scorta, si disintegra. Si salvano tra le lamiere Giuseppe Costanza, l’autista seduto dietro nell’auto del giudice, e gli altri agenti della Croma azzurra. Sono feriti, ma vivi. Sulla strada si apre un buco “come il cratere di un vulcano”, dicono. Davanti a quel buco, a quella colonna di fumo nero che si alza da Isola delle Femmine, la città di Palermo stavolta non rimane con le mani in mano. Dai balconi sventolano le lenzuola (i lenzuoli) bianche in segno di protesta, per differenziarsi da quella atrocità. È il seme dell’antimafia come la conosciamo oggi. Cinque anni prima Leonardo Sciascia aveva profetizzato l’esistenza dei “professionisti dell’antimafia”. Ma le stragi del 1992 segnano la data di nascita di una nuova spinta nella società civile. Tre anni dopo nascerà Libera. E da lì comitati, fondazioni, associazioni, movimenti che portano i nomi delle vittime di mafia. Ma 25 anni dopo, mai come in questo momento, l’antimafia è attraversata da veleni, divisioni e accuse. Le associazioni intanto si sono moltiplicate. Solo quelle iscritte nei registri di comuni e delle regioni oggi sono circa 2mila. Ma molti di quelli che erano diventati miti dell’antimafia, colpo dopo colpo, negli ultimi anni sono caduti a suon di inchieste. Come Silvana Saguto, la magistrata accusata di corruzione nella gestione dei beni confiscati; Rosy Canale, condannata per aver sperperato i denari delle donne di San Luca; Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo condannato per concussione in primo grado. E poi ancora le indagini su Pino Maniaci, su Adriana Musella e la sua gerbera gialla, e persino su un paladino dell’antimafia come Antonello Montante. Da casi come questi è nata anche una spaccatura interna alla stessa Libera, quando Franco La Torre, figlio di Pio, ha fatto notare durante un’assemblea l’assenza di prese posizione dell’associazione sulle indagini. Poco dopo La Torre verrà «cacciato con un sms». La stessa Commissione parlamentare antimafia sta indagando (sembra un paradosso) sulla degenerazione dell’antimafia e dei suoi finti o presunti portabandiere. L’antimafia attira denari. Attorno alla lotta alla mafia girano soldi, e non pochi, tra libri, fondi pubblici, elargizioni di ogni tipo e costituzioni di parte civile. Solo lo stanziamento a disposizione del Programma operativo nazionale (Pon) legalità per il Sud ammonta a oltre 377 milioni. E dove ci sono i soldi nascono i veleni. Rosy Canale con i soldi destinati alla lotta alla ‘ndrangheta ci aveva comprato due macchine e prenotato le vacanze. Il fondatore dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta Claudio La Camera è stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver usato i fondi dell’antimafia anche per acquistare oggetti di modellismo, sottraendo fino a 434mila euro di soldi pubblici. La stessa Commissione parlamentare antimafia sta indagando (sembra un paradosso) sulla degenerazione dell’antimafia e dei suoi finti o presunti portabandiere. L’ultimo botta e risposta di accuse riguarda Addiopizzo. In un audio circolato in Rete, Andrea Cottone, Cinque stelle fuoriuscito da Addiopizzo, critica l’uso dei fondi pubblici del candidato sindaco dei Cinque stelle di Palermo Ugo Forello, che ha presieduto l’associazione fino all’anno scorso. Cottone descrive un «circuito meraviglioso» per il quale «si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna». Poi Addiopizzo si costituisce parte civile, e come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi «e se li liquidano loro stessi». Nell’audio si parla anche della gestione definita «poco trasparente» dei fondi del Pon Sicurezza, e del presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia nei collegi difensivi degli imprenditori stessi (una doppia presenza che era già stata denunciata in commissione antimafia nel 2014). Addiopizzo ha smentito e ha annunciato di procedere per vie legali. Dietro le manifestazioni, le marce e gli striscioni, a venticinque anni da Capaci l’antimafia insomma è più divisa che mai. Persino la famiglia Morvillo ha scelto da poco di ritirare il proprio cognome dalla Fondazione Falcone, diretta da Maria Falcone, dopo la separazione della salma del giudice da quella della moglie. Ma la decisione di prendere le distanze sarebbe dovuta, come ha raccontato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, anche alla scarsa attenzione che la fondazione avrebbe dedicato alla figura della sorella in tutti questi anni. E per la prima volta, dopo 25 anni, i nomi di Giovanni e Francesca Falcone cammineranno separati. In un clima di spaesamento e divisioni, si cercano punti di fermi nell’antimafia, nomi di cui non dubitare. Si cerca una di tracciare una riga netta tra l’antimafia vera e quella “di facciata”. Non per forza collusa (ci sono pure i personaggi che di giorno marciano contro i criminali e di giorno ci fanno affari), ma diventata ormai un “brand” per costruirsi una carriera e organizzare dibattiti con tanto di gettoni di presenza. In nome di persone uccise dalle mafie, come ha denunciato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, si organizzano anche progetti da 250mila euro l’uno. Ho incontrato gente “specializzata” nell’organizzazione di eventi con questo taglio, gente che addirittura mi ha proposto un gettone di presenza per partecipare. L’antimafia di facciata esiste eccome. Il problema vero è riuscire a smascherarla. Io stesso, che seleziono moltissimo gli eventi a cui partecipare, corro il rischio di prendere parte a eventi farlocchi. Tra i più critici oggi c’è proprio Brizio Montinaro, fratello di quell’Antonio Montinaro che il 23 maggio del 1992 saltò in aria sulla Croma marrone che precedeva Falcone. La sua stessa famiglia in questi anni si è divisa sul senso da dare all’impegno antimafia. Da una parte la vedova di Antonio Montinaro, Tina, che negli anni ha fondato diverse associazioni (l’ultima si chiama Quarto Savona Quindici) e che fa su e giù per l’Italia per portare la testimonianza di quello che resta del relitto dell’auto su cui viaggiava suo marito. A fine anni Novanta Tina Montinaro attaccò aspramente quello che definiva un trattamento economico eccessivo dei collaboratori di giustizia, poi intraprese una battaglia contro il giudice tutelare di Palermo Antonino Scarpulla, che l’aveva criticata per la “sovraesposizione” dei due figli (uno dei quali Montinaro l’aveva chiamato Giovanni, proprio come Falcone). E fu anche al centro delle polemiche quando accettò la cittadinanza onoraria del comune di Salemi guidato da Vittorio Sgarbi, poi sciolto per mafia. Accanto a lei milita una delle sorelle Montinaro, Matilde, che a Calimera, il paese d’origine della famiglia in provincia di Lecce, ha fondato un’associazione, Nomeni, in cui però nessuno dei fratelli risulta tra i soci. Dall’altro lato ci sono le altre sorelle di Montinaro, Anna e Donatina, e Brizio, fratello maggiore di Antonio, che per molti anni ha deciso di restare in silenzio, evitando telecamere e interviste, ma partecipando spesso a incontri e dibattiti nelle scuole. «Se c’è la speranza di poter solleticare la riflessione e la spinta verso un mondo migliore ciò può avvenire solo intervenendo sulle giovani generazioni», spiega. In questi anni in tanti hanno contattato Brizio, che di mestiere fa l’architetto, per partecipare a dibattiti e tagli di nastri di strade e piazze dedicate a Falcone e Borsellino. «Ho incontrato gente “specializzata” nell’organizzazione di eventi con questo taglio, gente che addirittura mi ha proposto un gettone di presenza per partecipare», racconta. «L’antimafia di facciata esiste eccome. Il problema vero è riuscire a smascherarla. Io stesso, che seleziono moltissimo gli eventi a cui partecipare, corro il rischio di prendere parte a eventi farlocchi. E di questo ti puoi accorgere solo dopo aver conosciuto meglio promotori e partecipanti. Anche nelle nostre famiglie di vittime di mafia c’è chi si fa prendere la mano più dall’apparire che dall’essere». Da due anni, Brizio Montinaro ha deciso persino di non partecipare più neanche alle giornate della memoria di Libera. Non segue le iniziative della cognata né quelle della sorella. E lui stesso in occasione dei 25 anni dalla morte di suo fratello ha scelto di fare il “giro largo” dalle manifestazioni ufficiali. «Sarò in Sicilia tra scuole e università, e quest’anno anche in Calabria, per portare avanti a modo mio la memoria di Antonio e delle stragi», racconta. Con lui ci sono il movimento della Agende Rosse, Scorta Civica e anche Alfredo Morvillo, appena fuoriuscito dalla Fondazione Falcone. A due giorni dal 23 maggio, si sono ritrovati davanti alle tombe di Francesca e Antonio al cimitero dei Rotoli di Palermo. Mentre la cognata Tina Montinaro sarà a Palermo per riportare a casa la Croma blindata su cui viaggiavano gli agenti della scorta di Falcone in quel 23 maggio del 1992. Che ha cambiato tutti. Persino l’antimafia.

Palermo, un audio scuote i 5 stelle: "Forello dettava legge sui soldi di Addiopizzo". Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L'ira del candidato: "Solo falsità", scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l'8 maggio 2017 su "La Repubblica". Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube, riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera. E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli (e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso ("Un fantasma che muove tutte queste persone"), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli imprenditori taglieggiati. Parla di "un circuito meraviglioso" per il quale "si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna". Poi Addiopizzo si costituisce parte civile "e viene difesa da quell’altro". Poi come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi "e se li liquidano loro stessi". "Geniale", commenta la deputata Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente” dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. "Nessuno ha pensato di denunciare queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare", dice Giulia Di Vita. Il clima, fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: "Noi rappresentiamo un involucro da riempire", commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito, i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri staff. "È un fatto molto grave", ancora Nuti. "Siamo stati scalati", fa notare Cottone. L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino. La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno, ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato? Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”, storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: "Pur avendo ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro. È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze". Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana in piena campagna elettorale.

L'anomalia dell'associazione antiracket di Marsala: "Ampliamo gli orizzonti...", scrive TP24 l'8/07/2016. Si definiscono un gruppo di amici, “quattro pazzi”, che vogliono diffondere “la cultura antimafia”. Si definiscono “trasparenti”, anche se nessuno ha mai detto il contrario. E quelle strane, e inopportune costituzioni di parte civile nei processi in tutta Italia, quelle sono un semplice “ampliare gli orizzonti”. E’ la strana associazione antiracket e "antimafie" Paolo Borsellino onlus di Marsala. Una creatura che nasce dalla trasformazione dell’associazione antiracket di Marsala, una associazione antimafia che, con il suo dominus, l’avvocato Peppe Gandolfo, gira in lungo e in largo i tribunali di tutta Italia lanciandosi nel business del momento per l’antimafia: la costituzione di parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Una associazione nata a Marsala che si fionda sul processo “Mafia Capitale”, sul processo “Aemilia” quello sulle 'ndrine in Emilia Romagna, che tenta il colpaccio anche al processo sulla Trattativa Stato-mafia. Una stortura per l’antimafia, quella concreta, quella sul territorio di sudore e di studio, di fatiche e di cultura. Loro, i responsabili dell’associazione marsalese hanno tentato di spiegare le cose, qualche giorno fa, in una conferenza stampa praticamente deserta di giornalisti. Il caso dell’associazione lo ha trattato diverse volte Tp24.it ed è stato raccontato anche da Giacomo Di Girolamo in “Contro l’Antimafia”. L’associazione antiracket di Marsala un bel giorno, tempo fa, decide di cambiare nome. L’antiracket e Marsala stanno stretti, i processi sull’usura sono pochi in città, e scarseggiano quelli contro le cosche locali. Allora ci si attiva per “ampliare gli orizzonti”. Proprio così lo chiama il processo di trasformazione il professore di educazione artistica alle medie Enzo Campisi, colui che si definisce “artefice della trasformazione”. Si pensa ad una rivoluzione dello statuto, a cominciare dal nome. Non si chiamerà più associazione Antiracket di Marsala, ma “Associazione Antiracket e Antimafie Paolo Borsellino Onlus”. Tutto quadra. Le mafie, non più la mafia, consente di far rientrare nella lista i processi contro le ‘ndrine di tutta Italia, o le associazioni criminali ibride, come Mafia Capitale. Spuntano sedi fittizie. In Piemonte, a Roma, a Bologna. Quando non c’è neanche quella di Marsala. “La nostra è una associazione molto modesta che ha l’ambizione di crescere nel tempo, allora proposi un cambio di passo. Restare limitati a Marsala sembrava stretto per la voglia di comunicare la cultura antimafia”. Campisi spiega così l’attraversamento dello Stretto. Ad esempio l’associazione si è costituita parte civile al processo “Aemilia” sulla ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Il primo step del processo, quello con il rito abbreviato scelto da alcuni imputati, si è concluso con l’ammissione di parte civile per l’associazione marsalese e il riconoscimento di un “ristoro” di 20 mila euro. Più il pagamento delle spese legali: 7 mila euro per il legale di fiducia dell’associazione, ossia lo stesso Peppe Gandolfo. “Ma non abbiamo ancora ricevuto questi soldi”, dice il direttivo dell’associazione. Non ancora, quindi. Ma cosa fa, cosa ha fatto in Emilia Romagna l’associazione guidata da Antonino Chirco, presidente "per caso" da un paio d’anni. Quali sono state le attività sul territorio emiliano tali da giustificare la costituzione di parte civile, e quali sono stati i danni provocati all’associazione dalle ‘ndrine? Insomma cosa è stato prodotto in questi anni? Poco o nulla, a giudicare dalla risposta: “Ci siamo estesi dove avevamo persone vicine. E’ ridicolo fare una guerra tra i poveri e voler distruggere una attività antimafia. Abbiamo cercato di creare dei gruppi di studenti per crescere lentamente. Abbiamo deciso di costituirci parte civile dove avevamo un gruppo di studenti a noi vicini”. Quindi a Bologna c’è un gruppo di studenti, che si incontra, ogni tanto, non è dato saperlo, e che ha deciso di costituirsi parte civile in un processo nato da inchieste e per fatti precedenti alla nascita stessa della sede emiliana dell’associazione. Buono a sapersi. Nel favoloso mondo dell’antimafia succede questo.  Ma qual è il senso, giuridico, logico, di buon senso, di onesta intellettuale di costituirsi parte civile a dei processi che nulla hanno a che vedere con una associazione marsalese? “Se non lo fanno i siciliani a schierarsi contro le mafie in tutta Italia lo devono fare i genovesi. O i bergamaschi?” dice Campisi. “Ci sentiamo in dovere di dire ci siamo. Poi sta al magistrato se è pertinente la nostra costituzione. Sono i magistrati come Nino Di Matteo che ci esaminano”. In realtà Nino Di Matteo, e magistrati come lui, non c’entrano nulla, dato che è un magistrato non giudicante, che ha curato la parte inquirente del processo trattativa Stato-Mafia, in cui tra l'altro l'associazione di Gandolfo e il suo gruppo di amici si è costituita parte civile senza essere ammessa. Per il presidente Chirco, però, sollevare domande, sull’opportunità di queste costituzioni di parte civile nei processi extra marsalesi, senza aver svolto nessuna attività sul territorio, è il frutto di “farneticazioni”.  “Abbiamo organizzato diversi incontri nelle scuole, sia in Piemonte che in Sicilia” e poi, attività di spicco, quella di partecipare alle manifestazioni delle Agende rosse. Perchè? “Per rafforzare i magistrati del processo sulla trattativa Stato-mafia”. Insomma, un tormentone. L'associazione però nasce come antiracket. Qui invece pare una versione ridotta e casereccia di Libera. E quanti sono gli imprenditori, i commercianti, che in questi anni sono stati assistiti dall'associazione dalla denuncia al processo? Per l'avvocato Peppe Gandolfo sarebbero una quindicina, in 14 anni di attività.  Ma senza dati alla mano. Il presidente Chirco fa capire che negli ultimi anni non è stato assistito nessuno. “Se non si presenta nessuno per denunciare, abbiamo un numero verde. E una sede che si trova nel comando dei vigili urbani di Marsala, ma una vittima non verrà mai al comando”. Anche perchè la sede è sempre chiusa. “No, qui non si fa vedere mai nessuno, solo quando c'è qualche riunione, ma non vengono mai”, ci dicono dalla stazione dei vigili urbani di via Del Giudice. “Nessuno denuncia perchè non si sente protetto dallo Stato” dicono i responsabili dell’associazione. L’associazione antiracket, c’è da dire, che in questi anni è stata anche una sorta di comitato elettorale per l’avvocato Giuseppe Gandolfo. All’interno ci sono quasi tutti i suoi fedeli sostenitori che lo hanno seguito nella campagna elettorale del 2012, quando si candidò sindaco, e poi lo hanno seguito nella “moda” dell’adesione al movimento 5 Stelle di Marsala. Una convivenza mai serena con il gruppo storico dei 5 Stelle. Anche per le notizie che arrivavano dall’associazione. La trasformazione, dicevamo, è avvenuta un paio di anni fa. L’antiracket di Marsala negli anni si è costituita parte civile in diversi processi, e tutti i soldi accumulati nei vari risarcimenti non si sa che fine abbiano fatto. Spariti nel nulla, come conferma lo stesso Chirco: “Negli anni passati è stata usata come bancomat”.  Ma da chi? E perché?  E ora che si fa? “Abbiamo deciso di rendere trasparenti i nostri bilanci e pubblicarli sul nostro sito”. Peccato che il sito non sia ancora online. In tutto ciò non è mai stato prodotto alcun documento, alcuno studio sulla presenza della malavita organizzata a Marsala e nella provincia di Trapani. E poi le attività. Tutto è antimafia, tutto è legalità, tutto giustifica la presenza nelle aule dei tribunali, e il nome di Paolo Borsellino nell’intestazione apre la pista a progetti di legalità e a sovvenzioni pubbliche. “Abbiamo restituito i soldi che ci ha dato la Regione, siamo stati gli unici”, dice ancora Gandolfo. Altre iniziative? “Abbiamo accompagnato i ragazzi in discoteca per sensibilizzarli a non usare alcolici”. Ecco, l’antimafia sobria e astemia, quella che fa paura alle ‘ndrine. Intanto negli ultimi tempi qualcosa è accaduto: l'associazione ha attaccato alcuni manifesti in città.  Un po’ nei bar, un po’ nei panettieri. C'è poi uno striscione, un banner, che fa il giro d'Italia e che era presente alla prima udienza del processo Aemilia a Bologna come, in posizione strategica, su un balcone, ai funerali del maresciallo Silvio Mirarchi, un mese fa, davanti la chiesa madre, a tiro di telecamera. Non chiamatelo esibizionismo, è “ampliare gli orizzonti”. 

Antimafia, malversazione e appropriazione indebita: sequestrati i beni alla presidente di Riferimenti. Il provvedimento dopo l'avvio dell'indagine della procura della Repubblica di Reggio Calabria, che nei mesi scorsi ha iscritto nel registro degli indagati Adriana Musella, scrive Carlo Macrì il 19 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". I soldi che servivano per le attività antimafia finivano nel cassetto dello studio della presidente dell'associazione Riferimenti, Adriana Musella, che li spendeva per viaggi, hotel, ristoranti, gadget e compensi per familiari. Dopo l'avvio dell'indagine della procura della Repubblica di Reggio Calabria, che nei mesi scorsi ha iscritto nel registro degli indagati Musella con l'accusa di malversazione e appropriazione indebita, martedì è arrivato il sequestro dei beni. Alla presidente di Riferimenti le sono state sequestrate 75 mila euro. Riferimenti è l'associazione che ogni anno, tra le altre cose, finanzia la Gerbera Gialla, una manifestazione antimafia, che chiama a raccolta il mondo della scuola e le istituzioni. Tra i presenti, ogni anno, anche il Presidente del Senato Piero Grasso, il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e alte figure dell'Arma e della Polizia e giornalisti. Il procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni contesta a Musella il fatto che solo parte dei 450 mila euro, destinati all'associazione antimafia da parte di numerosi enti pubblici, dal 2002 al 2016, sarebbero stati destinati alle attività antimafia. La Guardia di Finanza, in una nota, sostiene che 55.000 euro sono stati utilizzati per finalità ritenute estranee all'associazione.  Inoltre, gli accertamenti bancari sui conti dell'associazione ha evidenziato che circa 20 mila euro, destinati a Riferimenti, sono stati «utilizzati» da Musella per fini privati. Un anno fa era stato il Corriere della Calabria a far scoppiare la «bomba» sui conti dell'associazione Antimafia. L'inchiesta giornalistica aveva accertato, infatti, che il figlio della presidente, Francesco Tortorella, aveva incassato 16 mila euro. Il Consiglio regionale, per molti anni, aveva provveduto a pagare le bollette del telefono fisso della sede di Riferimenti. Tra il 2011 e il 2013, poi, le spese per omaggi floreali e addobbi ammontano a 11 mila euro. Ventitremila euro, invece, sono state spese per magliette da distribuire nella giornata della Gerbera Gialla. Nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria sono finite anche le spese per quasi tremila euro per taxi, alberghi e ristoranti in varie città italiane. All'Apple Store di Roma Est sono finiti 1,778,95 euro. All'Ikea di Milano duemila euro, mentre è di 339,89 la somma pagata per una contravvenzione del 2007.

Reggio Calabria, malversazione: sequestrati beni presidente associazione antimafia. La guardia di Finanza ha dato esecuzione a un decreto di sequestro preventivo di beni per 75 mila euro emesso in via d'urgenza nei confronti di Adriana Musella, fondatrice di Gerbera gialla-Riferimenti: "Voglio un processo subito", scrive Alessia Candito il 19 settembre 2017 su "La Repubblica". Sulla carta, quei fondi avrebbero dovuto essere utilizzati per contrastare l'influenza dei clan in terre martoriate dalla loro ingombrante presenza. Ed invece non solo sono stati sperperati in attività che con l'antimafia non hanno nulla a che fare, ma si sono anche trasformati in un "tesoretto" personale di Adriana Musella, fondatrice e presidente della presidente dell'associazione Gerbera gialla - Riferimenti. Per questo motivo, per ordine del procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni e del pm Sara Amerio, questa mattina la Guardia di finanza ha sequestrato beni per 75mila euro riconducibili alla presidente della nota associazione antimafia, attualmente indagata per malversazione. "Voglio un processo e lo voglio in tempi brevi. Porterò le carte ai magistrati per difendermi da questo castello di accuse", ha detto Musella, che si è definita profondamente scossa. "Posso solo dire - ha dichiarato in lacrime all'Agi - che ho lavorato per 25 anni in cui ho dato molto e che non merito questo trattamento. Posso aver commesso qualche errore; presiedevo un'associazione e non una banca. Errori posso averne fatti. Dovrò riguardare tutte le fatture, portare le carte al processo per difendermi. Sono tranquilla e in buona fede. È chiaro che se la Guardia di Finanza acquisisce i documenti relativi a 10 anni di attività, qualche irregolarità può emergere, ma non può trattarsi delle somme che mi vengono contestate. Tutti mi conoscono - aggiunge - e sanno come ho lavorato". Secondo quanto emerso dalle indagini, dal 2002 ad oggi, la Gerbera gialla avrebbe ricevuto fondi per oltre 450mila euro per finanziare le proprie attività. Sui suoi progetti, hanno nel tempo investito numerosi enti pubblici, fra cui il Consiglio regionale della Calabria, le Province di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Verona, Salerno, i Comuni di Santa Maria Capua a Vetere, Bollate, Gioia Tauro, il M.I.U.R., il Consiglio Ordine degli Ingegneri di Salerno e la Camera di Commercio di Reggio Calabria. Ma - ha svelato la guardia di Finanza - non tutti i contributi generosamente elargiti sono stati destinati alla "costruzione della cultura antimafia" promessa dall'associazione. Dal 2010 al 2015 parte di quei fondi hanno preso strade diverse. Oltre 55mila euro sono stati utilizzati per finalità ritenute estranee a quelle associative, mentre altri 20mila euro sono diventati strumento di liquidità "personale" aggiuntivo, cui la presidente dell'associazione faceva ricorso. Un tesoretto personale, insomma. Interrogata a lungo nei mesi scorsi dai magistrati, Musella ha sempre negato ogni addebito e si è sempre detta "serena" riguardo l'inchiesta in corso. Già in passato erano però emerse alcune criticità nella gestione dei generosi finanziamenti ricevuti e utilizzati anche per incarichi assegnati a figli e familiari, pranzi e cene organizzati presso locali di parenti, tasse, parcheggi, acquisti, viaggi in taxi, soggiorni in albergo e pranzi e cene al ristorante. Tutte circostanze - inclusi gli incarichi assegnati ai figli - confermate e difese con una serie di post pubblici e lettere aperte da Musella, che ha sempre bollato come "pesante attività di delegittimazione" la diffusione di notizie al riguardo. Un'interpretazione con cui la Procura di Reggio Calabria - alla luce del provvedimento eseguito oggi - non sembra essere d'accordo.  

Calabria, sequestrati 75mila euro a presidente del coordinamento antimafia: Malversazione e appropriazione indebita. Nel corso del quinquennio 2010-2015, stando alle indagini delle fiamme gialle, circa 55mila euro sono stati utilizzati dalla presidente di Riferimenti per finalità ritenute estranee a quelle dell'associazione antimafia: tra queste "settimane bianche dell'antimafia", pagamenti al figlio grafico e pasti nel ristorante del cognato, scrive Lucio Musolino il 19 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sequestro all’antimafia con la partita iva. La procura di Reggio Calabria, diretta da Federico Cafiero De Raho, ha disposto un sequestro preventivo di 75 mila euro nei confronti di Adriana Musella, presidente del Coordinamento nazionale antimafia Riferimenti. Malversazione e appropriazione indebita sono i reati contestati dalla guardia di finanza a quella che veniva considerata una paladina dell’antimafia. Secondo la ricostruzione degli investigatori, guidati dal colonnello Flavio Urbani con il coordinamento del procuratore aggiunto Gerardo Dominijanni e del sostituto Sara Amerio, a partire dal 2002 la Musella avrebbe ricevuto e gestito diversi finanziamenti, anche pubblici, per un importo complessivo di circa 450mila euro, il cui impiego sarebbe dovuto essere vincolato alla divulgazione della cultura antimafia. Così non è stato e a farne le spese sono i numerosi enti pubblici che hanno elargito fondi all’associazione Riferimenti: dal consiglio regionale della Calabria, alla provincia e il Comune di Reggio passando per la provincia di Vibo Valentia, il comune di Verona, il comune di Santa Maria Capua a Vetere, la provincia di Salerno, la provincia di Verona, Il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Consiglio dell’ordine degli Ingegneri di Salerno, la Camera di Commercio di Reggio e i Comuni di Bollate e Gioia Tauro. Nel corso del quinquennio 2010-2015, stando alle indagini delle fiamme gialle, circa 55mila euro, sono stati utilizzati dalla presidente di Riferimenti per finalità ritenute estranee a quelle dell’associazione. Dall’esame dei conti bancari, inoltre, è emerso che parte dei fondi disponibili, quantificabili in circa 20mila euro, sarebbero stati utilizzati dalla Musella come uno strumento di liquidità personale aggiuntivo: una sorta di bancomat con soldi pubblici. A fine marzo, la Musella aveva ricevuto un avviso di comparizione ed è stata interrogata dal procuratore aggiunto Dominijanni e dal pm Amerio che volevano vederci chiaro sull’utilizzo dei finanziamenti destinati all’attività antimafia. Dalla contabilità dell’associazione, infatti, spuntano non solo convegni istituzionali e incontri nelle scuole, ma anche “settimane bianche dell’antimafia” a Folgaria. Diverse decine di migliaia di euro, infatti, stando alla documentazione in mano alla procura sono state spese in tipografia per la realizzazione di calendari e di un libro, 11mila euro per omaggi e addobbi floreali, quasi 5 mila euro di targhe e 23 mila euro per le magliette distribuite durante la manifestazione “Gerbera Gialla” alla quale partecipavano le più importanti autorità locali e nazionali, a partire dal presidente del Senato Piero Grasso. Con i soldi della Regione, inoltre, sono stati pagati 1.778 euro all’Apple Store di Roma, le bollette dei cellulari (5mila e 900 euro), quelle del telefono fisso (2mila euro) e dell’energia elettrica (844 euro). 16mila euro, inoltre, sono stati pagati al grafico Francesco Tortorella che è anche figlio di Adriana Musella.  Infine, ci sono pranzi per 7mila e 200 euro di cui 2mila spesi alla Locanda di Molinara e 1.500 al ristorante “I Tre Farfalli” all’epoca di proprietà di Salvatore Neri, cognato della presidente Musella.

Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestati due funzionari comunali. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale al Bilancio, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica". Con 2 milioni di euro di finanziamenti pubblici avrebbe dovuto aprire tre sportelli a Lecce, Brindisi e Taranto per assistere le vittime dell'usura e del racket. Quei soldi invece, attraverso assunzioni fittizie, false missioni, fatture e rendiconti creati ad arte sono finiti - secondo l'accusa - nella tasche della presidente dell'associazione antiracket Salento, Maria Antonietta Gualtieri, leccese di 62 anni. Un video girato dalla guardia di finanza di Lecce documenta quanto accadeva nell'ufficio della presidente antiracket: c'era un viavai di persone, ritenute complici del raggiro, che portavano alla donna buste piene di contanti che Gualtieri apriva, contava e metteva in borsa. Dalla disinvoltura con la quale tutti agivano si capisce che era un'operazione di routine. La bufera giudiziaria si è abbattuta sull'amministrazione comunale salentina nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. L'inchiesta sui presunti illeciti ha portato in carcere una stretta collaboratrice della presidente, Serena Politi, e due funzionari del Comune di Lecce: Pasquale Gorgoni dell'ufficio Patrimonio (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari) e Giuseppe Naccarelli dell'ufficio Ragioneria. Gli sportelli aperti solo sulla carta. Gualtieri, secondo gli investigatori, avrebbe promosso a Lecce, Brindisi e Taranto l'apertura degli Sportelli antiracket, ma soltanto sulla carta. In realtà gli sportelli, secondo quanto emerge dall'indagine, sarebbero fittizi: attraverso una falsa rendicontazione di spese sostenute per il personale, acquisizione di beni e servizi o di trasferte mai sostenute, attestavano falsamente la loro operatività relativa al servizio di assistenza fornito alle vittime e al numero di denunce raccolte, alterando anche il raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto.

Le somme restituite in contanti. L'associazione antiracket gestita da Gualtieri, secondo l'accusa, con l'appoggio di professionisti compiacenti - avvocati, commercialisti, esperti del settore bancario - avrebbe anche stipulato contratti di collaborazione fasulli con dipendenti esistenti soltanto sulla carta, emettendo buste paga fasulle per prestazioni mai effettuate. Le somme indebitamente percepite dai fittizi collaboratori grazie alle false rendicontazioni presentate all'ufficio del commissario Antiracket - secondo quanto accertato dagli investigatori - venivano successivamente restituite in contanti alla stessa presidente dell'associazione.

Gli altri indagati. Politi è agli arresti domiciliari. Gli altri tre sono stati condotti in carcere dopo aver assistito alle perquisizioni nei rispettivi uffici e abitazioni. Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale al Bilancio, Attilio Monosi (anch'egli coinvolto nell'inchiesta sugli alloggi popolari), candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti: Monosi si è dimesso, ma correrà comunque per le comunali.

Sequestrati 2 milioni di euro. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro.

Il coinvolgimento del Comune. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire da un funzionario pubblico che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione.

I lavori mai ultimati. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.

Antiracket Lecce, da anni polemiche accuse e sospetti sulla presidente dell’associazione arrestata. “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi e oggi arrestata per truffa aggravata, scrive Luisiana Gaita il 12 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlavaMaria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi. Eppure, secondo la procura di Lecce, che ha lavorato all’indagine sulla presunta truffa finalizzata a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime del racket e dell’usura, molto era già accaduto. Tanto che già in passato si era gettata qualche ombra sull’operato dell’associazione, ben prima dell’operazione della Guardia di Finanza scattata oggi nel Salento. Ma negli ultimi anni l’Antiracket Salento è stata al centro di polemiche, accuse, sospetti e anche inchieste che, in un modo o nell’altro, l’hanno coinvolta.

LA POLEMICA – A giugno 2013 a fare andare su tutte le furie Maria Antonietta Gualtieri furono le parole del presidente della Camera di Commercio di Brindisi Alfredo Malcarne che annunciava l’apertura presso l’ente di uno sportello antiracket. “Solo noi siamo l’unico sportello riconosciuto dal ministero dell’Interno finanziato con i fondi Pon sicurezza” si affrettò a chiarire la presidente, ricordando che l’associazione era l’unica ad aver firmato un protocollo con la Procura della Repubblica. “Vorrà pur dir qualcosa – aggiunse – ci sono associazioni che sono cattive imitazioni”. Poi le accuse ad altre realtà del territorio: “Ce ne sono alcune dalle quali ho subito pressioni – disse – perché non vogliono che cambino le cose. Con il loro atteggiamento favoriscono il consenso sociale alla criminalità, non aiutano le vittime di racket e usura. Tanto da pensare che ci possano essere delle infiltrazioni”. Inevitabili le reazioni. Come quella del presidente antiracket di Mesagne (Brindisi) Fabio Marini: “Una cosa è certa, noi siamo un’associazione non profit composta da vittime del racket e dell’usura che hanno deciso di lottare e aiutare gli altri, facciamo volontariato, mentre lo sportello antiracket Salento vive perché ha ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro”.

L’INDAGINE DELLA CORTE DEI CONTI DI NAPOLI – E a proposito di quel finanziamento, a gennaio 2014 si diffuse la notizia che la Corte dei Conti di Napoli stava indagando sul trasferimento di fondi pubblici a favore di alcune associazioni antiracket. Al centro i 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione Europea e arrivati agli inizi del 2012 che facevano parte del Pon-Sicurezza, il Programma Operativo Nazionale finanziato per lo sviluppo del Mezzogiorno. E al Sud nell’albo prefettizio risultavano attive oltre cento associazioni antiracket. I fondi, però, furono destinati solo a tre di esse, tra cui l’Antiracket Salento, che ha ottenuto qualcosa come un milione e 862mila euro. Già a marzo del 2012, in realtà, le associazioni ‘La Lega per la Legalità’ ed ’S.O.S. Impresa’ avevano inviato una lettera all’allora ministro Anna Maria Cancellieri, denunciando l’esistenza di una vera e propria “casta dell’antiracket”. Lino Busà, presidente di S.O.S Impresa, commentando l’indagine fece proprio il suo nome: “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Alfredo Mantovano”. La presidente smentì di essere coinvolta nell’indagine della Corte dei Conti, sottolineando la correttezza dell’iter che aveva portato al finanziamento degli sportelli antiracket. Di fatto l’associazione non ha partecipato ad alcun bando pubblico. E Busà ricordava che sia le norme italiane che quelle europee prevedono, invece, “bandi ed avvisi pubblici”, arrivando a parlare di “una trattativa privata”.

LO SCANDALO DEI CONSULENTI CHE CHIEDEVANO SOLDI – Un anno dopo, nel luglio 2015, un’altra inchiesta della procura di Lecce ha coinvolto l’associazione. Un avvocato e un commercialista sono finiti nel registro degli indagati, accusati di avere estorto denaro durante la loro attività di consulenti allo sportello Antiracket di Lecce. Nel fascicolo del procuratore Cataldo Motta si parlava di parcelle che andavano dai 100 ai 900 euro per gli imprenditori che si rivolgevano all’associazione per chiedere pareri sui tassi di interesse dei mutui accesi con le banche. In quella occasione, però, le accuse partirono proprio dalle denunce presentate da un imprenditore, dalla presidente dell’associazione Maria Antonietta Gualtieri e da altre due persone. Il rapporto di collaborazione tra i due consulenti e lo sportello antiracket si interruppe, ma i consulenti depositarono una una querela per calunnia contro la presidente Gualtieri.

Parma, usavano associazione anti-usura per portare soldi all'estero e non pagare le tasse: 8 arresti. Coinvolta anche l'ex candidata sindaco della città Wally Bonvicini. I patrimoni occultati in Slovenia, Croazia e Senegal per un giro di decine di milioni di euro, scrive Raffaele Castagno il 18 settembre 2017 "La Repubblica". La Guardia di Finanza di Parma ha scoperto un'associazione a delinquere specializzata nell’occultare, in società estere, i patrimoni di coloro che erano in debito con l’erario per evitare che fossero sequestrati. L’operazione è scattata tra sabato e domenica scorsi per il concreto pericolo di una fuga all’estero degli indagati: due, infatti, sono stati bloccati per strada a Reggio Emilia ed uno alla frontiera con la Slovenia. Gli arrestati sono sette cittadini italiani a cui si aggiunge una persona originaria del Senegal tuttora latitante. Il gruppo faceva parte dell'associazione antiusura Federitalia con sede a Parma. Tra loro anche Wally Bonvicini, candidata a sindaco di Parma nel 2012 e nota per le sue continue denunce contro la pressione fiscale alle imprese. La donna si trova in carcere a Modena, altri due imprenditori parmigiani sono ai domiciliari. Nel complesso è stato smantellato un gruppo criminale composto da 26 persone, tutte indagate, specializzato nell’occultare i patrimoni immobiliari e mobiliari di soggetti che, seppur solvibili, avevano deciso di non pagare le imposte verso l’erario a loro carico o i prestiti contratti. I reati di cui sono accusati spaziano dalla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alla mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, fino alla calunnia. Le ingenti disponibilità economiche - per un valore di circa 7 milioni di euro - sono state sequestrate dai finanzieri che hanno anche notificato a un notaio e un imprenditore l’interdizione allo svolgimento di attività professionali e di impresa. La Finanza ha calcolato decine di milioni di euro spostati su società estere, in particolare in Slovenia, Croazia e Senegal, attraverso l'apertura di trust o l'affitto di rami d'azienda o la cessione di quote societarie. Le attività economiche, tuttavia, continuavano senza soluzione di continuità agli occhi dei clienti: una volta creata sulla carta la società estera, infatti, veniva contestualmente aperta una unità locale in Italia che, ovviamente, coincideva con la sede della società o azienda originaria. L'indagine, coordinata dalla Procura di Parma e durata due anni, è scattata dopo la denuncia di una imprenditrice raggirato dalla stessa associazione: a fronte di u debito con l'erario ha versato 350 mila euro che non ha più visto rientrare nella sua disponibilità nonostante gli fosse stato garantito una sorta di vitalizio. Il sistema di frode, infatti, mirava anche ad approfittare della debolezza psicologica di taluni imprenditori in difficoltà economiche, al fine di incassare, da quest’ultimi, non solo laute parcelle per l’avvio della procedura criminale offerta dall’associazione ma anche le risorse economiche ancora a loro disposizione, illudendoli di una restituzione nel tempo. È emerso anche il caso di un’azienda di pavimenti in legno che non aveva versato l’iva per 60 mila euro, pur avendo un patrimonio aziendale di 240mila euro. Tra le pieghe dell'inchiesta è emerso che a ricevere le notifiche del fisco era un membro del gruppo domiciliato in Slovenia che controfirmava gli atti con nomi fittizi: Renato Pozzetto e John Wayne i più ricorrenti. Nel corso dell'operazione, denominata "Parola d'ordine", sono stati impiegati un centinaio di finanzieri che hanno eseguito anche sequestri di immobili, aziende, quote societarie e autovetture e perquisizioni ad Arezzo, Pordenone, Trieste, Savona, Padova, Verona, Milano, Pistoia, Ravenna, Reggio Emilia, Salerno, Chieti e Ferrara. Individuati ben 49 trust nonché riscontrati 71 cessioni di quote societarie, 12 affitti immobiliari, e 3 cessioni di rami di azienda, a fronte di debiti tributari non pagati per milioni di euro. L'associazione copriva la propria attività promuovendo denunce e querele davanti a disparate Procure nazionali nonostante finissero sistematicamente in archiviazione per infondatezza; da qui la calunniosità delle accuse: le denunce, infatti, venivano riproposte identiche pur nella perfetta consapevolezza dell’innocenza dei soggetti accusati di usura ed estorsione. Il Gip Parma Mattia Fiorentini ha disposto l’emissione otto ordinanze di custodia cautelare di cui 4 in carcere e 4 ai domiciliari, nonché l’interdizione dall’esercizio di attività professionali e di impresa per un notaio e per una imprenditrice, il sequestro della sede dell’Associazione Antiusura, 7 società, 3 conti correnti nonché partecipazioni societarie di 41 persone giuridiche, 16 immobili, 2 siti internet e disponibilità liquide per quasi 7 milioni di euro. Le intercettazioni - "Si può fallire ma ciò che è nel trust non può essere aggredito" - Questa una delle frasi colte dalle intercettazioni, ripetuta da Wally Bonvicini, che gli inquirenti considerano la figura principale dell’organizzazione.  La 65enne imprenditrice è nota a Parma per le sue continue denunce contro la pressione fiscale, tanto da farne uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale nel 2012.  "Conviene aprire una società all’estero - commenta un altro indagato - basta che non fosse l’Europa". Particolarmente apprezzata la scelta del Senegal: “Basta che diamo 500 euro a un ufficiale giudiziario e non verranno a cercarci per i prossimi dieci anni".

Ed ancora…

Taranto, minacce sessuali a giornalista: indagato il capo dello sportello antiracket. Michele Cagnazzo è accusato di aver inviato una lettera minatoria rivolta anche contro se stesso: secondo gli investigatori lo scopo era quello di accreditarsi come paladino antiusura, scrive l'8 settembre 2017 "La Repubblica". Era a capo dello Sportello antiracket Casartigiani di Taranto e in questa funzione aveva svolto diverse iniziative contro le estorsioni, invitando imprenditori e cittadini a ribellarsi e offrendo loro assistenza legale. Ora è accusato, ed è stato chiesto il rinvio a giudizio per aver simulato minacce e avvertimenti pur di essere sotto i riflettori della cronaca. Nel mirino anche una giornalista, collaboratrice del Quotidiano di Puglia. Dovrà affrontare un processo, perchè ritenuto responsabile di minaccia aggravata, Michele Cagnazzo, 50enne residente a Taranto con precedenti specifici e "da sempre autoreferenziatosi quale paladino di onestà e giustizia per le sue campagne antiracket e antiusura", dicono dalla questura di Taranto in una nota. "A tradirlo - secondo gli investigatori - è stata proprio la sua eccessiva e malcelata voglia di protagonismo attraverso una tanto inquietante quanto maldestra strategia". "Nello scorso marzo il quotidiano pubblicava un articolo a firma in cui veniva presentata l'istituzione dello sportello antiracket di Casartigiani Taranto, di cui Cagnazzo era responsabile. Pochi giorni dopo la pubblicazione, nella sede di Taranto della testata fu recapitato un plico al cui interno vi erano pesanti minacce di morte ai referenti dello sportello antiracket e di stupro alla redattrice dell'articolo se non avesse smesso di occuparsi di tali fenomeni criminosi". La denuncia delle minacce violente e sfondo sessuale, in particolare a ridosso della giornata dell'8 marzo, ha allarmato la Digos di Taranto, che, nel giro di pochi giorni è riuscita a individuare il presunto colpevole delle intimidazioni". E' stato così appurato che le minacce non provenivano da esponenti della malavita organizzata, ma da chi voleva costituirsi una posizione meritoria all'interno dello sportello antiracket. Secondo gli investigatori, la lettera avrebbe generato un tale clamore mediatico da cui poter trarre vantaggi "visto che conteneva anche minacce contro lo stesso Cagnazzo". Chiuse le indagini, il sostituto procuratore Enrico Bruschi ha avanzato la richiesta di rinvio a giudizio sulla base di "chiari e concreti elementi di colpevolezza". "Apprendo dalla stampa con sconcerto, ma con animo tranquillo, lo scempio e l'indecenza della notizia che mi riguarda e cercherò nei prossimi giorni non solo di capire ma di chiarire nelle sedi opportune la mia posizione, totalmente estranea nel merito dell'accaduto", replica Cagnazzo in una nota sostenendo che si sta cercando di delegittimarlo. "Quello che mi preme rimarcare da uomo, marito, padre e poi professionista, impegnato da circa vent'anni nella lotta alla criminalità organizzata e mi dispiace se qualcuno non lo abbia compreso - afferma ancora Cagnazzo - che l'obiettivo era fermarmi, fermarci. E' notoria l'azione che stavamo svolgendo sul territorio in ambito antiracket e antiusura, abbiamo subito attacchi e abbiamo risposto in maniera inequivocabile ed incontrovertibile. Abbiamo cercato di risvegliare coscienze ponendo sul campo strategie contro racket e usura, che qualcuno continua ad affermare che a Taranto questi fenomeni non esistono".

«Zitta o ti violentiamo», sotto inchiesta direttore antiracket. Le minacce a una giornalista di Quotidiano, scrive Alessandra LUPO su "Il Quotidiano di Puglia" Giovedì 7 Settembre 2017. Credeva di raccontare una cosa bella, Alessandra Macchitella, giornalista tarantina trentenne, collaboratrice del Nuovo Quotidiano di Puglia che dalle colonne del giornale aveva scritto dell’istituzione di un nuovo sportello antiracket nella città di Taranto, nato in seno a CassaArtigiani. Ma purtroppo quell’articolo le è costato caro: pesanti minacce anonime e mesi di ansia che l’hanno costretta a farsi accompagnare anche negli spostamenti più banali, condizionando pesantemente il suo lavoro. Fino alla svolta delle indagini, del tutto inattesa, arrivata ieri. Tutto era iniziato nel marzo scorso, infatti, dopo che la collega aveva scritto del nuovo ente, di cui era responsabile Michele Cagnazzo, intervistando il cinquantenne tarantino promotore di numerose campagne antiusura e antiracket. Pochi giorni dopo la pubblicazione degli articoli, però, nella sede tarantina del Quotidiano giunse una lettera contenente minacce di morte non solo contro i responsabili dello sportello ma anche rivolte alla giornalista. In un plico, infatti, le fotocopie di due articoli, uno sullo sportello e l'altro riguardante la diffusione di droga nel quartiere. In entrambi i volti e la firma cerchiati con mirini e frasi minacciose. Alla giornalista, però, è stato riservato anche un altro trattamento: quello della minaccia di violenza sessuale qualora si fosse occupata ancora di lotta all’usura e al racket delle estorsioni. “Ti stupriamo: lascia droga, racket e usura: sei avvisata”, si legge accanto al suo nome e in un’altra lettera una sua fotografia con una scritta a penna sul volto. Immediata la denuncia, con l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Taranto e l’avvio delle indagini affidate alla Digos. Indagini condotte in maniera «eccellente», tanto dal punto di vista umano che professionale, ha spiegato la vittima. E che hanno portato alla svolta decisiva: secondo gli inquirenti a inviare la missiva non sarebbe stata affatto la malavita tarantina, come si credeva in un primo momento, bensì lo stesso Cagnazzo - allora responsabile dello sportello antiracket - evidentemente a caccia di visibilità per la sua attività. Nei suoi confronti la Procura tarantina, nella persona del sostituto procuratore Enrico Bruschi, ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di minaccia aggravata. I poliziotti sono arrivati a lui attraverso le immagini di videosorveglianza dell’ufficio postale, dove l’uomo si era recato a inviare la raccomandata. A confermare i sospetti è stata poi la perizia calligrafica sui fogli. Ora sarà il giudice delle indagini preliminari a decidere nell’udienza che si terrà a novembre. Ma intanto il caso fa riflettere per vari motivi: il primo, senza voler generalizzare, è che un reato come la minaccia di morte e stupro possa maturare in un’associazione antiracket. Il secondo, ancora più odioso, riguarda il sessismo strisciante nella maldestra vicenda: tutti sono minacciati di morte ma la giovane donna anche di stupro. Alessandra, che si occupa spesso di tematiche di genere, dev’essere sembrata la vittima ideale tanto più che la lettera è stata spedita alla vigilia della festa della donna. Un tempismo perfetto insomma, tra gli elementi di una miscela mediatica potenzialmente esplosiva che secondo chi indaga avrebbe voluto richiamare sullo sportello solidarietà e interesse. Il giornale, però, decise di non divulgare le lettere minatorie ma di sporgere invece denuncia. «Io venni contattata dalla redazione per il plico - racconta Alessandra - ma per tutelare le indagini non ne scrivemmo mantenendo il massino riserbo». Ora, se l’uomo sarà riconosciuto colpevole - lei potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e tornare alla vecchia vita. «La cosa più brutta è stato essere bloccata - racconta ancora -: per un po’ non ho potuto occuparmi per precauzione di alcune tematiche, ma quello che mi ha davvero ferita delle minacce è stato il riferimento alla violenza sessuale, un modo di colpirmi non solo come giornalista ma come donna».

Taranto. Una lettera di minaccia per tutti. Questa vicenda dovrebbe far riflettere un pò di più i cittadini di Taranto, le forze dell’Ordine, ma soprattutto i giornalisti locali, che hanno notoriamente. e non soltanto secondo il sottoscritto un brutto vizio: dare troppa visibilità alle persone, quando invece nel nostro lavoro si dovrebbe concentrare l’attenzione sui fatti, scrive Antonello de Gennaro l'8 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Alessandra Macchitella, è una giornalista tarantina trentenne, una persona molto educata che e soprattutto una collega che rispetta il prossimo, ed i suoi colleghi, ed è per questo che la stimiamo. Alessandra è una collaboratrice del Nuovo Quotidiano di Puglia e sulle pagine di questo giornale aveva scritto un articolo sull’apertura di un nuovo sportello antiracket nella città di Taranto, nato in seno a Confesercenti-Confartigianato, associazioni alle quali Michele Cagnazzo ha fatto causa per ottenere un assunzione a tempo indeterminato, per poi passare armi…e bagagli sotto le insegne di Casartigiani-Confcommercio insieme ai quali operava, come questi video dimostrano.

Cagnazzo con precedenti specifici e da sempre autoreferenziatosi quale paladino di onestà e giustizia per le sue campagne antiracket e antiusura, si è tradito proprio per la sua eccessiva e malcelata voglia di “protagonismo” attraverso una tanto inquietante quanto maldestra strategia. Nessuno meglio del sottoscritto può capirla avendo ricevuto per oltre un anno lo stesso trattamento, a mezzo di atti vandalici sulla macchina, lettere diffamatorie rigorosamente “anonime” diffuse in lungo e largo per la città, lettere di minacce, culminato con l’incendio della mia autovettura nello scorso marzo avvenuto lo scorso marzo a Taranto. Avvenimento questo, le cui indagini ancora sono in corso, che ha indotto il nuovo Prefetto di Taranto a disporre l’alzamento del livello di tutela sulla mia persona affidato alla Polizia di Stato che vigila sulla mia incolumità in occasione dei miei soggiorni nel capoluogo jonico. Anche la vicenda che ha coinvolto la giovane collega Macchitella era iniziata nel marzo scorso, a seguito di un articolo che la collega aveva scritto sul Quotidiano del nuovo sportello antiracket, di cui era responsabile il cinquantenne tarantino Michele Cagnazzo, promotore di numerose campagne anti-usura e antiracket intervistandolo. Articolo che è costato molto caro alla Macchitella. Infatti le sono subito arrivate pesanti minacce anonime ed ha dovuto vivere mesi di tensione e preoccupazione che l’hanno costretta ad essere sempre accompagnata anche negli spostamenti più brevi, condizionando pesantemente la sua vita personale ed il lavoro che ha sempre svolto diligentemente. Qualche giorno dopo la pubblicazione arrivò presso la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia una lettera piena di minacce di morte non solo contro i responsabili dello sportello ma anche nei confronti della giornalista. All’interno della busta vi erano le fotocopie di due articoli, uno sulla la diffusione della droga e dei volti cerchiati con mirini e minacce esplicite. Alla collega Macchitella, invece, era stato scelto anche un altro “metodo”: quello della minaccia di violenza sessuale se si fosse occupata nuovamente di lotta all’usura e del racket delle estorsioni. Con delle pesanti minacce molto esplicite: “Ti stupriamo: lascia droga, racket e usura: sei avvisata” scritto accanto al suo nome, ed in un’altra lettera una sua fotografia con una scritta minacciosa a penna sul volto. Chiaramente venne presentata una querela, con l’apertura di un’inchiesta da parte e l’avvio delle indagini affidate alla Digos dalla Procura di Taranto.

Il capo della redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia, decise con saggezza ed intelligenza, di non divulgare le informazioni ma di sporgere invece denuncia. “Venni contattata dalla redazione per il plico – racconta la Macchitella – ma per tutelare le indagini non ne scrivemmo». Ora, se l’uomo sarà riconosciuto colpevole – lei potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e tornare alla vecchia vita. «La cosa più brutta è stato essere bloccata – racconta ancora – per un po’ non ho potuto occuparmi per precauzione di alcune tematiche, ma quello che mi ha davvero ferita delle minacce è stato il riferimento alla violenza sessuale, un modo di colpirmi non solo come giornalista ma come donna». Ma ieri vi è stata una svolta nelle indagini “condotte in maniera eccellente, tanto dal punto di vista umano che professionale”, ha commentato questa mattina la Macchitella sul Quotidiano, Infatti le indagini sono arrivate alla svolta decisiva: secondo gli investigatori ad inviare la lettera non sarebbe stata responsabile la malavita tarantina, ma lo stesso Cagnazzo – all’epoca dei fatti  responsabile dello sportello antiracket – il quale evidentemente è una delle tante persone di Taranto a caccia di uno stipendio e di visibilità per la propria attività che sopravvive esclusivamente grazie a contributi e fondi “pubblici”.  Secondo la Polizia di Stato la lettera, inviata il 7 marzo e che sarebbe dovuta pervenire alla destinataria proprio il giorno della “festa della donna”, avrebbe generato un tale clamore mediatico da cui poter trarre vantaggi, visto che conteneva anche minacce contro se stesso riconducibili all’asserita attività di contrasto ai fenomeni criminali estorsivi quale responsabile dello sportello Antiracket.

La procura di Taranto ha chiesto il   rinvio a giudizio del Cagnazzo con l’accusa di “minaccia aggravata” sulla base quindi di chiari e concreti elementi di colpevolezza grazie all’ulteriore supporto di accertamenti tecnico-scientifici. Gli investigatori della Digos sono arrivati alla sua identificazione infatti attraverso le immagini filmate del sistema di videosorveglianza dell’ufficio postale, da cui era partita la raccomandata dalle quali si vede il Cagnazzo mentre spedisce la lettera di minacce. I sospetti sono stati confermati dalla perizia calligrafica disposta sui fogli scritti a mano. Adesso sarà quindi il giudice delle indagini preliminari a decidere per la fissazione nell’udienza che potrebbe tenersi a novembre. Questa vicenda dovrebbe far riflettere un pò di più i cittadini di Taranto, le forze dell’Ordine, ma soprattutto i giornalisti locali, che hanno notoriamente. E non soltanto secondo il sottoscritto un brutto vizio: dare troppa visibilità alle persone, quando invece nel nostro lavoro si dovrebbe concentrare l’attenzione sui fatti. E’ questo malvezzo che porta poi delle persone mitomani desiderose di uscire dal torpore del loro anonimato e spesso di un’esistenza insulsa e squallida, e fare qualsiasi cosa per apparire, di vedere il suo none e la sua fotografia pubblicata sulla carta stampata o online pur di “esserci”. Forse un pò di autocritica e di maggiore attenzione e riflessione servirebbe alla stampa locale a riprendersi dal torpore in cui vegeta ed a ritrovare la voglia di fare giornalismo, che non si fa solo con le interviste o le conferenze stampa, ma con la cronaca fatta per strada, con le inchieste che fanno scaturire indagini e provvedimenti della magistratura. Tutto ciò cari lettori è il “vero” giornalismo. Il resto è noia per chi legge e spesso anche per chi scrive ricevendo quando va bene… somme che oscillano fra i 5 ed i 10 euro netti ad articolo. Concludendo non possiamo che essere felici che questa amara vicenda sia finita, e che finalmente il sorriso possa ritornare sul viso della splendida collega Alessandra Macchitella, e complimentarci con la Polizia di Stato per l’efficienza dimostrata nel corso dell’indagine. Restiamo in attesa di poter scrivere qualcosa di simile sulla vicenda dell’incendio dell’autovettura. Chi ha scritto quelle volgari minacce ad Alessandra Macchitella ci auguriamo possa ricevere una pesante punizione dalla Giustizia, e non solo, ma anche dalla città, emarginando lui e chi ha avuto fiducia nello “strumentale” operato di quella specie di uomo che si chiama Michele Cagnazzo.

Ma di lui si è già parlato sul giornale di Antonello De Gennaro. Il 27 febbraio 2015. Aggredito da 3 uomini il responsabile dello sportello antiracket, scrive "Il Corriere di Taranto". Michele Cagnazzo, responsabile di uno sportello antiusura ed antiracket di Taranto, 48enne originario di Bari ha denunciato ai Carabinieri di essere stato avvicinato e spintonato mentre si trovava in viale Magna Grecia da dei malviventi subito dopo essere uscito da una banca, venendo aggredito da tre uomini. Cagnazzo a seguito dell’aggressione è caduto per terra, e quindi si è rialzato rifugiandosi all’interno della banca, per poi recarsi in ospedale e sottoporsi a degli accertamenti, a seguito delle quali sono state riscontrate lesioni all’omero giudicate guaribili in 30 giorni. I tre ignoti aggressori si sono immediatamente dileguati. I Carabinieri del Nucleo Operativo Radiomobile dopo aver raccolto la sua testimonianza, hanno quindi avviato le indagini per identificare i responsabili ed accertare se l’aggressione sia riconducibile all’attività professionale della vittima.

Caso della giornalista minacciata: interviene il responsabile dell'associazione antiracket. Michele Cagnazzo: «Sono estraneo a quanto mi è stato contestato», scrive "Manduria Oggi" l'8/09/2017. «Apprendo dalla stampa con sconcerto ma con animo tranquillo, lo scempio e l’indecenza della notizia che mi riguarda e cercherò nei prossimi giorni non solo di capire ma di chiarire nelle sedi opportune la mia posizione, totalmente estranea nel merito dell’accaduto». A parlare è Michele Cagnazzo. «Magari questa può sembrare un’autodifesa, ma non lo è se si va a guardare oltre la becera notizia, ovvero nel merito, che nulla ha d’interesse pubblico se non un unico obiettivo: delegittimarmi. Nel merito ci ritornerò più avanti. Quello che mi preme però sottolineare da uomo, marito, padre e poi professionista, impegnato da circa vent’anni nella lotta alla criminalità organizzata e mi dispiace se qualcuno non lo abbia compreso, che l’obiettivo era fermarmi, fermarci. E’ notoria l'azione che stavamo svolgendo sul territorio in ambito antiracket e antiusura, abbiamo subito attacchi e abbiamo risposto in maniera inequivocabile ed incontrovertibile. Abbiamo cercato di risvegliare coscienze ponendo sul campo strategie contro racket e usura che qualcuno continua ad affermare che a Taranto questi fenomeni non esistono. Ritornando nel merito, qualcuno dovrà spiegarmi quale interesse abbia avuto a disincentivare l’attività giornalistica in materia di mafia, usura ed estorsioni con squallide minacce che non mi sono mai appartenute? L’attività della stampa e dei giornalisti rappresenta l’essenza del nostro stesso lavoro? Poi chiunque volesse inviare una minaccia, credo che non lo farebbe entrando in una posta munita di videosorveglianza e per di più facendo una raccomandata con nome e cognome e manoscrivendola? Questo credo che equivalga a fare una rapina e lasciare il proprio documento d’identità. Credo che tutti dovremmo porci questi interrogativi, come credo che non avessi bisogno di tale ingiustificata e becera pubblicità. La mia storia di uomo è molto chiara, a torto o ragione. La mia storia è stata costellata di minacce di vario tipo e genere, ma ho sempre continuato mettendoci la faccia a rischio continuo della mia incolumità fisica (vedasi aggressione subita nel 2015). Questa ne è un’incancellabile ed eterna testimonianza. Come diceva il compianto G. Falcone: “Quando si entra in un gioco grande o ti ammazzano o ti delegittimano”».

Chi è Michele Cagnazzo? Lo scopriamo dal suo blog e da quello che lui scrive di se stesso.

MICHELE CAGNAZZO NOMINATO RESPONSABILE "UFFICIO ANTIRACKET-ANTIUSURA" A TARANTO. Lunedì 13 aprile 2015. Un ufficio antiracket-antiusura è l’iniziativa presentata questa mattina dalla Confesercenti e dalla Confartigianato di Taranto. Presenti all’incontro il Presidente di Confesercenti Taranto Vito Lobasso, Fabio Paolillo per Confartigianato, Michele Cagnazzo, criminalista ed esperto in Scienze criminologiche applicate, nominato coordinatore e responsabile dell’Ufficio. La promozione dell’apertura dell’Ufficio Antiracket–usura da parte delle due associazioni, con annesso Centro di ascolto, vuole offrire ai soggetti che denunciano usura ed estorsioni una completa assistenza per la soluzione dei problemi economici e finanziari, per affrontare le situazioni di crisi delle piccole e medie aziende associate. Il fenomeno dell’usura a Taranto e provincia è estremamente insidioso, anche alla luce dell’attuale crisi economica. Di conseguenza, le risposte al fenomeno sono affidate alla messa in atto di strumenti di contrasto e di repressione da un lato e di sostegno e di prevenzione dall’altro. Ed è proprio su questi aspetti che si concentrerà l’attività del nuovo Ufficio Antiracket – usura. L’obiettivo dello sportello è quello di assicurare una necessaria azione di sostegno nei confronti delle piccole e medie imprese che sono vittime del racket. “Avremmo preferito non aver bisogno di creare questa attività – afferma il Presidente di Confesercenti Vito Lobasso – purtroppo però il nostro territorio ha questa esigenza. Il messaggio che ci preme veicolare ai piccoli e medi commercianti è di fare sempre affidamento sulla nostra presenza, in quanto perseguiamo tutti lo stesso scopo: la tutela della legalità”. Lobasso mette in evidenza un’iniziativa presentata precedentemente che mira ad allontanare questi fenomeni, Operazione ripresa, un’intesa a quattro tra Interfidi, BCC di San Marzano, Confartigianato e Confesercenti per sostenere il rilancio dell’artigianato e del commercio sul territorio tarantino. Confesercenti e Confartigianato hanno stipulato una convenzione con il consorzio di garanzia collettiva fidi Interfidi con lo scopo di assistere le piccole e medie imprese nell’accesso al credito. “A Taranto la situazione non è allarmante ma preoccupante – specifica il criminalista Michele Cagnazzo – il 42% delle imprese sono sotto estorsione ed usura e circa 8.600 famiglie, per un giro d’affari complessivo di 300 milioni di EURO. Dobbiamo fare i conti con una tipologia di reati subdoli perché vivono di silenzio e omertà. L’ufficio si rivolgerà a tre categorie, in fase preventiva alle imprese che hanno un sovraindebitamento e difficoltà economiche, quindi a rischio usura; una seconda categoria a chi è già sotto usura e racket ma non ha ancora maturato la decisione di denunciare e una terza categoria per chi ha già fatto denuncia, a cui forniremo assistenza amministrativa e tutoraggio in fase di ripresa dell’azienda per portare ad accedere ai fondi di solidarietà. Vogliamo far recuperare la normalità alla vittima”. Oltre ai dati numerici che derivano dall’Osservatorio statistico nazionale Confesercenti, il messaggio di Cagnazzo si riassume in una frase: “Ci siamo, non siete più soli”. Il responsabile dell’ufficio Cagnazzo lancia anche una provocazione al sindaco di Taranto: “Perché il Comune attraverso un regolamento interno non propone sgravi fiscali per le imprese che denunciano fenomeni di racket ed usura?”. “Molti problemi non sono denunciati per paura – afferma Fabio Paolillo di Confartigianato – ma si può uscire da questi fenomeni mostrando fiducia allo Stato”. Presente all’evento anche il Questore di Taranto Giuseppe Mangini che dichiara: “Abbiamo il dovere di affiancarvi. Tutte le iniziative che servono ad aumentare la sensibilità verso questo problema trovano il nostro sostegno”.

Michele Cagnazzo ex IDV, l'Italia dei Valori di Di Pietro, il partito della sedicente legalità.

Si legge sempre dal blog di Michele Cagnazzo.

CAGNAZZO E ZAZZERA (IDV): “TUTTI CON UN’AGENDA ROSSA TRA LE MANI". Venerdì 17 luglio 2009. “Sarà un modo per ricordare Paolo Borsellino e la sua scorta, un modo migliore però per ricordarlo sarebbe anche trovare l’agenda rossa che Paolo aveva con sé nella strage di Via D’Amelio. Colui che ancora oggi possiede questa agenda si nasconde, ricattando mezza classe politica nei Palazzi della vecchia e cattiva politica”. A parlare sono Pierfelice Zazzera e Michele Cagnazzo, rispettivamente Segretario Coordinatore Regionale e Responsabile dell’Osservatorio Regionale sulla Legalità – Dipartimento Antimafia-Prevenzione-Sicurezza. Pertanto Lunedi 20 luglio invitiamo davanti alla Procura della Repubblica di Bari associazioni e cittadini che ancora oggi tengono alle sorti di questo Paese, per restituirgli un volto nuovo e credibile, e per chiedere semplicemente delle risposte allo Stato. Dove l’agenda rossa di Paolo Borsellino sottratta nella strage di Via D’Amelio rappresenta una probabile chiave di soluzione in riferimento alla famosa trattativa tra i nuovi referenti politici e Cosa Nostra. Continuano Zazzera e Cagnazzo “dopo 17 anni riteniamo che nulla sia cambiato. Anzi la mafia si è trasformata da associazione a delinquere in sistema democraticamente rappresentato. E questo riteniamo costituisca la prima ed autentica emergenza del nostro Paese, oltre all’impressione che, ai piani alti del potere, quelle verità indicibili le conoscano in tanti, ma siano tutti d’accordo nel tenerle coperte da una spessa coltre di omissis, per sempre. Tutto ciò concludono Zazzera e Cagnazzo “perché l’agenda rossa costituisce la scatola nera della seconda Repubblica”.

E poi...

Di Stanislao indagato nella rimborsopoli pugliese, scrive il 19 gennaio 2016 Barbara Orsini su "Rete 8". Secondo la procura di Bari l’ex parlamentare dell’Idv, Augusto Di Stanislao, avrebbe percepito indebitamente rimborsi per benzina e alberghi: è indagato insieme ad altre due persone. Guai giudiziari per l’ex parlamentare dell’Idv ed ex consigliere regionale Augusto Di Stanislao: il suo nome, insieme a quello di altre due persone, è finito nel registro degli indagati nell’ambito di un’inchiesta della procura della Repubblica di Bari su rimborsi indebitamente percepiti. Una sorta di rimborsopoli pugliese che vede Di Stanislao indagato nella veste di commissario regionale dell’Idv in Puglia: l’arco temporale passato al setaccio è quello che va da giugno 2011 a marzo 2013. Un’inchiesta innescata dalla denuncia di un dirigente del partito di Antonio Di Pietro, tal Michele Cagnazzo, che ha fatto finire nel ciclone giudiziario l’ex tesoriera regionale del partito in Puglia e un suo braccio destro. L’accusa per tutti, incluso Di Stanislao, è di appropriazione indebita: si parla, nello specifico, di rimborsi per oltre 8500 euro divisi tra spese di carburante, ristoranti e alberghi. Un caso in particolare è balzato agli occhi degli inquirenti: un rifornimento di benzina per un pieno alla ‘Maserati 3200′ di Di Stanislao a cui ci si domanda se l’ex dell’Idv avesse diritto oppure no. Accuse ancora tutte da provare in sede dibattimentale.

Idv, spunta il sex-gate. Prestazioni sessuali in cambio di una promessa di lavoro in Parlamento. A Bari una denuncia contro il senatore Pedica e l'onorevole Zazzera. La donna parla apertamente di ricatti, ovviamente tutti da dimostrare, scrive Riccardo Bocca su "L'Espresso" il 16 giugno 2011. Non bastavano le recenti amarezze elettorali, a guastare il trionfo dell'Italia dei Valori ai referendum. Adesso c'è anche la denuncia presentata il 14 giugno alla Procura di Bari da Michele Cagnazzo, esperto di criminalità organizzata ed ex responsabile per l'Idv dell'Osservatorio pugliese sulla legalità. La storia che emerge da queste pagine è un misto di sesso e politica, segreti e fragilità umane. Uno scenario tutto da dimostrare, naturalmente, al centro del quale si trova C. M., una donna di 31 anni che Cagnazzo incontra nell'aprile 2010 negli uffici baresi dell'Italia dei Valori. "Dopo alcune frequentazioni", scrive nella denuncia, "mi accorsi del fatto che versava in uno stato di non indifferente alterazione emotiva", tant'è che in seguito, acquisita maggiore familiarità, "mi confidava di essere stata vittima di insistenti avances e ricatti da parte del senatore della Repubblica Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all'Idv". Personaggi non secondari. Zazzera, 43 anni, all'epoca dei fatti era parlamentare Idv e coordinatore regionale del partito in Puglia. Mentre il senatore Pedica, 53 anni, ha una storia che parte dalla Democrazia cristiana, continua nell'Udr di Francesco Cossiga, e sfocia dopo la fondazione del Movimento cristiano democratici europei nel partito dipietrista. "La stessa M.", scrive Cagnazzo, "mi riferiva che, avendo partecipato in qualità di simpatizzante a diversi dibattiti e conferenze, aveva conosciuto entrambi gli esponenti". E che tutti e due avrebbero iniziato, in tempi diversi, "a compulsarla con insistenti inviti e richieste di appuntamenti al di fuori dell'ordinaria attività politica". L'intenzione della donna ("Laureata in giurisprudenza e inoccupata") nell'accettare una serie di inviti, è a detta di Cagnazzo "comprendere se ci fossero opportunità di lavoro". Tant'è che Zazzera, "avendone carpito lo stato di necessità (...) continuò a tempestarla di telefonate e sms con ripetuti inviti a incontri clandestini", svoltisi all'hotel A. di Massafra (Taranto) "dal maggio 2009 all'ottobre 2009". Circostanze, recita la denuncia, che "si possono evincere benissimo dai registri presenze del suddetto albergo", e che comprenderebbero la promessa di Zazzera a M. "di farle ottenere un posto di lavoro presso l'ufficio legislativo del Parlamento ". In cambio, si legge, l'onorevole "chiedeva favori sessuali", e M., "per quanto mi ha riferito, proprio perché versava in gravi difficoltà (...) accettò di accondiscendere alle richieste". In questo contesto, dunque, va ambientata la seconda parte della vicenda. A un certo punto, Cagnazzo racconta che Zazzera avrebbe invitato "M. a Roma presso il proprio alloggio privato dicendole che era necessaria la presenza di lei, sia perché consegnasse il curriculum, sia per sottoscrivere (...) documenti finalizzati a perfezionare un rapporto di lavoro". L'onorevole, anche in quei giorni, avrebbe chiesto alla donna "insistentemente prestazioni sessuali, promettendole in cambio il proprio definitivo interessamento per la stipula di un contratto". Dopodiché, scrive Cagnazzo, "M., per quanto mi ha riferito, accettò di avere ancora un rapporto sessuale". Sentendosi però precisare da Zazzera che, "se avesse voluto guadagnare definitivamente il ruolo, avrebbe dovuto dedicare le medesime attenzioni sessuali al senatore Pedica"; il quale, "secondo quanto disse Zazzera, avrebbe anche lui messo la buona parola". Il resto è presto sintetizzato. Pedica, denuncia Cagnazzo, avrebbe raggiunto la donna all'hotel M. di Brindisi. Un incontro in cui "il senatore disse che per avere determinati benefici, avrebbe dovuto avere rapporti sessuali con lui". Da parte sua, si legge nella denuncia, "M. accettò ed ebbe, nel dicembre 2009, un rapporto sessuale con il senatore". E sarebbe stato il preludio di un ulteriore appuntamento, "sempre a fini sessuali, nel gennaio 2010". Finché, "constatando che nulla si muoveva sul fronte del lavoro, M. interruppe i rapporti anche telefonici con i due". Scoprendo in seguito, "con somma sorpresa, di risultare tra i candidati alle elezioni regionali 2010 per la Puglia, nella lista Idv, pur non avendo mai proposto né tantomeno accettato la propria candidatura". Per quest'ultimo aspetto, riferisce Cagnazzo assistito dall'avvocato Renato Bucci, la signora "mi disse di essersi rivolta a un legale". E sempre Cagnazzo, a seguito di questa vicenda, dichiara di essersi autosospeso da responsabile dell'Osservatorio Idv pugliese sulla legalità: "Cosa che avvenne nel maggio 2010". Ora tocca agli inquirenti il non facile compito di scoprire che cosa sia veritiero, e cosa eventualmente no, in questa brutta vicenda. Una verifica che, per evidenti ragioni, si spera avvenga al più presto.

Sempre dell’IDV.

Lecce, “shopping coi soldi di una vittima della strada”. Arrestato l’avvocato dello Sportello diritti. Francesco D'Agata, già coordinatore dell'Italia di valori in Salento e paladino dei consumatori in diverse trasmissioni tv nazionali, è accusato di aver truffato una donna senegalese, trattenendo 283mila euro su un risarcimento di oltre 600mila riconosciuto dal Fondo vittime della strada, scrive Tiziana Colluto il 12 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Si è fidata. Perché lui da sempre è stato al fianco dei più deboli, dei consumatori, dei migranti. Lei, ambulante senegalese, il sospetto di poter essere truffata lo ha anche avuto, una volta, ma è stata rassicurata con tanto di sentenza, poi risultata falsificata. Nella bufera finisce Francesco D’Agata, avvocato leccese di 39 anni, noto in tutta Italia per essere attivo nello “Sportello dei diritti” fondato dal padre Gianni, oltre che per essere stato ospite non di rado di trasmissioni televisive sulle reti nazionali e già coordinatore provinciale dell’Italia dei Valori nel Salento.  Per lui, il gip Cinzia Vergine ha disposto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ai domiciliari l’ex collega di studio, l’avvocato Graziano Garrisi, 38 anni. Non è detto che il cerchio sia già chiuso, perché le indagini vanno avanti e molto potrebbe emergere dai documenti sequestrati nelle scorse ore durante le perquisizioni. “D’Agata ha potuto usare il suo background di assistenza nei confronti dei più deboli, approfittando della condizione di minorata difesa della vittima” è l’atto di accusa lanciato in mattinata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta (nella foto). Un porto sicuro lo studio legale di Francesco D’Agata, nella stessa sede dello Sportello dei diritti, in città. La 34enne senegalese, residente nel Salento, non ci ha pensato due volte, anche perché a presentarglielo è stato un connazionale, cognato dell’avvocato. L’uomo giusto, insomma, a cui affidare il suo caso, decisamente serio: nell’aprile 2010, a San Cesario di Lecce, è stata travolta da un’auto, riportando lesioni gravissime. Il responsabile di quel terribile incidente non è mai stato scoperto. Ha intentato, dunque, la causa per il risarcimento danni: il 22 giugno 2015, il Tribunale Civile di Trieste ha imposto al Fondo vittime della Strada di versare a suo favore la somma di 636mila euro, comprensivi di spese. Allianz, la compagnia designata, lo ha fatto in due tranche, con bonifici su un conto corrente intestato alla donna, con domiciliazione presso lo studio legale e sul quale Francesco D’Agata, secondo gli inquirenti, ha operato “a insaputa della signora e senza informarla delle numerose operazioni e movimentazione di denaro”. Alla vera vittima è arrivata solo una parte di quei soldi: 353mila euro. Anche a lei dev’essere sembrato poco, a fronte dei danni patiti. “A richiesta della medesima e per comprovare la bontà del suo operato, D’Agata ha esibito copia conforme all’originale della sentenza falsificata, in quanto alterata negli importi”, è ricostruito nell’ordinanza di custodia cautelare. Nel provvedimento che sarebbe stato ritoccato, la cifra riportata è di 335.565 euro, oltre 22.800 di compensi e 3mila di spese. Stando alle indagini, condotte dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, D’Agata ha taciuto “la effettiva liquidazione della somma di 636mila euro in favore dell’assistita trattenendo per sé la restante parte di 283mila euro”. Di questi, 160mila euro erano già stati incassati e 122mila euro “bloccati in extremis”, dopo che la vera titolare del conto corrente lo ha congelato in seguito ad un primo colloquio con la polizia giudiziaria. Al caso, infatti, si è giunti indagando su altro. A carico di D’Agata, come di altri due avvocati leccesi ora indagati, è arrivato un anno fa un esposto. Una donna torinese, la cui storia ha fatto il giro d’Italia per gli episodi di mobbing denunciati, lamentava l’infedele patrocinio: nonostante le rassicurazioni e 4mila euro già versati, il suo ricorso in Cassazione non è mai stato depositato. È stata lei a fornire il numero di conto corrente, che ha fatto da filo d’Arianna. “Abbiamo capito che c’era sotto qualcosa quando abbiamo visto che quel conto era intestato alla signora senegalese, che ha dichiarato di non saperne nulla”, ha spiegato il pm Massimiliano Carducci. I movimenti bancari ricostruiti dagli investigatori hanno consentito di tracciare il corso dei soldi: acquisti di mobili, viaggi, la cabina al mare. Ma a pesare non è questo shopping, bensì quello residuale, 43mila euro impiegati in spese professionali. È per questi che si contesta il reato più grave, quello di autoriciclaggio, che si affianca a quello di truffa aggravata continuata, falso in atto pubblico e infedele patrocinio aggravato dall’aver approfittato delle condizioni personali, di disagio culturale e sociale della vittima. “Francesco D’Agata è sereno”, ribadisce il suo legale Luigi Rella. Risponde di concorso negli stessi reati Graziano Garrisi, assistito dall’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti. Al primo sono stati sequestrati conti correnti e beni per il valore complessivo di 203mila euro; al secondo, invece, 15.500 euro, soldi che avrebbe speso utilizzando indebitamente la carta prepagata rilasciata alla donna senegalese, presentandosi al bancomat opportunamente incappucciato.

LIBERA DI DON CIOTTI: “PARTITO MAFIOSO, CRIMINALE E PERICOLOSO”.

Il pm "arresta" don Ciotti. "Libera? Partito pericoloso". La toga anticamorra Maresca su "Panorama" accusa: "Gestisce i beni mafiosi con coop non affidabili". Il sacerdote: "Fango, quereliamo", scrive Mariateresa Conti Giovedì, 14/01/2016, su "Il Giornale". In principio, a fine estate, è stato il caso Ostia, lo scontro con i grillini che li hanno accusati di essere come le coop poi finite in Mafia Capitale nella gestione dei lidi, altro che garanzia di trasparenza e legalità. Quindi, ai primi di dicembre, c'è stato lo strappo più doloroso, quello con Franco La Torre, il figlio di quel Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982 e padre della legge che inventò il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai boss. Un addio al vetriolo al consiglio di presidenza, quello di La Torre, che ha accusato il leader e padre di Libera, don Luigi Ciotti, di essere «autoritario e paternalistico». Ma ora l'attacco all'associazione contro le mafie che raccoglie oltre 1500 associazioni di vario genere sotto lo scudo della legalità è se possibile ancora più pesante. Perché a muoverlo è un magistrato. Un giovane pm anticamorra come Catello Maresca, che in un'intervista a Panorama in edicola oggi lancia l'affondo: «Libera dice è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anti-concorrenziale. Personalmente, sono contrario alla sua gestione, la ritengo pericolosa». Parole pesantissime cui don Ciotti, ieri in commissione Antimafia proprio per rispondere ai veleni sulla gestione dei beni sequestrati, replica furibondo annunciando querela. Brutta aria per la creatura di don Ciotti, nata 20 anni fa sulla scia dello sdegno per le stragi del '92 e del '93. Maresca, 43 anni, non è un pm qualunque. A dispetto dell'età è uno dei magistrati di punta dell'antimafia napoletana e vanta una lunga esperienza in prima linea, costatagli anche minacce personali: è lui che ha inchiodato latitanti del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine; è lui che in aula, durante un processo, si è visto apostrofare da un killer dei boss con minacce pesanti all'indirizzo della sua famiglia; è ancora lui che a Ferragosto del 2013 ha subito in casa un raid di strani ladri, che hanno rubato foto con i suoi familiari. Ecco perché l'attacco frontale a Libera di questo pm è più incisivo degli altri: «Libera - dice Maresca a Panorama - gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Per combattere la mafia è necessario smascherare gli estremisti dell'antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo, insomma l'estremismo dei settaristi, e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così». Un siluro. Cui don Ciotti risponde a muso duro: «Noi questo signore - tuona - lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti». Don Ciotti davanti all'Antimafia si è difeso a a spada tratta: «Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono. Tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna». Con don Ciotti si schiera la presidente Bindi che parla di dichiarazioni «offensive» del pm: «Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse gratuite e infondate».

La maledizione dei beni confiscati. Un pm contro Libera: "Gestione pericolosa", scrive Mercoledì 13 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Il pubblico ministero di Napoli, Catello Maresca, intervistato da Panorama, parla di "estremisti dell'antimafia" che si anniderebbero nelle “associazioni nate per combattere la mafia che tendono a farsi mafiose loro stesse". Don Luigi Ciotti non ci sta: "Menzogne, lo denuncio per diffamazione". La “maledizione” dei beni confiscati si sposta da Palermo a Roma e Libera torna ad essere bersaglio di polemiche. Stavolta è un magistrato ad attaccare l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, che non ha alcuna intenzione di essere messo all'angolo: denuncerà per diffamazione il pm Catello Maresca. È stato quest'ultimo, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che coordinò le indagini sui clan dei Casalesi, intervistato da Panorama in edicola domani, a spendere parole pesanti contro la più grande delle associazioni antimafia: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Ed ancora: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale. Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Vere e proprie bordate quelle lanciate da Maresca, secondo cui, bisogna smascherare gli "estremisti dell'antimafia" che si anniderebbero nelle “associazioni nate per combattere la mafia”, ma che “hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l'estremismo dei settaristi e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre cosi". Don Ciotti è partito al contrattacco: "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza". Davanti alla commissione antimafia dice che “oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c'è un fermento impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento un noi non un io". Probabilmente il riferimento del sacerdote è alle polemiche sollevate da Franco La Torre a inizio dicembre, all'indomani delle dimissioni da consigliere di amministrazione di Libera. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti - aveva detto La Torre a Livesicilia -. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Inaccettabile per La Torre che un'organizzazione come Libera non avesse tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale dell'associazione, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' via sms ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Ora anche il pm di Napoli Maresca affonda la critica contro l'organizzazione e il lavoro di Libera, oggi alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Maresca e don Ciotti si vedranno in Tribunale, perché il sacerdote lo denuncerà per diffamazione.

Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

E finalmente!!! Catello Maresca santo subito. Critiche del Pm a “Libera”, che non è più un santuario di intoccabili. E il vanaglorioso don Ciotti lo querela, scrive Gianluigi Guarino il 14 gennaio 2016 su “Caserta ce”. Ci si sente meno soli quando si leggono dichiarazioni come quelle rilasciate dal Pubblico Ministero della Dda di Napoli. Le “giarretelle” cominciano a rompersi. E, aggiungiamo noi, meglio tardi che mai. Perchè il professionismo dell’anticamorra ha prodotto sicuramente molti più guai di quelli prodotti da coloro che il Corriere della Sera, titolando l’editoriale di Leonardo Sciascia, definì i “professionisti dell’antimafia”. La cosa bella di questa storia è che sono stati proprio i magistrati napoletani della Dda ad accorgersi ultimamente, dragando i mille rivoli che attraversano le loro tante inchieste, che la maggior parte della cosiddetta anticamorra militante non era altro che una furba rappresentazione delle peggiori attitudini clientelari, corruttive, consociative, compromissorie, di questo territorio. Un approccio bello, meravigliosamente laico, intellettualmente onesto, quello dei magistrati Dda, i quali avranno sicuramente avvertito un senso di profonda delusione quando hanno scoperto quello che hanno scoperto, o hanno colto quello che hanno colto, su un Lorenzo Diana o su un Donato Ceglie. Oggi sono disincantati. Al punto che uno di loro, tra i più autorevoli e tra i più esperti di indagini di camorra, stiamo parlando di Catello Maresca, non ha avuto alcun problema a dire quello che le proprie coscienza, scienza e conoscenza hanno maturato negli ultimi tempi, anche a costo di colpire quello che era diventato una sorta di dogma della fede anticamorrista e antigomorrista, cioè “Libera” di don Ciotti. “Se un’associazione come Libera – ha dichiarato Catello Maresca – diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro contribuisce ad inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi”. E non finisce qui: “Libera  aggiunge il magistrato della Dda – gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale. Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia. Ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie affiancandosi alle istituzioni dello Stato e ha contribuito a creare la consapevolezza e la convinzione che si potessero sconfiggere”. Insomma, un pensiero articolato, un giudizio in chiaroscuro. Comunque roba veramente grossa rispetto all’intoccabilità, dogmatica appunto e, concedetecelo, anche un po’ settaria, di un passato molto prossimo in cui chi ha osato mettere in discussione ruolo e funzione di don Ciotti e di “Libera” è finito sul rogo del sospetto e della maldicenza calunniosa di una connivenza, almeno morale, con la camorra. Maresca ha dichiarato queste cose proprio nel giorno in cui don Ciotti è stato ascoltato, pardon, audito, dalla più che inutile Commissione Antimafia, altro luogo di chiacchierologia applicata al nulla pneumatico. Una coincidenza? Può darsi, ma può darsi anche di no. Ma torniamo alle parole di Maresca: “Bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire (e definiamola, dottor Maresca, perchè è proprio così, n.d.d.) pseudo-imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del paese come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Ciò ha fatto in modo che si sminuisse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo-antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale”. Avete letto bene, amici di Casertace: pseudo-antimafia. Con tutto il rispetto per il dottor Maresca e con l’emozione che ci pervade nell’accogliere la notizia del vero sdoganamento della categoria, a noi ben nota, dei “marpioni dell’antimafia”, queste sono cose che noi scriviamo da almeno cinque anni. Ma ancor più importanti sono le successive dichiarazioni del magistrato. “L’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati non riesce ad espletare il compito che le è stato affidato. A mio parere – consiglia il Pm – bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno, quindi, venduti. Scremando questo mare magnum di beni, se i medesimi, da 15mila, diventano mille, questi mille potranno essere distribuiti in maniera più ampia tra diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le serie organizzazioni antimafia, come Libera”. Davanti a queste parole, tutto sommato pacate e anche dense di riconoscimenti nei confronti di “Libera”, che garbatamente e pudicamente Maresca fa apparire come parte lesa, sapete don Ciotti come ha replicato? Con questa frase: “Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto”. Secondo don Ciotti si tratta di dichiarazioni sconcertanti, con cui “viene distrutta la dignità di migliaia di giovani. Libera non riceve alcun bene. Libera promuove e agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce direttamente 6 strutture”. Come si suol dire, don Ciotti fa finta di non capire e sposta la sua replica su una posizione sorda e inutilmente difensiva. “Libera” è diventata un totem e don Ciotti, ammesso e non concesso che abbia il 100% delle buone intenzioni, non immagina neppure quanti parassiti, a partire dal territorio della provincia di Caserta, abbiano utilizzato questo totem per farsi propaganda, per promuovere se stessi e il loro fariseismo da sepolcri imbiancati. Per cui, noi andiamo al di là di quello che Maresca sostiene, nel momento in cui affronta soprattutto l’aspetto materiale, un po’ deviato, della funzione di “Libera”. Noi diciamo a don Ciotti: lei da sacerdote ha compiuto peccato di vanità, perchè è stata la vanità dei salotti televisivi, che ha frequentato a iosa, a farle perdere di vista lo spirito iniziale della sua missione e della missione di “Libera”. Lei non poteva non comprendere, esimio don Ciotti, che allargare a dismisura il perimetro dell’azione della sua associazione avrebbe comportato come conseguenza la perdita del controllo delle sue attività, svolte nei territori attraverso l’uso e l’abuso di quello che è diventato, suo malgrado riteniamo, in una sorta di sublimazione dell’eterogenesi dei fini, un brand buono solo per fare affari. Gianluigi Guarino

Vittorio Sgarbi: "Sto pensando di lasciare Salemi, non voglio dare terreno a Libera di don Ciotti", scrive "Marsalaviva" il 27 novembre 2011. Vittorio Sgarbi sta pensando di lasciare la carica di sindaco di Salemi perchè, spiega, ''non ne posso più'' delle polemiche sulla presunta presenza della mafia nel territorio. Il critico d'arte ne ha parlato a Torino nel corso della presentazione di un evento culturale. ''A Salemi - ha affermato - la mafia non c'è, è in letargo''. ''Una cosa è un mafioso, un ex mafioso, un mafioso superstite, un conto è la mafia vera e propria. I Salvo ci sono stati, ora non ci sono più. E' come per il nazismo: oggi come oggi da qualche parte può saltar fuori un nazista, uno che odia gli ebrei e che ha di quelle idee, ma non si può dire che esista il nazismo in quanto tale. Eppure se dico questo mi danno dell'amico dei mafiosi''. Sgarbi ha anche lanciato uno strale contro don Luigi Ciotti: ''C'è una situazione ambientale in cui devo per forza dare un terreno dell'antimafia a Libera di don Ciotti. E io non glielo dò perchè mi stanno sui coglioni i preti, non voglio dare niente ai preti, voglio uno Stato laico dove i preti si occupano delle anime. Ma se penso questo, e se non dò il terreno a Ciotti, dicono che sono amico dei mafiosi''.

Maresca: Libera si muove come la Mafia, scrive il 14 gennaio 2016 “Il Quotidiano Piemontese”. Parole pesanti da parte di Catello Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli, nei confronti di Libera, l’associazione guidata da Don Luigi Ciotti. Per Maresca, in un’intervista a Panorama, Libera ha ormai perso i suoi obiettivi e si muove in regime di monopolio come la Mafia stessa. Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa. […] Per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse.

«No agli estremisti dell’antimafia»: duro attacco del Pm Maresca a don Ciotti, scrive mercoledì 13 gennaio 2016 “Il Secolo d’Italia”. Tempi duri per i troppo “virtuosi”. Il Pm di Napoli Catello Maresca, magistrato della Direzione nazionale antimafia, mette il dito nella piaga della gestione dei beni sequestrati ai mafiosi affidata a Libera di don Ciotti. È durissimo, Maresca, nell’intervista rilasciata a Panorama, in edicola giovedì 14 gennaio.  «Libera è stata un’importante associazione antimafia – dice Maresca – Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». «Oggi» aggiunge Maresca «per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse». Maresca insiste: «Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che “si deve fare sempre così”». E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: «Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale». Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive il 13 gennaio 2016 “Panorama”. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Il pm Maresca attacca Libera: «C’è chi la sfrutta per suoi fini». Don Ciotti: sconcertante, lo denuncio. Il magistrato: «Ha perso lo spirito iniziale esclusivamente volontaristico e si è affiancata un’altra componente, pseudo imprenditoriale con persone poco affidabili, vedi in Sicilia». La replica del sacerdote: «Chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese», scrive “Il Corriere della Sera” il 13 gennaio 2016.  Don Ciotti contro il pm Catello Maresca. Il fondatore di Libera è andato su tutte le furie leggendo l’anticipazione di un’intervista del magistrato a Panorama, in edicola giovedì. «Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza». Ma cos’ha detto Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli? In pratica ha parlato dell’associazione antimafia in questi termini: «Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi». E ha aggiunto: «Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale». Don Ciotti vede rosso: «Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese», ha detto il sacerdote parlando davanti alla Commissione parlamentare Antimafia. «Mi fa piacere che il direttore dell’Agenzia per i beni confiscati Umberto Postiglione abbia ribadito che le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono». Maresca, che coordinò le indagini per la cattura del boss dei Casalesi Zagaria, precisa che «Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia. Ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie, affiancandosi alle istituzioni dello Stato, ha contribuito a creare la consapevolezza e la convinzione che si potevano sconfiggere». Però, secondo il pm, «bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiamo potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale». Secondo Maresca, l’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati non riesce a espletare il compito che le è stato affidato: «A mio parere bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno quindi venduti. Scremando questo mare magnum di beni, se da 15mila diventano mille, questi possono essere distribuiti in maniera più ampia tra le diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le serie organizzazioni antimafia, come Libera». «Le affermazioni del pm Maresca «sono offensive ed era giusto far replicare don Luigi Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate». Lo ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, nel corso della seduta odierna nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. «Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione». «La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l’antimafia ha prodotto di utile in questi anni». Lo ha detto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si), durante l’audizione di don Luigi Ciotti. Fava ha accusato il pm Maresca di «affermazioni calunniose e ingenerose: c’è una falsificazione di ciò che viene descritto in quanto Libera non gestisce i beni. Ma c’è anche un elemento di ingenerosità: va ricordato che in questi 20 anni Libera ha avuto il compito di anticipare scelte che la politica non ha avuto il coraggio di fare». Fava ha domandato a don Ciotti quali tentativi di infiltrazione può aver subito il tessuto delle cooperative di Libera. «Esistono e quali sono gli strumenti per evitare queste infiltrazioni e i loro effetti?», ha concluso.

Antimafia, pm che catturò Zagaria attacca Libera: “Inquinata da intenti economici”. Don Ciotti: “Fango, lo denunciamo”. Catello Maresca, magistrato della Dda di Napoli, punta il dito sulle cooperative che gestiscono i beni confiscati alla criminalità: "C'è chi lo fa per i propri interessi", dice in un'intervista a Panorama. La reazione del fondatore, sentito oggi in Commissione parlamentare: "Le promuoviamo, ma non sono nostre. Così si fa il gioco delle mafie". E denuncia: "La nostra rete sotto attacco". Bindi lo difende: "Commissione vuole rilanciare l'antimafia, non delegittimarla", scrive "Il Fatto Quotidiano il 13 gennaio 2016. “Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittano del suo nome per fare i propri interessi”. L’attacco arriva da uno stimato pm antimafia, Catello Maresca, il sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che tra l’altro ha coordinato le indagini sui Casalesi e la cattura del boss Michele Zagaria. In un’intervista su Panorama in edicola domani, il magistrato napoletano afferma ancora: “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”. L’affondo arriva proprio nel giorno in cui don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, che sta svolgendo una serie di audizioni proprio sui temi sollevati da Maresca. Cioè su casi di interessi economici e carriere personali coltivati approfittando della popolare etichetta dei movimenti antimafia, sull’onda di casi di cronaca che hanno coinvolto per esempio Confindustria Sicilia e il magistrato palermitano Silvana Saguto, impegnata appunto sul fronte dei beni confiscati. Libera ha comunque incassato l’immediata solidarietà del presidente della Commissione Rosy Bindi (Pd), secondo la quale le affermazioni di Maresca “sono offensive, assolutamente gratuite e infondate”. Perché il lavoro dei commissari è stato “intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla”. Durissima la reazione di Libera, a cominciare dallo stesso don Ciotti, che ha definito le parole di Maresca “sconcertanti”: “Noi lo denunceremo questo signore, se quelle dichiarazioni saranno riportate domani in virgolettato. Quando viene distrutta la dignità di tanti giovani, io credo sia un dovere difenderli”. E ancora: “Non ho rilasciato nessuna intervista neppure quando Panorama e altri giornali ci hanno gettato fango addosso. Le fonti vanno verificate, le parole non devono essere interpretate. I giornalisti che gettano fango fanno il gioco delle mafie”. Il magistrato, però, non retrocede: “Vedremo se sarà della stessa idea quando avrà letto l’intera intervista, che affronta il tema in modo più ampio”, dice Maresca a ilfattoquotidiano.it. “Poi vedremo in che sede dovremo confrontarci”. In un successivo colloquio con l’Ansa, Maresca ha comunque riconosciuto che “Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia” e “svolge un ruolo fondamentale”. Però, secondo il pm, “bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiamo potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì”, continua Maresca, “che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale”. Il nodo è sempre quello delle cooperative sociali a cui vengono affidati in gestione i beni immobili confiscati alle mafie, tema affrontato anche da don Ciotti in Commissione: “Le cooperative non sono di Libera, Libera le promuove”. E i beni sono assegnati, per la realizzazione di attività sociali, dai Comuni “con un bando pubblico”. Ai parlamentari guidati da Rosy Bindi, il fondatore di Libera ha spiegato: “C’è un equivoco che qualcuno vuole attribuire a don Ciotti: la capacità di concentrare beni e poteri economici. Non è assolutamente così. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”. Inoltre “i fondi europei vanno agli enti locali, non a Libera. Che sia chiaro a tutti: per la gestione dei beni confiscati, Libera non riceve contributi pubblici”. Libera non gestisce, ha sottolineato anche Fava, che ha bollato le dichiarazioni di Maresca come “calunniose e ingenerose”. Libera è sotto attacco, ha sostenuto don Ciotti. “Oggi è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera”. Insomma, “le trappole dell’antimafia le abbiamo ben chiare mai come oggi”. Oggi “è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera”. “Purtroppo”, ha continuato Ciotti rispondendo alle domande del senatore Pd Giuseppe Lumia e del vicepresidente della Commissione Antimafia Claudio Fava, “il tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale in Italia. Le nostre rogne sono cominciate con 17 processi in cui Libera si è costituita parte civile”. Altri problemi, poi, “sono nati con le cooperative. Ogni sei mesi noi chiediamo alla prefettura di verificare perché cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate e siamo dovuti intervenire noi – ha precisato -. Sono 1600 le associazioni coordinate da Libera, alcune grandi e a livello nazionale”. Il pm Maresca chiede una riforma di tutto il sistema. L’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati, sostiene, non riesce a svolgere il compito: “Bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno quindi venduti. Scremando questo ‘mare magnum’ di beni, se da 15mila diventano mille, questi possono essere distribuiti in maniera più ampia tra le diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le ‘serie’ organizzazioni antimafia, come Libera”.

Il pm Maresca contro Libera: "Non è affidabile". Don Ciotti in Commissione antimafia: "Vogliono demolirci con le menzogne". Il procuratore della dda di Napoli accusa: "Le associazioni antimafia tendono a farsi mafiose loro stesse". Il fondatore di Libera contrattacca: "Lo denuncio", scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica” il 13 gennaio 2016. Accuse pesanti lanciate da un procuratore antimafia contro l'associazione antimafia Libera, risposte altrettanto dure da parte del fondatore don Ciotti che annuncia querele e il tentativo di "demolire" la sua creatura "con le menzogne". Ma don Ciotti ascoltato proprio oggi in Commissione parlamentare antimafia ammette che i problemi di trasparenza di alcune cooperative ci sono stati ma prontamente risolti. Le accuse questa volta vengono da un pm antimafia. Dopo il polemico addio di Franco La Torre, "licenziato" da Don Ciotti via sms in seguito alle critiche mosse nel corso degli stati generali, a sparare a zero contro Libera è il sostituto procuratore della Dda di Napoli Catello Maresca che in una intervista a Panorama dice: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Libera -  secondo il pm -  "gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale". Il magistrato napoletano accusa Libera di "gestire i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti". Parole dure che scatenano l'ira di don Luigi Ciotti, proprio oggi ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia. Il sacerdote, che preannuncia querele nei confronti del magistrato se qualcuno pubblicherà le sue parole anticipate dal settimanale con un lancio d'agenzia, replica indignato: "Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna. E' fondamentale la verità. Perché va bene le contraddizioni ma non bisogna calpestare la verità". Lo ha detto don Ciotti, presidente di Libera, parlando davanti alla commissione Antimafia. "I nostri bilanci - ha ricordato - sono pubblici, on line. Nessuno - ha ammonito - metta il cappello addosso a Libera. Noi difendiamo la dignità, la libertà e la trasversalità di tutti". "Non si può demolire il percorso di Libera con una menzogna - ha continuato don Ciotti - Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo paese. Libera gestisce solo 6 strutture direttamente. Libera non riceve nessun bene, che invece viene dato ai comuni e poi affidato alle cooperative. Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve finanziamenti pubblici. I bilanci sono pubblici, da anni. Nessuno, nessuno, nessuno metta il cappello su Libera". "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi -  è l'adirata replica di don Ciotti - Domani esce questa intervista. E noi questo signore (il pm napoletano antimafia, Maresca, ndr) domani mattina lo denunciamo perché si tace una, due, tre volte ma quando viene distrutta la dignità del lavoro di tante persone, è un dovere ripristinare la verità". "Il tema dell'infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava Si - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". "Le affermazioni del pm Maresca sull'associazione Libera sono offensive ed era giusto far replicare don Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate". Lo ha detto la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, nel corso della seduta di oggi nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. "Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell'ottica di rilanciare l'antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione". "La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l'antimafia ha prodotto di utile in questi anni", ha aggiunto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si). "Dobbiamo dare atto a Libera di avere svolto un lavoro importante non solo sui beni confiscati, su cui ha svolto un vero ruolo di supplenza, ma non si può non riconoscere che Libera ha costituito anche uno stimolo legislativo alla politica". Così il capogruppo del Pd in Commissione Antimafia, Franco Mirabelli - Oggi però la mafia è cambiata: si mimetizza, sta nell'economia. Oggi il movimento antimafia deve vivere sul presente e sul futuro e vivere un rapporto sulla percezione che ha l'opinione pubblica delle mafie e che è molto bassa. Oggi forse un ripensamento dell'antimafia va fatto".

"Gli interessi economici hanno snaturato Libera". E Don Ciotti querela il magistrato Catello Maresca, scrive il 13/01/2016 "L'Huffingtonpost.it". Don Luigi Ciotti denuncerà per diffamazione il pm Catello Maresca, il quale in una intervista accusa l'associazione "Libera" di albergare "persone senza scrupoli" e di aver acquisito "interessi di natura economica" simili agli interessi della mafia: "Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Parole pesanti che il fondatore di Libera non intende lasciar passare senza un intervento forte. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo", dichiara don Ciotti, non nuovo a profonde critiche all'associazione antimafia. "Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza". Le parole di Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che coordinò le indagini e la cattura di un superboss del clan dei Casalesi come Michele Zagaria, sono affidate a una intervista in edicola giovedì sul settimanale Panorama: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale", dichiara Maresca. "Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa", continua il pm. "Oggi, aggiunge Maresca, per combattere la mafia è necessario smascherare gli "estremisti dell'antimafia", i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. "Registro e osservo - continua il pm – che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l'estremismo dei settaristi e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre cosi". "Oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna", ha detto don Luigi Ciotti davanti alla Commissione parlamentare antimafia. "Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c'è un fermento impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento un noi non un io". "Il tema dell'infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava (Sinistra Italiana) - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". "Alcune situazioni creano sconcerto: io non ho rilasciato alcuna intervista, neppure quella che mi è stata attribuita tempo fa su Repubblica", ha concluso don Ciotti. A difendere don Ciotti è intervenuta Rosy Bindi: le affermazioni del pm Maresca "sono offensive ed era giusto far replicare don Luigi Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate", ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia. Nemmeno Claudio Fava (Si) ha apprezzato le parole del magistrato: "affermazioni calunniose e ingenerose: c'è una falsificazione di ciò che viene descritto in quanto Libera non gestisce i beni. Ma c'è anche un elemento di ingenerosità: va ricordato che in questi 20 anni Libera ha avuto il compito di anticipare scelte che la politica non ha avuto il coraggio di fare". "Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le convenzioni vengono stipulate solo per lo svolgimento delle attività statutarie" ha specificato il fondatore di Libera contro le mafie. "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi", ha aggiunto, anche riferendosi alle parole del pm napoletano antimafia Maresca. E ancora: "Libera non riceve nessun bene, che viene dato ai comuni e da questi affidato alle cooperative". "C'è un equivoco: qualcuno vuole attribuire a don Ciotti la capacità di concentrare beni e poteri economici. Non è assolutamente così: ci sono pochissime cose assegnate direttamente a Libera. Libera è un coordinamento di 1600 associazioni che opera con oltre 5 mila scuole e ha protocolli con 64 facoltà universitarie". "L'antimafia non può essere una carta di identità che uno tira fuori a secondo delle circostanze, è un problema di coscienza", ha aggiunto don Ciotti. "Le trappole dell'antimafia sono davanti agli occhi, mai come oggi. Si deve togliere anche questa parola Antimafia, rischiamo di essere travolti", ha aggiunto, dopo aver ricordato gli allarmi lanciati da Libera sui rischi di infiltrazioni mafiose subito dopo la riapertura del "Caffè de Paris" a Roma nel 2011. "Quando abbiamo avuto elementi, siamo andati dai magistrati a consegnarli: se alcuni processi sono in atto è anche perché abbiamo fornito noi elementi per istruirli", ha concluso, riferendosi anche alle critiche arrivate da alcuni ambienti che li hanno accusati "di non essere intervenuti per tempo e di aver taciuto sulla situazione a Roma".

Le sentite scuse del magistrato querelato da don Ciotti. Il pm antimafia che accusava «Libera» Catello Maresca scrive una lettera al sacerdote: «Sono molto spiacente, offro una completa e assoluta ritrattazione», scrive Gian Antonio Stella l'1 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Va bene, va bene, mi scuso! Sono molto molto spiacente, mi scuso senza riserve. Offro una completa e assoluta ritrattazione...». Era dai tempi della mitica abiura dell’avvocato Archie appeso per i piedi in Un pesce di nome Wanda che non si assisteva a una retromarcia come quella che ieri, con le pubbliche scuse del giudice Catello Maresca a don Luigi Ciotti ha messo fine allo scontro più duro degli ultimi anni tra i protagonisti della lotta alla mafia. Una frase per tutte: «Mai ho pronunciato quelle parole che ovviamente non mi possono in nessun modo essere attribuite, parole che non condividevo e non condivido». Meglio così. Ma c’è qualcosa che non torna.

Le accuse. Ripartiamo dall’inizio? Di qua c’era Maresca, il pm napoletano della Direzione nazionale antimafia autore tra l’altro dell’inchiesta su Michele Zagaria e i Casalesi. Di là don Ciotti, bellunese trapiantato a Torino, anima e presidente prima del Gruppo Abele e poi di Libera, la rete di associazioni, enti e gruppi locali contro le mafie. Insomma, due icone della legalità schierate sullo stesso fronte finché il magistrato, nel gennaio 2016, aveva fatto il botto. Dando un’intervista a Carmelo Caruso, di Panorama, il cui titolo deflagrava così: «L’antimafia a volte sembra mafia. A iniziare da Libera, che non è più un esempio ma un pericolo». Tra le accuse riportate tra virgolette, eccone una: «Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse».

Le critiche. «Sta parlando forse di Libera, l’associazione fondata da don Ciotti?», chiedeva il giornalista. Risposta: «Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Tesi ribadita, dopo le anticipazioni del settimanale, all’Ansa: «Libera ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie» ma «purtroppo, col tempo, a questo spirito iniziale volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi».

La reazione di don Ciotti. Don Luigi Ciotti saltò su furente e indignato: «Questo signore lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi». E dopo aver insistito sul fatto che «per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici» e che «sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1.600 associazioni che la compongono», spiegò che sì, «il tema dell’infiltrazione è reale» e «le trappole dell’antimafia sono davanti ai nostri occhi» ma che proprio lui e i suoi avevano lanciato i primi allarmi facendo nomi e cognomi. Insomma: «È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna».

L’articolo sul «Mattino». Il giorno dopo, mentre sui giornali piovevano titoloni, nuova puntata: in un articolo scritto di suo pugno sul Mattino di Napoli, il pm se la prende con Ciotti anche perché l’ha chiamato «questo signore» (mentre lui l’ha «sempre chiamato con nome e cognome e con il suo meritato titolo») e sospira: «Sono rammaricato perché mi sarei aspettato una reazione diversa da parte sua e degli altri rappresentanti di Libera». Al di là di qualche distinguo, però, non smentisce nulla: «Il problema generale che io ho denunciato, rispetto al quale ho riscontrato alto interesse e condivisione, resterà». E mentre qua e là spuntano affettuosi pacieri, il fondatore di Libera aspetta per un mese e si decide. Querela.

Il mea culpa. Un anno dopo ecco il «mea culpa». Con una lettera di Catello Maresca indirizzata al «caro don Luigi» e ai «cari amici di Libera». Ricorda che «i nostri nemici sono altri e noi tutti li conosciamo bene e li sappiamo individuare, perché li combattiamo tutti i giorni» e giura: «Mi dispiace tantissimo per lo spiacevole equivoco che è nato a seguito della mia intervista a Panorama». Spiega che si trattava della sintesi di una chiacchierata «di oltre due ore», che molte sue «dichiarazioni non erano affatto riferite a Libera», che altre erano «frutto della libera interpretazione del giornalista di un concetto più articolato», che il suo unico scopo «era e resta quello di dire: stiamo attenti a non farci — tutti — strumentalizzare» e via così. Di più: rivendica di avere dato subito la sua «pronta smentita alla interpretazione offerta e pubblicata da Panorama» proprio nell’articolo sul Mattino già citato. Quindi elenca: «Mi dispiace perché mai ho voluto neanche lontanamente screditare il vostro quotidiano impegno sul campo delicatissimo dell’antimafia sociale, né mettere in dubbio il valore inestimabile della storia di Libera. Mi dispiace perché alcune mie considerazioni tecniche e tratte dalla mia esperienza operativa sono state strumentalizzate e utilizzate in una ingiusta e scorretta campagna di delegittimazione di Libera e del lavoro di molti volontari».

La replica. Meglio così, gli risponde a stretto giro Luigi Ciotti: «La lettera che ci scrive Catello Maresca è per Libera un gesto importante» perché quell’intervista «era stata per tutti noi motivo di sofferenza. Non solo per i giudizi ingiusti e non veri che conteneva, ma perché quei giudizi sono stati in seguito ripresi, amplificati, strumentalizzati da chi mira a screditare il nostro nome e la nostra storia».

Pietra sopra. Tutto è bene quel che finisce bene? In tribunale, dove lo scontro fratricida sarebbe stato letale, senz’altro. Resta però dell’amaro in bocca. Vabbé che, come ironizzò Gianfranco Fini ai tempi in cui dava la scalata al cielo, «le smentite non hanno scadenza». Ma forse val la pena che chi ha pubbliche responsabilità ricordi sempre un vecchio adagio veneto scherzoso ma non troppo: «Prima de parlar, tasi».

Ma cosa aveva detto Maresca?

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". 

Il pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione. Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive Carmelo Caruso il 18 gennaio 2016 su Panorama. In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse, come è possibile leggere qui.

Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio".

Le piace studiare il sottosuolo?

"Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi". È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra? "Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato?

"A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza".

I beni sequestrati alle mafie. Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Libera e l'antimafia. Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

Vendere i beni sequestrati.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Magistratura e corruzione. Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo".

Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici?

"Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi".

Quando si ammala la magistratura?

"Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive Maurizio Tortorella il 25 gennaio 2016 su Panorama. “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

"Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati."

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

"Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante."    

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

"Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano."

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

"Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico."

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

"Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose."

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

"Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!"

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

"Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi."

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

"Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione."

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

"L’affermazione di Caruso  ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale."

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

"Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!"

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

"Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli."

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

"Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili".

Per esempio?

"Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica."

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

"La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati."

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

"Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!"

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

"È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole."

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

"Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan."

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

"Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari."

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

"Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito."

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quandosi è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

"No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca."

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

"Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”."

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

"Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato."

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

"Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!"

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

"Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente."

“Nei comuni di Bordighera e di Ventimiglia, sciolti per mafia, i sindaci manifestavano accanto a Libera contro la mafia. Ad Albenga Libera aveva perfino consegnato il braccialetto della legalità al candidato sindaco Giorgio Cangiano, ma nelle sue liste compariva Francesco Accame, indagato perché vicino alla famiglia ‘ndranghetista dei Gullace. Quando lo ha scoperto, Libera si è limitata a chiedere chiarimenti”. Queste le parole di Christian Abbondanza, fondatore della “Casa della Legalità” rilasciate al settimanale “Panorama” uscito il 28 gennaio 2016 in edicola. Nell’articolo a firma Carmelo Caruso dal titolo “Se l’antimafia si trasforma in trust economico”, viene messa al centro l’associazione Libera e anche la sezione savonese. Secondo l’articolo l’associazione fondata da don Luigi Ciotti “è di fatto il primo trust antimafia, creato per amministrare il patrimonio confiscato alla mafia. Su tutti i beni sequestrati alle organizzazioni criminali, che in Italia valgono circa 30 miliardi di euro, l’associazione fondata nel 1995 esercita un’egemonia di fatto”. Secondo Panorama questo avviene “attraverso 1600 cooperative affiliate, quelle che in oltre 20 anni Libera stessa ha incentivato a costruire”.

“Se l’antimafia si trasforma in trust economico”. Gran parte dei beni confiscati a Cosa Nostra negli ultimi anni sono andati a cooperative affiliate a Libera, l’associazione di Don Ciotti. Ma più cresce, più difficile diventa il controllo. E’ di fatto il primo trust antimafia, creato per amministrare il patrimonio confiscato alla mafia. Su tutti i beni sequestrati alle organizzazioni criminali, che in Italia valgono 30 miliardi di euro, l’associazione Libera fondata nel 1995 da Don Luigi Ciotti esercita un’egemonia di fatto. Attraverso 1.600 cooperative affiliate, quelle che in oltre 20 anni Libera stessa ha incentivato a costruire, non c’è praticamente immobile confiscato che non sia stato affidato dai comuni senza prima sentire i tecnici dell’associazione, così come non c’è quasi bando pubblico che non l’abbia favorita.

E’ storia che va avanti da molto tempo. A Genova, per assegnare nel 2008 un appartamento requisito nel centralissimo vico del Mele al Boss Rosario Caci, l’allora sindaco Marta Vincenzi lasciò che a occuparsene fosse Nando Dalla Chiesa nella sua duplice veste di responsabile progetti culturali del comune ma anche presidente onorario di Libera. Come se non bastasse il conflitto tra i due ruoli, il bando comunale restringeva il campo dei partecipanti, prevedendo agevolazioni proprio per quelle cooperative caratterizzate dalla vendita di prodotti ottenuti dalle terre confiscate. Ad aggiudicarsi l’immobile fu l’associazione In Scia Stradda, che commercializzava i prodotti alimentari di Libera.

A Lecco, per assegnare l’ex pizzeria Wall Street da 21 anni confiscata al clan Coco-Trovato, la Regione Lombardia ed il comune nel 2014 hanno firmato un altro protocollo, ovviamente con Libera. Denuncia l’associazione Qui Lecco Libera (non collegata all’associazione di Don Ciotti): “L’unico progetto presentato è stato confezionato proprio da Libera. E a vincere la gara, nel 2015, sono state tre associazioni gradite a Libera. Però a tutt’oggi la pizzeria non ha aperto”.

Dice Adriana Musella, figlia di una vittima di mafia che a Reggio Calabria ha fatto nascere la piccola associazione Riferimenti, fatta di due stanze e di impegno gratuito: “Io non posso negar, sia pure con garbo ed equilibrio, che la gestione dei beni confiscati fino a oggi sia stato parziale”.

Nel pianeta dell’antimafia la supremazia di Libera viene chiamata “Competenza”, ma il risultato è comunque un notevole accentramento. Come quelle multinazionali che diversificano i marchi e settori per accrescere il loro business, anche l’associazione di Don Ciotti ha fatto ricorso alla clonazione di successo: Libera negli anni ha generato almeno sei figlie, tutte con nomi simili, ma attive in comparti diversi: Libera Terra; Cooperative con Libera Terra Mediterraneo; Agenzia Cooperare con Libera Terra; Cooperare con Libera Terra Mediterraneo; Cooperative Libera Terra; Botteghe Libera Terra; Libera International.

“E più il gigante si gonfia, più difficile diventa il controllo” dice Christian Abbondanza, 41 anni, il blogger genovese che per primo ha scritto di ‘ndrangheta in Liguria ed è diventato anche il responsabile della Casa della Legalità. Abbondanza non è nei favori di Libera. Don Ciotti ha definito la sua associazione con un aggettivo negativo: cattiva. Così ora Abbondanza deve difendersi non soltanto dagli ‘ndranghetisti, che da anni lo minacciano di morte, ma anche da Don Ciotti, che lo ha querelato esattamente come ha annunciato di fare nei confronti del pm antimafia di Napoli, Catello Maresca, che su Panorama aveva osato parlare del monopolio di Libera. In realtà, che sia necessario aprire un confronto sulla gestione dei beni confiscati, e quindi anche su Libera, ha poi ribadito Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Intervistato da Panorama ha difeso il pm Maresca e ha aggiunto: “Condivido gran parte della sua analisi”. E su Libera ha detto: “E’ cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; ed è diventata anche un brand di cui, a volte, qualche speculatore potrebbe volersi appropriare”.

Non hanno tutti i torti: del resto, ad ogni gemmazione di Libera, fanno riferimento cooperative capaci di generare fatturato. Il totale nell’ultimo bilancio economico sociale del 2014 supera i 10 milioni. Il miglior esempio d’incassi è il Consorzio Libera Terra Mediterraneo, che nel 2013 aveva prodotto un giro di affari di 5,6 milioni. Questo consorzio alla casa madre gira contributi, nel bilancio stesso definiti royalty, il cambio del diritto ad applicare il bollino antimafia sui prodotti alimentari che vende.

Il vice presidente del consorzio è Enrico Fontana, che fino alla scorsa estate era anche vicepresidente nazionale di Libera, ma poi è stato invitato ad uscire di scena dai vertici (don Ciotti ha dichiarato: “E’ una ferita, si è dovuto dimettere un galantuomo”) per i suoi imbarazzanti contatti con alcuni personaggi coinvolti nell’inchiesta di Mafia Capitale.

Enzo Guidotto, presidente dell’Osservatorio veneto del fenomeno mafioso, amico personale di Paolo Borsellino, ma anche uno dei fondatori di Libera nel 1995, sottolinea che è sempre toccato proprio ai vicepresidenti svolgere le funzioni esecutive. In certi casi hanno quel ruolo di collettori di fondi pubblici che Libera ha sempre negato di ricevere direttamente. Un esempio? Davide Mattiello, dal 2009 al 2012 vicepresidente di Libera, oggi deputato del PD che ha poi redatto il nuovo Codice Antimafia, varato dalla Camera in Novembre 2015 ed ora all’esame del Senato. Nel 2013 Matiello ha fondato l’associazione di promozione sociale Acmos. La sua sede è a Torino in via Leoncavallo numero 27, la stessa del Gruppo Abele (un’altra creatura di Don Ciotti) ed anche del Comitato beni Confiscato Libera Piemonte Onlus. Tra Acmos e Libera i rapporti sono stretti, c’è anche uno scambio di contributi: 5 mila euro passati da Libera ad Acmos sono registrati nell’ultimo bilancio presentato, quello del 2013. Nel 2012 Acmos ha contabilizzato attività per 886 mila euro, nel 2013 per 625 mila. E’ denaro incassato da enti pubblici come province (179 mila euro quella di Torino) e comuni (8 mila euro per Laboratori Libera dal Comune di La Spezia), ma anche da scuole. Nel bilancio 2013 gli istituti piemontesi son ben 21: tra loro l’Avogadro (30 mila euro), il Boselli (3 mila euro), il Liceo Copernico (2.250 euro), il Liceo Giordano Bruno (3 mila euro), la scuola Saluzzo (3.170 euro). “Solo l’idea mi atterrisce: non voglio credere che l’antimafia debba essere pagata dalla scuola. Posso capire un rimborso spese, ma non queste cifre” dice Adriana Musella, che a Reggio Calabria insiste a credere nell’antimafia “di sentimento e non della partita Iva.”

Christian Abbondanza racconta un’altra storia: “Matiello ha fondato anche Benvenuti in Italia, che ha sede sempre in via Leoncavallo 27 a Torino, ed è un altro contenitore che serve a rilevare beni sequestrati”. Sia Acmos si Benvenuti in Italia sono i partner di un’associazione di Sarzana, intitolata L’Egalitè, che è nata da Libera e per Libera ha effettuato molte iniziative. Insieme, le tre associazioni, hanno fatto richiesta al Comune di Sarzana per un immobile confiscato. E l’hanno ottenuto. Come sostiene Cantone, del resto, il gigantismo offre il fianco a qualche rischio. E’ un fatto che nell’elenco dei soci di Libera, come si legge nella relazione “L’Uso sociale dei beni confiscati” curato per il Ministero dell’Interno da Davide Pati, attuale vicepresidente di Libera, sia presente la cooperativa Cpl Concordia. Nel luglio 2015 il presidente di Cpl, Roberto Casari, è stato arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione camorristica in una inchiesta della Procura di Napoli.

Possibile che Libera sia penetrabile dalla Mafia? “Il problema dell’infiltrazione è reale” ha dovuto ammettere in un’audizione parlamentare Don Luigi Ciotti. “Però quando ho sollevato il caso in Veneto Libera non mi ha ascoltato” ribadisce Guidotto. Ed esiste anche una mappa di città dove nei cortei di Libera si sono esibiti proprio quelli impresentabili che l’associazione combatte. “A Facca di Cittadella, vicino a Padova, il referente di Libera era salito sul palco di manifestazioni accanto a un imprenditore cui i magistrati avevano sequestrato quote societarie, perché ritenuto vicino ai clan”, aggiunge Guidotto. Abbondanza fa una lunga sequenza di casi: “Nei Comuni di Bordighera e di Ventimiglia, sciolti per mafia, i sindaci manifestavano accanto a Libera contro la mafia” segnala. “Ad Albenga Libera aveva perfino consegnato il braccialetto della legalità al candidato sindaco Giorgio Cangiano, indagato perché vicino alla famigli ‘ndranghetista dei Gullace. Quando lo ha scoperto, Libera si è limitata a chiedere chiarimenti”.

A Savona, la referente di Libera fino al maggio 2015 è stata Dina Molino. “Per anni - accusa Abbondanza – non ha visto in quel Comune la presenza dei Fotia, un’altra famigli di ‘ndrangheta che eseguiva lavori nel porto di Savona. E il responsabile gare e lavori del porto di Savona era Flavio De Stefanis, marito proprio dell amolino”. Abbondanza fa esempi anche al Sud. “A Casal di Principe, il feudo di Gomorra, sindaco ed assessori distribuivano le targhe della legalità con Libera. Poi si sono scoperti i legali con i casalesi”.

Insomma, se l’astuzia della mafia è nascondersi nell’antimafia, molte volte proprio a Libera sembra aver guardato. Demolire l’associazione di don Ciotti? Al contrario. Chi la critica cerca di aiutarla, come ha spiegato il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Il 22 gennaio 2016 a Reggio Calabria il magistrato ha detto: “Non è nascondendo i problemi che ce ne liberiamo. E’ vero che qualche volta ci sono i tentativi di infiltrazione mafiosa nella gestione dei beni confiscati. E’ un dato di fatto che viene fuori da molte indagini. Nessuno si deve offendere se qualcuno avverte su un possibile rischio”. 

Oltre All'inchiesta Di Panorama, Qualche Altra (Per Ora) Breve Annotazione Su LIBERA, scrive il 28 gennaio 2016 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. "Panorama" è arrivato alla 3° puntata dell’inchiesta sull’Antimafia e LIBERA dal titolo «Se l'Antimafia si trasforma in trust economico» (la 1° puntata con l’intervista al pm della DDA di Napoli Catello Maresca «L'Antimafia a volte sembra mafia» la 2° puntata con l’intervista a Raffaele Cantone «Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo"»). E’ il momento, ora, di fare alcuni ulteriori esempi oltre quelli citati. Esempi concreti che servono più di ogni disquisizione, anche perché non si è qui per fare letteratura, nel chiarire il contesto di cui si sta trattando...

Partiamo da Reggio Calabria. Quando sul tavolo del Ministro dell'Interno vi era la Relazione della Commissione d'Accesso sul Comune di Reggio Calabria, il referente provinciale di LIBERA, Nasone Mimmo, sottoscriveva il "Manifesto contro la diffamazione della città". Un'iniziativa che, in quel preciso momento, assumeva il sapore di un appello contro lo scioglimento e commissariamento del Comune di Reggio Calabria. Un aggregarsi a quella mentalità pericolosa secondo cui è “offendere la città” il procedere contro le Pubbliche Amministrazioni piegate da illegalità dilaganti con segni tangibili e concreti di infiltrazione e condizionamento mafioso, e, nel caso di Reggio Calabria, di infiltrazione e condizionamento ‘ndranghetista. Don Luigi Ciotti smentì quell'adesione al manifesto (che però non venne ritirata!) e confermava al contempo la piena fiducia ed apprezzamento per il lavoro di Nasone che quel manifesto aveva firmato e che veniva utilizzato – ovviamente – per cercare di scongiurare l'adozione del provvedimento antimafia sul Comune. Fortunatamente l'allora Ministro Cancellieri andò avanti e promosse il Decreto che disponeva lo Scioglimento (e quindi il Commissariamento) del Comune di Reggio Calabria.

Saliamo in Emilia-Romagna. Qui, quando la Casa della Legalità insieme al giornalista Antonio Amorosi promossero il volume “Tra la via Emilia e il clan”, con la storia documentata del radicamento ormai consumato da lungo tempo delle mafie (‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra) in quella regione, e dei rapporti dei clan sia con Pubbliche Amministrazioni, politici ed imprese, dalle grandi spa ai colossi delle cooperative rosse. Girando l'Emilia-Romagna, insieme ad Antonio Amorosi ed Elio Veltri non si è registrata soltanto l'assenza costante della classe dirigente politica dagli incontri, ma anche l'assenza totale di LIBERA, mai intervenuta in alcuna delle molteplici occasione. Delle mafie in Emilia-Romagna non si doveva parlare. Quella terra, con la sua classe dirigente, era stata presentata e doveva continuare ad essere presentata come “isola felice”, proprio come la Milano dove si negava sino all'ossessione la presenza ed operatività mafiosa. Non minore isolamento subiva, ad esempio, anche l’allora Presidente della Camera di Commercio di Reggio Emilia, Enrico Bini, “reo” di aver osato sollevare la questione della presenza ed attività delle mafie, con le loro imprese mafiose che condizionavano l’economia. Bini da un lato subiva, per il suo lavoro di monitoraggio e segnalazione, attacchi ed isolamento da quella classe dirigente, ma trovò, fortunatamente, sponda nel Prefetto di Reggio Emilia che avviò un’azione mai vista in quel territorio con l’adozione di quelle misure interdittive antimafia (che a Modena si iniziavano ad adottare) contro cui la politica, per garantirsi consensi elettorali, contestava in vari modi, più o meno plateali. Erano gli anni in cui il silenzio iniziava ad essere rotto da giovani di quel territorio, da qui ragazzi determinati che non intendevano cedere alla paura ed al cultura dilagante dell’omertà, come quelli di Corto Circuito e del Gruppo Pio La Torre. Era il 2010. Era prima che venisse aperta l'inchiesta conosciuta come “AEMILIA”...Soltanto dopo l'esplodere pubblicamente - con arresti e sequestri - dell'inchiesta giudiziaria, nel 2015, si è rotto in modo dirompente quel muto del silenzio (ovvero di omertà) e del negazionismo più sfrenato. Lo si è rotto, però, solo in parte, visto che di denunce ferme e risolute contro la politica viziata da contiguità e connivenze - quando non addirittura complice - da parte di LIBERA non se ne sono viste. Così come LIBERA ha mantenuto il silenzio sui colossi delle cooperative rosse che alle imprese mafiose da anni affidavano subappalti e forniture, mentre in parallelo sostenevano il progetto di LIBERA di “LIBERA TERRA”. Qualche piccolo richiamo, ma senza troppo rumore e senza soprattutto lanciare un messaggio chiaro. Era (è) così difficile dire che soldi delle cooperative che avevano affidato (e continuavano ad affidare) commesse ad imprese di mafia, LIBERA ed i progetti di “LIBERA TERRA” non li accettano e quindi li restituivano al mittente? (Identico discorso poi si potrebbe fare per le varie Fondazioni bancarie, come ad esempio MONTE PASCHI DI SIENA che veniva addirittura portato da LIBERA come esempio di legalità nel sistema bancario italiano!).

Passiamo alla Liguria. Se ad esempio il caso di Savona è già stato evidenziato nella terza puntata dell'inchiesta di Panorama, non fa male ricordare anche che una componente di LIBERA, la CISL, era addirittura scesa in piazza, con tanto di cortei sotto le proprie bandiere, promossi contro leinterdizioni antimafia (confermate prima Tar e poi, successivamente, anche dal Consiglio di Stato), disposte dal Prefetto di Savona, a carico dei FOTIA. Fatti che nonostante segnalazioni e molteplici richieste di chiarimento e soluzione da parte di molteplici soggetti (oltre che sollecitati dalla Casa della Legalità) vedevano la ferma volontà di non affrontare il problema. Potremmo parlare di Genova, ma sarebbe troppo lunga, e quindi sintetizziamo, sul capoluogo, con il semplice richiamo all'assoluto e inquietante silenzio relativo ai rapporti della politica e delle Pubbliche Amministrazioni (anche quell'Amministrazione comunale di cui Nando Dalla Chiesa era consulente e sostenitore) con i noti MAMONE, ma anche con il noto (già dalla prima inchiesta “MAGLIO” di primi anni duemila) FURFARO Antonio, oltre che, ancora due esempi eclatanti, con le concessioni, ad esempio, ai FIUMANO' (commercio) ed al GULLACE Ferdinando (appalto, nonostante anche un’interdittiva del Gip di Reggio Calabria). Il caso che invece qui vogliamo indicare riguarda il Levante della regione. E' Sarzana. In questa realtà – così come altrove – vi sono tanti ragazzi di buona volontà che mettono energie in LIBERA. Ma in questa realtà vi è tanto che non torna e tanti pessimi segnali. Il primo: LIBERA ha promosso un ottimo opuscolo (“Una storia semplice. Pare che Sarzana sia 'ndranghetista”) in cui sono richiamati molteplici delle inchieste giudiziarie che hanno riguardato quel territorio, ma in cui manca un “pezzo”. Manca letteralmente e totalmente il contesto di relazioni e rapporti di quei nuclei familiari della 'ndrangheta radicata a Sarzana - i ROMEO e SIVIGLIA - con la politica e la Pubblica Amministrazione. Manca quindi quel contesto di contiguità e connivenze che vanno poi a costituire il “capitale sociale” della 'ndrangheta, perché attraverso quei rapporti, con quelle relazioni, promosse dai diversi esponenti di una famiglia di 'ndrangheta, si consolida il riconoscimento e l'accreditamento sociale di quel nucleo familiare. A Sarzana un esponente della famiglia ROMEO, come si è già documentato, era stato candidato ed eletto nella maggioranza dell'ex Sindaco (ora Senatore) Massimo Caleo (di cui era assessore l'attuale Sindaco, Cavarra). Per quel candidato dei ROMEO al Comune di Sarzana si mobilitarono i più alti livelli del PD spezzino (e già dei DS). Andrò infatti in scena con una cena elettorale a cui parteciparono, insieme, per sostenere il giovane ROMEO, il Caleo Massimo (Sindaco uscente e ricandidato Sindaco), Guccinelli Enzo (assessore regionale e ricandidato alla Regione sempre con Burlando) e Forceri Lorenzo (già Senatore e Presidente dell'Autorità Portuale di La Spezia). Ecco, su questo, ad esempio, silenzio assoluto da parte di LIBERA che, invece, parallelamente, con l'Amministrazione comunale guidata dal Caleo, costituiva la “Consulta della Legalità”. Quando il Caleo volò a Roma, alla guida del Comune di Sarzana è giunto il suo “delfino” Alessio Cavarra, che, eletto Sindaco, chiamò in Giunta anche il Segretario provinciale del PD, Juri Michelucci, come Assessore alla legalità. Il Sindaco Alessio Cavarra, con l'Assessore ai Lavori Pubblici, Massimo Baudone, e la Giunta, si sono contraddistinti (ancora nell'anno 2015) per il negazionismo più assurdo e inquietante sulla presenza della 'ndrangheta a Sarzana. E qui, come già ricordammo, oltre al “paravento” offerto dalla Fondazione Antonino Caponnetto (povera memoria di Nonno Nino!), l'Amministrazione Comunale ha potuto contare su quello offerto da LIBERA e dalla sua rete di satelliti locali. Infatti il silenzio fu totale. Nessuna replica al negazionismo Sindaco ed all'Assessore da parte di LIBERA e satelliti, così come nessun commento nemmeno alla “bazzecola” degli esponenti della famiglia ROMEO che hanno fatto irruzione ad una conferenza stampa della Casa della Legalità. In contemporanea però andava avanti il lavoro a braccetto di LIBERA e satelliti con quell’Amministrazione Comunale negazionista, per la gestione di un bene confiscato. Ed è proprio qui che viene fuori un nuovo elemento critico, accennato anche nella terza puntata dell'inchiesta di Panorama... A far domanda per la gestione del bene confiscato (che il Comune guidato da Cavarra con l'amministrazione targata PD) sono l'associazione locale con ACMOS e la FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA di Davide Mattiello (già braccio destro di Don Ciotti il LIBERA nazionale, già alla guida di LIBERA PIEMONTE accanto a Laura Romeo moglie di Giancarlo Caselli, già promotore di ACMOS e poi – dal 2013 – Parlamentare del PD in Commissione Antimafia). Se risulta già significativo che una FONDAZIONE di un Parlamentare faccia domanda per la gestione di un bene confiscato (che poi viene puntualmente assegnato alla cordata di soggetti in questione), quel che risulta assolutamente non opportuno è che quella stessa FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA che chiede (e poi otterrà) – insieme alle altre realtà satelliti di LIBERA – l'assegnazione del bene confiscato al Comune di Sarzana (amministrato dal PD), abbia promosso nel 2014 un appello al voto ed alla mobilitazione a favore dei candidati del PD in Piemonte, e che qui si riproduce di seguito, con anche il modulo allegato alla richiesta di assegnazione del bene confiscato.

Ora, portati questi ulteriori, esempi, che il problema ci sia e sia serio dovrebbe apparire evidente al di là di ogni possibile dubbio. Ci vuole solo un briciolo di laicità nel vedere la questione. Dovrebbe essere stimolo ad aprire gli occhi soprattutto per quanti sono in LIBERA, che credono nello spirito originario di LIBERA e che queste cose non le accettano. Dovrebbe essere, una volta ancora, un invito ad un confronto serio, senza reticenze, nell'interesse di fare un passo avanti, eliminando le criticità pesanti che esistono inconfutabilmente. Perché, cerchiamo di chiarirlo, non è chi indica la questione, promuovendo una critica limpida su fatti concreti, che fa il gioco delle mafie (come qualcuno cerca di far pensare), o che vuole il “male di LIBERA”, bensì è proprio il perseverare nell’acquiescenza di questa degenerazione, che nega e non affronta e non risolve le criticità evidenti, che fa il male di LIBERA. Personalmente e come Casa della Legalità si ha un'idea di antimafia ben diversa, rispetto a quella promossa da LIBERA così come si è evoluta negli anni. E' un'idea che dice che l'antimafia non è “l'educazione civica” nelle scuole o sul territorio (attività importante, anzi fondamentale in un paese civile... ma è altra cosa, non è “antimafia”). E' un'idea che dice che l'antimafia si fa senza contributi pubblici e senza grandi sponsor ma con il volontariato e raccogliendo donazioni e sottoscrizioni libere che non condizionano. E’ un idea che dice che il riutilizzo dei beni confiscati non può attendere anni. I beni confiscati che non vanno alle Autorità dello Stato, va promosso con il volontariato (cioè senza contributi pubblici) e sulla base di progetti di utilità sociale effettiva e con verifiche periodiche, pena annullamento della concessione. Che dice che quei beni non riutilizzati dalle strutture dello Stato e su cui non ci sono progetti concreti di riutilizzo per fini sociali (e non per business!), si devono vendere - con tutte le verifiche preventive e successive - perché altrimenti diventano un costo per lo Stato... In altre parole: i beni che non si possono utilizzare (perché non vengono richiesti) devono essere venditi per permettere “entrate” allo Stato da destinare ai Reparti Investigativi. E' un idea che dice che l'antimafia è azione di monitoraggio del territorio, dell'economia, delle pubbliche amministrazioni (quindi anche concessioni, licenze, appalti), con anche denuncia pubblica e denuncia alle autorità competenti, perché il limitarsi, invece, nel promuovere una lotta alla “mafia ectoplasma”, senza nomi e senza volti, non da fastidio a nessuno e non incrina in alcun modo il “potere” mafioso. E' un'idea di antimafia che significa essere integerrimi e che quindi pone al bando i “due pesi e due misure” ed ogni forma di strabismo, perché la contiguità, così come la collusione e complicità, con i mafiosi va indicata e denunciata sempre e comunque, chiunque riguardi, qualsiasi sia la collocazione di partito o lo schieramento coinvolto. E' un'idea di antimafia che significa anche essere disposti a pagare un prezzo, vuoi che sia quello di beccarsi querele - con le conseguenze del caso -, vuoi che sia quello dell'isolamento o dell'arrivo di intimidazioni e minacce... perché quando si combatte seriamente la mafia, nelle sue cointeressenze con il potere politico-economico (e massonico), si deve mettere in conto che qualche fastidio prima o poi ti arriva. Pensare di fare antimafia all’acqua di rose per non avere problemi, non facendo nomi, non rischiando di inimicarsi il Potere, non è fare antimafia ma dedicarsi ad un attività inefficace per sistemarsi la coscienza, magari anche perché va di moda, ma si fanno solo danni. E’ un’idea di antimafia che significa essere ed anche apparire rigorosamente indipendenti, sia da qualsivoglia soggetto politico, sia da qualsivoglia interesse economico. E’ un’idea di antimafia che significa rifiutare di farsi usare dal politico di turno, dalla Pubblica Amministrazione o dall’impresa/cooperativa che vogliono garantirsi una sorta di “bollino” antimafia. Ed allora prima di accettare un invito ad un convegno si fanno le verifiche e se vi sono ombre in chi quell’invito lo promuove, si declina con fermezza. Nel dubbio si declina. Prima di accettare una sponsorizzazione o un contributo pubblico si verifica se quell’impresa o quell’Amministrazione Pubblica ha delle ombre e se le ha si rifiuta o rimanda al mittente il “dono”. Nel dubbio lo si rimanda indietro. Prima di accettare un bene confiscato da un Amministrazione Pubblica si verifica se questa ha o meno ombre e se ha ombre si rifiuta l’offerta di assegnazione. Nel dubbio si rifiuta. E’ un’antimafia che promuove proposte concrete, fuori da ogni logica clientelare, anche se scomode, senza mai porsi il timore di scontrarsi con il Potere politico e con la determinazione di indicare le resistenze (che anche in questo caso hanno protagonisti con nomi e cognomi) che quelle proposte incontrano. E’ un’antimafia che ha il coraggio di indicare con franchezza anche quelle inquietanti criticità nell’ambito della magistratura e delle forze dell’ordine perché è nell’interesse dei magistrati con la schiena dritta, così come degli agenti integerrimi dei reparti investigativi e delle forze dell’ordine, ripulire i rispettivi ambiti da chi, per molteplici e variegate ragioni che qui è inutile elencare, si mostrano più servitori di “altri Poteri” che dello Stato. Un'idea di antimafia (e di vita) che si basa sul principio (lo stesso per cui solleviamo certe questioni sulle pesanti criticità di LIBERA) per cui:o ci diciamo la verità oppure è inutile perdere tempo e dirsi impegnati. Senza guardare la realtà per quello che è, diviene impossibile incidere per cambiarla. Detto questo, vi è un punto che per noi è irrinunciabile: ognuno sceglie cosa fare nel proprio cammino personale o collettivo... Noi abbiamo le nostre convinzioni ed i nostri metodi. Altri hanno i loro. Chiarirsi non fa mai male, a nostro avviso... e proprio per questo crediamo che sarebbe opportuno - anziché arroccarsi in minacce di querele o nel presentare querele -, umilmente, sedersi tutti ad un tavolo e confrontarsi seriamente. Se invece LIBERA, ancora una volta, preferirà rifiutarsi al confronto, trincerarsi dietro minacce di querele o presentazioni di querele, perseguire nel tentativo di soffocare ed annientare gli “altri”, perché hanno un’idea diversa del “fare antimafia” e perché “osano” indicare i problemi reati (concreti e documentati), allora sarà l’ennesima occasione persa, e la responsabilità sarà chiara a tutti.

L'altra "Gamba" (E Cassa) Di "LIBERA" È ACMOS… Poi C'è "BENVENUTI IN ITALIA" (Anche A Sarzana), scrive il 14 aprile 2015 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Avevamo già visto quanto produce come Entrate "LIBERA CONTRO LE MAFIE", con un passaggio di entrate dai 2.706.569,00 euro nel 2009 ai 4.770.221,00 nel 2013 (vedi qui l'articolo con tutte le tabelle). Avevamo già visto molteplici dei finanziatori di questa struttura (fondazioni bancarie e cooperative rosse), così come anche il progetto di "LIBERA INFORMAZIONE" con la partnership del MONTE DEI PASCHI DI SIENA e l'operazione "Certosa 1515" insieme al GRUPPO ABELE ed Oscar FARINETTI, finanziata dalla Fondazione bancaria CRT. Ora andiamo avanti, con le strutture che hanno visto e vedono l'opera di Davide Mattiello divenuto parlamentare PD. (E due note a margine in coda sui rappori LIBERA e COOP). Questa volta vediamo, prima di tutto, quella struttura che nei propri Bilanci si indica come «a servizio di LIBERA», ovvero "ACMOS". "ACMOS" ha la propria base in Piemonte. Una sorta di "gemella" di "LIBERA - Piemonte". Per lunghi anni (dal 1999 al 2010) il suo presidente di ACMOS è stato Davide Mattiello, braccio destro di Don Luigi Ciotti Laura Romeo (moglie di Gian Carlo Caselli) nell'organizzazione piemontese di "LIBERA" (è stato Referente regionale di LIBERA PIEMONTE dal 2002 al 2010), poi nell'Ufficio di Presidenza nazionale di "LIBERA" (dal 2009 al 2012), quindi dal 2012 presidente della "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" (che vedremo dopo) e, dopo essere divenuto (nel 2012) Socio Onorario del "ROTARY CLUB", è divenuto nel 2013 Parlamentare, “eletto” alla Camera dei Deputati con il PD.

Per l'analisi delle entrate e di chi ha sovvenzionato questa struttura guardiamo agli stessi anni già esaminati per "LIBERA", ovvero dal 2009 al 2013.

I CONTRIBUTI RICEVUTI DA "ACMOS"

2009 € 916.400,03

2010 € 687.498,10

2011 € 719.642,44

2012 € 630.218,07

2013 € 625.790,53

Nel dettaglio da dove vengono questi contributi? Dal Bilancio 2009 (che si apre con "Questo Bilancio sociale è dedicato a Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica con gratitudine e riconoscenza") apprendiamo che:

100.000,00 euro sono stati dati da un MINISTERO;

365.000,00 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

49.500,00 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

25.414,03 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

126.606,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

29.380,00 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

174.500,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui FONDAZIONE CRT 45.000,00; COMPAGNIA SAN PAOLO 30.000,00; FONDAZIONE BELLEVILLE 58.000,00).

Dal Bilancio 2010 apprendiamo che:

150.000,00 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

85.500,00 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

153.500,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

57.722,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

39.380,00 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

120.350,00 euro sono stati da PRIVATI (tra cui COMPAGNIA SAN PAOLO 30.000,00; FONDAZIONE CRT 45.000,00).

Dal Bilancio 2011 (che conta anche una bella Cena di Natale con Don Luigi Ciotti e Oscar Farinetti) apprendiamo che:

170.000,00 euro sono stati dati dal MINISTERO DEL LAVORO;

136.000,00 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

45.000,00 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

132.500,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

12.500,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

37.797,00 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

90.840,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui COMPAGNIA SAN PAOLO 20.000,00; FONDAZIONE CRT 46.000,00).

Dal Bilancio 2012 apprendiamo che:

53.000,00 euro sono stati dati dal MINISTERO DEL LAVORO;

96.350,99 euro sono stati dati dalla REGIONE PIEMONTE;

51.174,86 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

77.700,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

37.360,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE;

35.598,40 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

128.908,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui: COMPAGNIA SAN PAOLO 20.000,00; FONDAZIONE CRT 45.000,00; 8xmille Valdese 18.000,00).

Dal Bilancio 2013 apprendiamo che:

12.000,00 euro sono stati dati dal CONSIGLIO D'EUROPA;

193.692,50 euro sono stati dati dalla PROVINCIA DI TORINO;

37.100,00 euro sono stati dati dal COMUNE DI TORINO;

13.331,00 euro sono stati dati da altri COMUNI e PROVINCE (8.000,00 dal Comune ligure di LA SPEZIA);

64.709,40 euro sono stati dati dalle SCUOLE;

142.328,00 euro sono stati dati da PRIVATI (tra cui: COMPAGNIA SAN PAOLO 30.000,00; UNICREDIT 60.000,00; 8xmille Valdese 15.000,00).

[si può notare come se è venuto meno il contributo della REGIONE PIEMONTE vi è stato un aumento consistente dei contributi della PROVINCIA, delle SCUOLE e dei PRIVATI con UNICREDIT che hanno compensato]

IL COMITATO ONLUS… OVVERO "LIBERA PIEMONTE". Se "LIBERA" di suo ha milioni e milioni di euro all'anno - come si è documentato - ed ACMOS integra non poco la raccolta fondi, LIBERA PIEMONTE, sotto la sigla di "COMITATO BENI CONFISCATI LIBERA PIEMONTE ONLUS", riceve mezzi e fondi pubblici per le proprie attività. Sul sito di LIBERA PIEMONTE c'è la pagina per la raccolta fondi e donazioni ma non c'è un elenco dei contributi giunti negli anni. Facendo una veloce ricerca sul web si apprende che certamente qualcosa è arrivato…Se ad esempio nel 2014 la PROVINCIA DI TORINO ha dato in comodato (gratuito) per la CAROVANA un pulmino da 9 posti al "COMITATO BENI CONFISCATI LIBERA PIEMONTE ONLUS" (oggetto della "CONCESSIONE IN COMODATO DI UN AUTOMEZZO DI PROPRIETÀ PROVINCIALE A FAVORE DELL’ASSOCIAZIONE “LIBERA PIEMONTE” PER INIZIATIVE DI CARATTERE SOCIALE"), si apprende anche che nel 2013 sempre la PROVINCIA DI TORINO ha dato un contributo di 36.000,00 euro per "Contributo annuale per la realizzazione di progetti sperimentali di volontariato"; sempre dalla PROVINCIA DI TORINO un altro contributo per il progetto "Un bene di tutti" di 10.800,00 euro su 10.800,00 richiesti e nel 2014, per il progetto "E' bene raccontare i beni confiscati alle mafie nella provincia di Torino", un contributo di 6.690,00 euro su 7.360,00 richiesti.

ARRIVA LA FONDAZIONE "BENVENUTI IN ITALIA". Nei Bilanci di ACMOS, dove si ritrovano molteplici foto di Mattiello Davide (foto a lato), troviamo anche alcune informazioni sulla "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" che lo stesso Mattiello, con ACMOS,ha lanciato come Presidente. Precisamente nel Bilancio ACMOS 2011 si legge: «Benvenuti in Italia sarà una “fondazione in partecipazione” perché le buone idee costano e noi scommettiamo sulla raccolta diffusa, trasparente e costante di piccole somme di denaro. La fondazione sarà la nostra cassa, la nostra autonomia, la fonte della nostra economia».

E poi ancora nello stesso documento di ACMOS si legge: «Un soggetto forte di credibilità sociale e culturale, autonomo finanziariamente, capace di entrare apertamente e autorevolmente nelle campagne elettorali e nella vita normale delle Istituzioni. Non stiamo costruendo un nuovo partito, non ci candidiamo a fare la corrente in un partito esistente, né saremo il comitato elettorale di qualche campione, non baratteremo pacchetti di voti in cambio di garanzie».

Sul sito della "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" non ci sono i Bilanci. Troviamo l'indirizzo di Via Leoncavallo 27 a Torino (che è lo stesso indirizzo dell'associazione ACMOS ed anche dell'Accoglienza del GRUPPO ABELE e del "COMITATO BENI CONFISCATI LIBERA PIEMONTE ONLUS"). Troviamo invece che nel "periodo costituente giugno 2010 - dicembre 2011" destinava a Fondo di Dotazione della Fondazione 107.300,00 euro ed al Fondo di Gestione 25.000,00. Sempre sul sito apprendiamo che la "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" «dispone oggi di un ricco fondo di dotazione costituito in opere d’arte» ed ha realizzato un “museo on line”«grazie al contributo della Fondazione CRT nell’ambito del progetto “Esponente”». Sul sito risulta confermato che il Presidente della "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" è sempre Davide Mattiello, che nel 2013 si è candidato, in Piemonte, con il PD alle elezioni politiche, venendo eletto alla Camera dei Deputati, ed entrando successivamente nella Commissione Parlamentare Antimafia. 

DAL PIEMONTE ALLA LIGURIA (A SARZANA)… e pare una questione tutta del PD. Partiamo ancora una volta da quanto scrive ACMOS (la struttura "a servizio" di LIBERA come si è già visto). Nel Bilancio annuale del 2012 ACMOS scrive: «Il network “Per Mano” è un percorso di accompagnamento, di consulenza di tipo amministrativo contabile, studiato per affiancare le piccole esperienze associative o imprenditoriali nate nell’alveo di Acmos o in rapporto di partenariato». Ed ancora «Da quest’anno “Per mano” accompagna anche il percorso dell’estensione nazionale del “We Care” attraverso il sostegno delle associazioni Rime di Trieste, L’égalité di Sarzana…» (We Care è attività comune di ACMOS con "FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA" e "LIBERA"). Sempre nello stesso documento di ACMOS leggiamo: «L’égalité un’associazione di promozione sociale fondata il 27 Gennaio 2011a Sarzana, in provincia di La Spezia; nasce dall’esperienza dei ragazzi del presidio Dario Capolicchio[di LIBERA, ndr]. (…) L’attività di L’égalité si svolge all’interno del territorio e vede come nella diffusione della cultura della legalità democratica [probabilmente, quindi c'è anche una "legalità antidemocratica", ndr], instaurando un dialogo con le Istituzioni nell’intento di valorizzarne il ruolo ma anche, vigile e attenta nonché, talvolta, rispettosamente e adeguatamente critica. Nel concreto, la nostra attività comprende collaborazioni con enti pubblici e privati nella realizzazione di iniziative, incontri formativi, attività educative nelle scuole…». Il fatto che "L'ègalitè" sia strettamente espressione di "LIBERA" e ACMOS è evidenziato dal fatto che nella stessa scheda pubblicata da ACMOS si legge che "L'ègalitè" ha realizzato «12 moduli di laboratori per Libera in collaborazione con ACMOS». Andiamo avanti…Il COMUNE DI SARZANA con la sua Giunta Comunale targata PD (quella Giunta che non vede la 'ndrangheta che lì a Sarzana ha una roccaforte da decenni, così come non la vede il PD che vede il proprio Segretario Provinciale di La Spezia, Juri Michelucci, essere anche l'assessore alla Legalità del Comune di Sarzana - vedi qui) deve assegnare un bene confiscato.

L'associazione "L'ègalitè" promuove quindi un progetto per ottenere l'assegnazione di quel bene confiscato.

Chi spunta tra i partner dell'associazione "L'ègalitè" per richiedere il bene confiscato? ACMOS ed anche la FONDAZIONE BENVENUTI IN ITALIA, ovvero la struttura con alla Presidenza Davide Mattiello, cioè il parlamentare del PD componente della Commissione Parlamentare Antimafia.

I° NOTA A MARGINE "LIBERA" CONCORDIA (CPL). In una pubblicazione ufficiale sui beni confiscati a cura di Lorenzo Frigerio e Davide Pati. Ufficio Presidenza nazionale LIBERA. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie (a pag. 79) CAPITOLO 9 COOPERARE CON LIBERA TERRA AGENZIA PER LO SVILUPPO COOPERATIVO E LA LEGALITÀ.

Nelle terre confiscate alle mafie “Libera Associazioni nomi e numeri contro le mafie”, con il progetto “Libera Terra”, ha portato avanti un’esperienza unica ed efficace di economia diversa, pulita e sostenibile. (…) Per queste ragioni è nata l’Agenzia “Cooperare con Libera Terra”, uno strumento attivo per accedere alla rete cooperativa, rendendo disponibili tutte le conoscenze necessarie alla crescita di un’economia che pone l’etica al suo centro, per dimostrare, con i fatti, che solo l’agire legittimo è fonte di sviluppo. (…) (a pag. 80) La rete delle competenze. L’Agenzia opera attraverso prestazioni di servizi rese dai propri associati e dai rispettivi dipendenti e collaboratori, che mettono a disposizione in maniera volontaria, e per quanto possibile gratuita, le proprie competenze e professionalità per sviluppare la mission dell’Agenzia. Ad oggi (ottobre 2007) la rete a disposizione è composta da:

(…) (a pag. 88) CPL Concordia. CPL Concordia è un gruppo cooperativo nato nel 1899 nella Bassa pianura emiliana. Partita come cooperativa di braccianti, CPL Concordia copre oggi interamente lo spettro di attività delle maggiori multiutility dell’energia: oltre a gestione calore, reti elettriche, reti gas/acqua occupa la filiera del gas, con un’intensa attività di trading, vettoriamento, distribuzione e vendita di gas metano e gpl. Ad oggi, con 107 anni di storia, conta 1000 addetti nelle sedi dislocate sull’intero territorio italiano e all’estero. CPL Concordia soc. Coop. è a capo di un gruppo di 32 società fra controllate e collegate. (…)

II° NOTA A MARGINE. Chi faceva le iniziative con la "COOP 29 GIUGNO" del BUZZI ("MAFIA CAPITALE")?

Annotazioni Su LIBERA Ed Illazioni Varie…scrive il 15 dicembre 2014 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Prima di tutto: non ce l'ho con quanti credono, in buona fede, in LIBERA, e non ce l'ho con quanto si impegnano concretamente in alcuni "presidi", mettendoci energie e impegno. Queste persone meritano rispetto. Sono ancora in attesa, con la Casa della Legalità, di quel confronto chiesto a LIBERA, più volte, alla luce del sole, per affrontare alcune criticità che si sono notate e per chiarirsi...Non abbiamo mai voluto "annientare" o "distruggere" LIBERA (mentre invece qualcuno in LIBERA ha operato ed opera per "annientare" e "distruggere" la Casa della Legalità). Se noi abbiamo promosso critiche a viso aperto, volte ad aprire quel confronto negato, altri hanno preferito usare altri mezzi, come l'agire sotterraneo, nell'ombra, con illazioni di ogni specie perché "bisogna fermare Abbondanza" (come se poi io fossi tanto determinante, boh). Se noi abbiamo scelto di non querelare mai (anche davanti ad insulti palesi, illazioni varie), LIBERA ha invece scelto di farlo (unica denuncia presentata da LIBERA in Liguria, ed unica costituzione di parte civile in questa regione, è contro di noi). Non c'è problema. Ognuno sceglie chi denunciare. Loro hanno denunciato noi, noi invece abbiamo preferito chiedere l'intervento della magistratura denunciato mafiosi, corrotti, corruttori, devastatori dell'ambiente e della salute, come ha sintetizzato, qualche tempo addietro, Mario Molinari su NININ, in una tabellina. Come Casa della Legalità non ci sogniamo di costruire un "monopolio" nell'antimafia ed al contempo crediamo che LIBERA non possa avere questo monopolio. L'iniziativa antimafia non può essere "esclusiva" di qualcuno e sarebbe bene che, una volta per tutte, si uscisse anche dalla logica di un "antimafia di parte" (cioè di una specifica parte politica) che vede la mafia e le collusioni solo quando vi sono con soggetti politici della parte avversa e non le vede, le tace o le minimizza, quando invece riguardando la propria parte politica. Anche questo strabismo fa male all'antimafia. La rende non credibile oltre che fornire strumento per garantire ad alcuni politici un "paravento" o "patentini" che non è il proprio caso che abbiano. Abbiamo sempre detto e sostenuto che ognuno è libero - e ci mancherebbe - di scegliere di essere la struttura antimafia di un determinato blocco politico (ed economico), ma visto che dovrebbe essere opportuna anche l'onestà intellettuale, sarebbe doveroso dichiarare tale appartenenza apertamente, senza nasconderla o negarla. Non essere indipendenti, ma di parte, non è un reato, ma è opportuno (e corretto) che lo si renda chiaro a tutti. Come Casa della Legalità abbiamo un metodo di azione che non è certamente l'unico e non vogliamo, quindi, imporlo ad altri. LIBERA ha il suo metodo, altri hanno i loro. Sarebbe bene (e maturo) quindi che si accettasse che esistono altre realtà, ognuna con il suo metodo di lavoro ed azione. Non è quindi tollerabile la logica del "o con noi o non esistete", "o con noi o non dovete esistere". E qui, su questa differenza di metodi, come sulla necessità di abbandonare la logica monopolistica e di egemonia, sarebbe ancora una volta, utile un confronto tra le diverse realtà dell'antimafia. Non possiamo accettare la mancanza di rispetto per chi non entra nell'orbita di LIBERA. Ogni realtà concreta merita rispetto. Ogni realtà, anche se piccola, ha una dignità che non può essere calpestata. Per noi della Casa della Legalità è imprescindibile, oltre che porre l'attenzione facendo nomi e cognomi, indicando mafiosi e collusi al disprezzo sociale, ad esempio, anche pretendere che le Pubbliche Amministrazioni adottino criteri rigorosi per le gare d'appalto, visto che le norme già esistono e permettono alle Stazioni Appaltanti di porre paletti ben precisi (se lo si vuole) per la presentazione di offerte e partecipazione alle gare. Quando ciò non avviene riteniamo, conseguentemente, che le lacune e, in taluni casi, le infiltrazioni, vadano denunciate, alla Magistratura ed anche pubblicamente. Non si può tacere (e coprire) atteggiamenti ambigui che rendono penetrabile la Pubblica Amministrazione. Per questo non possiamo quindi, legittimamente, accettare di fare iniziative comuni con quelle Pubbliche Amministrazioni che non operano seriamente nella prevenzione delle infiltrazioni. LIBERA, invece, predilige fare iniziative con le Pubbliche Amministrazioni (anche con Avviso Pubblico), eludendo la denuncia e sorvolando dall'indicare e richiamare le Pubbliche Amministrazioni che tale prevenzione non realizzano. Anche qui, due modi di vedere ed agire diversi, ma perché mai noi dovremmo rinunciare al nostro? Secondo me, secondo la Casa della Legalità, per fare concretamente antimafia servono fatti. La retorica non ci piace, così come non ci piacciono i fiumi di parole senza fatti. Noi abbiamo dimostrato, umilmente, che si può fare concretamente antimafia, raggiungendo anche risultati importanti (sia in materia di contrasto che di prevenzione), con poco. Non servono grandi risorse se si vuole fare volontariato, serve quel minimo per coprire le sole spese vive. Si deve essere professionali nell'opera che si promuove, ma non professionisti pagati. Altri, invece, preferiscono il business dell'antimafia e questo è un "essere" radicalmente all'opposto alla nostra idea di antimafia che onestamente non possiamo condividere. Saremo liberi di pensarla così? Se altri scelgono la via del compromesso e la ritengono insindacabile, noi abbiamo scelto di non cedere mai al compromesso e pretendiamo rispetto per questa scelta. Per noi della Casa della Legalità fare antimafia significa fare inchiesta. Avere il coraggio di scavare e denunciare anche le storture della Pubbliche Amministrazioni, così come anche quelle che si possono riscontrare all'interno degli apparati dello Stato e della Magistratura. Non assumersi questa responsabilità, se si vuole fare antimafia seriamente, è incomprensibile per come la vediamo noi. Ed allo stesso modo se facciamo antimafia seriamente non si può prescindere dal prestare collaborazione fattiva nella raccolta di dati ed elementi utili ai reparti investigativi dello Stato, alla Magistratura ed anche alle Prefetture per quanto (e non è poca) loro competenza. Altri, come LIBERA, ritengono che questa non sia la strada? Benissimo, libera scelta. Loro percorrano quella strada che ritengono, ma non possono pretendere che noi si abbandoni la nostra!

Ora visto che certe illazioni continuano a circolare (perché "Bisogna fermare Abbondanza", come hanno scritto ancora di recente in una discussione e-mail interna a LIBERA a Savona), ed ovviamente vengono fatte circolare senza uscire allo scoperto, senza assumersi le responsabilità di ciò che si afferma, è giunto il momento di rispondere documentalmente. Ed allora a chi cerca di far credere che la Casa della Legalità vuole "fare i soldi" o "chissà chi c'è dietro", vediamo con alcune schede la realtà dei fatti...

Entrate a Confronto tra realtà nazionali dell'antimafia

Libera Associazione, nomi e numeri contro le mafie di Don Ciotti: 2009, 2.706.569 euro; 2010, 3.047.710 euro; 2011, 3.649.414 euro; 2012, 3.768.614 euro; 2013, 4.777.221 euro.

Casa della Legalità Onlus di Cristian Abbondanza: 2009, 6.013. euro; 2010, 11.154 euro; 2011, 9.185 euro; 2012, 7.824 euro; 2013, 9.973 euro.

Associazione Contro Tutte le Mafie di Antonio Giangrande: zero, sempre!!!

Libera riceve contributi pubblici e riceve contributi privati tra cui: Coop, Telecom, Unipoli, Carige, Unicredit, BNL, Cariplo, BNC, CRT, Unipolis, Vodafon, MPS.

In questo articolo sul sito di "LIBERA INFORMAZIONE" si legge "L’antimafia si fa anche mangiando. Una battuta, ma non troppo, quella con cui Tonio Dell’Olio spiega il senso della collaborazione tra Libera e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena" ed ancora "Anche le banche possono fare la propria parte. “Spesso sono il luogo del riciclaggio del denaro sporco – aggiunge Dell’Olio – ma possono essere anche il motore della legalità”.  Ecco che la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, con il suo presidente Gabriello MANCINI ha deciso di sostenere l’avvio della Fondazione Libera Informazione, e rinnova adesso la fiducia dopo il primo anno di vita dell’Osservatorio sulla legalità…"

Con Clientelismo Ed Assistenzialismo Non Si Sconfigge La Cultura Mafiosa, Anzi...scrive l'1 gennaio 2014 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. [in coda AGGIORNAMENTO E RISPOSTA A DAVIDE MATTIELLO, deputato PD, storico braccio destro di Don Ciotti]. Pensare di contrastare la cultura mafiosa promuovendo un nuovo clientelismo ed assistenzialismo è pura follia. E' l'esatto opposto di ciò che è necessario fare. Assistenzialismo e clientelismo sono pratiche devastanti che alimentano la pratica, oltre alla mentalità, dell'assoggettamento “al favore” da parte delle persone. Mentalità e pratica antitetiche al Diritto. Mentalità e pratica affine a quella mafiosa. Purtroppo in troppi, anche dichiarando buone finalità sociali, finiscono per muoversi nel perpetuare questa cultura e questa pratica, proponendo una nuova stagione di assistenzialismo e clientelismo. Non è possibile assecondare questa logica perversa che, ricordiamolo, non ha aiutato il “riscatto” di alcuno, sia esso individuo o collettività. Ancora una volta con slogan e dichiarazioni di intenti lodevoli, in Italia, si nascondono proposte assurde, come quella nata dalla proposta di legge promossa da Libera, Cgil, Lega Coop & C., sotto lo slogan "Io riattivo il lavoro"... Nell'ambito della gestione di quelle “briciole” di beni confiscati che vengono oggi riutilizzati questo tipo di mentalità è purtroppo dilagante. E' vero che è stata attivata l'Agenzia Nazionale ma ancora non si è a regime nell'attuazione di questa “riforma” e la svolta, contro l'impostazione monopolistica che si è consolidata “nei fatti” e che si autoalimenta, non c'è stata. Prima di tutto grande parte dei beni che vengono sequestrati non finiscono a confisca definitiva prima di lunghi, lunghissimi anni, e quelli che vanno a confisca vengono riutilizzati solo in minima parte. Nella maggior parte dei casi c'è l'abbandono, poi ci sono i casi non rari, da sud a nord, in cui i beni confiscati vengono lasciati in mano ai mafiosi. Quei pochi che vengono assegnati spesso finiscono in una sorta di monopolio di gestione che, alla fine, anziché portare “riscatto” produce nuovo assistenzialismo e clientelismo, perché senza contributi pubblici non reggono e si promuovono e sopravvivono contro ogni logica di “libera concorrenza”. Certo ci sono casi di beni confiscati che vengono riutilizzati al meglio e onestamente, ma sono solo piccole particelle di gocciole di un oceano. Purtroppo questo è un tema che non si vuole affrontare e che agli scandali già evidenziatisi ne riserverà ancora molti, pronti ad esplodere se le inchieste andranno a avanti. Noi sollevammo la questione documentandola nel dicembre 2009 (vedi qui). Risposte ricevute: zero. E' un tema tabù, se osi affrontarlo finisci all'indice di certa “antimafia”, a partire da quella che con i beni confiscati si è snaturata in preda ad una sorta di morbo del business, in una logica di assegnazione che è negazione stessa della libera concorrenza e quindi antitetica ai principi che dovrebbero essere alla base di ogni azione antimafia concreta e, per questo, intransigente. L'assenza di svolta e coraggio nel riformare questo “tassello”, essenziale elemento del contrasto al potere ed alla cultura mafioso, rappresenta un fallimento. Un fallimento come quei tempi interminabili tra sequestro e confisca che ancora ostacolano l'efficacia del contrasto alle mafie quale è l'aggressione risoluta ai patrimoni illecitamente accumulati. Le riforme approvate nella scorsa legislatura hanno semplificato e ampliato l'azione di aggressione ai patrimoni mafiosi ma non sono ancora sufficienti. Vi sono stati, possiamo dire così, dei passi avanti a cui però buona parte dell'antimafia sociale ha contribuito a porre il freno con la demagogia e la retorica. Emblematica di questa perversa mentalità è l'ipocrisia di alcuni soggetti che hanno promosso una proposta di Legge di iniziativa popolare (vedi qui), oggi in discussione in Parlamento, sulla questione delle aziende sequestrate e confiscate. Che ora esaminiamo partendo dai promotori e dalle premesse...Si legge nelle premesse: “Con la mafia si lavora e con lo Stato no. Questa è una delle frasi che in molti hanno dovuto ascoltare in questi anni”. Ed i soggetti che si lamentano, giustamente, di questa mentalità (“Con la mafia si lavora e con lo Stato no”) chi sono? Vediamoli...C'è la CGIL che a parte i proclami, in molteplici occasioni e territori ha omesso la denuncia dei cantieri (ben noti) dove operano le imprese mafiose, dove vi è lavoro nero e caporalato, dove sono le cosche a decidere le forniture come l'uso di cemento depotenziato. Quella stessa CGIL che in molteplici casi ha assecondato il negazionismo e l'omertà in molteplici realtà del territorio. Quella CGIL che ha coperto dirigenti sindacali amici di famiglie mafiose ed ha allontanato chi invece “rompeva” con denunce e verifiche nei cantieri.

C'è la LEGACOOP che ha tra i propri principali consociati imprese cooperative che nel nome dell'economicità dei fornitori hanno fatto lavorare nei propri cantieri (e fanno lavorare nei propri cantieri) società di famiglie mafiose e/o di uomini “cerniera” tra mafia – impresa e politica. I grandi colossi delle cooperative emiliane con i loro cantieri sono un monumento all'ipocrisia del parlare bene, magari anche sponsorizzare associazioni antimafia, e poi razzola male garantendo lavoro ad imprese di soggetti legati alle cosche che soffocano la concorrenza ed il libero mercato.

C'è AVVISO PUBBLICO che dovrebbe raccogliere gli Enti Locali impegnati nel contrasto alle mafie ma che poi ha tra i propri soci alcuni Enti Locali e Regioni ove la presenza, il condizionamento e l'infiltrazione mafiosa sono conclamati, o che negavano (e negano) la presenza delle mafie sui propri territori, agevolando così la mimetizzazione delle imprese mafiose ed il loro assalto ad economia locale e appalti. Il caso della Regione Liguria con i Burlando, Monteleone e Saso è emblematico. Ancora di più, per fare un altro esempio, è esemplare dell'ipocrisia l'adesione del Comune di Isola Capo Rizzuto.

C'è l'ARCI che in molteplici realtà ha “riconosciuto” cosiddetti “circoli” che erano usati dalle organizzazioni mafiose (vedesi il caso del Circolo “Falcone e Borsellino” di Paderno Dugnano dove si tenne la riunione dei “locali” della 'Ndrangheta di Lombardia per nominare il reggente successore dell'assassinato NOVELLA; il caso del circolo Arci di San Luca che era gestito dai PELLE-VOTTARI; il caso di una Casa della Popolo toscana dove avevano il proprio deposito i promotori dei cd dedicati ai “canti di 'ndrangheta”; o molteplici circoli, ad esempio, genovesi, in Valpolcevera, che sono stati usati per decenni da esponenti di Cosa Nostra come i Maurici o i gelesi legati agli Emmanuello). Ente di promozione sociale che se conta esempi di attività coerenti con i valori enunciati (come ad esempio nell'ambito di Savona), ha in gran parte del territorio nazionale omesso ogni sorta di controllo sui proprio circoli affiliati così che potessero essere aperti, sotto l'insegna ARCI, anche luoghi dediti al gioco d'azzardo (dalle più antiche “bische” o con le più recenti videolottery e slot).

C'è LIBERA che ha chiuso più volte gli occhi su chi gli dava i finanziamenti (vedi Unipol, Monte dei Paschi, Unieco...) e su amministrazioni pubbliche e politici con pesanti contiguità che se era bene tenere lontani invece vedevano Libera al loro fianco nella promozione di “percorsi” nel nome della Legalità e dell'Antimafia. Una struttura che ha perso la sua spinta ideale originaria (custodita ormai da poche locali realtà sparse nel paese), finendo “prigioniera” di in una sorta di monopolio, costruito nell'ambito dell'antimafia, anche per quanto concerne la gestione dei beni confiscati, parallelamente al consolidato rapporto con un blocco politico-economico a cui si offriva come "paravento" per garantire una sorta di "patentino" antimafia. In troppi casi ha piegando la propria azione alle esigenze di “accreditamento” degli esponenti politici ad essa vicini che invece sarebbe stato bene tenere distanti e nonostante inviti al confronto ed a correggere gli "errori" non ha mai voluto rispondere se non a malo modo.

Venendo al merito della Proposta di Legge sulle aziende sequestrate e confiscate, promossa da questi soggetti, si può dire che essenzialmente pare scritta da chi non conosce (e non è così perché conoscono) cosa sia la mafia. Pare infatti essere sfuggito un punto. Le imprese mafiose non stanno sul mercato perché competitive, bensì perché riciclano soldi, corrompono e si impongono con le estorsioni. Che siano Ditte Individuali o imprese, anche con molti dipendenti, le imprese mafiose “reggono” (e reggono anche in periodo di crisi) perché hanno una disponibilità di risorse e condizionamento che gli permettere di non conoscere crisi, di non subirla! Se le si pone sul mercato della libera concorrenza, togliendogli la capacità di “drogare” il mercato e gli appalti, queste imprese crollano. In una parola semplice: falliscono. Certo esistono eccezioni, ma sono eccezioni che comunque dimostrano – se andiamo a guardare – che il “fatturato” in caso di sequestro o confisca, ed una gestione onesta e regolare, crolla. Se prima guadagnava tanto con le forniture di calcestruzzo depotenziato, nel momento in cui opera nella legalità quel guadagno centrato sulla frode nella fornitura viene meno. Se prima smaltiva i rifiuti speciali tossici con smaltimenti illeciti, siano con roghi o interramenti, avendo ampio margine di guadagno, operando nel rispetto delle norme quei margini di guadagno che l'impresa macinava svaniscono. E così via...Inoltre ci sono anche altro dettagli che pare sfuggano a chi promuove la proposta di Legge. Nelle imprese mafiose che finiscono sotto sequestro e poi a confisca, non sempre, ma quasi sempre, buona parte del personale è “manovalanza” della cosca, se non addirittura esponenti della cosca. I macchinari e le attrezzature utilizzate, a partire dai mezzi per il movimento terra, vengono sempre più spesso non acquistati ma presi in leasing. Il livello “occupazionale” come i parchi mezzi sono figli della conquista di lavori (pubblici o privati) “drogati”. E' questo che determina la produttività ed un fatturato elevato. Con una gestione corretta ed onesta dell'impresa, in competizione libera corretta e non viziata con le altre imprese, non potrebbe avere quei livelli di produttività e di fatturato, non potendo quindi permettersi quei livelli occupazionali e di parco mezzi. Ora viste questi aspetti risulta incomprensibile pensare di proporre, come avviene invece con la proposta di Legge in questione, che lo Stato di faccia carico di garantire tutto il personale (compresa la manovalanza e/o gli esponenti delle cosche) ed i livelli di fatturato e produttività (realizzati con riciclaggio, frodi fiscali, lavoro nero, corruzione, estorsioni e quant'altro) realizzati durante la gestione precedente, ovvero con la “gestione mafiosa”. Lo Stato non può farsi carico di spendere per tenere in piedi aziende fallite nel momento stesso in cui escono dal circuito della gestione mafiosa. Lo Stato può invece dare incentivi, questo sì, alle imprese sane, che assorbono il personale (non legato alle cosche) delle imprese mafiose poste sotto sequestro e quindi a confisca, ma non può garantire manco per un centesimo il credito bancario per imprese il cui fatturato era “drogato” dalla gestione mafiosa. Non sta in piedi nemmeno la proposta avanzata nel disegno di Legge di garantire una sorta di “corsia preferenziale” per l'assegnazione di incarichi, forniture o lavori che siano, alle imprese sequestrate e confiscate da parte delle Pubbliche Amministrazioni e/o società pubbliche o partecipate. La lotta alle mafie è una cosa seria ed il contrasto alle imprese mafiose sottratte alla mafia non può prevedere deroghe alla libera concorrenza ed all'eguaglianza alle altre imprese. L'accesso ai sostegni pubblici non può essere privilegiato per un'impresa che è stata posta sotto sequestro o confisca, deve essere garantito equamente a tutti. Se le imprese mafiose, poste sotto sequestro e confisca non possono reggere sul mercato, lo Stato non può salvarle dal fallimento. Con quale criterio infatti si va a dire alle imprese oneste, magari schiacciate dalla concorrenza sleale delle imprese mafiose, portate al fallimento che loro devono fallire ma quelle che erano mafiose no? L'amministratore giudiziario incaricato della gestione, a seguito del provvedimento della Magistratura – e servirebbe un albo nazionale in cui vengono inseriti professionisti dopo attento “esame del sangue”, così da evitare incarichi a professionisti legati, contigui o a libro paga delle cosche – dovrà esaminare lo stato dell'impresa e nel caso di insostenibilità della gestione dovrà procedere con la liquidazione della stessa. Se invece sussistono le condizioni per il mantenimento, certamente anche con riduzione (ovvia) del fatturato, allora l'impresa potrà essere gestita durante il sequestro a seguito della necessaria riorganizzazione aziendale e, una volta andata a confisca, dovrà andare all'asta perché possa essere assorbita o rilevata anche come ramo d'azienda da altra impresa “sana” o rilevata integralmente da un imprenditore o imprenditori su cui sia stata effettuata un'adeguata verifica con apposita informativa antimafia. Vi è poi l'ennesima surreale proposta nel disegno di Legge promosso da Libera, Cgil, Legacoop e compagni. Se sappiamo tutti che è necessario alleggerire la burocrazia ed i tempi nell'affrontare la gestione di imprese poste sotto sequestro o confisca, e che tale gestione deve essere fatta dall'Agenzia Nazionale e dal professionista individuato e delegato all'amministrazione giudiziaria, nella proposta di Legge vi è un elemento che davvero non si comprende. Infatti viene proposto di realizzare un bel “tavolo” presso le Prefetture con i Sindacati e l'associazione con maggiore esperienza nella gestione dei beni confiscati (che, guarda caso, nel sistema “monopolista” venutosi a creare in Italia è LIBERA) con cui l'Agenzia Nazionale si deve rapportare e che deve anche esprimere pareri obbligatori (pur se non vincolanti) sui singoli casi. Secondo noi, quindi, siamo davanti ad una proposta insostenibile e viziata di quella cultura e pratica di assistenzialismo e clientelismo puro, inaccettabile perché fuori da ogni logica del libero mercato e della concorrenza. Una proposta che pare scritta da chi non conosce la mafia e le imprese mafiose. Una proposta che sarebbe bene respingere con anche tutta l'ipocrisia che la avvolge. Sulla questione delle aziende poste sotto sequestro e confisca, così come sui beni sequestrati e confiscati, occorre promuovere proposte serie, non figlie di logiche assistenzialiste e clientelari. Noi abbiamo avanzato da tempo riflessioni e proposte in merito. Siamo disponibili ad un confronto serio per portare il nostro contributo. Un confronto che purtroppo mai si è voluto aprire nell'ambito dei movimenti antimafia, altro pessimo segnale... visto poi cosa hanno prodotto quelli del "blocco rosso", ovvero Libera, Cgil, Lega Coop & C., con la proposta che qui abbiamo contestato nel merito.

P.S. Vi facciamo un esempio molto pratico e concreto di come si è mosso un Sindacato di primo piano, quale la CISL (che siede anche nel coordinamento di LIBERA a Savona), in merito ad un'impresa posta sotto interdizione antimafia.

Il Prefetto di Savona ha promosso (dopo l'interdizione temporanea disposta dal GIP per l'operazione DRUMPER) un'interdizione antimafia alle imprese dei FOTIA, indicati dai reparti investigativi dello Stato come referenti della cosca MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI nel savonese e con consistenti rapporti con gli esponenti della cosca GULLACE-RASO-ALBANESE.

La CISL ha promosso le mobilitazioni di piazza dei lavoratori della SCAVO-TER davanti alle sedi istituzionali savonesi, a partire dalla Prefettura, per chiedere l'annullamento dell'interdizione antimafia emessa nei confronti delle imprese del FOTIA GROUP. Una delle frasi celebri di queste mobilitazioni era “Legalità sì, ma prima il lavoro”. Ecco, se questo è contrasto alle mafie allora significa che quelli della CISL (come di LIBERA LIGURIA) hanno un grossa confusione... Anche perché se è vero che senza appalti pubblici le imprese dei FOTIA avrebbero dovuto ridurre il personale, i lavori pubblici che non potevano più essere eseguiti dalle società del FOTIA GROUP avrebbero visto l'assegnazione ad altre imprese che, davanti alla concorrenza sleale dei FOTIA, non riuscivano a lavorare. Quindi il dire, come ha fatto la CISL, che si creava “disoccupazione” se i FOTIA non potevano lavorare con le pubbliche amministrazioni, per “colpa” dell'Interdizione, era una balla colossale. Non avrebbero lavorato loro ma altri si. Altre imprese che, soffocate dalla posizione dominante dei FOTIA, erano ridotte ai minimi termini avrebbero potuto assumere personale per far fronte a nuovi lavori.

AGGIORNAMENTO E RISPOSTA A DAVIDE MATTIELLO (deputato PD, storico braccio destro di Don Ciotti). La questione che abbiamo sollevato è stata ripresa da Antonio Amorosi su Libero. Nel frattempo Davide Mattiello, storico braccio destro di don Luigi Ciotti al vertice di LIBERA, in risposta alle critiche alla proposta di legge sulle aziende sequestrate e confiscate (figlia della cultura e pratica clientelare ed assistenzialista), sul sito della sua Fondazione "Benvenuti in Italia", pone una domanda: “Chi fa il gioco dei mafiosi?”. E' un ottima domanda a cui, crediamo di poter dare una risposta, prima di entrare nel merito, nuovamente, della proposta di legge, con alcuni esempi...Il gioco dei mafiosi, ad esempio, lo fa chi:

- si fa “paravento” ad amministrazioni pubbliche e politici che hanno contiguità, quando non addirittura connivenze e complicità, con esponenti delle organizzazioni mafiose e con gli “uomini cerniera” da questi posti in campo, in ogni parte del territorio ove abbiano appetiti, per perseguire i propri interessi criminali;

- si fa complice del negazionismo sulla presenza mafiosa (negandone se non la presenza gli interessi concreti e le influenze su politica ed economia) in determinati territori per compiacere la classe politica che foraggia con contributi e sostegni di varia natura la c.d. "antimafia";

- accetta sovvenzioni e contributi da Pubbliche Amministrazioni e/o soggetti privati (dalle banche alle cooperative), facendo iniziative comuni con questi e/o ricambiando con promozione dei “marchi”, quando queste Amministrazioni Pubbliche e questi privati “benefattori” intrattengono rapporti d'affari con soggetti appartenenti o pesantemente legati alle organizzazioni mafiose ed ai loro interessi;

- vede la mafia, le contiguità e complicità dei mafiosi solo quando ad amministrare la cosa pubblica sono esponenti dalla parte politica avversa ai “propri amici”, con uno strabismo perverso che mina alla radice la credibilità di quella che professa il proprio impegno “antimafia”;

- si rifiuta di pretendere dai propri sponsor (a partire dalle banche ai soggetti privati) coerenza nella pratica, con effettive e "normali" attività di contrasto all'illegalità;

- si rifiuta di denunciare con nomi e cognomi le reti di relazione delle organizzazioni mafiose con politica, economia, finanza, professionisti, garantendo così quella “mimetizzazione” ed “omertà” che le mafie perseguono in quanto radice principale della propria forza;

- assume logiche monopolistiche, contro ogni principio di equità e libera concorrenza, cercando di “isolare” gli “altri”, anche nell'ambito della gestione dei beni confiscati.

Può bastare per dare l'idea no? Crediamo di si, ed allora passiamo oltre.

Anni fa il Presidente della Casa della Legalità incontrò Davide Mattiello a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. “LIBERA LIGURIA” non era ancora nata, ma il “blocco rosso” si stava muovendo per costituirla facendo fuori chiunque non facesse parte di quel "blocco", mettendo quindi al bando, oltre alla Casa della Legalità, tutti quei soggetti che si erano mobilitati in Liguria contro quel “partito del cemento” che, trasversale, non solo devastava (e devasta) il territorio, ma che aveva, nei fatti, garantito (e garantisce) gli interessi e gli affari di faccendieri e famiglie mafiose.

A Davide Mattiello vennero fatti leggere alcuni rapporti della Guardia di Finanza relativi alle indagini sui MAMONE (quelli relativi ai vari filoni dell'inchiesta PANDORA che, per una fuga di notizie, finirò per divenire pubblici), per mettere in evidenza che chi stava “costruendo” LIBERA in Liguria erano i soggetti legati a quel blocco di potere che emergeva essere strettamente compromesso con i MAMONE, ovvero con chi è stato individuato ed indicato dalla Guardia di Finanza, come il “punto di contatto” tra cosche e mondo della politica e delle imprese. Quei MAMONE che già nel 2002 la DIA indicava chiaramente nella propria relazione pubblica in merito all'infiltrazione della 'ndrangheta negli appalti pubblici a Genova e provincia. Mattiello ha letto quelle carte. 

Mattiello è stato poi delegato a coordinare il percorso fondativo di LIBERA in Liguria e che cosa è successo? Ha tenuto conto di quanto era indicato in quelle carte o, ad esempio, nel libro-inchiesta “Il Partito del Cemento”? No. Hanno fondato LIBERA in Liguria con quel “blocco di potere” inquinato e compromesso. Chi combatteva quel “blocco” (e con quel "blocco" combatteva ed indicava anche le collusioni e complicità con esponenti delle cosche e promotori degli interessi delle cosche) è stato fatto fuori, con tentativi perpetui di delegittimazione finalizzata ad annientare ed isolare (che Mattiello rilancia chiaramente anche ora).

Tornava un'accusa, scritta nero su bianco anni prima, ad esempio, contro la Casa della Legalità, che era proprio quella di aver "osato" indicare i rapporti tra i MAMONE e la classe dirigente del centrosinistra genovese, sino a quelli diretti con BURLANDO già quando era parlamentare e consolidatisi con la sua guida della Regione Liguria. E così mentre tutti i rapporti indecenti degli Amministratori del centrosinistra ligure emergevano dalle inchieste, LIBERA promuoveva iniziative nel nome della “legalità” e della c.d. “antimafia” con questi, e da questi riceveva contributi e sostegni... Non meno importante, anche si tratta di un piccolo Comune, è il consolidato e perpetuato rapporto con BERTAINA, l'ex Sindaco ed ora vice-Sindaco di Camporosso (IM), per la promozione del “progetto legalità”... Questo mentre il BERTAINA risultava essere “gradito” alla cosca del MARCIANO' – capo locale della 'ndrangheta a Ventimiglia – e formava liste elettorali con le candidature di uomini della 'ndrangheta, come il MOIO Vincenzo, CASTELLANA Ettore e il GIRO Tito (che gli uomini della 'ndrangheta avrebbero voluto vedere come nuovo sindaco di Ventimiglia). E chi ha promosso le denunce alle Autorità preposte? Chi ha, in questi anni, raccolto segnalazioni e fatto sì che arrivassero ai reparti investigativi e Procure? Chi ha osato chiedere le Commissioni di Accesso o misure interdittive? Chi ha indicato pubblicamente nomi e cognomi dei mafiosi, le loro società, gli appalti e gli intrecci con la politica e l'economia in Liguria, come in basso Piemonte ed altrove? E stata la Casa della Legalità. LIBERA era troppo impegnata, per poterlo fare, con le Amministrazioni Pubbliche, con i politici dalle pesanti ombre, con l'incassare fondi, sostegni e visibilità a braccetto con quella politica ma anche con, ad esempio, la Rosy CANALE portata anche a Genova, come a Milano o in Emilia e Toscana, da LIBERA, che la presentava come simbolo del “riscatto” (sic) e dell'antimafia. A noi, e soprattutto al Presidente della Casa della Legalità, Abbondanza, così come anche a Marco Ballestra, sarebbe stato più utile avere una LIBERA attiva e coerente in Liguria. Se non fossero e fossimo stati isolati e lasciati soli nelle denunce (riscontrate!!!), le promesse di morte da parte degli uomini della 'ndrangheta non le si avrebbe, probabilmente, ricevute. Ma questo, per Mattiello è un dettaglio su cui sorvolare. Così come sorvola sulla storia del bene confiscato di Vico delle Mele a Genova che ha rappresentato una pessima storia - come denunciato dagli stessi abitanti della zona, impegnati insieme alla Casa della Legalità, nelle denunce e segnalazioni delle attività dei vecchi boss del centro storico -.

Vogliamo ricordarci ora la domanda posta da Mattiello: “Chi fa il gioco dei mafiosi?” ? ...e soprattutto, a questo punto, forse è più chiaro chi vuole "impantanare l'antimafia”... e non certamente Abbondanza e la Casa della Legalità, come invece vorrebbe far credere il Mattiello. Veniamo ora alla questione dell'assurda Proposta di Legge di cui Mattiello è relatore e che, nella sua risposta, rivendica con forza. Mattiello rivendica la logica clientelare ed assistenzialista della proposta di cui è relatore e che è stata scritta da LIBERA, LEGA COOP, CGIL & C...Afferma, nella sua replica, ad esempio: “La Commissione parlamentare anti mafia ha recentemente raccolto l’allarme dei magistrati siciliani su questo punto. A preoccupare sono certo le minacce al pool di Palermo che ha in mano il processo sulla “trattativa”, ma non di meno le minacce sistematiche che arrivano ai magistrati che nel trapanese si occupano delle misure di prevenzione. Perché?” Cosa c'entra la “TRATTATIVA” con la questione dell'assurdità della proposta di Legge non è dato saperlo, ma è di moda e fa tendenza citarla e così Mattiello la mette nel minestrone, dimenticando che ad oggi, il Tribunale di Palermo ha già espresso un chiaro pronunciamento su tale “teorema” (della TRATTATIVA) con la sentenza che assolve MORI e OBINU, in cui smonta non solo "teorema" ma anche la “bocca della verità” (ovvero della calunnia e del depistaggio) del neo "eroe" di certa c.d. “antimafia” quale è il CIANCIMINO Massimo. Il fatto che i mafiosi siano (a Trapani ed altrove) preoccupati e inferociti con lo Stato per l'azione di aggressione ai patrimoni mafiosi è ovvio. Ma questa azione non è mica figlia di LIBERA e della proposta di legge di LIBERA di cui si sta parlando... E' figlia del lavoro dei reparti investigativi e dalla magistratura. E' conseguenza del meticoloso lavoro – così come le interdizioni antimafia o le altre misure preventive e repressive – di DIA, GICO, SCO, ROS, e delle diverse DDA che coordinano le indagini. Forse nella foga di essere in “Commissione Antimafia” il Mattiello pensa che sia frutto del suo lavoro e di quella proposta di legge tutto questo? Pensiamo di no, sinceramente pensiamo che anche mettendo in conto l'auto-esaltazione non possa arrivare a tanto... Ed allora, di nuovo, cosa c'entra questo passaggio con l'assurda proposta di legge che hanno promosso? Nulla...

Ma già che cita il tema delle aggressioni a beni mafiosi e Trapani, vediamo... Quante denunce e segnalazioni sulle reti dei beni delle cosche e sulle loro attività sul territorio ha fatto LIBERA all'Autorità Giudiziaria, ai Reparti Investigativi e Prefetture? Noi sappiamo quelle che abbiamo fatto noi. E sono tante... come ad esempio le denunce sul FAMELI che, a seguito delle indagini, hanno portato a confisca di 10 milioni di beni da parte del Tribunale di Savona; le denunce sul NUCERA che hanno portato, a seguito delle indagini, alla confisca del maxi cantiere della T1 di Ceriale ed al crollo dell'impero; le denunce sui GULLACE-RASO-ALBANESE e sui traffici illeciti di rifiuti che coinvolgono anche i MAMONE nel basso Piemonte; quelle sui FOTIA oggetto di procedimenti aperti di carattere preventivo e interdittivo, oltre al procedimento per frode, corruzione e riciclaggio; ci sono quelle fatte sugli uomini ed affari del “locale” del basso Piemonte, acquisite dagli inquirenti per sostenere l'accusa contro gli 'ndranghetisti... e via discorrendo, per arrivare alla mole immane di segnalazioni e denunce sulle cave, tra cui quella di Rocca Croaire dove operavano gli SGRO', i PELLEGRINO, i FOTIA & C... o quella dei FAZZARI-GULLACE a Balestrino, su cui vi sono molteplici procedimenti aperti.

Ed a proposito di Trapani, realtà che lui cita... Come lo spiega Mattiello che una delle imprese individuate nell'inchiesta GOLEM III (che riprende alcuni filoni dell'Operazione “EOLO”), che per far lavorare nel Parco Eolico "Vento Di Vino" le imprese facenti capo a Matteo MESSINA DENARO operava coscientemente per aggirare i vincoli del “protocollo di legalità”, è proprio quell'impresa tanto amata dall'Amministrazione della Regione Liguria di BURLANDO (quella Regione che Don Ciotti ha ringraziato per l'azione antimafia)?

Mattiello prosegue poi dando un dato reale: “il 90% delle aziende sequestrate e confiscate fallisce”. Usa questo dato per sostenere l'utilità della proposta di legge da neo assistenzialismo e clientelismo promossa da LIBERA & C. Ma questo dato significa una cosa semplice e ben diversa: le imprese mafiose se si elimina la capacità di “drogare” il mercato da parte delle mafie non reggono la libera concorrenza. Non possono reggere perché: gli viene la disponibilità di fondi derivanti dal riciclaggio del denaro sporco; gli viene meno l'acquisizione di lavori attraverso l'estorsione o la corruzione. Non reggono nella "legalità" perché la gestione mafiosa dell'impresa avveniva in sfregio alle norme, nell'illegalità, e nel momento in cui quella stessa azienda deve operare correttamente (con lavoratori in regola e non in nero, con materiali conformi, con il rispetto delle norme,...) diviene un'azienda NON competitiva e con una gestione antieconomica. Vediamo poi alcuni esempi per far comprendere meglio, nel concreto, la questione.

1) Prendiamo la nota TERRA DEI FUOCHI (o qualsivoglia caso di smaltimento illecito di rifiuti tossico-nocivi). Prendiamo le imprese mafiose che hanno effettuato i trasporti e gli interramenti. Dobbiamo forse tutelare l'occupazione ed il reddito di quegli autisti che ben sapendo cosa facevano l'hanno fatto pur di portare a casa lo stipendio?

2) Prendiamo le imprese che producono ed utilizzano il CEMENTO DEPOTENZIATO. Dobbiamo forse tutelare l'occupazione ed il reddito di quegli operai, geometri o ingegneri che hanno prodotto e usato quel materiale scadente ben consci di ciò che facevano pur di portare a casa la busta paga?

3) Prendiamo l'esempio delle imprese che fanno MOVIMENTO TERRA E BONIFICHE. Dobbiamo forse tutelare l'occupazione di quanti facevano i “giri bolla”, con finti conferimenti della terra scavata in un appalto che poi andavano a conferire per un'altro appalto? Oppure dobbiamo tutelare l'occupazione di quanti hanno fatto bonifiche fasulle consci di ciò che stavano facevano?

Per Mattiello, LIBERA & C, pare proprio di sì. Per noi questo è un assurdo. Anzi inaccettabile. Il personale “pulito” delle imprese che vanno a sequestro e confisca deve essere ricollocato con agevolazioni (questo sì) nelle imprese “pulite” che spesso, tra l'altro, erano massacrate e soffocate dalla concorrenza sleale dell'impresa mafiosa. Il personale delle imprese mafiose poste sotto sequestro e confisca che risultava essere “manovalanza” per la cosca, nell'ambito delle attività dell'impresa, ci spiace, non merita sostegno da parte dello Stato. Dire che bisogna combattere la crisi, garantire l'accesso al credito bancario ed altre agevolazioni, è un principio ed una pratica che lo Stato deve a tutti, non può essere frutto di un provvedimento specifico ed esclusivo per le "imprese mafiose” poste sotto sequestro e confisca. Lo Stato il sostegno alle imprese lo deve alle imprese che stanno sul mercato, a partire da quelle vittime dell'inquinamento mafioso del mercato e della competizione “drogata” dalle mafie nell'ambito dei lavori pubblici, con equità e non con occhi di riguardo per alcuni e indifferenza per altri.

Andiamo avanti. Se si affida la gestione aziendale a chi ne cura l'amministrazione giudiziaria a seguito del sequestro o confisca, e questi sono selezionati con attenzione e severità assoluta, sono questi e solo questi Amministratori che devono verificare se l'impresa mafiosa posta sotto sequestro o confisca può stare in piedi economicamente o se invece deve essere liquidata. Non è concepibile che si costituiscano dei “tavoli” con sindacati, associazioni e chi si vuole d'altro, e che sia questo "tavole" che debba “valutare”. No! Chi assume l'amministrazione giudiziaria del bene, incaricato dallo Stato, valuta, non altri. Non scherziamo quindi... Assegnare a “tavoli” politico-sindacali la valutazione è assurdo. Così come è assurdo che vi siano fondi dello Stato (anche se derivanti da altre confische) che vengano destinati per tenere in piedi imprese sequestrate o confiscate che non reggono da sole sul mercato. Prevedere assistenzialismo, anche sotto forma di ammortizzatori sociali, per le imprese mafiose finite sotto sequestro o confisca è follia pura. E' un'azione chiaramente ed inequivocabilmente clientelare, fuori da ogni logica di libero mercato. Anche perché, ancora una volta, se questo modello promosso da LIBERA entrasse in funzione, voglio vedere con che faccia si presenta poi lo Stato davanti all'impresa onesta che è stata soffocata dalla concorrenza mafiosa e che deve chiudere, mandare a casa i propri dipendenti o operai, portare i libri in tribunale e fallire, visto che non ha avuto “agevolazioni” (come la garanzia per l'accesso al credito ed altro) che LIBERA & C. propongono di destinare alle imprese sequestrate e confiscate (e non ad altre). Se si vuole essere seri si pretende, molto semplicemente, una norma che riconosca incentivi alle imprese sane che assorbono i dipendenti “puliti” delle imprese sequestrate o confiscate che falliscono. Allo stesso modo si deve prevedere, semplicemente, che l'impresa mafiosa che viene confiscata e può reggere sul mercato (con le proprie forze e risorse) vada all'asta... così come, invece, che i beni delle imprese confiscate che sono in situazione di “fallimento” siano posti all'asta per ricavare allo Stato quanto possibile dalla loro liquidazione.

Mattiello dice che sono pronti a migliorarsi. Bene, ritirino questa assurda proposta di legge e ne presentino una seria! Poi sulla finalità di garantire l'occupazione, il diritto al lavoro, contrastando così anche l'acquisizione di consenso sociale che le mafie costruiscono "facendo lavorare", impone di stroncare la pratica clientelare, la corruzione ed i condizionamenti mafiosi negli appalti pubblici e nella selezione dei fornitori da parte delle grandi imprese... LIBERA inizi con il pretendere dalle amministrazioni pubbliche amiche, dalle banche amiche e dalle grandi cooperative amiche che operino in questo senso. Il consenso sociale alle mafie serve per condizionare la politica, i voti... per stringere patti con questo e quel politico... per trattare con quell'amministratore pubblico... per conquistare uno spazio di agibilità che gli permetta di agire in violazione delle norme e dei controlli per offrire servizi a basso costo alle imprese... E' questo il circuito da rompere per garantire la libera concorrenza tra le imprese e per garantire quindi un mercato del lavoro pulito, secondo Diritto e non quindi secondo clientela, assistenzialismo o peggio.

P.S. Usare il generale Dalla Chiesa, come fa Mattiello, non è bello. Usare altri per far sembrare che questi fossero d'accordo con questa assurda proposta di legge è anche di pessimo gusto, soprattutto quando si usano quelli che non ci sono più e non possono replicare.

Che LIBERA Si Faccia Un Bagno D'umiltà... Sarebbe Utile A Tutti, scrive il 26 agosto 2013 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Luigi Pio Ciotti ha superato ogni possibile limite di decenza e dimostra che le critiche che abbiamo mosso, in questi anni, a certe pratiche e concezioni di “Libera” erano più che mai fondate. Davanti ad un bando pubblico per assegnare un bene confiscato quale la tenuta di Suvignano, a Siena, cosa va a tuonare il prelato leader di Libera? Quattro parole: “Lo Stato si fermi!”. Ma stiamo scherzando? No, purtroppo non è uno scherzo. Per loro invece è lo Stato che si deve fermare, perché loro – Libera - con l'accordo della Giunta “rossa” della Regione Toscana, della “rossa” Arci, dell'Amministrazione “rossa” del Comune di Monteroni d'Arbia e la “rossa” Provincia di Siena - il bene lo volevano assegnato alla loro rete, a prescindere... perché così, quasi esistesse una sorta di (loro) diritto "divino"...Per “Libera” se c'è un bene confiscato questo deve andare a loro. Gli altri non esistono. La possibilità di collaborazione con altri, esterni alla loro “rete”, non è contemplata. La “libera concorrenza” è, per loro, un'intollerabile pratica. Noi, negli anni, abbiamo indicato queste storture nella pratica, così come nella mentalità del gruppo dirigente di Libera [vedi ad esempio qui]. Abbiamo evidenziato le contraddizioni di predicare l'antimafia, la lotta alla corruzione ed alle storture della politica e delle Pubbliche Amministrazioni, a cui si sviluppavano (e sviluppano) il far salire sui palchi esponenti politici con pesanti ombre, quando non indecenze conclamate, oltre all'accettare fondi da soggetti economici discutibili, come il MPS, Unipol o la galassia delle grandi cooperative rosse che assegnano i subappalti ad imprese di famiglie legate ed appartenenti ad organizzazioni mafiose. Noi abbiamo vissuto sulla “pelle” che certe assegnazioni di beni confiscati avvengono per via “preconfezionata”, facendo fuori, senza mezzi termini, chi potrebbe concorrere o collaborare alla gestione di quel bene sottratto alle cosche [vedi qui e qui]. Così come abbiamo visto soggetti politici in stretto rapporto con esponenti della criminalità organizzata presentarsi alla comunità con al proprio fianco “Libera”, a garanzia di una “verginità” che non c'è. Anche l'aver indicato che “Libera” ha un rapporto particolarmente saldo e proficuo con un particolare blocco politico e politico-economico, non è stato altro che indicare quando è alla luce del sole. Non abbiamo mai detto che Libera dovesse “sparire” ma semplicemente che davanti al legame conclamato ad un particolare schieramento politico, sarebbe necessaria quell'onestà intellettuale del dichiararlo e non invece il persistere nel presentarsi e professarsi “indipendenti”. Ed ancora, se si indicano i casi di storture pesantissime, che fanno divenire “ipocrite” le nobili dichiarazioni di intenti, non è perché si vuole porre “Libera” sul banco degli imputati ma - come abbiamo sottolineato sempre - perché si affrontino ed eliminino tali situazioni particolari. Senza ripercorrere qui quanto già affrontato ma facendo solo alcuni esempi, non certamente nostra responsabilità se Libera promuove a Sanremo una “fiaccolata” contro le mafie e fa sfilare in prima fila i sindaci di Bordighera e Ventimiglia, Bosio e Scullino; così come non è colpa nostra se un pezzo di “Libera” a Savona, la Cisl, si schiera in pubblica piazza contro un'interdizione antimafia della Prefettura alle imprese dei Fotia... o, ancora, non è certamente nemmeno colpa nostra se la Regione Liguria, viene ringraziata pubblicamente da Don Luigi Pio Ciotti per l'attività antimafia, quando in questi anni, con la gestione Burlando, ha visto un proliferare di appalti e concessioni ad imprese che “puzzano”. Tutto ciò che abbiamo raccontato, in quelle quattro parole pronunciate da Don Luigi Pio Ciotti (“Lo Stato si fermi!”) trova conferma. Tutto ciò che in questi anni abbiamo detto e scritto lo confermiamo e ribadiamo, punto per punto. Anche se per alcuni l'indicare il "re nudo" pare essere, più che mai, inaccettabile e non tollerabile. Non ci facciamo intimidire da chi, credendo di vivere in un “santuario" intoccabile, si sente immune da ogni possibile critica, e ci vorrebbe tappare la bocca. Non ci facciamo quindi intimidire dalla scelta di Luigi Pio Ciotti e Nando Dalla Chiesa che alle nostre critiche – tutte documentate – anziché rispondere nel merito hanno preferito presentare querela per diffamazione (sia a noi che ad Antonio Amorosi, giornalista di Bologna che pubblico questo articolo). Abbiamo raccontato fatti, evidenziato storture e criticità. Non abbiamo mai ceduto all'insulto anche quando l'insulto era diretto a noi da alcuni esponenti di Libera (a partire proprio da Nando Dalla Chiesa che da consulente – pagato – del Comune di Genova promuoveva – al di fuori delle proprie funzioni – un bando per l'assegnazione di un bene confiscato a chi vendeva i prodotti di Libera, di cui era ed è il Presidente onorario). Noi non abbiamo mai pensato di “rispondere” con querele nei confronti degli esponenti di Libera, bensì di rispondere pubblicamente, come si sul dire: politicamente. Abbiano cercato sempre il confronto. Un confronto in campo aperto, sul merito delle questioni. Un confronto che il gruppo dirigente di Libera non ha mai voluto. Da parte nostra abbiamo continuato a cercare questo dialogo, e lo abbiamo avviato con alcun “pezzi” di Libera che volevano dialogare, capire e collaborare...Noi, a questo punto sia chiaro, però, non pratichiamo il cattolico principio del “porgere l'altra guancia” e la bocca non ce la facciamo tappare, perché ciò che c'è da dire noi, come sempre, lo diciamo e scriviamo, anche quello che per alcuni è “indicibile”. Libera ha scelto di promuovere le proprie attività con sponsor quali Unipol o Monte Paschi di Siena? Sì. E' una scelta legittima, ma quella scelta non può essere taciuta. Ha scelto di avere contributi da soggetti come la Unieco che in Liguria seleziona quali fornitori perché li fa risparmiare le imprese dei Mamone e dei Fotia? Sì. E' una scelta legittima, ma anche questa scelta non può essere taciuta. Hanno scelto di avere un legame saldo con un blocco politico, quale PD-SEL-RC e INGROIA? Sì. Anche questa è una scelta legittima, ma anche questa non può essere taciuta, a parlare sono i fatti (come gli esponenti politico di lungo corso, rimasti fuori dal Palazzo, e reimpiegati proprio nella rete di Libera, quali Nando Dalla Chiesa, Francesco Forgione o Vittorio Agnoletto o, ancora, ad esempio, il neo eletto in Parlamento con il Pd Davide Mattiello, ex braccio destro, in Libera, di Don Ciotti). Ed allora se Libera compie delle scelte non può pretendere che queste sia insindacabili, immuni da rilievi e critiche... Si faccia una ragione: la si può pensare diversamente e si possono avere metodi di lavoro diversi, ricordarlo, affermarlo non è un "offesa" o una "diffamazione", si chiama LIBERTA'. E la "libertà" dovrebbe essere anche nell'ambito della assegnazione e gestione dei beni confiscati... e quindi a doversi fermare per un'attenta e seria analisi ed autocritica non è "lo Stato", ma proprio Libera! Quindi se i fatti che abbiamo indicato hanno fatto risentire Luigi Pio Ciotti e Nando Dalla Chiesa, il problema non è nella nostra trattazione ma in quei fatti, in quelle dinamiche, di cui noi siamo solo stati narratori. Se non volete cambiare atteggiamento, e preferite le "querele" al confronto schietto, per noi non c'è problema nel documentare e dimostrare nel dibattimento la fondatezza tutti i punti di critica ed i fatti che abbiamo scritto e pubblicato su LIBERA. Ma sia chiaro che quella sede l'ha scelta LIBERA e non noi!

P.S. Quando il Presidente della Casa della Legalità ha annunciato dalla sua pagina facebook la querela dei massimi dirigenti di “Libera” uno degli esponenti di Libera a Genova (che si riunisce presso la LegaCoop) e già esponente del Comitato Marco Doria Sindaco, Luigi Cornaglia, ha risposto affermando: “fa più Libera in una giornata di lavoro in tutta Italia che Abbondanza in tutto un anno di blog con dozzine di post autoreferenziali e logorroici, che non legge nessuno”. Il presidente della Casa della Legalità ha postato quindi un semplice testo: “Luigi Cornaglia, di LIBERA (ed ex Comitato Doria Sindaco di Genova), afferma: “fa più Libera in una giornata di lavoro in tutta Italia che Abbondanza in tutto un anno di blog con dozzine di post autoreferenziali e logorroici, che non legge nessuno”. Quindi che dire... forse mi devo ritirare e sospendere le attività di inchiesta e denuncia, oltre che le informazioni attraverso il sito...” Il risultato? Il post del presidente della Casa della Legalità è stato segnalato a facebook come “offensivo” con la conseguenza che è stato censurato e l'account del Presidente della Casa della Legalità è stato bloccato per 12 ore... come racconta questa immagine.  

P.S. 2. Non vorremmo che si pensasse che sia una questione “ligure”. E se avevamo già indicato, in altre occasioni, fatti di altre realtà, oggi, riportiamo integralmente una Lettera Aperta che riguarda una vicenda che si è sviluppata nel nord-est, a Vicenza. Buona lettura...

Vicenza, 28-03-2013 Lettera aperta al sindaco di Vicenza Achille Variati. Egregio signor sindaco. Leggiamo su Vicenzapiu.com di ieri una notizia relativa alla rivitalizzazione di Campo Marzo [1] nella quale si fa menzione di Gian Giuseppe Carpenedo come referente della associazione Il Fiero. Con la quale il comune di Vicenza ha posto in essere una iniziativa tesa al rilancio di Campo Marzo. Circa le iniziative de "Il Fiero" l'albo notizie del comune di Vicenza riporta notizie di tenore simile e alla data 4 ottobre 2012 [2] e alla data del 13 novembre 2012 [3]. In quest'ultima circostanza l'assessore al decentramento Massimo Pecori dichiara: «Non solo i cittadini potranno godere delle novità de “Il Fiero” in questo fine settimana, ma anche i turisti i cui autobus fermano proprio nell'esedra di Campo Marzo... Sabato e domenica l'occasione sarà ancora più ricca grazie alla presenza della “Confraternita della Quaglia di Levà” di Montecchio Precalcino che preparerà lo spiedo di quaglie, piatto tipico locale che va ad integrarsi con i prodotti esposti nelle bancarelle de “Il Fiero” che per questa seconda edizione saranno 70 e nelle quali si potranno trovare nuove proposte rispetto all'edizione precedente». Da numerosi articoli di stampa del 2011, anche stampa nazionale, risulta che un tale di nome Gian Giuseppe Carpenedo è stato arrestato nell'ambito di una vicenda per gravi fatti di camorra [4]. In data 12 dicembre 2011 il sito internet de Il Giornale di Vicenza [5] riporta che sempre tale Carpenedo verrà mandato «presto a processo». Orbene, in considerazione di quanto evidenziato sopra chiediamo al sindaco Variati anzitutto una cosa. Di sapere se il Carpenedo coinvolto nelle iniziative di rivitalizzazione del centro cittadino sia o meno lo stesso finito nelle cronache riguardanti gravissimi fatti di camorra. Qualora sia vero chiediamo al sindaco se egli sia a conoscenza dell'esito o dello stato del procedimento o dei procedimenti a carico di Carpenedo. Inoltre qualora fosse appurato l'abbinamento tra il Carpenedo oggetto delle indagini della magistratura e quello in rapporti con l'amministrazione, chiediamo a Variati se consideri la cosa opportuna o meno per l'amministrazione comunale. Abbiamo deciso di porre un quesito del genere al primo cittadino anche in ragione di altre situazioni da chiarire che hanno avuto luogo in passato. Ci riferiamo alla iniziativa antimafia patrocinata dal comune e avvenuta sotto l'egida dell'associazione Libera. Di tale evento si trova traccia sempre nell'albo notizie del comune di Vicenza [6] e vieppiù anche nel portale web della stessa Libera [7]. Dalla lettura dei due bollettini si evince che hanno partecipato all'evento del 25 febbraio 2011 l’assessore allo sport del comune di Vicenza Umberto Nicolai, il referente regionale di Libera coordinamento Veneto don Luigi Tellatin, il consigliere comunale Raffaele Colombara e il presidente del Vicenza Calcio del tempo Danilo Preto. Per quest'ultimo il sito de Il Giornale di Vicenza in data 16 ottobre 2009 [8] parla di una inchiesta della magistratura siciliana che lo accuserebbe di avere custodito i beni di una famiglia mafiosa.

Anche alla luce di tutto ciò ci aspettiamo dal sindaco una rapida risposta. Franca Equizi, SOS Vicenza giustizia e legalità.

Insulti Da Un E-Mail Di Libera... Ma Noi Guardiamo Avanti, scrive il 26 dicembre 2012 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. Ancora una volta apprendiamo di messaggi interni alla “rete” di LIBERA perché escono dalla “riservatezza” delle loro comunicazioni ed approdano sul web. Noi non abbiamo mai “insultato” nessuno di LIBERA. Abbiamo espresso critiche, anche forti, ed abbiamo sempre indicato con precisione fatti e circostanze. Abbiamo, su questo, chiesto chiarimenti e confronto. Senza mai ricevere risposta. Saremo fatti male ma a noi non interessa “colpire” o “distruggere” LIBERA, bensì che questa torni all'origine, ovvero struttura indipendente e libera da condizionamenti di politica ed imprese. Abbiamo anche detto che non vi è nulla di male a farsi “struttura” di parte, come è, negli anni, purtroppo, divenuta LIBERA, ma questa scelta, crediamo, per correttezza, dovrebbe essere ammessa e non negata. Fatta questa premessa, veniamo al dunque di questa nuova “uscita” di LIBERA, con questa “nota interna”...Duole constatare che "Libera" non voglia accettare che possano esistere realtà autonome e indipendenti dalla sua "rete" e che esistano altri metodi di azione per la prevenzione ed il contrasto delle mafie e della loro rete di relazioni e complicità. La logica per cui chi ha metodi diversi dai propri deve essere considerato un “cattivo” è preoccupante e non ci appartiene. Ben venga l'impegno "culturale". Per noi questo, per la realtà che ci circonda ed in cui viviamo, è però un impegno insufficiente. Come Casa della Legalità consideriamo legittimo ed anzi un arricchimento che vi siano realtà diverse e metodi diversi di impegno, per loro pare, invece, che la sola idea che ci siano "altri", oltre a Libera, produca una profonda intolleranza. Noi, pur avendo ricevuto insulti e calunnie da esponenti di Libera non abbiamo, sino ad ora, mai pensato di querelare. Abbiamo risposto, in alcuni casi anche pubblicamente, ma tenendo fermo un principio: non ci si fa la guerra quando si è sullo stesso fronte! Abbiamo indicato diverse volte, in modo articolato e documentato, fatti su cui chiedevamo a Libera di fare chiarezza. In altre occasioni abbiamo segnalato distorsioni pesanti. Mai abbiamo diffamato o calunniato alcuno. Hanno ritenuto, anziché rispondere nel merito delle questioni politiche poste, di promuovere "tre" querele nei nostri confronti? Ad oggi non ci è arrivata nemmeno una notifica in merito, ma siamo pronti a discuterne anche nelle sedi giudiziarie scelte da don Luigi Ciotti e Nando Dalla Chiesa, a quanto si apprende. Ed ancora: noi saremo "egoisti"? Noi? Come Casa della Legalità non abbiamo mai chiesto a nessuno una contropartita per ciò che abbiamo fatto per sostenerli o aiutarli. MAI! Non abbiamo chiesto nulla di materiale e nemmeno "atti di fede". Non abbiamo mai "usato" nemmeno la nostra cedibilità per fare campagne elettorali. Ogni volta che era necessario siamo corsi, ovunque ci chiamavano, compatibilmente con i pochi mezzi a disposizione. Abbiamo fatto sempre tutto il necessario per aiutare chi ci chiedeva aiuto e per tutelare anche nell'anonimato chi faceva segnalazioni. Abbiamo messo in contatto vittime e testimoni con chi di dovere. Chiunque ci chieda contributi di idee e progetti, proposte li riceve gratis, non in cambio di "consulenze" o "contributi". Ci siamo sempre assunti la responsabilità, sulle nostre spalle, senza mai nasconderci. Non ci abbiamo guadagnato un euro! Ogni risorsa giunta con le donazioni (tutte elencate sul sito) è stata usata per le attività! Ci si esposti quando era necessario per smuovere le acque, a viso aperto... garantendo così ancora maggiori coperture a chi stava collaborando e "sbloccando" inchieste che qualcuno non voleva far andare avanti. Ci abbiamo guadagnato due condanne a morte, una per il Presidente della Casa della Legalità ed una per il Referente di Imperia. E questo sarebbe "egoismo"? Non diciamo fesserie! Sul fatto che il Presidente della Casa della Legalità sia "inaffidabile", la miglior risposta sono i risultati raggiunti in questi anni di attività, portata avanti senza contributi pubblici e senza padrini politici... senza mai “strabismi” che piegassero le denunce e le attività ad opportunismi di qualsivoglia natura. Se per loro essere "inaffidabili" è avere il coraggio di denunciare nelle piazze, sul web, ma anche nelle opportune sedi, senza distorsioni, anche gli intrecci che coinvolgono quella parte politica e imprenditoriale tanto amica di Libera, allora sì, la Casa della Legalità, e non solo Abbondanza, è "inaffidabile"! Crediamo che sia il tempo che si incominci a capire che legittimamente esistono diverse realtà che operano con metodi diversi. Loro hanno inseguito e costruito una sorta di “monopolio” sul tema, noi no e non ci interessa questa strategia ed anzi riteniamo che più realtà ci siano, impegnate, anche con metodi diversi, ma comuni obiettivi, siano un “aiuto” nel perseguire l'obiettivo della prevenzione e del contrasto alle mafie ed alla cultura mafiosa. Le critiche sono stimolo per migliorarsi, per correggere gli errori che tutti, noi come anche Libera, possiamo commettere... ma tentare di delegittimare chi la pensa e agisce diversamente etichettandolo come "inaffidabile", è una vecchia pratica, di un vecchio stile, che onestamente non ci appartiene e che non vogliamo adottare. Noi non operiamo per "cancellare" gli altri che combattono, come noi, le mafie e le loro collusioni. Possiamo non essere d'accordo sui metodi o sui contenuti, ma non ci siamo mai posti l'obiettivo di "cancellarli", di "oscurarli" e "isolarli". Mai ci siamo posti l'obiettivo di costruire in noi una sorta di "monopolio". Anzi: abbiamo reputato di costruire una realtà, pronta a collaborare con altri, che fosse "strumento" per chi ha voglia di fare, di impegnarsi concretamente. Forse si ritiene "inaccettabile la nostra idea di "lavoro" in rete tra diversi piuttosto che l'essere tutti "nella stessa rete"? Forse è questo, ma noi restiamo convinti che, ad esempio, sulla partita dei beni confiscati non sia giusto che vi sia una sorta di monopolio di "Libera" e gli altri, tutti gli altri, se non si fanno parte di Libera, sono esclusi. Non siamo d'accordo perché è un segnale pessimo. Non siamo d'accordo perché crediamo che il riutilizzo dei beni confiscati debba vedere la compartecipazione di più soggetti, perché il segnale (oltre che il progetto di gestione) diventa più forte! Quando abbiamo mosso critiche, anche pesanti, erano su fatti ed elementi ben precisi, e mai volte a delegittimare (vedi ad esempio qui)! Elementi, tra l'altro, confermati anche da altre realtà attive nel Paese. Se, ad esempio, abbiamo detto che non riteniamo opportuno (oltre che credibile) sostenere e ringraziare Burlando per la lotta alla mafia che porta avanti in Liguria (come ha fatto Libera recentemente), lo abbiamo sottolineato perché Burlando è uno di coloro che le porte le ha spalancate alle imprese mafiose in questa regione e non gli si può offrire alcun “paravento”. Ed ancora, se abbiamo detto che Libera doveva prendere le distanze da Bertaina, ad esempio, a Camporosso, perché non è “credibile” nel promuovere un “progetto legalità” in quei territori, non è per distruggere Libera, ma per impedire che la strumentalizzazione della lotta alla mafia promossa da Bertaina si perpetuasse. Ed ancora, in ultimo, un esempio: se abbiamo detto che a Savona, Libera doveva chiarire come faceva la CISL che manifestava con e per i FOTIA ad essere parte di Libera, è perché se si promuovono manifestazioni contro un provvedimento interdittivo antimafia non si può, secondo noi, essere dentro alla “rete” di Libera. Ecco, noi siamo "laici" e quindi affrontiamo laicamente anche la questione della lotta alla mafia, per la legalità e la Giustizia. Allo stesso modo, laicamente, guardiamo al mondo della cosiddetta "antimafia". Non possiamo tacere ciò va detto o plasmarlo per fare un favore a qualcuno o per questioni di opportunismo. Se vi sono distorsioni, anche nell'antimafia, crediamo vadano dette. Se le si nasconde non le si affronta e quindi non le si risolve. Ed allora, forse, è proprio questa nostra "laicità" che non viene digerita... perché, ad esempio, è quella ci ha fatto dire che non avremmo partecipato alla "fiaccolata per la legalità" di Libera a Sanremo anni fa. Non lo abbiamo detto per "antipatia" ma perché non riteniamo che si potesse sfilare insieme a partiti complici di frequentazioni indecenti e di candidature viziate dai contatti e patti con esponenti della 'ndrangheta. Non ritenevamo possibile e credibile che in testa a quella manifestazione promossa Libera vi fossero gli allora sindaci Bosio di Bordighera e Scullino di Ventimiglia, i due sindaci mandati poi a casa per le infiltrazioni ed i condizionamenti mafiosi sulle loro amministrazioni. Noi non siamo "ecumenici", siamo "laici" e forse è proprio, davvero, questo, che non si sopporta di noi! Don Ciotti promuove spesso l'invito ad assumersi ognuno un pezzo di responsabilità. Noi lo abbiamo fatto da tempo. Lasciati soli anche da Libera. Così è stato quando andammo allo scontro per far giungere lo scioglimento di Bordighera o, poi, quello del Comune di Ventimiglia, così come quando si sono indicati, puntando l'indice, i mafiosi conclamati del savonese che per decenni avevano visto garantitagli una sorta di vergognosa impunità... ed ancora, per fare due esempi, quando indicammo i problemi che vi erano, evidenti e devastanti, nella magistratura, sin dentro alla DDA di Genova, o l'assurdo che amministrazioni pubbliche che tanto si riempivano la bocca di lotta alla mafia, come quelle genovesi, anche in occasione della Giornata della Memoria e dell'Impegno, fossero quelle stesse amministrazioni che ritardavano di anni l'adozione della Stazione Unica Appaltante proposta dal Prefetto Musolino e continuando a dare lavori ad imprese intedette o sotto inchiesta con informative "atipiche". Noi la nostra parte di responsabilità, su questo e molto altro, ce le siamo assunte, caro Don Ciotti, altri possono dire altrettanto? Non è questione di chi ha fatto di più o di meno. Non ci interessa. Non è una corsa a premi. E' questione di riconoscere il dovuto rispetto agli "altri", anche se profondamente diversi, per il lavoro fatto. Questo lo pretendiamo per noi e per gli altri! Si vuole guardare avanti? Noi guardiamo sempre avanti. Ci interessano i risultati che si possono (e devono) raggiungere! Non abbiamo tempo da perdere, il lavoro da fare è tanto e non possiamo permetterci di perdere alcun istante. Se si vuole un confronto, come abbiamo già detto in più occasioni, noi siamo disponibili. Se ci si vuole "omologare" o “annientare” invece no! Per questo, da parte nostra, rispondiamo all'invito di SavonaNews, con: sì, ad un confronto serio siamo disponibili, lo auspichiamo da anni, senza, purtroppo, risposta alcuna!

P.S. Se poi per "cattivi" ed "inaffidabili" si intende invece che si è osato chiedere che LIBERA rigettasse ogni forma di strumentalizzazione da parte della politica e delle grandi cooperative, che da un lato fanno tanti begli slogan antimafia, dando anche nutriti contributi economici, mentre dall'altro poi danno appalti o subappalti a imprese di mafia, allora sì, siamo molto "cattivi" e totalmente "inaffidabili", e lo saremo ancora, perché la lotta alla mafia si fa, secondo noi, coerentemente, in modo credibile, indipendente e senza fare sconti a nessuno, senza mai cedere a strabismi... altrimenti, se la si fa per fare "paravento" a qualcuno, si fanno solo, ulteriori, gravi danni! Noi per andare avanti non abbiamo sponsor e contributi pubblici da ogni dove, anche da amministrazioni ed imprese non proprio limpide, come invece ha LIBERA. Facciamo fatica ad andare avanti con le sole donazioni di persone semplici... Ma andiamo avanti con DIGNITA' e concretezza. Se si fa business con merchandising d'ogni tipo si è "buoni" e se invece si fatica nel tirare avanti, giorno per giorno, si è "cattivi"? Se questa è la domanda, noi preferiamo essere "cattivi" perché non "sfruttiamo" (e mai sfrutteremo) la lotta alle mafie e per la Giustizia.

P.S. 2 Noi non mandiamo in giro e-mail in cui insultiamo gli esponenti di LIBERA. Quando avevamo delle critiche (su fatti specifici e mai su simpatie o antipatie personali) li abbiamo sempre detti e scritti alla luce del sole e mai con l'intento di "distruggere" o "screditare", ma solo con il fine di un confronto, di avere risposte, di promuovere una riflessione utile a tutti! Anche questa è una differenza di "metodo", ma forse anche qualcosa in più!

P.S. 3 Per dovere di precisione poi, sarebbe anche opportuno che Don Ciotti - se corrisponde al vero quanto a lui attribuito nel testo dell'e-mail della "rete" di LIBERA - spiegasse meglio le ragioni per cui le strade tra LIBERA e la CASA DELLA LEGALITA' si sono separate. Infatti, come tra l'altro ben documentato da Bruno Lugaro sul blog di TrucioliSavonesi anni fa, LIBERA scelse in Liguria di cosituirsi con il "blocco rosso" color cemento, proprio quel blocco che la CASA DELLA LEGALITA' combatteva da anni perché strettamente "complice" nel negazionismo e delle infiltrazioni dilaganti in Liguria. LIBERA scelse di farsi ingurgitare dal "blocco" del Partito del Cemento (e definiva "destabilizzante" la Casa della Legalità). Noi non ci siamo stati e le strade si separarono. Forse raccontata così, cioè come andò davvero, è più corretto, ci pare!

Ecco il testo "interno" della "rete" di LIBERA di cui siamo venuti a conoscenza grazie a SavonaNews: Care e cari, venerdì mattina si è riunita a Roma l'assise dei referenti regionali di LIBERA. Presente la Presidenza Nazionale e la grand parte dei referenti dei territori (con eccezione dell'Emilia Romagna). Luigi Ciotti ha introdotto i lavori parlando della crisi sociale del Paese e dell'imminente campagna elettorale: saremo chiamati - ci dice Don Luigi - a dare respiro alle proposte importanti e sostenere la Buona Politica contro tutti coloro i quali ci tireranno per la giacchetta, tentando di USARCI. Si riparte da tre temi: la CONTINUITA' del nostro impegno, la CORRESPONSABILITA', il MORSO del PIU'. Ciotti ha quindi fatto riferimento a quanti nell'antimafia sociale o dentro la stessa rete di Libera non aiutano nella sfida di lotta culturale contro le mafie, creando divisioni o favorendo forme pericolese di egoismo: tra questi "cattivi" ha citato anche Cristian Abbondanza della Casa della Legalità, per cui è segnalata la richiesta presso il Ministero di richiesta di assegnazione di protezione, LIBERA Liguria ha firmato l'appello.  Don Luigi ha però inteso precisare: LIBERA NON PUO' SOTTRARSI DAL TUTELARE LA DIGNITA' DEI SUOI DIRIGENTI, ATTACCATI IN MODO INGIUSTO: ECCO PERCHE' RIBADISCE CHE UNA PERSONA INAFFIDABILE NON POTEVA RESTARE DENTRO LA NOSTRA RETE e NON SI POTEVA FARE A MENO di QUERELARLA NELLE TRE OCCASIONI IN CUI, nel corso di questi anni, HA AVANZATO ACCUSE PRIVE DI FONDAMENTO nei CONFRONTI SUOI E DI DALLA CHIESA.

“LIBERA” Di Nome Ma Non Di Fatto Rappresenta Un Problema Politico, scrive il 15 luglio 2012 Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità e della Cultura, Associazione Antimafia Nazionale. E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia? Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi...Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene. Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...Non è in discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare...Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che dà a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza. Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso. Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti. Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi. Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro... Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita.

A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania.

A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti.

Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime. Ma Libera non è una struttura indipendente? No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera!

Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria.

A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia.

Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante!

Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso!

Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania.

A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato.

Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...

Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”. Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”?

A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza... A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero? 2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, dà il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante? Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso. Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no? Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato!

Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti? Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera? La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.

In che senso “grande illusione”? Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe. Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi. Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...

Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione.

Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro?

Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”!

Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! 

La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.

Ma allora Libera...Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. 

Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.

Ma siete gli unici a dire queste cose? Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si dà voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera? Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...

A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata!

A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...

Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione? Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.

Franco La Torre: "Don Ciotti irrispettoso e autoritario. L'antimafia di Libera ha fallito alcuni obiettivi", scrive l'1/12/2015 "L'Huffingtonpost.it". "Sono stato cacciato nemmeno con una telefonata ma con un sms di don Luigi Ciotti. Perbacco, ho 60 anni e penso di meritare rispetto e buona educazione". La voce di Franco La Torre è pacata, il fraseggio elegante e misurato. Eppure non si capacita della rottura clamorosa con il fondatore di Libera, che l'ha allontanato dall'associazione e persino dalla cura del premio dedicato al padre Pio La Torre, il politico Pci ucciso nel 1982 a Palermo dalla mafia. Una vicenda che scuote il mondo dell'antimafia perché Franco La Torre è uno dei nomi più altisonanti nella battaglia alla criminalità organizzata: "Don Ciotti è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario, questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio ma io un padre ce l'ho e me lo tengo stretto", dice al telefono con l'HuffPost. Tutto è cominciato con un intervento all'assemblea generale di Libera il 7 novembre ad Assisi. Dal palco, apertamente, La Torre aveva sollevato questioni imbarazzanti come la mancata comprensione di Mafia Capitale o le problematiche di Palermo, dove in pochi mesi un simbolo dell'antimafia come il presidente di Confindustria Sicilia è finito sotto inchiesta per rapporti con Cosa Nostra mentre la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati ed è stata intercettata mentre sproloquia contro la famiglia Borsellino. E Libera non si era accorta di nulla, o almeno questa è la lettura di La Torre. Dopo qualche giorno un secco messaggio di don Ciotti: "Si è rotto il rapporto di fiducia". Poi il nulla. La Torre è categorico: "Una modalità impropria e irrispettosa: di quale fiducia parliamo se si può neutralizzare con un messaggio di 140 caratteri?"

Cacciato da Libera. Ha capito il motivo?

«Provo un grande dolore per questa vicenda. Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi, posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all'assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia. E invece nonostante i miei numerosi tentativi per il momento ho saputo che don Ciotti non desidera parlare con me, o forse lo farà prossimamente. Chissà».

Perché ha mosso critiche a Libera? Cosa non va nell'associazione?

«Libera è cresciuta in maniera straordinaria grazie a don Luigi e alle migliaia di attivisti che lavorano volontariamente a livello locale. Ma anche la mafia è cambiata negli ultimi anni. Le classi dominanti che noi chiamiamo mafia hanno assunto caratteristiche differenti e basti guardare all'inchiesta Mafia Capitale. Ecco, all'interno di Libera eravamo molto concentrati su Ostia, dove avevamo fatto un ottimo lavoro, ma abbiamo perso la visuale d'insieme che invece è stata compresa perfettamente dal procuratore Pignatone. Purtroppo avevamo sottovalutato il fenomeno così come abbiamo sottovalutato i casi della giudice Segato a Palermo. Da quel palco ad Assisi ho detto che dovevamo alzare l'asticella».

Ha accusato Libera di mancanza di democrazia interna. Questa caratteristica è legata alla mancata comprensione della nuova mafia?

«La crescita vertiginosa di Libera non ha permesso il rafforzamento, la formazione e la selezione di una classe dirigente. Non vedo i criteri di alcune nomine dall'alto, poiché penso che una persona debba essere testata sul campo prima di affidarle un compito dirigenziale. Allo stesso tempo se in pochi mesi cinque figure di primo piano si allontanano allora significa che occorre rivedere gli schemi. A don Ciotti forse non è piaciuto che lo dicessi così apertamente: gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma ma è un personaggio paternalistico con tratti autoritari».

Libera non è più all'altezza del suo compito?

«L'associazione ha dei meriti enormi, a partire dalla lotta per i beni confiscati. Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Don Luigi proprio a causa di queste inefficienze è costretto a occuparsi in prima persona di assemblee provinciali e regionali e troppi in Libera sono ancora convinti che "tanto c'è don Luigi". Ma fino a quando porterà la croce? Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità».

Si è dimesso anche dal premio intitolato a suo padre, Pio La Torre. Lo lascerà in mano a Libera?

«Il premio Pio La Torre è libero e indipendente ma per comprendere cosa succederà dovrebbe chiederlo ai referenti di Libera».

Se don Ciotti dovesse tornare sulla propria decisione?

Ho raccontato la mia verità e probabilmente devo fare anch'io autocritica. Sulla vicenda della mafia ad Ostia non sono stato presente e avrei dovuto dare una mano. Io mi auguro di parlare presto con don Luigi, queste sono le mie idee e se non siamo d'accordo possiamo anche dividerci ma non capisco perché la discordanza di vedute debba portare a un litigio che ricorda le rabbie famigliari e non certo un'associazione matura come dovrebbe essere questa. Credo che l'antimafia debba compiere un salto ulteriore per continuare a svolgere il suo compito importante. E' una grande opportunità, spero che a Libera sappiano coglierla».

Dopo il prete cosiddetto antimafia parliamo dello scrittore cosiddetto antimafia.

M COME MAFIA DELLA MASSONERIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “MASSONERIOPOLI”. Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

M COME MAFIA DEI MEDIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “MEDIOPOLI”. Un libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.

Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.

Cos’è la cultura? Solo un “libretto di istruzioni”…, scrive Corrado Ocone il 26 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Antonio Genovesi, allievo di Vico, teologo, maestro dell’illuminismo napoletano, filosofo eclettico. Usò la scienza anche per studiare il commercio. Sabato a Vatolla, in provincia di Salerno, nel castello De Vargas ove soggiornò per più anni Giambattista Vico, alle ore 19, si è svolto il convegno Opportunità, pace e ricchezza. Il libero commercio dalle lezioni di economia di Antonio Genovesi ad oggi.  Sono intervenuti Corrado Ocone e Lorenzo Infantino (moderati da Antonluca Cuoco). È stata l’occasione per ricordare Genovesi, allievo di Vico e padre dell’illuminismo napoletano, pensatore di calibro europeo del tutto dimenticato. Qui un suo profilo. Una decina di anni fa la casa editrice dell’Università di Cambridge pubblicò un documentato volume (mai tradotto in italiano) di un noto storico inglese, John Robertson, in cui si stabiliva un legame, intellettuale ma anche concreto e pratico (le idee e i libri circolavano con molta rapidità nella settecentesca “repubblica delle lettere”), fra l’illuminismo scozzese e quello napoletano. Gli esponenti di entrambi, al contrario degli illuministi francesi, temperavano infatti il culto della Ragione con un istintivo senso storico e (almeno negli scozzesi) con una profonda venatura scettica. Credo che, pur con i dovuti limiti, questa tipizzazione valga anche per Antonio Genovesi, il padre dell’illuminismo napoletano. Se non proprio scettico, egli, che aveva una formazione filosofica e teologica (era lui stesso un sacerdote), anzi propriamente metafisica, era sicuramente un eclettico: possedeva una solida cultura classica, e insieme una vasta conoscenza degli autori moderni e a lui contemporanei, ma riteneva che elementi di verità fossero nel pensiero di ogni filosofo e che era saggio prendere il meglio da più parti. Quanto al senso storico, Genovesi lo aveva sicuramente appreso anche alla scuola di Giambattista Vico, che, essendosi trasferito a Napoli venticinquenne nel 1738 (era nato a Castiglione, in provincia di Salerno, il primo novembre 1713), fece in tempo a frequentare (l’autore della “Scienza nuova” sarebbe poi morto nello stesso anno in cui fu pubblicata l’edizione definitiva del suo capolavoro: il 1744). È ai primi anni Cinquanta del secolo che è databile quella “svolta” negli interessi di Genovesi (nell’Autobiografia egli parlerà di “sbalzo”) che lo porterà rapidamente a tralasciare gli studi di metafisica e teologia e ad occuparsi quasi esclusivamente di economia. Certo, si trattava della scienza del momento, legata all’intensificarsi dei commerci e allo sviluppo economico degli Stati europei, ma l’affermarsi dell’economia era il portato anche, più radicalmente, dello spirito immanentistico connesso all’età moderna (Benedetto Croce avrebbe parlato della “scoperta” settecentesca delle due “scienza mondane”, cioè l’estetica e appunto l’economia). Napoli, città di porto e cosmopolita per quanto con un retroterra arretrato e semifeudale (la vasta provincia del Regno borbonico), partecipava in pieno al moto di idee che da Parigi alla Gran Bretagna percorreva l’Europa: l’abate Ferdinando Galiani, altro esponente di spicco dell’illuminismo partenopeo, nel 1751 aveva pubblicato il trattato Della moneta che gli avrebbe presto dato fama europea. Genovesi, da parte sua, da un lato, concludeva nel 1752, con la pubblicazione dell’ultimo tomo, il suo trattato di Metafisica, che non pochi problemi gli aveva dato con la censura regia e soprattutto ecclesiastica; dall’altro, maturava delle idee del tutto nuove sullo scopo della sua attività di studioso che ne avrebbero fatto in poco tempo, come lui stesso ebbe a dire, da filosofo e metafisico un “mercatante”. In questo processo lo agevolò certamente l’essere entrato a far parte del circolo, e anzi nelle grazie, di un illuminato mercante e mecenate toscano trapiantato a Napoli, Bartolomeo Intieri. Il quale, consapevole, nello spirito dei lumi, della necessità di formare una classe dirigente su idee nuove e praticamente utili, finanziò e affidò al nostro una cattedra di “meccanica e economia” all’Università di Napoli (probabilmente la prima cattedra di economia al mondo). Il 5 novembre 1754, con grande successo, parlando a braccio, Genovesi tenne la memorabile prolusione con cui inaugurava il suo corso, le cui idee sistemò poi nel Ragionamento sul commercio in generale (1757), Le sue Lezioni di commercio o sia d’economia civile, pubblicate per la prima volta nel 1765, diventeranno un classico e saranno tradotte e discusse in mezza Europa. E’ difficile, almeno per me, giudicare la validità e forza delle idee economiche di Genovesi, né tantomeno la loro possibile “attualità”: un tema, quest’ultimo, che il senso storico mi porterebbe a consigliare di affrontare con molta cautela. Non manca però chi (ad esempio Stefano Zamagni), mutuando da Genovesi e dagli altri illuministi napoletani l’espressione “economia civile”, vede oggi nelle sue idee un’alternativa al pensiero economico puro o classico, basato sull’idea di un homo aeconomicus inteso a perseguire razionalmente il proprio interesse. In effetti, è sicuramente vero che i temi etici nel pensiero di Genovesi si intrecciano a quelli più propriamente economici e finiscono per dare ad essi il tono e la sostanza. È pur vero, tuttavia, che, stando almeno a certi passi delle sue opere, la natura non meramente altruistica dell’uomo gli era, senza moralismi di sorta, molto chiara. Tanto che lo stesso concetto di “reciprocità” che, secondo lui, è alla base dello scambio mercantile, conserva a mio avviso un che di utilitaristico che non lo discosta troppo dall’impostazione che sarà data qualche decennio dopo di lui da Adam Smith. Anche l’autore della Ricchezza delle nazioni (1776) aveva, fra l’altro, parlato della “fiducia” (“pubblica”) che è alla base del rapporto economico, occupandosene nell’opera filosofica che è da considerarsi come la premessa teorica del suo capolavoro: la Teoria dei sentimenti morali (1759). Mi sembra che ci troviamo di fronte a motivi propri dell’epoca, di un periodo in cui l’economia non aveva del tutto sviluppato quell’autonomia dalle altre scienze che è stata poi, nei secoli a seguire, il motivo del suo successo ma anche della sua crisi attuale. Tipicamente illuministico è anche il tema della “felicità”, che, sulla scia di Genovesi, gli illuministi napoletani hanno sviluppato e diffuso nel mondo (di esso se ne trovano echi evidenti, per il tramite di Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, nella stessa Costituzione americana). Anche in questo caso, il pensiero di Genovesi, legato in senso stretto alle virtù morali e civili, non presenta quegli aspetti utilitaristici che ritroveremo in seguito fra gli economisti. Ad ogni modo, a me sembra particolarmente interessante considerare anche la concezione della cultura e dei fini o dello scopo del lavoro intellettuale che aveva il nostro e che, anche per questa parte, lo trova completamente aderente allo spirito del suo tempo, cioè all’illuminismo. Il riferimento in questo caso è soprattutto il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che egli compose nell’autunno del 1753 nella casa di villeggiatura di Intieri dalle parti di Vico Equense e pubblicò l’anno dopo poco prima che iniziassero i suoi corsi di economia. In esso egli prese di mira i filosofi, e i “cento e cento altri dialettici e metafisici” che, “per sette e più secoli… fecero a gara a chi potesse essere più ferace in inutili immaginazioni ed astrazioni”. Il loro compito sarebbe stato invece quello di dare “rischiaramento e aiuto” ai popoli e soprattutto ai governanti che avrebbero dovuto guidare gli Stati secondo i dettami della pura ragione. Come si vede, qui c’è una netta presa di distanza da quegli interessi metafisici che lo avevano impegnato, quasi come per liberarsene con cognizione, nella prima fase della sua attività. Il rapporto fra scienza e prassi è stabilito in maniera netta: le scienze da preferire e studiare saranno quelle utili a migliorare e a “incivilire” il popolo umano. In effetti, la scienza scopre, da una parte, certe “verità” nella realtà e, dall’altro, le propone ai saggi legislatori del “dispotismo illuminato” che le “applicano”, anche con l’ausilio della tecnica, all’azione. Questa concezione del mondo come un libro che noi dobbiamo solo leggere e interpretare (secondo l’espressione di Galileo Galilei), della verità come “rispecchiamento” e della prassi come “applicazione” è quella che successivamente il pensiero occidentale post- illuministico metterà per lo più in discussione. Essa, infatti, tendenzialmente, lascia poco spazio alla libertà, cioè all’inventiva e imprevedibile creatività umana. Da un lato, Marx tenderà a risolvere le contraddizioni teoriche immediatamente nell’agire pratico (“non si tratta di capire il mondo ma da trasformarlo”); dall’altra, i liberali tenderanno a scindere l’attività culturale, per sua natura disinteressata, da quella pratica volta a raggiungere un fine di utilità. L’enorme fiducia nella cultura, istillata nei napoletani da Genovesi e a seguire dagli altri esponenti della cultura illuministica cittadina (lo stesso Filangieri, Francesco Maria Pagano o il suo allievo prediletto Giuseppe Maria Galanti) avrà, anche simbolicamente, il suo esito finale nel fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Una classe politico- intellettuale che si affida alla cultura e alla morale senza fare i conti con la maturità del popolo e con la situazione in cui deve operare, constaterà amaramente Vincenzo Cuoco (allievo di Galanti) è destinata a fallire e a rimanere nella storia come mera per quanto nobile testimonianza. Ovviamente, Genovesi non fece in tempo a vedere i fumi della Rivoluzione (era morto a Napoli il 22 settembre 1769) ma nella sua personalità si rispecchiano in maniera così tipica i pregi e le virtù del suo tempo, molto più che in altri pensatori stranieri, che, per noi italiani, è veramente assurdo non conoscerne e aver dimenticato la sua lezione.

"Giù le mani dall’informazione", i giornalisti italiani pronti a mobilitarsi contro gli attacchi alla Costituzione. Scrive il 10 ottobre 2018 la FEDERAZIONE NAZIONALE DELLA STAMPA ITALIANA su "Articolo 21". «È in atto un tentativo di indebolire la democrazia al quale dobbiamo rispondere compatti», è l’appello del segretario Lorusso. «Serve una grande iniziativa pubblica», incalza il presidente Giulietti. «Preoccupa il metodo», rileva Vittorio Di Trapani (Usigrai). Carlo Verna (Cnog): «Di Maio chieda scusa». «L’attacco ai giornalisti del gruppo Gedi è solo l’ultimo episodio di una serie di attacchi alla libertà di informazione che tradisce il vero obiettivo di questa campagna: indebolire l’articolo 21 e tutti i valori contenuti nella prima parte della Costituzione. Un attacco da respingere con forza, tutti insieme». Con queste parole il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, ha aperto la conferenza stampa convocata nella sede del sindacato dopo le polemiche innescate dall’anatema del vicepremier Di Maio contro Repubblica e l’Espresso. «In Italia, come negli Usa, in Turchia, Ungheria e in altri Paesi del mondo, il potere politico vuole abolire i corpi intermedi, annichilire il dissenso e il pensiero critico, rendere i cittadini sempre più sudditi. In sintesi: chi, come Di Maio, attacca i giornali lo fa per smantellare la democrazia liberale e trasformarla in qualcosa che non è democrazia, perché illiberale e autoritaria. E anche gli attacchi all’Ordine dei giornalisti vanno letti in questa ottica», ha insistito Lorusso. Minacce di abrogare l’Ordine, minacce di tagliare i contributi all’editoria (che sostengono le cooperative editoriali e le pubblicazioni no-profit), minacce di togliere ai giornali la pubblicità delle aziende partecipate, nessun provvedimento contro il precariato nel settore del giornalismo, critiche addirittura al sistema degli ammortizzatori sociali nel settore dell’editoria: «Tutti tasselli che compongono lo schema di un attacco all’informazione e alla democrazia che sulla stampa libera si regge. Dobbiamo reagire a questa situazione con forza e compatti», ha ribadito il segretario della Fnsi. Dalla conferenza stampa, alla quale hanno aderito l’Ordine dei giornalisti, l’Usigrai, numerosi Comitati di redazione, l’associazione Articolo21 e i giornalisti della Rete NoBavaglio, sono partite due proposte: «Rispondiamo agli attacchi come hanno fatto negli Stati Uniti, dove, la scorsa estate, centinaia di testate hanno risposto al presidente Trump pubblicando lo stesso giorno un editoriale sul valore e sul ruolo della stampa». E «prepariamo una grande iniziativa pubblica in cui coinvolgere non soltanto giornalisti, ma anche associazioni, organizzazioni e cittadini che sono i destinatari del nostro lavoro. È a loro che serve il nostro lavoro, è con loro che dobbiamo mobilitarci», ha riassunto il presidente Giulietti. «È in atto un attacco senza precedenti alla Costituzione. Quella che viviamo è una vera emergenza democratica. Non a caso il presidente Mattarella ha sentito più volte l’esigenza di richiamare l’attenzione sul ruolo del giornalismo e della stampa libera», ha incalzato Giulietti, che ha poi ricordato la vicenda di Monfalcone, il proiettile recapitato a Claudio Fava e la giornalista Tina Merlin, che per il suo lavoro di denuncia prima della tragedia del Vajont fu diffamata, denigrata ed emarginata. «Da pubblicista iscritto all’Ordine della Campania, Di Maio chieda scusa», ha detto il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, presente insieme con la vicepresidente Elisabetta Cosci, con il segretario nazionale Guido D’Ubaldo, con il tesoriere Nicola Marini e con i presidenti di numerosi Ordini regionali. «Siamo qui per ribadire vicinanza ai colleghi Gruppo Gedi, ma anche per reagire compatti a questo attacco. Siamo preoccupati per la tenuta democratica del Paese e non piegheremo la schiena. Ci ripensino prima che sia troppo tardi e che si arrivi allo scontro tra chi difende i valori della democrazia e chi vuole abolirli», ha concluso Verna. Anche per il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani, la vicenda «non riguarda solo i giornalisti del gruppo Gedi, ma tutta l’informazione. Quando attaccano un giornale, quel giornale va difeso da tutti. La solidarietà non può fermarsi ai recinti aziendali. Quello che preoccupa è il metodo: l’Ordine apre un procedimento su Casalino? Abroghiamo l’Ordine. I giornali criticano il governo? Chiudiamoli. I giornalisti raccontano verità scomode? Sono tutte fake news. Volevano liberare la Rai dai partiti, l’hanno occupata come tutti gli altri prima di loro», ha evidenziato. Un appello a reagire compatti è arrivato anche da Maurizio Di Schino, segretario dell’Ucsi. Marco Patucchi, del Cdr di Repubblica, ed Emanuele Cohen, del Cdr dell’Espresso, hanno ringraziato i colleghi degli altri Comitati di redazione per la solidarietà. Daniele De Salvo del Coordinamento dei Cdr del gruppo Poligrafici Editoriale ha chiamato in causa anche gli editori, «perché facciano la loro parte nel difendere il lavoro dei giornalisti, la libera informazione e il diritto dei cittadini ad essere informati», ha detto.

Quanta confusione fa Di Maio sul giornalismo in Italia. Il Ministro, parlando della crisi di giornali come Repubblica, chiama in causa le fake news. Ma il problema è molto più complesso, scrive l'8 ottobre 2018 su "Wired.it. Barbara D’Amico, datajournalist, appassionata di economia, agricoltura e innovazione, ho fondato Viz&Chips per rendere digeribili dati e statistiche che voi umani...Il giornalismo è morto? E merita di morire? Per capirlo e per capire quali sarebbero le conseguenze dobbiamo partire dalla fonte. In questo caso, un’esternazione molto lucida e a favore di camera di Luigi Di Maio, vice presidente del Consiglio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico: “Per fortuna ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale e dalle fake news dei giornali e si stanno vaccinando tanti altri cittadini, tant’è vero che stanno morendo parecchi giornali, tra cui quelli del Gruppo l’Espresso che, mi dispiace per i lavoratori, stanno addirittura mettendo, avviando dei processi di esuberi al loro interno. Perché? Perché nessuno li legge più in quanto ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà” (la Repubblica). La frase ha scatenato una polemica molto aspra tra le testate del Gruppo GEDI (il Gruppo l’Espresso non esiste più da due anni), come la Repubblica e l’Espresso, e Di Maio che di fatto ha attaccato con un mezzo sorrisetto queste redazioni, colpevoli in sostanza – secondo l’esponente del Governo – di dire falsità sulle politiche, sulla nota al DEF e su tanti altri fatti, sottolineando il dispiacere per le procedure di esubero a carico dei lavoratori delle testate, cioè i giornalisti. Prima di analizzare le vere ragioni della crisi dei giornali – ma sarebbe più corretto parlare di crisi dell’informazione – partiamo da un elemento: Di Maio è proprio a capo di quel ministero, lo Sviluppo Economico, che in teoria deve fare da intercapedine e facilitatore nelle vertenze tra lavoratori e aziende, anche in quelle editoriali, per evitare che si perdano posti di lavoro (ad esempio allestendo, per i casi più gravi, i cosiddetti tavoli di crisi). Non sfuggirà dunque che il principale garante delle soluzioni pro-occupazione abbia in sostanza differenziato i giornalisti da tutti gli altri lavoratori: in quanto addetti all’informazione, meritano il licenziamento e gli esuberi anche quando causati dalla presunta incompetenza. Insomma, sono un po’ meno lavoratori degli altri.  Fossero stati metalmeccanici buoni per farsi qualche foto fuori dai cancelli delle fabbriche per ragioni di propaganda, almeno avrebbero ricevuto un tweet di solidarietà. Invece, ecco un bel video-sfottò. Se Di Maio avesse davvero voglia di fare il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, dovrebbe riportare un minimo di attenzione al rispetto delle norme sul lavoro giornalistico prima ancora di affrontare il problema delle fake news. Perché sulla tenuta della libertà di informazione e della professionalità del settore si devono semmai trovare soluzioni, non gufare perché le redazioni si autodistruggano. Se mai dovesse accadere, ma non accadrà, ci troveremmo nella stessa condizione in cui si trova oggi Bruxelles: la capitale istituzionale dell’Europa in cui le informazioni di quelle stesse istituzioni provengono, da una decina d’anni, praticamente da agenzie interne e quindi “di parte” anziché da organi indipendenti (agenzia stampa, collaboratori, inviati ecc…). E in Italia, come siamo messi oggi? Male. Il giornalismo in Italia è precario. Lo dicono i dati che l’INPGI – la cassa previdenziale della categoria – ha divulgato a fine maggio 2018. In cinque anni l’informazione ha perso 2704 posti di lavoro: mentre la disoccupazione totale in Italia diminuiva, nel giornalismo ha continuato e continua a scavare una fossa profonda. Inoltre, dei “posti” che ci sono, praticamente quasi tutti sono coperti da freelance: nel 2016 risultavano iscritti all’Ordine dei Giornalisti 104 mila 51 giornalisti ma di questi solo 15 mila 876 avevano un contratto di collaborazione giornalistica. Certo, magari tanti sono in pensione e altri hanno preso il patentino per passione (stima che siano circa 35 mila i giornalisti attivi), sta di fatto che la stragrande maggioranza fattura meno di 20 mila euro l’anno.  Non ha senso dire se i giornalisti in Italia siano tanti o pochi, perché dipende dalla qualità del loro lavoro e dalla capacità di coprire un territorio vasto e complesso che ha anche una dimensione europea. La qualità dell’informazione è direttamente proporzionale alla sua capacità di emergere e di essere verificata. Con la produzione di informazione “aggiunta” via big data e social, non esiste più una soglia definibile di forza lavoro necessaria. Ecco perché sarebbe opportuno creare condizioni per maggior occupazione proprio nel nostro settore. Il motivo è legato al disguido tra giornalismo e comunicazione, di cui parliamo tra poco.  È vero però quello che dice Di Maio sulle procedure di esubero. Ciclicamente alcune testate nazionali italiane, e molte locali, entrano in stato di crisi o affrontano situazioni al limite del tollerabile (vedi i contratti di solidarietà: per evitare di licenziare si riduce un po’ lo stipendio o l’orario di lavoro a tutti). Questa condizione purtroppo è diventata cronica a partire dagli anni Duemila e si è incistata con il tracollo economico del 2008. Come mai? Davvero la gente non legge più? Davvero i giornalisti italiani sono tutti bufalari? Non del tutto: una ragione, lo abbiamo visto, sta nei dati sul mercato del lavoro. L’altro, nella sicuramente difficile condizione economica di realtà che però non possono essere considerate alla stregua di una qualunque impresa commerciale: l’informazione verificata è un bene democratico, prima che economico. Non è mai stato e non è necessariamente profittevole. Ma è necessario, proprio come il trasporto pubblico. Ed eccoci al disguido. C’è un altro elemento, più problematico, nell’esternazione di Di Maio – che, per altro, non stupisce: il Movimento Cinque Stelle è sempre stato contro la stampa, fa parte del suo modo d’essere e pazienza -. Questo elemento, dicevamo, è più sottile e ha a che fare con un disguido comune. Questo: il giornalismo, prima di essere una professione, è un metodo, ma per colpa del precariato, del lassismo e del non rispetto di questo metodo proprio da parte di chi ha il dovere di osservarlo, il giornalismo italiano si è sempre più sovrapposto all’attività di comunicazione tout court (quella di parte, per conto di un gruppo, di una persona, di un’azienda, di un sistema di interessi). Detto in modo più semplice: il metodo consiste nella verifica, nell’analisi e nella traduzione comprensibile a un pubblico non specialistico di dati, fatti, eventi, non nell’avere il tesserino da giornalista, che in realtà dovrebbe certificare proprio la padronanza del suddetto metodo. Metodo abbastanza rigido, fatto di norme giuridiche e deontologiche (potete sbirciarle qui) e che si è arricchito di fasi e procedure di verifica grazie soprattutto a Internet e all’emersione online di un flusso complesso di informazione. Per avere un’idea di cosa sia il metodo giornalistico oggi è consigliabile la lettura del The Verification Handbook. Se poi volete un assaggio di cosa si cerca di fare per innovare il settore, questa lettura di Mario Tedeschini Lalli è utile. Quando si abdica a una o più fasi di questo metodo, e si riportano pedissequamente frasi, dati, eventi, fatti senza contesto né verifica, il giornalismo non può più definirsi tale. È al massimo infotainment o comunicazione di parte (nel senso che è per conto di una parte, un gruppo, una campagna, un sistema di interessi, un’idea, una posizione). Leciti, ma diversi dal servizio pubblico. Mettere in pratica il metodo richiede preparazione, ma soprattutto mezzi e investimenti. La mia categoria è una categoria disgraziata perché ha usato negli anni la scusa “dell’Internet” e della tecnologia ICT come baluardo per giustificare il lassismo sul metodo. Che si è allentato, ma attenzione: continua ad essere applicato. Oggi in una stessa testata convivono infotainment e giornalismo. Poi, siamo d’accordo, c’è anche e purtroppo il giornalismo sciatto, fatto tanto per, spesso sacrificato per colpa di stipendi o compensi non pagati o pagati da fame. Ma queste sono questioni strutturali, interne che richiedono interventi di politica del lavoro e non dovrebbero ricadere sul lettore. Meno che mai giustificare macchine del fango, superficialità ed errori. Il problema è che quando i mezzi si riducono, e ci si rilassa sul metodo, diventa ancora più difficile verificare i vari stadi della disinformazione e garantire informazione di qualità. Ecco, quando Di Maio parla di fake news in realtà sta dicendo: quei giornali chiudono (ma non è vero nemmeno questo), perché non riportano pedissequamente quello che viene propagandato. E, inconsapevolmente, il ministro ammette la vera causa della crisi dei giornali: e cioè la crisi del metodo, del giornalismo che riportando troppo spesso e senza contesto quello che le forze politiche hanno propagandato, sono stati giustamente criticati dai lettori e puniti in certi momenti dal mercato. L’illogicità della frase Di Maio sta tutta qui, nel rivendicare come causa della crisi del giornalismo esattamente l’atteggiamento che il ministro vorrebbe assumessero i giornali perché tornino a fare informazione di qualità: megafono, ufficio stampa, zero domande, niente contraddittorio. La Repubblica e l’Espresso sono testate che hanno raccontato, facendoli emergere, scandali politici ed economici che hanno segnato il nostro tempo. Si può criticare la linea di un giornale, ma non evocarne la chiusura o dire “eh bè, se te la sei cercata, cavoli tuoi”. Potrei elencare una lista infinita di collaboratori, inchieste e servizi che hanno davvero il tenore del servizio pubblico, ma se non sono emersi e se solo in pochi se ne ricordano è colpa nostra: non siamo stati abbastanza bravi nel distribuirli, nel rivendicare la professionalità del metodo tra tanto sciattume. Ma pretendere di ridurre il giornalismo al portavoce di turno è qualcosa di inaccettabile: se si vuole una informazione giusta, allora si deve partire proprio dalla proposta di soluzioni pro-metodo. Non pro-megafono. I lettori sono intelligenti, conoscono la differenza.

Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio, scrive l'08/10/18 Libreidee. «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potereche “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda. Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia– messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica– il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto. Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler). «Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate. Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storiadel deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli. Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal poterevaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social mediae motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico. «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda. Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano regolarmente eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Mario Calabresi, apre il fazzoletto. Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler). «Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macché, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate. Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e sembra auspicare il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da post-giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli. Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmesura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di tutelare i diritti religiosi dei càtari, oltre che degli ebrei. “Desmesura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social mediae motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. Ed è proprio quell’Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.

Difendo Luigi Di Maio. Non è populista ogni attenzione al popolo, scrive Angelo Cannatà il 11 ottobre 2018 su micromega-online di repubblica.it. Di Maio sbaglia i congiuntivi, Di Maio è demagogo, Di Maio è populista, Di Maio puzza. Tutti contro Di Maio, i giornaloni, reo di aver voluto la prima finanziaria attenta agli ultimi e non ai benestanti. Certo, qualche ingenuità l’ha commessa. Luigi Di Maio è giovane e ha tutto il tempo per imparare che certi errori vanno evitati: non si arringa la folla dai balconi, non si attaccano i giornali, eccetera, se non altro per non alimentare paragoni – ridicoli – con Mussolini. Ciò detto, vediamoli da vicino i detrattori del ministro. Repubblica è stato un giornale importante: denunciava e attaccava con forza: nella loggia P2 c’è Sindona, “Non stupisce - commenta Scalfari - perché Dio li fa e poi li accoppia. Gelli e Sindona sono personaggi della stessa pasta, versati entrambi nell’intrigo finanziario e politico e nell’arte della corruzione” (Repubblica, 10-5-81). E’ il frammento di una denuncia che scosse la coscienza della nazione. E’ difficile polemizzare con chi incarna, da mezzo secolo, parte importante del giornalismo italiano. Così come dispiace prendere le distanze da Michele Serra. Ricordo la mattina in cui arrivai al liceo in sala docenti - primi anni Novanta - col numero di Cuore e la “notizia”: “Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti”. Sublime. Fui circondato dai colleghi e partì un cazzeggio infinito. Bellissimo. E tuttavia negli ultimi tempi qualcosa non va. Domenica 30 settembre, per es., sia Scalfari che Serra attaccano il governo. Legittimo. Ma con quali argomenti? “Quanto all’Italia - dice Scalfari - siamo in un Paese che ha una dittatura non soltanto di fatto (quella c’è già) ma di diritto.” Il Fondatore ha conosciuto la dittatura vera, fascista, che uccise Matteotti, votò le leggi razziali e portò il Paese in guerra, e definisce dittatura un governo democratico che aumenta il deficit dall’1,6 al 2,4 per cento. Sbaglio se scrivo che è un’esagerazione? Di più: è un errore insistere su un “rinnovato” partito della sinistra guidato dai “soliti nomi”, Gentiloni, Zanda, Calenda, Renzi. Molti sono scappati dal Pd proprio perché traditi da questa cosiddetta classe dirigente. Il tema è colto con lucidità da Carlo Feltrinelli: la sinistra “non sempre ha operato per la giustizia sociale, ha tentennato sui principi e spesso li ha traditi” (Repubblica, 28 settembre). E’ così. Hanno tradito i principi e non ha senso demonizzare i grillini: occupano lo spazio (diritti, equità, eguaglianza) lasciato vuoto dal Pd. Michele Serra dice che “il reddito di cittadinanza è cosa giusta ma i 5Stelle non sono di sinistra” perché sforano decimali di deficit. Non è così: proprio perché è cosa giusta i poveri vanno aiutati (anche) portando il deficit a 2,4. Infine. E’ una brutta pagina l’uscita di Di Maio contro Repubblica, ma anche il quotidiano di Calabresi deve aggiustare il tiro: non si nasconde “l’inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti… usata per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti”. Roba che Scalfari, quello antologizzato nel Meridiano Mondadori La passione dell’etica, avrebbe fatto esplodere uno scandalo, proprio perché De Benedetti è l’editore di Repubblica. E allora, ecco cinque punti su cui tutti i protagonisti dovrebbero riflettere: 

1. Un ministro non può attaccare i giornali. Ha ragione Flores d’Arcais: alle critiche della stampa chi governa risponde con l’azione riformatrice. 

2. Di Maio ha peccato d’inopportunità ma ha detto verità più volte denunciate dal Fatto. 

3. Repubblica s’è comporta davvero, spesso, come giornale-partito: governativo con Letta-Renzi-Gentiloni; all’attacco contro i “pericolosi” gialloverdi. 

4. A Largo Fochetti non dovrebbero recitare il ruolo di vittime: la solidarietà ricevuta non esclude la critica al modo in cui fanno politica. 

5. Contestare un ministro per alcune dichiarazioni non significa disconoscerne l’azione politica: la critica – quando non c’è faziosità – non è un atto ostile. 

Sono dati oggettivi e principi di buon senso. Evidenziarli è utile, il buon senso è rivoluzionario se, irrazionalmente, dilaga il tifo per la propria squadra dietro la maschera della neutralità. 

Travaglio unico nel fare giornalismo, scrive Giovanni Coviello fondatore VicenzaPiu.com il 10 ottobre 2018. Fare giornali non è un'impresa facile soprattutto in Italia e non di questi giorni ma da molti anni, da quando di fatto sono ben pochi gli editori indipendenti. Tanto per capirci un editore è indipendente se non ha attività imprenditoriali e/o politiche a cui il suo giornale (stampato, televisivo, online...) possa far comodo portandolo a valutare i suoi risultati non solo su base economica, spesso da anni negativa, ma per gli "aiutini" che la sua linea editoriale può dare agli altri suoi affari. È per questo che, visto che ci siamo costruiti la possibilità di essere editori di noi stessi (una "sfortuna" economicamente, una "fortuna" per i lettori ci premano anche con gli abbonamenti) ci piace seguire Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio, un non simpatico ma grade professionista, non ha padroni di riferimento che non siano alcuni suoi giornalisti, qualche investitore che non ha altri business che non l'informazione e, soprattutto, i suoi lettori. Un giornale così libero (Libero come  è di Angelucci, re delle cliniche private e dei giornali... collegati cioè, oltre a Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria, di Siena, di Arezzo, di Viterbo e di Rieti) che, pur essendo più "piccolo",  per la gioia dei lettori può fregarsene della RCS (Il Corriere della Sera e Gazzetta dello sport di Urbano Cairo, finanziato, però da Intesa Sanpaolo che è anche il secondo azionista dopo Confindustria de Il Sole 24 Ore), ovviamente dei giornali (e tv) della famiglia Berlusconi e di quelli della famiglia Caltagirone (Il Gazzettino, Il Messaggero, la Gazzetta del sud...), per non parlare di quelli (La Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia...) dell'imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo alla sbarra in un processo per concorso esterno all'associazione mafiosa, ma soprattutto del gruppo Gedi dell'accoppiata De Benedetti - eredi Agnelli (Espresso più la Repubblica più La Stampa + Il Secolo XIX più la catena locale dei quotidiani Finegil tra cui Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia, La tribuna di Treviso...). L'elenco dei giornali "dipendenti", serviti da giornalisti "dipendenti" o precari che siano, continuerebbe a dismisura a parte il gruppo dell'editore Riffeser Monti (Il Giorno, la Nazione, Il Resto del Carlino e, cioè, i quotidiani QN) e poche altre eccezioni. I quotidiani più locali (alcuni che fanno capo a gruppi nazionali o para nazionali li abbiamo già citati) non sfuggono alla regola dell'editore impuro. È perciò che noi non ci divertiamo ma abbiamo l'obbligo di far sapere ai lettori, per tutelarne la conoscenza delle fonti a cui si rivolgono per informarsi dei fatti e farsene opinioni, a chi fanno capo i media locali. Se quelli spiccatamente locali sono solo Il Giornale di Vicenza e Tva, che appartengono a Confindustria Vicenza (il secondo direttamente, il primo tramite una società controllata anche da Confindustria Verona) la nostra attenzione, per quanto localmente "piccoli" (numericamente ma sempre meno), come "piccolo" (numericamente ma sempre meno) è Il Fatto Quotidiano rispetto ai colossi dell'editoria padronale nazionale, si concentra su di loro e sulle loro interpretazioni (libere per diritto giornalistico ma non sempre indipendenti dalla proprietà editoriale) dei fatti se non addirittura, come spesso avviene, della loro distorsione se non cancellazione. Per fare esempi non esaustivi ma chiari per le tre suddette caratteristiche citiamo:

- l'interpretazione della convenienza di opere come la Tac Tav e della Pedemontana Veneta (tra i proprietari del GdV e di Tva ci sono quelli che ne traggono e ne trarrebbero utili per loro);

- la distorsione della realtà come per gli ancora recenti e sanguinanti osanna perenni alla Banca Popolare di Vicenza, dei cui vertici facevano parte i vertici di Confindustria sponsorizzati dagli imprenditori amici, e come per gli atti delittuosi e gli immigrati, che nella realtà diminuiscono ma che ci vengono fatti percepire come fattori ogni giorno in crescita di una Vicenza terreno barbaro di lotte per bande, preferibilmente africane e mussulmane, per cui uno scippo diventa terrore di un quartiere (i proprietari del GdV e di Tva hanno come referenti molti politici che sono bravi ad agitare gli spettri della paura e dei mal di pancia, un po' meno a costruire una città meno provinciale e più moderna);

- la cancellazione di fattacci come quelli dei morti e dei feriti sul lavoro (specialmente se sono quelli di aziende come la Marlane Marzotto, i cui nomi o parti di nomi sono oggetto solo di ossequi, e allora due dita mozzate a un gambiano alla Ferretto meritano solo uno sperduto riquadrino); come le pene attuali e future degli impoveriti dal crac della BPVi osannata; come la sodomizzazione della Fondazione Roi; come le denunce intimidatorie ad alcuni, ovviamente pochi coraggiosi, giornalisti, e non parlo solo di me.

Allora ecco il perché del titolo "Travaglio unico per fare giornalismo". Sì, è un travaglio unico farlo bene in Italia e a Vicenza, ma è unico Marco Travaglio nel saperlo denunciare con nomi e cognomi e con fatti e dimenticanze ma anche nel volerlo e saperlo difendere, quello condiviso e quello combattuto, da chi, come Luigi Di Maio, vorrebbe fare a meno di tutto il giornalismo non amico o non servo. Vi proponiamo, quindi, un editoriale di Travaglio, unico anch'esso nell'elencare le opinioni smaccatamente non di parte, è lecito, ma facinorose, i favoritismi e gli oblii dei quotidiani di De Benedetti Elkann ma anche unico e coraggioso nel difendere la Repubblica, La Stampa & c. dalle minacce inaccettabili di un vice ministro come Di Maio. Come li difende è evidenziato in grassetto nell'articolo di sotto riportato, mentre noi, seppure con interno... travaglio, per sostanziare l'ammirazione nei suoi confronti (professionali e non per identità di vedute, spesso diverse), proviamo a difendere l'esistenza di GdV e Tva parafrasando la difesa di Marco Travaglio: Hanno fatto questo e altro, i giornali di Confindustria Vicenza, ma noi vogliamo che continuino a proporsi ai lettori/telespettatori per tre motivi. 1) Nessun deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, ma di sicuro può darle agli editori e ai direttori che li costringono, per loro evidente stato bisogno in assenza di alternative economiche, a servire gli interessi della proprietà e non i lettori 2) Quando VicenzaPiù subisce attacchi ben peggiori delle pagelle dal sistema locale e dai suoi killer, non ci giunge alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché tutti continuiamo ad esistere, la gente può notare la differenza.

Da un travaglio può nascere qualcosa di bello ed è per un po' di quel bello che noi accettiamo il travaglio di fare Giornalismo: è bello il post travaglio. 

La differenza di Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano.

Hanno scritto di un'intercettazione fra Rosario Crocetta che taceva divertito mentre un amico medico auspicava l'assassinio di Lucia Borsellino come quello del padre Paolo, e non era vero. Hanno scritto di troll russi dietro la campagna web contro Mattarella, e non era vero. Hanno scritto che il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, nel caso Consip, era stato "smascherato come impostore e falsario di passaggi politicamente significativi dell'inchiesta"; e aveva "consegnato a Marco Lillo la notizia del coinvolgimento di Del Sette", insomma era lui "la mano che dà da mangiare al Fatto" per "far cadere Renzi" (fra l'altro già caduto da solo), ma non era vero; e, quando la Cassazione scagionò Scafarto per i suoi "errori involontari", si scordarono di informarne i lettori. Hanno scritto che Di Maio situava Matera in Puglia anziché in Basilicata, e non era vero. Hanno scritto che l'Italia, se rinunciasse al Tav Torino-Lione, dovrebbe pagare "penali" miliardarie, e non è vero (glielo fece notare l'ex pm Livio Pepino in una lettera, ma non la pubblicarono). Hanno scritto che Marcello Foa, aspirante presidente Rai, è un fabbricante di fake news tant'è che ha scritto un libro per "spiegare come si falsifica l'informazione al servizio dei governi", ma non è vero (il suo Gli stregoni della notizia, al contrario, smonta le fake news al servizio dei governi). Hanno scritto che c'è la Russia di Putin dietro le fake news filo-M5S&Lega, e non era vero.

Hanno scritto che il premier Conte voleva trasferirsi dalla cattedra di Firenze a quella di Roma con un concorso "confezionato su misura", e non era vero (il bando era standard). Hanno taciuto sulla tesi di dottorato in larghe parti copiata dalla Madia. Hanno nascosto la bocciatura del Jobs Act di Renzi dalla Corte costituzionale ("Lavoro, su Jobs Act e Cig si ritorna al passato": nessun riferimento nella titolazione alla Consulta e all'incostituzionalità). Hanno nascosto, mentre tutti gli altri giornali ne parlavano, l'inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti sul decreto Banche popolari, usata dall'Ingegnere per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti, forse perché troppo impegnati a fare decine di titoli su "Spelacchio" (un albero di Natale). Hanno fatto il taglia e cuci dei messaggi di Di Maio alla Raggi per spacciarlo come "bugiardo" e "garante" di Raffaele Marra in Campidoglio, mentre ne sollecitava il trasferimento. Hanno taciuto per giorni il nome dei Benetton, primi azionisti della concessionaria Autostrade (sponsor de La Repubblica delle Idee), dopo il crollo del Ponte Morandi.

Hanno scritto che il ponte era crollato anche per il no del M5S alla Gronda, che però fu bloccata da chi governava città e regione (centrosinistra e centrodestra) e per giunta contemplava l'uso del viadotto Morandi. Hanno scritto di probabili legami con la Casaleggio di tal Beatrice Di Maio e delle sue fake news anti-renziane e non si sono mai scusati quando si è scoperto che era la moglie di Brunetta. Hanno accostato le leggi razziali del fascismo al decreto Sicurezza di Salvini. Hanno pubblicato una bozza apocrifa e superata del contratto di governo giallo-verde facendo credere che prevedesse l'uscita dell'Italia dall'euro e scatenando spread e mercati. Hanno nascosto il sequestro di 150 milioni e di due giornali all'amico editore-costruttore catanese Ciancio Sanfilippo. Hanno spacciato lo scandalo Parnasi come una storia di tangenti al M5S, mentre i partiti finanziati dal costruttore sono gli altri (Pd, Lega e FI). Hanno elogiato Monti quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020 e massacrato la Raggi quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Hanno scritto che le polizze intestate dal dirigente Romeo all'ignara Raggi celavano "tesoretti segreti" per "garantire un serbatoio di voti a destra", dunque era "vicina" l'"accusa di corruzione", ma non era vero. Hanno dipinto l'assessora Paola Muraro come infiltrata di Mafia Capitale e della "destraccia" nella giunta capitolina, salvo poi intervistarla dopo le dimissioni come grande esperta di rifiuti. Hanno nascosto l'attacco di Rondolino, che sull'Unità dava del "mafiosetto di quartiere" a Saviano, reo di aver criticato la Boschi, mentre il Fatto restò solo a difenderlo. Hanno minimizzato le epurazioni dalla Rai renziana di Gabanelli, Giannini e Giletti come ordinaria amministrazione.

Hanno fatto questo e altro, i giornali del gruppo Gedi (Repubblica-Espresso-Stampa), ma noi siamo solidali con loro per gli attacchi di Di Maio, per tre motivi. 1) Nessun politico deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, tantopiù se sta al vertice del governo. 2) Quando il Fatto subiva trattamenti anche peggiori da Renzi e dai suoi killer, non ci giunse alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché usciamo tutti in edicola, la gente può notare la differenza.

Ps. Per la serie "Chiamate la neuro", segnaliamo i delirii di Carlo Bonini (Repubblica) all'autorevole Radio Cusano Campus: "Il Fatto Quotidiano specifica che non prende alcun finanziamento pubblico? È una furbizia. Siccome i lettori del Fatto sono in buona parte elettori del M5S, è un modo per raffigurare ai lettori del M5S che la terra è tonda e non quadrata, dopodiché la terra è tonda". Il pover'uomo ignora che il Fatto è nato prima del M5S e la nostra scelta di non ricevere finanziamenti pubblici prescinde dalle intenzioni di voto dei nostri lettori (peraltro note solo a lui). Volendo, Bonini potrebbe raccontarci degli aiuti statali (o a spese degli altri giornalisti) ricevuti dal suo gruppo per contratti di solidarietà, prepensionamenti & affini. E regalarci una delle sue grandi inchieste sui vertici Gedi indagati per una truffa milionaria all'Inps.

Eppure…nonostante Travaglio....

Editoria: Cdr Il Fatto, informazione libera interesse Paese, solidali con Gedi, scrive Adnkronos il 7 Ottobre 2018. “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i […] Roma, 7 ott. (AdnKronos) – “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i Comitati di redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it. “Quando giornali e siti di informazione chiudono, dichiarano esuberi o sono costretti a contratti di solidarietà, a rimetterci non sono solo i giornalisti ma anche il pluralismo e quindi la democrazia”, si legge nella nota del Cdr. “Il mercato editoriale e quello pubblicitario vivono situazioni di estrema difficoltà, connesse anche alle trasformazioni tecnologiche e al peso dei colossi della rete e dei trust televisivi, che un vicepremier e ministro del Lavoro senz’altro conosce, o almeno dovrebbe conoscere, meglio di noi. E’ inaccettabile che Luigi Di Maio liquidi i problemi di un importante gruppo come Gedi che edita Repubblica, L’Espresso, La Stampa e altre testate, sostenendo che “nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”, con offensivi riferimenti a “bufale” e “fake news” e cioè a una linea editoriale che non gli piace”, si sottolinea nella nota.

La chiamano libertà di stampa ma è tifoseria organizzata. Gli attacchi quotidiani rivolti all'esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d'intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l'approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio, scrive Ernesto Ferrante il 9 ottobre 2018 su opinione-pubblica.com. Lo scontro tra alcune componenti del governo giallo-verde e i feudatari della carta stampata è giunto ad un livello particolarmente cruento. Gli attacchi quotidiani rivolti all’esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d’intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l’approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio. Conte, preso ancora una volta di mira per il curriculum, presunti conflitti d’interessi e non dimostrata illegittimità del concorso con cui è diventato professore ordinario nel 2002, ha replicato con una lettera aperta al direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Dopo aver sottolineato che “la libertà di stampa è un bene di primaria importanza sul piano assiologico, perché costituisce il fondamento di qualsivoglia sistema democratico”, il premier ha incalzato Calabresi con due sottili domande: “Si può sollecitare una discussione invitando Lei e i Suoi giornalisti a valutare se Voi stessi siate davvero consapevoli di quanto preziosa sia la libertà di espressione e di quali implicazioni l’amministrazione di questo “bene pubblico” comporti sul piano delle responsabilità ?”. E ancora: “Siamo sicuri che le difficoltà con cui attualmente si sta confrontando un po’ tutta la carta stampata siano da ricondurre ai nuovi strumenti info-telematici e non anche, quantomeno in parte, alla rinuncia a coltivare più rigorosamente il proprio mestiere, fidando nell’approfondimento critico delle notizie e nella verifica rigorosa delle fonti?”. Il professore ha rinnovato l’invito al direttore di Repubblica ad avere “un confronto sul momento attuale che sta vivendo la carta stampata, sullo stato dell’informazione e su altre rilevanti questioni per il nostro sistema democratico”, chiarendo anche l’unica condizione posta: che si possa video-registrare l’incontro “in modo che avvenga in piena trasparenza e che di esso sia reso partecipe il più ampio pubblico”. Confronto a cui, stando a quanto ha scritto il presidente del Consiglio, Calabresi si è sottratto, in questi mesi. Meno articolata ma decisamente più veemente è stata la presa di posizione di Luigi Di Maio che attraverso una diretta Facebook, si è scagliato contro i giornali che sistematicamente criticano la maggioranza, ridicolizzandone alcuni esponenti. “Per fortuna, ha detto Di Maio, ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini, tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali tra cui quelli del Gruppo L’Espresso che, mi dispiace per i lavoratori, stanno addirittura avviando dei processi di esuberi al loro interno perché nessuno li legge più, perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. L’impulsività ha portato il ministro del Lavoro a fare un po’ di confusione, prestando il fianco alle critiche del Gruppo Gedi, il colosso nato dall’integrazione di Itedi (Italiana Editrice) e Gruppo L’Espresso che controlla la Repubblica, la Stampa, il Secolo XIX e i vari giornali locali di Finegil, come Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara, La Provincia Pavese e la Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, La Nuova Venezia e Mestre, la Tribuna di Treviso e il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e Il Piccolo e il trisettimanale La Sentinella del Canavese. Il leader del M5S, nello scontro con la carta stampata che fa rumore e tendenza, paga anche il conto di una scelta strategicamente sbagliata del Movimento, quella dell’abolizione indiscriminata dei contributi pubblici erogati dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio. Gli aiuti diretti, che non esistono più già da qualche anno, permettevano la sopravvivenza dei “piccoli”, ovvero i giornali “politici”, quelli delle cooperative di giornalisti e quelli delle minoranze linguistiche. L’ultimo governo Berlusconi e soprattutto gli esecutivi Monti e Letta, hanno progressivamente azzerato la contribuzione, decretando la fine di tante testate e del pluralismo vero e diffuso dell’informazione. I grandi, con editori impuri e grossi gruppi industriali alle spalle, hanno indirettamente beneficiato della campagna condotta dal Movimento Cinque Stelle e da Matteo Renzi. Dure critiche al vicepremier grillino sono state rivolte da Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana che hanno parlato di “insulti del vicepremier Luigi Di Maio ai giornalisti di Repubblica e dell’Espresso” che sarebbero “l’ennesima dimostrazione del disprezzo nutrito nei confronti dell’informazione libera e del ruolo che questa è chiamata a svolgere in ogni democrazia liberale”. “Di Maio, come del resto buona parte del governo, si legge ancora nella nota, sogna di cancellare ogni forma di pensiero critico e di dissenso e si illude di poter imporre una narrazione dell’Italia lontana dalla realtà. Auspicare la morte dei giornali non è degno di chi guida un Paese di solide tradizioni democratiche come è l’Italia, ma è tipico delle dittature. È bene che il vicepremier se ne faccia una ragione: non saranno le sue minacce e i suoi proclami a fermare i cronisti di Repubblica e dell’Espresso, ai quali va la solidarietà del sindacato dei giornalisti italiani, e a piegare il mondo dell’informazione ai suoi desiderata”. Una posizione, quella della Fnsi, che appare molto orientata politicamente contro l’attuale governo. Non ricordiamo simili toni con i governi precedenti, colpevoli di aver condannato alla disoccupazione migliaia di giornalisti, poligrafici, distributori ed edicolanti. A Di Maio ha risposto anche il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, parlando “di nuovi potenti, ovunque nel mondo” che “si sono accorti che grazie alle tecnologie possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode. Basta vendere ai cittadini l’illusione della comunicazione diretta, presentata come la più grande delle conquiste democratiche”, attacca Calabresi. “Siamo un giornale di opposizione, è vero, scrive ancora il direttore del quotidiano del colosso Gedi, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l’Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l’incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni”. Parole inequivocabili e pesanti che non ci sembrano di difesa della libertà di stampa ma di una posizione politica chiara, antitetica a quella del governo giallo-verde. Giornale di opposizione oggi ma di sostegno palese agli esecutivi guidati da Monti, Letta e Gentiloni. E morbido nelle critiche a Renzi. Cassa di risonanza di un ceto politico ed economico che non può certo definirsi popolare e di assetti di potere nazionali ed internazionali che mal digeriscono i cambiamenti di classe dirigente, legittimati a suon di voti dall’elettorato. “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici (ci avete mai pensato che sia Di Maio sia Salvini non hanno mai avuto altra busta paga nella vita che non fosse quella fatta con i soldi delle nostre tasse?), aggiunge ancora Mario Calabresi, rincarando la dose, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano”. La chiamano libertà di stampa ma a noi sembra più che altro tifoseria organizzata. Le consorterie finanziarie vogliono indebolire il governo e costringerlo alla resa per continuare con l’austerità e i sacrifici che oltre a rallentare la crescita del Paese, hanno eroso i risparmi delle famiglie. Tanti in queste ore inneggiano alla democrazia ma la vorrebbero di fatto sospendere a colpi di spread e di fluttuazioni finanziarie eterodirette per consentire il ritorno al timone degli sconfitti il 4 marzo scorso. Vogliono la cessione totale della sovranità e il governo del cambiamento, pur con i suoi difetti, è un ostacolo in tal senso.

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

Giornalismo o propaganda? Scrive Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma il 04 ottobre 2018. Ora il colera. L’ennesimo allarme sanitario infondato, impone una riflessione sulla dignità del giornalismo. È ora di scegliere da che parte stare. È necessario stabilire una volta per tutte quale è il limite oltre il tollerabile. Le norme ci sono, i codici deontologici anche, il sistema sanzionatorio è li ad aspettare di essere applicato. Cosa manca allora? Possibile davvero che un giornale si possa permettere periodicamente di lanciare allarmi sanitari, di seminare panico e di spargere menzogne senza subire conseguenze? Credo che di fronte all’ennesima prima pagina disgustosa di Libero la vera domanda sia: quale è il limite di falsità che bisogna superare in questo paese per smettere di continuare a definire giornalismo una certa stampa. È una domanda che giro ai consigli di disciplina dell’Ordine dei giornalisti che si troveranno, di nuovo, a dover esprimere un giudizio su un titolo come quello di oggi sul colera a Napoli portato dagli immigrati. Ma in realtà è una domanda che dovremmo porci tutti noi che facciamo questo mestiere. Quanto siamo disposti ancora a tollerare la violazione delle più elementari regole del mestiere prima di avere una reazione di dignità professionale? C’è un problema profondo di credibilità da recuperare, che viene affossata ogni volta che si propone una prima pagina come quella di oggi. Il tema dei migranti è quello che più di ogni altro riesce a stimolare il lavoro degli “spaventatori” di professione. Ci hanno parlato di imminenti diffusioni di epidemie di lebbra, di ebola, di tubercolosi. Da anni si ripete costante un allarme sanitario terrificante che se avesse un minimo fondamento, dovrebbe prevedere misure di profilassi severissime e riguarderebbe tutti noi. Ma chi si trova di fronte un titolo come quello sul colera come può non aver paura? Dicono che è la verità che è spaventosa, ma quali sono le prove della diffusione di queste malattie? Dove sono i riscontri agli allarmi continui che vengono diffusi attraverso questi messaggi terrorizzanti? Non basta trincerarsi dietro l’articolo 21 della costituzione. Qui non si tratta di libertà di opinione. Questa è propaganda che diffonde paura. Col giornalismo non ha nulla a che fare. Non sta a noi stabilire se viola il codice penale. Sta a noi stabilire se viola le regole fondanti del mestiere di giornalista, la ricerca della verità sostanziale dei fatti. Sta a noi decidere se questo è giornalismo o semplicemente propaganda.

M5S: "La Repubblica dell’inganno è indifendibile, questo non è giornalismo", scrive Silenzi e Falsità l'8 ottobre 2018. “Il direttore della "Repubblica dell’inganno", Mario Calabresi, stamani prova a difendere l’indifendibile con un imbarazzante editoriale pubblicato sul suo giornale”. Così il Movimento 5 Stelle in un post sul proprio blog ufficiale. “Che La Repubblica sia diventato un quotidiano di regime è sotto gli occhi di tutti, – prosegue il post – basti pensare che tra i senatori del Pd c’è Tommaso Cerno, fino allo scorso gennaio condirettore de La Repubblica. Ma il quotidiano "piddino" ha superato ogni limite ‘deontologico’: oltre ad essere fazioso, mentre un giornale dovrebbe essere sempre super partes, ha deciso di avviare una campagna denigratoria contro il MoVimento 5 Stelle. E lo fa sfornando continuamente fake news”. I 5Stelle elencano poi le “bufale e notizie infondate che minano l’informazione italiana” pubblicate dal quotidiano romano:

– La beffa fiscale: tasse più alte per 3,2 milioni di partite iva;

– Di Maio è garante di Marra la prova è nelle chat “Lui è uno dei miei, un servitore dello Stato”;

– I segnali tra grillini e Lega e l’incontro Salvini-Casaleggio contro le larghe intese;

– La Lega contro Salini dg Rai. Tg1, Di Maio vede Sangiuliano;

– Vaccini, Di Maio come Salvini: “No all’obbligo, siamo per le raccomandazioni”;

– Reddito di cittadinanza, ipotesi mini-sussidio: 300 euro al mese a 4 milioni di persone;

– Vitalizi, così è impantanata la riforma bandiera del M5S.

“Per non dimenticare – aggiungono – il video pubblicato da La Repubblica con gli applausi taroccati in occasione del funerale di Genova. Applausi destinati al Governo che La Repubblica ha montato e smontato per attribuirli invece al presidente Mattarella”. “Anche La Stampa, – proseguono i pentastellati – stesso gruppo editoriale de La Repubblica, è riuscita a dare linfa a questa meschina propaganda anti-M5S con la diffusione di una fake news sconcertante. Vi ricordate la storia di Beatrice Di Maio, che secondo la La Stampa era un account chiave della cyber propaganda del MoVimento? Dietro a quell’account, invece, c’era la moglie di Renato Brunetta”. “E questa sarebbe informazione? Con la pubblicazione di notizie false e intenzionalmente alterate viene fatto del male all’informazione e ai cittadini italiani. Con questo comportamento scorretto ed in mala fede La Repubblica danneggia gravemente l’interesse pubblico per dare linfa a interessi privati. Inoltre con la diffusione di notizie false viene destabilizzata l’informazione nel nostro Paese. Lasciatecelo dire: questo non è giornalismo, questa è solo propaganda di partito,” concludono.

Repubblica cieca, scrive il 10 ottobre 2018 Augusto Bassi su "Il giornale". «Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità». Questo il titolo del poderoso editoriale firmato Mario Calabresi. La cui parafrasi è: «Detestato Di Maio, ci stiamo cacando in braca: continueremo a taroccare la verità». La letterina di richiamo del direttore di Repubblica al leader dei 5Stelle metterebbe tenerezza, non facesse ribrezzo. Il dettato è infallibilmente pedestre, la cifra stilistica malconcia, e quanto ai contenuti vale ciò che già avevamo segnalato in passato: un genuino compendio della depravazione intellettuale e morale dei galoppini di un regime boccheggiante, chiamati con una pernacchia a fottere l’opinione pubblica e oggi furenti, frustrati all’idea di non poterla più penetrare neppure servendosi della pompetta; crucciati innanzi alla constatazione di essere diventati impotenti. La primitiva impalcatura dell’argomentare si basa su un trito trucco da cialtroni: calunniare come oscurantista chi si ribella all’oscurantismo della stampa garzona. E lo fa ancora e ancora e ancora alla stessa maniera: si maschera un interesse volgarmente opportunistico da nobile slancio democratico, rivendicando il pluralismo dell’informazione, la libertà di stampa. Ovvero si difende la libertà di usare la stampa a fini politici, contro il pluralismo. Per rendere potabile il veleno si accusa preventivamente la controparte di tutte le proprie alterazioni. Sapendo di essere agitatori di una campagna contro il governo, e contro i 5Stelle in particolare, che sta diventando ogni giorno più ossessiva e più aggressiva, si puntano le corna sulla controparte, accusandola di aggredire la stampa; sapendo di essere dispotici, si urla al fascismo; riconoscendosi avidi e meschini, si biasima la spilorceria d’animo; consci di essere scadenti, si taccia di semplificazione, di incompetenza; sapendosi falsi e conformisti, si annuncia di voler smontare falsità e luoghi comuni; sapendosi piromani della malafede che tutto prova a incenerire, si punta il dito sulle fiammate altrui. «Vogliono mandarci fuori strada, lo dicono e ripetono ogni volta che ne hanno occasione, in pubblico e in privato. Con una costanza e una rabbia che non ha precedenti»; «Siamo preoccupati per noi e per il Paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica»; «Per il potente che vuole liberarsi dalle critiche e vorrebbe solo giornali servizievoli che battono le mani sotto il balcone, quale migliore occasione che infilarsi in questo passaggio storico per aumentare le difficoltà?»; «il Movimento 5 Stelle non digerisce, non sopporta che la voce più ascoltata e diffusa della rete sia dalla prima pagina critica con loro. Siamo “pericolosi” proprio perchè Repubblica è leader in quello che considerano il loro territorio, la loro prateria»; «Chi disturba e insiste nel fare domande, nel mettere in evidenza contraddizioni, nello svelare errori e furbizie, deve essere messo fuori gioco. In fretta. Con qualunque mezzo». In queste poche righe c’è il male. Ancora. Ma non il genio diabolico di un oscuro e ragnato manipolatore, piuttosto la manifesta e dozzinale falsificazione del reale al servizio del padrone, incapace di vedere oltre le proprie corna. Il male nella sua banalità, il male cieco. Ignaro che la sua coda mefistofelicamente suina abbia bucato il camice da ministrante catto-progressista e sia visibile a chiunque butti l’occhio. O ancora il titolo che leggerete domani in edicola: «La manovra non piace a nessuno». Così è il giornalismo di Repubblica: indefinito. I rappresentati che hanno delegato ai propri rappresentanti le scelte politiche ed economiche in una democrazia rappresentativa e che stanno sopra il 60% dei consensi in tempo reale… sono nessuno. Provvidenzialmente, la doppia negazione rende giustizia: loro sono qualcuno; Repubblica è niente. Ogni frase «che continua a raccontare la verità» vergata “a occhi chiusi” da Calabresi porta l’impronta della mano, priva di pollice opponibile, che la verità ha da sempre goffamente cercato di rovesciare.

Se l'anti Salvini che la Lega vuole fuori dalla Rai è la "moglie perfetta": Cristina Parodi alla guerra. Ma come, ora a spaventare il Carroccio e far imbestialire i sodali del vicepremier è la giornalista e conduttrice sempre descritta come corretta, impeccabile, fredda? C'è molto di più, scrive l'11 ottobre 2018 su Tiscali Cristiano Sanna. Aldo Grasso, uno a cui è difficile che qualsiasi cosa passi in tv vada del tutto bene, e perciò critico temutissimo, una volta la definì "la moglie perfetta, l’impeccabile, cotonata, padrona di casa (ha scritto persino libri di galateo), tutta casa e lavoro, sempre inappuntabile mentre prepara la colazione per i figli, cura i fiori nel fine settimana, ritira gli abiti in tintoria, scrive i testi del suo programma, si sottopone mite al trucco e alla sartoria". Cristina Parodi non è una da cui ti aspetti la frase sbracata da reality show, la clip video con qualche insulto in una rissa televisiva da riguardare al computer per rendere la giornata lavorativa meno noiosa. O la scapezzolata "per finta" sotto l'ombrellone, a beneficio di cronaca rosa. Mai una frase fuori posto, look inappuntabile, casual chic nella più leggera delle ipotesi. E forse è per questo che ogni estate il paparazzo di turno che le ruba il topless estivo fa il colpaccio dell'anno, tanto è difficile trovarla disposta a scoprire uno dei corpi più invidiati del piccolo schermo. Ed ecco perché sorprende che la "moglie perfetta" (ma non solo, come vedremo) sia diventata nelle ultime ore la scomunicata numero uno dalla Lega Nord. Che ora la vuole fuori dalla Rai. Peccato commesso? Aver colpito il leader in persona, Matteo Salvini.

"Diventa potente con la paura, la rabbia e l'ignoranza". Queste le frasi incriminate, che hanno portato alla fatwa emessa dal Carroccio contro la giornalista piemontese. Pronunciate durante un'intervista concessa ai Lunatici, su Radio 2 dalla conduttrice di La prima volta, la sua nuova trasmissione domenicale di metà serata sulla Rai: "ll successo di Salvini è dovuto all’arrabbiatura della gente, alla paura e anche all’ignoranza. Mi fa paura un tipo di politica basata sulla divisione, sui muri da erigere, vorrei una politica che andasse incontro ai più deboli, che aiutasse questo Paese a risollevarsi in un altro modo". Ma come? La sciura Gori, moglie del sindaco di Bergamo in quota Pd, la ex reginetta (velocemente decaduta, Auditel ha deciso) della Domenica In condivisa con la sorella Benedetta e ripescata con lo show pomeridiano, si permette di abbandonare l'aplomb borghese, gli abiti da boutique chic e la pettinatura da padrona di casa ideale per estrarre lo spillone e conficcarlo contro la foto del leader massimo della politica italiana attuale? Quello che ha eclissato Berlusconi, che mette in ombra Di Maio e fa paura a Bruxelles in vista delle Europee che promettono il definitivo sfondamento dei populismi nazionalistici? Proprio lei. Perché sotto tanto ghiaccio lentigginoso, il fuoco c'è eccome. E non si è fatta attendere la contraerea dei lumbard. Al grido di "cacciatela".

Non tutti i salotti sono uguali. "Se Cristina Parodi è tanto delusa dalla politica italiana scenda in campo. E, soprattutto, lasci la Rai" è stato il grido all'unisono dei parlamentari leghisti Paolo Tiramani, Massimiliano Capitanio, Dimitri Coin, Igor Iezzi, Giorgio Bergesio, Simona Pergreffi e Umberto Fusco. Secondo i quali: "Con le sue offese a Matteo Salvini, la giornalista e moglie del sindaco Pd di Bergamo, Giorgio Gori, ha utilizzato il servizio pubblico radio-televisivo a proprio uso e consumo, facendo propaganda politica alla faccia del pluralismo informativo e ciò non è giustificabile. Ne chiederemo conto in Commissione di Vigilanza Rai con un'interrogazione". Ci risiamo? Tornano le epurazioni o le "promozioni orizzontali", cioè quelle che sono trasferimenti in apparenza pacifici, ma che servono a levarsi di torno lo scocciatore di turno? Come nel caso di Santoro ai tempi di Berlusconi? O come avvenne per Massimo Giannini con Renzi? Certo il grado di suscettibilità del governo giallo-verde nei confronti della stampa è oltre la soglia del dolore: lo conferma Di Maio, che augura l'implosione dei giornali e settimanali del gruppo Gedi (Repubblica, La Stampa, L'Espresso) rei di "impallinarmi con le fake news", come lui stesso ha detto. E lo è per i sodali di Salvini. Ma occhio alla Parodi. Aldo Grasso la definiva "la moglie perfetta" solo per paragonarla alle protagoniste di Desperate Housewives: dove Bree, la mogliettina inoffensiva, era amica di Gabrielle, quella tutto sesso, e di Lynette, la perfetta donna manager, e della dolente Susan. Multiforme, dunque. Non fosse così non sarebbe balzata da Odeon Tv a Canale 5 alla conduzione del Tg, e poi di Verissimo, e poi allontanandosi un po' dal marito perfetto, il manager tv Gori, approdando in Rai per La vita in diretta. Fece discutere il giorno che indossò un abito identico a quello di Michelle Obama per festeggiare l'elezione del marito sindaco della loro Bergamo. "Era una citazione", disse sussurrando. E Michelle, si sa, è un'altra che oltre all'aspetto impeccabile e la parola misurata al millimetro, ha un carattere grande così. Salvini e i suoi accoliti se ne facciano una ragione: Cristina esiste, e dà fastidio. 

L’Unità, l’Avanti! e un po’ di Renzi sono la base del linguaggio gialloverde, scrive Francesco Damato l'11 Ottobre 2018 su "Il Dubbio".  Grillini e leghisti hanno adottato nella loro azione di governo due parole magiche della sinistra. Nella loro ansia di cambiamento, insofferenti a tutti gli ostacoli che incontrano, grillini e leghisti hanno adottato nella loro azione di governo due parole magiche della sinistra: magiche ma purtroppo sfortunate, come vedremo. ‘Più ci attaccano più ci compattano’, ha detto orgogliosamente il vice presidente pentastellato del Consiglio Luigi Di Maio scommettendo sull’unità del suo movimento e della coalizione di fronte ai ‘ complotti’ e quant’altro in corso contro il governo in carica. Ma l’unità, di cui la sinistra è rimasta orfana anche nelle edicole, non essendole bastato lo scempio fattone nella sua lunga storia a livello partitico, parlamentare e sindacale, è un po’ problematica a vedersi sotto le cinque stelle. Basta osservare le distanze silenziose che ha preso da ciò che sta accadendo Beppe Grillo, quasi sorpreso pure lui dalle prove che danno i suoi nelle stanze dei bottoni. Dove peraltro già Pietro Nenni scoprì nel 1963, approdato a Palazzo Chigi con Aldo Moro, che mancavano del tutto. Sempre più visibile invece è l’attivismo del presidente della Camera Roberto Fico, reduce da una missione a Bruxelles non proprio in sintonia con l’assalto all’arma bianca dei suoi compagni di governo agli uomini e agli organismi dell’Unione Europea. Di cui Di Maio ha quasi celebrato il funerale politico, sicuro che non potranno uscirne vivi dalle elezioni continentali della prossima primavera. Circa l’unità della coalizione governativa, sarei più cauto di fronte a certe sofferenze all’interno della Lega, di cui forse si è fatto interprete negli ultimi giorni l’anziano ed esperto ministro degli affari europei Paolo Savona. Il cui peso, forse anche agli occhi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che pure non lo volle qualche mese fa alla testa del super dicastero dell’Economia, è cresciuto man mano che si è ridotta, al di là delle sue stesse responsabilità, quella del volenteroso titolare Giovanni Tria. Che è stato impietosamente ripreso televisivamente mentre il presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera gli spegneva il microfono. All’unisono con Matteo Salvini, reduce a sua volta da un incontro con la leader della destra francese Marine Le Pen risultato particolarmente indigesto al già ricordato Fico, il vice presidente grillino del Consiglio grida ‘ avanti’ ad ogni richiamo non dico a tornare indietro, ma a fermarsi con la sua macchina curiosamente provvista, a quanto pare, di una sola marcia. Avanti, rafforzata con l’esclamativo, è stata la parola magica e storica dei socialisti italiani, mutuata dai compagni tedeschi e tradotta anch’essa in una gloriosa testata giornalistica, scomparsa dalle edicole prima ancora dell’Unità fondata da Antonio Gramsci. Matteo Renzi, pur togliendole scaramanticamente l’esclamativo, cercò non più tardi dell’anno scorso di raccogliere e rilanciare la parola magica dei socialisti adottandola come titolo di un suo libro biografico e programmatico, scritto col proposito di riprendersi dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale e dalla rinuncia a Palazzo Chigi. Si sa com’è finita: con la sconfitta elettorale del 4 marzo scorso e con la rinuncia anche alla segreteria del Pd. Di Renzi, per quanto incredibile possa sembrare per l’animosità dei loro rapporti, Di Maio ha finito in questi giorni per ripetere anche il coraggio o l’imprudenza, secondo i gusti, di un attacco frontale alla Banca d’Italia nella persona del suo governatore Ignazio Visco. Del quale l’allora segretario del Pd reclamò inutilmente la testa, peraltro alla scadenza ordinaria del primo mandato, rimproverandogli una scarsa vigilanza su banche poi fallite. Di Maio invece lo ha sfidato, con una variante dei vaffa di Grillo, a presentarsi alle elezioni per conquistarsi il diritto, che oggi quindi non avrebbe, di giudicare la manovra economica del governo o, solo, di esprimere dubbi sulla sostenibilità dei costi dell’ennesima riforma previdenziale in arrivo.

Mafia, informazione e disinformazione, scrive il 17 settembre 2018 su "La Repubblica" Marco D'Urso - Università di Roma Tor Vergata, relatore professore Giuseppe Federico Mennella. Nel secondo dopoguerra il primo giornale che si occuperà in maniera sistematica di mafia, denunciandone l’esistenza e gli interessi, sarà L’Ora, quotidiano di Palermo. Inaugurò un nuovo modo di fare giornalismo d’inchiesta, ponendosi in un rapporto conflittuale con i protagonisti delle inchieste. Anni difficili, tra minacce, intimidazioni, pressioni indebite. E cronisti uccisi. Una parte del giornalismo in terra di mafia ha lavorato per svelare dinamiche oscure, contrapponendosi alle organizzazioni criminali e costringendo l’informazione nazionale a puntare i riflettori su un mondo criminale colluso con i poteri. Alcuni giornalisti furono vittime di un metodo rigoroso e perverso: l’eliminazione fisica e la manipolazione delle loro figure nell’immaginario collettivo (di conseguenza, revocando in dubbio il valore del lavoro svolto). Così gli omicidi potevano diventare suicidi, o gli assassinati erano indicati come vittime di se stessi, morti nel tentativo di compiere un attentato, oppure la causa dell’omicidio veniva fatto risalire a questioni d’onore, di donne e di tradimenti. Di qualcuno non è stato ritrovato neppure il corpo. Volatilizzato. Nel territorio italiano si contano undici cronisti uccisi, otto dei quali in Sicilia. Per riabilitare la dignità e la memoria di queste persone, e far luce sulle verità sepolte delle loro storie, ci vorranno molti anni e l’ostinazione dei familiari. I depistaggi attuati dalla criminalità organizzata, favoriti da connivenze statali, hanno gettato questi episodi nell’indifferenza generale. Non si doveva sapere che la mafia era diventata un’organizzazione strutturata, tantomeno che fosse mutata da forma di controllo del territorio in una sanguinosa società segreta, alla conquista di potere e denaro. Sono molti i momenti in cui il giornalismo diventerà protagonista attraverso la narrazione dei fatti cruenti: i delitti eccellenti, il periodo delle stragi, le guerre di mafia che insanguinavano le strade, la controffensiva dello Stato. Ma in questa storia si rintracciano anche momenti in cui il giornalismo si è dimostrato timido, colluso, subalterno. Senza necessariamente prendere accordi e dichiararsi dalla stessa parte, ha percorso una direzione parallela. È sufficiente evitare di parlare di criminalità, oppure non documentare determinate situazioni per soddisfare gli interessi della mafia. Contro le tante voci che alimentavano la politica antimafia, altre tacevano. Quando non si poteva evitare di dare le notizie, venivano omessi nomi e particolari. L’informazione era scarna, dipendente dal potere delle cosche. La strategia della disinformazione è stata praticata anche attraverso il controllo di alcune testate e messa in atto principalmente nel periodo della controffensiva dello Stato. Si iniziò a parlare di pentiti infiltrati, di antimafia di facciata. Obiettivo: insinuare dubbi e minare il lavoro di contrasto. Negli anni Ottanta le testimonianze dei primi collaboratori di giustizia confermarono molte indagini giudiziarie. I magistrati inquirenti uscirono dall’isolamento lavorando in pool. Una parte del giornalismo screditava le informazioni rese dai testimoni di giustizia. Si parlava di mitomani, di persone che si stavano vendicando attraverso l’invenzione di accuse, di premi per gli assassini. Il ruolo del giornalismo è stato però anche una delle leve del cambiamento. Ha acceso speranze, ha indagato parallelamente alle Procure. Chi ha raccolto la sfida è stata in buona parte la stampa locale. Dopo la chiusura del maxiprocesso il 16 dicembre 1987, le stragi degli anni Novanta, gli arresti dei boss, si inizia a parlare di altro. Nell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica l’unico superstite di questo periodo rimane il Processo alla trattativa Stato-mafia. La mafia sembra sconfitta e l’attenzione viene indirizzata verso altre traiettorie: sia da un punto di vista geografico sia tematico. L’informazione perde quella sensibilità che pure aveva costituito un punto importante della sua funzione. Oggi, indagare sulle dinamiche mafiose appare quasi come uno spreco di risorse per gli editori e le redazioni. Ad aggravare questo processo c’è lo scarso interesse dei lettori: una sottostima del problema coincide con il “lieve peso” delle notizie sulla mafia (nel biennio 2016-2018 l’informazione antimafia – che vale circa l’1,5 per cento dell’informazione - risulta di un terzo rispetto all’informazione sull’immigrazione, e ancor meno percepita è l’informazione che riguarda i giornalisti minacciati). Il lavoro di ricerca e di collegamento di fatti episodici, all’interno di una narrazione unica, richiede impegno e sforzo costante. Tra un basso profitto derivante da questo tipo di informazione e una impegnativa produzione di queste inchieste c’è il principio commerciale che grava sulle testate. Un secondo problema riguarda la ricerca spasmodica di spettacolarità. Le modalità di produrre notizie sono cambiate con l’ingresso del web e degli strumenti digitali. Ciò che conta realmente è la tempestività più che l’approfondimento. A qualsiasi prezzo, anche quello della verità. Con l’avvento dei social network si è diffuso anche un modello di informazione scheletrica. Un’essenzialità che induce soltanto a sapere che è avvenuto un fatto senza conoscerne la sostanza intima. L’informazione digitale ha cercato di uniformarsi ai tempi compressi della rete, perdendo la capacità di analisi e di ricerca. Si sono affacciati molti problemi sul corretto svolgimento dell’informazione che spiega e indaga la mafia. Anche quest’ultima ha la possibilità di prendere parte al processo informativo-disinformativo, e di utilizzare i mezzi di comunicazione digitale per presentare una realtà deformata. La sfida attuale è stata raccolta soprattutto da giovani generazioni di cronisti, all’interno di una profonda crisi della stampa. Chi si occupa di mafia è spesso un collaboratore esterno al giornale, senza tutele legali, esposto a qualsiasi tipo di intimidazione. La solitudine di alcuni giornalisti, posti sotto la tutela dello Stato, documenta come il principale obbiettivo della criminalità sia mettere a tacere chi pubblica ciò che deve rimanere segreto. Le nuove intimidazioni, infatti, tendono a prevenire la diffusione di notizie attraverso le querele senza fondamento giuridico e fattuale e quindi temerarie. Le minacce si sono spostate molto spesso sul piano legale, abusando del diritto. Si querela e si cita in giudizio chiedendo risarcimenti esorbitanti e per ciò stesso in grado di produrre un chilling effect: il giornalista si ferma, non indaga, non scrive più perché il prezzo da pagare rischia di diventare troppo alto. Queste barriere allo svolgimento di una funzione imprescindibile qual è il giornalismo sono frequenti soprattutto in ambito locale. L’isolamento diventa sia fisico sia mediatico. La stessa informazione si occupa poco dei giornalisti minacciati, cadendo alcune volte nel tranello di celebrare il giornalista-personaggio, ma perdendo di vista il motivo della sua celebrità.

AAA cercasi giornalista che mi chieda della mafia, scrive il 3 luglio 2018 su "La Repubblica" Walter Bonanno - Insegnante e mediatore linguistico Cidma. A Corleone, a casa nostra, non c’è nessuno che non sappia come è fatto un giornalista. Il microfono non ha un odore, ma noi lo sentiamo nell’aria quando c’è una telecamera dietro le spalle. Arrestano un mafioso. Giornalisti. Poi muore. Giornalisti. La moglie del mafioso non paga le tasse perché dal Comune hanno dimenticato a mandargliele, però poi le paga, magari richiedendo delle comode rate, ancora giornalisti. Una processione si ferma in prossimità della casa di un mafioso (il che non è difficile dato che siamo il paese più mafioso d’Italia). Giornalisti, giornalisti, giornalisti. “Che ne pensi della Mafia?” è una domanda che ogni corleonese si è sentito fare almeno una volta. Io la ricordo ancora la mia prima volta. Ero al parco con una ragazzina e ci provavo. Ad un certo punto vedo tutti scappare, ragazzina compresa; prima di capire cosa stesse succedendo mi ritrovai un omone grande e grosso con una telecamerona ancora più grossa. “Che ne pensi della Mafia?” mi chiese. Risposi qualcosa. “La mafia si combatte con le parole?”. Dissi di sì. “E non con i fatti?”. Opsss…bhe, sì anche con quelli. Mentre realizzavo di avere messo la crocetta sulla risposta sbagliata, vedevo la ragazzina andarsene via. Con un altro. Trauma. Avevo 7 anni ed era l’estate del 1992. Oggi che sono vecchio di 33 anni, al mio paese il giornalista fa ancora lo stesso effetto che fa il cacciatore ricco quando arriva nella savana per il suo safari. Scappano tutti, alcuni si nascondono e i pochi che rimangono a tiro non fanno in tempo ad imprecare che hanno già il microfono sotto al naso e la telecamerina che li fissa di malocchio. Adesso però, come nella savana, ci sono leoni che non si fanno intimorire dal tizio col fucile e gli si parano contro impettiti e pronti alla lotta. Io non so come funziona nella savana, ma ultimamente qui i giornalisti a quello che non scappa non se lo filano proprio; a quello giovane, magari ben vestito e che parla bene l’italiano non si sognano nemmeno di chiedergli lui che ne pensa. So di ragazzi che hanno passato la mattinata a farsi notare dal tizio col taccuino, vogliosi di prendersi i quindici minuti di ribalta e, perché no?, dare un’immagine un po’ meno stereotipata dei corleonesi, ma niente… quello col microfono si dirigeva sempre verso il vecchietto incoppolato seduto accanto al bar, immobile che sembra nato lì, con lo sguardo fisso che non sai se è ancora vivo o è morto, magari di caldo visto che ha giacca, camicia, gilet e cravatta anche quando ci sono 40 gradi all’ombra. E il vecchietto che fa? Di solito adotta tattiche camaleontiche di dubbia efficacia tipo dire che si è di passaggio in un paese in cui non passa nessuno o che non si conosce le uniche persone del paese che tutti, pure a Domodossola, conoscono. Può semplicemente rifiutare la sfida e nascondersi dietro un più o meno gentile “non comment” che nemmeno i calciatori in conference press. Poi ci sono quelli che soccombono per la gioia del giornalista cacciatore. Il campionario di interviste da attaccare alle pareti delle redazioni di sadici collezionisti va da chi se la prende “con la Mafia vera che è a Roma” o con i neri “che invece di darli a loro i 30 euro li dessero ai disoccupati” a chi confessa che in fondo a lui “non hanno fatto niente”. E’ ormai condannato all’estinzione il pur sempre ricercato esemplare che la mafia, per lui, “non esiste”. Prede. Al mio paese siamo prede di cacciatori di frasi fatte. E i giovani? Dei giovani non frega nulla a nessuno. Di ciò che pensano né di ciò che fanno. Se avessi la fortuna di parlare con un giornalista al mio paese, gli direi che se viene in piazza alle 10 del mattino di giovani non ne trova, ma ne trova un sacco se va davanti al liceo all’intervallo o la sera al pub. Troverebbe risposte meno scontate, ma forse più arrabbiate contro un Paese che si ricorda di noi solo per Riina e Provenzano e che si disinteressa dei nostri bisogni (e dei nostri sogni). La narrazione che si fa dei corleonesi è tutta improntata al clichè del siciliano omertoso. E’ un prodotto che vende bene. E forse se fossi di Domodossola anch’io, mi piacerebbe sapere che almeno su una cosa si può stare sicuri. In Sicilia sono così. E magari in Brianza tutti ricchi, in Sardegna tutti pastori, a Genova tutti tirchi e a Napoli tutti ladri. A volte ho la sensazione che fuori da Corleone la gente pensi che sia nostro preciso dovere prendere parte alla giornaliera manifestazione antimafia in cui si è trasformata casa nostra. Lo pensavo anch’io. Invece adesso siamo sempre più convinti che il nemico della Mafia, non sia l’Antimafia, ma la normalità. Che fare il proprio lavoro onestamente o partecipare onestamente ad una gara d’appalto sia peggio che partecipare a una sfilata. Che amministrare secondo le regole e chiedere il voto in cambio di impegni sia più rivoluzionario che promettere favori. Fatti non parole. Oggi saprei cosa rispondere al giornalista. Ma il giornalista non c’è. È al circolo degli anziani.

Benvenuti a “casa nostra”, scrive l'1 luglio 2018 su "La Repubblica". Massimiliana Fontana - Segreteria organizzativa C.I.D.M.A. (Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia). A Corleone, a casa nostra, abbiamo deciso di raccontare chi siamo a chi per la prima volta ce lo ha chiesto per davvero. Casa nostra. Beh, sì...ammettiamo che col nome abbiamo giocato un po' su quel "cosa nostra" ma alzi la mano chi di voi, sentendo il nome del mio paese, non pensi immediatamente a quelli là con la coppola, rigorosamente storta, e ad offerte che, no, proprio non si possono rifiutare. Un paese che se lo googlate ottenete 11.000.000 di risultati, più di Agrigento e Cefalù (ma messe assieme), più di San Gimignano, più di Riccione, più di Alberobello coi trulli compresi. Che saranno anche belle, anche famose, ma non hanno nemmeno un mafioso, nemmeno uno famoso intendo e, soprattutto, nemmeno un film con Marlon Brando (e forse nemmeno senza). "A Corleone, a casa nostra" nasce dalla precisa volontà di un gruppo di corleonesi di parlare a voi, lettori e lettrici di San Gimignano, di Riccione e di Alberobello, a voi in Italia, della normalità di un paese che normale non è e che a volte ci sembra appartenere a tutti tranne che a noi. Sapete tutto dei figli di Riina, perfino se hanno pagato o no le tasse, e i giornalisti, le iene, gli inviati con l'impermeabile ed il bassotto, in Via Scorsone sono ormai di casa. Eppure sapete poco o nulla di chi a Corleone ci vive per davvero, anche quando la telecamera è spenta. Ci troverete gente vera, con problemi e sogni veri. C’è la maestra, c’è quello che "pensa in verde" convinto che la bellezza aiuti perfino ad essere onesti, ci sono sindacalisti-contadini seduti lì dove erano seduti Rizzotto e La Torre prima che l'ammazzassero. E poi c’è il professore, c’è la studentessa, il medico, l’architetto, l'avvocato che porta in giro il nome di casa nostra per i palcoscenici d'Italia con la sua compagnia teatrale. C’è la nordamericana che a Corleone è venuta a vivere e c’è la fuori-sede che ci torna solo tre volte l'anno e ogni volta che se ne va si ricorda che quella è ancora, per sempre, casa sua. C’è il prete che sa che dietro a ogni processione può essere nascosta una trappola. C’è lei che di lavoro fa “quella che parla di Mafia” e le sembra ancora strano dover spiegare ai turisti che in realtà per lei è normale, che non c’è da aver paura, che questa, in fondo, è “casa nostra”. Badate bene, niente aneddoti di mafia qui, niente cronaca né testimonianze di prima mano. Noi non viviamo di Mafia. Però la respiriamo. Sappiamo cosa sia. Ce ne accorgiamo quando diciamo da dove veniamo alla gente che incontriamo. Ce ne rendiamo conto quando perfino le operatrici dei call center la smettono di volervi vendere qualcosa se sui loro monitor vedono che viviamo qui. Che Corleone è casa nostra. Questo blog vi vuole accogliere a casa nostra, vi vuole invitare da Gino per uno Spritz (che sì, si beve anche qui) e parlarvi di noi, di casa nostra, di come può essere bella, di come si possa amarla nonostante tutto, nonostante “a casa nostra” sia nato anche Totò Riina. Mentre scrivo fuori è ancora tutto verde.  È la primavera siciliana che qui, a casa nostra, è meravigliosa e allora si rimane ai bordi delle nostre strade sgangherate a chiedersi da dove cavolo viene fuori tutto quel verde e si rimarrebbe fino a che il sole tramonta e dall’altra parte di questa Valle del Belìce compaiono le luci arancioni dei paesi. Sembrano isole. Sembrano un arcipelago e ci piace. E ce ne freghiamo se del posto in cui viviamo, forse, non riusciremo mai cambiare nulla. Ma la primavera siciliana da noi dura quindici giorni. Poi è tutto di nuovo giallo, secco, insopportabile. Insopportabile come chi ci chiude dentro alle virgolette, "I corleonesi", che hanno perfino una voce sulla Wikipedia. E invece noi siamo una comunità di individui responsabili delle proprie azioni, non una comunità responsabile delle azioni di alcuni individui. Noi sappiamo parlare e parliamo. Lo diceva anche un tizio dentro ad un altro film che "i corleonesi non sono tutti uguali". Eccoveli. Benvenuti "a casa nostra".

Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.

Giornalisti antimafia nella cricca-Montante? Secondo l’accusa l’ex presidente di Confindustria Montante avrebbe creato un sistema parallelo per spiare e fare del dossieraggio, scrive Damiano Aliprandi il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". “Double Face” è l’operazione giudiziaria nei confronti dell’ex presidente di Confindustria in Sicilia Antonello Montante, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Non a caso l’operazione parla della doppia faccia: da un lato il richiamo costante al concetto di “legalità”, dall’altra l’attribuzione di etichette di “mafiosità” agli avversari. L’accusa è gravissima ed emblematica nello stesso tempo. Parliamo dell’antimafia come strumento di Potere, tanto da creare un sistema parallelo per spiare, fare del dossieraggio e, non da ultimo, avvicinare i giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate, affinché non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Esattamente al tredicesimo capitolo dell’informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta dalla Procura –, si parla proprio dei rapporti di Montante con i giornalisti. Molti sono di rilievo. Va precisato che si tratta di un’informativa e quindi di un atto d’indagine unilaterale degli inquirenti, a cui dovrà fare seguito il contraddittorio con la difesa e le verifiche da parte delle autorità giudiziarie. Al momento non c’è niente di concreto, solo le accuse della polizia. Per dovere di cronaca e rispetto del lavoro altrui, per chi volesse leggere l’intera l’informativa, può scaricarla dalla testata abruzzese giornalistica on line Site. it. Emerge dall’indagine che proprio il fastidio nei confronti dei giornalisti troppo critici verso il suo operato fu il filo conduttore del rapporto che Montante avrebbe scelto di instaurare con certi esponenti della stampa, con alcuni dei quali aveva cercato anche di intessere rapporti per carpirne la benevolenza nelle cronache. Ne sarebbero la prova, agli atti d’indagine degli inquirenti che hanno condotto all’arresto di Montante, la raccolta di intercettazioni ma anche gli appunti riversati meticolosamente su un’agenda Excel, che completano le fonti di prova indicando orari, luoghi, fatti, temi, persone in merito agli incontri con alcuni giornalisti. Sono gli stessi inquirenti che a questo riguardo citano la viola- zione deontologica della Carta dei Doveri del Giornalista che impone il divieto di ricevere favori o denaro o regalie per evitare che ne venga condizionata l’attività di redazione o lesa la dignità della professione e la credibilità. Un operato che ha creato diversi problemi anche nei confronti di quei giornalisti che si adoperavano per il diritto e il dovere di cronaca. Come il caso di Giampiero Casagni, giornalista siciliano del settimanale “Centonove”, che, dopo avere raccolto del materiale inerente presunti rapporti tra Montante e l’imprenditore Arnone Vincenzo (che sarebbe un personaggio vicino a Cosa Nostra), aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso la rivista Panorama: la notizia non fu mai pubblicata e dall’informativa emerge la frequentazione che il direttore avrebbe avuto con lo stesso Montante. Tra i rapporti con la stampa emergono quelli intessuti con due giornalisti de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che firmarono un articolo in tema di “professionisti dell’antimafia”, attirando così il fastidio di Montante sul contenuto che ritenne troppo critico nei suoi confronti. Uscito con il titolo ‘ Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della legalità”, l’articolo fu per Montante anche motivo di discordia con il magistrato Niccolò Marino che, nel corso di un procedimento, dovette persino raccontare alla Procura di Catania di aver incontrato Montante in un hotel della città, essendo quest’ultimo molto arrabbiato per il contenuto dell’articolo e credendone il magistrato come l’artefice occulto. Successivamente, fu nell’occasione di una riunione a Caltanissetta in Confindustria Sicilia che, a dire del testimone sentito nel corso delle indagini, ritornarono i nomi dei due giornalisti. Montante chiese a «chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria» di «erogare contributi economici», specificando che era necessario sponsorizzare un sito on line, L’Ora Quotidiano, e un mensile cartaceo. Fu quella l’occasione in cui si seppe che l’iniziativa del sito era stata proposta proprio da quei due giornalisti, che un anno prima avevano pubblicato l’articolo su Il Fatto Quotidiano. Era nella stessa riunione che Montante avrebbe riferito, sempre a detta del testimone sentito, che i giornalisti erano bravi «ed occorreva perciò renderli più morbidi onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona». A detta del testimone, lui versò il denaro. Il sito on line "L’Ora Quotidiano" dal canto suo ebbe vita breve: fu aperto il 18.10.2014 ma già il 22.2.2015 chiudeva. Sempre sulla vicenda riguardante la creazione del giornale on line e l’insofferenza del Montante a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, l’informativa fa un richiamo anche alle dichiarazioni rese dal giornalista de Il Sole 24 ore Giuseppe Oddo, il quale riferiva agli inquirenti che quando era stato pubblicato il fatidico articolo de Il Fatto Quotidiano, il Montante lo aveva chiamato perché, avendo mal digerito l’attacco a lui, voleva che Oddo intervenisse parlando con il direttore del giornale che all’epoca era Padellaro. Oddo rispedì al mittente l’invito: «Ovviamente rifiutai l’invito del Montante–dichiarazione riportata nell’informativa, dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere». Un’altra vicenda di analogo spessore che interessò le indagini nei rapporti di Montante con la stampa alla ricerca della benevolenza dei giornalisti, fu quella che riguardò la circostanza della fusione da lui fortemente voluta tra Ats e la sua partecipata Jonica Trasporti, ma osteggiata dal revisore contabile Maria Sole Vizzini così come dall’allora Presidente avvocato Giulio Cusumano. È in questa vicenda che affiorano i legami di Montante con il giornalista Lirio Abbate, i cui rapporti e incontri sono rassegnati nell’agenda excel del primo, raccolta agli atti d’indagine. L’ostilità nei riguardi della fusione da parte della Vizzini, revisore contabile, era già stata oggetto di una chiacchierata informale della stessa con il giornalista Abbate: i due si conoscevano per motivi professionali e in quella circostanza lui la invitò a non usare la spada, come al suo solito, «ma il fioretto» a proposito delle perplessità sulla fusione. La vicenda doveva essere di interesse decisivo, perché sempre a proposito della fusione e di chi ne era perplesso, un giorno l’avvocato Cusumano chiese un incontro a Palermo proprio al revisore contabile, la Vizzini, che chiamata a testimoniare, raccontò agli inquirenti che in quell’incontro il Cusumano le disse di essere «molto spaventato perché due soggetti con il volto semi coperto da sciarpe l’avevano avvicinato, dicendogli che se avesse continuato a rompere avrebbero reso pubbliche le vicende giudiziarie, che riguardavano la sua famiglia» oltre che alcuni dettagli della sua vita privata. Non trascorsero molti giorni, che, raccontò la Vizzini agli inquirenti, Abbate la chiamò al telefono e le chiese informazioni sull’avvocato Cusumano e cioè «se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se questi avesse partecipato a qualche festa particolare». La Vizzini fu sentita come testimone sulla vicenda, ma del rapporto tra Montante e Abbate vi è traccia nei numerosi atti d’indagine. Sempre sui rapporti della stampa con Montante, è emersa nell’indagine anche la sua frequentazione con l’autore Roberto Galullo de il Sole 24 Ore. L’occasione di scontro fu una collaborazione in un’inchiesta sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, inizialmente scomoda, ma dalla quale poi sarebbe nato «un rapporto molto stretto», come lo definiscono gli inquirenti, tanto che in occasione del sequestro, al Montante fu rinvenuta anche la ricevuta dell’acquisto di 500 copie di un libro sulla legalità scritto dal medesimo giornalista, oltre che quelle di vacanze pagate a Cefalù. Sul rapporto intrattenuto tra i due, esaustiva per gli inquirenti è stata ritenuta l’intercettazione del febbraio 2016, in cui Montante, parlando con Galullo e raccontandogli di «un’accesa discussione» con il direttore de Il Sole 24 Ore, gli riferì di un articolo che lo riguardava «e che non gli era andato a genio». Fu questa l’occasione in cui Montante raccontò al giornalista di aver convinto il direttore, anche ricordandogli di essere un azionista, a scegliere sempre lui, il Galullo appunto, come firma degli articoli che lo riguardavano. Il direttore – sostiene Montante – acconsentì. Così, come quando – era il 13 febbraio 2015 – solo dopo qualche giorno dalla notizia su Repubblica delle indagini in corso a suo carico, che compariva sul blog del giornalista l’articolo "Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti".

Sistema Montante, ma una informativa non è oro colato, scrive Piero Sansonetti il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Probabilmente sono tutti innocenti, anche Montante forse è innocente. Chissà però che questa inchiesta non ci possa aiutare a riportare sulla terra l’informazione sulla mafia. L’ informativa della polizia sul «sistema Montante», della quale parla l’articolo di Damiano Aliprandi, è abbastanza clamorosa. Se la metà delle notizie che contiene fosse verificata e confermata, vorrebbe dire che un pezzo importante del giornalismo antimafia è assai meno trasparente di quel che vuole far credere. Il problema è che attualmente esiste solo questa informativa. Riscontri zero, non ci sono prove. E le informative della polizia e dei carabinieri, se le cose funzionassero bene nel nostro sistema giudiziario- informativo, sarebbero materiale di lavoro esclusivamente per la magistratura e non per i giornalisti. Invece succede sempre che c’è una manina – tra i poliziotti, o i giudici che diffonde queste informative, e scoppia il putiferio. È stato sulla base delle informative di alcuni carabinieri (poi risultate addirittura contraffatte) che un anno e mezzo fa scoppiò il caso Consip che portò danni irreparabili – e ingiusti – alla figura dell’ex premier Renzi e del partito democratico. Almeno in parte la attuale situazione politica – con i partiti populisti in grande vantaggio su quelli liberali e socialdemocratici – è figlia di quello scandalo, montato in modo sofisticato e sapiente. Allora fu soprattutto il Fatto Quotidiano a condurre la campagna, con l’appoggio dei 5Stelle, ma fu ben spalleggiato da altri grandi giornali, che si contesero informative della polizia, testi segreti di intercettazioni, e persino di intercettazioni illegali, come quelle tra un imputato e il suo avvocato. Cerchiamo ora di evitare che si ripeta quel copione a parti invertite. Stavolta i giornalisti del Fatto invece che dalla parte dei fustigatori di costumi sono dalla parte dei sospettati. Ecco, evitiamo il gioco delle ritorsioni. E consideriamo tutti innocenti fino a prova contraria. Gli amici del Fatto conoscono benissimo quella vecchia e celebre frase di Pietro Nenni: «Se fai a gara a fare il più puro, troverai sempre uno più puro di te che ti epura…». Devo dire che ho l’impressione che il rischio di una campagna di stampa contro Il Fatto, o contro l’Espresso, per i sospetti avanzati dalla polizia di Caltanissetta, non sia un rischio altissimo. Dentro l’informativa della polizia ci sono nomi e fatti che riguardano una decina di giornalisti e di giornali importanti. Qualcosa mi dice che i giornali e i giornalisti, se scoppia qualche scandaletto che li riguarda, diventano molto indulgenti. Immagino che se questa informativa riguardasse qualche ministro del Pd, o qualche donna o uomo del cerchio magico di Berlusconi, per esempio, avrebbe già conquistato i titoli di apertura di tutti i giornali, avrebbe riempito i talk show (anche della “7”) e magari avrebbe provocato una raffica di dimissioni. Coi giornalisti, si capisce, è diverso. Fatta questa premessa, e ribadita la mia convinzione sull’innocenza dei colleghi accusati, occorrerà anche qualche riflessione sul rapporto del giornalismo italiano con l’antimafia. Riflessioni che non hanno niente a che fare con questa inchiesta: l’inchiesta è solo lo spunto. Esiste un problema, ed esiste da tempo. Il giornalismo che si occupa di mafia, e che quindi fornisce le informazioni sulla mafia e sulla lotta alla mafia, è esclusivamente quello accreditato dalla famosa compagnia dell’antimafia. Cioè da quel gruppo di magistrati e di intellettuali e di sacerdoti e di rappresentanti politici che si sono conquistati non si sa bene come l’esclusiva del marchio antimafia, e lo usano a loro piacimento. Se un giornalista non ha il benestare della compagnia è bene che non si occupi di mafia. Questo è un problema, perché l’assoluta assenza di pluralismo, su questo terreno, ha prodotto fenomeni macroscopici di disinformazione. L’assenza di pluralismo, e quindi di punti di vista, sempre produce una distorsione dell’informazione. E trasforma le ipotesi (o, peggio, le tesi) in verità rivelata. Basta guardare a come i giornali e le televisioni hanno riferito del processo “Trattativa”. Tutti allineati sulle posizioni dei Pm, e in particolare del Pm Di Matteo. Dov’è l’anomalia del processo “Trattativa”? Non tanto nella linea accusatoria (che io considero debolissima, inconsistente, ma che è legittima) quanto nella copertura giornalistica, colpevolista, che è stata così massiccia e così acritica da determinare un condizionamento evidente della giuria. Basta dire che qualche giorno fa un consigliere di amministrazione della Rai, di gran nome (parlo di Carlo Freccero) ha chiesto la trasmissione di un documentario colpevolista sulle reti Rai, quando il processo è ancora al primo grado. E siccome il presidente della Rai, logicamente, gli ha detto di no, si è indignato, ha mobilitato il Fatto e addirittura ha parlato di censura. Senza che nessuno si scandalizzasse per le sue prese di posizione. Sarebbe una novità importante se invece adesso potessimo ricominciare a parlare di antimafia facendo piazza pulita dei pregiudizi e del potere “feudale” della “compagnia antimafia”. In questo, l’inchiesta- Montante ci può aiutare. Io sono abbastanza convinto non solo dell’innocenza dei colleghi, ma anche della probabile innocenza di Montante. Spero che saranno tutti completamente scagionati. E spero che poi, anche con loro, si potrà finalmente iniziare a discutere, e a ragionare, senza che nessuno accampi un complesso e un diritto di superiorità.

ESCLUSIVO – «Sistema Montante»: ecco il capitolo sui giornalisti, con tutti i nomi, scrive "Site.it" il 25 maggio 2018. Ad essere coinvolto nel «Sistema Montante» è anche il mondo dell’informazione. Nessuno dei nomi dei giornalisti, anche illustri, è stato finora pubblicato dalla stampa: su questo punto si registra un misto di pudore, prudenza, garantismo e autocensura che ha improvvisamente contagiato quasi tutte le redazioni italiane: un silenzio imbarazzante che per certi versi sfiora quasi l’omertà. SITe.it – per dovere di cronaca – ha deciso di pubblicare l’intero capitolo dell’Informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta su Montante dalla Procura – con tutti i nomi delle testate e dei colleghi coinvolti, anche per dare l’opportunità a chi si sente chiamato in causa ingiustamente di potersi difendere. Buona lettura.

CAPITOLO XIII RAPPORTI DEL MONTANTE ANTONIO CALOGERO CON I GIORNALISTI. Le dichiarazioni del VENTURI Marco hanno riguardato anche i rapporti “distorti” che il MONTANTE ha intrattenuto con alcuni giornalisti per carpirne la benevolenza nelle cronache.

Ancora una volta le propalazioni del VENTURI trovavano riscontro in materiale rinvenuto nel corso delle perquisizioni ed anche nelle attività di intercettazione a suo carico nonchè in altre dichiarazioni rese da altri soggetti escussi nell’ambito del presente procedimento.

Filo conduttore della condotta del MONTANTE è il fastidio di quest’ultimo nei confronti di giornalisti che si mostravano critici nei suoi confronti o in quelli di soggetti a lui vicini, nonché nei confronti dell’operato di Confindustria.

Prima di entrare nel merito della trattazione di questo capitolo, appare importante premettere che alcune delle condotte dei giornalisti di cui si riferirà contravvengono anzitutto, essendo tutti iscritti all’Ordine dei Giornalisti, agli obblighi sanciti dalla “Carta dei doveri del giornalista” dell’8 luglio 1993. La Carta, infatti, prevede l’incompatibilità per il giornalista di ricevere pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, trasferte, inviti a viaggi, facilitazioni o prebende, da privati o da enti pubblici, che possano condizionare il suo lavoro e l’attività redazionale o ledere la sua credibilità e dignità professionale.

Appare anche importante segnalare che a seguito della rimozione di un articolo pubblicato su “Il Fatto Nisseno” – di cui si dirà più avanti nella parte riguardante il giornalista Michele SPENA - il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Riccardo ARENA apriva un’indagine per verificare l’esistenza di finanziamenti ai giornalisti da parte del MONTANTE: notizia riportata in un articolo de “La Repubblica” datato 17.2.2015.

Si richiama, anzitutto, emblematicamente, un’intercettazione dal cui contenuto si desume come il MONTANTE sia solito adoperarsi per far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate affinchè non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicino.

Nel prosieguo di detto capitolo saranno riportate anche intercettazioni in cui il MONTANTE “bacchettava” direttamente qualche giornalista per il contenuto a lui non gradito di alcuni articoli.

Nella conversazione nr. 2888 delle ore 14.44 del 20.10.2016, il MONTANTE accusava ONTARIO Silvio, esponente di Confindustria Catania, di non riuscire a intervenire per far sì che non venissero pubblicati articoli che potessero essere lesivi delle loro persone o del loro operato.

In particolare, nel corso del dialogo, il MONTANTE raccomandava all’ONTARIO di stare attento nel portare avanti una manovra occulta ai danni di qualcuno e per questo non si potevano permettere la pubblicazione di articoli che, in un certo senso, andavano a scoprire nervi scoperti, “ora non sanno dunni ci arriva il fulmine capito?... (balbetta)… non possiamo sbagliare, quindi non sa esattamente dunni ci arriva”.

Immediatamente dopo, infatti, il MONTANTE si lamentava di qualcuno che aveva fornito dei dati sbagliati al giornale, confluiti evidentemente in un articolo che non gli era piaciuto affatto, e rimproverava all’ONTARIO di non riuscire a gestire la situazione col giornale. Il MONTANTE, quindi, gli spiegava che bisogna frequentare i giornalisti e, quando serve, fargli notare che scrivono cose “false”, “nessuno di voi sta, sta, sta… ma non per colpa vostra… sta riuscendo a gestire! Bisogna andare a parlare spesso con quelli là… dirgli scusa ma perché date queste cose oh, queste cosa false”.

L’ONTARIO riteneva che dietro quell’articolo ci fosse la mano di tale VINCI e si faceva subito avanti per andare a parlare con qualcuno della redazione, non appena rientrava a Catania e si proponeva anche per andare a parlare di persona, il successivo lunedì (24.10.2016), con GALULLO che avrebbe potuto pure rintracciare telefonicamente, lasciando al MONTANTE la scelta di cosa sarebbe stato meglio fare.

Il MONTANTE rispondeva che, secondo lui, era meglio andarci a parlare per capire perché erano state scritte certe cose, non meglio specificate.

L’ONTARIO si mostrava accondiscendente e lo pregava di dargli informazioni cosicchè lui avrebbe potuto agire come lui desiderava. Conversazione telefonica nr. 2888:

ONTARIO: ..pronto!..

MONTANTE: ..eih, Silvio ciao.. ONTARIO: ..eih!.. avevo visto ora, non sono riuscito a prenderlo.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..allora, si!.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..stavo parlando.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..no, no io così ti ho chiamato!.. senti ho visto la nota fatta bene, ora iooo.. (inc)..

ONTARIO: ..eh!..

MONTANTE: ..domani mattina lo vedo

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..per fare tutta sta, staaa.. tutta sta riflessione e decisioni da prendere.. (inc)..

ONTARIO: ..perfetto!.. quella Casucci mi ha scritto un’altri due messaggi.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..e tu.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..e poi.. e gli mandava anche i messaggi a Giorgio mentre era con me, voleva parlare con Giorgio.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ma, ma l’ha mandato Giorgio.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..ma questa è pazza comunque eh!.. ma è fusa completamente..

MONTANTE: ..si, si con questo proprio.. cioè non e che sono pazzo, ora non sanno dunni ci arriva il fulmine, capito?.. (balbetta).. non possiamo sbagliare, quindi non sa esattamente dunni ci arriva!..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..questa è la verità..

ONTARIO: ..certo, certo..

MONTANTE: ..ma poi ho visto i dati che hanno dato sbagliato al giornale, hanno comunicato al giornale..

ONTARIO: ..ma di nuovo quello.. (inc).. quello è scritto da Vinci!.. di nuovo è scritto da Vinci!..

MONTANTE: ..ma si.. (inc).. il problema lo sai qual è?..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..te lo dico.. quello che avevamo anticipato io, che nessuno di voi sta, sta, sta.. ma non per colpa vostra.. sta riuscendo a gestire!.. bisogna andare a parlare spesso con quelli la!.. dirgli ma scusa, ma perché date queste oh, queste cose false!.. ha capito che..

ONTARIO: ..certo..

MONTANTE: ..bisogna parlare con quei.. bisogna fare un po’, un minimo diii no!.. diii, di presenza ..(inc).. chi ha più rapporti, chi ha meglio di rapporti, andarci eh.. poi a scusa, ma perché scrivete sti cazzate!..

ONTARIO: ..io ci posso parlare, però quando torno.. ora sono nel traghetto.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..no.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..lunedì mattina posso essere da Galullo o gli chiamo telefonicamente dimmelo!.. (si accavallano le voci)

MONTANTE: ..va bene, okkei.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..e li avviso io.. (si accavallano le voci).. MONTANTE: ..no, no, tu secondo me..

ONTARIO: ..eh..

MONTANTE: ..secondo me ci devi parlare.. ci dici, guarda ma perché fa, fate scrivere questa cosa eeeh.. ci la diri chiaru!..

ONTARIO: ..va bene.. si, si, si.. MONTANTE: ..va bene.. ONTARIO: ..okkei, okkei..

MONTANTE: ..va bene?..

ONTARIO: ..ti prego dammi informazioni, in modo che.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ceeerto, tranquillo!.. stai tranquillo.. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..va bene, va bene.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ciao.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ONTARIO: ..(inc) essere immediate, ciao..

MONTANTE: ..ciao..

ONTARIO: ..ciao, ciao..

Non si esclude che l’articolo a cui il MONTANTE si stava riferendo fosse quello pubblicato su “La Sicilia” in data 18.10.2016, intitolato “Confindustria Etnea. Il no è consistente. Catania è autonoma – Da Confindustria un secco “no” all’accorpamento”. Ciò anche alla luce del fatto che l’ONTARIO nominava tale VINCI, che si ritiene essere VINCI Francesco Alfio, ex Presidente di Confindustria Catania, il quale, già escusso da codesta A.G. in data 1.10.2015, illustrava in termini negativi la riforma fortemente voluta dal MONTANTE e relativa all’accorpamento delle Camere di Commercio Siciliane.

13.1 Le dichiarazioni del VENTURI Marco, ed i relativi riscontri, sui rapporti del MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione.

In data 14.11.2015, il VENTURI, con riguardo ai rapporti con esponenti del mondo dell’informazione, dichiarava che, dopo circa un anno dalla pubblicazione di un articolo critico nei confronti di Confindustria su “Il fatto Quotidiano” a firma dei giornalisti Giuseppe LO BIANCO e Sandra RIZZA, il MONTANTE, nel corso di una riunione di Confindustria Sicilia, aveva preteso che sia il VENTURI che altri presenti alla riunione (ALBANESE Alessandro, CATANZARO Giuseppe, LO BELLO Ivanhoe, AMARU’ Rosario, TURCO Carmelo e forse NAVARRA Salvatore e CAPPELLO Giorgio) versassero un contributo per finanziare un giornale on – line denominato “L’Ora Quotidiano” che doveva essere curato proprio dai summenzionati giornalisti.

Nello spiegare la ragione di tale richiesta, il MONTANTE aveva detto espressamente che “bisognava ammorbidire”, il LO BIANCO e la RIZZA per evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare personalmente lui e il LO BELLO Ivanhoe e Confindustria Sicilia in generale.

Il VENTURI riferiva di avere versato un contributo di ventimila euro mentre il MONTANTE aveva versato delle somme di denaro “in nero” perché non voleva figurare tra i finanziatori, per far sì che all’esterno non potesse trasparire il tentativo di captatio benevolentiae che stava ponendo in essere.

Il VENTURI aggiungeva che il CATANZARO ebbe a lamentarsi con il MONTANTE per la pubblicazione, nel novembre del 2014, di un articolo critico nei suoi confronti proprio sul giornale on – line che avevano finanziato.

Così riferiva il VENTURI in data 14.11.2015: …omissis…

A.D.R.: Con riguardo ai rapporti di MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione, ricordo, innanzitutto, una riunione informale del direttivo regionale di Confindustria Sicilia che si tenne a Caltanissetta dopo altra riunione che vi era stata in Prefettura ad Agrigento per la firma di un protocollo di legalità. Alla riunione in questione di Confindustria, oltre a me, parteciparono ALBANESE Alessandro, CATANZARO Giuseppe, LO BELLO Ivanhoe, AMARU’ Rosario, TURCO Carmelo, e, forse, Salvatore NAVARRA e Giorgio CAPPELLO. Ricordo che, in quella occasione, prese la parola MONTANTE e disse, in premessa, che chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria avrebbe dovuto erogare contributi economici. Subito dopo ci fece presente che occorreva sponsorizzare una nuova iniziativa editoriale che si riprometteva di impiantare un sito on line “L’Ora Quotidiano” e di pubblicare un mensile cartaceo, iniziativa proposta da due giornalisti LO BIANCO Giuseppe e RIZZA Sandra, che circa un anno prima avevano pubblicato un articolo su “Il fatto quotidiano” critico nei confronti di Confindustria. In particolare il MONTANTE disse che CATANZARO si sarebbe occupato di fornire le nostre mail al responsabile della pubblicità di tale iniziativa editoriale, tale Ferdinando CALACIURA, il cui nome, così come quello della società da questi gestita, ricavo dalla mail – che ho prodotto alla S.V. – con la quale, poi, costui mi inviò “la proposta di pianificazione”. Sempre il MONTANTE fece presente che il LO BIANCO e la RIZZA erano bravi giornalisti ed occorreva, perciò, renderli “più morbidi”, onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona e quella del LO BELLO oltre che CONFINDUSTRIA SICILIA in generale. Anche il LO BELLO intervenne nella discussione nella sostanza trovandosi concorde con ciò che diceva il MONTANTE, anche perché, in quel periodo, era in ballo la sua nomina a presidente di Unioncamere ed aveva perciò interesse a che non uscissero notizie pregiudizievoli nei suoi confronti. Inoltre, ritengo che il MONTANTE avesse già iniziato a percepire di possibili iniziative giudiziarie nei suoi confronti e che quindi potessero uscire notizie sulla stampa che lo potessero danneggiare. Io aderii alla proposta di MONTANTE e LO BELLO ed effettivamente versai, tramite bonifici bancari, la somma di 20.000 euro in due tranche, una a settembre e l’altra a dicembre del 2014. So che TURCO ha versato la somma di 10.000 euro. MONTANTE, forse nel settembre di quell’anno, mi disse poi che aveva versato somme di danaro “in nero” per tale iniziativa imprenditoriale, anche se non me ne specificò l’importo, poiché preferiva non comparire personalmente. Non ho poi più saputo alcunché di tale vicenda; alla scadenza del rapporto non rinnovai la sponsorizzazione della iniziativa editoriale e non so perché la stessa sia poi fallita, anche perché i miei rapporti col MONTANTE si sono successivamente allentati. Ricordo anche che a novembre del 2014 “L’Ora Quotidiano” pubblicò un articolo critico nei confronti di CATANZARO e questi mi disse di essersene lamentato con lo stesso MONTANTE, chiedendogli spiegazioni visto che li avevamo finanziati. Non mi risulta che siano stati pubblicati articoli critici nei confronti di MONTANTE e LO BELLO. Mi risulta, invece, che quando già il sito de “L’ora quotidiano” aveva chiuso, i giornalisti RIZZA e LO BIANCO, nel settembre del 2015, pubblicarono articoli nei confronti del MONTANTE e del LO BELLO. In sede di rilettura del verbale il dott. VENTURI precisa: forse gli articoli di cui sto parlando riguardavano solo MONTANTE e non LO BELLO. …omissis.. Effettivamente il giornale on – line “L’Ora Quotidiano” apriva i battenti il 18.10.2014 ma, pochissimo tempo dopo, il 22.2.2015 veniva chiuso. Tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE in occasione delle perquisizioni esperite in data 22.1.2016, veniva rinvenuta, presso la sua abitazione, proprio una bozza relativa a questo progetto editoriale. Che l’articolo del LO BIANCO e della RIZZO non fosse passato inosservato per il MONTANTE, è assodato anche dal fatto che non manca di annotarselo. Poi cerca l’abboccamento con i due giornalisti. Così si legge nel file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”:

02/10/2013 Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco scrivono articolo Il Fatto Quotidiano, contro Lo Bello e Montante, con il titolo Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della Legalità

23/04/2014 ore 18,30/19,30 Sandra Rizza, Lo Bianco e Corradino in Unioncamere

24/04/2014 ore 20,05 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza@62gmail.com - Oggetto: ecco tutto = Ecco il materiale che oggi ho elaborato con Peppino e Vittorio. Buona festa della liberazione. Sandra

13/05/2014 ore 14/15 app. Rizza e Lo Bianco

13/05/2014 ore 17,30/18,30 app. Rizza e Lo Bianco ore 17,57 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza62@gmail.com - Oggetto: ecco tutto = Elenco di arredi per la sede dell' Ora Quotidiana (Albanese il 18/15/2015 alle 16,52 mi invia piantina sezione uffici)

27/05/2014 ore 15/16m Rizza Sandra in via Segesta,9

08/07/2014 ore 19/20 Rizza, Lo Bianco e Corradino in Unioncamere

29/07/2014 ore 11,30/12,30 app. Lo Bianco e Rizza

03/09/2014 ore 12/13 app. Sandra Rizza in redazione

09/09/2014 ore 16,56 Sandra Rizza mi invia e-mail su anto@gimonmsa.it dalla sua e-mail: sandrarizza62@gmail.com - Oggetto: ecco il pezzo = E' un pezzo scritto molti anni fa, non ricordo nemmeno se sia uscito. Sandra

30/09/2014 ore 20/21 app. Sandra Rizza, Lo Bianco, Corradino con Albanese

20/10/2014 ore 17,30/18,30 app. Sandra Rizza e Lo Bianco con Catanzaro

12/11/2014 ore 08,30/09,30 Rizza Sandra e Corradino a Porta Felicia

02/12/2014 ore 18,30/19,30 app. Sandra Rizza e Corradino in Unioncamere

23/12/2014 ore 20,30/21,30 moglie Corradino Vittorio Unioncamere

16/12/2014 ore 12/13 Sandra Rizza, Corradino e moglie in Unioncamere

13/01/2015 ore 15,30/16,30 Sandra Rizza e Corradino Vittorio in Sicindustria 27/01/2015 ore 18,30/19,30 app. Sandra Rizza Sicindustria

27/01/2015 ore 21,30/22,30 Lo Bianco Vineria via Dante

Il più volte sopra menzionato CORRADINO Vittorio, nel 2010 è un altro giornalista che, nel 2010, è stato anche eletto Presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti siciliani; è stato anche vice caporedattore de “L’Ora”. Sulla vicenda riguardante la creazione di tale giornale on – line e l’insofferenza del MONTANTE a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, si richiamano anche le dichiarazioni rese dal giornalista de “Il Sole 24 ore” Giuseppe ODDO, escusso in data 27.11.2015, il quale dichiarava che quando era stato pubblicato l’articolo del LO BIANCO e della RIZZA su “Il Fatto Quotidiano”, il MONTANTE lo aveva chiamato perché avendo mal digerito l’attacco a lui ed al LO BELLO Ivanhoe, voleva che l’ODDO intervenisse con il direttore del giornale romano, PADELLARO.

Così riferiva l’ODDO: …omissis… A.D.R.: Ricordo anche che, quando nel luglio del 2013 uscì su “Il Fatto Quotidiano” un articolo dei giornalisti LO BIANCO e RIZZA sui “professionisti dell’antimafia”, il MONTANTE mi chiamò chiedendomi di intervenire con il direttore Padellaro per comprendere le ragioni per le quali era apparso un articolo così critico nei confronti suoi e di LO BELLO. Ovviamente rifiutai l’invito del MONTANTE, dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere. …omissis…

A proposito dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”, a firma del Giuseppe LO BIANCO e della Sandra RIZZA, critico nei riguardi del MONTANTE, e a conferma del forte fastidio provato da quest’ultimo, si rappresenta che esso è stato anche uno dei “pomi della discordia” con il magistrato Niccolò MARINO, il quale riferiva alla Procura di Catania – nell’ambito di un procedimento lì instaurato – che, nel corso di un incontro all’hotel Excelsior di Catania, si ebbe a scontrare fortemente con il MONTANTE, il quale lo riteneva artefice occulto di quell’articolo.

Sempre in relazione ai rapporti del MONTANTE con esponenti del mondo dell’informazione, il VENTURI riferiva di altre circostanze relative ai giornalisti MARTORANA Giuseppe de “Il Giornale di Sicilia”; PEPI Giovanni de “Il Giornale di Sicilia”; SPENA Michele de “Il Fatto Nisseno”; SOTTILE Giuseppe de “Il Foglio”.

Con riguardo allo SPENA, il VENTURI riferiva che il MONTANTE gli disse che bisognava “dargli una mano” e, pochi giorni dopo, lo SPENA si era recato dal VENTURI per chiedergli una sponsorizzazione dell’importo di 2500,00 euro, visto che il MONTANTE gli aveva assicurato questo finanziamento.

Con riguardo al MARTORANA Giuseppe, il VENTURI riferiva che Confindustria Centro Sicilia gli aveva conferito un incarico.

Con riguardo al PEPI Giovanni, il VENTURI riferiva che il MONTANTE in più occasioni aveva finanziato mostre fotografiche di quest’ultimo.

Infine, con riguardo al SOTTILE Giuseppe, il VENTURI riferiva che, al tempo in cui era assessore, il MONTANTE gli aveva chiesto di assegnare una consulenza alla figlia del giornalista ed effettivamente le aveva affidato tale incarico.

Così riferiva il VENTURI nel verbale del 14.11.2015: A.D.R Sempre in relazione ai rapporti con la stampa, devo anche dire che nel settembre del 2014 il MONTANTE mi preannunciò telefonicamente che sarebbe venuto a trovarmi Michele SPENA, che credo essere l’editore de “Il Fatto Nisseno”, al quale “occorreva dare una mano”. In effetti, dopo aver concordato telefonicamente un appuntamento, venne nei miei uffici lo SPENA, il quale mi fece presente che il MONTANTE gli aveva assicurato la sponsorizzazione degli imprenditori nisseni; si riservò di mandarmi una mail con una proposta, che effettivamente mi giunse e con la quale mi si chiedeva un contributo di 2.500 euro. Non versai poiché alcunché allo PSENA non giudicando valida l’iniziativa. Non so se qualcuno abbia poi versato somme di danaro per sponsorizzare la testa giornalistica dello SPENA. …omissis…

A.D.R. La S.V. mi chiede se mi risultano altri rapporti con giornalisti ed a tal proposito evidenzio che CONFINDUSTRIA Centro Sicilia ha conferito un incarico a Giuseppe MARTORANA, capo redattore del Giornale di Sicilia; mi risulta che il MONTANTE, peraltro, avesse già ottimi rapporti con Giovanni PEPI, al quale peraltro, per come mi disse lo stesso MONTANTE, questi aveva in più occasioni finanziato mostre fotografiche.

Così aggiungeva il VENTURI nel verbale del 4.8.2016: …omissis… A.D.R.: il MONTANTE mi chiese anche di affidare un incarico di consulenza, sempre quando ero Assessore, alla figlia del giornalista Giuseppe SOTTILE, incarico che effettivamente le affidai. …omissis…

Effettivamente il capo redattore de “Il Giornale di Sicilia” in Caltanissetta, MARTORANA Giuseppe, in data 8.7.2013, ha stipulato con Confindustria Centro Sicilia un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (avente inizio il 15.7.2013 e fine il 31.3.2015), per un importo di euro 1038,62 mensili, come si desume dal “riepilogo netti in busta paga relativi al mese di marzo”. Ciò veniva già comunicato con nota nr. 98/2017 cat. II Mob. SCO3 dell’11.1.2017, in cui veniva compendiata l’attività di acquisizione, presso la sede Confindustria Centro Sicilia di Caltanissetta, della documentazione in ordine ad incarichi conferiti in favore di giornalisti, ossia:

• Antonino AMADORE, giornalista della sede “ il sole 24 “ di Palermo”;

• PANTALEONE Salvatore Wladimir;

• MARTORANA Giuseppe, responsabile della sede del Giornale di Sicilia di Caltanissetta.

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE in occasione delle perquisizioni effettuate presso la sua abitazione in data 22.1.2016, veniva rinvenuta una mail con cui il MARTORANA inviava al MONTANTE una lettera inviata al giornale di Sicilia dal TORNATORE Pasquale, che ne chiedeva la pubblicazione.

Si rammenta brevemente che – come noto a codesta A.G. – il TORNATORE Pasquale è un soggetto che è stato pubblicamente critico nei confronti del MONTANTE, che lo ha, pertanto, tacciato di essere un poco di buono. Si ricorda altresì che il GIAMMUSSO Emilio, presidente del Consorzio Universitario di Caltanissetta, soggetto molto vicino al MONTANTE, faceva una denuncia contro il TORNATORE Pasquale per estorsione: veniva acceso così il p.p. nr. 3146/13 R.G.N.R. Mod. 21 che si chiudeva, dopo indagini svolte da questa Squadra Mobile, con un’archiviazione.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MARTORANA Giuseppe:

05/05/2014 ore 15/16 app. Barresi e Martorana CCIAA

05/05/2015 ore 11,00 Martorana casa (Aud)

22/06/2015 ore 15,00 app. Martorana a casa 21/09/2015 ore 10,30 Altarello Diego / Martorana (Aud)

28/09/2015 ore 08,30 Martorana Altarello

Anche i rapporti col PEPI Giovanni sono riscontrati dalla documentazione rinvenuta in sede di perquisizioni a carico del MONTANTE. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al PEPI:

17/11/2007 ore 18,30 consegna bici Kalos a Giovanni Pepi

31/03/2008 PEPI GIOVANNI MU018 KALOS UOMO

11/02/2009 ore 08,45 app. Pepi con Emma via Veneto

12/05/2009 pranzo Pepi da Charme

15/06/2009 ore 15,00 app. Pepi Astoria 13/08/2009 pranzo Pepi da Charme

18/09/2009 cena Pepi al Montecristo

19/09/2009 EICMA Pepi e Sunzeri

05/11/2009 ore 18,00 app. Emma e Pepi

24/11/2009 pranzo Pepi da Charme

29/12/2009 pranzo Pepi alla Scuderia

01/02/2012 ore 11,30 Pepi al Bernini

27/04/2012 ore 21,00 cena con Pepi da Regine (segnalato suo amico Fabrizio Gerardi) (Senn)

05/06/2012 ore 13,30 pranzo con Giovanni Pepi al ristorante Regine

17/07/2012 ore 13,30 pranzo con Giovanni Pepi

03/06/2013 cena Ribisi, Pepi, Linares squadra mobile Trapani da Charm

16/07/2013 cena Pepi da Charme

18/03/2014 ore 21/22 cena Natale Giunta con Pepi e Agnese

09/09/2014 ore 14/15 pranzo Pepi e poi Ester da Charme

03/02/2015 ore 21,30/22,30 cena Pepi da Charme

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE PEPI GIOVANNI: FABRIZIO GERARDI PA

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) PEPI GIOVANNI

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE nel corso delle perquisizioni esperite a suo carico, presso la sua abitazione, veniva rinvenuta una delibera di Giunta della camera di Commercio di Caltanissetta del 23.6.2015 con cui venivano stanziati 9000,00 euro per “CL PRESS di Michele Maria Spena”.

Altra documentazione veniva sequestrata, sempre nel corso delle perquisizioni esperite a carico del MONTANTE, presso gli uffici di Unioncamere Palermo ove veniva rinvenuta documentazione inerente proprio finanziamenti da destinare allo SPENA.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi allo SPENA Michele:

26/06/2014 ore 10,30/11,30 app. Michele Spena al bar Crem

27/10/2014 ore 13,15/14,15 app. Spena al Caffè Crem

30/11/2014 richiesta spazi pubblicitari Il FATTO NISSENO a Unioncamere Sicilia richiesta di !.10.000,00 protocollata 04/12/2014

04/03/2015 ore 11,00 Spena Michele bar Sicilia CL (Aud)

21/04/2015 ore 17,30/18,30 Spena in CCIAA (Aud)

23/06/2015 ore 15,00 app. Spena CCIAA (Aud)

08/09/2015 ore 15,00 app. Spena Michele al bar Crem

28/09/2015 ore 18,00 app. Spena Michele e Catanzaro in CCIAA CL

12/10/2015 ore 15,25 app. Michele Spena in CCIAA (Aud)

Inoltre, riguardo allo SPENA Michele occorre segnalare che egli, in passato, ha anche curato, unitamente a MAIORCA Corrado, una pubblicazione free press denominata “Sicilia Oggi”.

Proprio a proposito di tale free press, il TORNATORE Pasquale, in data 4.12.2015, riferiva che tra gli inserzionisti vi erano ROMANO Massimo e VENTURI Marco e vi lavorava ARDIZZONE Giuliana, la figlia del colonnello ARDIZZONE Gianfranco, la quale lo aveva contattato per fargli un’intervista.

Perciò il TORNATORE chiamava lo SPENA per avere conferma che la ARDIZZONE fosse una sua collaboratrice e lo SPENA, oltre a confermarglielo, gli diceva anche che lavorava per lui, nonostante risultasse assunta in Confidi, impiego per cui si era rivelata inadatta.

Così riferiva il TORNATORE: …omissis… A.D.R.: Posso anche dire di aver conosciuto la figlia di ARDIZZONE, Giuliana, poiché la stessa mi contattò qualificandosi come una giornalista di “Sicilia Oggi”, una pubblicazione free press all’epoca curata da Michele SPENA e da Corrado MAIORCA. La ARDIZZONE mi propose, al telefono, di realizzare un’intervista, sicché contatati poi lo SPENA per capire se la ragazza fosse la figlia del comandante della Guardia di Finanza del tempo. Lo SPENA mi confermò che era lei e che collaborava con il suo giornale, poiché, pur essendo stata assunta al CONFIDI, gli erta stato chiesto di impiegarla in qualche modo essendosi rivelata inadatta a svolgere le mansioni per le quali era stata assunta al CONFIDI. L’intervista effettivamente ebbe luogo e l’articolo venne poi pubblicato; non so se ne sono ancora in possesso e se così dovesse essere mi riservo di farne avere una copia alla S.V.. Posso anche dire che tra gli inserzionisti pubblicitari di Sicilia Oggi vi furono sicuramente il ROMANO ed il VENTURI. …omissis…

Escusso il ROMANO Massimo in data 18.7.2016, confermava sia di essere inserzionista del free press “Sicilia Oggi” - anche se non ricordava se lo fossero anche il VENTURI Marco ed il MONTANTE Antonio Calogero - sia che la ARDIZZONE Giuliana collaborasse con tale giornale, sebbene fosse assunta in Confidi.

Riferiva però di non conoscere le ragioni per le quali la ARDIZZONE assunse questo incarico, nonostante lavorasse per Confidi.

Così riferiva il ROMANO: …omissis… A D.R.: La S.V. mi chiede se la sig.ra Giovanna ARDIZZONE, all’epoca della sua occupazione presso il CONFIDI, collaborasse anche con una testata giornalistica free press denominata “SICILIA-OGGI” e me ne chiede le ragioni. A tal proposito posso dire di sapere tale circostanza, ma di non conoscere le motivazioni di tale collaborazione. La S.V. mi chiede se io sia stato inserzionista di tale pubblicazione free press ed al riguardo rispondo positivamente, ma non so se oltre a me lo fossero anche MONTANTE e VENTURI. …omissis…

Infine, per quanto riguarda lo SPENA, appare opportuno segnalare anche che il 16.2.2015 su “Il Fatto Nisseno” veniva pubblicato un articolo intitolato: “L’intervista. Legalità? Una parola da abolire. Parla Michele Costa, figlio del procuratore ucciso dalla mafia”. Chiestogli un parere sulla vicenda Montante - esplosa qualche giorno prima con la pubblicazione dell’articolo di Bolzoni il 9.2.2015 – l’avv. COSTA esprimeva un parere sull’opportunità che il MONTANTE si mettesse da parte in attesa della definizione della vicenda giudiziaria che lo aveva colpito. Ebbene, tale articolo veniva rimosso poco dopo la pubblicazione. A seguito di tale increscioso avvenimento, come anticipato all’inizio del presente capitolo, il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Riccardo ARENA apriva un’indagine per verificare l’esistenza di finanziamenti ai giornalisti da parte del MONTANTE: notizia riportata in un articolo de “La Repubblica” datato 17.2.2015. Per quanto riguarda la figlia del giornalista SOTTILE Giuseppe, nato a Gangi il 15.3.1946, si segnala che effettivamente egli ha una figlia a nome Alessia, nata a Palermo il 30.11.1974. Come evinto dal suo profilo in LinkedIn, la SOTTILE Alessia di professione fa la consulente. Inoltre a SOTTILE Alessia il MONTANTE ha anche regalato una bicicletta, come ricavato dai numerosi elenchi che sono stati rinvenuti presso l’abitazione del MONTANTE in relazione a regali che egli ha fatto urbi et orbi. In questo elenco figurano altri due giornalisti: GIACOMOTTI Fabiana de “Il Foglio” e BARTOLETTI Marino. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi alla SOTTILE Alessia:

28/08/2009 ALESSIA SOTTILE 001-001 TREKKING CARBON DISK

Il MONTANTE manteneva ottimi rapporti con il giornalista SOTTILE Giuseppe - attualmente responsabile dell'inserto del sabato del quotidiano Il Foglio, del quale è stato anche condirettore - come si desumeva sia dalla documentazione sequestrata al MONTANTE sia dalle intercettazioni dalle quali emergeva che il giornalista era accondiscendente alle richieste del MONTANTE.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al SOTTILE Giuseppe:

21/07/2009 ore 14,00 pranzo Peppino Sottile e Marco Venturi al ristorante piazza C…………..

04/08/2009 ore 21,00 cena con Sottile, Piritore, Di Simone al Bernini

04/11/2009 ore 13,00 pranzo Sottile e Ivan

04/12/2009 pranzo Sottile

16/12/2009 ore 21,00 cena con Sottile e Marco Venturi al Bernini

01/09/2010 ore 21,00 cena con Ivan Lo Bello e Sottile

14/12/2011 ore 13,30 pranzo Cirillo / La Licata Ciccio / Dispenza / Sottile da Tullio

01/02/2012 ore 13,30 pranzo P.Sottile e Ivan

07/04/2012 ore 16,00 a casa Peppino Sottile

17/05/2012 ore 14,00 pranzo Peppino Sottile

07/06/2012 pranzo Peppino Sottile in Confindustria Roma

21/07/2012 cena Peppino Sottile

20/12/2012 ore 20,00 cena con Peppino Sottile da Tullio

27/11/2013 ore 09,30/10,30 colazione Alfano e Sottile al Bernini

02/04/2014 ore 13/14 pranzo Sottile Peppino

02/04/2014 ore 13/14 pranzo Sottile Peppino da Marco Piazza Caprinica

18/12/2014 ore 21/22 cena Bevilacqua, Pitruzzella, Sottile e Morgante

03/01/2015 ore 15/16 app. Sottile da Foresta

27/01/2015 ore 21/22 cena con Peppino Sottile

27/01/2015 ore 21/22 cena Peppino Sottile

17/02/2015 ore 13,30/14,30 pranzo Sottile Via XII Gennaio,8 Politeama

25/02/2015 ore 09,15/10,15 Sottile in aeroporto

06/03/2015 ore 08,30/09,30 colazione Sottile via Del Gesù,85 (Aud)

22/04/2015 09,15/10,15 Sottile in aeroporto Roma

10/06/2015 ore 17,00 con Sottile + Venturi Bar sotto la redazione IL FOGLIO Roma

30/06/2015 ore 20,00 cena con Peppino Sottile, Chiara Mancini + Lo Bello da Tullio

21/07/2015 ore 17,00 Palermo / Roma incontrato in aereo Lo Voi - Sottile - Prof. Pignatone Roberto

22/07/2015 ore 10,00 colazione Chiara Mancini + Sottile al Bernini

05/08/2015 ore 09,30 app. Nello Musumeci in SICINDUSTRIA per suo progetto + sponsor gazzebo Catania per figlio indeciso + per sua intervista + Mulè + Sottile 2 15/09/2015 ore 10,00 app. Sottile Peppino sotto casa sua

21/10/2015 ore 20,00 cena con Peppino Sottile da Tullio

Nel corso della conversazione nr. 694603 delle ore 18.54 del 9.6.2016, il MONTANTE chiamava il giornalista SOTTILE Giuseppe per lamentarsi di un articolo pubblicato quel giorno, a firma del giornalista SABELLA Accursio, riguardante la polemica sulla questione “rifiuti” in Sicilia e, nel fare riferimento al CATANZARO Giuseppe, era stato evidenziato il legame di quest’ultimo con il MONTANTE. Utilizzando anche un linguaggio scurrile, il MONTANTE ripeteva, più volte, adirato, al SOTTILE che non si dovevano fare questi parallelismi con lui.

Chiestogli se aveva capito cosa intendesse, il SOTTILE rispondeva che era “chiarissimo” e che avrebbe “provveduto”, rimarcando il fatto che il MONTANTE aveva perfettamente ragione.

Conversazione telefonica nr. 694: All’inizio la conversazione ha un carattere amichevole e non inerente alle indagini. Poi a minuti 01.06 la conversazione per il suo particolare contenuto viene trascritta integralmente.

MONTANTE: ..si!.. ti volevo dire solo per.. lo sai che io non, non.. sono cose molto, sono molto rispettoso di quello che si scrive.. eh, eh, oggi ci è stata na, c’è na polemica, naturalmente ..(balbetta).. su a munnizza, rifiuti..

SOTTILE: ..si, si..

MONTANTE: ..csi ca a mia, ca nuatri un ni, ni futti un cazzu come Confindustria..

SOTTILE: ..(inc)..

MONTANTE: ..però c’è il vice Presidente di Confindustria che è Catanzaro, che, a fa questo mestiere no!.. (inc).. quindi viene..

SOTTILE: ..vabbè, si, si.. (inc)..

MONTANTE: ..però se tu vedi, vedi.. nooo, se tu vedi il tuo pezzo, il vostro pezzo di poco fa dii.. eh, accumencia a parlari di Catanzaru vice presidente, vicino a Montante.. Montante eh, per cui.. ogni volta Accurso eh, direttamnte.. la notizia ci sta va beni.. cose loro.. ma chi c’entra, nun c’entra ne Confindustria ne Montante che.. tutti sono vicini a Montante perché Confindustria..

SOTTILE: ..si..

MONTANTE: ..è un Presidente.. quindi ogni vota se tu, se tu lo leggi lo vedi.. non ne che siamo bambini diciamo, oooh.. ogni vota se tu lo vedi è veramenti da distu, da azione di disturbo, piccole cose, stiamo parlando di niente.. è per solo per farti notare..

SOTTILE: ..(inc)..

MONTANTE: ..Accurso ..(inc).. è bravo una vostra punta, però ogni vota eh, avi questa cosa!.. un c’intru, chi cazzu c’entra Confindustria?.. parla della Marcegaglia che, che tratta a Marcegaglia con l’Ilva, non c’entra mai Confindustria o vici presidenti!.. chi c’entra.. Catanzaru ha un problema ..(balbetta).. ca avi a Siculiana..

SOTTILE: ..si..

MONTANTE: ..quannu pua ci etta un Sinnacu, cafuddra!..

SOTTILE: ..nella, nella, nella sua, certo!..

MONTANTE: ..eh!.. e pua, Montanti amicu, vicinu a Montanti.. ma tutti sono vicini a Mo, se Montante vuol vedere.. sennò mi dimetto, accussì un c’è nuddru chiù vicinu a Montanti..

SOTTILE: ..eh..

MONTANTE: ..e siamu a pustu!.. su questo e il, eeh capisci?.. eeeh..

SOTTILE: ..pronto!..

MONTANTE: ..fin quando scrivi fin.. pronto!..

SOTTILE: ..si ti sento..

MONTANTE: ..no fin quando scri.. nooo scusa, fin quando scrivi.. ì sacciu, giornali faziosi, quel che è.. perché vogliono fo, fottere politico.. però chi c’entra su una polemica che tra Crocetta e un problema di munnizza, che poi ci putissi stari Catanzaru..

SOTTILE: ..cioè, l’unica cosa e che li lui la tira strumentalmente questo Crocetta, perché ovviamente ha scritto.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ma a Crocetta ci putiti.. a Crocetta ci putiti diri che, coglioni cretinu, fallutu eh, eh, sceccu, tutti cosi ma un c’entra.. chi c’entra Mo, Mo, eh.. ne (si accavallano le voci)..

SOTTILE: ..chiarissimo..

MONTANTE: ..ci putiti mettiri ca puru.. (inc).. co Catanzaru!.. ma nun c’entra nè Confindustria e mancu Montanti in questa cosa no?..

SOTTILE: ..assolutamenti..

MONTANTE: ..ci ana fari trasiri, ci ana fari trasiri a Montanti a tutti i costi, questo è il concetto!.. la notizia va beni.. (inc).. (si accavallano le voci)..

SOTTILE: ..facciamo finta che è un gesto d’amore, provvederemo!..

MONTANTE: ..no, no, no, era solo era.. t’imamgini anchi sempri accussì può scriviri.. era solo per diri.. (balbetta).. e un, un.. non, non mi pare u, u, un taglio di un giornale come quello che, che possa avere la tua vita, questo ..(balbetta).. c’è qualcosa che.. minchia.. a parte che..

SOTTILE: ..hai perfettamente ragione.. ma non che sempre ad un amico puo chiedere (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..eh, però è sempre.. nooo è sempre, è sempre Sabe, sempri Sabella però, sempri..

SOTTILE: ..chiarissimo!..

MONTANTE: ..sempri iddru, va beni?.. okkey!..

SOTTILE: ..un baciuzzu.. MONTANTE: ..auguri in bocca al lupo per te, poi ci sentiamo la prossima settimana.. SOTTILE: ..ciao.. MONTANTE: ..ciao..

Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dal CICERO Alfonso.

Il CICERO Alfonso, nel documento che allegava alle sommarie informazioni rese a codesta A.G. in data 2.11.2015, annotava delle circostanze riguardanti delle testate giornalistiche. In particolare riferiva della intermediazione del MONTANTE affinchè il CICERO rilasciasse un’intervista a “Il Fatto Quotidiano”; vicenda che aveva visto l’interessamento anche del LO BELLO Ivanhoe. D’altronde nel corpo dell’articolo veniva dato ampio risalto sia all’imprenditore nisseno che a quello catanese. Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 2.11.2015 – pag. 14 …omissis…

24 DICEMBRE 2013: Proprio su “Il Fatto Quotidiano” che appena due mesi prima aveva parlato di dossier contro gli industriali siciliani, veniva pubblicato l’articolo “In Sicilia l’impresa delle ASI: ripulire il sistema industriale”. L’occhiello, sopra il titolo dell’articolo, riportava “Mafia & attentati la trincea degli industriali siciliani” (all. nr. 32) E’ importante evidenziare la genesi di tale articolo. Montante, infatti, mi informava che , per tramite di LO BELLO, sarei stato contattato dal giornalista della citata testata di stampa per fornire informazioni precise sulla mia azione di contrasto ai sistemi mafiosi e mi sottolineava, inoltre, che tale iniziativa poteva concorrere a fare conoscere, opportunamente, diversi aspetti del mio impegno. Nell’articolo, infatti, vengono evidenziati il rischio della mia vita e l’azione contro i sistemi affaristico-mafiosi che da tempo conducevo nelle aree industriali, sebbene grande risalto veniva dato anche a Montante e Lo Bello di cui venivano pubblicate le foto e dato atto del loro sostegno alla mia azione. …omisis…

Il giornalista firmatario dell’articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 24.12.2013 era LILLO Marco, nato a Roma il 21.2.1969, ed effettivamente nell’articolo veniva dato grande risalto all’azione antimafia del MONTANTE e del LO BELLO. Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, veniva rinvenuto il seguente appunto relativo al LILLO Marco: 15/03/2015 ore 20,00 app. Lillo da Pinuccio (Aud)

Nel documento consegnato dal CICERO in sede di escussione del 20.10.2016, egli annotava anche una circostanza riguardante il direttore di “Panorama”, Giorgio MULE’. Un parente di quest’ultimo, VITALE Vincenzo, era stato nominato dalla VANCHERI nell’Assessorato alle Attività produttive da lei all’epoca diretto, su richiesta del MONTANTE. Sempre su richiesta si quest’ultimo, la VANCHERI affidava al VITALE anche il settore della internazionalizzazione delle imprese, a cui era già stata assegnata la gestione dei fondi riguardanti l’EXPO di Milano.

Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 8.10.2016 – pag. 14 …omissis… MONTANTE – VANCHERI – VITALE VINCENZO – MULE’ GIORGIO – STASSI MARIA – FERRARA (2013/2015) Nell’ufficio di gabinetto della VANCHERI, fin dal primo periodo del suo insediamento all’Assessorato Regionale della Attività Produttive, la stessa aveva nominato, quale componente, tale VITALE Vincenzo, funzionario della Regione Siciliana. La VANCHERI; nei primi mesi del 2013, ebbe a confidarmi che tale nomina le fu indicata dal MONTANTE in quanto il VITALE sarebbe un parente dell’attuale Direttore del periodico PANORAMA, MULE’ GIORGIO, soggetto, a detta della VANCHERI, legato da profonda amicizia con il MONTANTE. LA VANCHERI mi riferì che il MULE’ godeva di rapporti di un certo “peso” negli ambiti del potere politico, istituzionale e della comunicazione e, per tali ragioni, rappresentava per il MONTANTE un legame più che prezioso. Era questo il motivo per cui il MONTANTE teneva moltissimo alla nomina del VITALE ed all’attribuzione allo stesso di un ruolo “centrale” nello staff della stessa VANCHERI e, altresì, nelle attività correlate ad Expo 2015, le cui rilevanti competenze economiche ed organizzative erano state assegnate, dal Governo regionale, anche al citato Assessorato. La VANCHERI, in alcune occasioni, mi riferì che il VITALE l’aveva messa più volte in fortissimo imbarazzo per le costanti pretese di volersi recare in missione fuori dalla Sicilia e dall’Italia, a spese della Regione Siciliana, per partecipare a svariati eventi, incontri istituzionali e manifestazioni fieristiche molte delle quali inutili e/o non indispensabili. Inoltre la VANCHERI mi confidò che, sempre su input del MONTANTE, aveva affidato al VITALE il compèito di seguire operativamente il settore dell’internazionalizzazione delle imprese, delegandolo, di fatto, anche ad un ruolo preminente e condizionante nelle scelte di competenza del servizio del citato dipartimento a cui, formalmente, spettava la gestione. Il VITALE, altresì, accompagnava, spesso, la VANCHERI insieme alla STRACUZZI Chiara (capo di gabinetto vicario, moglie di LA ROTONDA CARLO, Direttore di Confindustria “Centro Sicilia”, soggetti a cui ho accennato per altri fatti nel documento consegnato alla S.V. il 02.11.2015), soprattutto nel periodo 2013/2014; invece, nel 2015, il VITALE, si recava costantemente a Milano per curare personalmente le attività per Expo, insieme a tale BALSAMO ALESSANDRO, anch’egli componente dell’ufficio di gabinetto della VANCHERI, soggetto legato al CROCETTA. …omissis…

Il VITALE Vincenzo effettivamente aveva ricevuto l’incarico dalla VANCHERI di occuparsi, unitamente ad altri colleghi dell’Assessorato alle Attività Produttive, dei fondi Expo, come si legge anche in articoli di stampa di cui uno viene allegato. (All. nr. 498 - articolo di stampa su Vitale/Expo) Tra il materiale sequestrato al MONTANTE, presso la sua abitazione, veniva rinvenuta una lettera inviata dal giornalista MULE’ Giorgio, nato a Caltanissetta il 25.4.1968, direttore del settimanale “Panorama” dal settembre 2009.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MULE’ Giorgio:

03/02/2012 ore 13,00 con Giorgio Mulè alla Montadori (dopo un' intervista) Iovino D'Amiano

01/03/2012 cena con Giorgio Mulè con Nino Bevilacqua al Montecristo (non si conoscevano)

03/03/2012 sms 12,37 da Giorgio Mulè: la mamma gli dice che siamo mezzi parenti con Antonello, la madre di tuo nonno Lillu si chiamava Pietra Montante

11/04/2012 ore 21,00 cena Giorgio Mulè al Bernini

30/04/2012 GIORGIO MULE' MD-021 FLORENCE DONNA

30/04/2012 GIORGIO MULE' V-075 VINTAGE FATTORINO UOMO

31/05/2012 cena al Montecristo con Giorgio Mulè

05/06/2012 app. regista Moschella e moglie Mulè in Confindustria Sicilia

25/06/2012 ore 15,30 Moschello regista moglie Mulè in Sicindustria

27/06/2012 ore 21,00 cena con Giorgio Mulè a Brera

31/08/2012 cena al Montecristo con Giorgio Mulè e moglie

05/12/2012 sms 13,01 Giorgio Mulè: dove ci sarò io, ovunque sarà casa tua. Grazie a te un abbraccio Giorgio

14/12/2012 ore 20,30 cena Giorgio Mulè e moglie da Giacomo

27/11/2013 ore 09/10 app. Mulè Giorgio

06/12/2013 ore 20,30/21,30 cena Mulè e Chiara al Porto Parlato

20/12/2013 ore 15,30/16,30 app. Mulè Giorgio EICMA

21/12/2013 ore 09/10 casa Mulè Giorgio

17/01/2014 ore 13,30/14,30 pranzo Mulè Giorgio e Brumotti da Cavallini

13/03/2014 ore 20,30/21,30 cena Squinzi, Mulè, Fiori e Minoli a Milano La Risacca Blu viale Tunisia

10/07/2014 ore 09/10 app. Giorgio Mulè al Bernini

08/08/2014 ore 13/14 pranzo Giorgio Mulè in via De Amicis di fronte Cioccolati con Agnese

15/10/2014 ore 13/14 pranzo Mulè Peppino da Tullio

22/10/2014 ore 13/14 pranzo Mulè Granata al Bernini Roma

13/11/2014 ore 15/16 app. Giorgio Mulè, Arcuri e Linda al Bernini

13/11/2014 ore 22/22 cena Mulè Agnese da Tullio

14/01/2015 ore 19/20 app. Giorgio Mulè al Bernini

24/01/2015 ore 13/14 Mulè Giorgio da Cioccolati

06/02/2015 ore 13/14 pranzo Mulè Giorgio

14/02/2015 ore 10,30/11,30 Mulè Giorgio da Cioccolati

26/02/2015 ore 18/19 app. Mulè al Bernini

13/03/2015 ore 18,30/19,30 app. Giorgio Mulè e Savini

17/03/2015 Panorama: informazione a Montante da parte di Mulè Giorgio, ha ricevuto da un suo amico d'infanzia, che oggi ricopre ruolo di garanzia

24/04/2015 ore 13,30/14,30 pranzo Mulè Cavallino, Anto e Crippa

22/05/2015 ore 20,00 Mulè fatto vedere esposto 05/08/2015 ore 09,30 app. Nello Musumeci in SICINDUSTRIA per suo progetto + sponsor gazzebo Catania per figlio indeciso + per sua intervista + Mulè + Sottile

06/08/2015 ore 19,30 app. Giorgio Mulè da La Mantia Piazza Risorgimento Milano (ex Gold)

04/09/2015 ore 19,00 aperitivo da La Mantia Filippo con Giorgio Mulè

17/09/2015 ore 17,00 Giorgio Mulè e Roberto Galullo, poi Francesco Fiori

15/10/2015 ore 19,00 app. Giorgio Mulè ristorante Filippo La Mantia con Grippa

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) MULE' GIORGIO T

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE MULE' NOTA 17/03/2015

A proposito del giornalista MULE’ Giorgio, si richiama anche la denuncia presentata a codesta A.G. in data 26.3.2015 dal CASAGNI Giampiero, giornalista del settimanale “Centonove”, nel corpo della quale il CASAGNI riferiva che, dopo avere raccolto del materiale inerente i rapporti tra MONTANTE ed ARNONE Vincenzo, aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso un quotidiano nazionale, in particolare “Panorama”. Non essendo riuscito a mettersi in contatto con il direttore del giornale, aveva chiesto ad un amico comune di Caltanissetta, ZAMMUTO Stefano, ex compagno di banco del MULE’ Giorgio, se poteva metterlo in contatto con quest’ultimo, il quale, appreso l’argomento dello scoop gli diceva di inviargli il tutto via mail e che, poi, gli avrebbe fatto sapere. Il CASAGNI inviò la mail il 2.5.2014 ma il MULE’ non gli fece sapere più nulla.

Frattanto, dopo la pubblicazione di un articolo intitolato “La volata di Montante” del 26.2.2015, in cui si dava notizia anche di una consulenza data dall’Irsap alla figlia del Procuratore DI NATALE, oggi in pensione, lo ZAMMUTO gli aveva raccontato di avere ricevuto la visita del citato magistrato, il quale gli aveva riferito che il MONTANTE era in collera con lui e che intendeva denunciarlo perché reputava che fosse in combutta con il CASAGNI, fornendogli persino materiale giudiziario contro di lui, specificandogli che il MULE’ era un grande amico del MONTANTE.

Che sia stato il MULE’ a riferire al MONTANTE del contatto CASAGNI/ZAMMUTO, lo si evince con certezza dal materiale rinvenuto in corso di perquisizione effettuata a carico del MONTANTE.

Infatti, nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, veniva rinvenuta anche la seguente annotazione: 17/03/2015 Panorama: informazione a Montante da parte di Mulè Giorgio, ha ricevuto da un suo amico d'infanzia, che oggi ricopre ruolo di garanzia.

Inoltre, anche nel memoriale depositato dal MONTANTE al Tribunale del Riesame dopo le perquisizioni effettuate a suo carico, egli allega una lettera del 17.3.2015 (quindi dopo la pubblicazione dell’articolo del BOLZONI in data 9.2.2015) in cui il MULE’ riferiva delle vicende sopra indicate.

Sempre nel documento consegnato dal CICERO in sede di escussione del 20.10.2016, si leggeva anche del giornalista CASTALDO Franco, editore del giornale on-line “Grandangolo”.

Il CICERO incontrava quest’ultimo in occasione di un appuntamento con il FIUMEFREDDO e aveva avuto modo di constatare i buoni rapporti di amicizia intercorrenti tra i due. Inoltre, il FIUMEFREDDO stesso gli confidava, dopo che il giornalista si era allontanato, che quest’ultimo era molto legato al CATANZARO Giuseppe, che aveva in cantiere il progetto di finanziare la creazione di una nuova testata giornalistica che sostenesse mediaticamente l’azione di Confindustria Sicilia, di cui CATANZARO – si rammenta – è stato da poco eletto Presidente.

Si riporta stralcio del documento consegnato dal CICERO in data 8.10.2016 – pag. 37 …omissis… FIUMEFREDDO – CASTALDO – CATANZARO (2014) Se mal non ricordo, nel 2014, un giorno festivo, in orario pomeridiano, nello studio del FIUMEFREDDO, incontrai CASTALDO FRANCO, di Agrigento, editore del giornale on line GRANDANGOLO, che aveva già concluso il suo incontro con il FIUMEFREDDO e con il quale, per qualche minuto, scambiammo dei convenevoli prima che lo stesso andasse via. Notai che tra il FIUMEFREDDO ed il CASTALDO vi era una stretta amicizia e che il CASTALDO tenesse in evidente considerazione il FIUMEFREDDO. Il FIUMEFREDDO, prima di iniziare la nostra discussione, mi confidò che il CASTALDO da diverso tempo era legato al CATANZARO e che, proprio su input e sostegno economico del CATANZARO, stavano elaborando un’iniziativa comune con SUDPRESS.IT per lanciare una nuova testata giornalistica di diffusione regionale al fine precipuo di sostenere mediaticamente l’azione di Confindustria Sicilia. …omissis…

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al CASTALDO Franco: 29/09/2015 ore 13,00 app. Franco Castaldo al Bar Grandangolo viale Della Vittoria AG.

In data 6.8.2016, veniva intercettata la conversazione nr. 1537 delle ore 15.55, in cui il MONTANTE chiedeva al CASTALDO Francesco di occuparsi - quando glielo avrebbe detto lui - della stesura di uno o più articoli contro PETROTTO, DENI, VENTURI e CICERO, rappresentandogli che aveva presentato una denuncia molto corposa nei loro confronti alla Procura di Agrigento e alla Polizia Postale.

Il MONTANTE gli preannunciava che gli avrebbe fornito le carte e gli anticipava che doveva parlare di una vera e propria “associazione” composta da “fuoriusciti da Confindustria” che avevano dovuto fare tutto ciò che avevano fatto contro di lui perché avevano dovuto cedere alle pressioni della mafia agrigentina.

Il CASTALDO lo rassicurava dicendogli che “aveva capito alla perfezione”.

Conversazione telefonica nr. 1537:

CASTALDO: ..pronto!..

MONTANTE: ..chi fa durmivatu, durmivatu?..

CASTALDO: ..pronto!..

MONTANTE: ..durmivatu?..

CASTALDO: ..capita!.. ma poi dici ca un durmu mai!..

MONTANTE: ..minchia!.. (ride).. minchia!.. cumu si?..

CASTALDO: ..bonu, bonu!.. eeeh, ..(inc).. tutto oggi, domani mattina alle ore otto già..

MONTANTE: ..vabbè, vabbè okkey..

CASTALDO: ..cioè siamo..

MONTANTE: ..si, ti volevo dire una cosa, ti sto informando.. nooo, ti sto informando solo ca, che ieri Confindustria Sicilia, no!..

CASTALDO: ..si!..

MONTANTE: ..però questo non lo dare, non lo dare..

CASTALDO: ..ti ascolto.. !

MONTANTE: ..no, lo so!.. perché m’interessa dopo.. unni c’è un succu, cioè molto formaggio.. ha fatto una denuncia corposa presentata alla Procura di Agrigento e alla Polizia Postale molto corposa..

CASTALDO: ..si..

MONTANTE: ..eh, controoo, contro Petrotto, Deni, Ventu..

CASTALDO: ..si..

MONTANTE: ..Venturi, Cicero.. cose va, na cosa molto corposa!..

CASTALDO: ..si, si, si, si!..

MONTANTE: ..vabbeni?.. però già sappi.. (si accavallano le voci)..

CASTALDO: ..anch’io mi occupo per adesso di questa vicenda di, di Mariella di cui abbiamo.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..(inc).. tu sai che non la seguo questa, no sooo, vabbè!..

CASTALDO: ..no!.. io, io, io sono.. io sono il ..(inc).. ho le cose.. ah, ah, appena siamo pronti di, di quest’altra vicenda ora me, me ne occupo pure io..

MONTANTE: ..nooo, ti voglio dire poi ti do, poi ti do le car.. però cunveni ..(balbetta).. ci sono varie puntate no!.. in generali!..

CASTALDO: ..certu, certu!.. (inc).. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..ti, ti, ti volevo dire chee, ieri è stata consegnata alla Procura di Agrigento..

CASTALDO: ..si, si..

MONTANTE: ..e alla Polizia Postale un corposo, una corposa denuncia, diciamo.. proprio no!.. propria denuncia..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..diii, contro un’organizzazione, va bene?..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..e pirchì l’abbiamo..

CASTALDO: ..organizzazione!..

MONTANTE: ..l’abbiamo chiamata organizzazione, va beni?..

CASTALDO: ..vedi effettivamente, effettivamente parteru ca eranu Lanzichenecchi, maaa ora ehh, c’è troppa cointeressi di tutti.. de, denoto pure io che vico, come si dice, dall’esterno!.. (inc)..

MONTANTE: ..si, si, si!.. no ma poi, appena la leggi ti rendi conto perché mhm, fra gli avvocati eccetera eccetera, eh, hanno capito che c’era pro.. è proprio una, una vera organizzazione eeeh, e una delle scelte di quello che è successo.. (si accavallano le voci)..

CASTALDO: ..si, si.. (si accavallano le voci)..

MONTANTE: ..(inc).. fuorusciti dal sistema Confindustria..

CASTALDO: ..si, si..

MONTANTE: ..eh, è rimasto nelle tele della mafia loca, eeh, agrigentina!..

CASTALDO: ..si, si, si..

MONTANTE: ..perchè, pur di ottenere i suoi risultati si è ve.. si è, ha ceduto a questa guerra praticamente no!..

CASTALDO: ..ah, si, si, si.. eh, eh, a queste pressioni.. ho capito, ho capito!..

MONTANTE: ..questa, no questa.. questa è la denuncia no?.. perché alla fine ora solo per.. vabbè molto, molto forte, capito?..

CASTALDO: ..si, si!.. ho capito alla perfezione.. tu, tutto a posto tu?.. ..

Dopo di ciò la conversazione assume un carattere amichevole e non inerente alle indagini.

In data 20.10.2016, progr. 2880605 delle ore 12.25, il MONTANTE diceva alla VACCARO Santa, segretario generale di Unioncamere Sicilia, in ordine a delle assunzioni o a delle consulenze da affidare, di considerare il figlio di CASTALDO e gli chiedeva se aveva un curriculum del figlio. La VACCARO rispondeva negativamente ed il MONTANTE, quindi, le diceva di chiamare il CASTALDO per farsi mandare il curriculum del figlio.

Conversazione telefonica nr. 2880:

VACCARO: Pronto

MONTANTE: Santa?

VACCARO: Ehi Antonello

MONTANTE: ciao Santa VACCARO: (inc)

MONTANTE: senti, ieri mi hai dato…

VACCARO: si

MONTANTE: un cu…, quel curriculum che è arrivato da un certo ingegnere Vella

VACCARO: si

MONTANTE: ora è ... datato quattordici undici, quindi c'è una erra.. un errore (inc)… te lo devi fare dare nuova, invece, dico, c'è scritto quattordici novembre, ancora deve venire il quattordici novembre

VACCARO: Ah, questo io manco infatti l'ho stampato direttamente, vabbè ora lo chiamo e poi mi faccio fare. Si

MONTANTE: va bene? okay?

VACCARO: si, si,si, si. Va bene, Okay.

MONTANTE: Perfetto

VACCARO: Poi stanno arrivando poi i curriculum quelli però... quelli per quanto riguarda le... gli immobili per la valutazione degli immobili… Poi martedì quando ci vediamo...

MONTANTE: (inc)… invece va... va... valutiamo… valutiamo la presenza del... sai di Castaldo

VACCARO: valutiamo?

MONTANTE: quel ragazzo, il figlio di Castaldo che... hai un curriculum o sbaglio.

VACCARO: Eh... no io di questo non ne ho. Io ...

MONTANTE: chiama a Cas ... chiama a Castaldo

VACCARO: ho qualche cosa di (inc) non ho altre cose

MONTANTE: fatti mandare il curriculum

VACCARO: eh, magari lo chiamo, lo chiamo

MONTANTE: il curriculum del figlio, si, si... va bene che è bravo (inc)

VACCARO: si, si perfetto

MONTANTE: okay va bene?

VACCARO: okay lo chiamo e me lo faccio mandare

MONTANTE: chiamalo

VACCARO: va bene!

MONTANTE: Ti abbraccio, a dopo

VACCARO: okay, anche a te

MONTANTE: ciao

VACCARO: ciao ciao

Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dal TORNATORE Pasquale. In data 4.12.2015, il TORNATORE Pasquale riferiva che il padre del giornalista MARTINES Valerio - già giornalista de “La Sicilia” e già direttore del giornale on-line “Seguo News”, attualmente addetto stampa all’ordine dei medici - gli aveva confidato che, dopo che il figlio aveva pubblicato un articolo su “La Sicilia” critico nei confronti del MONTANTE, era stato contattato dal ROMANO Massimo e dal MONTANTE che gli avevano fatto capire che non avevano gradito quanto pubblicato. Addirittura il MONTANTE, poi, intervenne sulla redazione catanese facendo pressioni per far sì che non venissero più pubblicati articoli di giornale di quel tenore. Il TORNATORE produceva, in sede di escussione, l’articolo di giornale in argomento.

Così riferiva il TORNATORE Pasquale: …omissis… A.D.R. Posso anche dire di aver saputo dal padre del giornalista Valerio MARTINES che, dopo la pubblicazione da parte del figlio di un articolo su “La Sicilia” di una indagine nei confronti del MONTANTE per il reato di falso in bilancio – articolo di cui ho con me oggi una copia e che produco alla S.V. – aveva ricevuto una telefonata a casa da parte di ROMANO e MONTANTE, i quali gli avevano espressamente chiesto “chi ce lo portava il figlio a scrivere ‘ste cose”. Sempre il padre del MARTINES mi disse che MONTANTE successivamente aveva fatto pressioni sulla redazione catanese del giornale affinché si evitasse la pubblicazione di altri articoli sull’argomento. …omissis…

Tra la documentazione sequestrata al MONTANTE, veniva rinvenuta una mail con cui il MARTINES Valerio gli inviava il suo curriculum vitae, dal cui tenore si desume in maniera evidente che i due avevano chiarito ed avevano anche allacciato un rapporto di amicizia.

Altra documentazione veniva sequestrata, sempre nel corso delle perquisizioni esperite a carico del MONTANTE, presso gli uffici di Unioncamere Palermo ove veniva rinvenuta documentazione inerente proprio finanziamenti da destinare al MARTINES.

Dalle intercettazioni si evinceva che il MARTINES aveva chiesto dei favori al MONTANTE che si era reso disponibile. Nella conversazione nr. 655606 delle ore 08.19 del 4.5.2016, il MONTANTE richiamava il MARTINES, dopo avere visto che lui lo aveva cercato in precedenza e gli chiedeva se poteva fare qualcosa per lui anche se si trovava fuori Caltanissetta. Il MARTINES gli rispondeva che voleva solo chiedergli se c’erano novità per un favore che evidentemente gli aveva chiesto in precedenza ed il MONTANTE rispondeva che “ci stava lavorando”, anche se gli spiegava che, per ovvi motivi, non usava i telefoni e, perciò, lasciava intendere che si adoperava incontrando di persona i soggetti con cui avrebbe dovuto parlare anche della sua situazione. Il MARTINES lo ringraziava e gli proponeva di incontrarsi, magari, una sera a cena e lo avrebbero detto anche a Michele, da identificarsi verosimilmente nello SPENA Michele.

Conversazione telefonica nr. 655: All'inizio della registrazione e prima della risposta dell'interlocutore, si sente MONTANTE Antonio Calogero dire testualmente: "...venti...il tuo numero della stanza all'Hotel...(inc)...di Napoli". Immediatamente dopo:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Valerio, Antonello...Valerio!

MARTINES: Antò...buongiorno! Come stai?

MONTANTE: Bene, che fà dormi la mattina ah!

MARTINES: No, no, ero nell'altra stanza che stava facinnu colazione...buongiorno!

MONTANTE: No scusami, lo sò...l'ho visto che mi hai chiamato...ho visto i messaggi ma non sono rientrato...quindi...ho avuto un casino...

MARTINES: Chiaro, no no anzi...figurati! Scusa me se ti ho...

MONTANTE: Sono ancora fuori, quindi rientro la prossima settimana...

MARTINES: Ho capito...

MONTANTE: Dimmi se posso fare qualcosa anche a distanza...

MARTINES: No no, così era...solo per...se c'era qualche cosa di novità...

MONTANTE: Ci sto lavorando, nel senso che ci sono...

MARTINES: Perfetto!

MONTANTE: Però volevo capire se c'è...no pensavo che c'era qualcosa...(inc)...

MARTINES: No no no...così era...no no no...solo...

MONTANTE: Se ti viene qualche idea...idea...non ti preoccupare...(inc)...

MARTINES: No no assolutamente...mezza parola...no no...solo...non ci sono problemi allora...a maggior ragione...(inc)...

MONTANTE: Và bene...siccome ho visto...no ho visto...per ora...per ovvi motivi uso poco...anche perchè sono sempre in riunione...

MARTINES: Ovviamente...no no...

MONTANTE: ...non uso i telefoni...quindi diciamo capito...

MARTINES: ...anzi ti ringrazio...

MONTANTE: ...volevo capire se c'era qualche...(inc)...

MARTINES: No assolutamente...poi magari qualche sera andiamo a cena assimi...si ti capita di...con Michele anche e stamu assimi un pocu...và...

MONTANTE: Si si...con piacere...il problema è...il problema è che gli ultimi periodi un c'aiu statu chiù...questo è il problema...

MARTINES: Ovviamente...no no no...l'ho capito...

MONTANTE: Perchè vengo un giorno...spesso e volentieri non vengo perchè mi fermo a Palermo perchè i miei...tu ù sà...tra...le mie figlie sono fuori...

MARTINES: ...sull'asse Londra Milano...è chiaro...no no...và bene Antonellì...ti ringrazio sempre ah?

MONTANTE: Un bacio...

MARTINES: Grazie...obbligato...

MONTANTE: Ciao, un abbraccio...ciao...

MARTINES: Ciao...un bacio...buona giornata...

MONTANTE: ...ciao...

MARTINES: ...ciao.

Qualche mese dopo, progr. nr. 360607 delle ore 19.58 del 12.7.2016, il MARTINES tornava alla carica con il MONTANTE, che chiamava “compà”, chiedendogli se aveva novità che lo riguardavano, visto che era da un po’ di tempo che non si vedevano e non era riuscito ad incontrarlo nemmeno al matrimonio della figlia del MISTRETTA Vincenzo, Graziella. Il MONTANTE lo rassicurava dicendogli che si sarebbero incontrati la settimana prossima a Caltanissetta ed il MARTINES lo ringraziava.

Conversazione telefonica nr. 360:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Valerio, Antonello...Valerio!

MARTINES: Antonè! Come stai?

MONTANTE: Bene tu? Tutto a posto?

MARTINES: Bene! Tutto a posto! Chi si dici?

MONTANTE: Bene, tutto a posto...cummattimmu Valè...(inc)...

MARTINES: Và bè...eh!

ONTANTE: Tu?...(inc)...

MARTINES: T'ho rotto le palle nì stì giorni...ora infatti dissi...(inc)...

MONTANTE: No e infatti io...(inc)...se non sono reperibile può succedere la fine del mondo purtroppo...

MARTINES: Chiaro! No...e l'altra sera ho chiesto di te a tua moglie, c'era Chiara...Alessandra...al matrimonio di Graziella...

MONTANTE: ...(inc)...avevo un problema mio personale e quindi ero...

MARTINES: ...chiaro...l'ho capito...

MONTANTE: ...ero fuori...si...quindi...

MARTINES: ...ho capito...

MONTANTE: ...mi sono perso questo bel matrimonio...(inc)...

MARTINES: E infatti...e infatti...

MONTANTE: ...(inc)...tutto a posto tu?

MARTINES: Bene, bene compà...niente accussì era...ti chiamavo per finire un pò...ero un poco in tridici và! MONTANTE: Non ti sento bene...come?

MARTINES: No, ti avevo chiamato così per sapere se c'erano novità...qualche cosa...che ero un poco...

MONTANTE: No...si spera la prossima settimana...io torno...torno domenica quindi la prossima settimana ci sarò e...ci vediamo a Caltanissetta!

MARTINES: Và bene và!

MONTANTE: Và bene?

MARTINES: Perchè ero un poco...ero un poco in tridici và!

MONTANTE: U capivu!

MARTINES: Và bene...

MONTANTE: ...(inc)...

MARTINES: Và bene và...anzi grazie sempre ah!

MONTANTE: ciao Valerio ciao...

MARTINES: Grazie...ciao arripigliati...un bacio...ciao.

Una settimana dopo, progr. nr. 656 delle ore 09.38 del 19.7.2016, il MONTANTE richiamava il MARTINES che lo aveva provato a rintracciare, invano, inviandogli svariati messaggi. Il MARTINES gli chiedeva nuovamente se avesse novità relativi, chiaramente, a qualcosa che il MONTANTE doveva fare per lui e quest’ultimo gli rispondeva che non avevano emesso delibere alla Camera di Commercio, poiché si era in una fase di stand-by scaturente dal progetto di unificazione di detti enti, ma che presto avrebbe provveduto. Il MARTINES lo ringraziava, ribadendogli che era a disposizione per qualunque cosa.

Conversazione telefonica nr. 656:

MARTINES: Pronto!

MONTANTE: Eh...Valerio...Antonello...Valerio!

MARTINES: Hei...buongiorno! Cumu simmu! Tutto a posto?

MONTANTE: Bene bene...si ma scusami...ho visto che mi hai mandato parecchi messaggi...

MARTINES: No...non ti preoccupare...ti ho solcherizzato...ah ah ah...(ride)...

MONTANTE: Non sono stato be...non sono stato bene e ho fatto delle cose...degli esami...

MARTINES: Ah...questo mi dispiace...ah...questo mi dispiace gioia...scusami allora...scusami davvero...

MONTANTE: Ieri ero a Caltanissetta ma ho fatto toccata e fuga...

MARTINES: Chiaro...ho capito, và bene!

MONTANTE: ...(inc)...dimmi...(inc)...

MARTINES: Niente tutto a posto...no era per sentirci accussì...era per capire un poco se avevamo novità...qualche cosa di MONTANTE: ...(inc)...per quella là...(inc)...non ho fatto...non abbiamo fatto delibere di nessun genere perchè per i motivi dell'accorpamento...a giorni la faremo...

MARTINES: Chiaro...và bene...

MONTANTE: Poi non sò...se tu hai novità...per Caltanissetta...

MARTINES: No...quella cosa di...no và bè...poi magari nì vidimmu con calma...dai ...un ci 'nè prescia...non ti preoccupare...no và bè...quella cosa là di Milano, per capire...

MONTANTE: Si si si...ma questa qua è...

MARTINES: Ah perfetto...no no, avevo sentito male...scusami...và bene...

MONTANTE: Okay...và bene? Okay?

MARTINES: Và bene...và bò! Antonè...per qualsiasi cosa a disposizione ah?

MONTANTE: Và bene...ciao grazie...

MARTINES: Và bene? Un bacio grande! Ciao...in gamba! Ciao gioia!

13.4 Altre dichiarazioni relative ai rapporti del MONTANTE con giornalisti rese dalla VIZZINI Maria Sole.

In data 1.4.2016, la VIZZINI Maria Sole riferiva, ex ceteris, di una vicenda dalla quale si evinceva anche altro legame che il MONTANTE aveva anche con il giornalista ABBATE Lirio. Occorre anzitutto premettere, per meglio inquadrare il narrato che sarà di seguito riportato, che la VIZZINI ha rivestito l’incarico di revisore contabile dell’A.S.T. dal 2007 circa sino al marzo 2016 e che aveva espresso sempre forti perplessità sul progetto di fusione tra A.S.T. e Jonica Trasporti, fortemente voluta dal MONTANTE. La Jonica Trasporti è una società partecipata di A.S.T. s.p.a. che detiene il capitale al 51% mentre la restante parte del 49% è della ditta Mediterr Shock Absorbers s.p.a del MONTANTE Antonio Calogero; amministratore unico della Jonica Trasporti è CANONICO Carmine, generale della Guardia di Finanza in pensione che aveva già prestato servizio a Caltanissetta come responsabile della Sezione di p.g. – aliquota G.d.F., soggetto legato al MONTANTE, per come emerge dalle intercettazioni. La VIZZINI dichiarava che, in riferimento alla fusione di A.S.T. con Jonica Trasporti, l’allora vice presidente con funzioni di Presidente dell’A.S.T., avv. CUSUMANO Giulio, si era opposto a tale operazione di fusione ed un giorno le chiese di incontrarla.

Nel corso di tale incontro, il CUSUMANO le confidava di essere stato avvicinato da due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, che lo avevano minacciato dicendogli che, se avesse continuato ad opporsi a tale fusione, avrebbero diffuso delle notizie che riguardavano la sua sfera privata, con particolare riferimento a festini omosessuali da lui frequentati e a vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato. Qualche tempo dopo, il giornalista ABBATE Lirio - che la VIZZINI conosceva e al quale aveva già espresso le sue perplessità circa l’operazione di fusione in argomento - contattava la VIZZINI e le chiedeva informazioni proprio in merito all’avv. CUSUMANO, specificandole che voleva sapere notizie attinenti proprio i due stessi argomenti alla base delle minacce dei due loschi figuri che avevano avvicinato il CUSUMANO e cioè parentele di quest’ultimo con soggetti che avevano avuto problemi giudiziari e frequentazioni di locali omossessuali.

Così riferiva la VIZZINI: …omissis… A.D.R.: Per quanto riguarda l’A.S.T., posso riferire su svariati tentativi che ho potuto riscontrare nel corso del tempo finalizzati a mettere in difficoltà la società, ritengo per poi svenderla. In tale contesto si inserisce, a mio parere, la vicenda relativa alla fusione di Jonica Trasporti ed A.S.T.; in particolare, su tale specifica vicenda, posso riferire che una volta, l’Avv. Giulio CUSUMANO, in quel momento Vice Presidente con funzione di Presidente a seguito delle dimissioni di GIAMBRONE per problemi giudiziari, durante più sedute manifestò con assoluta decisione che era contrario all’operazione di fusione. Accadde che il CUSUMANO mi volle incontrare di persona, incontro che avvenne in Palermo nei pressi del mio studio; in quella occasione chiese il mio supporto e di non lasciarlo solo nella sua battaglia contro la fusione, dicendomi altresì che era molto spaventato perché due soggetti, con il volto semi coperto da sciarpe, l’avevano avvicinato, dicendogli che “se avesse continuato a rompere” avrebbero reso pubbliche notizie riguardanti vecchie vicende giudiziarie che riguardavano la sua famiglia nonché la sua partecipazione a festini omosessuali. Se mal non ricordo, successivamente, qualche notizia sul coinvolgimento di CUSUMANO in festini e/o bische clandestine, fu pubblicato. Per far comprendere cosa risposi nell’occasione al CUSUMANO devo premettere che sono solita redigere perizie, a titolo personale, per inchieste giornalistiche ed in tale contesto ho avuto modo di conoscere il giornalista Lirio ABBATE, al quale in più di qualche occasione avevo espresso le mie perplessità sul progetto di fusione. Lo stesso Lirio ABBATE mi consigliò di affrontare la situazione non come mio solito, di spada, bensì di fioretto. Risposi, pertanto, al CUSUMANO in occasione dell’incontro di cui ho parlato che era consigliabile, rifacendomi al consiglio che mi aveva detto tempo prima Lirio ABBATE, che era consigliabile, appunto, agire di fioretto. Successivamente all’incontro che ebbi col CUSUMANO lo stesso ABBATE mi chiamò chiedendomi cosa gli potessi dire del CUSUMANO medesimo e cioè se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se effettivamente questi aveva partecipato a festini. Compresi, pertanto, che la vicenda raccontatami dal CUSUMANO avesse un suo serio e concreto fondamento. Non ho però mai riferito al CUSUMANO della telefonata ricevuta da Lirio ABBATE. …omissis…

I legami dell’ABBATE Lirio con il MONTANTE sono cristallizzati agli atti d’indagine.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi all’ABBATE Lirio:

02/09/2008 ore 13,00 app. Lirio Abbate pranzo Palermo

07/12/2009 ore 15,30 Lirio Abbate al Bernini

17/12/2009 ore 21,00 cena con Lirio Abbate, Cicero e La Licata da Tullio

22/01/2010 ore 13,00 pranzio Lirio Abbate

16/09/2010 ore 09,00 app. Monica Ceravolo moglie Lirio Abbate al Bernini

22/09/2010 ore 09,00 app.Monica x Tamburini / Cerasolo (Lirio Abbate) Bernini

07/10/2010 ore 09,00 app. Bernini con Monica Ceravolo (Lirio Abbate)

09/10/2010 ore 13,30 pranzo con Lirio Abbate al Porticello

27/10/2010 ore 09,00 colazione Lirio Abbate al Bernini

14/12/2010 ore 16,00 app. Lirio Abbate

19/10/2011 ore 09,00 Lirio Abbate Bernini

17/11/2011 ore 10,00 app. Lirio Abbate al Bernini

17/05/2012 ore 11,00 app. Lirio Abbate al Bernini

17/05/2012 ore 19,00 app. Lirio Abbate + Liviadotti e Ivan al Bernini

15/08/2012 ore 15,00 con Antonio I., Lirio Abbate, Venturi in barca

05/09/2012 ore 21,00 cena da Tullio con Lirio Abbate e Dispenza

13/12/2012 ore 09,00 colazione con Lirio Abbate

27/02/2013 ore 16,00 Lirio Abbate

21/03/2013 colazione Pitruzzella poi Lirio Abbate

03/04/2013 ore 16,00 Lirio Abbate Sicindustria

23/04/2013 cena Lirio Abbate Bernini

02/07/2013 Venturi, Lirio Abbate Confindustria Sicilia

26/07/2013 Lirio Abbate e Panucci

20/11/2013 ore 16/17 app. Lirio Abbate e Lo Bello al Bernini

16/07/2014 ore 09,30/10,30 app. Lirio Abbate a Villa Igea

20/11/2014 ore 11,30/12,30Lirio Abbate e Monica

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE ABATE LIRIO (MONICA CERAVOLO)

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TEL SEN”, era annotato: TEL RIC.(SENN) ABATE LIRIO T 13.5

Altre risultanze investigative relative ai rapporti del MONTANTE con altri giornalisti. A parte le dichiarazioni sopra dette, dalla complessiva attività di indagine emergevano altri elementi inerenti i rapporti del MONTANTE con giornalisti. 1405 Anzitutto si segnala il rapporto che aveva instaurato con il giornalista de “Il Sole 24 ore” ODDO Giuseppe - di cui si è riferito ampiamente nei paragrafi 4.2.3 e 4.2.4 - che già in re ipsa dà contezza del tentativo del MONTANTE di strumentalizzare l’informazione a suo vantaggio. Al riguardo si richiama quanto veniva rinvenuto, tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE, attinente al giornalista ODDO Giuseppe.

A proposito si richiama una parte delle dichiarazioni dell’ODDO Giuseppe in cui il giornalista ricordava che il MONTANTE gli aveva chiesto di “attaccare” il giornale on-line “Live Sicilia”, diffondendo notizie a discredito del direttore e di uno degli azionisti di questa testata, rispettivamente FORESTA e AMATO o D’AMATO, sui quali il MONTANTE disse che avevano legami familiari con la mafia. Per questo, qualche tempo dopo, il MONTANTE forniva all’ODDO dei documenti da cui si poteva risalire a queste notizie ma l’ODDO ritenne le carte fornitegli insufficienti per tacciare di mafiosità i suddetti giornalisti.

Così riferiva l’ODDO in data 27.11.2015: …omissis… A.D.R.: Lavoro come giornalista presso la testata “Il Sole24Ore” dal 1997 e sin dal 1973 ho lavorato all’interno del gruppo di cui fa parte la testata. Sto, comunque, per andare in pensione. A.D.R.: A partire dal 2008 ed anche al fine di poter conciliare esigenze familiari legate alle condizioni di salute di mia mamma, chiesi ed ottenni dal direttore dell’epoca dott. DE BORTOLI di potermi occupare delle vicende siciliane; ricordo infatti che pubblicai, assieme al collega GALULLO, un’inchiesta giornalistica in due puntate sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia. …omissis… Mi torna, tuttavia, alla mente che, in epoca antecedente al luglio del 2013, il MONTANTE “mi parlò male” di “Livesicilia” e mi esortò “ad attaccarla”, dicendomi che FORESTA ed AMATO o D’AMATO, rispettivamente direttore ed uno degli azionisti della testata, avessero familiari legati alla mafia. Successivamente MONTANTE mi consegnò delle carte e documenti – che ricordo essere visure camerali ed atti dei quali forse sono ancora in possesso – da cui si evincevano elementi a mio giudizio irrilevanti e che al più potevano riguardare il padre del FORESTA per vicissitudini giudiziarie non legate alla mafia. Ricordo anche che MONTANTE mi disse che un parente di AMATO o D’AMATO era stato ucciso in un agguato di mafia. …omissis…

Effettivamente il direttore di Live Sicilia era Francesco FORESTA, mentre uno degli editori, nonchè giornalista, è AMATO Giuseppe. Singolare, poi, la notoria circostanza dello stretto legame che il MONTANTE ha invece poi intessuto con il FORESTA Francesco, tanto che quest’ultimo, addirittura in punto di morte609, ha lasciato scritto una lettera in cui ringraziava sentitamente il MONTANTE per tutto quello che aveva fatto per lui. Copia di tale lettera veniva rinvenuta anche tra le carte sequestrate al MONTANTE in occasione delle perquisizioni effettuate a suo carico.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al FORESTA Francesco:  02/02/2013 ore 10,30 con Foresta a Tusa.  Francesco FORESTA è morto il 3.3.2015.

15/09/2014 ore 21/22 cena Foresta, Donata, Eliana e Chiara a Milano

16/09/2014 ore 13,30/14,30 pranzo Foresta, Donata, Eliana e Chiara a Drogheria Milanese

30/09/2014 ore 20/21 cena casa Foresta

07/10/2014 ore 12/13 Ismet da Foresta

20/10/2014 ore 21/22 cena Foresta a casa

27/10/2014 ore 20,40/21,40 app. Donata Foresta da Charme

11/11/2014 ore 14,15/15,15 app. Foresta Francesco

02/12/2014 ore 19,30/20,30 app. Foresta per compleanno Villa Sperlinga

07/12/2014 ore 16,30/17,30 da Foresta in ospedale la Maddalena via Resuttana

09/12/2014 ore 09/10 operato Foresta

09/12/2014 ore 20/21 da Foresta in ospedale La Maddalena via Resuttana

26/12/2014 ore 13,30/14,30 pranzo casa Foresta con Salvo Cincimino

20/01/2015 ore 12/13 app. Francesco Foresta e Salvo Cincimino

23/01/2015 ore 21,30/22,30 cena Foresta con Cincimino

28/01/2015 ore 20/21 andato da Foresta con Eliana

05/02/2015 ore 11/12 a casa Foresta

07/02/2015 ore 17/18 spp. Foresta

23/02/2015 ore 13/14 pranzo con Foresta

24/02/2015 ore 15/16 app. Sottile da Foresta

03/03/2015 ore 17/18 morto Francesco Foresta

05/03/2015 ore 22,50/23,50 andato lutto Francesco Foresta

06/03/2015 ore 11/12 funerale Francesco Foresta alla Villa Filippina (con video sbobinato)

Il MONTANTE aveva anche chiesto all’ODDO di scrivere, per lui, un libro che poi venne, invece, redatto dal giornalista ASTONE Filippo. Così riferiva l’ODDO sempre in data 27.11.2015: …omissis… A.D.R. Effettivamente, come mi chiede la S.V., il MONTANTE mi chiese di scrivere un libro, proposta che, però, declinai, avendo compreso quale potesse esserne l’oggetto e non essendomi io mai occupato in maniera assidua di cronaca giudiziaria. Seppi, poi, che il libro era stato redatto da Filippo ASTONE. …omissis… Sul contenuto del libro, intitolato “Senza Padrini” ed incentrato essenzialmente in un panegirico dell’attività legalitaria del MONTANTE ed anche di Confindustria siciliana, nulla si ritiene necessario aggiungere. Senza padrini: resistere alle mafie fa guadagnare Libro di Filippo Astone.  Dei buoni rapporti intercorrenti tra il MONTANTE Antonio Calogero e l’ASTONE Filippo, si ha contezza dal materiale sequestrato nell’abitazione del primo.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi all’ASTONE Filippo:

14/02/2015 ore 13,30/17,30 Astone da Savini

09/05/2015 ore 14,00 pranzo con Astone e Agnese

10/09/2015 ore 21,00 cena con Astone + Anto a Milano

In data 12.10.2016, progr. nr. 3848610 delle ore 18.46, l’ASTONE Filippo chiamava la VANCHERI Linda e parlavano della vicenda giudiziaria che riguardava il MONTANTE che il giornalista non incontrava da un po’ di tempo, avendolo appunto incontrato nei giorni in cui detta vicenda era esplosa. L’ASTONE chiedeva se ci fossero novità in merito ma la VANCHERI rispondeva che per lei era una vicenda “morta e sepolta”. L’ASTONE ragionava sul fatto che oramai i tempi erano maturi affinchè la magistratura chiedesse o un’archiviazione o rinviasse a giudizio il MONTANTE ma la VANCHERI rispondeva che preferiva non pensarci poiché si definiva “schifata” per quello che era stato fatto. Infine, dopo avere brevemente discusso dell’esperienza politica della VANCHERI in un periodo che la stessa definiva metaforicamente “l’autunno dell’autunno siciliano” anziché la “primavera siciliana” che si era preannunciata con l’avvento del nuovo governo Crocetta in Sicilia, i due riprendevano il discorso della vicenda giudiziaria del MONTANTE con specifico riferimento alla posizione del VENTURI Marco, malvista dall’ASTONE, “un disastro è stata la questione di Venturi”.

La VANCHERI incalzava sull’argomento esprimendo pesanti improperi all’indirizzo del VENTURI ed anche di tutti quei soggetti che si erano schierati contro il MONTANTE, definendoli “inutili, squalificati come categoria umana non rientrando nel mondo animale tanto meno in quello vegetale, inesistenti”.

Conversazione telefonica 3848: ...All’inizio della conversazione, parlano del nuovo libro che ASTONE Filippo ah scritto e che doveva mandare a VANCHERI Linda. A minuti 01.17 per il suo particolare contenuto la conversazione viene trascritta integralmente.

ASTONE: ..e si e si, Antonello è da una vita che non lo sento più ah.. con tutto quello che è successo!..

VANCHERI: ..mamma mia!.. ti immagini!.. eeeh, e vabbè va, mhm mhm, cioè ti riferisci a questa situazione attuale?.. questa qua della Confindustria?..

ASTONE: ..no!.. mi riferisco alle sue cose cioè!..

VANCHERI: ..aaah, vabbè..

ASTONE: ..ci siamo visti, dopo due giorni è venuta fuori quella di Venturi!..

VANCHERI: ..ah, si si si.. è vero è vero.. ah però, ma noi non ci vediamo daa, vabbè siii.. ma ma, ma io già lo so.. morta e sepolta per me quella cosa, infatti dicevo ma aspè va.. (inc).. quant’è che non ci vediamo?..

ASTONE: ..un anno!..

VANCHERI: ..aaah, ho capito!.. si si si, no vabbè ma.. (balbetta).. noi cioè siamo andati oltre, capito?..

ASTONE: ..vabbè d’altronde la vita va avanti..

VANCHERI: ..si no vabbè va, ma siamo andati anche oltre perché poi quando si superano certi livelli di max minchiate, tu vai proprio oltre, sei costretto ad andare oltre capito, per fortuna.. per fortuna comunque poi lo spirito della sopravvivenza ti porta a stare sempre.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..(inc).. l’inchiesta è un anno e mezzo che attesta senza.. (inc).. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..questo qua.. su questo io purtroppo non.. perché non avere nessun tipo di aggiornamento non, non, non avrei la ben che minima idea, ovviamente..

ASTONE: ..vabbè ma tra poco oh, o fanno un rinvio a giudizio che secondo me no ci.. o chiedono il rinvio a giudizio o archiviano!..

VANCHERI: ..eh, cioè praticamente una delle due, o uno o l’altra..

ASTONE: ..veramente chiederanno il rinvio al giudizio perché, mi sa che dopo.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. perché purtroppo anche li non che sonooo, non sono.. (inc).. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..(inc).. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..no, non conosco bene.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..poi magari il rinvio a giudizio non viene concesso, io mi aspetto che lo chiedano ..(inc)..

VANCHERI: ..buh!.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..eeeh.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. io di questa cosa qua, siccome sono abbastanza già, tra virgolette schifata che tutto il resto, no?..

ASTONE: ..mhm..

VANCHERI: ..quindi proprio mi sono staccata completamente, proprio come idea.. e vabbè, pazienza.. chi vivà, vedrà si dice.. (inc).. come voglio eh, Filì!..

...Dopo di ciò parlano del libro che deve arrivare a VANCHERI Linda. Poi parlano delle proprie vite a livello sentimentale. Dopo VANCHERI Linda parla della suo passato in politica e per il suo particolare contenuto la conversazione a minuti 09.13 viene trascritta integralmente.

ASTONE: ..eh ma quando eriii.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..ho fatto sempre ridere..

ASTONE: ..quando eri in politica era più diversa.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..l’importante che facevo ridere.. come?..

ASTONE: ..quando eri in politica eri più, mhm, più dura, adesso più rilassata.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..io ero più ..(inc).. pensieri, ero piùuu.. ed, io ero sempre tesa perché veramente.. perché veramente quella cosa io l’ho fatta seriamente cioè ciò messa tu tutta l’anima, tu tutta la testa..

ASTONE: ..eh, però ..(inc).. tutto perché si.. quello che doveva essere.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..(inc).. tutto.. (si accavallano le voci)..

ASTONE: ..quello che doveva essere la grande primavera siciliana, poi alla fine.. (si accavallano le voci)..

VANCHERI: ..no no no, è stato.. è stato invece l’autunno della, dell’autunno.. vabbè pazienza, iooo, cioè ho solamente, non ho rammarichi perché comunque tutto quello che ho fatto l’ho fatto con, con veramente voglia diii..

ASTONE: ..ah!..

VANCHERI: ..di lavorare e sempre comportata spero bene anche con i tutti i miei collaboratori, e ho creduto in tu.. tutto quello che ho fatto, l’ho fatto perché ci credevo.. buh, poi alla fine laa, contano le soddisfazioni personali, quelle che magari non sono neanche riconosciute daa, dalle persone più vicine però lo sai che quanto vali o non vali, cosa hai fatto e cosa non hai fatto, no?..

ASTONE: ..si ma li comunque in quel casino ha lasciato.. (balbetta).., un disastro è stata la questione di Venturi..

VANCHERI: ..ah vabbè poi questa cosa qui.. vabbè ..(balbetta).. a me fa.. purtroppo no, perché semplicemente io mi sono sentita uno stupida, cioè io non mi ero accorto di essere circondata da persone così cretine, proprio inutili!.. cioè quindi alla fine ho detto vabbè è successo..

ASTONE: ..mah io, tu sei cretina non so!.. avrà perso la testa, gli avrà dato..

VANCHERI: ..no, io inutili non li faccio perché inutili, ma proprio squalificati secondo me come categoria umana, uh, e ma non rientrando neanche nel mondo animale tanto meno in quello vegetale e quindi secondo me proprio sono inesistenti, sono come si dice in siciliano, nuddru amiscati cu nenti.. proprio il niente con nessuno, uguale vuoto, buco nero.. non esistono, io io li vedo così perché proprio non, non c’è nessunaaa, nessun altro modo e siccome tra l’altro per fortuna sono ben lontana da questi modelli..

ASTONE: ..eh..

VANCHERI: ..e per fortuna continua ad avere rapporti meravigliosi con persone meravigliose, che invece non ci vedo tanto, sono felice di essere lontana, distanze cosmiche da queste persone.. vabbè!..

ASTONE: ..beh, che tu sia lontana nessuno ne dubita, liii buh!.. è una roba ..(inc)..

VANCHERI: ..buh!.. guarda, da non crederci..

ASTONE: ..eh, la vita è ..(inc).. anche questa..

VANCHERI: ..si.. ...

Dopo di ciò parlano del libro che deve arrivare a VANCHERI Linda e del fatto che qualche volta si dovrebbero vedere a Milano.

Per quanto riguarda il GALULLO Roberto, che già aveva collaborato con l’ODDO Giuseppe in un’inchiesta giornalistica sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, si rappresenta che è un giornalista de “Il Sole 24 Ore” che cura anche il blog denominato “Guardie o ladri”; ha un rapporto molto stretto con il MONTANTE e, come risulta anche da attività tecniche, è a quest’ultimo asservito nell’informazione che attiene tutto ciò che riguarda il MONTANTE. A riscontro del rapporto MONTANTE/GALULLO, si comunica che il giornalista ha anche usufruito di vacanze pagate a Cefalù ed, inoltre, il MONTANTE ha fatto acquistare, a Unioncamere Sicilia, 500 copie del libro del GALULLO intitolato “L’Ora Legale”. Infatti, tra la documentazione sequestrata a carico del MONTANTE, veniva rinvenuta la ricevuta fiscale, conservata da quest’ultimo, inerente il soggiorno del giornalista in Sicilia.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al GALULLO Roberto:

14/02/2015 ore 11,30/12,30 app. Galullo da Cioccolati

21/02/2015 ore 10/11 app. Galullo via Hoeple

27/02/2015 ore 18/19 Galullo Ariston piazza Carrobbio

27/03/2015 ore 09,30/10,30 app. Galullo

31/03/2015 ore 17/18 app. Galullo in Confindustria

10/04/2015 ore 15/16 app. Galullo in EICMA

16/04/2015 ore 19/20 app. Galullo EICMA memoriale

24/04/2015 ore 15,30/16,30 app. Galullo in EICMA

30/04/2015 ore 15,00 Galullo EICMA

08/05/2015 ore 15,00 app. Galullo per memoriale

14/05/2015 accettazione di Santa Vaccaro UNIONCAMERE per l'acquisto di n°500 copie libro "Ora Legale" Finanza Criminale di Roberto Galullo Il SOLE 24 Ore !.8,90 totale !.4.450

15/05/2015 ore 16,00 Galullo in EICMA

22/05/2015 ore 18,00 app. Galullo De La Ville

04/06/2015 ore 17,00 app. Galullo EICMA Milano

11/06/2015 ore 18,00 app. Galullo EICMA

19/06/2015 ore 15,00 Galullo EICMA

03/07/2015 ore 16,00 app. Galullo in EICMA

17/07/2015 ore 12,00 Galullo in MSA ed IDEM poi pranzato alla Grotta Asti, con Anto

23/07/2015 app. Galullo in EICMA

17/08/2015 ore 17,00 arriva Roberto Galullo con moglie Claudia a Cefalù, cenato al Porto alla Tavernetta. Lui ha pernottato al Cefalù Sea Palace lungomare 

18/08/2015 ore 13,30 pranzato a casa Altarello con Roberto Galullo e mogli, poi fatto giro Serradifalco e Caltanissetta, poi andati a cenare al Porto alla Tavernetta Cefalù

19/08/2015 ore 10,00 app. Roberto Galullo a Mazzaforno, lavorato, poi lui parte alle ore 13,00 per Vibo V. Calabria dove incontrerà Marcella Panucci

05/09/2015 ore 10,00 app. Galullo in MSA Asti

11/09/2015 ore 13,00 app. Galullo in EICMA poi pranzato

17/09/2015 ore 15,00 Galullo in EICMA

17/09/2015 ore 17,00 Giorgio Mulè e Roberto Galullo, poi Francesco Fiori

25/09/2015 ore 11,00 app. Galullo in EICMA

02/10/2015 ore 15,30 app. Galullo in EICMA

09/10/2015 ore 08,45 app. Galullo in EICMA 1

6/10/2015 ore 15,00 app. Galullo in EICMA 24/10/2015 ore 13,00 pranzo in MSA con Galullo

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “CURRIC PER SEN” era annotato: CURRICULUM PER SENN + NOTE VARIE GALULLO (P…………)

Dalle annotazioni sopra riportate si evince, quindi, che il GALULLO ha collaborato il MONTANTE nella redazione di un memoriale che poi ha depositato in sede di riesame, dopo le perquisizioni effettuate a suo carico il 22.1.2016. Il legame esistente tra il GALULLO ed il MONTANTEemergeva anche dalle intercettazioni esperite nell’ambito del presente procedimento penale. Nella conversazione nr. 323611 delle ore 12.34 del giorno 20.2.2016, il MONTANTE raccontava, in maniera concitata, al GALULLO di un’accesa discussione avuta con il direttore de “Il Sole 24 ore”, NAPOLETANO Roberto, il giorno prima, mentre si trovavano in ospedale da SQUINZI Giorgio. Il MONTANTE aveva rinfacciato pesantemente al NAPOLETANO che aveva fatto scrivere un articolo che lo riguardava al giornalista AMADORE Nino, sempre de “Il Sole 24 ore”, “tu fai scrivere i coglioni”. Il MONTANTE specificava che lo aveva mortificato dicendogli che gli stava parlando da azionista per indurlo a fare ciò che lui voleva ed aggiungeva che il NAPOLETANO; recepito il messaggio, gli aveva detto che avrebbe potuto fare scrivere MANCINI Lionello, altro giornalista della testata in argomento, ma il MONTANTE gli aveva detto che, per le cose che lo riguardavano, doveva fare scrivere il GALULLO ed il NAPOLETANO acconsentiva.

Il GALULLO, che già aveva espresso compiacimento per il modo di fare del MONTANTE all’indirizzo del suo direttore affermando addirittura che “al momento debito” il MONTANTE poteva rivalersi contro quest’ultimo, raccontava all’interlocutore la sua versione dei fatti spiegandogli che il NAPOLETANO gli aveva rappresentato l’esigenza che lui scrivesse gli articoli riguardanti il MONTANTE, narrando in modo distorto le circostanze che lo avevano fatto determinare ad assumere questa decisione.

Il GALULLO diceva che il NAPOLETANO gli aveva detto che non voleva avere niente a che fare con il MONTANTE con il quale i rapporti si erano incrinati alla luce della vicenda giudiziaria che lo aveva colpito anche perché non poteva escludere qualunque sviluppo della vicenda; Il NAPOLETANO aveva aggiunto che lo aveva chiamato l’avv. CALECA che voleva rappresentare le determinazioni del Tribunale del Riesame di Caltanissetta avverso le perquisizioni subìte dal MONTANTE il mese precedente e, per questo, aveva invitato il GALULLO a chiamare detto legale per affrontare la questione giornalisticamente.

Il MONTANTE spiegava al GALULLO che le cose non erano andate in questo modo e che era stato lui a dire al NAPOLETANO che doveva chiamare l’avv. CALECA e gli aveva scritto il numero di telefono di quest’ultimo, di suo pugno, in un bigliettino.

Il GALULLO gli rispondeva che il NAPOLETANO gli aveva consegnato tale bigliettino e si riprometteva di ridarlo al MONTANTE alla prima occasione in cui lo avrebbe incontrato; quindi esprimeva pesanti considerazioni sul suo Direttore, non solo definendolo un “verme” ma affermando persino che non aveva alcuna deontologia professionale.

Il MONTANTE condivideva questi pesanti commenti all’indirizzo del NAPOLETANO e, galvanizzato, rimarcava come avesse umiliato il direttore del giornale dandogli “disposizioni” precise davanti a SQUINZI e a FIORI, che gli davano ragione, sottolineando che gli aveva rinfacciato anche la sua ingratitudine perché l’incarico che ricopriva lo doveva a lui, “io l’ho massacrato allora, e noi, lui era sotto, inquisito in quel momento, zitto come un verme… lui con le corna abbassate… ci dissi tu sei sempre il solito perché sei ingrato… ti ricordi quando hai fatto il direttore, ti ricordi quello che ho fatto”. Il MONTANTE continuava ancora a narrare quanto rinfacciato al NAPOLETANO che, secondo lui, doveva schierarsi incondizionatamente dalla sua parte perché “glielo doveva” e aveva anche rimarcato il fatto che il Corriere della Sera, invece, lo aveva “appoggiato”.

Il GALULLO, dal canto suo, continuava a denigrare il NAPOLETANO e raccontava al MONTANTE che, durante la presentazione del nuovo sito, aveva relegato i blog in fondo alla pagina web e aveva anche elogiato solo il giornalista GATTI nell’ambito del “giornalismo investigativo” mentre lui rischiava la vita ogni giorno per gli articoli che scriveva, concetto che anche il MONTANTE aveva espresso nel corso del dialogo.

Il GALULLO raccomandava al MONTANTE di salutargli tutta la famiglia e quest’ultimo si auspicava di incontrarlo a Milano a breve, anche con i suoi familiari che la settimana successiva lo avrebbero raggiunto nel capoluogo meneghino. Infine, dopo che il GALULLO rinnovava al MONTANTE la sua “disponibilità”, quest’ultimo gli chiedeva se avesse ancora il file relativo ad un pezzo scritto sulla MARCEGAGLIA e a cui il MONTANTE stesso aveva apportato delle modifiche; il GALULLO lo rassicurava sul fatto che lo avrebbe cercato.

Conversazione telefonica nr. 323:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: Roberto, Antonello Roberto...

GALULLO: uè ciao...adesso ti stavo ricercando...

MONTANTE: si non ti...da casa ti sto chiamando da Milano...

GALULLO: ah ho capito...

MONTANTE: tutto a posto? Tutto bene?

GALULLO: si si si si tutto bene...tutto bene...

MONTANTE: no ti volevo raccontare...poco fà non potevo parlare...allora...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: ieri sono stato da Giorgio no...da Giorgio in ospedale...poi...

GALULLO: si si...

MONTANTE: si parlava...sai stiamo lavorando sul rinnovo...Confindustria non Confindustria...Sole 24 Ore eccetera eccetera...e abbiamo parlato...è andata a finire su Roberto...mi sono incazzato nero...ho detto guarda...deve andare via...allora faccio no lo chiamiamo un attimo...e l'ha chiamato...io sono stato due ore e mezzo ed è arrivato Roberto dopo quaranta minuti è arrivato...è arrivato...vabbè sai lui è ruffiano mi ha abbracciato...a più non posso...(inc.)...io in maniera sempre a ridere gli ho sparato due bombe tom tom tom...da destra a sinistra...poi parliamo di Presidenza e Presidente...e gli ho detto guarda questo...tu fai scrivere i coglioni...gli ho detto per Amadore...gli ho detto le mie cose fai scrivere e...dico destra e sinistra...stai tranquillo che ti fidi delle persone sbagliate...e poi è uscita la discussione di questa sentenza del del...considera che erano le sei e mezza erano le sei e mezza...

GALULLO: si si...

MONTANTE: mi fa minchia e non me l'avevi detto perchè non me lo dicevi perchè non mi mandavi il messaggio...Robè...io non mando messaggi a nessuno Robè...non abbiamo fatto nè comunicati...non abbiamo fatto niente...è uscita la notizia perchè forse l'avvocato uhm...io noi non abbiamo fatto nessun comunicato...nessun comunicato nè Confindustria nè io personalmente...allora facciamo scrivere chiamo Amadore...no Amadore non voglio che scriva su mie cose...se tu tu ti assumi la responsabilità io ti parlo davanti a Giorgio...ti giuro sui miei figli...io ti parlo da azionista in questo momento...non ti parlo da associato...da azionista...e siccome sono nel comitato di presidenza io sono il tuo azionista...proprio chiaro ah...ti giuro davanti a Giò davanti a...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: davanti a...a Francesco che era arrivato Francesco e cosa...quindi e…la libertà del giornale c'è il problema…però un pò i coglioni gonfi ce li ho...ma non te li dirò ora Roberto te li dirò perchè ora...

GALULLO: al momento debito...

MONTANTE: no gli ho detto per me è un fatto di delicatezza mia riguarda una cosa mia non te ne parlo ora...saprò aspettare su quest'argomento gli ho detto...saprò aspettare...proprio così...gli ho detto e se io ti devo chiedere una cosa gli ho detto...se io devo chiedere una cosa come mi ha detto Emma e come mi ha detto Giorgio...ti giuro davanti a Giorgio che quello mi ama...tu non sei mai stato con Giorgio...quello mi ama...quello mi abbraccia mi tiene abbracciato come un figlio così no...

GALULLO: si si si si...

MONTANTE: ho detto...io chiederò una cosa chiederò il Sole 24 Ore...no perchè non voglio fare il (inc.) chiederò il Sole 24 Ore...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: però...speriamo che il Signore mi aiuti e mi aiuti...così a botta a botta...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: e allò e allora mi fa...allora mi fa la facciamo scrivere a Mancini no...facciamola scrivere a Mancini...dissi guarda...ho detto Lionello è una brava persona...gli ho detto ci sono due persone che hanno...sono brave di queste...siccome so che il pupillo è Mancini no è il suo pupillo...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: gli ho detto...due persone...a perchè lui mi hai detto...ma visto che ho fatto scrivere a Mancini su quelle cose tue no...visto che ha scritto bene...Mancini è bravo ho detto però è sempre...non entra nel merito...rimane sempre no...politico rimane sempre no…cita non cita...no…

GALULLO: si si si...

MONTANTE: io ho detto...ho parlato bene di Mancini naturalmente...ho detto sai Lionello è bravo...però sai cita non cita...è sempre...invece siccome ne hai due..hai Mancini e Galullo...Mancini è in pensione...davanti a Giorgio...e Galullo...

GALULLO: certo...

MONTANTE: e Galullo è quello che entra nel merito che rischia che prima o poi l'ammazzano...gli ho detto così...prima o poi lo fanno fuori...e lui era in silenzio...Giorgio sai questo chi è...e io ho detto...e Fiori mi appoggiava...questo è entra nel merito...questo lo fanno fuori...sul serio lo fanno fuori...sulla massoneria sulle cose...gli ho detto tutta una serie di cose...e lui fa no effettivamente bè...allora lo facciamo scrivere a Galullo...facciamo scrivere a Galullo...no a me non me nè fotte chi lo scrive...

GALULLO: certo certo certo...

MONTANTE: sappi che noi abbiamo questi personaggi...questi personaggi...che se perdiamo questi personaggi su questi temi...siamo fottuti...ora lo facciamo scrivere a Galullo...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: e io ho ripetuto...non me nè fotte che lo scrive Galullo forse non ci siamo capiti...

GALULLO: certo certo hai fatto non bene di più...hai fatto benissimo a raccontarmi sta cosa...perchè io invece te la racconto di come me l'ha raccontata lui...

MONTANTE: punto va bene?...mah...incazzato nero proprio...sono stato incazzaato nero...non vabbè...andiamo avanti...

GALULLO: adesso io ti dico quello che lui mi ha raccontato...allora alle sei e mezzo lui presenta il sito...il nuovo sito...stiamo guadagnando milioni di euro...

MONTANTE: ma lui fino alle sei e mezzo era là però ah...

GALULLO: si si...

MONTANTE: da me con me era fino alle sei e mezzo...

GALULLO: si si si alle sei e mezzo infatti ha cominciato alle sei e mezza sei e quaranta insomma è arrivato..

MONTANTE: alle sei e mezza era da me...

GALULLO: esatto...ha cominciato a presentare il sito...eccetera eccetera...ma questo qui te lo lascio perchè non ti interessa...te lo racconterò poi ma è una questione interna...

MONTANTE: ma questo non me ne frega (inc.)...

GALULLO: com'è?

MONTANTE: no sono cose che non me ne frega dico è una cosa vostra di giornale...diciamo...

GALULLO: no no no ma poi te la racconto (inc.) tutto il sito nuovo...stiamo guadagnando milioni di euro...(inc.)...esattamente...

MONTANTE: abbiamo risolto i problemi...

GALULLO: perfetto...mi chiama alle nove di sera...alle nove di sera appena finita la riunione ero lì al giornale mi fa...Roberto io ti avevo cercato in realtà per un'altra cosa non per la presentazione del sito...ma perchè sai dice...mi fa...tu sai che io ho rotto con Montante no?...gli ho detto francamente no dico...perchè a me certamente per la delicatezza dei rapporti che intercorrono tra le persone nessuno si permette di raccontarmi quello che succede tra te ed altri quindi non lo so lo apprendo in questo momento da te...dice si si si lui mi ha...lui mi evita non mi vuole parlare...io del resto lo evito non gli voglio parlare perchè lui mi ha detto...mi ha fatto sapere da terze persone...dal suo entourage...

MONTANTE: (ride)

GALULLO: no no senti...dal suo entourage che il Corriere l'ha trattato benissimo e io invece l'ho trattato malissimo ma a me non mi interessa niente...

MONTANTE: io io...io gliel'ho detto...io gliel'ho detto...

GALULLO: si si no ma io ti dico quello che lui mi ha raccontato...

MONTANTE: io gliel'ho detto io...effettivamente...

GALULLO: invece lui non mi ha assolutamente detto adesso ti continuo e ti dico...

MONTANTE: si si si...

GALULLO: e mi fa dice...io invece non ne voglio sapere...non ne voglio sapere niente perchè lui sostiene determinate tesi che lui non c'entra niente con la mafia poi alla fine verrà fuori questo...ma io l'ho ripetuto anche a Squinzi e ai vertici di Confindustria io voglio restare fuori da questa storia e non mi interessa...e mi fa dice però...mi ha telefonato...io ti dico quello che lui mi ha detto...tant'è che io sono rimasto francamente perplesso dopo che tu mi stai dicendo questa cosa...figurati come rimango...e mi fa dice mi ha telefonato l'avvocato Caleca il quale mi ha detto...dice sa c'è stato oggi questo riesame...io non sapevo niente...

MONTANTE: ti ti ti fermo...io gli ho dà...gli ho scritto su...gli ho detto mi dai il telefono dell'avvocato Caleca gliel'ho scritto su un bigliettino...

GALULLO: e ma infatti me l'ha dato...me l'ha dato...il bigliettino...

MONTANTE: no no...e gliel'ho scritto con la mia calligrafia (inc..)

GALULLO: ce l'ho ancora ce l'ho ancora...

MONTANTE: è mio...è mio il biglietto...

GALULLO: ce l'ho ancora...

MONTANTE: guarda la calligrafia che è quella mia...

GALULLO: si si si si...mi fa mi ha telefonato l'avvocato Caleca che mi ha detto dice...noi apprezziamo quello che voi state facendo....abbiamo visto che sull'argomento ha scritto Galullo e Mancini...sono due ottimi personaggi...sappiamo che tra i due si odiano...io non ho mai manifestato alcun odio di nessuno...figurati anche nei confronti dei carnefici...figurati nei confronti di una persona che sicuramente è lontano non anni luce...più degli anni luce dalla mia idea di deontologia professionale e umana è la stessa distanza che separa te dagli Arnone e da Piddu Madonia tanto per essere chiari...quindi siamo proprio a due persone...

MONTANTE: (ride)

GALULLO: dice...dice però io gli ho detto a Caleca...no non no facciamo scrivere Galullo...allora mi raccomando adesso chiami Caleca...fai questa cosa...gli dici che te l'ho detto io di chiamare Caleca ed infatti Caleca può essere buon testimone...io l'ho chiamato alle nove e venti più o meno...lui può raccontarti...

MONTANTE: io a Cale...io a Caleca...

GALULLO: esattamente (si accavallano le voci)...concludo no...

MONTANTE: no non no io...ti faccio le intercalate così almeno non riprendiamo...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: io a Caleca l'ho chiamato in sua presenza e gli ho detto...Nino ti chiameranno dal Sole punto e in sua presenza...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: poi lui ha preso il biglietto e gli ho scritto il numero con la mia penna...e gliel'ho dato...davanti a Giorgio...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: vedi guarda che è subdolo con te...

GALULLO: ma guarda guarda che è una cosa pazzesca…

MONTANTE: si vergogna si vergogna a dirti che ha preso la disposizione...siccome gli ho dato una disposizione...

GALULLO: certo...

MONTANTE: siccome gli ho dato una disposizione...e gliel'ho data da Editore...in presenza del Presidente dell'editoria in persona e quindi praticamente era morto...ha fatto tutta sta moina...ma perchè è un vi...è un pezzo di merda...

GALULLO: si...ma va figuriamoci...io infatti chiamo Caleca ed esordisco con queste testuali parole...piacere di conoscerla avvocato...la chiamo su indicazione del Direttore Roberto Napoletano che mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla decisione del Tribunale del Riesame...mi ha chiesto di farlo attraverso gli atti e sue dichiarazioni ed è quello che faccio...ed ecco lì il risultato che tu hai visto nel pezzo di oggi...che credo che sia di una chiarezza cristallina...e limpida...

MONTANTE: no è chiaro...è molto tecnico in effetti...

GALULLO: esattamente...così come mi ha chiesto il Direttore...Caleca mi ha scritto un messaggio mi ha fatto molto piacere...mi ha detto un esempio di...di limpidezza giornalistica...quindi a me questo ha fatto molto piacere...la cosa poi è che io alle undici sono andato da lui di nuovo...pezzo scritto tutto letto riga per riga mi ha detto qui cambia questo ed io l'ho cambiato...quindi praticamente lui è intervenuto dove ha voluto...e ma sciocchezze e...(inc.) questo...niente...

MONTANTE: cazzate...

GALULLO: e mi fa...dice cosa ne pensi del sito...la parte invece che ti interessa perchè te la dà lunga...sul fatto che...

MONTANTE: ah...

GALULLO: che a voi dice una cosa che a me né dice ovviamente sempre un'altra...mi fà cosa ne pensi del sito...dico no...il sito mi pare molto bello dico però trovo umiliante per la mia professione...umiliante per la mia figura che tu abbia tolto i blog...perchè lui dalla homepage li ha tolti i blog...li ha messi in fondo come se fossero quasi una cazzata gli dico perchè tu non hai idea...di quel sangue che butto sul mio blog...delle migliaia di accessi giornalieri che ho e di quanto io rischi con quello che scrivo...e di quanti giornali mi riprendono quotidianamente...

MONTANTE: gliel'ho detto davanti a Giorgio...

GALULLO: si...esatto...c'era davanti il vice Direttore Vicario De Biasi...gli ho fatto fate il cazzo che volete...perchè Napoletano che con me non si permette di dire nè B nè DA...perchè io lo mado a stendere in un nano secondo perchè io ho una sola faccia da difendere di fronte ai miei figli...gli ho detto dico...Direttore e il Vice Direttore mi fà dice...Roberto dice...hai fatto bene a dire queste cose...Napoletano fà no hai fatto benissimo...guarda caro Direttore io dico sempre quello che penso...è un'umiliazione per chi come me...mette quello che mette...

MONTANTE: aspetta aspetta aspetta...aspetta un attimo...scusa un attimo...aspè che rispondo a Marcella...(Montante parla con Marcella con un altro cellulare)...

GALULLO: come no...

MONTANTE: scusa eh...pronto...

GALULLO: figurati...questo ecco...questo quindi per dirti è il personaggio...ma ti rendi conto...

MONTANTE: si si...si si...e...allora ad un certo punto...quando io ho attaccato lui te lo giuro...seria...tu conosci mio nipote no...Antonio...

GALULLO: certo...

MONTANTE: ti sto giurando sulla testa di mio nipote che io mi ammazzerei per mio nipote e per i miei figli...non ti cambio una virgola...io l'ho massacrato allora...e noi lui era sotto...inquisito in quel momento...zitto come un verme...(inc.)...come un verme...ti giuro sai come un verme...non mi alza la parola...io a capo...capo significa nella qualità di Editore...con Giorgio sul letto...ho fatto la foto...ti faccio vedere la foto...ho fatto la foto per fartela vedere...lui con le corna abbassate...praticamente e gli (inc.)...ma che dici Antò io ti ho fatto uscire il libro...la copia della storia te l'ho fatta uscire io...chi dici io così...ci dissi tu sei sempre il solito perchè sei ingrato...tu lo sai dava...te lo dico davanti...ti ricordi quando hai fatto il Direttore...ti ricordi quello che ho fatto...nella vita bisogna avere i coglioni così...bisogna avere i coglioni...capito!

GALULLO: eh figurati...hai parlato con la persona giusta hai parlato...-

MONTANTE: bisogna avere i coglioni...Fiori mi appoggiava in pieno...bisogna avere i coglioni...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: quindi caro caro...tu...il Corriere della Sera a me mi ha appoggiato...sempre...

GALULLO: certo...

MONTANTE: fin dal primo momento...e ti dico una cosa che continua a chiamarmi fino all'altro giorno per l'intervista...e lui fa ma noi la possiamo fare noi l'intervista...io non ho...io ho deciso di no...l'hai vista...ho parlato o non ho parlato...io io potevo anche obbligare in quanto su una posizione di correttezza...e di amicizia...

GALULLO: chiaro chiaro...chiaro chiaro chiaro...

MONTANTE: chiaro...meno...io sfuggo...giornali nazionali...settimanali...io non parlo...perchè strategicamente ho deciso di non parlare...chiaro...

GALULLO: certo!

MONTANTE: dico e...e infatti poi fa...fa cioè...al massimo ora siccome ora dopo questa cosa io io semmai faccio intervistare l'avvocato...

GALULLO: certo...certo...

MONTANTE: allora lui come un ruffiano...come un ruffiano...sempre sotto il giuramento di mia figlia e di mio nipote...come un ruffiano fa no...facciamo il pezzo facciamo chiamare questo il tuo...come si chiama questo avvocato...gli ho de...Caleca si chiama...e mi dai il numero...scrivimi qua...e gliel'ho scritto con la mia penna...scrivimi il numero gli ho dato il numero...e lo facciamo scrivere a Amadore...no Amadore non lo facciamo scrivere perchè tu a Amadore gli hai detto delle cose dici gli hai detto delle cose...e non ti posso dire quello che gli hai detto va bene...punto...allora fà...ma Mancini lo hai visto che l'ho fatto scrivere a Mancini...si Mancini è bravo Lionello bravissimo...però sappi che Mancini è molto politico rimane no...qua ci vuole uno che dice le cose come stanno...che si legge le carte eccetera eccetera...e sono andato a finire a te...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: (inc.)

GALULLO: e lui in tutto questo non ha fatto...non solo...

MONTANTE: siamo rimasti dopo questo pezzo (inc.)...li facciamo fare un'intervista a Caleca...chiaro....ora per dirti e tanto lo dico io...è un verme veramente gliel'ho detto...tanto gliel'ho detto davanti....

GALULLO: si lo so lo so...(inc.)

MONTANTE: perchè lui replicano...non ha replicato perchè non pote...non può replicare...quindi…

GALULLO: ma lui assorbe tutto e non gliene frega un cazzo...

MONTANTE: ti posso dire una cosa...bravo hai detto bene ass...è una s...è un muro di gomma...è una spugna...che io...posso dirti...con il dieci per cento di quello che gli ho detto ieri il dieci per certo di quello che gli ho detto lui doveva alzarsi e andarsene dalla stanza...in maniera violenta e se ne doveva andare...

GALULLO: il dieci per cento...ma io mi sentirei mi butterei dal ponte...per l'un per mille non per l'un per cento... MONTANTE: quando io gli ho detto ti ho fatto assumere di ho fatto...lui doveva dire Giorgio mi dispiace mi sento offeso da Antonello me ne vado...io io...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: se era uomo...quindi ho capito che è un verme e peg...e sono pericolosi...che quello che si offende e se ne va non è pericoloso...quello che...lui è pericoloso è verme...c'è poco da fare...

GALULLO: ma infatti è così...tu pensa che poi...quando lui ha presentato il sito aveva già parlato con te aveva già parlato dei rischi che io corro...

MONTANTE: eee...a voglia...

GALULLO: e tu pensa che durante la presentazione del sito...ha fatto un solo nome di giornalismo investigativo...un solo nome che io mi sono sentito guarda...

MONTANTE: chi è chi è...

GALULLO: ho detto dico...te lo dico come un fratello sai che non parlo con nessun parlo solo con te...ho detto io me ne devo andare ma...ma subito da questo giornale appena trovo l'occasione...fa dice perchè qui abbiamo delle firme del giornalismo investigativo come Gatti...

MONTANTE: aspetta…anche a me l'ha detto...anche a me l'ha detto...

GALULLO: un tripudio di Gatti...ho detto ma guarda sto testa di cazzo...assurdo...

MONTANTE: ma posso dirti una cosa anche a me l'ha detto...davanti a Giò...ora sto andando in America...lui parte per gli Stati Uniti va a vedere eh...

GALULLO: va a presentare alla British Community...il sito…

MONTANTE: che incontra per la prima volta che sta andando in questo uff...che sta andando in questo ufficio...e incontra pure Gatti...lo sai cosa gli ho detto io...davanti a Giorgio...perchè lui ha parlato male...è bravo Gatti ma è uno al tuo servizio totalmente al tuo servizio...per dire...quello che scrive Gatti è su comando tuo...

GALULLO: certo certo...

MONTANTE: gliel'ho detto chiaro...

GALULLO: certo...

MONTANTE: quindi...e gliel'ho detto è al tuo servizio...ma gliel'ho detto in maniera pesante...siccome lui tramite Gatti ha fatto litigare i grandi inserzionisti i grandi i grandi no...

GALULLO: si si...

MONTANTE: azionisti di Confindustria....io gli ho detto davanti a Giorgio...certo perchè tu...quello lavora al tuo comando è al tuo comando...

GALULLO: certo invece lui l'ha presentato non potete capire il tripudio...che ha nella Community internazionale Gatti è un esempio rarissimo di giornalismo investigativo...io gli volevo dire ma brutto stronzo ma vatti a leggere quello che scrivo io è quello giornalismo investigativo è quello rischiare la pelle non andare a leccare il culo come fa su comando come killer...

MONTANTE: aspè che rispondo a Chiara...(Montante parla al telefono con la figlia con un altro cellulare)...scusami ah...

GALULLO: no ma figurati...scherzi...salutami tutta la famiglia non appena hai occasione Chiara Alessandra salutami tutti...

MONTANTE: la prossima settimana a Milano viene...vediamo di incrociarci...viene Antonella viene Alessandra da Londra pure...e il nipotino (inc.)...arrivano tutti la prossima settimana...

GALULLO: comunque questo qui ti dà proprio l'idea di che personaggio guarda...

MONTANTE: ti ho detto...ti ho fatto il quadro...di quello che è successo ieri...guarda che non ha avuto il coraggio e la serietà di dirti...

GALULLO: no non no...lui (inc.) ma totalmente zero...

MONTANTE: perchè perchè doveva giustificarsi in mezzo alla scorsa volta che ha preso una disposizione e siccome è un verme...siccome ha preso come dipendente e Direttore una disposizione dall'Editore...su una notizia vera no su una marchetta...

GALULLO: è chiaro...è chiaro...

MONTANTE: attenzione no su una marchetta...perchè non l'avrei fatto io...perchè lui non gliela chiedo come marchetta...e tu lo sai come sono io...

GALULLO: certo...

MONTANTE: sono una persona seria non ne chiedo marchette alle persone...

GALULLO: certo ma io infatti io la stessa cosa ho detto a Caleca mi ha fatto veramente piacere ho detto dico...perchè lui mi fa dice...so la serietà che la contraddistingue...io gli ho detto avvocato io sono qui per scrivere quello che è successo una cronaca inappuntabile di quello che è successo...quindi ma lui ma la cosa bella che (inc.)...mi ha chiamato Caleca...ma tu ti rendi conto...

MONTANTE: ma ce l'hai il bigliettino? (Si accavallano le voci)...

GALULLO: quando ci incontriamo te lo dò...

MONTANTE: no guarda la calligrafia...guarda la calligrafia...

GALULLO: ce l’ho sotto in una giacca a proposito di quando ci incontriamo...ricordati che quando vuoi basta che suoni il citofono...

MONTANTE: si tesoro mio lo so...

GALULLO: (ride)...

MONTANTE: ti volevo dire ricordati quella nota...la nota di Emma che l'ho persa...la mia copia l'ho persa...

GALULLO: si si si per trovarla...

MONTANTE: no ma lo sai che io te lo ridata no...quella modificata...

GALULLO: si si si...

MONTANTE: vedi se trovi questa che l'ho strappata buttana da miseria...

GALULLO: e quella lì non lo so...

MONTANTE: se non la trovi va bene quella vecchia...con il pennino vecchio quella tua...

GALULLO: va bene va bene...

MONTANTE: da quello tuo io ho fatto una piccola modifica e poi ti ho dato le modifiche...ti ricordi no...

GALULLO: si me le hai date cartacee non so se ce l’ho ancora...

MONTANTE: no se non ce l’hai va bene la tua vecchia...che me la ricostruire...(inc.)

GALULLO: va bene va bene...va bene...

MONTANTE: la minuta...va bene...senti...saluta a tutti ah...

GALULLO: d'accordo d'accordo...o mi raccomando se oggi o domani ci sei passa…

MONTANTE: si...(inc.)

GALULLO: qualunque cosa...se vuoi parlare sfogarti...mi trovi sempre...

MONTANTE: no ti ho raccontato questa cosa che era simpatica...quando la gente veramente non ci sono parole per...(inc.)

GALULLO: Antonè o le palle si hanno o si è persone oneste con le palle oppure si è disonesti senza palle...

MONTANTE: bravo…bravo...

GALULLO: punto...questa è gente che prima o poi dovrà guardarsi allo specchio ma lo farà davanti al cospetto di Nostro Signore purtroppo...(inc.)...

MONTANTE: bravo al cospetto di Dio questa è la cosa più...

GALULLO: esatto...

MONTANTE: questa è la cosa più...

GALULLO: esatto…esatto...un abbraccione salutami tutti...

MONTANTE: un abbraccio a te ciao…ciao...

Nella conversazione nr. 704612 delle ore 19.49 del 9.6.2016, il MONTANTE dava precise indicazioni al GALULLO Roberto di cosa scrivere in un articolo di cui gli avrebbe fatto avere anche il materiale necessario da cui attingere le informazioni; gli diceva espressamente di non parlare di LO BELLO né di ciò che aveva detto BOCCIA ma di enfatizzare l’attività di SQUINZI. IL GALULLO non batteva ciglio e ripeteva ciò che avrebbe dovuto scrivere, ricalcando gli “ordini” del MONTANTE. Poiché il GALULLO non sentiva bene, il MONTANTE si riservava di richiamarlo utilizzando altro apparecchio telefonico, dicendogli, falsamente, che lo stava chiamando con un cordless da casa.

Conversazione telefonica nr. 704:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: Galullo!

GALULLO: eh Antonellone…

MONTANTE: Robertone…come stai? Tutto bene…?

GALULLO: tutto bene e tu?…

MONTANTE: bene sono a Roma…e tutto bene…anzi bellissimo…non ce l’ho fatta stasera a venire a Ro…a Milano…parto domani mattina…presto…quindi se tu domani…ci ci ci vogliamo vedere domani…stiamo un po’…

GALULLO: si si si…dimmi tu a che ora ci vediamo…

MONTANTE: si avevo…aspetta un attimo…domani è venerdì…(inc.) ho prenotato…per me se puoi possiamo fare anche a pranzo…e domani non c’è Squinzi perché domani Squinzi…

GALULLO: ho capito…

MONTANTE: (inc)…io la vedo sabato alle dieci e trenta…va bene…

GALULLO: ah okay okay…

MONTANTE: fatti inviare il documento che o la cosa (inc.) politica…di ordine politico di opportunità non di merito è perfetto…non c’è nulla da…è spettacolare…(inc.) è spettacolare…

GALULLO: okay…

MONTANTE: però sono cose di (inc.) te lo anticipo…così almeno se hai tempo…per esempio…la voce Lo Bello falla sparire…

GALULLO: chi scusami?…

MONTANTE: la voce Lo Bello falla sparire…

GALULLO: Lo Bello?…ah okay okay okay…

MONTANTE: (inc.) tutto quello che ha detto Boccia fallo sparire pure nel senso parla (inc.)…

GALULLO: però ti sento malissimo Antonello…ti sento malissimo…

MONTANTE: ti sto chiamando dal telefono fisso di casa di Roma…ti volevo dire…

GALULLO: quindi…devo fare…tolgo…

MONTANTE: con un cordless…sono con un cordless ah…

GALULLO: quindi tolgo Lo Bello e poi un’altra cosa ma non ho capito cosa mi hai detto…

MONTANTE: Squinzi…enfatizza Squinzi…no nell’attività di Squinzi…

GALULLO: non ti sento Antonello non sento nulla guarda…non sento niente…

MONTANTE: mi senti mi senti…mi senti…

GALULLO: male malissimo…

MONTANTE: aspetto che ti chiamo…poso il cordless e ti chiamo dal telefono fisso aspetta un attimo…

GALULLO: okay okay okay okay…

Nella successiva conversazione nr. 706613 delle ore 19.52 del 9.6.2016, il MONTANTE ripeteva al GALULLO come doveva impostare l’articolo, la cui bozza gli aveva già inviato, ed il GALULLO lo assecondava, dicendogli che avrebbe provveduto nei termini da lui voluti. Il MONTANTE gli dava indicazioni precise sul fatto che non doveva parlare di LO BELLO, che doveva enfatizzare anche l’attività della MARCEGAGLIA e puntare il focus su una continuità in Confindustria, dando però risalto a SQUINZI, che era il Presidente uscente, e non a BOCCIA né doveva riportare quanto detto da quest’ultimo. Il MONTANTE diceva espressamente che lo SQUINZI non voleva che si diffondesse la notizia nei termini che il successore potesse essere migliore di lui e, perciò, diceva al GALULLO di cancellare tutto ciò che dava adito a tale impressione dalla lettura dell’articolo. Il GALULLO rispondeva che avrebbe provveduto, con un imbarazzante “si, si, si, si, si …. va bene, va bene, va bene”, aggiungendo che quello che diceva il MONTANTE era “correttissimo” e che ancora si trattava di una bozza passibile di ogni cambiamento, sebbene, nel complesso, il MONTANTE avesse gradito lo scritto. Il MONTANTE aggiungeva che, a lavoro ultimato, avrebbero fatto leggere l’articolo anche a SQUINZI e, alla fine del dialogo, si raccomandava con il GALULLO che tutto sarebbe dovuto essere come deciso.

Conversazione telefonica nr. 706:

GALULLO: pronto?

MONTANTE: ero con un cordless quindi...

GALULLO: ah ecco adesso ti sento bene...

MONTANTE: si...allora ti volevo dire...

GALULLO: quindi Lo Bello lo tolgo tutto quanto ok...

MONTANTE: allora (inc.) perchè...perchè loro ce l'hanno sulle palle...

GALULLO: e certo e certo...

MONTANTE: allora...invece il disco...enfatizza l'attvità...oltre quella della Marcegaglia la continuità...

GALULLO: giusto...giusto...

 MONTANTE: e l'attività di Squinzi...quindi Squinzi Squinzi Squinzi...Squinzi...sulla parte l'ultima di Boccia non la...se la citi la citi come...no come l'ha detto Boccia...perchè tu devi immedesimarti di un Presidente che esce no?...Qual'è (inc.)...

GALULLO: ok...ok...ok...

MONTANTE: di qualsiasi Presidente...che sia Emma che sia Squinzi...cosa vuole...

GALULLO: certo... MONTANTE: vuole che si lasci la faccia più importante...e che quello che viene comunque non sia più bravo di lui questo è il concetto no...(inc.) GALULLO: certo certo certo certo...

MONTANTE: quindi cancella tutto...come se quello di Boccia fosse del Sole 24 Ore...non lo so come se fosse...no...

GALULLO: si si si si si...va bene va bene va bene...

MONTANTE: senza modifica ah...proprio...oppure ne parli astrattamente non come ha detto Boccia non lo dire...capito perchè...

GALULLO: va bene, va bene...

MONTANTE: (inc.) la cosa più brutta...per un Presidente che...è in uscita...è non vedere più la sua faccia e vedere di quello prima e di quello dopo...

GALULLO: è giusto...è giusto...

MONTANTE: ti trasferisco un messaggio che...conosco il mio mondo capito...che conosco molto bene...

GALULLO: certo...è corretto...è correttissimo quello che mi dici...

MONTANTE: e questo non te lo fatto spedire no perchè...

GALULLO: no no..no ma io infatti...(inc.)...

MONTANTE: non era la fine del mondo...però conoscendo i tipi...i tipi...

GALULLO: e certo e certo...certo...

MONTANTE: uhm...

GALULLO: allora a questo punto io domani poi quando ci vediamo...

MONTANTE: il contenu...il contenuto non deve cambiare capito, deve...

GALULLO: si si...

MONTANTE: deve essere tolta qualche parola...non lo devi cambiare il contenuto...

GALULLO: si...ma ti è piaciuto ti piace come cosa?

MONTANTE: è spettacolare...è spetta...

GALULLO: certo...

MONTANTE: poi lavoriamo su questo lavoro spettacolare...

GALULLO: esatto questa è una bozza...

MONTANTE: era era solo per l'opportunità politica di non fare danni diplomatici...capito?

GALULLO: giusto...giusto giusto...senti io domani ne porto quattro copie a questo punto...poi porto anche...e lo metto su internet...

MONTANTE: poi glielo mandi tu...no no...

GALULLO: certo...

MONTANTE: poi glielo mandi...

GALULLO: certo...

MONTANTE: lui mi la lascia una copia...mi lascia una copia domani per noi...

GALULLO: esatto poi io glielo mando per poste elettronica...

MONTANTE: poi glielo mandi via email si...

GALULLO: si...

MONTANTE: poi ci vediamo a metà settimana...e ne parliamo hai capito...quindi...la prossima settimana bene...ho già...

GALULLO: quindi domani non vediamo Fiori comunque e...

MONTANTE: no no perchè Fiori...è con è con...(inc.) a Roma...

GALULLO: ok ok...

MONTANTE: a Roma...(inc.) io torno domani sera e incontro Squinzi e Squinzi alle dieci e mezza è da lui...va bene?

GALULLO: quindi praticamente glielo dai tu dopo a Squnzi?

MONTANTE: a Squinzi tu...se lo mandi a Fiori...Fiori ce l'ha subito da Squinzi è uguale no...è la stessa cosa...

GALULLO: a quindi io lo mando...vabbè faccio una cosa domani me lo porto su chiavetta e poi lo mando domani insomma...non è un problema...

MONTANTE: lo mandi domani...Squinzi glielo girà a Fiori e poi la prossima settimana incontriamo tutti e due...va bene?

GALULLO: si...io la prossima settimana però...Antonello...sono da mercoledì a sabato a Roma...

MONTANTE: e va bene...magari ci vediamo a Roma...(inc.)...

GALULLO: oppure oppure ci vediamo quella ancora dopo insomma tanto voglio dire...cambia poco nel senso che in ogni caso l'importante e che loro abbiano il progetto...

MONTANTE: perfetto...bravo...bravo...ecco va bene...

GALULLO: benissimo...alllora domani a che ora ci vediamo?

MONTANTE: io domani se tu sei d'accordo...sarei ad ora di pranzo...

GALULLO: mi dici tu all'una...dimmi tu a che ora...

MONTANTE: oppure possiamo fare...anche all...stavo guardando poco fà che mi sono distratto...allora domani è venerdì...secondo me io farei domani...alle dodici e mezzo così...poi continuiamo se tu sei libero...

GALULLO: si si si dodici e mezzo...va bene...allora ti raggiungo io domani alle dodici e mezzo...

MONTANTE: va bene ok ci vediamo lì alle dodici e mezzo...ok va bene...

GALULLO: d'accordo un abbraccione...ciao buana serata...

MONTANTE: ciao ciao ciao, Robertone mi raccomando eh… GALULLO: ciao ciao…

Anche alla luce del contenuto delle sopra richiamate intercettazioni, si commenta da solo l’articolo che il GALULLO scrive, sul suo blog, qualche giorno dopo la pubblicazione sul quotidiano “La Repubblica” della notizia delle indagini a carico del MONTANTE (articolo del 9.2.2015). L’articolo del GALULLO, datato 13 febbraio 2015, si intitola “Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti” e, rimandando alla lettura integrale dell’articolo che si allega, pare comunque opportuno evidenziare che il giornalista utilizza toni offensivi nei confronti di “ambienti investigativi e giudiziari”.

Tra il materiale sequestrato al MONTANTE veniva rinvenuta altra documentazione che cristallizza i favori resi dall’imprenditore nisseno ad altri giornalisti, ossia CAVALLARO Felice, inviato del Corriere della Sera, e MORGANTE Vincenzo, giornalista RAI. Il CAVALLARO veniva sostenuto dal MONTANTE per la sua candidatura a sindaco di Racalmuto dopo lo scioglimento del consiglio comunale di quel centro per infiltrazione mafiosa con l’allora sindaco PETROTTO (soggetto che si ricorda essere stato tra quelli oggetto di interrogazione SDI da parte del GRACEFFA Salvatore).

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al CAVALLARO Felice:

13/01/2011 da Mimì La Cavera con Felice Cavallaro

19/06/2012 ore 14,00 app. Felice Cavallaro con Vice Prefetto oggi Pref. AG in aeroporto

21/12/2012 ore 17,30 app. Felice Cavallaro e Luigi La Rosa in Sicindustria

22/03/2013 ore 16,10 Luigi La Rosa e Felicae Cavallaro in Confindustria Sicilia

17/04/2013 ore 13,30 app. F.Cavallaro per Cutuli

07/05/2013 cena con Adriana Manganelli dopo la presentazione del libro di Antonio con Questore Zito, Morvillo e Cavallaro alla Cuccagna

21/10/2014 ore 09/10 app. Felice Cavallaro e sindaco di Racalmuto a Villa Igiea

09/02/2015 ore 18/19 app. Felice Cavallaro e Lo Bello Altarello

25/06/2015 ore 13,00 pranzo Bernini con Felice Cavallaro + Eliana + Lo Storto e Patrizia Ferrante

Il MORGANTE chiedeva espressamente al MONTANTE una segnalazione per l’incarico di vicedirettore del TGR Sicilia.

Nel file excel, denominato “copia di appunti in ordine cronologico (Ordinati 11.11.2015) Rev (version 1)”, nella cartella denominata “TUTTI”, venivano rinvenuti i seguenti appunti relativi al MORGANTE Vincenzo:

30/01/2008 V. MORGANTE MU-037 KALOS UOMO

16/07/2008 Morgante intervista Emma sulla delega alla legalità

16/07/2008 cena da Saltamacchia con Morgante a Fregene

14/04/2009 pranzo Morgante Vincenzo al Piccolo Napoli

24/07/2012 ore 10,00 Min. Cancellieri e suo gruppo con Morgante a casa Altarello granite poi andati a Racalmuto

28/12/2012 ore 13,30 con Pitruzzella e Morgante da Charme

23/07/2013 app. Morgante e Prof.ssa in Confindustria Sicilia

15/08/2013 Scillia e Morgante a pranzo alla Taverna Presidiana, viene Ferruccio De Bortoli

08/10/2013 ore 21/22 cenato con Morgante e Coccia al Bernini

09/10/2013 ore 08,45/09,45 colazione Pitruzzella, Morgante e Lo Bello al Bernini

30/01/2014 ore 15/16 app. Alfano, Morgante, Blasco e Panucci

06/03/2014 ore 21/22 cena con Morgante, Cirillo e Agnese da Tullio

11/06/2014 ore 21,15/22,15 cena Vincenzo Morgante al Bernini

11/11/2014 Dott. Marino Nicolò rilascia intervista su La Sicilia "la volta che fui convocato da Lumia e Confindustria Sicilia, io e Lari eravamo a CL e sappiamo chi è Montante….. - Il 23/12/2014 Morgante e Lo Bello presentano querela contro Marino per diffamazione aggravata a mezzo stampa

18/12/2014 ore 21/22 cena Bevilacqua, Pitruzzella, Sottile e Morgante

03/01/2015 ore 22/23 cena a casa di Morgante Vincenzo, con Pignatone Giuseppe, Pitruzzella e Lo Bello

28/01/2015 ore 21,30/22,30 cena Morgante, De Felice e Lo Bello al Bernini

19/02/2015 ore 08,30/0,30 Pitruzzella e Morgante al Bernini

26/03/2015 ore 21/22 cena con Vincenzo Morgante, Chiara Mancini e Chiara al Yokoama

13/05/2015 ore 21,00 cena Lo Bello + Catanzaro, poi Fiori + Morgante al Majestic

14/08/2015 ore 20,30 Morgante Vincenzo + moglie Barbera e figlio Giuseppe portato regalo Antonio Junior poi cenato al porto alla Tavernetta

21/08/2015 ore 10,00 funerali papà di Morgante Vincenzo (non andato) fatto telegramma + cuscino Unioncamere e cesto Sicindustria

24/08/2015 ore 09,00 a casa di Vincenzo Morgante a Palermo per visita della perdita del papà Giuseppe

16/09/2015 ore 21,00 cena con Lucia Borsellino da Tullio poi ci ha raggiunto Linda, Vincenzo Morgante che non la conosceva e Francesco Fiori. Verso le ore 23,00 ho incontrato Giorgio Squinzi e la moglie Adriana

Tra il materiale sequestrato altre cose riguardanti alcuni giornalisti si rinvengono negli appunti contenuti nel file excel di seguito riportati:

18/10/2011 De Cristofaro Enrico mi invia e-mail dall'indirizzo: e.decristofaro@lasicilia.it alle ore 12,42 dove un certo Pilotta scrive alla redazione La Sicilia, per pubblicare un pezzo contro di me, Lo Bello e Agnello, lui mi comunica che non lo pubblica

12/07/2010 nomina addetto stampa del Presidente CCIAA CL Lucilla Rovetto del 09/12/1970 di Caltagirone moglie di Enrico De Cristofaro (La Sicilia) Delibera di Giunta n.73 del 12/07/2010 voto all'unanimità !. 10.000,00 annui oltre iva.

M COME MAFIA DEI MISTERI DI STATO.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “ALDO MORO” e “L’ITALIA DEI MISTERI”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

 “Caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia -  come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

Le stragi senza colpevoli dell'estremismo nero. Franco Freda fa l’editore ad Avellino. Fioravanti e Mambro hanno scontato due mesi per ogni persona uccisa. Abbatangelo gode addirittura del vitalizio, scrive Paolo Biondani il 2 agosto 2017 su "L'Espresso". Sono rimasti quasi tutti impuniti. E oggi non si sentono vinti, ma vincitori. Sono i precursori e gli ispiratori dei movimenti neonazisti e neorazzisti di oggi. Se le Brigate rosse erano contro lo Stato, che le ha sgominate con centinaia di arresti e condanne, il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei servizi e negli apparati di polizia e di giustizia. Così troppe bombe nere sono rimaste senza colpevoli. E i teorici della violenza hanno potuto riproporsi come cattivi maestri. Il più famoso dei terroristi neri, Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano. La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero. Il suo braccio destro, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato la condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo. A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010. Nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva. Per la catena di bombe nere che hanno insanguinato l’Italia fino agli anni Ottanta, oggi in carcere si contano solo due condannati. A Opera è detenuto Vincenzo Vinciguerra, esecutore della strage di Peteano, un irriducibile che rifiuta la scarcerazione e oggi accusa i servizi. Il secondo è Maurizio Tramonte, condannato solo ora per la strage di Brescia, commessa nel 1974 mentre collaborava con il Sid del generale Maletti (che è libero in Sudafrica). Tramonte è stato arrestato in giugno dopo l’ultima fuga in Portogallo. Il suo capo, Carlo Maria Maggi, leader stragista di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato per la strage Brescia (8 morti, 102 feriti), sconta la pena a casa sua, perché ha più di 80 anni ed è malato. Sconti e benefici di legge hanno cancellato il carcere anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i fondatori dei Nar (con Massimo Carminati), che dopo l’arresto hanno confessato più di dieci omicidi e sono stati condannati anche per la strage di Bologna (85 vittime), nonostante le loro proteste. E nonostante i depistaggi: due ufficiali del Sismi fecero trovare armi ed esplosivi su un treno, nel 1981, per salvare i neri incolpando inesistenti terroristi esteri. Fioravanti e Mambro hanno ottenuto la semilibertà nel 1999. Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, notò «hanno scontato solo due mesi di carcere per ogni morte causata». Anni dopo Bolognesi, mentre parlava in una scuola di Verona, si vide attaccare da uno studente di destra poi arrestato come uno dei picchiatori che nel 2008 hanno ucciso a botte un ragazzo di sinistra. Per le carneficine nere le condanne si limitano a pochi esecutori. I mandanti e tutti gli altri complici sono sconosciuti. E per molte stragi, da piazza Fontana a Gioia Tauro all’Italicus, l’impunità è totale. A fare eccezione è la strage del treno di Natale (23 dicembre 1984, sedici morti, 267 feriti), che è costata l’ergastolo, tra gli altri, a Pippo Calò, il boss della cupola di Cosa Nostra trapiantato a Roma. Il procuratore Pierluigi Vigna parlò di «terrorismo mafioso»: un attacco allo Stato ripetuto nel 1992-93. Come custode dell’esplosivo usato dai mafiosi, è stato condannato un politico di destra: Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Msi. Scontati sei anni, ha poi beneficiato della cosiddetta riabilitazione, che cancella la sentenza dal certificato penale. E il 4 luglio scorso l’ex deputato con la nitroglicerina ha perfino riottenuto il vitalizio della Camera.

Morire di politica - Violenza e opposti estremismi nell'Italia degli anni '70, scrive “La Storia siamo noi" della Rai. 69 morti e più di mille feriti, 7.866 attentati e 4.290 episodi di violenza: sembra un bollettino di guerra, è invece il bilancio di una stagione politica tra le più drammatiche della prima Repubblica, quella che negli anni Settanta ha visto contrapposte l'estrema destra e l'estrema sinistra, il rosso e il nero. Mai come in quegli anni questi due colori hanno finito per dividere e accecare centinaia di migliaia di giovani di più generazioni, che si sono odiati e combattuti senza esclusione di colpi, trascinando il nostro Paese quasi alle soglie di una guerra civile. Una violenza che nasce nei cortei e nelle piazze, che diventa sempre più cieca, anche se ammantata di grandi ideologie.

Gli anni Settanta cominciano nel '68. Due episodi, accaduti entrambi a Roma, preludono all'esplosione di violenza degli anni che verranno: la "battaglia di Valle Giulia" (1 marzo 1968) e l'attacco dei militanti del Movimento Sociale all'Università "La Sapienza" (16 marzo 1968). 

L'episodio di Valle Giulia prende avvio da una manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero della facoltà di Architettura, occupata il 29 febbraio dagli studenti. Sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, la facoltà resta presidiata. Il corteo di protesta si riunisce prima a Piazza di Spagna, per poi dirigersi a Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalle forze dell'ordine. Gli studenti attaccano la polizia lanciando sassi e altri oggetti contundenti, la battaglia dura diverse ore e alla fine il bilancio è di 228 fermi e 211 feriti di cui 158 tra le forze dell'ordine. Tra i partecipanti agli scontri troviamo il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò una canzone), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), e Oreste Scalzone, fondatore e leader dei gruppi della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. Ispirato dall'episodio di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrive la poesia Il PCI ai giovani in cui dichiara polemicamente di simpatizzare con gli agenti perché veri "figli di poveri"; è l'interpretazione del Sessantotto come di 'una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa'.

Pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, il 16 marzo, circa 200 militanti del Movimento Sociale si presentano all'università di Roma 'La Sapienza' per dare una lezione al movimento studentesco: poiché è di sinistra, va fermato. A guidarli c’è anche il Segretario del partito Giorgio Almirante insieme allo stato maggiore dell'MSI eletto a Roma: Anderson e Caradonna. Decine di picchiatori aggrediscono gli studenti di sinistra che ripiegano nella facoltà di Lettere - sulla cui scalinata viene fotografato Almirante attorniato da picchiatori armati di bastoni? ma poi l'attacco viene respinto; i militanti del MSI si rifugiano nella facoltà di Giurisprudenza che viene circondata dagli studenti di sinistra che tentano di entrare. Dalle finestre i missini cominciano a tirare mobili e a lanciare suppellettili. Un banco, lanciato dall'ultimo piano, ferisce gravemente alla spina dorsale Oreste Scalzone che si salva per miracolo. I fascisti asserragliati dovranno uscire dall'università dentro i blindati della polizia.

Piazza Fontana: 12 dicembre 1969. Milano, ore 16,37 del 12 dicembre 1969, una bomba collocata in una valigetta esplode nella Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana: 16 vite stroncate e 88 feriti gravi. Inizia in questi locali anneriti dal fumo la vera storia politica degli anni Settanta con la lunga escalation di sangue che l'ha contrassegnata. Quella di Piazza Fontana, insieme alla strage di Bologna, è uno degli attentati più gravi dell'Italia del Dopoguerra. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (da Baldoni A, Provvisionato S., A che punto è la notte, Vallecchi, 2003, p. 18).

Non sarà l'unica strage, altre cinque insanguineranno l'Italia negli anni Settanta: Gioia Tauro (22 Luglio 1970), Questura di Milano (17 maggio 1973), Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), Stazione di Bologna ( 2 agosto 1980): 132 morti che ancora chiedono giustizia. Il 12 dicembre del 1970, durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di Piazza Fontana, scoppiano incidenti, la polizia carica, un agente spara un candelotto lacrimogeno ad altezza uomo e uccide lo studente Saverio Saltarelli, 23 anni.

Il rapporto Mazza (1971). A lanciare per primo l'allarme su una degenerazione dello scontro politico è il Prefetto di Milano Libero Mazza in un lungo rapporto sulla situazione di Milano in cui denuncia gli estremismi sia di destra che di sinistra: nessuno però lo prende in adeguata considerazione. Il fascicolo ha per titolo: Situazione dell'ordine pubblico relativamente a formazioni estremiste extraparlamentari, ma passa alla cronaca e poi alla storia più semplicemente come 'Rapporto Mazza', dal nome del suo autore che per mesi verrà criticato dalla sinistra come allarmista. In realtà il 'Rapporto Mazza' era stato redatto nel dicembre del 1970, ma diventa pubblico il 16 aprile 1971, quando viene riportato dal «Giornale d'Italia». Si sostiene che la contestazione sta prendendo una brutta piega, e che esiste il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Mazza è bollato come 'fascista', nonostante il suo passato di partigiano, e negli slogan dei cortei viene apostrofato con violenza («Mazza, ti impiccheremo in piazza»). Nel rapporto fa riferimento anche al "Collettivo politico metropolitano", crogiuolo delle future Brigate Rosse, in cui milita Renato Curcio: «Il gruppo conta pochissimi aderenti e nel gennaio 1970 ha pubblicato un opuscolo di propaganda dal titolo "Collettivo". I suoi principali esponenti sono Renato Curcio studente universitario, Corrado Simioni impiegato da Mondatori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Rispetto alle organizzazioni politico-sindacali di tipo tradizionale, il movimento ha recentemente annunciato la formazione di nuclei, denominati "Brigate rosse", da inserire nelle fabbriche».

Il "giovedì nero" di Milano: 12 aprile 1973. In quegli stessi anni anche a destra si fa strada la violenza con esiti drammatici. Siamo a Milano, il 12 aprile 1973: il Movimento Sociale ha indetto una manifestazione 'contro la violenza rossa'; nel partito si avverte la necessità di fare qualcosa contro lo strapotere delle formazioni estremiste della sinistra extraparlamentare: è oltre un anno che il Movimento Sociale non riesce a tenere nessun comizio a Milano. Tra gli oratori chiamati per la manifestazione spicca il nome di Ciccio Franco, il leader calabrese del 'Boia chi molla', motto della rivolta avvenuta a Reggio Calabria nel luglio del 1970, scoppiata in seguito alla decisione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro. La manifestazione era stata autorizzata da tempo, ma viene revocata nella mattinata del 12 dal Prefetto Libero Mazza che vieta tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25, anniversario della Liberazione. Ma, ricorda Maurizio Murelli, militante del MSI: «Il comizio si sarebbe fatto a qualsiasi costo, lo volesse il prefetto o no. Questa era la parola d'ordine per quanto riguardava il Movimento Sociale»; nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunano presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che si dirigono verso Piazza Tricolore; a loro si aggregano altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestano in Corso Concordia. Dopo che una delegazione del MSI, capitanata dal vicesegretario Franco Maria Servello insieme all'On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, allora Segretario regionale del Fronte della Gioventù, si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, a ridosso di Piazza Tricolore viene lanciata una bomba a mano SRCM che ferisce un agente ed un passante. Le forze dell'ordine intervengono per disperdere i manifestanti e in Via Bellotti un altro militante Vittorio Loi, 21 anni, lancia una seconda bomba a mano contro le forze dell'ordine uccidendo sul colpo l'agente Antonio Marino: originario di Caserta, faceva parte della Seconda compagnia del Terzo celere e avrebbe compiuto 23 anni a giugno. La sera stessa il Movimento Sociale mette una taglia sugli assassini e il giorno dopo si consegnano Vittorio Loi e Maurizio Murelli. La morte dell'agente Marino mette in discussione la convinzione, molto diffusa a sinistra, che ci sia una sorta di connivenza tra estremisti di destra e forze dell'ordine.

Roma 16 aprile 1973: il rogo di Primavalle. Tra gli innumerevoli fatti di sangue che contraddistinguono questa stagione politica uno su tutti esprime l'aberrazione a cui si può arrivare in nome dell'odio ideologico: il rogo di Primavalle. A Roma nella notte del 16 aprile un commando di Potere Operaio si dirige verso Via Bibbiena nel quartiere popolare di Primavalle dove abita la famiglia di Mario Mattei, netturbino e segretario della sezione locale del Movimento Sociale Italiano. Al terzo piano, sotto la porta dell'appartamento, vengono versati diversi litri di benzina e viene quindi appiccato il fuoco: restano intrappolati nelle fiamme i figli di Mattei, Virgilio, di 22 anni, e il fratellino Stefano di 10. Viene lasciato un cartello sotto il palazzo: 'Giustizia proletaria è fatta'. Per il rogo di Primavalle vengono condannati con sentenza definitiva Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, esponenti di Potere Operaio, tutti fuggiti all'estero. Nel febbraio del 1975 si apre il processo per il rogo di Primavalle: il 28 febbraio nelle zone limitrofe al Tribunale di Roma, in Piazzale Clodio, scoppiano violenti scontri tra giovani di destra e di sinistra. A Piazza Risorgimento viene assassinato lo studente greco fuorisede del FUAN, Mikis Mantakas. La condanna è caduta in prescrizione il 28 gennaio 2005. Nel febbraio del 2005 la procura di Roma ha deciso di riaprire il caso. Le fiamme del rogo di Primavalle dimostrano che si è innescata una degenerazione senza limiti né tabù (come nel film Arancia Meccanica uscito proprio in quegli anni, 1971). Inizia a dilagare di un odio inarrestabile tra le opposte fazioni.

Dopo Piazza della Loggia, l'antifascismo militante. La mattina del 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia: è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L'attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca 8 morti e più di 90 feriti. Dopo la strage di Piazza della Loggia si avvia una campagna che chiede la messa al bando del MSI; si inaugura così una delle stagioni più funeste, ossia quella dell'antifascismo militante. Afferma Marco Boato, deputato dei Verdi, ex dirigente di Lotta Continua: «E' successo che una dimensione assolutamente condivisibile, quella dell'antifascismo - l'Italia è una repubblica nata sull'antifascismo, dalla Resistenza - è diventata una dimensione di scontro di piazza, anche ad un livello individuale assolutamente degenerato.»

Le leggi speciali. Di fronte a un ordine pubblico messo sempre più a rischio il Parlamento approva nel 1975 le cosiddette "leggi speciali": si tratta della cosiddetta 'legge Reale' (dal nome del Ministro che l'ha redatta, il repubblicano Oronzo Reale), che autorizza la polizia a sparare in caso di necessità e la misura del fermo di 48 ore. La legge risponde al desiderio di protezione e sicurezza dei cittadini. Approvata a grande maggioranza dall'opinione pubblica, viene sottoposta a referendum l'11 giugno 1978: il 23,5% vota per l'abrogazione, il 76,5% per il mantenimento. Nel 1978 segue l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta "legge Cossiga" (legge n. 15 del 6 febbraio) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di "terrorismo" ed estende ulteriormente, secondo alcuni in modo incostituzionale, i poteri della polizia. Anche questa legge viene sottoposta ad un referendum, tenuto il 17 maggio 1981: l'85,1% si esprime per il mantenimento, il 14,9% per l'abrogazione.

Il 1977: una nuova stagione di contestazione. Nel 1977 una nuova grande contestazione nasce dalle università. Ma, diversamente dal '68, esplode con violenza. Dopo la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna (11 marzo 1977), si allarga l'area della rivolta armata, nei cortei compaiono le P38 e le bombe molotov; negli scontri a Milano, Torino e Roma fanno la loro parte anche gli agenti delle squadre speciali. Il movimento del Settantasette è una galassia politica e culturale variegata che va dall'ironia dadaista degli 'indiani metropolitani', alle rivendicazioni delle femministe, alle provocazioni dell'autonomia creativa fino alle provocazioni violente dell'autonomia organizzata. Nascono le radio libere: Radio Alice a Bologna, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma. Sostiene Marco Boato: «Il '77 è il secondo ciclo di un grande movimento collettivo che si verifica nel nostro paese all'interno del quale si scontrano due anime. Un'anima che potremmo definire creativa quasi di rinnovamento di costumi, di valori, di espressioni, fortemente innovativa, e un'anima violenta, alla fine è prevalsa questa seconda». Un elemento scatenante di questa nuova svolta violenta è anche la delusione della prova elettorale della sinistra extraparlamentare nelle elezioni del 20 giugno 1976, sotto il cartello elettorale di Democrazia Proletaria (raggiunge solo l'1,51 %, 556.022 voti). In molti si convincono che l'unica strada è quella della lotta armata, mentre altri si rifugiano nel privato e si comincia a parlare di riflusso.

Walter Rossi (30 settembre 1977). L'episodio più eclatante in questi anni è l'uccisione a Roma dello studente Walter Rossi. È il 30 settembre 1977, nel quartiere Balduina un gruppo di giovani di sinistra sta distribuendo volantini per protestare contro il ferimento, avvenuto la sera prima a Piazza Igea, di una compagna, Elena Pacinelli 19 anni, colpita da tre proiettili. In Viale Medaglie d'oro i compagni di Elena, dopo aver subito un'aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Due persone si staccano dal gruppo e fanno fuoco contro i giovani di sinistra. Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua è colpito alla nuca: gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrerlo. I compagni del ragazzo pregano gli stessi agenti di chiamare qualcuno, un'ambulanza: «Non abbiamo la radio, non possiamo fare nulla», si sentono rispondere. I colpevoli saranno individuati anni dopo in Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Fioravanti attribuisce ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale, ma in seguito alla morte di quest'ultimo in uno scontro a fuoco con la polizia (5 dicembre 1981) il procedimento penale viene archiviato. Fioravanti è condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa, solo per i reati concernenti le armi. L'uccisione di Walter Rossi è un segno che anche l'estrema destra sta cambiando.

7 gennaio 1978: la strage di Via Acca Larentia. Sul finire degli anni Settanta lo spontaneismo armato trascina anche la destra nella galassia del terrorismo A scatenarlo un triplice omicidio che avrà un effetto devastante su tutta la destra italiana: l'eccidio di Acca Larentia. Sono le ore 18,20 e alcuni ragazzi stanno uscendo dalla sede del Movimento Sociale in Via Acca Larentia numero 28, al quartiere Tuscolano di Roma, quando una raffica di mitra Skorpion uccide Francesco Ciavatta, di 18 anni e Franco Bigonzetti di 19. Alcuni mesi dopo la strage, il padre di Ciavatta, operaio, si suicida per la disperazione gettandosi dalla finestra della sua casa in Piazza Tuscolo. Il duplice omicidio viene rivendicato in una maniera inusuale, mediante una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina: la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contro potere Territoriale, dice: Ieri alle 18.30 circa, un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. I due giovani missini sono stati uccisi con quella stessa mitraglietta Skorpion che dieci anni dopo, nel 1988, sarà utilizzata in altri tre omicidi, firmati dalle Brigate rosse: quelli dell'economista Ezio Tarantelli, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffili. La sera stessa del duplice omicidio, davanti alla sezione di via Acca Larentia scoppiano violenti scontri tra militanti di destra e forze dell'ordine: sembra che un giornalista RAI per sbaglio abbia gettato un mozzicone di sigaretta su una chiazza di sangue: il gesto, interpretato come un segno di disprezzo, infiamma gli animi e fa scoppiare il finimondo. Un tenente dei carabinieri fa fuoco ad altezza uomo e uccide Stefano Recchioni, 19 anni. Il bilancio è tremendo: tre ragazzi di destra uccisi, due dai comunisti, uno dallo Stato. Per molti è la prova di essere soli, contro tutti; scatta la molla della vendetta e della violenza fine a se stessa, non supportata da alcun preciso disegno politico. «È una violenza confusa e irrazionale, priva di programma, velleitaria quella che va organizzandosi dopo Acca Larentia. La scorciatoia della lotta armata si apre quasi da sola: nasce una sigla, quella dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, che non diventerà mai una vera e propria organizzazione di lotta armata, ma resterà soltanto una sigla a disposizione, una sigla che può usare chiunque abbia voglia di combattere il suo senso di impotenza e di incertezza» (da Baldoni A., Provvisionato S., op. cit., p. 253). Dalla deposizione di Francesca Mambro alla Seconda Corte d'assise d'appello di Bologna: «Acca Larentia segna il momento in cui la destra, i fascisti a Roma, hanno uno scontro armato violentissimo con le forze dell'ordine. Per la prima volta e per tre giorni, i fascisti romani spareranno contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare 'il palazzo', rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri, avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere costituito. E poi diventerà anche un momento di prestigio» (udienza del 17 novembre 1989).

I NAR sono una delle 177 sigle che praticano la lotta armata nel 1978; l'anno dopo saranno 215, ma questo è terrorismo, ed è un'altra storia.

L'estremismo di sinistra. Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. Documento aggiornato al 24/02/2006 da Archivio 900. Nella seduta del 23 ottobre 1986 la Camera dei Deputati, approvando una proposta del deputato Zolla deliberò di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per accertare, in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi verificatesi a partire dal 1969. Si era appena concluso il quindicennio terribile ('69-'84) che la Commissione fa oggetto della sua considerazione di insieme e nel quale il nostro Paese aveva conosciuto tensioni sociali estreme, tali da porre in discussione la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Altissimo era stato il numero degli attentati e degli episodi di violenza dichiaratamente ispirati da ragioni politiche o comunque immediatamente percepiti come tali dall'opinione pubblica ed alto il prezzo di sangue che il paese aveva pagato: nel periodo più acuto della crisi, e cioè dal 1969 al 1980, trecentosessantadue morti e quattromilaquattrocentonovanta feriti, di cui rispettivamente centocinquanta e cinquecentocinquantuno attribuibili ad episodi di strage lungo l'arco che lega l'attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969 a quello della stazione di Bologna nell'agosto del 1980 (114). La risposta dello Stato era stata complessivamente ferma, le istituzioni democratiche avevano tenuto, i terrorismi di opposta matrice politica sostanzialmente disvelati e sconfitti. Tuttavia gli autori degli episodi di strage erano rimasti impuniti; da ciò la determinazione parlamentare di cui innanzi si è detto con la quale si è aperta una vicenda istituzionale che la presente relazione ambirebbe concludere, almeno allo stato delle acquisizioni attuali. Significativo appare peraltro che già nel 1986 il Parlamento manifestava di avvertire come le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi fossero da porre in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, fossero cioè da individuare nei probabili limiti di una risposta istituzionale che pure nel suo complesso doveva (e deve) ritenersi positiva. E' un approccio che dopo un decennio appare ancora estremamente fondato e che la Commissione ritiene di mantenere fermo nell'analizzare separatamente, appunto dall'angolo visuale della risposta istituzionale, fenomeni che nella realtà storica del periodo ebbero compresenza ed ambiti di reciproca influenza: e cioè, da un lato, l'estremismo ed il terrorismo di sinistra, dall'altro, l'estremismo ed il terrorismo di destra. E ciò al fine di cogliere per entrambi nella risposta istituzionale identità o differenze di risultati e di limiti. Tutto ciò nella ribadita avvertenza che tale approccio analitico può apparire utile a disvelare insieme - e cioè in termini di una coincidenza almeno parziale - le ragioni dello stragismo e le ragioni della mancata individuazione delle relative responsabilità.

Sulla base di queste scelte di metodo è quindi possibile comprendere perché, nell'ordine espositivo, appaia opportuno affrontare innanzitutto l'analisi dell'eversione e dell'estremismo di sinistra, atteso che più diretta ne appare la connessione con due fenomeni che determinarono la grande tensione sociale che segnò il finire degli anni '60 e cioè la contestazione studentesca, da un lato, la protesta operaia e sindacale, dall'altro. Sul punto alla riflessione della Commissione due appaiono i dati che meritano di essere preliminarmente sottolineati. La riflessione storiografica sul partito armato, che ampiamente utilizza le fonti derivanti dall'analisi giudiziaria del fenomeno e dalla ormai imponente memorialistica dei principali attori di quella fosca stagione, consente di ritenere ormai acquisito che la lotta armata sia stata un derivato della storia della sinistra italiana, in particolare della sinistra di ispirazione marxista, per quanto riguarda l'ideologia, gli orientamenti, i progetti ed anche per quanto riguarda parziali insediamenti sociali. Sul punto non sembra ormai possibile nutrire dubbi di qualche fondatezza, giovando semmai segnalare i ritardi con cui fu percepita la reale natura di un fenomeno che, malgrado la sua natura clandestina, solo in parte ebbe carattere occulto nel suo svolgimento. In realtà le motivazioni politiche e gli obiettivi che il "partito armato" si proponeva furono resi sempre immediatamente conoscibili, sicché è il ritardo di percezione che potrebbe oggi assumere rilievo in una prospetti va critica, (attivando una problematica che merita di essere risolta), una volta che appare ben difficile ricondurre quel ritardo esclusivamente ai fenomeni di rimozione collettiva, che pure vi furono in ampi strati della pubblica opinione politicamente orientata a sinistra. Analogamente indubbio è che originariamente il movimento di contestazione studentesca, che prese il nome dal "sessantotto", non aveva come componente prevalente un progetto rivoluzionario di ispirazione marxista mediante lo strumento della lotta armata. Il movimento ebbe in realtà basi culturali non diverse da forme anche intense di protesta giovanile che in ambito occidentale si erano manifestate anni prima. Ovvio è il riferimento ai moti universitari statunitensi del 1964 e ad analoghe esperienze francesi, tedesche e inglesi degli anni successivi. I modelli culturali iniziali, solo latamente politici, (gli hippies, i figli dei fiori, i Beatles, la "contestazione", come venne definita, di stili di vita "borghesi", i primi contatti con le culture orientali, una maggiore libertà nei rapporti familiari e sessuali) erano ben diversi da quelli che avrebbero assunto dominanza nella radicalizzazione successiva ed esprimevano una aspirazione intensa quanto confusa ad un modello alternativo di società, più libera, meno stratificata e massificante. Non a caso nell'originaria atmosfera culturale il filosofo più letto era Marcuse (e non Marx) ed alimentava una protesta genericamente antiautoritaria, che nell'ambito universitario investiva innanzitutto il potere accademico. Con tali caratteri non può sorprendere che la spinta che alimentava la protesta giovanile, mentre profondamente incise sui costumi sociali liberalizzandoli, non seppe trovare uno sbocco politico; rapidamente quindi, almeno come movimento di massa, sfilacciandosi ed esaurendosi. Questa fu la tendenza in altre nazioni dell'Occidente che conobbero il fenomeno. Non così in Italia dove l'intrecciarsi dei moti studenteschi con le tensioni sindacali ed operaie che caratterizzarono il medesimo periodo, determinò un naturale terreno di cultura per una radicalità politica, già propria di gruppi sorti nel periodo precedente ma rimasti sino a quel momento sostanzialmente quiescenti e non operativi, che furono indicati da subito come sinistra extraparlamentare per l'assenza di un riferimento istituzionale in partiti rappresentati in Parlamento, ma anche perché intrisi di valori di fondo non coerenti con i principi della democrazia parlamentare. Il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma. Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana di cui ampiamente ci si occuperà in pagine seguenti, ma della quale vuol qui sottolinearsi il carattere di spartiacque, che fortemente incide sull'esplodere della violenza successiva. Vuol dirsi cioè che nel "partito armato", dove le due componenti studentesca e operaista continueranno a lungo a convivere, fu percepibile almeno nella sua fase iniziale anche una ulteriore componente che potrebbe definirsi latamente "resistenziale", (si pensi, come esempio certamente non esaustivo all'esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell'organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente); anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell'evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi.

La storia del partito armato, come si è già accennato, è ormai nota, perché ricostruita con sufficiente compiutezza dalla indagini giudiziarie e dalla stessa memorialistica dei suoi protagonisti. Sicché superfluo appare ripercorrerne sia pur sinteticamente le tappe, se non al fine di articolare intorno alle fasi della sua evoluzione, il giudizio che la Commissione ritiene compito suo proprio in ordine all'efficacia e ai limiti dell'azione di contrasto che al partito armato fu opposta dagli apparati istituzionali dello Stato. In tale prospettiva, ciò che colpisce allo stato attuale della riflessione è la sostanziale fragilità ed insieme il carattere di relativa segretezza che denunziano nella fase della loro costituzione i vari gruppi eversivi di sinistra, sì da fondare l'avviso meditato che una più ferma ed accorta risposta repressiva immediata avrebbe potuto almeno limitare l'alto prezzo di sangue che il paese pagò negli anni successivi.

Quanto alla fragilità e cioè alla ridotta capacità offensiva, sul piano di una lotta armata, dei vari gruppi eversivi che, pur tra notevoli diversità, costituirono nel loro insieme il "partito armato", sarà sufficiente il richiamo ad alcuni episodi che possono dirsi esemplari. Il primo organico tentativo fatto da una personalità di rilievo avente a disposizione molte risorse e molti legami internazionali, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, si conclude tragicamente in un disastro, denunciante, per le sue modalità, improvvisazione e velleitarismo, portando rapidamente alla dissoluzione dei pochi nuclei che si erano costituiti. Altrettanto evidente è la fragilità di tentativi come quello della "Barbagia Rossa" in Sardegna o dei "Primi fuochi di guerriglia" in Calabria. Ed ancora: il 25 gennaio 1971 otto bombe incendiarie vengono collocate su altrettanti autotreni fermi sulla pista di Linate dello stabilimento Pirelli, solo tre, però esplodevano, non le altre cinque perché difettose. L'impreparazione è confessata nel volantino di rivendicazione, che commenta: "Sbagliando si impara. La prossima volta faremo meglio". L'11 marzo 1973, a Napoli, il militante dei N.A.P., Giuseppe Vitaliano Principe, è ucciso dall'esplosione di un ordigno che sta preparando, mentre rimane gravemente ferito Giuseppe Papale. Il 30 maggio dello stesso anno un altro militante dei NAP Giuseppe Taras è ucciso dall'esplosione dell'ordigno che sta preparando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. D'altro lato le stesse Brigate Rosse nel documento teorico del settembre 1971 devono constatare "lo stato di impreparazione in cui si trovano le forze rivoluzionarie di fronte alle nuove scadenze di lotta".

A tale iniziale scarsa potenzialità offensiva, che alla luce dei fatti innanzi ricordati appare innegabile, si aggiunge la constatazione altrettanto dovuta del carattere di relativa segretezza e di permeabilità, che i gruppi eversivi denotano nella fase costitutiva e di operatività iniziale. Si pensi al gruppo "22 ottobre", operativo a Genova, che risulta essere stato infiltrato sin dall'inizio da ambigui personaggi tra malavitosi e confidenti della polizia (Adolfo Sanguinetti, Gianfranco Astra, Diego Vandelli). A tale gruppo è attribuibile la prima vittima della lotta armata, il fattorino portavalori dello IACP di Genova, Alessandro Floris, ucciso durante una rapina destinata ad autofinanziamento. Il gruppo (che all'inizio del mese si era inserito in un programma-radio annunciando: "Attenzione proletari, la lotta contro la dittatura borghese è cominciata") dopo la rapina è rapidamente liquidato. Per ciò che concerne il gruppo eversivo di maggior consistenza, e cioè le B.R., basterà rammentare ciò che riferisce Moretti, con riguardo alla fase preliminare di costituzione della struttura, in ordine ad una riunione che nel novembre 1969 si tenne al pensionato Stella Maris di Chiavari per iniziativa del Comitato Politico Metropolitano di cui furono fondatori tra gli altri Renato Curcio e Alberto Franceschini e nel quale erano confluiti Comitati Unitari di base di alcune fabbriche (tra cui la Sit-Siemens, ove operava lo stesso Moretti) e collettivi autonomi costituiti in varie situazioni dalla sinistra extraparlamentare. Riferisce Moretti: "A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pure indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi". Esemplare ancora, il modo con cui Franceschini descrive le prime esperienze di clandestinità con riferimento alla situazione della Pirelli; "Ci conosciamo, nome per nome. Eravamo clandestini per modo di dire, stavamo in quella clandestinità di massa, in quella omertà proletaria che copriva tutti i comportamenti illegali. Vanno alla clandestinità obbligata solo quelli che stanno per essere arrestati". E' nota peraltro una deposizione del generale Dalla Chiesa che senza dare indicazioni ulteriori ha lasciato capire che l'opera di infiltrazione soprattutto dell'Arma dei Carabinieri nelle organizzazioni eversive di sinistra era stata quasi permanente e sin dall'inizio. Il dato è stato direttamente confermato alla Commissione nel corso della X legislatura dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell'Ufficio "D" del SID: "Abbiamo seguito l'intera problematica del terrorismo in modo molto attento... Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto, ed è per questo che è pervenuto a quei risultati" (il riferimento è ai due arresti di Renato Curcio). "Se questa informazione verrà fuori, molti uomini potranno correre pericoli" (il che esclude che il riferimento fosse a nomi noti come quelli di Girotto e Pisetta). Sono dati che ricevono conferma anche da altre fonti indubbiamente autorevoli. Con riferimento all'infiltrazione iniziale di Girotto ai suoi risultati positivi ma anche alla possibilità non sfruttata di risultati ulteriori, ha scritto il generale Vincenzo Morelli che ha ricoperto vari incarichi di comando nell'Arma dei CC e che dal 1980 al 1982 è stato comandante della I Brigata CC di Torino: "L'arresto di questi due brigatisti era stato infatti deciso ed eseguito in modo frettoloso a causa di sopravvenute difficoltà che minacciavano, di compromettere il confidente; così almeno si disse allora (il corsivo è della Commissione). Secondo alcuni esperti, tuttavia, era questo un rischio che poteva essere corso di fronte alle inderogabili necessità di continuare le indagini: essi suggerivano di non arrestare per il momento i due capi storici delle Brigate Rosse ma di continuare a seguirne i movimenti attraverso quegli elementi scaltri e di fiducia da tempo infiltrati nell'organizzazione eversiva". Appaiono quindi evidenti una serie di indici di una attività informativa fin dall'inizio penetrante ed efficace, che lascia interdetti dinanzi a risultati nell'attività di contrasto, che se non furono scarsi per ciò che in seguito si dirà, non ebbero però quella rapida definitività che lo stato delle informazioni di cui si era in possesso avrebbe potuto consentire. Una spiegazione del fenomeno potrebbe rinvenirsi nella circostanza che i gruppi eversivi, malgrado la loro scarsa organizzazione e la loro relativa permeabilità, trovarono nelle tensioni sociali del periodo (la prima metà degli anni settanta) una notevole capacità di radicamento. Il dato è però ambivalente atteso che, con riferimento alla realta sociale e politica in cui i gruppi venivano a radicarsi, la permeabilità ed il carattere di relativa segretezza divenivano indubbiamente maggiori. Si pensi ad esempio a periodici legali come "Nuova resistenza", che sorge per iniziativa concordata dalle B.R. con Feltrinelli e nel cui primo numero poteva leggersi: "Tutto il lavoro del nostro giornale vuol essere un contributo a sciogliere ostacoli, presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia, come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni sfruttamento". Si pensi all'intera storia di Potere Operaio le cui vicende, se da un lato sono intimamente legate al terrorismo diffuso di Autonomia Operaia, dall'altro appartennero alla vita ufficiale del paese, sì da essere state suscettibili di una piena conoscibilità contestuale al loro svolgimento. Ha scritto riferendosi a Potere Operaio, Giorgio Bocca: "Ogni quattro attivisti di P.O. due sono poliziotti". A tanto può aggiungersi l'indiscutibile patrimonio informativo che deve ritenersi certamente derivato da una attività di contrasto che ha riguardato la confusa nebulosa dell'estremismo di sinistra e che ha conosciuto anche momenti di intensa efficacia; così negli ultimi mesi del 1971, quando hanno luogo "operazioni setaccio" nelle aree metropolitane con centinaia di arresti, migliaia di denuncie, sequestri di un imponente quantità di armi e munizioni. Vuol dirsi in altri termini, che il magma protestatario in cui le B.R. operano il loro radicamento sociale, era agevolmente conoscibile e noto, sì da rendere più severo il giudizio in ordine all'assenza di più intensi risultati nel contrasto al fenomeno eversivo.

Peraltro, sospendendo per ora il giudizio su tali aspetti almeno per alcuni profili inquietanti, va sottolineato come anche in ragione di tale radicamento in realtà sociali diffuse e nel loro complesso eversive, i gruppi clandestini, pur tra ricorrenti insuccessi, (si pensi, oltre a quelli già ricordati, al rapimento Gancia e alla sua sanguinosa conclusione nella cascina Spiotta) ottengano anche clamorosi risultati (i rapimenti Costa e Sossi da parte delle B.R., quello Di Gennaro ad opera dei NAP). Il successo di tali operazioni e le dichiarazioni di alcuni sequestrati (che presentano l'organizzazione delle BR come fortissima e in possesso di informazioni penetranti e globali) alimentano il mito della invincibilità delle BR e l'opinione diffusa che le stesse fossero qualcosa di diverso da ciò che erano e che pubblicamente dichiaravano di essere incentivando quel moto collettivo di rimozione, che già si è segnalato, nella pubblica opinione orientata a sinistra e dando altresì fondamento all'ipotesi che alle spalle delle BR e degli altri gruppi eversivi potesse esservi in Italia o all'estero un'unica centrale (il mito del Grande Vecchio) di direzione e controllo. Sono ipotesi che, per quanto autorevolmente e ripetutamente affacciate, non trovano riscontro in una storia, quella del partito armato, che ormai può ritenersi quasi compiutamente disvelata. Ma soprattutto giova sottolineare come il patrimonio informativo di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso già all'epoca dei fatti, era già idoneo a smentire la fondatezza delle ipotesi medesime e a fondare un'azione di contrasto ferma ed efficace.

D'altro canto non vi è dubbio che un tal tipo di risposta vi sia stato; ciò che colpisce è però il carattere altalenante di un'azione repressiva che conosce momenti di forte intensità, inframmezzati a cali di tensione e a bruschi ripiegamenti. Sicchè la valutazione d'insieme che la Commissione ritiene di formulare sul punto è su un carattere di "stop and go" nella risposta istituzionale, carattere che merita di essere investigato e nei limiti del possibile chiarito ai fini di una sua meditata e motivata valutazione. Ed invero può dirsi storicamente accertato che, ad onta della presunta invincibilità delle B.R., fu ben possibile al generale Dalla Chiesa, pochi mesi dopo il clamoroso successo dell'operazione Sossi, infiltrarne addirittura il vertice nel giro di poche settimane (l'infiltrato è padre Girotto detto "frate Mitra") giungendo così all'arresto di due dei capi storici, Curcio e Franceschini, in occasione di un appuntamento al quale sarebbe dovuto intervenire anche Moretti che riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In pochi mesi, quindi le B. R. sono decapitate, ma è disarmante l'estrema facilità con cui un'operaziona guidata da Margherita Cagol riesce a liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Tra il 1974 e il 1976 l'organizzazione appare comunque ridotta ai minimi termini, anche per effetto di una pressione costante delle forze di sicerezza sul vertice delle B.R. che culmina con il nuovo arresto di Curcio e di Nadia Mantovani, Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchese, nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976, cui segue quello di Semeria, il 22 marzo, alla stazione centrale, sempre a Milano. E si è già riferito in ordine alla fonte che consente alla Commissione di ritenere che tali successi costituirono il frutto di una attività informativa dei servizi di sicurezza operata mediante infiltrati diversi dai noti Girotto e Pisetta. Appare quindi davvero singolare che subito dopo sia stato possibile ai pochi brigatisti residui riorganizzare sostanzialmente le proprie forze al fine di determinare un salto qualitativo all'azione eversiva, la quale passa da una fase iniziale che può definirsi di propaganda armata ad una fase successiva di vero e proprio terrorismo di sinistra, che si concluderà soltanto nei primi anni del decennio successivo. Ad un giudizio reso oggi sereno anche dagli anni trascorsi, tale recuperata possibilità dei pochi brigatisti residui di riorganizzarsi, per raggiungere come si vedrà un più elevato livello di aggressività, appare oggettivamente collegabile a scelte operative degli apparati istituzionali assolutamente non condivisibili e di ben difficile spiegabilità. Specifico è il riferimento allo scioglimento del 1975 del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Tale scelta appare oggi ancora più grave, alla luce di acquisizioni in base alle quali risulterebbe che i servizi di sicurezza avevano chiaramente percepito che le BR avevano la possibilità di riorganizzarsi attingendo ad un più elevato livello di pericolosità. Già nel giugno del 1976 il settimanale "Tempo" pubblicò le seguenti dichiarazioni di uno dei massimi responsabili dei Servizi, generale Maletti: "Nell'estate del 1975 (...) avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio (delle BR, n.d.r.) sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, e con programmi più cruenti. (...) Questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere. (...) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandati restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra". Lo stesso Maletti, in un'intervista successiva, dichiarò: "Già nel luglio del 1975 inviai un rapporto al Ministro dell'Interno che allora era Gui, per avvertirlo che d'ora in poi gli eversori avrebbero inaugurato la tecnica dell'attentato alla persona, in particolare quella della sparatoria alle gambe".

Ed invero solo nel 1976 le B.R. alzano il tiro ponendo l'omicidio politico a fine dichiarato della propria azione. Episodi omicidiari precedenti, infatti, come l'uccisione di due militanti dell'M.S.I. a Padova, furono eventi volontari ma non premeditati. Soltanto alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, le BR per la prima volta sparano per uccidere: la vittima è il Procuratore della Repubblica di Genova, coco, (che era considerato il responsabile del mancato avviarsi delle trattative al momento del sequestro Sossi) e due uomini di scorta. Che si fosse in presenza di un'evoluzione e quindi di una seconda fase del gruppo eversivo non può ormai revocarsi in dubbio. Ciò è pacificamente riconosciuto dagli stessi protagonisti della lotta clandestina. "Nel corso del 1976, l'impianto organizzativo subisce una trasformazione radicale, che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Questa trasformazione costituisce una vera e propria seconda fondazione delle BR, in seguito alla quale tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di una impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello Stato". Sorprende che un simile ambizioso ed estremo programma sia nutrito da un gruppo terroristico ridotto a poche unità e fortemente provato, come oggi riconosce parlando di sé. Lauro Azzolini dichiara a un giornalista; "Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli ed io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa; qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere, o siamo vinti in partenza. E' il fronte logistico che diventa il vero centro dell'organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli ed io. La direzione strategica perde ogni importanza". E il giornalista che riceve tale dichiarazione ritiene di commentarla così: "I fondatori delle B, i capi storici, dicono che l'esperienza era esaurita nel 1975. E allora perché continuare per altri sette anni? Perché strascinamento e involuzione militarista sono l'effetto di una crisi sociale ed economia che si trascina: è la tesi fondamentale della nostra ricerca. La storia non si scrive con i se, ma come ipotesi si può dire che, se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì". E' valutazione che la Commissione ritiene solo in parte da condividere. E' pur vero infatti che le forti tensioni sociali che riesplodono nel Paese con il movimento del 1977 diedero nuova linfa all'estremismo terroristico. Ma è altrettanto vero, da un lato, che l'eruzione sociale segue di circa un anno il momento riorganizzativo delle BR, dall'altro che la successione storica degli eventi nello spazio temporale considerato denuncia momenti di forte debolezza e quasi di stallo nella risposta istituzionale dello Stato. Attribuire tutto ciò a meri fenomeni disorganizzativi sarebbe già grave nella prospettiva del giudizio storico politico che alla Commissione compete. E per altro anche un simile giudizio non può pienamente apparire satisfattivo, perchè contrastato dai notevoli successi del periodo precedente, consentiti anche dal cospicuo patrimonio informativo sul fenomeno di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso.

Certo sul piano dell'oggettività storica non soltanto dal 1975 in poi le nuove BR (sostanzialmente rifondate) sotto la direzione di Moretti ed articolate soprattutto nelle due colonne di Genova e di Roma (la prima con un insediamento sociale di tradizione operaia, la seconda di tipo giovanile studentesco) appaiono abbastanza diverse da quelle del periodo di propaganda armata, ma subiscono per alcuni anni un'azione di contrasto abbastanza evanescente. Sul punto non può non sottolinearsi, tra l'altro, che alcuni dei protagonisti di sanguinosi eventi immediatamente successivi erano stati addirittura arrestati e poi rilasciati (come Morucci) o erano riusciti ad evadere (come Gallinari). E' in questa situazione che l'eruzione del movimento del '77 innalza in maniera esponenziale le possibilità di insediamento sociale dei gruppi terroristici. Il movimento ha una precisa data di nascita: il 1° febbraio 1977, quando durante scontri tra studenti di sinistra e di destra a Roma, nell'aula magna di Statistica (occupata) viene ferito alla testa da un colpo di pistola lo studente di sinistra Guido Bellachioma. I gruppi dell'ultrasinistra replicano con quella che definiscono "una risposta di massa" - nella quale, in un primo momento, hanno un ruolo gli "indiani metropolitani", più folcloristici che violenti - con l'occupazione dell'università, sino agli scontri col servizio d'ordine che protegge Lama, (sono in prima fila i futuri brigatisti Emilia Libera e Antonio Savasta). E' da tale area ribollente di protesta e conflittualità sociale che affluiscono alle BR centinaia di militanti, parte "regolari", parte no, che farà loro superare la stagnazione dl '76, col solo segnale nazionale - a Genova - che ora si spara per uccidere. Dirà Morucci: "A un certo punto c'è stata in Italia un'area di circa 200 mila giovani che è passata al comunismo marxista per mancanza di alternativa" (intervista a "il Giorno", 26 aprile 1984). Le BR divengono così il punto di riferimento di una parte dell'eredità (marxista-leninista oltreché anarco-libertaria) della sinistra italiana, alla quale si rivolgeranno centinaia di militanti che dai comportamenti collettivi ribelli che coinvolgono decine di migliaia di giovani (dai cortei che scandiscono: "Attento poliziotto è arrivata la compagna P38") passano alla pratica delle armi. Ciò non può essere storicamente dimenticato per negare di tali fenomeni la reale e dichiarata natura. Ma altrettanto impossibile è negare che nella fase la risposta dello Stato appare complessivamente deludente, per giungere a risultati di grottesca inefficienza nei giorni drammatici del sequestro Moro, che saranno oggetto in seguito di un'analisi separata e che tuttavia si situano in tale panorama complessivo, in cui viene a collocarsi il sorgere di un nuovo soggetto della lotta armata che del movimento del '77 deve ritenersi il più tipico prodotto: Prima Linea.

Anche per tale formazione terroristica, come già per le BR e forse in maniera più intensa, risalta alla riflessione della Commissione una notevole permeabilità e quindi conoscibilità già nella fase fondativa, che suscita forti perplessità intorno ai limiti dei risultati conseguiti nell'azione di contrasto immediato da parte degli apparati istituzionali di sicurezza pubblica. Prima Linea nasce infatti da un vero e proprio congresso costitutivo a San Michele a Torre presso Firenze nell'aprile 1977 e preceduto da riunioni a Salò e Stresa dell'autunno '76, promosse dalle componenti più estreme di una formazione extraparlamentare notissima e che non aveva in sé nulla di clandestino: "Lotta continua". PL costituisce quindi una sostanziale evoluzione dei cosiddetti "servizi d'ordine" di LC, con abitudine alla violenza e presenza riconosciuta sul territorio; A Milano, Torino, Bergamo, Napoli, in Brianza, a Sesto San Giovanni. "Prima Linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l'aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse", come può leggersi nel volantino che rivendica la prima clamorosa azione del nuovo soggetto della lotta armata, l'irruzione nella sede dei dirigenti FIAT a Torino, il 30 novembre 1976. La trasparenza della fase costitutiva non sembra quindi essere discutibile, se è vero che a San Michele a Torri viene approvato uno statuto: al vertice vi è una "conferenza di organizzazione", di fronte alla quale il comando nazionale deve rispondere del proprio operato. Vengono costituiti un settore tecnico logistico e uno informativo, ma quella che pesa è la struttura armata, che va dalle "ronde proletarie", ai "gruppi di fuoco" (che possono anche decidere le azioni) alle "squadre di combattimento" (che si limitano ad eseguirli). Ancora una volta è la stessa memorialistica dei protagonisti a dar conto di un livello di clandestinità davvero esile. "I sergenti (dei servizi d'ordine), noti a tutti (come Chicco Galmozzi, arrestato nel marzo '76 dopo un'allegra serata con cibi e liquori espropriati), potevano entrare alla mensa della Marelli (a Sesto) e sedere ammirati, come i moschettieri del re, al tavolo delle impiegate". Ed ancora Pietro Villa (uno dei fondatori) ricorda: "A Salò abbiamo discusso praticamente in pubblico. A Firenze ci trovavamo in una cascina (S. Michele a Torri), ma alla sera io e i compagni milanesi tornavamo in città per dormire in albergo, figurati che clandestinità. 'Senza tregua' (rivista legale sotto il cui striscione i militanti sfilavano nei cortei) esibiva le armi e scandiva 'Basta parolai, armi agli operai', senza subire conseguenze". Appare in proposito esemplare la vicenda del gruppo che si articolare intorno alla redazione di tale rivista. Il gruppo di Torino, guidato da Marco Donat Cattin (figlio del ministro DC Carlo) con nome di battaglia di "comandante Alberto", compie un'irruzione nel centro studi Donati (della DC e proprio della corrente di Carlo Donat Cattin), nel corso della quale una componente del commando, Barbara Graglia, perde ingenuamente un paio di guanti facilmente a lei collegabili: recano infatti il numero di matricola 236 delle allieve del collegio del Sacro Cuore. Durante una perquisizione del suo alloggio vengono trovati manifestini dal titolo “Costruiamo i comitati comunisti per il potere operaio”, che esprimono la necessità della guerra civile, ciclostilati in via della Consolata 1 bis, la vecchia sede di Potere operaio, intestata ora al centro Lafargue dove viene redatto il periodico 'Senza tregua'. Con Barbara Graglia frequentano la sede Marco Scavino, che è stato dirigente di Potere ope raio - possiede lui le chiavi dell'appartamento -, Felice Maresca, un operaio della Fiat, Valeria Cora, Marco Fagiano, Carlo Favero e una ottantina di giovani provenienti da Potere operaio e da Lotta continua. Vuol dirsi cioè, come ormai più volte sottolineato in sede saggistica, che con riguardo a Prima Linea si accentuano i due caratteri già innanzi sottolineati con riferimento alle BR dopo la fase rifondativa del 1975 e cioè: da un lato l'ampiezza dell'insediamento sociale, dall'altro nella risposta dello Stato, forti elementi di colpevole sottovalutazione e comunque di notevole debolezza. E' un giudizio già più volte formulato con argomentazioni che alla Commissione paiono sostanzialmente condivisibili, stante la esemplarità di episodi e sequenze oggettive. Leader come Galmozzi, Borelli, Scavini sono arrestati nel maggio '77, appena costituita l'organizzazione con statuto, ma tornano in libertà. Baglioni viene liberato mentre è in corso il sequestro Moro; Rosso e Libardi subito dopo. Marco Donat Cattin svolge tranquillamente il suo lavoro di bibliotecario, presso l'Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. In una di queste, in vista del processo di Torino alle Br, Prima linea uccide il maresciallo Rosario Berardi, uomo di punta dell'antiterrorismo (10 marzo '78) e la rivendicazione telefonica viene addirittura dalla casa dell'on. Carlo Donat Cattin, con relativa registrazione degli inquirenti. Un altro leader di PL, Roberto Sandalo, dalle future clamorose confessioni (marzo 1980), ben noto come "Roby il pazzo", capo del servizio d'ordine di Lotta continua, può frequentare la qualificata scuola allievi ufficiali alpini, ad Aosta, che controlla i curricula; e, come ufficiale, trasporta armi per l'organizzazione.

Non può quindi sorprendere come già nel 1984 e cioè al concludersi della fosca stagione, in sede saggistica fu da più parti avanzata l'ipotesi che sarebbe stato possibile stroncare il terrorismo sul nascere o almeno sin dal 1972 e ridurlo a fenomeno sporadico; e che pertanto la violenza estremistica aveva potuto dispiegarsi impunita per un decennio e il terrorismo rosso svilupparsi pressoché indisturbato fino al delitto Moro, solo in quanto dall'interno degli apparati dello Stato alcune forze avevano preferito lasciare mano libera ad un fenomeno che screditava le forze della sinistra parlamentare e i sindacati, inficiandone la capacità di rappresentanza sociale; o addirittura aveva ritenuto di usare l'estremismo e poi il terrorismo rosso per determinare allarme sociale con esiti politici stabilizzanti. Misurandosi con tale giudizio, come indubbiamente è dovuto, la Commissione osserva che, alla stregua dei dati già esposti, va riconosciuto che una risposta dello Stato all'estremismo di sinistra vi è stata, ha avuto carattere di fermezza ed ha conseguito successo finale. Le forze politiche - anche di sinistra e segnatamente il PCI - furono fermissime nella condanna del terrorismo e nel riaffermare i valori dello Stato democratico nato dalla Resistenza e ostacolarono con successo la possibilità che movimenti eversivi realizzassero un più ampio insediamento sociale. Il Parlamento varò provvedimenti legislativi rigorosi atti a combattere il terrorismo. Ottima fu nel suo complesso la tenuta e la risposta della istituzione giudiziaria, che pagò un doloroso prezzo di sangue in tutte le sue componenti (Bachelet, Alessandrini, Croce). In particolare la magistratura inquirente seppe trovare forme efficaci di conduzione e coordinamento delle indagini, che avrebbero dato positivi risultati anche in anni successivi nel contrasto a forme diverse di criminalità. Una democrazia ancor giovane seppe, nel suo complesso, reggere ad una difficile prova. Tutto ciò è indubbio, ma altrettanto innegabile è che nel corso del tempo la risposta istituzionale degli apparati di sicurezza ha conosciuto l'alternarsi di momenti di fermezza con momenti di minore tensione e di stallo spinti in alcuni casi fino alla colpevole tolleranza; giudizio negativo che ovviamente coinvolge - e sia pure in maniera indiretta - l'azione degli Esecutivi succedutisi nel tempo. Per tali ultimi profili peraltro, oggettività impone di riconoscere che consimili atteggiamenti di colpevole minimizzazione, o di tolleranza, furono presenti anche nel corpo sociale almeno con riguardo alla violenza diffusa e si accompagnarono ad una ritardata presa di coscienza della reale natura di un terrorismo, cui a lungo ci si intestardì ad attribuire "colore politico" diversa da quello palese e palesemente dichiarato. Si pensi con riferimento all'opinione pubblica orientata a sinistra al peso della coscienza di una affinità di matrice culturale, ai riflessi, a volte inconsci, dell'antica diffidenza verso lo Stato e di miti rivoluzionari non ancora superati che indicevano spesso ad atteggiamenti di comprensione verso i gruppi estremisti, a volte anche al fine di tentarne il recupero politico. Si pensi ancora, in termini più generali e con particolare riferimento alla vicenda di Prima Linea, a quanto la collocazione in fasce medio-alte di molti dei suoi protagonisti abbia influito nel determinare in ampi settori del ceto dirigente un atteggiamento minimizzante che caratterizzò anche specifici episodi giudiziari. Esemplari in tal senso possono ritenersi:

- da un lato, nella sua drammaticità, la vicenda della famiglia Donat Cattin, che vedeva riuniti al suo interno un Ministro della Repubblica e uno dei capi delle formazioni militari che attentavano al cuore dello Stato; a riprova che per ampi strati della borghesia italiana i moti studenteschi, prima, e la contestazione armata, poi, furono anche un conflitto generazionale, dove "l'uccisione della figura paterna" come via di crescita e di accesso alla maturità, perdeva il suo connotato metaforico per acquisire i caratteri di una tragica realtà quotidiana;

- dall'altro la nota sentenza dell'11 marzo 1979 con cui la Corte di assise di Torino escluse che il Gruppo della Consolata, di cui si è già detto, costituisse una banda armata, e sminuendone la pericolosità, la qualificò come una mera associazione sovversiva per la rudimentalità della sua composizione, per la carenza di mezzi, per l'inefficienza operativa. Sicché giova avvertire fin da ora (in parte anticipando il giudizio conclusivo cui la Commissione ritiene di giungere e ribadendo la scelta di metodo che la Commissione ha operato), che non è soltanto l'altalenanza della risposta (degli apparati di sicurezza) dello Stato in sé considerata a fondare un giudizio valutativo più grave, quanto piuttosto il suo inserirsi in un ben più ampio quadro di riferimento, che oggi è possibile ricostruire pur sempre su base oggettiva come esito di una riflessione complessiva che abbracci l'intero periodo 1969-84 in tutti i suoi aspetti ed insieme valorizzi dati emergenti dalla analisi del periodo anteriore.

Con il sequestro dell'onorevole Moro, la strage degli uomini di scorta, la prigionia e quindi l'uccisione dell'ostaggio, le BR raggiungono il più elevato livello di aggressività e sembrano saper rendere concreto e veritiero il loro disegno di portare un attacco al cuore dello Stato. Pure il sanguinoso esito della vicenda apre all'interno delle BR ferite e contraddizioni ed al contempo svela la sterilità dell'operazione militare nella sua incapacità di raggiungere sbocchi politici ulteriori. In realtà il risultato sperato di un riconoscimento politico viene sfiorato ma non raggiunto, in questo - e solo in questo - dovendosi ritenere efficace la scelta politica di rifiutare l'apertura della trattativa. (Secondo quanto riferito alla Commissione dall'addetto stampa di Moro, dottor Guerzoni è possibile che vi sia stato un intervento della Presidenza del Consiglio sul Pontefice perché il suo elevato appello agli "uomini delle BR" non contenesse un riconoscimento politico seppure in forma larvata). L'apparato istituzionale registra per converso una secca sconfitta, apparendo disarmato e incapace di elaborare vuoi una strategia politica, vuoi una adeguata risposta repressiva. Né vi è dubbio che la totale negatività di risultati nel contrasto al più grave degli atti terroristici del partito armato sia da collegare, come effetto a causa, a decisioni istituzionali del periodo immediatamente anteriore che appaiono inspiegabili al limite della dissennatezza. E' un giudizio che sostanzialmente è stato già espresso in sede parlamentare e che alla Commissione è consentito rafforzare sia per la maggior distanza temporale che oggi separa da quei tragici eventi, sia soprattutto per la maggiore ampiezza di ambito investigativo in cui gli episodi specifici vengono a situarsi. Già nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani era infatti possibile leggere: "La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1º giugno 1974, sia stato, nel pieno "boom" del terrorismo (gennaio 1978), disciolto, e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. [...]. L'Ispettorato antiterrorismo aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni sui singoli presunti terroristi, in una visione unitaria del fenomeno, la sola capace di consentire un corretto apprezzamento e una lotta efficace. [...]. Gli stessi interrogativi la Commissione si è posta in ordine alle esperienze accumulate dal Nucleo antiterrorismo costituito nel maggio 1974 presso il Comando Carabinieri di Torino, che svolse un importante lavoro investigativo ai tempi del seque sto Sossi [...]". Sono perplessità che, come già accennato, possono oggi trasformarsi in una valutazione più marcatamente negativa, considerando come scelte opposte a quelle oggetto di critica determinarono con immediatezza positività di risultati. Ed infatti pochi mesi dopo l'epilogo della vicenda Moro e cioè il 9 agosto 1978 il Presidente del Consiglio Andreotti e i ministro dell'interno Rognoni e della difesa Ruffini, riuniti a Merano, conferiscono a Dalla Chiesa "compiti speciali operativi" nella lotta al terrorismo, sui quali doveva riferire "direttamente al Ministro dell'interno", con decorrenza dal 10 settembre 1978. Il generale Dalla Chiesa ricostruisce il Nucleo antiterrorismo e consegue in poche settimane un risultato di elevato livello, quando nell'autunno del 1978 le forze del Nucleo fanno irruzione nell'individuato covo milanese di via Monte Nevoso. Si tratta in realtà del quartiere generale delle BR dove vengono arrestati due dei cinque membri dell'esecutivo. L'importanza del risultato non viene colta appieno dagli organi di informazione che minimizzano l'episodio quasi che si trattasse dell'arresto di due militanti stampatori dei documenti relativi al sequestro Moro, mentre è sul contenuto di questi che si accentra l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando l'importanza operativa intrinseca del risultato. Ancora una volta quindi le BR denunciano una loro fragilità ed una loro incapacità a resistere veramente ad una azione repressiva condotta con la professionalità e l'efficienza propria degli apparati di sicurezza di uno Stato moderno. La contraddizione con la disarmante inefficienza che ha caratterizzato la risposta istituzionale durante la prigionia di Moro, è evidente. Parrebbe quasi che gli apparati istituzionali che non hanno saputo proteggere Moro né individuarne la prigione né liberarlo, dimostrino una improvvisa efficienza nell'individuare il luogo altrettanto segreto dove erano custodite "le carte di Moro" ed entrarne in possesso, attivando peraltro in ordine all'utilizzazione di tali documenti una vicenda oscura che si snoderà negli anni successivi e che appare oggi - almeno a livello di ipotesi giudiziarie - collegata all'omicidio dello stesso generale Dalla Chiesa. Potrebbe pensarsi che, imboccata una nuova via, ci si avvicini ad un successo finale. Ma ciò non avviene. Per circa tre anni il partito armato continua in una alternanza singolare di successi parziali e di sconfitte altrettanto parziali. Sul piano degli esiti politici alcuni omicidi appaiono addirittura controproducenti, come l'assassinio di Emilio Alessandrini, organizzato da Donat-Cattin all'inizio del 1979 e teorizzato con la singolare affermazione della necessità di colpire i magistrati riformisti perché più pericolosi dei magistrati reazionari; come l'assassinio dell'operaio Guido Rossa, che vanamente le BR tentarono di giustificare affermandone la natura preterintenzionale. Si tratta, come già per l'uccisione di Moro, di fatti che per il partito armato ebbero valenza negativa sotto il profilo propagandistico, perché posero in difficoltà il raggiungimento dell'obiettivo, pure dichiarato, di conseguire più ampi radicamenti sociali. Altri episodi costituiscono invece un indubbio successo come il sequestro del giudice D'Urso, nel corso del quale le BR riescono a piegare lo Stato alla trattativa giungendo ad ottenere che sia la stessa figlia del magistrato a leggere da una emittente radiofoni il testo di un loro comunicato accusatorio. Tuttavia, dopo poche settimane, l'inafferrabile capo delle BR, Mario Moretti, viene catturato all'esito di una banale azione di infiltrazione ad opera della pubblica sicurezza; ciò a conferma di una permanente fragilità dello stesso vertice operativo dell'organizzazione terroristica. Ma ancora una volta il colpo decisivo non viene sferrato e le BR seppur divise (si autonomizza a Milano la Brigata Walter Alasia, che aveva come punto di riferimento sociale l'Alfa Romeo; alcuni dei suoi componenti erano anche nel consiglio di fabbrica), seppur distinte (l'ala cosiddetta movimentista, che dovrebbe far capo a Senzani, che poi diventerà il partito della guerriglia, e l'ala cosiddetta militarista), e seppure prive del leader che le aveva guidate per dodici anni, il Moretti appunto, mettono a segno nel giro di pochi mesi quattro rapimenti: Sandrucci, dirigente dell'Alfa a Milano; Taliercio, dirigente del Petrolchimico; Roberto Peci, fratello di Patriz io, uno dei grandi pentiti, nell'estate del 1981; l'assessore democristiano Ciro Cirillo. In tale ultimo episodio non solo lo Stato è piegato alla trattativa ma questa ultima ha disvelato con il tempo un torbido retroscena del rapporto tra terrorismo, servizi di sicurezza e malavita organizzata. Di fatto in cambio di denaro e di reciproci favori fra la malavita e il terrorismo, Cirillo sarà rilasciato in luglio.

Ma ormai un nuovo decennio è iniziato; e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. La ristrutturazione industriale della fine del decennio ha profondamente mutato il mondo delle fabbriche e la stessa condizione del lavoro dipendente venendo così meno, o almeno fortemente attenuandosi, la possibilità di un radicarsi in quel mondo dell'azione politica dei gruppi estremisti e di elementi della protesta giovanile e della contestazione studentesca. Il mutamento sociale e le difficoltà esterne che ne derivavano per la realizzazione di un progetto già originariamente velleitario sono percepiti all'interno del partito armato già sul finire degli anni Settanta. Poco dopo l'attentato ad Alessandrini l'ala militarista di Prima Linea e lo stesso Donat-Cattin riconoscono che non esistono più le condizioni per la lotta armata in Italia ed emigrano in Francia. Il resto dell'organizzazione si scioglie in un convegno avvenuto a Barzio nella Pasqua del 1981 ed evolve in un "polo organizzato", una rete di protezione di militanti ricercati che daranno poi vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). La lotta armata è dunque in una fase di declino e le operazioni delle BR, che pur proseguono, non possono essere più presentate come un attacco al cuore dello Stato. Conscia di questa difficoltà derivante dalla profonda mutazione economico-sociale che il Paese ha conosciuto, la stessa area movimentista delle BR, diretta da Senzani, tenta una nuova via di radicamento sociale in direzione del sottoproletariato meridionale urbano e sconta fatalmente, nella nuova realtà, un più intenso inquinamento da parte della criminalità organizzata.

La parabola del partito armato si chiude sostanzialmente quando, il 17 dicembre 1981, alcuni brigatisti travestiti da idraulici rapiscono il generale James Lee Dozier, responsabile logistico del settore sud-est della Nato. Da Verona lo portano senza difficoltà a Padova. E' un'operazione eclatante, perché nessun movimento guerrigliero era riuscito a sequestrare un generale americano. L'azione è quindi clamorosa, quanto confuso.

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

La Strategia dell'Inganno - 1992-93. Le bombe. I tentati golpe. La guerra psicologica in Italia. Libro di Stefania Limiti. Un racconto appassionante e documentato sui tre aspetti chiave che hanno contraddistinto la stagione delle bombe e delle stragi in Italia:

Un inquietante pericolo golpista: il golpe Nardi, una vicenda solo in apparenza boccaccesca – ne parlò la moglie e amante di due stimati ufficiali, ma non si trattò solo di un gioco a sfondo erotico; l’assalto alla Rai di un gruppo di mercenari su ordine della Cia, alcuni dei quali per la prima volta hanno dato all’autrice testimonianze inedite sui fatti.

Gli scandali del Sismi e del Sisde che resero le strutture dei servizi segreti in Italia più instabili di quanto lo fossero ai tempi della P2: uomini che entravano in stanze riservate senza nessuna documentazione, personaggi che si muovevano nell’ombra come Gianmario Ferramonti.

Lo stragismo, ovvero la manipolazione di gruppi criminali mafiosi come metodo utile alla destabilizzazione del potere.

Documentazione e testimonianze inedite su fatti meno conosciuti degli anni delle bombe in Italia: l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, il Golpe Nardi e altre vicende dimenticate che lasciarono con il fiato sospeso l’Italia. Una nuova lettura delle stragi in Italia (via Fauro a Roma, Palestro a Milano, Georgofili a Firenze) che nella ricorrenza dei 25 anni solleverà curiosità e interesse. Una nuova e originale lettura del potere in Italia, orchestrato attraverso una costante opera di destabilizzazione, una successione di inganni, una vera guerra psicologica. 

L'AUTRICE – Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate, in particolare con il settimanale «Gente», su temi di attualità e di politica internazionale. Inoltre ha lavorato per «l'Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra» e «Aprile». Si è dedicata negli ultimi due anni alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti: il risultato di questo lavoro giornalistico viene presentato nelle pagine seguenti. Segue con molta attenzione la questione palestinese e ha scritto "I fantasmi di Sharon" (Sinnos, 2002), nel quale ricostruisce la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e «Mi hanno rapito a Roma» (Edizioni L'Unità, 2006) sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l'Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un'inchiesta sul dossier di Bob Kennedy sull'assassinio del presidente degli Stati Uniti dal titolo "Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK" (Nutrimenti, 2012). Con Chiarelettere ha pubblicato "L'Anello della Repubblica" (2009), più volte ristampato.

«La strategia dell'inganno», storia della guerra non convenzionale in Italia, scrive Ciro Manzolillo Martedì 16 Maggio 2017 su “Il Mattino”. Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l'Italia tra il 1992 e il 1993 e che trovò soluzione nella nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, è segnata da eventi tragici dai risvolti ancora non chiari e chiariti.

Il cosiddetto golpe Nardi, l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, le stragi di Milano, Firenze, Roma quelle mafiose di Palermo, il blackout a Palazzo Chigi e, in mezzo, Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza degli avvenimenti di questo biennio viene ricostruita su documenti e con dovizia di dettagli nel volume appena uscito per Chiarelettere «La strategia dell'inganno» della giornalista Stefania Limiti. Secondo l’autrice: «Tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l'intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura e disgregando le nostre strutture di intelligence».

Stefania Limiti dalle sue pagine cerca di dimostrare come centinaia di testimonianze, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea. Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe ideologico a tutti gli effetti.

DAL TESTO – "Le stragi sul continente, quindi, sono concepite e realizzate per diffondere una campagna di terrore. Cosa nostra deve aver ritenuto che la capitolazione dello Stato sarebbe stata più facile colpendo indistintamente la popolazione e le opere d'arte. Gli attentati sono programmati fuori dalla Sicilia e non prendono di mira uomini rappresentativi dello Stato: l'Italia era fin troppo abituata a quello schema, s'indignava, è vero, ma non ne era più spaventata. Il nuovo piano punta a seminare il panico, gli obiettivi sono anonimi e hanno un messaggio eloquente per chi possiede la giusta chiave di lettura."

La strategia dell’inganno – Stefania Limiti. Scrive il 6 luglio 2017 Giuseppe Licandro su Excursus.org". Tra il marzo 1992 e l’aprile 1994, l’Italia fu sconvolta da una lunga serie di attentati di matrice mafiosa che, terrorizzando la gente, accentuò la crisi dei partiti della Prima Repubblica iniziata con Tangentopoli. La stagione terroristica cominciò con l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92) e continuò col tentato omicidio di Maurizio Costanzo (14 maggio ’92) e gli attentati che uccisero Giovanni Falcone (23 maggio ’92) e Paolo Borsellino (19 luglio ’92). Seguirono poi la strage di Firenze (27 maggio ’93), l’esplosione di varie bombe a Milano e a Roma (27-28 luglio ’93), l’omicidio di Don Pino Puglisi a Palermo (15 settembre ’93) e due falliti attentati, uno allo stadio Olimpico di Roma (31 ottobre ’93), l’altro a Formello contro Salvatore Contorno, mafioso pentito (14 aprile ’94). Gli attacchi cessarono a metà del 1994, poiché ­ Cosa Nostra trovò nuovi referenti politici, ma fu anche indebolita dall’arresto dei boss più violenti (Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore Riina). Nello stesso periodo si svolse la controversa trattativa tra Stato e mafia, con i Corleonesi che pretesero la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo e del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale (che ha introdotto il carcere duro per i capimafia), ma alla fine ottennero solo concessioni minori (nel novembre 1993 il governo Ciampi revocò il 41-bis a 143 mafiosi). Dietro le quinte operarono probabilmente “menti raffinatissime” che, sfruttando scandali e stragi, affrettarono il passaggio alla Seconda Repubblica, come sostiene la giornalista Stefania Limiti nell’interessante saggio La strategia dell’inganno. 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia (Chiarelettere, pp. 256, € 16,90).

Nella prima parte del libro l’autrice parla della deception, la tecnica usata per ingannare l’opinione pubblica e influenzare le classi dirigenti, raccontando due strane storie avvenute proprio nel tragico 1993: il colpo di stato organizzato dal pilota aeronautico calabrese Giovanni Marra; le trame eversive denunciate da Donatella Di Rosa. Su input forse di “amici americani”, Marra cercò di allestire un piccolo esercito per occupare la sede romana Rai di Saxa Rubra, ma il golpe abortì sul nascere, poiché il Servizio di Informazione per la Sicurezza Democratica (Sisde) sventò il complotto e ne arrestò l’ideatore, che patteggiò una pena minima, dichiarando di aver orchestrato un bluff come «strategia di conquista amorosa» della fidanzata, mentre gli altri complici furono scagionati. La Limiti, però, ritiene che il finto golpe di Saxa Rubra servisse «a far credere all’imminenza di colpo di Stato e alla sua concreta possibilità di realizzarsi», per screditare le istituzioni. L’altra grottesca vicenda riguardò un ipotetico golpe «programmato per la fine del 1993 e gli inizi del 1994», nel quale sarebbero stati coinvolti – tra gli altri − i generali Goffredo Canino, Luigi Cantone e Franco Monticone, il tenente colonnello Aldo Michittu, il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, il neofascista Gianni Nardi: quest’ultimo, tuttavia, risultava morto in un incidente stradale avvenuto in Spagna nel 1976. A denunciare la trama eversiva, nell’ottobre 1992, fu Donatella Di Rosa – moglie di Michittu, che confermò le accuse – la quale, secondo l’autrice, era «un agente destabilizzatore […] invischiata negli ambienti eversivi». La donna confessò (ma poi smentì) di essere stata l’amante di Monticone e parlò di un grosso giro di denaro servito per comprare armi e addestrare i mercenari. Nell’ottobre 1993, la Procura di Firenze fece riesumare il corpo di Nardi, sepolto nel cimitero di Palma di Majorca, ma la perizia stabilì che si trattava proprio del cadavere del neofascista. La bizzarra vicenda si sgonfiò e i due coniugi furono arrestati e condannati con l’accusa di calunnia e autocalunnia con finalità eversive. L’autrice è convinta che «le denunce dei Michittu erano fatte ad arte», perché le rivelazioni contenevano insieme «fatti veri, informazioni poco credibili e notizie totalmente false». Lo scandalo servì forse per impaurire e distrarre l’opinione pubblica, mentre «altri ambienti erano molto impegnati a ricostituire un tessuto politico adatto all’Italia nel nuovo ordine mondiale».

La seconda parte de La strategia dell’inganno è dedicata alle pratiche poco ortodosse messe in atto dai cosiddetti “servizi segreti deviati” per depistare le indagini, spiare, intimidire o sopprimere personaggi scomodi. Viene, innanzi tutto, tracciata una breve cronistoria dell’intelligence nostrana a partire dal 1949, quando fu costituito il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar). Nello stesso periodo fu creato anche l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, che in seguito divenne Servizio di Sicurezza. Dopo il colpo di stato minacciato nel 1964 dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (il “Piano Solo” che coinvolse anche il presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto a dimettersi), il Sifar fu sciolto e nel 1966 nacque il Servizio Informazioni Difesa (Sid), operativo fino al 1977, che fu implicato nella “strategia della tensione”. Proprio nel 1977 ci fu la prima riforma dei servizi segreti italiani, con la costituzione del Servizio Informazioni e Sicurezza Militare (Sismi) e del già citato Sisde. Le due agenzie investigative furono subito infiltrate dalla loggia massonica Propaganda 2, diretta da Licio Gelli: s’iscrissero, infatti, alla P2 sia il primo direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sia quello del Sisde Giulio Grassini. Forse non fu casuale il fatto che, nel marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e lo tennero in ostaggio per 55 giorni prima di ucciderlo, senza che l’intelligence nostrana riuscisse a liberarlo, nonostante fosse stata probabilmente individuata la prigione di via Montalcini a Roma. Agli inizi degli anni Novanta, sebbene fosse stato costituito il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis) per vigilare su Sismi e Sisde, l’intelligence italiana si trovò impreparata di fronte alle stragi mafiose. Si prospettò, dunque, una nuova riforma dei servizi, che però fu completata solo nel 2007, con la creazione dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (Aise). Nel 1990, Giulio Andreotti − presidente del Consiglio − iniziò la ristrutturazione dei servizi di sicurezza, cercando di «buttare giù i vecchi apparati», che furono poi coinvolti anche nello scandalo dei fondi neri, grazie ai quali vari funzionari del Sisde erano riusciti a «procurarsi cospicui e improvvisi arricchimenti». La parte più retriva dell’intelligence reagì e fece trapelare notizie riservate in merito all’esistenza di un grande quantità di denaro, accumulata «attraverso accantonamenti di somme erogate al servizio». Antonio Galati, funzionario del Sisde, dichiarò che «dal 1982 al 1992 ogni ministro dell’Interno (con l’eccezione di Amintore Fanfani) aveva ricevuto 100 milioni al mese, soldi presi tra quelli accantonati dal servizio». Nell’inchiesta giudiziaria furono coinvolti noti esponenti della Democrazia Cristiana come Antonio Gava, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Scotti. Il 3 novembre 1993, Scalfaro − presidente della Repubblica − tenne un discorso televisivo nel quale denunciò un complotto contro le istituzioni democratiche. In seguito, la Procura di Roma archiviò le accuse «ipotizzando la liceità delle donazioni di denaro». Nei servizi di sicurezza erano allora attivi molti “agenti di influenza”, esperti in “operazioni coperte” che erano finalizzate «ad “aggredire” il paese d’interesse, carpendone i segreti […] o influenzandone il processo decisionale». In questa tipologia di persone la Limiti fa rientrare, oltre a Gelli, due nomi di minore importanza: Aldo Anghessa e Gianmario Ferramonti. Il primo, funzionario del Cesis, divenne celebre per il mancato arresto e la successiva fuga dall’Italia del terrorista Schauddin nel 1992. Il secondo, imprenditore informatico, nel 1991 affiancò Umberto Bossi alla guida della Lega Nord (di cui fu anche tesoriere), pilotando la conversione a destra del movimento leghista che determinò nel 1994 la nascita del Polo delle Libertà.

La terza parte del saggio è dedicata alla “strategia della tensione” che ancora una volta sconvolse l’Italia tra il 1992 e il 1994 e che, secondo l’autrice, rientrava nelle tecniche di “guerra non convenzionale” largamente usate durante la Guerra Fredda «per contrastare l’avanzata delle forze comuniste e progressiste». Stefania Limiti denuncia, in particolare, le cosiddette covert actions, cioè le operazioni coperte della Cia, consentite dal National Security Act, un documento del 1947 che riconosce agli Usa il diritto «di influenzare politicamente, economicamente e militarmente Stati esteri». Un esempio di “operazione coperta” si ebbe negli anni Sessanta in Laos, dove fu combattuta una guerra segreta contro i comunisti locali, attraverso l’«uso dei mercenari, omicidi mirati e, soprattutto, addestramento di eserciti locali». Le covert actions sono continuate anche dopo la caduta del Muro di Berlino, come dimostra l’omicidio, avvenuto a Bad Homburg nel novembre 1990, del banchiere tedesco Alfred Herrhausen, che intendeva costruire un’Europa unita senza interferenze da parte della Banca Mondiale. L’attentato fu rivendicato dalla Rote Armee Fraktion (Raf), ma in seguito le dichiarazioni di un terrorista pentito – Siegfrid Nonne – e di un ex agente della Cia – Fletcher Prouty – misero in dubbio l’autenticità della rivendicazione, lasciando trasparire l’ennesima covert action.

Nel 1987, cambiandole proprie simpatie politiche, Cosa Nostra decise «di abbandonare la Dc e dirottare i consensi verso il Psi». I Corleonesi divennero sempre più aggressivi, attaccando apertamente le istituzioni, soprattutto dopo la costituzione della Direzione Investigativa e della Procura Nazionale Antimafia. Dietro gli attentati dei primi anni Novanta, tuttavia, non ci furono solo gli uomini di Riina: nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, infatti, emersero «anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di Cosa Nostra». Proprio questi attentati determinarono l’approvazione da parte del Parlamento del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale, che andava contro gli interessi dei mafiosi. Secondo le dichiarazioni fornite da vari pentiti e collaboratori (Filippo Barreca, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi, Pietro Carra, Francesco Di Carlo, Antonino Giuffrè, Luigi Ilardo, Nino Lo Giudice, Gaspare Spatuzza), nelle stragi mafiose ci sarebbero state numerose interferenze da parte dei servizi segreti deviati. Alcuni testimoni hanno parlato della partecipazione a vari delitti di mafia di Giovanni Aiello, un ex poliziotto (noto anche come “Faccia di mostro” a causa di una grossa cicatrice che gli deturpava il volto), indicato da Lo Giudice come colui che avrebbe «fatto saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta». Un ruolo importante lo avrebbe svolto anche Paolo Bellini, «un estremista di destra che ha passato la vita a fare l’agente provocatore», il cui apporto fu determinante nell’attentato contro la Galleria degli Uffizi a Firenze. Alla strategia terroristica fornì il proprio contributo anche la ‘ndrangheta, coinvolta «nel progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese». Non mancarono, del resto, i misteri e le stranezze: alcune della azioni criminali furono rivendicate da una fantomatica organizzazione, la Falange Armata; nel luogo dal quale i killer avevano fatto saltare in aria la macchina di Falcone, fu ritrovato il biglietto da visita dell’agente del Sisde Lorenzo Narracci; l’autobomba esplosa contro l’automobile di Costanzo in via Fauro fu parcheggiata davanti a una sede del Sisde; vari testimoni indicarono la presenza di una enigmatica donna negli attentati di via Fauro, Firenze e Milano. Riguardo alla mancata esplosione dell’autobomba allo stadio Olimpico di Roma, il procuratore antimafia Pietro Grasso ritenne plausibile «l’ipotesi che la strage dell’Olimpico fosse stata fatta fallire di proposito da qualcuno all’interno di Cosa Nostra», perché stavano emergendo nuove forze politiche (come Forza Italia) che avevano stabilito «un rapporto privilegiato con l’ala moderata di Cosa Nostra». 

La Procura di Firenze, in verità, indagò sui possibili mandanti politici delle stragi, in particolare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, considerati come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra, ma l’inchiesta si chiuse nel 1998 con l’archiviazione perché non c’erano elementi sufficienti per suffragare le ipotesi investigative. Stefania Limiti, concludendo la sua attenta disamina del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ritiene che a trarre vantaggio dal terrorismo mafioso furono proprio le forze più conservatrici: «Le stragi intimidiscono le istituzioni, disorientano le forze politiche, generano uno spazio pubblico di caos. E creano gli uomini d’ordine ai quali la massa si affida, invocando la ghigliottina».

La strage di Milano, Firenze, Roma, 27 luglio 1993: tre bombe, dieci morti e il dubbio che non sia stata solo mafia. Un anno dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino e due mesi dopo la strage di via dei Georgofili, quello del 27 luglio è il momento più buio della Repubblica. E dalle nuove carte emergono molti nuovi dettagli, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Una ragazza bionda e un uomo scendono da una Fiat Uno parcheggiata vicino al Padiglione d’arte contemporanea a Milano. È il 27 luglio del 1993. Manca meno di un’ora a mezzanotte. Dall’automobile da cui si stanno allontanando a piedi esce del fumo. I due non hanno paura per quello che si lasciano alle spalle, ma di una pattuglia di vigili urbani che va loro incontro in via Palestro. Temono di essere scoperti. E così giocano d’anticipo: richiamano l’attenzione di uno dei due vigili, Alessandro Ferrari, a cui danno l’allarme per il pennacchio di fumo. Poi la bionda e il suo compagno si allontanano in fretta, facendo cadere in trappola l’agente della polizia municipale e mandandolo così a morire. Il fumo arriva infatti da una miccia accesa che innesca quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno. Che esplode, provocando una strage. Sono cinque i morti. È il primo botto della serata. Sì, perché in quella sera di venticinque anni fa, pochi minuti dopo una notte in cui esplodono altre due bombe, quasi in contemporanea, non solo a Milano ma anche a Roma, in punti diversi: a piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Si pensò anche a un tentativo di golpe. Fu questa almeno la sensazione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, a capo di un governo tecnico di transizione. Ciampi temeva che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. Per Ciampi si poteva concretizzare il pericolo di un colpo di Stato che nasceva dall’eccezionalità di quegli avvenimenti, compresa l’interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993: un evento che mai prima di allora si era verificato, tanto che l’allora presidente del Consiglio non riuscì a comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un black-out che ancora oggi nessuno ha spiegato. Fu una notte convulsa. Ciampi, parlando poi con i magistrati che hanno indagato sulle stragi, spiegò di «ricordare perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio Supremo di Difesa. Di questa convocazione venne informato anche il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr). Ricordo che, in un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l’ipotesi dell’attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della Polizia Vincenzo Parisi, escludevano la fondatezza di quella pista avanzando l’ipotesi della matrice mafiosa». Sì, era stata la mafia. I boss di Cosa nostra dell’area corleonese continuavano ad alzare il tiro contro lo Stato, piazzando bombe davanti ai simboli dell’arte, del patrimonio culturale e della Chiesa, nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese. E uccidendo chi si trovava nei paraggi. Le testimonianze raccolte all’epoca dagli investigatori e le indagini avviate anche con il contributo di collaboratori di giustizia, alcuni dei quali si sono autoaccusati di quelle stragi, portano però a considerare l’ipotesi che non sia stata solo la mafia. Che in quegli attacchi di Cosa nostra vi fossero anche elementi esterni all’organizzazione. Uno dei misteri riguarda proprio la donna bionda uscita dall’auto piena di esplosivo in via Palestro, il 27 luglio. Anche i testimoni di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio dello stesso anno) parlano della presenza di una donna bionda; e lo stesso è riferito dai testimoni dell’attentato di via Fauro a Roma, quello contro Maurizio Costanzo (14 maggio). Questa signora bionda all’epoca ha meno di trent’anni e di lei esiste un identikit. Tra i numerosi testimoni di via Palestro ce n’è uno che ricorda molto bene la donna, vestita di scuro, accanto alla pattuglia di vigili. L’ha vista parlare con loro. I collaboratori di giustizia invece non hanno mai confermato il coinvolgimento di donne in queste stragi. L’attacco allo Stato aveva una doppia finalità. La prima era orientare la politica in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, coltivata come una forma di ricatto nei confronti dei partiti a Roma, che avevano tradito le aspettative della Cupola, prima la Dc e poi il Psi. Il quasi analfabeta Leoluca Bagarella si era dato da fare per formare un nuovo partito politico, “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto far eleggere candidati appartenenti a Cosa nostra. Il secondo obiettivo era una dimostrazione di forza attraverso azioni eclatanti che avrebbero avuto risalto internazionale. In un Paese già scosso, sul piano politico e istituzionale, dalle indagini su Tangentopoli, quelle bombe erano un tentativo di destabilizzare ulteriormente le strutture democratiche. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, a conferma del messaggio terroristico che si doveva diffondere con le bombe, ha detto ai pm di essere stato incaricato di imbucare a Roma, subito prima degli attentati del 27 luglio, alcune buste indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero contenenti una lettera anonima, in cui era scritto: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno a centinaia». Restano quindi, anche 25 anni dopo, molte domande. Ci fu un contributo di soggetti esterni a Cosa nostra, ci furono mandanti esterni alla mafia? I clan, attraverso quel programma di azioni criminali dirette a sconvolgere dalle fondamenta l’ordine pubblico, hanno voluto in qualche modo intervenire in un vuoto della politica nazionale per agevolare l’ascesa o la permanenza al potere di soggetti con cui poter interagire in modo proficuo, ristabilendo un rapporto a difesa e protezione degli interessi mafiosi? E quel rapporto era riconducibile a uno scambio che avrebbe dovuto prevedere da una parte un appoggio elettorale e dall’altra qualche intervento abrogativo delle norme contro la criminalità organizzata, come il 41bis per i boss in carcere? Sì, guardando a venticinque anni fa restano ancora tanti gli interrogativi. E tra questi c’è il mistero della mancata strage dello stadio Olimpico a Roma nel gennaio 1994, quando i fratelli Graviano volevano massacrare centinaia di carabinieri impegnati nel servizio d’ordine di una partita di calcio. Il telecomando non funzionò e l’attentato per fortuna fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista, che, per le modalità e gli obiettivi avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. La decisione di non mettere più bombe dopo quel fallimento era forse una conseguenza dell’evoluzione della politica nazionale? Oppure è legato all’arresto dei fratelli Graviano avvenuto a Milano poche settimane dopo il fallito attentato? Che rapporto c’era tra l’originaria pianificazione di questa strage e il progetto politico, in qualche modo concretamente attuato alla fine del 1993, di dar vita al partito di Cosa nostra, “Sicilia Libera”, con caratteristiche autonomiste e indipendentiste? E perché poi si abbandonò questo progetto per concentrare i voti su vecchie conoscenze, magari transitate verso nuove formazioni politiche come Forza Italia? Il giudice per le indagini preliminari di Firenze che aveva archiviato l’indagine sui mandanti esterni alle stragi in cui erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (riaperta nei mesi scorsi dalla procura) ha scritto: «Le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni». Chi diede questi input? E perché? Le sentenze, fondate sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno suggerito una parola chiave: “trattativa”. Questa “trattativa” emerge per la prima volta in una sentenza della corte d’assise di Firenze che ha condannato nel giugno del 1998 i boss, mettendo un punto fermo sull’interpretazione da dare a quella tragica stagione di bombe. I 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese ha dovuto pagare ad una strategia messa in atto dagli “specialisti” di Cosa nostra, ma forse pianificata in ambienti collocati al di sopra del sottoscala dove si riuniva la “cupola” composta da Provenzano, Riina, Bagarella e soci. Certo è che dopo il 1994 la campagna terrorista di Cosa nostra finisce. Una campagna che la mafia aveva portato avanti nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese, come ha detto il pubblico ministero Gabriele Chelazzi nel processo ai responsabili di quegli attentati del ’93. Resta ancora il dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le inchieste e i processi hanno chiarito solo in parte i fatti. Un quarto di secolo non è ancora bastato per riempire le caselle ancora vuote e ricostruire la verità che non può essere solo giudiziaria ma anche politica.

Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del '93. 25 anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano, iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita della sigla oscura che la rivendicava, scrive Federico Marconi il 25 maggio 2018 su "L'Espresso". Sono passati 25 anni da quando duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo. «Qui a Firenze vedo gli stessi segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale» affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari: «Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza». Oggi sappiamo chi sono i responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20 aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco. Sono ancora molti i misteri che avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni, avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della storia italiana.

25 ANNI DI RIVENDICAZIONI. La prima rivendicazione della Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero: intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia. Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015. Dopo la prima telefonata ne seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure i servizi segreti». All’inizio del 1991 viene rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni ’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di militari che riescono fortunatamente a salvarsi. Aumentano nel tempo le minacce: al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate «utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con premier Silvio Berlusconi. Le telefonate continuano anche nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo, ci pensiamo noi».

LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO. Ma chi erano i falangisti? Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993, Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione. Calò poi il silenzio sulla Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993. L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di Gladio. Fulci stesso finì nel mirino della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis, ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili». Subito dopo la strage di via Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni ’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata? «Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.

COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI SEGRETI. La scorsa estate si sono di nuovo accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano. La vicenda era stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano, legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso con le elezioni del 28 marzo 1994. I tre attentati, che costeranno la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo – o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori, in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in delicati apparati dei gangli statali». Cosa Nostra decise di utilizzare la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi. «L’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata» scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese. Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava gli attentati di tutti.

Lo Stato “contro natura”. L’indagine della Dda di Reggio Calabria (ri)svela il matrimonio tra apparati statali marci e mafie, scrive il 31 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". La natura del genere umano è progredire, sperimentare e inventare ciò che può migliorare la vita stessa, aiutato in ciò, oltre che dall’intelligenza, il dialogo ed il confronto, anche dalla scienza e, per chi crede, dalla fede. E’ così da sempre in tutti i campi e in ogni settore della vita. A volte lo Stato si comporta contro natura. A volte la magistratura si comporta contro natura. E, contro natura, si comporta anche la libera informazione il cui compito dovrebbe (lo è sempre meno) condire la crescita della società, inseguendone i difetti ed esaltandone i pregi. Inutile girarci attorno: mi riferisco – da ultimo ma solo da ultimo – all’indagine della Procura di Reggio Calabria che ha ripreso, ampliandola e dandole rinnovata forza la precedente indagine Mammasantissima (ma sarebbe più corretto dire tutto ciò che è confluito nel procedimento Gotha) e Sistemi criminali del 1998 in quel di Palermo avviata da Roberto Scarpinato e proseguita da Antonio Ingroia che il 21 marzo 2001 dovette chiederne l’archiviazione giocoforza. Ebbene, cosa ci dicono in estrema sintesi queste indagini: che le mafie non sono più (per quel che mi riguarda non sono mai state) coppola e lupara ma evoluti sistemi criminali che trovano ed offrono una sponda alle parti spurie e marcie dello Stato. Un matrimonio di interessi – non certo di amore – che può essere sublimato e far raggiungere un intenso orgasmo ai copulatori, quando le mafie diventano un sol corpo ed una sola anima con lo Stato deviato. Ora, senza allontanarci tanto da questo esempio terra-terra, le indagini a cui ho fatto riferimento ci raccontano in maniera plastica che lo Stato va contro natura quando, anziché progredire, migliorare, evolvere, ha delle componenti marce che lo ancorano allo status quo.

Volete un esempio? Ve lo faccio subito. A pagina 19 dell’ordinanza firmata dal Gip Adriana Trapani, che ha accolto e valorizzato la tesi della Dda reggina – capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio, che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato – si legge una cosa molto ma molto interessante. «Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile – si legge testualmente nel provvedimento – così per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato, per alcuni esponenti degli apparati di sicurezza e i loro sodali, ma sarebbe meglio parlare dei manovratori di costoro (vedremo come si giungerà ad individuare in non identificati appartenenti della 7 Divisione del Sismi e nel residuo, ma pervicace, piduismo gelliano il nucleo di tali forze), il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere. Insomma, le mafie e le descritte schegge infedeli di apparati statali, sembravano accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema. Insomma, entrambe, cercavano il mantenimento dello status quo. Inteso, però, non attraverso la conservazione, al posto di comando, degli stessi uomini e delle stesse formazioni politiche (che, anzi si intendeva liquidare perché non più utili e spendibili), ma al contrario, attraverso l’ennesima applicazione dell’eterno adagio gattopardesco, “per cui si deve cambiare tutto affinché nulla cambi”. Si dovevano rinnovare del tutto le rappresentanze politiche, affinché, quelle oramai logore della prima Repubblica, fossero sostituite da nuovi partiti e nuovi uomini che continuassero a garantire l’egemonia mafiosa nelle regioni meridionali. E mentre le stragi e la strategia della tensione sarebbero stati un perfetto acceleratore di questo finto ricambio, le mafie, non senza il contributo di altre e diverse forze occulte (come si vedrà in dettaglio, sia paramassoniche piduiste che della destra eversiva) preparavano, attraverso il leghismo meridionale (che si saldava a quello settentrionale) la finta-nuova classe politica etero diretta, che aveva la precipua mission di garantire ‘ndrangheta, Cosa Nostra e le altre mafie». Che le mafie abbiamo come solo e unico obiettivo “sociale” quello di cristallizzare e conservare lo status quo è ovvio quanto lo è la genialità del calcio dipinto per 25 anni da Francesco Totti. Le mafie vivono e prosperano in un perimetro di regole che non cambiano o, se cambiano, è solo per agevolarne il cammino di corruzione e sopraffazione. Che una parte dello Stato, invece, ancori le proprie radici a quelle delle mafie per mantenere quello status quo che legittima gli uni e gli altri in un nodo mortale per la democrazia, lo trovo contro natura. Chi la pensa diversamente alzi la mano ma sappia che domani (e per tutta la settimana) aggiungerò nuovi elementi e riflessioni.

Stato “contro natura”. La Dda di Reggio Calabria svela la piaga purulenta all’interno dei servizi segreti: la Falange Armata, scrive l'1 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Ieri ci siamo fermati al matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Nulla di più logico per le mafie. Nulla di più aberrante e contro natura per lo Stato. Ci siamo (sof)fermati sulla 7ma Divisione del Sismi che, secondo le indagini reggine, era avvinto come l’edera ai residui del piduismo “gelliano”. Ma cos’era ‘sta 7ma Divisione del Sismi? Si trattava della Divisione dell’ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio, il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Breve inciso: Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind (“stare dietro”, “stare in retroscena”) promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia per contrastare un’ipotetica invasione dell’Europa da parte della ex Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Venne svelata bel ’90 ufficialmente da Giulio Andreotti che parlò di una struttura di informazione, risposta e salvaguardia. La Falange Armata, invece, ve la descrivo con le conclusioni alle quali giunge il Gip Trapani: «… la Procura condensa le proprie conclusioni in merito alla ideazione e all’utilizzo della sigla Falange Armata, inizialmente adottata da Cosa Nostra per nascondere la sua presenza dietro le azioni stragiste. Le ragioni dell’utilizzo di tale sigla miravano ad impedire che gli attentati fossero immediatamente ricondotti alle mafie. Se così fosse stato, le condizioni per ricattare lo Stato non ci sarebbero più state, in quanto si sarebbe trattato di un ricatto palesemente firmato. Attraverso un mirato approfondimento e richiamando i dati sopra esposti, la Procura conclude collegando tale sigla ai servizi deviati, in quanto ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose. Significativa, in tal senso, è la vicenda sopra esaminata di Paolo Fulci. Filoni d’indagine — autonomi e distinti — su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono, pertanto, di giungere a tale conclusione».  Quindi qui abbiamo già uno Stato “contro natura” sviscerato da alcuni magistrati e avallato da un giudice terzo ma torniamo alla 7ma Divisione del Sismi, dalla quale eravamo partiti. Per farlo torniamo a quel nome appena accennato sopra, quello di Paolo Fulci, ex ambasciatore che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d’informazione “operativi” dell’epoca (il Sisde ed il Sismi) – fra il maggio 1991 e aprile 1993 e poi, della Dna. La Procura di Reggio Calabria ha dapprima acquisito la lunga deposizione, che aveva ad oggetto proprio la Falange Armata, resa da Fulci alla Dda di Palermo il 4 aprile 2014 e poi ha acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti all’aurorità giudiziaria dai servizi d’informazione e dal Cesis sul medesimo oggetto. La deposizione di Fulci alla Dda di Palermo fu particolarmente lunga. Fulci, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell’Arma dei carabinieri dell’epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Giulio Andreotti con l’avallo dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) – dopo che nell’aprile 1993 lasciò l’incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltreoceano. Vennero poi sentiti, il suo capo-gabinetto – generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, emerse che Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al comandante generale dei Carabinieri di dare impulso ad attività d’indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo Ossi, una sorta di gruppo di elite della Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange armata (che pure aveva minacciato Fulci), una sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di “intossicazione”, disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il generale Russo, in particolare — che non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci, si legge testualmente nel provvedimento firmato dal Gip Trapani — in via generale, nel corso della escussione del 3 luglio 1993 alla Digos di Roma, ribadì che Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Nel corso delle successive indagini, venivano approfonditi ulteriori aspetti e profili dei collegamenti Falange/7ma Divisione derivanti da quelle che erano state le dichiarazioni di Fulci. Ma questo lo leggeremo domani.

Stato “contro natura”. Nella stagione stragista Licio Gelli aveva in mano le mafie e i servizi deviati. Potevano vivere Falcone e Borsellino?  Scrive il 2 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Abbiamo fin qui analizzato il matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Va ora segnalato un dato di eccezionale rilievo che va ben al di là delle stesse coraggiose dichiarazioni dell’ex ambasciatore Fulci in quanto acquisito in epoca successiva alla cessazione dalla carica al Cesis dello stesso. Come evidenziato in una informativa del Servizio Antiterrorismo, non solo – e non tanto – vi era coincidenza fra le sedi periferiche del Sismi e le celle da cui provenivano le telefonate della Falange Armata ma addirittura da una attenta e scrupolosa ricognizione dei pernottamenti in albergo dei soggetti segnalati da Fulci stesso (appartenenti, come detto, alla 7ma Divisione – Ossi -) risultava che anche da un punto di vista temporale vi era coincidenza fra i soggiorni di molti di costoro e il giorno in cui dalla cella della località ove si trovavano, erano partite le minacce falangiste. Lo stesso servizio Antiterrorismo, infine, nella nota segnalava come fosse evidente, con riferimento alle minacce subite da Fulci della Falange Armata, ancora prima che prendesse servizio al Cesis e ancora prima che fosse nota la sua nomina, la riconducibilità delle minacce in questione ad appartenenti ai servizi. Secondo la Procura di Reggio Calabria e il giudice Trapani che ha firmato l’ordinanza, c’è un altissimo grado di probabilità che la Falange Armata fosse una sigla riconducibile ai cosiddetti servizi deviati. Tre filoni d’indagine – autonomi e distinti – su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono di giungere alla stessa conclusione. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all’interno della 7ma Divisione (scolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprine nei primi anni Novanta. «Non sappiamo chi, all’interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta», si legge nel provvedimento. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordarono – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, l’utilizzo della sigla Falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Come sappiamo, negli anni successivi, ci sarebbero state sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l’accordo in questione era parallelo a quello storico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cosiddette liste autonomiste e andava oltre. Gli elementi indiziari convergenti consentano infatti di tracciare un legame fra Gelli e la strategia stragista nel suo complesso. Per ora mi fermo ma domani si prosegue.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Le Iene Show. Puntata del 22 novembre 2016. Matteo Viviani ha intervistato l’ex agente dei servizi segreti noto come Agente Kasper. L’uomo ha ripercorso con la Iena la sua carriera nell’intelligence, le sue esperienze da infiltrato e le operazioni internazionali a cui ha preso parte nel corso della sua vita.

P COME MAFIA DELLA POLITICA E DEI DISSERVIZI E DELLA SOCIETA’.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “ITALIOPOLI. ITALIOPOLITANIA” E “COMUNISTI E POST COMUNISTI. SE LI CONOSCI LI EVITI” E “DISSERVIZIOPOLI” E “IL TERREMOTO E…” E “SPRECOPOLI” E SPECULOPOLI” E “GOVERNOPOLI” E “L’INVASIONE BARBARICA” E “PROFUGOPOLI” E “ITALIA RAZZISTA” E “IL COMUNISTA BENITO MUSSOLINI” E “LEGOPOLI” E “SILVIO BERLUSCONI. L’ITALIANO PER ANTONOMASIA” E “GESU’ CRISTO VS MAOMETTO”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Il Pantheon dei capri espiatori. La storia politica dell’Italia repubblicana raccontata attraverso l’odio per il singolo, scrive Francesco Damato il 17 Aprile 2018 su "Il Dubbio". L’articolo di Angela Azzaro in difesa del Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica. Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983 l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.

Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò addirittura al protagonista della ricostruzione post- bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica. Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. «Una fantasia», soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.

Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga – Il Borghese – fondato da Leo Longanesi.

Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centrosinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat. Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. «Non lasciatemi morire con Moro», si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo. Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi. In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della Repubblica conciliare, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico – mi disse l’ex presidente del Consiglio – che anche un imputato va assolto a parità di voti. Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc- Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli ‘ regalò’ – mi disse – il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora. Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.

Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.

Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.

Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con «una durezza senza uguali», certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.

Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci. Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia avendo «illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione – per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.

Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.

Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.

Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come ‘ il parolaio rosso’ per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.

Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea. Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.

Gallerie killer, cedimenti, appalti e poltronifici: così le nostre strade sono diventate un incubo. Il ponte Morandi è solo l'ultimo di una lunga serie di tragedie e inefficienze. E la legge del 2001 sulle responsabilità delle aziende protegge i top manager, che "possono non sapere", scrive Gianfranco Turano il 28 agosto 2018 su "L'Espresso". C’è una presunzione di colpevolezza in ogni grande infrastruttura. In Italia ogni strada, ogni ponte, ogni binario sono sospettati di esistere non perché necessari ma come pretesto per creste, tangenti, ruberie. È triste, quando va bene e si finisce in coda. Sa di presa in giro quando si osserva increduli il minischermo del casello che indica l’ennesimo aumento di pedaggio poco prima che la sbarra si alzi e una voce registrata ti dica arrivederci con allegria. È tragico quando la campata del viadotto Morandi a Genova si sbriciola sotto le ruote dei veicoli di passaggio, martedì 14 agosto. Il bilancio delle vittime è da strage terroristica. Il costo politico non è meno pesante. A ragione o a torto, lo paga per intero il centrosinistra, accusato dalla folla ai funerali del 18 agosto e dai social network di comparaggio con il concessionario Autostrade per l’Italia (Aspi). Le scuse tardive dei Benetton hanno messo benzina nel serbatoio di un governo spaccato sulle infrastrutture. È parso che sia stata la linea dura del premier Giuseppe Conte a piegare l’arroganza e il gelo tecnicistico del management di Aspi, guidato da Giovanni Castellucci e Fabio Cerchiai. Conte è un avvocato. Per mestiere sa che un contenzioso sulla revoca della concessione può durare più del suo governo ma ha giocato bene la sua carta. Ha fatto dimenticare che il suo alleato, la Lega, ha governato in sede locale e nazionale alcuni fra i peggiori disastri strutturali e che tutti hanno partecipato a costruire la distruzione, incluso lo stesso premier, consulente ben retribuito delle concessionarie.

La strana alleanza. Questa estate chi ha percorso la Salerno-Reggio Calabria, gestita dall’Anas e dunque dallo Stato, si sarà goduto il solito spettacolo di una mezza dozzina di gallerie che traforano il nulla, con un po’ di terra sparsa in cima a scopo ornamentale. Nella zona fra Mileto e Rosarno gli automobilisti avranno visto che il limite di velocità scende a 80 km/h senza ragione apparente. Una serie di cartelli gialli, lunghi otto righe e non proprio di facile lettura anche rispettando gli 80, spiegano che quel tratto è sotto sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per l’inchiesta sulla ditta Cavalleri, avviata oltre due anni fa. È possibile che abbiano rubato, quindi bisogna andare piano. Nella stessa zona c’è la “galleria killer” Fremisi-San Rocco, un tunnel nuovo di zecca che ha provocato cinque morti in pochi mesi nel 2016 con relativa inchiesta e dodici indagati. Come si spiega la galleria killer a un turista tedesco? Lui viene da un paese dove le autostrade non si pagano e si comportano con ottusità germanica, ossia da autostrade e non da oggetti di cristalleria. Come si spiega a uno straniero in una domenica di controesodo infernale, che per salire dalla Riviera adriatica bisogna aggirare la voragine di Bologna e che lo stesso accade a Genova, dove ci sono anche i traghetti in arrivo da Corsica e Sardegna? Le grandi opere sono un mondo complicato, pieno di codici e norme in continuo cambiamento, dove ballano cifre a otto o a nove zeri. È un sistema dove è difficile fare cronaca, tra querele sistematiche e budget pubblicitari usati a mo’ di silenziatore. Così il dibattito pubblico si è polarizzato sugli slogan. Di qua c’è il no a tutto, alla Gronda di Genova, al passante di mezzo di Bologna, alla Tirrenica, alla Torino-Lione, al passante ferroviario di Firenze, e via elencando. È la posizione del M5S prima del 4 marzo. Dall’altra parte c’è la Lega e il suo sì a tutto perché l’Italia si sviluppa soltanto con più cemento, più strade ferrate, più acciaio. L’escamotage del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cioè il calcolo costi-benefici sui progetti in cantiere, serve soltanto per guadagnare tempo e rinviare la resa dei conti nell’esecutivo. Ma il calcolo costi-benefici sulle grandi opere è sempre in perdita. Le principali infrastrutture, dal canale di Suez a Panama all’Eurotunnel, sono costate cifre terrificanti, hanno rovinato i privati che ci hanno investito e hanno sommerso di debiti gli Stati. L’unico calcolo sensato sarebbe: serve o non serve? Ma per questo ci vuole una linea strategica a lungo termine, non un’alluvione di tweet e comparsate tv per vincere le prossime regionali in Abruzzo. La fretta dei politici nel monetizzare i disastri corre in parallelo con la cecità aziendale dell’obiettivo immediato, a scadenza trimestrale, finalizzato al bonus variabile di fine anno. Se lo Stato è il primo colpevole, è difficile trovare innocenti. Dice un progettista con trent’anni di esperienza e qualche no di troppo che non ha certo giovato alla sua carriera: «È un caso da manuale di eterogenesi dei fini. L’antagonismo sistematico degli ambientalisti è stato il migliore alleato di chi non voleva investire».

Rischio erosione. Soltanto in Sicilia, trenta viadotti sono a rischio inclusi i due realizzati da Morandi sulla Agrigento-Porto Empedocle e il Corleone, quello che sembra più problematico. A Catanzaro c’è un altro Morandi, il ponte Bisantis non lontano dagli svincoli nuovi creati nella zona dell’università di Germaneto che hanno già mostrato segni di cedimento. Più a nord c’è il ponte sulla statale 107 che oscilla e si flette in modo pauroso al passaggio dei veicoli: la Procura di Cosenza ha appena aperto un’indagine. L’Anas ha assicurato che è tutto a posto. Ma è la stessa cosa che ha detto l’ingegnere Giovanni Castellucci, ad di Atlantia-Autostrade. Lo ha detto dopo, non prima che crollasse il viadotto sull’A10 («Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso»). A Benevento un’altra opera di Morandi è stata chiusa dal sindaco Clemente Mastella. In Abruzzo c’è il ponte di Lanciano, sulla Torino-Savona c’è il viadotto Lodo con i tondini in bella mostra grazie all’erosione del cemento. È un elenco infinito e da dopo Ferragosto centinaia di Comuni italiani con strutture a rischio, reale o presunto, stanno tempestando di telefonate l’Anas che ha dovuto creare una struttura ad hoc. La tragedia di Genova segna la fine della fiducia nei controllori e l’inizio della speranza in un fato benevolo ogni volta che si sale in macchina. Sul fronte delle sanzioni non va molto meglio.

Per il crollo del viadotto di Fossano dell’aprile 2017 ci sono dodici indagati. Ci è voluto più di un anno per una perizia tecnica che non ha portato a conclusioni definitive sulle responsabilità.

Per il crollo del viadotto sull’A14 ad Ancona il 9 marzo 2017 (due morti) l’inchiesta è in corso con sei indagati dipendenti di Aspi.

Anche per il crollo del viadotto di Annone Brianza sulla statale 36 il 28 ottobre 2016 (un morto) sono in corso le indagini.

Per il crollo del viadotto Scorciavacche, inaugurato senza collaudo dal top management dell’Anas il 23 dicembre 2014 e collassato una settimana dopo, il gip di Termini Imerese sta valutando le richieste di rinvio a giudizio della Procura.

Per la strage sul viadotto dell’Acqualonga ad Avellino, dove un pullman sfondò le barriere dell’A16 (40 morti) il 28 luglio 2013, è in corso il processo che vede fra gli imputati anche Castellucci. Per il cedimento del ponte di Carasco (Genova) sul torrente Sturla il 21 ottobre 2013 (due morti) ci sono state quattro assoluzioni. Il crollo non era prevedibile. Per il crollo sulla provinciale Oliena-Dorgali in Sardegna del 18 novembre 2013, che provocò la morte di un poliziotto di scorta a un’ambulanza, la Procura ha chiuso le indagini ad aprile di quest’anno con tre richieste di rinvio a giudizio.

La legge 231 del 2001 sulla responsabilità penale delle aziende ha prodotto una quantità di organi di vigilanza che sono diventati un poltronificio ben pagato per i soliti noti, grandi avvocati, ex magistrati amministrativi o contabili. Sul piano pratico, la 231 ha spesso allontanato la responsabilità dal top management, che ha il diritto di non sapere, per scaricarla sui livelli medi o bassi, nella più classica struttura di governance fantozziana. Del resto, il responsabile per Autostrade della manutenzione sull’A10 è un geometra, come risulta dai documenti interni di Aspi. Si chiama Mauro Moretti ed è solo omonimo dell’ingegnere Moretti. Il numero uno di Fs, e poi di Finmeccanica, è stato condannato in primo grado a sette anni per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 (32 morti). L’appello inizierà il prossimo novembre. Forse per la presunzione di innocenza il Moretti delle Fs è ancora presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato e ha la carta per viaggiare gratis sui treni. A oggi la sentenza più dura è toccata a Sandro Gualano per il disastro di Linate dell’8 ottobre 2001 (118 morti). L’ex ad di Enav è stato condannato in via definitiva a sei anni e sei mesi.

Controlli? No, grazie. Sugli aspetti giuridici della revoca della concessione è intervenuto l’ex magistrato ed ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Il fondatore dell’Idv ha commentato che la costituzione di parte civile contro Atlantia da parte del ministro attuale è infondata perché proprio il Mit dovrebbe controllare le concessionarie. Toninelli, dottore in giurisprudenza, dovrebbe sapere che a un tribunale non interessano i cambi di maggioranza. I giudici valutano gli atti del governo in continuità e chi non ha controllato o ha controllato male è responsabile per un principio giuridico (culpa in vigilando) vecchio quanto il diritto romano. È anche giusto ricordare che, da ministro delle Infrastrutture (2006-2008), Di Pietro diede il via alla convenzione Anas-Autostrade che conteneva l’adeguamento automatico delle tariffe (70 per cento sull’inflazione reale). Inserita nel decreto Milleproroghe, ultimo atto del governo Prodi bis, la convenzione fu esclusa in extremis e approvata il 18 giugno 2008 dal nuovo Senato a maggioranza Pdl. È un meccanismo con benedizione bipartisan che nessuno è più riuscito a smontare, come pure ha tentato di fare Graziano Delrio, fallendo per i ricorsi ai tribunali dei concessionari. Benetton, Gavio e gli altri imprenditori che gestiscono le strade a pagamento hanno sempre pubblicizzato i loro investimenti a nove zeri. In che misura siano stati fatti è difficile dire. Fino a sei anni fa questi investimenti li controllava l’Anas. Poi, sotto la gestione di Pietro Ciucci, l’ex ente concedente ha voluto farsi concessionario nel tentativo di uscire dal perimetro della pubblica amministrazione. Destinata alla regionalizzazione dalle prime ipotesi federaliste di vent’anni fa, l’Anas si è messa in società con le regioni, attraverso una serie di jont-venture dalla Lombardia al Veneto, dal Molise al Lazio, dall’Umbria alle Marche, che avevano come principale utilità il parcheggio a peso d’oro di pensionati dell’Anas stessa e di usati sicuri della politica locale. Intanto l’Ivca, l’ispettorato vigilanza concessioni autostradali dell’Anas, è passata armi, bagagli e personale al Mit nell’autunno del 2012 cambiando nome in Svca (struttura di vigilanza sulle concessioni autostradali) e mantenendo alla guida Mauro Coletta. I controlli, che già non erano feroci, sono stati ulteriormente ammansiti all’interno di una squadra demotivata dal taglio di stipendio. Nell’agosto 2017 alla Svca è stato nominato il dottore in scienze politiche Vincenzo Cinelli, ex dg per il settore dighe e infrastrutture elettriche, mentre Coletta ha assunto la direzione di controllo sui porti del Mit. È uno degli esempi di quel nocciolo duro di alti dirigenti ministeriali che, di norma, finiscono per contare più dei ministri stessi, qualunque sia il loro orientamento politico.

Il tutti contro tutti fa emergere vecchi rancori fra la parte pubblica, dove gli stipendi sono più bassi, e la parte privata. Un dirigente dell’Anas racconta così il suo esodo estivo sull’A16, la Napoli-Bari gestita da Autostrade. «Il 3 agosto nel beneventano inizia a grandinare. Non si vedeva nulla e non ci si poteva fermare perché non c’è corsia di emergenza. Siamo finiti incolonnati dietro un mezzo di Autostrade che segnalava lavori in corso. Lì sono tutti viadotti con una piazzola di emergenza ogni tanto. Le nostre statali, anche quelle più problematiche come la 106 hanno la corsia di emergenza. D’inverno, alla prima nevicata, i concessionari chiudono l’autostrada e scaricano tutto il traffico sulla nostra rete». Nei giorni di fuoco del viadotto Morandi è tornata più volte l’eventualità di affidare le autostrade di Aspi all’Anas, in caso di revoca della concessione o addirittura di nazionalizzazione. Anche questa sarebbe un’inversione di marcia a 180 gradi e presume un accordo politico fra le forze di governo. Il primo passo operativo è relativamente semplice: annullare l’incorporazione di Anas nel gruppo Fs varata alla fine del 2017 da Delrio. L’Anas grillo-leghista sarebbe più simile al vecchio ente della Prima Repubblica senza averne le forze, dopo anni di destrutturazione dovuta al cosiddetto federalismo stradale previsto dalla legge Bassanini del 2000. Un vecchio dirigente dell’Anas ricorda di quando andò a contrattare la restituzione delle strade agli enti locali. «I liguri erano i più scatenati», dice. «Volevano fino all’ultimo metro di asfalto disponibile e lo volevano subito». Il riflusso è partito già da qualche anno e, ancora una volta, la Liguria ha guidato la devoluzione dei tracciati dopo avere scoperto che sono soltanto spese e contenzioso. Il controesodo da regioni e province ha portato l’Anas vicino ai 30 mila chilometri di strade gestite.

Lega d’asfalto. Prima del 14 agosto, la Lega lo aveva detto chiaro attraverso i suoi governatori di punta. Luca Zaia e Attilio Fontana hanno comunicato: con la Torino-Lione e il gasdotto Tap fate come vi pare, ma le nostre pedemontane vanno completate a qualunque costo e i miliardi che mancano vanno trovati. In Liguria il terzo governatore di centrodestra, il forzista con appoggio della Lega Giovanni Toti, si ritrova in una posizione di forza dopo lo scempio dell’A10. Non solo ha tutte le ragioni di puntare oltre l’emergenza ma sarà complicato per i grillini bloccare anche altre grandi opere di quel quadrante, incluso il terzo valico dell’Av ferroviaria. C’è però un elemento di allarme che è sfuggito al fiume di dichiarazioni successive al 14 agosto. Le grandi opere si fanno a debito. Per finanziare i lavori non ci sono solo i soldi pubblici del Cipe ma un insieme di mutui bancari, di pegni, di obbligazioni emesse da società private (corporate) oppure da enti come nel caso Pedemontana Veneta, con la regione che paga interessi stratosferici sul capitale. Alcuni di questi bond sono quotati e tutti questi strumenti gravano sui bilanci. Imprese e concessionarie sono cariche di debiti che hanno una sostenibilità solo a fronte di margini improbabili, per chi costruisce, e di convenzioni a lunghissima durata, per chi gestisce. Con la crisi delle cooperative di costruzione, di Condotte, di Astaldi, non è esagerato dire che il vigilante di ultima istanza sul sistema grandi opere è la Banca d’Italia. Con una frase che meglio di tutte riassume la vacuità amatoriale del governo, Di Maio ha affermato: «L’Italia non è ricattabile». Come no. La precarietà finanziaria del sistema grandi opere è una bomba a orologeria nei conti già pericolanti dell’intera nazione.

Divorzio miliardario. Nel disastro, tra le foto delle famiglie distrutte e dei bambini travolti dal cemento, è crollato anche l’alibi di un certo capitalismo italiano fatto di imprese che vivono di tariffe. Suona paradossale che il gruppo Benetton, nato dal prodotto, abbia cambiato pelle fino a questo punto: tanta finanza, taglio costi, tariffe e royalties per fare utili. Atlantia ha portato il grosso dei profitti distribuiti alla famiglia (2,7 miliardi nel biennio 2016-2017 e 4,8 miliardi negli ultimi cinque anni). Come disse anni fa Alessandro Benetton a un manager del gruppo: «Ma tu lo sai quanti cugini ho?» Castellucci ha assicurato un considerevole tenore di vita alla seconda e alla terza generazione della famiglia di Ponzano Veneto ed è stato premiato con l’affidamento della pratica Leonardo da Vinci, l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino. Una delle sue frasi famose dette in riunione ai suoi manager recita: «Gli italiani non hanno mai fatto una rivoluzione». Dopo il disastro il gruppo ha promesso mezzo miliardo di euro per risarcire le vittime. Tanto o poco che sia, bisogna ricordare che nelle concessioni, secretate per motivi di concorrenza, c’è una clausola che vale molto di più. Si chiama diritto di subentro. Se lo Stato si riprende il suo, cioè l’autostrada, deve pagare un indennizzo al concessionario. L’unico caso pubblico finora è stato quello della Sat, l’autostrada tirrenica. D’accordo con l’Anas e il Mit, i Benetton avevano inserito una clausola di subentro alla scadenza (anno 2046) pari al costo previsto dell’opera (3,8 miliardi di euro). La clausola fu bocciata da una direttiva dell’Ue e cancellata dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Su altre concessioni il subentro è in vigore. Altri costi e altre cause in vista.

In Italia le infrastrutture sono a pezzi ma la manutenzione non porta voti. Nella strage del Ponte Morandi non ci sono innocenti. Perché il fallimento è di tutti: politici, manager, imprenditori. E i nuovi governanti sono divisi sulle opere, scrive Francesco Turano il 17 agosto 2018 su "L'Espresso". Nel crollo del viadotto Morandi a Genova ci sono vittime ma non ci sono innocenti. Si fanno i funerali, si aprono inchieste, si avviano perizie e forse, fra anni, qualcosa capiremo. Intanto è uno in più, un disastro in più dopo i viadotti Scorciavacche e Himera in Sicilia, dopo il viadotto Annone a Lecco, dopo il viadotto di Fossano in Piemonte, dopo il botto di Bologna che è sì provocato dall'esplosione di un'autocisterna ma basta a spaccare l'Italia, unita finalmente dal suo scheletro calcificato, fragilissimo ovunque. I tecnici, pescati qui e là dall'Espresso nella settimana di Ferragosto, sono attoniti. La risposta standard è: «Non è possibile». Non è possibile che il viadotto sia venuto giù così «come farina», come ha dichiarato alle telecamere della Rai una testimone oculare. «Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso», ha dichiarato a botta calda l'amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci. Eppure il viadotto sull'A10 era noto a tutti gli addetti ai lavori come il tallone d'Achille nella rete gestita da Autostrade per l'Italia-Atlantia (2964 chilometri). Le debolezze dell'opera erano sotto controllo da tempo. Alcuni dei vecchi stralli in acciaio e cemento concepiti da Riccardo Morandi, autore del ponte sull'ansa del Tevere lungo la Roma-Fiumicino, del collegamento sulla laguna di Maracaibo e di molte altre opere, erano stati sostituiti da stralli più resistenti, solo in cemento. Erano in corso le opere di consolidamento della soletta. Dunque non è possibile, dicono gli uomini di Autostrade e i controllori del Mit e dell'Anas che controllano sempre meno, sommersi dallo strapotere della concessionaria della famiglia Benetton e diluiti dall'ex ministro Graziano Delrio nella insensata fusione con le Ferrovie dello Stato, servita solo a garantire ricchi aumenti di stipendio al top management. Non è possibile ma è successo, nel paese che sogna ancora ponti sullo Stretto a governi alternati e che si trova di fronte al fallimento della manutenzione dell'esistente, stritolata dalla logica del massimo ribasso e del risparmio ossessivo sui costi finché il prezzo offerto dall'impresa non basta nemmeno a coprire le spese dell'intervento. Se i dati tecnici sono ancora in via di accertamento, il dato politico è trasparente fin dall'inizio di questa legislatura. L'Espresso aveva segnalato subito che il vero scoglio di questo governo, e dell'alleanza grillo-leghista, sarebbe stato l'indirizzo sulle infrastrutture. Come tutta risposta, Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno imposto una spartizione alla Cencelli sulla dicastero di Porta Pia. Hanno affidato la poltrona titolare a Danilo Toninelli, che aveva zero esperienza nel settore e che come primo provvedimento della sua gestione ha stanziato 5 milioni di euro per il ponte sul Po a Casalmaggiore, nella zona di casa sua. Giustissimo per carità. Intanto i suoi sottosegretari leghisti, Armando Siri, che ha giurato al Quirinale senza nemmeno interessarsi di sapere chi era il suo ministro, ed Edoardo Rixi, entrambi genovesi, remavano nella direzione opposta, quelle delle nuove grandi opere senza se, senza ma e soprattutto senza quel calcolo costi-benefici che il M5S ha affidato a professori e professionisti. Ecco, se applichiamo il calcolo costi-benefici al viadotto Morandi, il conto è facile. Bisognava abbatterlo. È costato più in manutenzione che in realizzazione. Ma era impossibile. Si sarebbe tagliata in due la Liguria. C'era la Gronda di Genova in dirittura di arrivo, un investimento miliardario rinviato per anni che aveva reso il viadotto Morandi necessario al traffico cittadino, oltre che ai passaggi Ponente-Levante. C'era il Terzo Valico dell'alta velocità ferroviaria. Insomma c'erano i progetti indispensabili a liberare Genova dal soffocamento urbanistico nel quale si è abituata a vivere, fra traffico ed esondazioni di torrenti. L'unica cosa che mancava era l'indirizzo politico perché le infrastrutture, a differenza della presunta sostituzione etnica in arrivo dall'Africa, non danno notorietà se non quando se ne farebbe a meno, cioè in caso di disgrazia. Adesso il dilemma di fondo dell'alleanza di governo è davanti a tutti. Si può risolvere soltanto se una delle due parti cede. Ma è un dilemma puramente politico. Per chi va in strada, per i cittadini, pronti a indignarsi per il sacchetto di plastica del supermercato a 10 centesimi eppure assuefatti agli aumenti automatici dei pedaggi a ogni inizio di anno in cambio di investimenti lasciati alla bontà dei concessionari, la realtà è una. È nel fallimento delle politiche di tutti i governi, di tutti i ministri, di tutti i grand commis di Stato o manager privati almeno a partire dall'anno di grazia 2001, quando il premier Silvio Berlusconi disegnò alla lavagna in tv le meraviglie della Legge Obiettivo. Ha fallito lui, hanno fallito tutti. I crolli di oggi sono figli di uno Stato che, oggi come ieri, è debole coi forti e forte con i deboli. Diciassette anni dopo i faraonici progetti del Berlusconi bis contiamo i morti e torna vera la battuta che in Italia non serve il terrorismo integralista. Ci terrorizziamo da noi. Ormai possiamo tracciare l'anamnesi di ogni opera pubblica secondo le età. Il viadotto Marconi lo ha completato 51 anni fa la società Condotte, al tempo controllata dall'Iri e quindi dai partiti e dal loro sistema di finanziamenti più o meno illeciti. Ci saranno state mazzette? Cemento depotenziato? Acciaio un po' meno inox? Saperlo adesso, mezzo secolo dopo e con la conta dei morti di Genova, non serve a nulla. Condotte è stata venduta ai privati perché, dicevano, i privati gestiscono meglio. Infatti, è finita in concordato un mese fa. Anche Autostrade è stata privatizzata. È il sistema del capitalismo avanzato, ci hanno detto. Negli Stati Uniti si fa così, ci hanno ripetuto anni fa, quando le fake news si chiamavano ancora balle. Il ponte di Brooklyn è stato inaugurato nel 1883. Alla sua gestione e manutenzione provvede il Dot (department of transportation) della città di New York, soldi pubblici. Stesso schema per il Golden Gate di San Francisco, aperto nel 1937. Ogni tanto qualche ultraliberista a stelle e strisce lancia l'idea che sarebbe meglio buttarli giù perché costano troppo. Lo ringraziano dell'opinione e continuano a riparare.

P COME MAFIA DELLA PRESCRIZIONE E DELLA MALAFEDE DI POLITICI E GIORNALISTI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “IMPUNITOPOLI” E “GIUSTIZIOPOLI” E “MALAGIUSTIZIOPOLI” E “MANETTOPOLI”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Grillini e leghisti come nel poema della “Secchia rapita”. Era il 1200, scrive Francesco Damato l'11 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Provate a paragonare i leghisti e i grillini di questi giorni, impegnati col problema della prescrizione, ai bolognesi e modenesi del 1200 raccontati quattro secoli dopo da Alessandro Tassoni nel poema eroicomico della “Secchia rapita” e troverete – con la dovuta fantasia naturalmente – assonanze divertenti.

Come i bolognesi dei tempi di Federico II, i leghisti hanno cominciato compiendo qualche fastidiosa scorribanda nel territorio dei grillini con i dubbi del potente sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza. I grillini, convinti di avere risolto tutto facendo inserire nel bilancio del 2019, e in deficit, più di sei miliardi di euro fra le proteste e le minacce europee di una procedura d’infrazione, non hanno gradito. E hanno invaso a loro volta il territorio dei leghisti. Dove, anziché abbeverarvisi, come nel poema del Tassoni, hanno preso a calci una secchia di legno appesa al pozzo del codice penale e contenente la prescrizione, cara – secondo loro – al partito di Matteo Salvini per i benefici ricavati sinora da corrotti, stupratori, assassini e ogni altra sorta di delinquenti frequentati elettoralmente, e imprudentemente, dall’attuale ministro dell’Interno e dai forzisti di Silvio Berlusconi. Dei quali i leghisti sono rimasti alleati a livello locale, anche dopo avere stipulato con i grillini il contratto del governo gialloverde in carica, presieduto da Giuseppe Conte. Ma dei quali, soprattutto, potrebbero tornare ad essere alleati anche alle prossime elezioni politiche. Dopo avere preso a calci la secchia della prescrizione i grillini, come i modenesi del Medio Evo, se la sono portata come un trofeo nel loro territorio. Dove l’hanno caricata sulla diligenza di una legge contro la corruzione, chiamata enfaticamente “spazzacorrotti”, e ne hanno proposto lo sfondamento. Tale sarebbe infatti la prescrizione se fosse eliminata, come vogliono appunto i grillini, alla prima sentenza nei processi, lasciando senza alcuna scadenza i due successivi gradi di giudizio. I bolognesi, cioè i leghisti, hanno reagito duramente accusando i grillini di avere scoperto anzitempo la bomba atomica, come l’avvocato Giulia Bongiorno, da qualche mese anche ministro della Pubblica amministrazione con la spilla di Alberto da Giussano sul bavero della giacca, ha definito la soppressione della prescrizione proposta dal suo collega guardasigilli Alfonso Bonafede. E si sono perciò mossi minacciosamente sul territorio bolognese incontrando resistenze accanite. Alla fine la rottura del contratto di governo- richiamato da entrambe le parti, per la sua astuta genericità, a sostegno delle proprie tesi- e la conseguente crisi ministeriale, a sessione di bilancio, come si dice, appena aperta, sono state evitate con un caffellatte preso a Palazzo Chigi dai guerrieri. Che hanno trovato a sorpresa in meno di mezz’ora un accordo, o un compromesso, come preferite. La secchia della prescrizione è rimasta nelle mani dei grillini, che possono tenersela sulla diligenza della legge contro la corruzione mettendole dentro un ordigno a tempo. Che la sventrerebbe entro il 31 dicembre del 2019, o il 1° gennaio del 1920, come ha preferito annunciare il soddisfattissimo ministro della Giustizia, smanioso di vedere finalmente in braghe di tela tutti gli aspiranti prescritti. Ma la secchia è stata sua volta appesa, sempre nella diligenza della legge sulla corruzione in viaggio tra i corridoi e le aule di commissione della Camera, per poi passare al Senato, a un gancio con la manina dell’avvocato Bongiorno. Il gancio, un po’ simile a quello al quale è appesa a Modena nella Torre Ghirlandina la secchia immortalata dai versi del Tassoni, altro non è che la riforma del processo penale propostasi nell’occasione dal governo. Che pensa di riuscire nell’anno o poco più che manca al 31 dicembre del 2019, o al 1° gennaio del 2020, a rimanere naturalmente al suo posto, a proporre e a farsi approvare dalle Camere un’apposita legge delega e a varare infine i decreti delegati. Che dovrebbero fare il miracolo di abolire la prescrizione e al tempo stesso garantire non dico i processi rapidi invocati dai leghisti, ma quanto meno la loro “durata ragionevole” garantita dalla Costituzione. A interrompere, anzi a guastare le feste al solito improvvisate dai grillini, fra terraferma e barconi sul Tevere, quando ritengono di avere segnato un punto a loro favore nell’eterna partita contro avversari e anche alleati, sono arrivati i soliti giornalisti chiedendo al ministro Giulia Bongiorno sulla soglia del Senato, reduce proprio dal caffellatte a Palazzo Chigi, che cosa accadrà della prescrizione a 5 stelle se alla fine dell’anno prossimo la riforma del processo penale non avrà tagliato il traguardo. “Non se ne farà nulla”, ha risposto Bongiorno. Informati di ciò che evidentemente nel caffellatte a Palazzo Chigi non avevano afferrato, o la Bongorno e Salvini magari non avranno loro spiegato bene, Di Maio e Bonafede sono rimasti basiti. E son tornati alla guerra contro i leghisti, come in quella lunghissima della secchia rapita, e del conte di Culagna, raccontata nel 1614 da Alessandro Tassoni. Già insoddisfatto per conto suo della prescrizione di conio grillino, diversa da quella che lui vorrebbe troncare all’inizio delle indagini, ben prima del rinvio dell’imputato a giudizio, il buon Piercamillo Davigo ha dato un’ulteriore delusione ai suoi estimatori sotto le cinque stelle. In particolare, il neo- consigliere superiore della magistratura ha detto che gli effetti della riforma grillina della prescrizione si vedranno quando lui sarà già morto. E non è proprio un bell’augurio alla causa politica e giudiziaria di Di Maio, Bonafede e amici, considerando che Davigo ha solo 68 anni, compiuti da meno di un mese, e gode meritatamente – per carità di ottima salute.

 Il giornalismo subalterno ai Pm, scrive Piero Sansonetti il 13 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Il linguaggio usato da Di Maio, Grillo e Di Battista nella polemica coi giornalisti, dopo l’assoluzione di Virginia Raggi, è assolutamente intollerabile: su questo credo che ci sia poco da discutere. Ricorda un modo di esprimersi, violento e truce, che era tipico, tanti anni fa, della cultura fascista o di quella stalinista. Così come fa parte di quelle culture la minaccia di chiudere alcuni grandi gruppi editoriali, cioè di usare il potere ottenuto attraverso libere elezioni per imbottigliare la libertà e in particolare la libertà di stampa, che è essenziale in qualunque forma di democrazia politica. E tuttavia, sebbene forse a sua insaputa, Di Maio ha posto un problema serissimo e del quale noi ci occupiamo da tempo: la subalternità della stampa nei confronti della magistratura. È stato così anche in occasione del processo Raggi: è così sempre, ogni volta che un pubblico ministero indaga qualcuno, specialmente se indaga un politico, i giornalisti considerano la sua iniziativa non un’accusa, o un’ipotesi, ma una sentenza. Ricopio qui di seguito l’inizio dell’articolo pubblicato ieri mattina su uno dei più importanti quotidiani nazionali a proposito di un’operazione giudiziaria condotta a Catanzaro: Il giornalismo subalterno ai Pm Le inattese accuse di Di Maio. «Grazie a politici come l’ex sottosegretario Giuseppe Galati, anche ambulanze e trasporto sanitario a Lamezia Terme sono affare di ‘ ndrangheta. Lo ha scoperto la procura antimafia di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri». I due nomi in grassetto non li ho messi io, erano così nell’articolo. Il verbo, come vedete, è all’indicativo: «sono affare». Nessun dubitativo, nessun condizionale: è così, chiuso. E infatti la Procura di Catanzaro non avanza, secondo questo articolo, un’accusa, ma ci offre una scoperta. Indiscutibile. C’è ancora bisogno del processo? Sembrerebbe di no. Naturalmente sulla stampa troverete poche voci a difesa della presunzione di innocenza dell’ex deputato Galati. Prevista dalla Costituzione ma non dal contratto di lavoro dei giornalisti (né, temo, dal contratto di governo…). E neppure leggerete di dubbi sulla liceità della pubblicazione dei video delle intercettazioni prima della chiusura delle indagini preliminari (ieri questi video erano su moltissimi giornali online). Tantomeno troverete qualche domanda sulla stessa liceità delle intercettazioni: quando sono state realizzate? Sembrerebbe nel 2017. Se così fosse, era legittimo intercettare l’on Galati che all’epoca era ancora parlamentare e quindi protetto dall’articolo 68 della Costituzione? Sull’ultima domanda non ho una risposta, perché non conosco la data delle intercettazioni, però mi sembra probabile che siano precedenti al febbraio 2018. Sulla domanda precedente invece non ho dubbi: la pubblicazione delle intercettazioni, e in particolare dei file video, non è consentita dalla legge (articolo 114 del codice di procedura penale) ed è comunque in contrasto con varie delibere del Consiglio Superiore della Magistratura. Eppure la cosa non crea nessuno scandalo. Perché? Beh, perché Di Maio non ha tutti i torti: i giornalisti italiani sono subalterni alla magistratura (lo sono molto meno alla politica) e questo crea un problema non indifferente: la mancata indipendenza del giornalismo italiano. Solo che questa dipendenza del giornalismo è stata ampiamente sostenuta in tutti questi anni non soltanto dalla stessa magistratura (diciamo da molti suoi esponenti) ma anche da ampi settori della politica. E in particolare dai 5 Stelle. I quali fino a qualche mese fa non si erano mai sognati, neppure in cartolina, di criticare un magistrato, e avevano accusato casomai la stampa di essere troppo liberale e poco ossequiosa con i Pm. Non è così? Ricordate forse sollevazioni di Di Battista vari dopo l’assoluzione di Penati, o di Marino, o di Tronchetti Provera, o di Cota, o di Mastella, o addirittura del papà di Renzi? Qualcuno di loro, forse, ha dato dello sciacallo ai giornalisti e ai giornali che avevano dato per scontata la loro colpevolezza o addirittura avevano condotto vere e proprie campagne di stampa, con il risultato, in quasi tutti i casi, dell’annientamento politico dell’imputato innocente? Naturalmente io tendo a credere nella buona fede. E immagino che nei 5 Stelle ci sia stato in questi mesi – o forse in questi ultimissimi giorni – un ripensamento profondo. Che abbiano capito, cioè, che il giustizialismo, il davighismo, l’amore per la forca sono grandissimi errori politici. E quindi mi aspetto di qui in avanti di trovarli al nostro fianco nella battaglia per riconquistare l’indipendenza del giornalismo e per ottenere la fine del potere assoluto della magistratura sull’informazione. Solo li pregherei di modificare un po’ il loro linguaggio.

P. S. 1 Naturalmente Di Maio non ha tutti i torti su un’altra anomalia italiana: lo strapotere, nell’editoria, degli editori cosiddetti “impuri”. Ma non si risolve questo problema con leggi autoritarie, si risolve aiutando gli editori puri, le cooperative, i giornalisti indipendenti. Per esempio rafforzando, invece di abolire, il finanziamento dei giornali deboli.

Prescrizione. Manlio Cerroni e la malafede dei giornalisti.

Un indagato/imputato prescritto non è un colpevole salvato, ma un soggetto, forse innocente, NON GIUDICABILE, quindi, NON GIUDICATO!!!

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. C'è del marcio nei palazzi di giustizia. Si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", ma sono la prova che il sistema è al collasso, fin nelle fondamenta, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Quello che mi fa ribollire il sangue è che si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", a presentarli come casi isolati da inserire nel naturale corso della dialettica processuale. E invece sono la prova provata di un sistema giudiziario marcio fin nelle fondamenta. Aprite i giornali e ogni giorno troverete uno di questi "errori". Facciamo insieme due passi nelle cronache recentissime e ripercorriamole a ritroso.

Eppure i figli di…Travaglio divulgano certi messaggi fuorvianti atti ad influenzare gli ignoranti cittadini, che poi votano ignoranti rappresentanti politici e parlamentari.

A tal proposito viene in aiuto l’esempio lampante di come un tema scottante ed attuale venga trattato dai media arlecchini, servi di più padroni.

Assolti? C’è sempre un però. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo.

TG1: ROMA PROCESSO MALAGROTTA, ASSOLTO CERRONI. Andato in onda il 06/11/2018. "Il processo sulla discarica di Malagrotta e la gestione dei rifiuti a Roma. Assolto l'ex patron dello stabilimento, Manlio Cerroni, dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti". Flavia Lorenzoni.

Nel servizio si fa cenno al fatto che il processo è durato 4 anni. E meno male che l’abbia detto. Ma lì si è fermato. Però, di seguito, il TG1 ha mandato in onda il servizio sulla strage di Viareggio e sugli affetti che la prescrizione avrebbe avuto su di esso.

Nel servizio al TG5 di questo tempo processuale di Cerroni nemmeno se ne fa cenno.

A cercare su tutta la restante stampa e sugli altri tg non si trova altro che cenni all’assoluzione, tacendo i tempi per il suo ottenimento, ma insistendo ad infangare ed inficiare la reputazione dell’ultra novantenne Cerroni.

Solo il detuperato e vituperato giornale di Piero Sansonetti mi apre gli occhi: "Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere", scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". "Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto".

14 anni sotto la scure della giustizia. Ma in tema di campagna contro la prescrizione meglio tacciare quest'aspetto della notizia, sia mai si ledano i favori dei potenti di turno.

Una censura o un’omertà assordante, nonostante: "In 30 anni ho finanziato tutta la politica. Tutta no, i Radicali non me l'hanno mai chiesto". Manlio Cerroni, intervistato da Myrta Merlino su La 7 il 6 settembre 2017.

Lo scandalo non sta nel fatto che scatta la prescrizione, dopo anni dal presunto reato e anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati anni alla magistratura per concludere l’iter processuale.

La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento.

Ministro Bonafede, ecco perché la colpa delle prescrizioni è quasi tutta dei pm. I grillini vogliono bloccare l’estinzione dei processi dopo la sentenza di primo grado. È un errore: i tempi della giustizia si allungherebbero. E poi oggi quasi 7 inchieste su 10 finiscono nel nulla già durante le indagini preliminari, scrive Maurizio Tortorella il 12 novembre 2018 su "Panorama". Qualcuno prima o poi dovrebbe dirlo, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Se non lo faranno al ministero, dove tra consulenti e funzionari i magistrati sono forse troppi per garantire vera neutralità sul tema, per lo meno un consigliere esterno dovrebbe comunque avvisare il Guardasigilli che l’emendamento sulla prescrizione proposto dal suo Movimento 5 stelle nel decreto «spazza-corrotti» non è soltanto un grave errore giuridico, come protestano i penalisti e le opposizioni, ma sarebbe soprattutto un clamoroso buco nell’acqua. Per rendersene conto, del resto, basta un’occhiata alla tabella qui sotto. I processi penali prescritti dal 2005 al 2016 (...) Dalle stesse statistiche ufficiali del ministero della Giustizia, affiancate a quelle della Procura generale preso la Cassazione, emerge infatti che il 69,8 per cento delle prescrizioni, cioè delle sentenze che estinguono un procedimento penale per colpa del troppo tempo trascorso dal reato, avvengono durante le indagini preliminari, cioè all’inizio del processo stesso: quindi prima del rinvio a giudizio dell’indagato e ancora prima che il processo vero e proprio abbia avuto inizio. Insomma, la stragrande maggioranza dei processi finisce in prescrizione già un bel po’ di anni prima di arrivare alla sentenza di primo grado, proprio il momento che il M5s oggi considera il traguardo da cui partire con la riforma. Insomma, se anche l’emendamento grillino riuscisse a superare la negatività mostrata dall’alleato leghista (a partire dal ministro Giulia Bongiorno, che da esperta penalista descrive la riforma come «una bomba atomica sui processi», fino a Matteo Salvini, che invita Bonafede a una seria riflessione), alla fine non risolverebbe gran che, perché riguarderebbe meno di un terzo delle prescrizioni. Per l’esattezza, dal gennaio 2005 (l’anno di partenza della riforma della materia, varata con la controversa legge Cirielli) i procedimenti dichiarati prescritti sono stati 1.594.414 fino al 31 dicembre 2016. Di questi, però, quelli che si sono arenati per sempre già durante le indagini preliminari sono stati 1.112.608: quasi sette su dieci. Va detto che purtroppo a questi due totali manca un dato, quello delle prescrizioni intervenute durante le indagini preliminari nel 2015, che inspiegabilmente non è rintracciabile negli archivi ministeriali. Così, per coerenza, i totali della tabella riguardano soltanto 11 anni su 12, con l’esclusione per l’appunto del 2015. Anche con questo strano «buco» temporale, che peraltro non potrebbe modificarne molto il segno, la statistica è comunque sorprendente e (soprattutto) viene incredibilmente sottaciuta nella polemica che dal 30 ottobre si è aperta sulla proposta grillina. Eppure si tratta di una verità incontrovertibile, che porta con sé molti corollari importanti, dal punto di vista sia giudiziario sia politico. 

Le colpe dei pm. Durante le indagini preliminari, infatti, l’attività investigativa non trova alcuna forma di contrasto da parte dell’indagato o del suo avvocato difensore. In quella fase, che può durare anche più di due anni, è il pubblico ministero che fa tutto, dialogando da una parte con la polizia giudiziaria e dall’altra con il Gip, per l’appunto il giudice delle indagini preliminari. Quindi questo 69,8 per cento di prescrizioni «precoci» non può assolutamente essere imputato alle diaboliche strategie dilatorie delle difese. La sua responsabilità ricade sui soli pm. Che evidentemente assolvono al compito costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale a modo loro, scegliendo quali fascicoli siano meritevoli di procedere più o meno speditamente, e quali invece debbano restare in un cassetto (a volte in una cassaforte) o coprirsi di polvere. Se si volesse ampliare il discorso, è evidente che da questa statistica emerge con forza che proprio l’obbligatorietà penale è sempre più una finzione scenica, un feticcio ideologico senza alcuna concretezza. E forse se ne potrebbe dedurre addirittura l’esistenza di un grave problema di controllo democratico sull’operato dei magistrati della pubblica accusa, resi praticamente liberi di fare e di non fare, di rallentare e di accelerare le indagini a loro piacere. L’unico ostacolo a questa loro discutibile sovranità totale sulla giurisdizione è attribuito dai codici ai Gip, che però ai pm possono soltanto rifiutare richieste di archiviazione e chiedere supplementi d’indagine, ma non hanno alcun potere di sindacare sui tempi e sui modi delle indagini. Il nuovo presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza (che fu tra i difensori di Enzo Tortora), ha denunciato che «l’eventuale approvazione dell’emendamento, che nemmeno distingue tra sentenza assolutoria e sentenza di condanna, alla fine del giudizio di primo grado darebbe luogo a una pendenza teoricamente infinita sia della sentenza di condanna, sia dell’impugnazione da parte del pm della sentenza di assoluzione». Ha ragione, Caiazza. Ma il problema d’immagine dei penalisti italiani è che da sempre sono accusati dai pm di essere i responsabili delle troppe prescrizioni italiane. Se volessero, hanno in mano una statistica ufficiale, che ribalta la colpa proprio sulla loro controparte. (Articolo pubblicato nel n° 47 di Panorama, in edicola dall'8 novembre 2018 con il titolo "Caro ministro Bonafede ma lei sa che la colpa delle prescrizioni è quasi tutta dei pm?")

Nonostante la verità si appalesa, certi politici, continuano a cavalcare barbare battaglie di inciviltà giuridica e sociale.

Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti. La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.

Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.

Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.

Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino.

Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti.

Il Giustizialista Giacobino è colui che usa la differenziazione della giustizia. Ciò ha un che di antiquato, di classista, distinguere ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa.

Il Giustizialista Giacobino è colui che invoca una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Sì, però, va detto che la giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti.

La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. 

Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara (Lucca, 18 settembre 1805 - Lucca, 15 gennaio 1888), abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».

Tuttavia la veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione pubblica e rappresentanti politici e della magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri.

Ma se è mediocre la veemenza, è antica la genesi dell’istituto della Prescrizione.

E' indubbio che l'istituto della prescrizione - nato come istituto di natura processuale (la longi temporis praescriptio del diritto romano) che estingue l'azione (civile o penale) e come tale disciplinato nel diritto penale, risponde in primo luogo all'esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, esigenza cui è evidentemente interessato soprattutto l'imputato.  Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.

“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 - Milano 28 novembre 1794). CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto.

R COME MAFIA DELLA RITORSIONE SU CHI DENUNCIA. (SPIONI O ONESTI?). WHISTLEBLOWING: PIU’ DEL MOBBING O DELLO STALKING.  

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “IMPUNITOPOLI”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Whistleblower. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Questa voce o sezione sull'argomento editoria non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Il termine whistleblower in lingua inglese, e più nello specifico negli Stati Uniti d'America, identifica un individuo che denuncia pubblicamente o riferisca alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i whistleblower, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

Origine del termine. In inglese viene utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal(Ohio). La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Il whistleblowing. È pure diffuso il termine whistleblowing (a volte whistle-blowing) che corrisponde appunto all'azione di "soffiare il fischietto" e si può tradurre in "denuncia" (sul posto di lavoro). L'origine del termine whistleblowing è ad oggi incerta, alcuni ritengono che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione.

Il whistleblower è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il whistleblower lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno.

Definizione. La maggior parte dei whistleblower sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un whistleblower decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai whistleblower varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti un'ampia serie di leggi federali e statali protegge gli impiegati che denunciano comportamenti scorretti o si rifiutano di obbedire a direttive illegali. La prima legge in questo senso è stata il False Claims Act del 1863, che protegge i whistleblower da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione) ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Ulteriori rafforzamenti della posizione del whistleblower sono stati tentati con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione[6]; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. La Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208[9]. Il 19 giugno 2017 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il nuovo decreto 25 maggio 2017, n. 90, di recepimento della IV Direttiva Antiriciclaggio. A decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto, i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di whistleblowing, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Luci e ombre della legge italiana sul whistleblowing. Ecco quali sono i punti di forza e le limitazioni della bozza di legge sulla protezione dei whistleblower appena approvata dalla Camera dei deputati, scrive Stefania Maurizi il 25 gennaio 2016 su "L'Espresso". Un salto culturale. La proposta di legge approvata la settimana scorsa dalla Camera per la protezione dei whistleblower non si può non definire una conquista culturale per un paese dove, storicamente, dilaga l'omertà che è una delle radici dei tanti mali italiani: dalla corruzione alla mafia. Un paese in cui, cosa interessante e rivelatoria, non esiste neppure un termine che traduca in modo soddisfacente il concetto. Il “whistleblower” è un individuo che, facendo parte di un'organizzazione o lavorando per un'azienda e scoprendo che questa fa qualcosa di sporco, di profondamente contrario alle regole della legalità o comunque della civiltà, fa scattare l'allarme, denunciando, pur sapendo di rischiare una devastante rappresaglia. Il termine include di tutto: dall'impiegato del piccolo municipio che viene a sapere di abusi e corruzioni che ruotano intorno al piano regolatore e cerca di denunciarle, al manager della grande azienda privata o di stato che rivela come l'impresa si faccia largo nel mondo degli appalti milionari a suon di stecche, dal semplice bancario che denuncia ordinarie storie di usura all'analista dell'intelligence Chelsea Manning, che ha passato a WikiLeaks centinaia di migliaia di documenti segreti sul vero volto delle guerre in Afghanistan e in Iraq, o al contractor Edward Snowden, che ha rivelato i piani di sorveglianza di massa della più potente e tecnologicamente avanzata agenzia d'intelligence del mondo: la Nsa. Con la proposta di legge appena approvata dalla Camera, grazie al lavoro del Movimento Cinque Stelle - e, in particolare della deputata Francesca Businarolo, che tanto ha creduto in questo progetto, il whistleblowing avrà una piena legittimazione sociale anche in Italia, se anche il Senato approverà il provvedimento, che diventerà quindi una legge dello Stato. E allora è importante capire punti di forza e limiti del testo.

RIVOLUZIONE CULTURALE. La conquista più importante è di carattere culturale. Con questa proposta di legge il whistleblower non è più un delatore, una “talpa”, come si dice usando un termine dalla connotazione sinistra che fa riferimento al mondo delle spie e della criminalità organizzata. E' un individuo che agisce “in buona fede”, “nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione” e quindi della collettività. Pertanto merita una tutela sociale, tant'è vero che il provvedimento approvato dalla Camera stabilisce che «non può essere sanzionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione». A proteggere il whistleblower da ritorsioni è l'Anac, l'Autorità nazionale anticorruzione, che può adottare sanzioni amministrative fino a 30mila euro contro il responsabile delle eventuali rappresaglie. Non solo: la segnalazione del whistleblower è sottratta alla legge sulla trasparenza nella pubblica amministrazione, la 241/90, in modo da evitare che quella stessa trasparenza venga usata per risalire ai dettagli della denuncia. E la proposta di legge non tutela solo il whistleblower che sia un dipendente pubblico, ma anche quello che lavora o anche solo collabora con un'azienda privata. Questi i punti di forza, ma ci sono anche serie limitazioni.

INCERTEZZE E PROBLEMI. Purtroppo, la proposta di legge riesce a proteggere la riservatezza dell'identità del whistleblower nei limiti delle leggi e del codice di procedura penale italiano. Come spiega efficacemente Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, a Gianluca di Feo nel libro che hanno scritto insieme “Il male italiano”, se il whisteblower «svela un'ipotesi di reato noi siamo obbligati a rivolgerci alla procura. E nei processi penali la riservatezza non può esserci, perché nel nostro sistema garantista l'accusatore deve testimoniare». Una volta che l'identità di chi denuncia abusi e corruzioni è nota, le tutele previste dalla proposta di legge saranno sufficienti? Le sanzioni amministrative, pur salatissime, riusciranno comunque a scongiurare il calvario che troppi whistleblower, a tutte le latitudini del mondo, vivono: mobbing, licenziamenti, gravissime minacce? E' proprio l'assenza o comunque l'insufficienza di queste tutele che ha spinto Julian Assange e il suo team a creare WikiLeaks, un sistema di protezione dei whistleblower che si fonda sul totale anonimato, anziché sulle garanzie offerte dalle leggi di paesi anche con solide tradizioni democratiche. Altro aspetto delicato della proposta di legge è quello per cui il whistleblower perde ogni tutela nel caso in cui «sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o di diffamazione». Perché, in questo caso, è sufficiente una sentenza di primo grado? Infine, un altro grande problema sarà quello tecnologico. La proposta di legge prevede che l'Anac adotti delle apposite linee guida che specifichino le procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni. «Le linee guida», recita il testo, «prevedono l'utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell'identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione». Basta fare una visita sul sito ufficiale dell'Anac per capire i problemi che incontrerà l'Autorità anticorruzione in questo settore. Sul sito, infatti, è presente il link “segnalazione di illecito – whistleblower” che permette di accedere a un modulo per denunciare all'Anac un episodio di corruzione. Purtroppo, l'accesso al modulo non è protetto in alcun modo, ad esempio manca anche una semplice connessione “https”, ovvero quel tipo di connessione che ci offre garanzie minime, per esempio, quando usiamo i dati delle nostre carte di credito per fare un pagamento o quando accediamo ai nostri dati sanitari.

QUESTIONE SICUREZZA. Interpellato da “l'Espresso”, uno tra migliori esperti internazionali di comunicazioni sicure che ha lavorato ai file di Snowden e che pretende l'anonimato, ci spiega quanto sia profondamente sbagliato che l'Autorità nazionale anticorruzione abbia un modulo così delicato su una pagina web priva delle protezioni più basiche: «E' una grave irresponsabilità per un sito come quello non avere una connessione “https”», ci dice, aggiungendo che è vero che una connessione https non sarebbe sufficiente a proteggere il whistleblower, perché non impedirebbe per esempio a un datore di lavoro che monitori la connessione internet di vedere che siti web stia visitando un suo dipendente. «Anche il solo fatto che un dipendente si connetta al sitowww.anticorruzione.it è un forte indicatore della possibilità che quell'impiegato stia considerando di segnalare una corruzione», continua l'esperto. Tuttavia, anche se la connessione “https” non è sufficiente, perlomeno impedirebbe al datore di lavoro di vedere ciò che il dipendente segnala all'Autorità, spiega l'esperto, aggiungendo che è altresì importante che il sito web dell'Anac pubblichi istruzioni minime per proteggere il whistleblower, come l'indicazione di usare il software di navigazione anonima “Tor” e di non collegarsi assolutamente al sito dell'Anac da un computer dell'ufficio in cui lavora. Le piattaforme informatiche criptate per l'invio di segnalazioni da parte dei whistleblower pongono sfide molto complesse e sarà importante vedere come si muoveranno l'Anac e le pubbliche amministrazioni in questo contesto. In circolazione c'è di tutto e succede perfino di trovare aziende che usano piattaforme di whistleblowing create da imprese che vendono tanto le piattaforme che permettono al lavoratore del pubblico impiego o dell'azienda privata di inviare segnalazioni di illeciti quanto il software che permette al datore di lavoro di spiare i dipendenti e quindi anche di poter scoprire chi fa le soffiate: una situazione rischiosa. Come può il dipendente fidarsi di piattaforme del genere? La partita insomma è tutta da giocare. Ma la proposta di legge approvata dalla Camera è un passo nella giusta direzione. «Il whistleblowing è una vera arma contro la corruzione», racconta a l'Espresso Francesca Businarolo, ricostruendo le difficoltà che ha dovuto attraversare il suo progetto. E a giudicare dalle reazioni di Forza Italia in aula, questa proposta di legge sul whistleblowing sembra già far paura.

Whistleblower: eroi senza un nome (e senza protezione). A un passo dalla votazione della legge alla Camera, ripercorriamo le storie di chi ha avuto il coraggio di segnalare la corruzione in Italia, scrive l'8 novembre 2017 Camilla Cupelli su Riparte il Futuro. Un anno e dieci mesi è il tempo trascorso dalla prima approvazione della proposta di legge sul whistleblowing alla Camera dei deputati. Sono oltre 66mila le firme raccolte da Riparte il Futuro e Transparency International perché venga approvata definitivamente in questa legislatura. Era il gennaio 2016 quando è iniziata la campagna #vocidigiustizia per chiedere la tutela di chi segnala corruzione e irregolarità sul posto di lavoro, e da allora la mobilitazione della società civile ha spinto perché l’iter procedesse rapidamente. Ma rapido non è stato. Dopo essere rimasta bloccata tra Camera e Senato per oltre 600 giorni la proposta è stata finalmente approvata dai senatori il 18 ottobre 2017. Ora manca solo l’ultimo passo: la votazione, in seconda lettura, alla Camera. La discussione è prevista per il 14 novembre e potrebbe essere “la volta buona” (partecipa alla mobilitazione digitale). Quella in cui il nostro Paese si doterà di una legge a tutela di chi denuncia: anche se imperfetta, sarebbe un primo risultato per il riconoscimento e la regolamentazione del fenomeno. I whistleblower (per dirla con il termine inglese dato che non esiste un corrispondente italiano che li identifichi) hanno bisogno di supporto legislativo e se la legge venisse dimenticata potrebbe svanire con la legislatura in corso e venir chiusa in un cassetto. Nel 2018, con un nuovo governo, l’iter ricomincerebbe da capo. La legge è necessaria non solo per dare un inquadramento, oggi inesistente, alla figura del whistleblower, ma anche per supportare tutti coloro che in questi anni hanno fatto un passo avanti, spesso cadendo nel vuoto. Sono persone che hanno un nome e un cognome, nonostante talvolta venga dimenticato. Persone che ogni giorno affrontano le conseguenze delle loro denunce, spesso cruciali per smascherare gravi casi di corruzione, per andare contro la casta dei “padreterni”, come li definiva Einaudi. 

Ripercorriamo le storie dei whistleblower italiani, in prima linea nella lotta alla corruzione. 

Raphael Rossi - Una denuncia dai vertici. Uno di loro è Raphael Rossi (foto in alto). Nel 2007 era parte del consiglio di amministrazione di una delle più importanti partecipate della città di Torino, l’azienda dei rifiuti Amiat. Durante la sua attività si è trovato di fronte alla possibilità di chiudere un occhio sull’acquisto di un macchinario inutile ma ha scelto di dire “no”. I vertici dell’azienda gli hanno offerto una tangente per ammorbidirlo ma il suo rifiuto è stato pubblico e urlato. Ha denunciato l’accaduto e poco tempo dopo è nato il movimento dei “Signori Rossi” a sostegno della sua causa, accanto allo sportello “Sos corruzione”. Nonostante una condanna in primo grado per i vertici dell’Amiat, Rossi non è mai stato reintegrato. Ha trovato lavoro in altre aziende italiane e ha portato avanti la sua battaglia anticorruzione con la società civile. “Ho fatto una cosa normalissima, come fermarsi con il semaforo rosso” scrive Rossi sul suo blog.

Ornella Piredda - Spese pazze in Sardegna. Sono passati oltre dieci anni da quando Ornella Piredda (foto in alto) ha denunciato per la prima volta le “spese pazze” della Regione Sardegna. Alla fine la condanna per peculato è arrivata, per l’ex capogruppo del gruppo misto e per altri dodici consiglieri, ma molte sono le ferite ancora aperte. Tra queste, una in particolare riguarda il mobbing subito dalla funzionaria, mai riconosciuto in un processo. Inoltre Ornella denuncia di aver avuto gravi problemi di salute come conseguenza del trattamento sul posto di lavoro. La sua storia ha scoperchiato un caso di corruzione troppo spesso confuso con il semplice malcostume: non consegnare scontrini e ricevute per chiedere poi rimborsi spese “fantasma”, indipendenti dalle spese reali sostenute, spesso con un tasso fisso mensile.

Vito Sabato -Quando c’è di mezzo la prescrizione. Anche la storia di Vito Sabato risale a oltre dieci anni fa. Nel 2006, quando era funzionario del Comune di Pavia, incaricato di revisionare le spese del trasporto pubblico, si accorse che diversi appalti comunali erano stati gonfiati. Era un caso di fondi fantasma, stanziati per lavori inesistenti. La denuncia ha dato i suoi frutti, portando alla condanna in secondo grado dei responsabili. Il dipendente è però stato emarginato sul posto di lavoro e ha subito pressioni psicologiche e stress che lo hanno portato a vedere riconosciuta la malattia professionale. Il triste epilogo della vicenda è l’arrivo della prescrizione in Cassazione, che ha mandato a monte il processo.

Enrico Ceci - Nei caveau delle banche. Uno dei più giovani whistleblower italiani è Enrico Ceci, che ha denunciato casi di violazione delle normative bancarie in due diversi istituti del nostro paese, il Banco Desio e la Cassa di Risparmio di Cesena. Ceci ha scoperto una falla che consente di far perdere le tracce del denaro contante, dissimulando la quantità presente in realtà nei cavaeu della banca. Dopo la denuncia ha perso il lavoro ma non gli è mai stato riconosciuto il licenziamento per giusta causa. Inoltre, approdato alla Cassa di Risparmio di Cesena, ha denunciato una seconda volta illeciti simili ma è stato nuovamente allontanato. Dopo anni di disoccupazione, si è rivolto direttamente a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac). 

Simone Farina - Dopo Calciopoli arriva Scommessopoli. È il 2011 quando Simone Farina, ex calciatore, denuncia una tangente che gli viene offerta per truccare una partita della Coppa Italia. Il valore è 200 mila euro. Con la sua azione di resistenza inizia lo scandalo di “Scommessopoli”. La vicenda coinvolge decine di allenatori, giocatori e partite a diversi livelli. Dopo la denuncia nessuna squadra scrittura più il giocatore. “Ho capito che bisogna entrare nelle scuole e insegnare ai giovani cosa significa il rispetto” sono le parole, amare, di Farina.

Philip Laroma Jezzi - Non fare l’inglese, fai l’italiano. Più recente, invece, la storia di Philip Laroma Jezzi (foto in alto), ricercatore universitario che ha dato il via all’indagine sui concorsi truccati a Firenze. Dopo aver registrato con il cellulare un docente che cercava di spiegargli “il sistema”, aggiungendo che se avesse fatto ricorso si sarebbe giocato la carriera, la notizia è finita sulle prime pagine dei quotidiani denunciando un meccanismo distorto che regola una parte dell’accademia italiana. “Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano” è quanto si è sentito rimproverare il ricercatore. Come a dire: qui si fa così e basta. 

Giambattista Scirè - Ancora tra i banchi dell’università. Un altro caso di “mala università” riguarda invece Giambattista Scirè, vincitore di un concorso da ricercatore a tempo determinato all’Università di Catania, mai assegnato all’incarico. Al suo posto è entrata una donna, di professione architetto. Nonostante il giudizio del Tar, che ha ritenuto “truccato” il concorso, Scirè non è mai arrivato a ricoprire il ruolo. La vicenda risale al 2011 ma l’equivoco, dopo tre diversi rettori succedutisi alla guida dell’Ateneo, non è ancora stato risolto. 

Andrea Franzoso - Il disobbediente. Chi denuncia è disobbediente. Viene emarginato e perde il lavoro. Compie un passo fuori dall’ordinario. È questo che emerge dalla storia di Andrea Franzoso, ex dipendente delle Ferrovie Nord di Milano, che ha denunciato spese improprie di alcuni funzionari dell’azienda. Grazie alle sue denunce l’ex presidente dell’azienda è indagato per peculato e truffa. Di recente ha pubblicato un libro dal titolo emblematico: “Il disobbediente”.

La storia di Andrea. «Ho denunciato i corrotti. E sono rimasto solo», scrive Daniela Fassini giovedì 12 ottobre 2017 su Avvenire. Andrea Franzoso ha sollevato il caso delle spese pazze che ha travolto i vertici di Ferrovie Nord. Ora in tanti vogliono seguire il suo esempio. Andrea Franzoso, il “whistleblower” italiano che ha denunciato le spese pazze di Trenord Milano. «Tre ricercatrici mi hanno chiamato una settimana prima che scoppiasse lo scandalo dei docenti-baroni. Ho anche accompagnato un funzionario pubblico in questura. Mi aveva chiesto aiuto per denunciare la corruzione e il malaffare nella sua amministrazione, ma non sapeva come fare». Andrea Franzoso è diventato il punto di riferimento per chi vuole "disobbedire". È lui il whistleblower, termine inglese poco felice che sta letteralmente per "soffiatore di fischietto". In pratica, un arbitro che ha fermato il gioco "sporco" del presidente della società per cui lavorava, l’allora numero uno di Ferrovie Nord Milano, Norberto Achille. La sua vicenda ha già fatto storia ed ora è anche un libro, "Il disobbediente", edito da Paper First, da oggi in libreria. «Chi ha problemi, si sfoga con me – prosegue Franzoso –. Tutti vorrebbero andare avanti, denunciare ma poi non hanno il coraggio. Magari hanno una famiglia, dei figli piccoli e hanno paura del futuro». Non deve aver passato momenti facili, Andrea. Ricorda ancora la voce del padre, dura e autoritaria dall’altra parte del telefono, che lo chiama dopo aver letto che il nome del figlio è in prima pagina su tutti i giornali. Andrea ha disobbedito e ha deciso di aprire gli occhi. Lui, funzionario addetto al controllo di bilancio, non poteva lasciar passare sotto silenzio le "spese pazze" del suo presidente.

La denuncia e l'emarginazione. Quei «17.232,94 euro» spesi in «ristoranti e locali notturni», o quei «14.511,29 euro» pagati con la carta di credito aziendale per «abbigliamento». O ancora quei «3.749,30 euro» per «scommesse sportive e poker online» e «124.296,92 euro» per «le spese telefoniche riferite ai telefoni cellulari aziendali dati in uso a moglie e figli». Un lungo elenco di spese personali, quasi 500mila euro di rimborsi pagati tutti con soldi pubblici. Andrea ha disobbedito: il 10 febbraio 2015 è andato dai carabinieri a «denunciare il suo presidente». Ha firmato, sapendo che avrebbe dovuto pagare un prezzo per tutto questo. Norberto Achille, l'ex presidente di Ferrovie Nord Milano denunciato da Andrea Franzoso per le sue spese pazze: coi soldi dei contribuenti pagava ristoranti, vestiti, automobili. Il 10 ottobre il pm di Milano Giovanni Polizzi ha chiesto per lui una condanna a 2 anni e 8 mesi nel processo abbreviato per peculato e truffa. «Lo rifarei ancora, altre cento volte» sottolinea. Il 18 maggio vengono notificati gli avvisi di garanzia. I dirigenti coinvolti nello scandalo si dimettono (nel processo abbreviato l’ex presidente Achille, accusato di peculato e truffa, «ha risarcito 465mila euro»). Nelle carte compare il suo nome, Andrea Franzoso. È lui la “gola profonda” delle Ferrovie Nord. È lui la spia e il traditore. Viene demansionato, gli creano una funzione ad hoc, di fatto inesistente. È solo in ufficio. Passa le giornate isolato. I colleghi, prima amici, lo tengono a distanza. Inizia la guerra con gli avvocati. Col legale decidono di percorrere la strada della «discriminazione personale», ma il giudice non la riconosce e la legge non aiuta.

La legge che ancora non c'è. Manca un riferimento legislativo per chi denuncia la corruzione e il malaffare. Anche dalla sua storia nasce così il disegno di legge a tutela del whistleblower, per chi segnala casi di corruzione sul posto di lavoro: è stato presentato dalla deputata del Movimento 5 Stelle, Francesca Businarolo, e approvato a gennaio alla Camera. Ora attende il verdetto del Senato. Intanto però, un anno fa, di fronte ad altri due o tre anni di "isolamento" prospettati dall’avvocato, Andrea decide di percorrere la "via di uscita": la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Cornuto e mazziato si direbbe al bar fra amici. Dopo aver avuto il coraggio di denunciare il malaffare, di fronte a tutto e a tutti. Andrea rimane senza lavoro, con un mutuo da pagare. Tira dritto, non si perde d’animo. Inizia a scrivere la sua storia personale: da quando, capitano dei carabinieri, decide di prendersi un anno di aspettativa per entrare nel noviziato dei Gesuiti. E poi la rinuncia e l’approdo, quasi per caso, a Ferrovie Nord Milano. In mezzo, ci sono tanti momenti spirituali: i colloqui con una monaca clarissa di Assisi, le amicizie con i certosini di Serra San Bruno, i lavori di fatica all’abbazia trappista di Tamiè, in Francia. Nel frattempo la sua pagina Facebook e il suo account Linkedin vengono inondati di messaggi. Da chi, nella sua stessa situazione, cerca aiuto. O da chi si congratula per quello che ha fatto. A chi gli chiede, conammirazione, perché lo ha fatto, lui risponde così: «C’è bisogno di cuori generosi, disposti a fare ciò che è giusto. Per il gusto dell’onestà».

Tutele a chi denuncia il malaffare. Approvata la legge sul "whistleblowing". In aula oggi a Montecitorio il sì definitivo. Il testo ha come prima firmataria la 5stelle Businarolo. "Ce l'ha già la Romania, che così ci ha superato nella classifica anti-corruzione". Indennità fino a 50 mila euro per chi subisce "punizioni" dopo aver segnalato abusi, scrive Francesca De Benedetti il 15 novembre 2017 su "La Repubblica". Francesca Businarolo esulta e fissa i numeri sul display, per lei sono le cifre di un piccolo trionfo: presenti a Montecitorio 418, favorevoli 357, "contraria Forza Italia" spiega lei (mentre i numeri sobriamente recitano: "46 contrari e 15 astenuti"). Ampia maggioranza: poco prima di mezzogiorno del 15 novembre, l'Italia mette a segno la sua "legge sul whistleblowing". Ci sono voluti quattro anni di lavoro: nel 2013 Businarolo, parlamentare 5 stelle e prima firmataria, avanzò la proposta. Ora, dopo ben un anno e mezzo di stallo al Senato, "il testo è approvato alla Camera, migliorato". Perché festeggiare? "Ha presente l'indice che misura la corruzione percepita nei vari Paesi? Bene, le dico solo questo: prima, l'Italia era messa male, agli ultimi posti, ma eravamo pur sempre messi meglio della Romania. Poi è successo che Bucarest si è dotata di una legge per proteggere i whistleblower, mentre noi eravamo fermi a discuterne in aula. Risultato? L'indice 2017 dice che ora noi siamo più 'corrotti' di loro. Ora possiamo finalmente ribaltare quei numeri", conclude Businarolo mentre la legge viene sdoganata. Gli Edward Snowden d'Italia potranno denunciare abusi e corruzione con le spalle (più) coperte. La novità. Sotto il cappello di "whistleblower", cioè tutti coloro che da insider scoprono una magagna (un abuso, un illecito, molto spesso un episodio di corruzione) e la rivelano, si nascondono le storie più diverse: negli Stati Uniti, c'è chi ha svelato storie sporche sul nucleare, sull'Fbi, sull'ambiente, o il Datagate come nel caso di Snowden. Lì però, nella maggior parte dei casi, lo Stato tutela e "paga" chi denuncia. Lo fa per interesse: "Una volta scovato l'episodio di corruzione, di evasione fiscale e così via, le casse pubbliche recuperano miliardi di dollari", come spiega l'avvocato Stephen Kohn che in Usa difende sentinelle celebri dagli anni '80. In Europa non esistono premi in denaro, anzi: molto spesso chi si espone, e denuncia, è lui a pagare; viene mobbizzato, licenziato, spende migliaia di euro per avvocati o psicologi. O finisce in tribunale, come Antoine Deltour, la sentinella dello scandalo LuxLeaks. Eppure anche in Europa, col fioccare delle denunce, si potrebbero rimpinguare le casse pubbliche: la Commissione europea ha stimato che il whistleblowing può valere qualcosa come 50 miliardi di euro. Pure per questo, il Parlamento italiano ha deciso di integrare le blande protezioni già contenute nella legge Severino. Con le nuove regole, l'aula stabilisce tutele più forti per i dipendenti pubblici e introduce le prime garanzie per chi lavora in aziende private e partecipate. Andrea, Giulia, Stéphanie.  Nel settore pubblico, chi denuncia con fondatezza non potrà essere demansionato, licenziato, trasferito, insomma "punito" per aver agito nell'interesse pubblico. Anzi: dovrà essere messo in condizione di fare la sua denuncia in condizioni di segretezza e attraverso precisi canali di segnalazione. La legge dice pure che se il datore di lavoro ti licenzia perché hai "spifferato", dovrà dimostrare - lui, non tu - che il motivo non è la tua soffiata (tecnicamente si chiama: "inversione dell'onere della prova"). Se viene fuori che il capo ti licenzia o mobbizza, dovrà pagare una sanzione (fino a 50mila euro); una sanzione spetterà pure al responsabile anticorruzione che non avesse dato il giusto seguito alla tua segnalazione. Le nuove regole, se fossero arrivate prima, avrebbero potuto cambiare le sorti di un po' di storie. Per esempio quella di Andrea Franzoso, il whistleblower nostrano più noto, che ha da poco pubblicato un libro-testimonianza ("Il disobbediente") e che rivelò le "spese pazze" di Ferrovie Nord: quella era appunto una partecipata, settore che, senza la nuova legge, rimane totalmente scoperto da protezioni ad hoc. E lui non esita ad ammettere che "questa legge è un buon punto di partenza". Gioisce anche Giulia Romano, ricercatrice pisana che ha denunciato irregolarità nei concorsi universitari e ha vinto il ricorso al Tar. Pure da oltralpe c'è chi esulta: "Meno male che le cose da voi migliorano un po'", commenta Stéphanie Gibaud, che portò a galla in Francia lo scandalo Ubs - un pasticcio di banche e evasione fiscale. Tallone d'Achille. Ma attenzione: per molti pasionari della soffiata, questa legge è solo un inizio. Lo stesso Franzoso nota molti punti deboli: "Gioisco che le nuove regole vadano in porto - dice - ma soprattutto per il settore privato, le protezioni rimangono deboli, e ancor più incerte per le aziende piccole e medie: non è detto che abbiano modelli organizzativi adeguati per garantire un sistema di segnalazione dell'abuso". L'associazione Transparency, che assieme a "Riparte il futuro" è tra le più attive nel pressing per l'approvazione delle tutele, sintetizza così - per voce di Giorgio Fraschini - punti forti e deboli: buona la protezione dell'identità di chi segnala, la possibilità per l'autorità anticorruzione (Anac) di imporre sanzioni, l'introduzione di tutele anche per il settore privato. Ma rimangono alcune debolezze: "Manca una protezione completa nel settore privato, nel senso che il modello non è obbligatorio, non sono previste misure di protezione per le segnalazioni a regolatori esterni o all'autorità giudiziaria. Nei procedimenti giudiziari, a un certo punto l'identità del segnalante potrebbe essere rivelata. Manca poi un fondo economico di ristoro per chi segnala". Insomma si può sempre migliorare: c'è chi sogna l'Irlanda, che ha da poco approvato una legge per "blindare" chi denuncia, o l'Olanda, che ha addirittura pensato a una "Casa per la tutela del whistleblower", con tanto di consulenze per far sentire la sentinella "accolta". Intanto però, c'è pure chi, come Businarolo, pregusta i primi successi: "Magari sorpassiamo la Romania...". 

Raddoppiano le denunce per "whistleblowing". I dati dell'Anac: "In media due segnalazioni al giorno, molte le segnalazioni in ambito amministrativo". Più casi al Sud, ma per l'Autorità la qualità delle indicazioni è ancora scarsa. Cantone: "Aumento non indica una crescita della corruzione", scrive il 28 giugno 2018 "La Repubblica". Gli "spioni" raddoppiano e il 90 per cento denunciano nel pubblico. Tante le segnalazioni di "whistleblowing", in media oltre due al giorno, negli ultimi cinque mesi rispetto al 2017. Lo riferisce l'Anac in un rapporto del 2018 sul whistleblowing, ovvero le segnalazioni di attività illecite nell'amministrazione pubblica o in aziende private da parte dei dipendenti che ne vengono a conoscenza. Da gennaio a maggio 2018, i fascicoli aperti dall'Anac sono stati 334, in tutto il 2017 sono stati 364, nel 2016 erano 174 e nel 2015 erano 125. Fra i casi segnalati "irregolarità nella fase di esecuzione contrattuale, esistenza di conflitto di interessi, violazione del codice di comportamento dei dipendenti, irregolarità nello svolgimento di procedimenti amministrativi, mancato rispetto delle disposizioni di servizio, denuncia di mobbing". Per quanto riguarda gli esiti, le segnalazioni si sono concluse con: "un provvedimento disciplinare per violazione del codice di comportamento, 4 archiviazioni, 2 invii alla Procura della Repubblica e 4 in corso di verifica per supplemento istruttorio (di cui 2 relative a segnalazioni afferenti l'esistenza di conflitto di interessi)". I whistleblower italiani sono soprattutto dipendenti pubblici, prevalentemente di Regione o ente locale, e in particolar modo lavorano nel sud Italia. Precisa infatti l'Anac: "Il segnalante è un dipendente pubblico nel 56,3 per cento dei casi (188 al 31 maggio 2018) e un dirigente pubblico nel 12,3 per cento dei casi". Chi segnala "lavora prevalentemente nelle regioni o negli enti locali (36.2 per cento). A seguire, altre amministrazioni (ministeri, enti, autorità portuali) 17 per cento, istituzioni scolastiche (università, conservatori, licei) 16,8 per cento, aziende sanitarie e ospedaliere (15per cento)". Quanto, infine, alla provenienza geografica delle segnalazioni, l'Anac riferisce: "Sud e isole 42,8 per cento, Nord 32,3 per cento, Centro 21,8 per cento, estero 0,6 per cento" e poi c'è anche un 2,4per cento di "non indicato". Nonostante l'aumento delle segnalazioni, l'Anac indica però alcune criticità, quali la scarsa fiducia nell'istituto del whistleblowing e la scarsa qualità delle segnalazioni. L'autorità nazionale anticorruzione ha anche evidenziato un "utilizzo improprio dell'istituto, con segnalazioni riferite a materie non di competenza (casi personali, provvedimenti disciplinari ritenuti ingiusti, mancate progressioni di carriera, procedure concorsuali illegittime, mobbing, etc.)". A questo proposito però il presidente Cantone sottolinea: "Il rapporto presentato oggi è fatto da luci e ombre, restano alcune criticità però c'è un miglioramento sulla qualità e la quantità delle segnalazioni". Per Cantone "l'incremento delle segnalazioni non è il segnale se c'è un aumento della corruzione, ma al contrario è il segnale dell'aumento dell'anticorruzione e significa che le persone non girano più la testa dall'altra parte". Cantone ha inoltre posto l'accento sulla necessità di un miglioramento normativo: "Le segnalazioni potrebbero ulteriormente aumentare se ci fosse un minimo di certezza sulla tutela del whistleblower". Tra le segnalazioni più eclatanti, le 56 che riguardano l'Agenzia delle entrate. Sul totale 43 anonime e 11 si sono concluse con l'arresto di dipendenti". Fra i casi denunciati: "comportamenti non conformi ai doveri d'ufficio, accesso indebito ai sistemi informativi, utilizzo improprio di istituti di tutela del dipendente (legge 104, malattia, etc.), tenore di vita incongruente con la posizione giuridica del dipendente, attività incompatibile con lo status di dipendente dell'agenzia, irregolarità nel comportamento dei superiori (vessazioni, decisioni non conformi a leggi o prassi, favoritismi, etc.)". Spicca anche il caso Ausl di Bologna, con 12 segnalazioni nel 2017, di cui 2 anonime. Fra i casi denunciati quello di presunto illecito accaparramento della clientela da parte di imprese funebri presso la camera mortuaria. Per risolvere il problema, l'amministrazione ha rivisto le modalità delle informazioni sui decessi comunicate alle portinerie degli ospedali.

I whistleblower cambieranno il mondo, ma stanno rovinando il cinema, scrive il 31 marzo 2018 "L'Inkiesta". The Silent Man, di Peter Landesman, è solo l'ultimo dei film che negli ultimi anni sono stati dedicati ai più importanti informatori-talpe degli ultimi anni, ma speriamo sia l'ultimo, perché sono tanto importanti nella realtà quanto inutili e noiosi al cinema. Quando fu usata per la prima volta, in un articolo pubblicato dalla The Janesville Gazette nel giugno del 1883, la parola whistle blower non era nemmeno una parola, ma due, e stava lì a identificare una professione, quella del poliziotto, che soffiava nel fischietto per denunciare una irregolarità, un reato, o qualsiasi altro disturbo della quiete e delle pace pubblica vedesse accadere davanti ai suoi occhi, in flagrante. Bisogna aspettare il pieno Novecento, più esattamente il dicembre 1969, per leggerla per la prima volta accorpata in una parola sola, unita da un trattino tra whistle e blower. È la prima volta che il termine prende l'accezione che usiamo ora, quella di testimone, e in quel dicembre di fine anni Sessanta se la meritò Ronald Ridenhour, militare statunitense che, testimone di un massacro di civili vietnamiti, rivelò la storia alla stampa. In anni più recenti, poi, anche il trattino è caduto, e whistleblower si è guadagnato la dignità di essere una parola singola, andando a qualificare persone molto diverse tra loro, che in punti diversi dello spazio e del tempo hanno messo in pericolo la propria vita e la propria libertà per portare alla luce storie che altrimenti sarebbero rimaste segrete, chiuse in faldone segretati e dimenticati negli archivio di mitologici servizi segreti, o lexlutoriche aziende e banche private. È da almeno quarant'anni che i whistleblower stanno cambiando il mondo. Da Daniel Ellsberg, che fece esplodere il caso dei Pentagon Papers, al leggendario Mark Felt, che altri chiamano Deep Throat, la celebre gola profonda dello scandalo del Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon a cui Peter Landesman ha dedicato il suo ultimo film, The Silent Man, fino ai loro nipotini, gli Edward Snowden, le Chelsea Manning, gli Hervé Falciani, motori primi degli scandali che hanno travolto NSA, alimentato i Wikileaks e dato il via ai cosiddetti Luxleaks. Praticamente ad ognuna delle loro storie, negli ultimi anni, è stato dedicato un film: dal documentario su Edward Snowden di Laura Poitiers fino alla storia di Julian Assange e di Wikileaks raccontata in The fifth estate, passando per la ricostruzione dell'affare dei Pentagon Papers e della storia di Daniel Ellsberg ad opera di Steven Spielberg in The Post, fino ad arrivare a quest'ultimo The Silent Man, in uscita in Italia il 12 aprile, interpretato da un ottimo Liam Neeson, ma in fondo talmente didascalico da risultare inutile, esattamente il contrario della storia che racconta. C'erano tante schegge di grandezza nella storia di Mark Felt, uno dei più alti ufficiali dell'FBI in attività fino al 1973. Lui, che all'insaputa di tutti fu il diretto responsabile della fuga di notizie che portò allo scandalo del Watergate e alle storiche dimissioni di Richard Nixon e che fu per oltre quarant'anni capace di convivere con il proprio segreto. Ce n'erano tante di schegge di grandezza, ma praticamente nessuna sopravvive alle due ore di questo film piatto e didascalico, in cui l'unico a portarsi a casa la sufficienza (e la permanenza nei ricordi dello spettatore per più di dieci minuti dopo la fine del film) è il faccione di Liam Neeson. Tutto il resto può al limite ambire ad essere una pesantissima pietra tombale su quello che è diventato ormai un genere cinematografico, quello dei “whistleblower”, figure sempre più centrali e decisive nel panorama politico e sociale dei nostri anni, ma ormai poco più che pallide controfigure, inutili nella loro dimensione cinematografica, gente che dobbiamo proteggere e santificare nella realtà, ma per carità, lasciamoli alle pagine dei giornali.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Il dr Antonio Giangrande denuncia le ritorsioni: «Sono scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”.

Il sistema mi impedisce: di pubblicare i miei libri; di insegnare nelle università ciò che ho scoperto  in 20 anni di studi sulla società italiana; di pubblicare i miei articoli; di esercitare la professione di Avvocato per potermi sostenere economicamente e per poter difendere nelle aule dei tribunali chi non può; di operare come associazione antimafia, perchè non di sinistra; di far conoscere la mia opera letteraria.

A causa della mia attività, per anni, con due cifre, sono stato vittima di bocciature ritorsive al concorso forense, che tutti ritengono truccato. Da ciò è scaturita la mia disoccupazione ed indigenza. Addirittura, ho ritenuto maturo ed opportuno tutelare i miei diritti. In presenza di innumerevoli irregolarità commesse a mio danno dalla Commissione di Reggio Calabria, competente a correggere i compiti della sessione 2008 del concorso forense dei candidati di Brindisi, Lecce e Taranto, (elaborati non corretti, commissione illegittima, ecc.) e in virtù della consapevolezza delle mie ragioni sostenute dalla folta giurisprudenza, ho presentato, senza l’ausilio dei baroni del Foro, l’istanza per poter accedere al gratuito patrocinio per presentare il ricorso al Tar. Pur essendoci i requisiti di reddito e nonostante le eccezioni presentate fossero già state accolte da molti Tar, la Commissione presso il Tar di Lecce mi nega un diritto palesemente fondato e lo comunica, malgrado l’urgenza, un mese dopo, a pochi giorni dalla decadenza del ricorso principale. Hanno rilevato una mancanza di fumus, con un sommario ed improprio giudizio di merito senza contraddittorio e su elementi chiarissimi ed incontestabili. E’ stato fatto da chi, direttamente o per colleganza, avrebbe deciso, comunque, il proseguo, nel caso in cui il ricorso al Tar sarebbe stato presentato in forma ordinaria, inibendone l’intenzione. Per dire: subisci e taci. Lo hanno comunicato dopo un mese, nel pieno delle ferie e a 15 giorni dalla decadenza del ricorso principale al TAR, impedendo, di fatto, anche la proposizione del ricorso in forma ordinaria.

Mi sono rivolto al Governo per l’insofferenza delle istituzioni rispetto alle segnalazioni dei concorsi pubblici truccati, impuniti e sottaciuti, specialmente accademici, giudiziari, forensi e notarili, e ho segnalato la collusione della giustizia amministrativa per l’impedimento al ripristino della legalità. Fenomeno seguito dall’indifferenza, spesso indisponenza dei media. Il Governo mi ha risposto: hai pienamente ragione, provvederemo, stiamo già lavorando. Provvedimento mai arrivato.

Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono qui.

Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi, in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in procedimento penale.

Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia a Potenza è stata presentata da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del personale. La stessa procura di Taranto ha già cercato, non riuscendoci, di farmi condannare per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farmi condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il mio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione infondata, tant’è che il vero responsabile è stato accertato nel dibattimento che ne è seguito; ovvero di farmi condannare per lesione per essermi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirmi di presenziare all’udienza contro l’aggressore; ovvero farmi condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura e di un avvocato che vinceva le cause, in cui a giudicare era un suo ex praticante; ovvero di farmi condannare per aver denunciato che a Taranto i magistrati responsabili di errori giudiziari erano gli stessi ad avere, in conflitto d'interesse, la competenza sulla loro declaratoria.

Procedimenti a mio carico sempre con impedimento alla difesa.

Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro l’ex Giudice di Milano, Clementina Forleo. Da questa acclamata incompetenza territoriale il fascicolo è passato a Taranto. La procura di quel foro, reitera il sequestro dell’intero sito, in cui, alla pagina di Taranto vi era un corposo dossier sull’operato degli stessi uffici giudiziari. Da un conflitto d’interessi ad un altro.

Potenza, foro in cui non si è proceduto contro un giudice del tribunale di Manduria, sezione distaccata di Taranto, che pensava bene di dare un esito negativo a tutte le cause in cui compariva Giangrande Antonio, come imputato o come difensore di parte, nonostante le ampie prove dimostrassero il contrario.

Ma le ritorsioni non si fermano qui. A Santi Cosma e Damiano (LT) un Consigliere Comunale, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati. Da questa meritoria attività è conseguita una duplice Interrogazione Parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio della Regione Lazio. Dalle risposte istituzionali è scaturita una vasta infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei Consigli Comunali di Santi Cosma e Damiano e di Minturno. Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici sui siti associativi, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a danno del Consigliere Comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande. Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma si è dichiarata competente e pronta a procedere. Roma e non Latina o Taranto (foro del reato o dei presunti responsabili).

Da tutti questi tentativi, atti ad intimorire ed ad indurre alla tacitazione, nessuna condanna è scaturita. Anzi, molti procedimenti penali sono rimasti nel limbo, spesso fermi per anni per pretestuosi errori formali: insomma nel dibattimento non si voleva che uscisse la verità o che si presentasse istanza di ricusazione.

La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi, alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore insabbiamento.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie, ai sensi degli artt. 21 e 118, comma 4, Cost., svolge attività di interesse generale e di utilità pubblica di informazione, di denuncia e di proposta, sulla base del principio di sussidiarietà.

Nonostante ciò non percepisce alcun finanziamento, né affidamento dei beni confiscati alla mafia, né alcuno spazio mediatico: solo perché non è di sinistra.

Tutte le Tv locali non offrono spazi nei loro programmi di approfondimento, nonostante l’apporto di competenza e di audience.

Tutte le tv nazionali non si avvalgono degli spunti esclusivi sulle tematiche nazionali.

Ballarò di Rai tre, invia una troupe da Roma, per un servizio sui concorsi truccati: servizio mai andato in onda.

RAI 1 stravolge il palinsesto per censurare lo spazio dedicato ad una associazione riconosciuta dal Ministero dell’Interno e che combatte in prima linea tutte le mafie. 10 minuti, il programma dell’accesso, previsto il 23 novembre 2007 alle 10.40, non è andato in onda. Nessun avviso, o comunicato, o motivazione è pervenuto alla sede dell'associazione, nè da parte della RAI, nè dalla Commissione di Vigilanza.

Da qui l'interrogazione parlamentare del senatore Giovanni Russo Spena, per chiedere perché è stato censurato il servizio, ovvero perché si è inviata la troupe da Roma per un servizio mai trasmesso, con aggravio di costi per l’azienda RAI.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente colluso o codardo, non accetta di subire e di tacere.»

Combatte per la LEGALITA’ e la tutela e la rappresentanza dei diritti di tutti i cittadini contro gli interessi di caste, lobby, mafie, massonerie. E’ nemico delle ideologie, che non ascoltano, ma impongono la loro visione delle cose, spesso con la forza. Unico strumento è l’informazione senza omertà o censura, tramite inchieste telematiche tematiche e territoriali; libri; film, ecc.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato. Da qui la sentenza di l’assoluzione emessa il 19 aprile 2016. Da qui la sentenza di l’assoluzione emessa il 19 aprile 2016 sulla querela del dr. Alessio Coccioli Sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto, prima, e di Lecce, poi.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande. Procedimento 907/2011 RGNR e sentenza n. 530/2014.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo il 25 novembre 2010 ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. I fatti de quo, oggetto di imputazione, sono già stati materia di giudizio reso in data 23 gennaio 2014 (n. 147/2014) dal giudice del Tribunale di Taranto in composizione monocratica, dr.ssa Maria Christina De Tommasi, attivata su denuncia dellla Cavallo del 10 giugno 2005 con procedimento 5089/05 RGNR dalla dr.ssa Pina Montanaro, nonostante la frase incriminata era riportata su siti web non riconducibili al Giangrande, col proseguo n. 2612/06 (Gip Ciro Giore e Pompeo Carriere) e 10306/06 – 10346/10 RGNR di Manduria (giudici monocratici Rita Romano, ricusata, Vilma Gilli e Maria Christina De Tommasi). Tale dispositivo disponeva il non doversi procedere nei confronti del Giangrande per intervenuta prescrizione di cui al capo B (Diffamazione non accertata) ed assoluzione per il reato di cui al capo A (calunnia infondata perché denunciato un fatto vero e non dal Giangrande) per non aver commesso il fatto. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso il 30 luglio 2014 dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio su richiesta del sost. Procuratore della Repubblica Mariano Evangelista Buccoliero. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato a seguito di opposizione predisposto dal GIP Giuseppe Tommasino presso il Tribunale di Taranto e fissato per l’1 febbraio 2011. Il processo 1937/11 RGNR è passato dal giudice Got dr.ssa Vita Lavecchia al togato dr.ssa Sara Gabellone, che il 24 settembre 2018 ha emesso sentenza di proscioglimento n. 2076/2018.

Insomma a Taranto tutti vogliono condannare Antonio Giangrande, ma nessuno, sembra, voglia assumentrsi la responsabilità di farlo in prima persona.

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

Vogliono distruggermi. Ma neanche da morta riusciranno a fermarmi. Parla l’avvocato Anna Maria Caramia, simbolo della lotta contro la malagiustizia della sezione fallimentare del tribunale civile di Taranto, scrive Michele Finizio il 20 marzo 2018 su "Basilicata 24". Annamaria Caramia, avvocato delle vittime delle procedure fallimentari nel tribunale di Taranto. E’ diventata il simbolo della lotta alla mala giustizia subita dagli esecutati. La sua esperienza è raccontata in un libro dal titolo emblematico: “Ho toccato la Casta. Oltre la magistratura”.

Avvocato Caramia, sappiamo che hanno venduto all’asta una casa di circa 300 metri quadrati al prezzo vile di euro 35mila e i debiti dell’esecutato ammontavano a 130mila.  Sappiamo che il tribunale di Taranto ritiene che 35mila non sia prezzo vile e che sarebbe sufficiente a pagare i debiti ‘in modo parziale ma non apparente’. E’ possibile?

«E’ la realtà, anzi un lembo di realtà, c’è di peggio, molto peggio. E aggiungo che i 35mila euro sono al lordo delle spese di procedura esecutiva che, per una procedura che dura dal 1995, possono aggirarsi intorno ai 15mila se non 20mila. Quali debiti si possono pagare? La conseguenza è che l’esecutato resta senza casa e con i debiti, ed oltre ad essere espropriato non può nemmeno ricominciare!»

Lei da anni difende cittadini nei procedimenti della sezione civile fallimentare di Taranto, sta cambiando qualcosa, magari anche grazie alle sue battaglie?

«Direi di sì, in peggio però. Oltre ad agire spesso contro legge, a calpestare i diritti sacrosanti degli esecutati, i soliti noti giudici tarantini fanno la guerra all’avvocato che da anni difende questa povera gente. Ormai è prassi revocarmi i provvedimenti di ammissione ai gratuiti patrocini, già disposti nei confronti dei clienti. E queste revoche sono disposte sulla base di una mia presunta malafede e colpa grave nell’azione giudiziaria».

Ci spieghi la colpa grave e la mala fede.

«A titolo di esempio, nell’ipotesi del Tizio a cui hanno venduto la casa di trecento metri a 35mila euro, la mala fede e colpa grave consisterebbe nel fatto che il mio assistito avrebbe chiesto tutela sulla scorta di ragioni che il tribunale ritiene infondate, ma che io ritengo, al contrario assolutamente legittime e veritiere, tanto da voler portare la questione sino al Giudice dell’ultima istanza, ovvero la Cassazione. E, poi, a dire dei magistrati della sezione, 35 mila euro per quasi trecento metri non sarebbe prezzo vile e 20mila o addirittura 15 mila sono sufficienti per pagare 135 mila euro. Ma le pare possibile questo?»

Lei come ha reagito dinanzi a questi provvedimenti?

«Io ho impugnato il provvedimento di revoca del gratuito patrocinio dinanzi al tribunale e il giudizio sarà trattato dal presidente, anche se lo stesso, a tenore di codice, mi sarebbe incompatibile per inimicizia dimostratami in un pretestuoso esposto disciplinare.

Esposto disciplinare dal presidente del tribunale?

«Sì. Ormai è notoria e palese l’inimicizia dimostratami da parte dei magistrati delle sezioni esecuzioni e fallimenti – qualcuno più degli altri, ma tutti allineati – a tal punto da aver ricevuto un esposto all’Ordine degli Avvocati a firma del presidente del Tribunale, su relazione del Presidente della sezione esecuzione. Si rende conto?»

Quindi?

«A loro dire, io sarei avvezza minacciare i giudici di fargli causa se non mi danno ciò che io chiedo. Eppure nella questione per cui mi hanno fatto esposto io mi ero limitata ad esercitare il dovere di difesa in favore di un giovane padre che sta perdendo la casa all’asta e si era limitato a chiedere di sospendere la vendita per evitare eventuali danni che, ove rivelatisi ingiusti, avrebbero generato un diritto al ristoro nei confronti dei responsabili; per non dire che si avvedono della mia “minaccia” dopo quasi due anni da quando l’avrei posta in essere! Ridicolo! La loro azione di attacco è infondata e strumentale».

Mi si accusa anche del fatto che i miei clienti, poveri falliti ed esecutati, avrebbero denunciato i giudici per tentare di condizionare quello che loro definiscono il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, ma solo per loro è corretto! Ormai è notorio il grido di strazio che si eleva dalla gente a causa delle pessime gestioni delle procedure espropriative!

«E’ come dire che non si può e non si deve denunciare un’irregolarità commessa da un giudice. Ridicolo. Tutti questi addebiti sono un’offesa all’intelligenza».

Ma come fa a patrocinare in un ambiente così ostile?

«Per amor del vero, non accuso l’intera magistratura, anzi, una piccola parte di essa. Ma devo dire che mi è capitato di patrocinare in cause (sempre della stessa sezione) che dovevano essere decise da chi mi ha dimostrato astio e ne ho sollecitato l’astensione per la grave inimicizia, ma a volte non ho ottenuto nessuna risposta e comunque il solito rigetto. Altre volte il presidente del tribunale si è pronunciato confermando il magistrato che sarebbe incompatibile. Ma dimentica, il presidente del tribunale di Taranto (Franco Lucafò nda), che è lui, nella qualità di primo giudice, che mi ha dimostrato astio ed inimicizia sottoscrivendo l’esposto dagli addebiti inconsistenti!»

Lei sta dichiarando fatti molto gravi.

«Gravi? Direi inconfutabili. A proposito dell’imparzialità, segnalo che i magistrati tarantini delle sezioni esecuzioni e fallimenti dimostrano di ignorare le norme del codice di rito che impongono di astenersi in caso di amicizia o inimicizia ed anche quelle per cui chi ha trattato di un giudizio in un grado, non può occuparsene in altra fase. A Taranto accade, al contrario, che i soliti noti – per fortuna pochi – trattano i giudizi in più fasi. Assurdo».

Lei nel suo libro scrive di essere vittima di un accanimento professionale da parte del Tribunale.

«Subisco accanimento professionale, certo, e non posso lavorare più, per evitare di danneggiare i clienti. La mia difesa è ormai diventato un pericolo per i clienti: è forte il rischio per cui i giudici, per il semplice fatto che a difenderli sia la sottoscritta, rigettino qualunque richiesta. Ricordo che un collega anziano, il 15 marzo 2017 – non posso dimenticare nemmeno il giorno – mi disse che non potevo continuare a fare l’avvocato perché è una vita che prendo schiaffi lì e tutti lo sanno!»

A proposito di accanimento dalle pagine del suo libro emerge qualcosa di più grave. Addirittura tra le righe si legge che qualcuno avesse organizzato o programmato qualcosa di più inquietante del classico e fisiologico accanimento professionale. Lei conferma questa ipotesi?

«Preferirei non rispondere».

Lei sta reagendo a questa situazione, in che modo?

«E’ difficile in un contesto come quello del tribunale civile tarantino, reagire senza subire gravi contraccolpi personali e professionali. E’ un sistema che alcuni miei clienti, vittime dell’ingiustizia, hanno definito “criminale”. Un sistema finalizzato allo sfruttamento dei fallimenti e delle esecuzioni, spesso gestiti ad arte. Vendite a prezzo vile, procedimenti di durata trentennale, irregolarità nelle procedure e anomalie negli incarichi a consulenti, periti, avvocati. Ho rivolto le mie lagnanze anche al presidente Mattarella e al Ministro della Giustizia, oltre che al Csm ed altri, ma ho ottenuto il nulla!»

Mi scusi, lei prima ha detto che c’è di peggio, molto peggio. Quindi ci sarebbero fatti ancora più gravi in relazione alla gestione della giustizia da parte di alcuni giudici a Taranto, ci può dire qualcosa di più?

«A presto.»

Tenente Giuseppe Di Bello. A Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. Tenente della polizia provinciale di Potenza. A Potenza viene sospeso e condannato. Servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016.

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!”. Scrive “Potenza News” il 5 aprile 2016. Il tempo ha dato ragione al Tenente di Polizia Provinciale, Giuseppe Di Bello, il primo a denunciare l’inquinamento presso l’invaso del Pertusillo (Potenza). A seguito dei risultati delle analisi sull’inquinamento delle acque, effettuate da Di Bello nel 2010 (durante il tempo libero ed a proprie spese) attestanti l’enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi, decise di denunciare tutto alla magistratura. Affidò a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, le analisi al fine di divulgarle. Alla magistratura si rivolse anche l’allora assessore regionale all’Ambiente, Vincenzo Santochirico, che denunciò il Tenente per procurato allarme. E così oltre al danno anche la beffa, Di Bello fu denunciato per violazione del segreto d’ufficio, immediatamente sospeso dall’incarico e dallo stipendio per due mesi. Da sei anni, in attesa del processo, Di Bello ha accettato di prestare servizio presso il Museo Provinciale come addetto alla sicurezza del museo. La Cassazione annulla la condanna a 2 mesi e 20 giorni (anche se con rinvio) e Di Bello torna più forte di prima e forma una squadra invincibile, per le ricerche volontarie, formata da una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale. Ecco cosa racconta di aver trovato, Di Bello e la sua squadra, sul letto dell’invaso del Pertusillo: «Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. È evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perchè sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata».

“Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio con Il Fatto Quotidiano lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «Mi chiamo Giuseppe Di Bello, sono tenente della polizia provinciale ma attualmente faccio il custode del Museo di Potenza. Da sei anni sono stato messo alla guardia dei muri, trasferito per punizione perché ho disonorato la divisa che porto. L’ho disonorata nel gennaio del 2010 quando mi accorgo che la ghiaia dell’invaso del Pertusillo si tinge di un colore opaco. Da bianca che era la ritrovo marrone. Affiora qualche pesciolino morto. L’invaso disseta la Puglia e irriga i campi della Lucania. Decido, nel mio giorno di riposo dal lavoro, di procedere con le analisi chimiche. Evito di far fare i prelievi all’Arpab, l’azienda regionale che tutela la salute, perché non ho fiducia nel suo operato. Dichiara sempre che tutto è lindo, che i parametri sono rispettati e io so che non è così. L’Eni pompa petrolio nelle proprie tasche, e lascia a noi lucani i suoi veleni. Chiedo la consulenza di un centro che sia terzo e abbia tecnologia affidabile e validata. Pago con soldi miei. Infatti le analisi confermano i miei sospetti. C’è traccia robusta di bario, c’è una enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi. E’ in gioco la salute di tutti e scelgo di non attendere, temo che quei documenti in mano alla burocrazia vadano sotterrati, perduti, nascosti. Perciò le analisi le affido a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, affinchè le divulghi subito. Tutti devono sapere, e prima possibile! Decido di denunciare i fatti alla magistratura accludendo le analisi che ho fatto insieme a quelle precedenti e ufficiali dell’Arpab molto più ottimistiche e tranquillizzanti ma comunque anch’esse costrette a rilevare delle anomalie. Alla magistratura si rivolge anche l’assessore regionale all’Ambiente che mi denuncia per procurato allarme. Il presidente della Regione, l’attuale sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, dichiara pubblicamente che serve il pugno duro. Infatti così sarà. I giudici perquisiscono l’abitazione di Bolognetti alla ricerca delle analisi, che divengono corpo di reato. Io vengo denunciato per violazione del segreto d’ufficio, sospeso immediatamente dall’incarico e dallo stipendio (il prefetto mi revocherà per “disonore” anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza) mentre l’invaso del Pertusillo si colora improvvisamente di rosso, con una morìa di pesci impensabile e incredibile. Al termine dei due mesi di sospensione vengo obbligato a consumare le ferie. Parte il procedimento disciplinare, mi contestano la lesione dell’immagine dell’ente pubblico e mi pongono davanti a un’alternativa: andare a fare l’addetto alla sicurezza del museo o attendere a casa la conclusione del processo. E’ un decreto di umiliazione pubblica. Ma non mi conoscono e non sanno cosa farò. Infatti accetto l’imposizione, vado al museo a osservare il nulla, ma nel tempo libero continuo a fare quel che facevo prima. Costituisco un’associazione insieme a una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale e procedo nelle verifiche volontarie. Vado col canotto sotto al costone che ospita il pozzo naturale dove l’Eni inietta le acque di scarto delle estrazioni petrolifere. In linea d’aria sono cento metri di dislivello. Facciamo le analisi dei sedimenti, la radiografia di quel che giunge sul letto dell’invaso. Troviamo l’impossibile! Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. E’ evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. Anzi, a volerla dire tutta è un colabrodo! La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?”.

Intervista di V.Pic. per il “Corriere della Sera”.

Tenente Giuseppe Di Bello, il rischio di disastro ambientale lei lo denuncia da anni. Perché?

«Nel gennaio 2010 avevo visto cambiare il colore dell'invaso del Pertusillo, sotto il bivio di Montemurro. C'era una patina anomala. Ho fatto fare le analisi. C' erano metalli pesanti, idrocarburi alogenati e clorurati cancerogeni. Come ufficiale di polizia provinciale ho sporto denuncia. Ma sei mesi dopo, l'indagine è stata archiviata. Intanto sono stato sospeso dal servizio per rivelazione di segreti d' ufficio: quelle analisi, su cui però non hanno fatto controlli».

Ha fatto altre analisi?

«Sì, a spese mie, anche quando sono tornato in servizio in un museo. Nel 2011 con un canotto a remi ho prelevato i sedimenti sui fondali dell'invaso. Ho trovato 559 mg/kg di idrocarburi, e metalli pesanti in misure elevatissime. E dopo è andata anche peggio. Sotto il pozzo di reiniezione, Costa Molina 2, c' erano alifatici clorurati cancerogeni 7.000 volte oltre i limiti. Era la prova che il pozzo perdeva. Ora è stato sequestrato. Vicino al Tecnoparco in Val Basento (partecipato al 40 per cento dalla Regione), a Pisticci, nei pozzi dei contadini c' erano sostanze cancerogene anche 1.000 volte oltre i limiti. Mi hanno denunciato ancora, ma purtroppo avevo ragione».

Di chi è la colpa?

«Il procuratore Roberti ha parlato di mafia dei colletti bianchi. Truccano i codici dei rifiuti da pericolosi a non pericolosi. E inquinano la falda, da anni. Ma sono i pozzi vuoti il vero affare perché reiniettano ad oltre 300 atmosfere veleni nelle viscere della terra. Arpab non ha mai controllato, la Asl si è allineata e la Regione ha sminuito. Il peggio può ancora arrivare».

Cioè?

«Il rischio è che, grazie allo sblocca Italia, si sblocchino altri 18 permessi. In Val d' gri con un'autorizzazione sono stati fatti 50 pozzi, già in funzione. La Lucania fornisce acqua potabile a gran parte del Sud Italia. Se va così non ce ne sarà più».

LA PROVINCIA DI POTENZA, DOPO IL SERVIZIO DELLE IENE, SI PRONUNCIA SULLA QUESTIONE "DI BELLO". A seguito del servizio sul petrolio in Basilicata e l’intervista a Giuseppe Di Bello andato in onda Domenica 17 Aprile su Italia 1 realizzato dalla trasmissione televisiva “Le Iene” arriva la risposta dalla Provincia di Potenza, scrive “Potenza News” il 19 aprile 2106. Riportiamo integralmente la precisazione del Direttore Generale dell’Ente, dopo aver ascoltato il Comandante della Polizia provinciale: “La Provincia di Potenza non ha sospeso preventivamente il ten. Giuseppe Di Bello, ma a seguito del provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, notificato all’interessato il 25 maggio 2010, ha provveduto, in data 27 maggio 2010, alla “sospensione cautelare dal servizio” dello stesso, per la durata di due mesi, ai sensi dell’art 5 del CCNL 11-04-2008 comparto Regioni ed Autonomie locali. L’Amministrazione ha applicato dunque una “misura cautelare interdittiva” (artt. 289 e ss. C.p.p.), la quale è stata richiesta dalla Procura della Repubblica e concessa con Ordinanza del Tribunale di Potenza (sez.G.I.P. n.24/10), ed ha avviato, quindi, il procedimento disciplinare ai sensi delle norme di legge. Trascorsi i due mesi, durante i quali il dipendente Di Bello ha comunque percepito quanto nel caso specifico è previsto dal CCNL (un’indennità pari al 50% della retribuzione base mensile, la retribuzione individuale di anzianità, ove acquisita, e gli assegni del nucleo familiare, con esclusione di ogni compenso accessorio) ed a seguito dell’ordinanza con cui il Gip dichiarava la perdita di efficacia della predetta misura cautelare, l’amministrazione ha riammesso tempestivamente il dipendente Di Bello in servizio, in data 26 luglio 2010, ripristinandogli l’intera retribuzione mensile. A tutela della posizione economica e lavorativa del dipendente, l’azione disciplinare – che avrebbe potuto comportare la sua sospensione dal servizio, senza stipendio – è stata interrotta in attesa della sentenza definitiva, nel rispetto del principio di presunzione di innocenza. Sempre per consentire il mantenimento in servizio del lavoratore con relativo stipendio, il procedimento disciplinare è rimasto sospeso anche dopo le condanne nei primi due gradi di giudizio e lo è tutt’ora nelle more della pronuncia definitiva dell’autorità giudiziaria. La sentenza della Corte di Cassazione ha infatti annullato la sentenza della Corte di appello di Potenza, ma non ha assolto Di Bello, rinviando la decisione finale alla Corte di Appello di Salerno. L’Ufficio per i procedimenti disciplinari della Provincia di Potenza, pertanto, non ha ancora assunto alcun provvedimento a carico del lavoratore. L’assegnazione temporanea di Di Bello presso il Museo provinciale è avvenuta in piena condivisione con l’interessato e con la rappresentanza sindacale unitaria (Rsu), di cui all’epoca faceva parte. Si è trattato di un percorso condiviso, teso a contemperare la garanzia stipendiale e la tutela del lavoratore assoggettato a procedimento penale con le esigenze dell’amministrazione, relative alla necessità di completare la riorganizzazione dei servizi museali, compreso quello di vigilanza. L’attuale compito cui egli è assegnato non costituisce affatto un “demansionamento”, dal momento che Di Bello assolve alle mansioni previste per il suo profilo professionale quale tenente del corpo della Polizia Provinciale ed ha percepito, e tutt’ora percepisce, le indennità previste dal ruolo e dalla funzione al pari di tutti gli altri agenti e sottoufficiali del servizio”. Dunque stando a queste dichiarazioni il tenente Di Bello per indossare nuovamente la divisa dovrà attendere l’iter burocratico della giustizia.

In Italia vige una regola inviolabile: in tv e sui giornali non si contesta il dogma dell’infallibilità di Magistrati e Giornalisti.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie è oscurata dai media perché viola questa norma non scritta. Il sodalizio nazionale, però, spopola sul web. Che essa abbia dovuto rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti Umani per l’insabbiamento di 16.000 denunce presentate dai suoi associati, sembra poca cosa per la stampa nazionale. Ciò non ci esime dal pubblicare l’ennesima storia di ingiustizia. Le innumerevoli denunce ritorsive per diffamazione a mezzo stampa contro di noi da parte della magistratura non ci impedisce di riportare gli articoli di giornalisti coraggiosi citati in calce. Loro, come noi, esercitiamo il sacrosanto diritto di critica e di informare.

Per raccontare la verità in questo Paese, servono tanti quattrini. Se ti avventuri sfidando il potere, ti verranno tolte anche le mutande. In questa palude immobile, possiamo serenamente affermare che la disuguaglianza tra ricchi e poveri è una continua tortura. Ci raccontano balle, facendoci credere che la legge è uguale per tutti poi, ti spogliano economicamente per ridurti sino al silenzio. La legge non è uguale per tutti ma è un privilegio di pochi, di quei pochi che, per difendere la propria libertà, mettono in campo il loro conto in banca e possono permettersi di pagare “l’avvocato più in gamba della città” e tutte le spese che la giustizia richiede. Molti altri italiani, semplici cittadini, non potranno mai avere una piena giustizia se non hanno tanti soldi da tirar fuori e la verità andrà sfumando dinanzi alla parlantina e al potere della controparte.

“Se potessi affronterei anche tutte le spese, ma non ne ho neanche per me per il momento. Spero ogni giorno di poter avere le spese legali, ciò significherebbe affrontare un processo che lo Stato italiano si ostina a non fare”. Sono le parole di Francesco Carbone. Sono le evidenti prove che la giustizia discrimina e premia solo chi possiede denaro ed il potere. La protesta di Francesco Carbone non è certamente silenziosa, il 31 marzo 2010 da Palermo si è recato sino al parlamento ed ha protestato per le sue nobili motivazioni. Ma secondo voi qualche divinità politica nostrana poteva mettersi a competere con un comune mortale? Ovviamente No. Nonostante le ripetute sconfitte in partenza Carbone Francesco, non si è dato per vinto e il 7 Giugno, ha inviato la petizione On line al Parlamento Europeo, dato che il potere in Italia ha poco a che fare con la gente semplice e onesta.

Veniamo al dunque. Il signor Carbone, nonostante le evidenti e schiaccianti prove fornite alla procura di Verona che denunciavano i dirigenti di Poste Italiane, dell’Ispettorato del Lavoro, dello Spisal, ditte appaltanti e un dirigente della Cgil, non hanno fatto alcuna indagine. “Dopo 17 mesi e 8 giorni – dice Carbone – hanno archiviato la mia denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede”. Per 7 anni Carbone è stato il responsabile della Ditta che ha l’appalto in Poste Italiane. Costretto poi, a dare le dimissioni a seguito di minacce e vessazioni ricevute dall’amministratore della ditta appaltante, e dagli alti dirigenti di Poste Italiane. “Per le mie lamentele sulle lacune lavorative: nessun tipo di sicurezza e igiene sul posto di lavoro, obbligati a fare lavori che non ci competevano per contratto, presenza di lavoratori in nero, straordinari sottopagati in nero, mezzi di trasporto mal messi e spesso senza revisione, continui insulti e minacce dal personale e dai dirigenti” racconta Carbone. Roba da niente secondo la giustizia italiana.

Denunciò questi fatti anche ad un dirigente della Cgil, ma “mi consigliò di non disturbare gli alti Dirigenti di Poste Italiane in quanto avrei perso il posto di lavoro”. Si recò anche presso l’ispettorato del lavoro denunciando che all’interno di Poste italiane giravano “lavoratori in nero con tesserino identificativo fornito dai dirigenti di Poste Italiane e non è stato fatto alcun controllo.” Ha esposto denuncia anche presso lo Spisal di Verona “tutte le irregolarità riguardanti la sicurezza e igiene nei posti di lavoro ed è stato fatto solo qualche controllo.”

Guai a toccare il potere, nessuno si permetterebbe di farlo. Dopo i piccoli dispiaceri creati da Carbone in Poste italiane, egli racconta che il Direttore del Triveneto di Poste Italiane, presentò una raccomandata al suo datore di lavoro. “Mi obbligava – racconta Carbone – a non entrare in tutti gli uffici di Poste Italiane e di consegnare il pass di entrata, in quanto elemento indesiderato per aver chiesto il rispetto del contratto e della sicurezza sul lavoro.”

Dopo i rifiuti di aiuto, Carbone si affida alla procura della Repubblica fornendo tutti i materiali in suo possesso: documenti , foto, video e tutti i numeri di telefono dei lavoratori in nero. “Nessuna convocazione e dopo 17 mesi e 8 giorni , dopo che gli appalti erano stati riconsegnati alle stesse ditte, il capo della procura Schinaia mi archivia la denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede, con nessuna motivazione e senza interpellare il Gip. All’epoca ero incaricato pubblico e quindi avevo il dovere, secondo il diritto penale, di denunciare illeciti”. Carbone si è appellato anche al Presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, e al Ministro Alfano chiedendo che vengano immediatamente inviati degli ispettori a Verona per sequestrare e verificare l’operato del capo della procura.

Perdere il posto di lavoro, perdere la dignità, il diritto di avere giustizia. “Per aver fatto il mio dovere e aver preteso i miei diritti, mi sono dovuto ritrasferire con tutta la mia famiglia nella mia terra di origine, la Sicilia. Mi ritrovo disoccupato da 2 anni, deriso e guardato male da tutti, in quanto mi sono messo contro alti Dirigenti pensando di avere giustizia. Come ciliegina sulla torta mi viene negato anche il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti da me e dalla mia famiglia.“

Carbone si chiede se sia normale che in una nazione civile succeda una palese violazione dei diritti umani. Possiamo rispondere tranquillamente che l’Italia, o perlomeno le istituzioni e i nostri dirigenti, sono tutt’altro che civili e democratici come ci vogliono far credere. Il piccolo Davide, deriso per aver sfidato Golia, è un esempio di una mentalità “paurosa” entrata nelle nostre menti. Non si toccano i potenti, avresti sempre la peggio. Questo è il messaggio. Ci insegnano sin dalle scuole elementari di non disturbare il cane che dorme. Così, di questo passo, l’organizzazione mafiosa “legalizzata” continua ad andare avanti e prendersi gioco di noi piccoli comuni mortali.

“Francesco Carbone è un giovane di 35 anni che tempo fa ha dovuto lasciare la Sicilia per mancanza di lavoro. Si trasferisce a Verona, dove finalmente trova un impiego come responsabile di una ditta appaltante per Poste Italiane. Ma la sua è una vicenda assurda, e finisce addirittura peggio. Francesco ha avuto il coraggio di denunciare, con tantissimi esposti presentati alla Magistratura, un vasto giro di tangenti nell’appalto per il trasporto dei pacchi postali, che nel Veneto è stato affidato ad una Società di cui è proprietario un personaggio eccellente: il nipote di FERNANDO MASONE, originario di Pesco Sannita, ex capo della Polizia e segretario generale del Cesis - Coordinamento dei Servizi Segreti.

Il nipote di Fernando Masone si chiama D’Agostino e la sua impresa è denominata “Impresa Sannita” s.r.l. con sede legale a Torino. Da circa trenta anni tale società ha l’appalto per il trasporto dei pacchi postali a Venezia e dal 2001 a Verona e Padova; ma non si occupa solo di servizi postali ma anche di compravendita di capannoni industriali ed altro: una marea di appalti pubblici!

Tutte le denunce di Francesco Carbone sono state rigorosamente formalizzate, ma sinora nessuna inchiesta. Tutto insabbiato!

I dati e le circostanze riferite da Francesco Carbone portano poi ad evidenziare un altro dato inquietante: le paventate coperture politiche di un ex Ministro della Giustizia che, alla luce dei fatti, si sono rivelate fondate.

Dunque, lavoratore per l’Impresa Sannita s.r.l. di D’Agostino che aveva l’appalto del servizio postale, cioè tutti i trasporti postali della provincia di Verona, Francesco Carbone si è ritrovato protagonista di una storia di illegalità che ha dell’incredibile. Dopo aver assistito a tante violazioni, con lavoratori pagati in nero con in mano tesserini delle Poste Italiane, costretti a lavori non previsti nel contratto ha voluto denunciare le sue scoperte ai rappresentanti sindacali ed ai dirigenti del Triveneto di Poste Italiane. Al posto di ricevere solidarietà ed attenzione è stato minacciato, offeso, interdetto dall’ingresso in qualsiasi ufficio delle Poste Italiane per cui la sua società lavorava, inascoltato dai pm e dai ministri che ha provato ad ascoltare. Se fosse vera, se fosse dimostrabile tramite un equo processo quanto dichiarato in questa lettera da Francesco Carbone, quanto raccontato sarebbe l’incredibile storia di un uomo che per lavorare nella legalità è stato distrutto da un’azienda privata, dall’indifferenza dello Stato e dalla sordità della Magistratura.

Da lui ricevo e trascrivo integralmente la sua storia.

Mi chiamo Carbone Francesco e scrivo per metterla al corrente della mia vicenda per la quale ho avuto a che fare con elementi dei servizi segreti e massoneria. Premetto che di tutto ciò che denuncio ho ed ho consegnato le prove: foto, video, documenti cartacei ufficiali, registrazioni telefoniche degli incontri avvenuti con i Dirigenti di Poste Italiane, la ditta Appaltante, i dirigenti USL 20 Verona, la Procura di Verona, la Guardia di Finanza di Verona.

Ho denunciato con denuncia querela i capi della Procura di Verona Papalia e Schinaia, i quali, pur avendo in mano tutte la prove da me allegate alla mia denuncia penale contro alti dirigenti Di Poste Italiane, Dirigenti dell’Ispettorato del Lavoro, Dirigenti dello Spisal (USL), ditte appaltanti e un dirigente della Cgil, non hanno fatto alcuna indagine e dopo 17 mesi e 8 giorni hanno archiviato la mia denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede in base all’art. 408 c.p.p., inserendola volontariamente a mod. 45 “Fatti non costituenti reato” per distogliere dall’azione penale gli alti funzionari che avevo denunciato per gravi reati.

Hanno leso il mio diritto di avere giustizia ed hanno leso l’Erario dello Stato per le somme non recuperate dall’evasione fiscale che ho documentato, e il non recupero delle somme che dovevano essere sanzionate per lo sfruttamento di lavoro nero e le gravi carenze di igiene e sicurezza nei posti di lavoro.

Brevemente spiego la situazione.

Io per 7 anni sono stato responsabile su Verona della ditta che ha l’appalto di Poste Italiane fino a quando sono stato costretto a dare le mie dimissioni a seguito di minacce e vessazioni ricevute dall’amministratore della ditta appaltante, e dagli alti dirigenti di Poste Italiane per le mie lamentele sulle lacune lavorative che praticamente consistevano in: nessun tipo di sicurezza e igiene sul posto di lavoro, lavoratori obbligati a fare lavori che non ci competevano per contratto, presenza di lavoratori in nero, straordinari sottopagati in nero, mezzi di trasporto mal messi e spesso senza revisione, estorsione di denaro agli autisti prelevato dalle buste paga sotto forma di rimborso, continui insulti e minacce dal personale e dai dirigenti di Poste Italiane.

Praticamente ho denunciato i fatti al dirigente della Cgil il quale oltre a non fare niente mi ha consigliato di non disturbare gli alti Dirigenti di Poste Italiane che in quel momento erano occupati a preparare i nuovi appalti, in quanto avrei perso il posto di lavoro e vedendo la mia perseveranza, ha riferito a tutti gli autisti che per colpa mia e delle mie continue lamentele avrebbero perso il posto di lavoro, creando attorno a me il vuoto.

Ho denunciato presso l’Ispettorato del Lavoro la presenza, all’interno di Poste Italiane, di lavoratori in nero con tesserino identificativo fornito dai dirigenti di Poste Italiane e non è stato fatto alcun controllo, inoltre alla richiesta di informazioni da parte della Procura di Verona, il direttore ordinario risponde che non ha proceduto all’ispezione in quanto nutriva forti dubbi sulla veridicità di ciò che io avevo denunciato, ma non verifica la veridicità delle mie dichiarazioni e neppure consequenzialmente mi denuncia per false informazioni a un pubblico ufficiale.

Ho denunciato presso lo Spisal di Verona (USL) tutte le irregolarità riguardanti la sicurezza e l’igiene nei posti di lavoro ed è stato fatto solo qualche controllo a seguito della mia minaccia di denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Tra l’altro la mia denuncia presentata il 28/09/2007 è stata protocollata il 13 novembre 2007 solo dopo la mia minaccia di denunciarli alle autorità.

Ho collaborato per mesi con elementi dei Servizi Segreti della Guardia di Finanza di Verona e deliberatamente non è stato fatto alcun controllo sull’evasione fiscale da me documentata, anzi mi hanno fatto solo ritardare la denuncia che dovevo presentare in procura.

Sono stato minacciato dagli uomini di fiducia dell’appaltante dicendomi che era inutile mettermi contro di loro in quanto l’appaltante era il nipote dell’ex capo della Polizia e dei Servizi Segreti Ferdinando Masone ed erano appoggiati molto bene politicamente e tra l’altro, anche se avessi fatto denunce alla magistratura, l’allora ministro della Giustizia era in stretto contatto con tutti gli appaltanti del centro-sud Italia.

Dopo tutto ciò essendo sicuri di essere intoccabili avendomi fatto terra bruciata attorno, il Direttore del Triveneto di Poste Italiane a seguito della mia caparbietà a non fare lavori che non mi competevano per contratto o che andavano contro la sicurezza, manda una raccomandata al mio datore di lavoro obbligandomi a non entrare in tutti gli uffici di Poste Italiane e di consegnare il pass di entrata, in quanto sarei elemento indesiderato per aver chiesto il rispetto del contratto e della sicurezza sul lavoro.

A questo punto prendo tutta la documentazione in mio possesso (documenti, foto e video) e vado a presentare denuncia alla Procura della Repubblica.

Dopo un mese il mio avvocato viene convocato per consegnare alla procura tutti i numeri di telefono di tutti i lavoratori in nero e poi… il nulla.

Nessuna convocazione e dopo 17 mesi e 8 giorni, dopo che gli appalti erano stati riconsegnati alle stesse ditte, il capo della procura Schinaia mi archivia la denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede, con nessuna motivazione e senza interpellare il Gip !

FACCIO PRESENTE CHE ALL’EPOCA DEI FATTI OLTRE A ESSERE PERSONA OFFESA DAI REATI ERO INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO OBBLIGATO DAL CODICE PENALE A DENUNCIARE FATTI DI RILEVANZA PENALE.

Secondo Lei è giusto e normale in una Nazione definita Civile, perdere il posto di lavoro, perdere la dignità, perdere il diritto di avere giustizia per aver fatto il mio dovere e aver preteso i miei diritti?

Mi sono dovuto ritrasferire con tutta la mia famiglia nella mia terra di origine, la Sicilia.

Mi ritrovo disoccupato da 2 anni, deriso e guardato male da tutti in quanto mi sono messo contro alti Dirigenti pensando di avere giustizia e come ciliegina sulla torta mi viene negato il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti da me e dalla mia famiglia.

Agli atti delle indagini mancano documenti importanti che erano stati inseriti dai miei avvocati e che comunque dovevano essere inseriti dalla direzione lavoro nelle loro misere e false perizie. Per questo motivo e per tutti gli altri gravi motivi ho scritto al Presidente della Repubblica e al Ministro Alfano chiedendo che immediatamente vengano inviati gli ispettori a Verona per verificare l’operato del Capo della Procura.

Ancora una volta nessuno si muove e nessuno fa niente.

Ho consegnato la richiesta fatta al ministro Alfano e la presente lettera al Presidente della Repubblica allegando tutta la documentazione in mio possesso assieme alle denunce inoltrate alla Procura di Roma, alla Procura Generale di Roma, al Consiglio Superiore della Magistratura. A tutt’ora nulla………..

Ho fatto tante altre denunce in seguito all’archiviazione e sono tutte ferme nelle procure di Verona, Venezia e Roma e sicuramente insabbiate con il mod. 45 classificando le mie denunce criminalmente come “fatti non costituenti reato” per autoarchiviarle senza fare alcuna indagine in quanto non sono stato convocato da nessuno.

L’Onorevole Fini ha posto la mia denuncia all’attenzione della Commissione competente e non ho ricevuto alcuna risposta.

La mia dettagliata denuncia si trova anche all’attenzione del Ministro Sacconi e la Direzione Generale del Ministero del Lavoro e non ho ricevuto alcuna risposta e nessuna ispezione è stata fatta.

La mia denuncia dettagliata si trova anche all’attenzione del Ministro Brunetta il quale l’ha posta all’attenzione dell’Ispettorato della Funzione Pubblica a dicembre del 2008 ma a tutt’oggi non ho ricevuto alcuna risposta e nessuna ispezione è stata avviata.

Il 28 aprile ho inviato una richiesta di intervento disciplinare al C.S.M. per i procuratori che volontariamente hanno messo la mia denuncia querela a mod. 45 per autoarchiviarla. Ho chiamato il C.S.M. e mi hanno risposto che la mia richiesta è in mano al relatore dal 5 maggio e la pratica è la n. 309/2010.

In data 07 giugno 2010 il C.S.M. mi risponde con una lettera ciclostilata asserendo, in relazione a ciò che avevo chiesto nella prima istanza, che le richieste disciplinari le possono richiedere solo il Ministro e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione e per ciò non faranno alcun intervento nei confronti dei procuratori Capo e neppure saranno aperte le indagini sulla denuncia auto archiviata.

Mi invitano a rivolgermi alle autorità competenti per denunciare civilmente o penalmente i Procuratori Capo Papalia e Schinaia, pur avendo io consegnato nella documentazione anche la denuncia - querela già presentata a Verona il 23 Febbraio 2010 nei confronti dei Procuratori Capo, degli appartenenti ai Servizi Segreti e di tutti coloro che hanno impedito, ritardato, omesso le normali procedure di indagini, occultando documenti o presentando documenti totalmente falsi.

Pur essendo coinvolte le Procure di Roma, Verona , Venezia e Termini Imerese in quanto le denunce querele, anche se per diversi reati, sono tutte collegate alla prima denuncia archiviata, non ho mai potuto parlare e non sono mai stato convocato da nessun Magistrato o Ufficiale delle Forze dell’ordine in merito a ciò che ho denunciato.

Violando l’art. 112 della Costituzione (il Magistrato ha l’obbligo dell’azione penale), non viene avviata alcuna indagine o procedimento penale nè nei confronti di chi ho denunciato e neanche nei miei confronti per calunnia, false informazioni a pubblici ufficiali e/o per diffamazione pur avendo pubblicato via web e in particolar modo su facebook non solo la mia vicenda ma anche le denunce scannerizzate, foto e video.

L’unica cosa di cui sono certo è che per avere adempiuto il mio dovere, mi ritrovo disoccupato, senza giustizia e attenzionato dalla Digos come se fossi un criminale.

Spero che qualcuno abbia modo di indirizzarmi a qualche Magistrato onesto, organo di informazione e che mi convochino per poter dire tutto ciò che so con prove alla mano, le denunce (Procura di Roma, Procura Generale di Roma, Consiglio Superiore della Magistratura e da ultimo la DENUNCIA QUERELA CONTRO I MINISTRI ALFANO - BRUNETTA - SACCONI EX ART 328 C.P.) foto, video, documentazione cartacea, registrazioni telefoniche e registrazioni audio delle “offerte” per «comprarmi» e delle minacce per farmi stare zitto.

Con stima. Francesco Carbone - Villafrati (PA) 90030

Questo giovane che ha avuto il merito ed il coraggio di denunciare si dice preoccupato, teme per la propria vita… Ma la sua assurda storia sta facendo il giro d’Italia - malgrado le resistenze e le minacce di chi non vuole che i fatti denunciati diventino di dominio pubblico - ed ha la solidarietà del nostro Comitato Cittadini per la Trasparenza e la Democrazia e di 16.000 Italiani aderenti al gruppo facebook che il 27 settembre 2010 a Roma, in Piazza Montecitorio, organizzeranno un presidio permanente per pretendere pacificamente e civilmente un dialogo ed un confronto ragionevole con le Istituzioni, il Ministro dell’Interno, il Ministro della Giustizia, il Presidente della Camera e la Commissione Giustizia per far sì che si prendano i più immediati provvedimenti per contrastare efficacemente la malagiustizia in Italia e per pretendere il rispetto dei diritti umani sanciti dalla Costituzione italiana”.

Atto Senato. Interrogazione a risposta scritta 4-04154

presentata da ELIO LANNUTTI mercoledì 24 novembre 2010, seduta n.465

LANNUTTI - Ai Ministri dell'economia e delle finanze, del lavoro e delle politiche sociali, per la pubblica amministrazione e l'innovazione e della giustizia - Premesso che:

è arrivata all'interrogante una segnalazione di un cittadino, Francesco Carbone, che, dopo aver ricoperto il ruolo di responsabile nella città di Verona della ditta che ha l'appalto di Poste italiane, racconta di essere stato costretto a dare le dimissioni a seguito di minacce e vessazioni ricevute dall'amministratore della ditta appaltante e dagli alti dirigenti di Poste italiane perché aveva avanzato lamentele sulle lacune lavorative, quali: nessun tipo di sicurezza e igiene sul posto di lavoro, obbligo a fare lavori che non competevano per contratto, presenza di lavoratori irregolari, straordinari sottopagati in nero, mezzi di trasporto mal messi e spesso senza che fossero sottoposti a revisione, forme di prelievo (assimilabili ad una vera e propria estorsione) di denaro dalle buste paga degli autisti sotto forma di rimborso, continui insulti e minacce dal personale e dai dirigenti di Poste italiane;

il cittadino riferisce di aver denunciato i fatti al dirigente sindacale, il quale, oltre a non aver fatto nulla, gli avrebbe consigliato di non disturbare gli alti dirigenti di Poste italiane che in quel momento erano occupati a preparare i nuovi appalti, in quanto avrebbe perso il posto di lavoro e che, vedendo la sua perseveranza, ha riferito a tutti gli autisti che per colpa sua e delle sue continue lamentele anche loro avrebbero perso il posto di lavoro;

Carbone denunciava presso l'Ispettorato del lavoro la presenza, all'interno di Poste italiane, di lavoratori in nero con tesserino identificativo fornito dai dirigenti di Poste italiane senza che venisse predisposto alcun controllo; inoltre, alla richiesta di informazioni da parte della Procura di Verona, il direttore ordinario Palumbo rispondeva di non aver proceduto all'ispezione in quanto nutriva forti dubbi sulla veridicità di ciò che veniva denunciato ma, nonostante ciò, non provvedeva a verificarla e/o a denunciare il cittadino per false informazioni;

il cittadino inoltre denunciava presso lo Spisal di Verona (ASL) tutte le irregolarità riguardanti la sicurezza e l'igiene nei posti di lavoro, ma veniva fatto qualche controllo solo a seguito della minaccia di Carbone cittadino di denunciare il personale della ASL per omissione di atti d'ufficio;

il cittadino dopo aver denunciato l'evasione fiscale della ditta in questione ha collaborato per mesi con la Guardia di finanza di Verona, ma anche in questo caso non sarebbe stato fatto alcun controllo;

Francesco Carbone dichiara di essere stato minacciato dagli uomini di fiducia dell'appaltante che gli avrebbero detto che era inutile mettersi contro di loro in quanto l'appaltante era il nipote di una persona che aveva avuto importanti incarichi nelle Forze dell'ordine e le persone a lui vicine erano appoggiate molto bene da un politico, in stretto contatto con i principali appaltanti del Centro-Sud Italia;

il Direttore del Triveneto di Poste italiane, Roberto Arcuri, a seguito della caparbietà del cittadino a non fare lavori che non gli competono per contratto o che vanno contro la sicurezza, mandava una raccomandata al suo datore di lavoro obbligandolo a non entrare in tutti gli uffici di Poste italiane e di consegnare il pass di entrata, in quanto elemento indesiderato;

a questo punto il cittadino avvalendosi di tutta la documentazione presenta denuncia alla Procura della Repubblica;

il cittadino Carbone lamenta che dopo 17 mesi, dopo che gli appalti erano stati riconsegnati alle stesse ditte, il capo della Procura Schinaia avrebbe archiviato la denuncia senza neanche avvisarlo, con nessuna motivazione e senza interpellare il giudice per le indagini preliminari;

il cittadino fa presente che all'epoca dei fatti, oltre a essere persona offesa dai reati, era incaricato di pubblico servizio obbligato dal codice penale a denunciare fatti di rilevanza penale;

Francesco Carbone, disoccupato da due anni, riferisce che viene deriso da tutti in quanto si è messo contro alti dirigenti pensando di avere giustizia e che gli viene negato il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti;

Carbone ha presentato anche altre denunce e ha scritto ai rappresentanti delle istituzioni;

il 23 febbraio 2010 Francesco Carbone ha presentato a Verona la denuncia-querela nei confronti dei Procuratori Capo e di appartenenti ai servizi segreti e tutti coloro che avrebbero impedito, ritardato o omesso le normali procedure di indagini, occultando documenti o presentando documenti totalmente falsi;

tutte le denunce presentate, collegate alla prima denuncia archiviata, coinvolgono le Procure di Roma, Verona, Venezia, ma il cittadino continua a lamentare di non essere mai stato convocato da nessun magistrato o dalle Forze dell'ordine in merito a ciò che ha denunciato;

Carbone ritiene che sia stato leso il suo diritto di avere giustizia ed inoltre che sia stato leso l'erario dello Stato per le somme non recuperate dall'evasione fiscale denunciata, nonché quelle che sarebbero derivate dalle mancate sanzioni per lo sfruttamento di lavoro nero e le gravi carenze di igiene e sicurezza nei posti di lavoro da lui documentate, si chiede di sapere:

se il Governo sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa;

se i Ministri in indirizzo, nell'ambito delle proprie competenze, non ritengano opportuno, alla luce di quanto esposto, attivare le procedure ispettive e conoscitive previste dall'ordinamento, anche al fine di prendere in considerazione ogni eventuale sottovalutazione di significativi profili di accertamento. (4-04154)

Il coraggio di denunciare: la storia di Brigitte e della casa di riposo degli orrori, scrive il 6 luglio 2018 Andrea Spinelli Barrile su Riparte il futuro. La vicenda, poco nota in Italia, dell'infermiera che ha aperto un varco per la protezione dei whistleblower in Germania e non solo. A 49 anni la signora Brigitte Heinisch si è scoperta disobbediente e scrittrice di talento (è autrice del libro "Satt und Sauber?" edito solo in Germania) ma probabilmente ne avrebbe fatto volentieri a meno. Lei, una ex-infermiera tedesca specializzata in geriatria, è divenuta un caso esemplare di whistleblowing in Germania quando ha sollevato uno scandalo all’interno del gruppo ospedaliero Vivantes Netzwerk für Gesundheit GmbH a Berlino, accusato di esercitare indebite pressioni sui lavoratori e di non rispettare i requisiti minimi di assistenza ai pazienti. Un caso che tocca la sanità, un settore prezioso e soggetto a rischio, in cui girano molti soldi e molti interessi. Lo sappiamo bene qui in Italia dove, stando ai dati riportati dall’ultimo resoconto Anac sul whistleblowing, nel 2017 le il 14% delle segnalazioni effettuate dai dipendenti riguarda proprio le Asl. E sono all’ordine del giorno le notizie di scandali che toccano appalti ospedalieri, farmaceutiche, ma anche singoli medici operatori (qui i più osceni del 2017).  Non solo nel pubblico, ma anche nel privato, l’approvazione della direttiva comunitaria proposta dalla Commissione europea per proteggere chi ha il coraggio di segnalare corruzione e malaffare sul posto di lavoro sarebbe un passo chiave nel segno dei diritti e della lotta alla corruzione. Ma torniamo alla vicenda di Brigitte. Completamente inedita in lingua italiana e di cui si è parlato poco anche in lingua inglese, questa storia rappresenta un esempio di resistenza e determinazione in Europa. Volendola condensare in una frase, si potrebbero citare le parole del famoso pastore protestante tedesco Martin Niemoller: “un giorno vennero a prendere me e non c'era rimasto nessuno a protestare”.

Una casa di cura da incubo. Molti pazienti venivano abbandonati a loro stessi, spesso lasciati immersi in feci e urina per pomeriggi interi perché non c'era nessuno per cambiarli. Lo scandalo esplose nel 2002, quando Brigitte Heinisch criticò pubblicamente e poi denunciò il datore di lavoro sostenendo di subire pressioni enormi e turni massacranti a causa di gravi carenze di personale, un sovraccarico di lavoro che aveva effetti a cascata sull'assistenza ai pazienti, anziani non autosufficienti. Lavorare in una casa di cura è un lavoro già faticoso e complesso, sicuramente impegnativo, ma nel caso della Vivantes la cronica mancanza di personale l'aveva reso insopportabile. Le accuse di Brigitte erano pesanti: turni impossibili per il personale, nessuna tutela del diritto del lavoro e costante sottodimensionamento degli operatori erano i tre elementi cardine. Tutto ciò, denunciò l'infermiera, provocava inevitabilmente disservizi per i pazienti: molti venivano letteralmente abbandonati a loro stessi, spesso lasciati immersi in feci e urina per pomeriggi interi perché non c'era nessuno per cambiarli, lavati a pezzi e spesso nemmeno puliti, come invece veniva riportato nelle cartelle sanitarie. Quello che Brigitte Heinisch mostrò alla Germania fu uno scandalo enorme che toccò tutti i tedeschi: riguardava i lavoratori, che spesso vengono sfruttati fino allo sfinimento, riguardava i pazienti, che spesso vengono trattati come oggetti di poco conto, ma riguardava anche l'intero sistema sanitario, in cui le case di riposo erano viste come dei centri di profitto a basso costo.

La strategia “divide et impera”. Queste sono le cose che i datori di lavoro possono fare con i dipendenti: demoralizzarli, schiacciarli, togliergli il sostentamento, alienargli i colleghi...Inizialmente l'azienda, quando nel 2002 Brigitte avanzò le prime osservazioni e le prime denunce, cercò di mettere il personale contro la collega coraggiosa, forzando internamente una narrazione che voleva la Heinisch diffamante non tanto verso la Vivantes quanto più verso i colleghi operatori e la loro professionalità. La tecnica è la stessa di sempre: divide et impera, mettere i colleghi gli uni contro gli altri approfittando della precarietà di tutti. Durante un periodo di malattia in cui Heinisch era lontana dal luogo di lavoro, Vivantes accelerò questa operazione, arrivando ad impedire ai suoi colleghi di contattarla per chiederle come stesse. “Queste sono le cose che i datori di lavoro possono fare con i dipendenti - ha commentato in seguito la donna - demoralizzarli, schiacciarli, togliergli il sostentamento, alienargli i colleghi..." L'atteggiamento dell'azienda portò l’infermiera a ritirare le denunce, cosa che ha poi permesso all'azienda, nel giro di appena un mese dalla chiusura del procedimento, di licenziarla senza ragione e senza preavviso, il 31 marzo 2005.

Il licenziamento. Vivantes non le riconobbe alcun trattamento di fine rapporto ma questa mossa aprì gli occhi agli altri dipendenti, che capirono la strategia dell'azienda e si strinsero attorno alla ex collega. Le denunce cominciarono a fioccare: la vita quotidiana degli operatori, lo stress fisico e mentale cui erano sottoposti, il totale disinteresse dell'azienda per le prestazioni mediche ed assistenziali. Molti di loro si erano ammalati e erano stati costretti a trascorrere periodi lunghi in degenza casalinga per l'eccessivo stress, altri non avevao retto e avevano preferito lasciare il lavoro.

La lunga strada per la conquista dei diritti. Il licenziamento diede il via a una diatriba legale che è arrivata fino alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (CEDU) e che ha costretto il legislatore tedesco a legiferare in materia di protezione dei whistleblower, nel 2011. Se la vita di Heinisch è stata rovinata, il suo caso ha sicuramente aperto una strada legislativa che conduce fino alla recente proposta di una direttiva europea di protezione dei whistleblower. “Mi sarei resa criminalmente responsabile se avessi continuato a lavorare in quelle condizioni. […] volevano unicamente realizzare profitti, a costo di farlo sulle spalle di persone dipendenti e altamente vulnerabili” ha dichiarato l'ex-infermiera. Dopo il licenziamento Brigitte ha girovagato per sei anni nei tribunali di mezza Germania ma le corti stabilivano, una dopo l'altra, che il suo atto di presentare una denuncia penale contro Vivantes fosse “un motivo valido” per licenziarla. Ci sono voluti anni per ottenere un minimo di soddisfazione: nel 2011 la CEDU le ha riconosciuto un risarcimento da 15.000 euro per la violazione della sua libertà di espressione (risarcimento che era stato precedentemente respinto dai tribunali tedeschi). Una sentenza storica che ha cambiato il destino, fino a quel momento nefasto, dell’infermiera. Secondo la CEDU la sua libertà di espressione e l'interesse pubblico delle informazioni da lei divulgate superava l'interesse dell'azienda a proteggere i propri interessi commerciali e la propria reputazione. Nel 2012, le parti trovarono un accordo al Tribunale del lavoro di Berlino: a fronte di una richiesta di risarcimento di 350.000 euro avanzata dall'ex-infermiera e di una controproposta dell'azienda pari a 70.000 euro per chiudere il caso, Vivantes pagò 90.000 euro a Heinisch e tutto finì così. La trattativa durò molte ore e si sbloccò quando la Corte fece presente che un nuovo contenzioso non si sarebbe risolto prima di un altro anno di udienze.

Un esempio da seguire. La fine del caso Vivantes è stato, in verità, l'inizio di tante altre storie: sono decine i casi successivi di whistleblower tedeschi che fanno riferimento esplicito al coraggio di Brigitte Heinisch, ringraziandola anche per avere costretto il legislatore tedesco a fare una legge per garantire più protezione a chi denuncia. Contrariamente all'italiano, nella lingua tedesca esisteva già un termine per definire il whistleblower: si chiamavano nestbeschmutzer, parola dispregiativa che significa letteralmente “nidi di sporcizia” diffusa all’interno della cultura pro-industriale tedesca. I primi segni di cambiamento si sono visti nel 2009, quando il Bundestag ha pubblicato il Beamtenstatusgesetz, una legge che tuttavia protegge solo i dipendenti che denunciano gravi condotte e corruzione all’interno dei pubblici uffici. Poi, la sottoscrizione del Piano d'Azione Anticorruzione del G20 ha impegnato la Germania a risolvere questa carenza entro il 2012 ma probabilmente nulla sarebbe stato fatto senza lo scandalo Vivantes e il coraggio di Brigitte. Senza questo precedente, lo scandalo Dieselgate alla Volkswagen, lo scandalo insider trading alla DG Bank di Francoforte, lo scandalo sui Döner Kebab tedeschi che utilizzavano carne avariata non sarebbero mai emersi.

Oggi. Oggi in Germania i whistleblower non si chiamano più nestbeschmutzer ma hinweisgeber, un neologismo che significa “informatore” ma che letteralmente è più simile a “colui che dà il suggerimento”. Una parola che testimonia un grande cambiamento culturale, ricordando il retaggio del Terzo Reich e della DDR, società in cui gli informatori erano visti molto negativamente [il film Le Vite Degli Altri di Florian Henckel von Donnersmarck ne descrive perfettamente le dinamiche, nda]. "Sono andata in pensione anticipata nel 2007 - racconta Brigitte - ho avuto un esaurimento nervoso. Ho passato diversi momenti di crisi e depressione. Ma ho imparato molto da quello che ho sofferto [...]. Guardando indietro farei le cose in maniera diversa, magari più scaltra, ma rifarei quello che ho fatto."

Cucchi: carabiniere testimone, "Io minacciato, il governo mi ascolti". Appello a Salvini, Di Maio e Conte: "Ho fatto il mio dovere e ora la pago", scrive la Redazione ANSAROMA l'11 ottobre 2018. "Per aver fatto il mio dovere, come uomo e come carabiniere per aver testimoniato nel processo relativo a Stefano Cucchi, morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze". Così Riccardo Casamassima, l'appuntato dei carabinieri che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l'inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi, in un video postato su Fb. Casamassima si rivolge "ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: mi ascoltino". "Avevo manifestato le mie paure prima del processo del 15 maggio - spiega - paure che si sono concretizzate perché mi è stato notificato un trasferimento presso la scuola allievi ufficiali. Sarò allontanato e demansionato e andrò a lavorare a scuola dopo essere stato per 20 anni in strada. E' scandaloso. Ho subito minacce, nessuno mi ha aiutato. Mi appello alle cariche dello Stato, ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: è giusto che una persona onesta debba subire questo trattamento? Mi stanno distruggendo. Mi recherò al comando generale per incontrare il nuovo comandante generale. Se non mi verranno date delle spiegazioni - aggiunge - sarò costretto ad andare in Procura e a denunciare quello che sta succedendo perché il processo Cucchi è ancora aperto e quindi una qualsiasi azione fatta nei miei confronti lo va a compromettere". "Per giustificare il trasferimento lo motivano giudicandomi 'poco esemplare e inadeguato al senso della disciplina'", conclude Casamassima. Ministro Trenta, disponibile a parlare con Casamassima - "Ho ascoltato il carabiniere Casamassima su Facebook, ne ho già discusso con il comandante generale dell'Arma e sono disponibile a parlare con lui". Lo ha detto il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Lui, ha aggiunto, "ha chiesto di parlare con alcuni ministri, non ha citato il mio nome, ma sono io il ministro di riferimento e quindi lo farò volentieri. Sicuramente - ha rilevato - ci sono dei fraintendimenti e quello che dice nel video va approfondito". Ilaria, necessario trasferimento Casamassima?  - "Il Carabiniere Riccardo Casamassima ha testimoniato così come lo ha ha fatto la Carabiniera Maria Rosati, oggi sua compagna e madre dei suoi figli. Furono loro a dare il via a questo processo per l'uccisione di Stefano Cucchi. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi dissero di aver visto mio fratello estremamente sofferente dopo quel feroce pestaggio subito alla caserma della Casilina durante il foto segnalamento. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi avevano ammesso, davanti ai giudici, di essere stati convocati dai superiori, dopo la morte di mio fratello, per modificare le loro annotazioni. Casamassima oggi è stato trasferito alla scuola allievi con demansionamento umiliante e consistente decurtazione dello stipendio. L'ho sentito in lacrime, disperato. Cari Generali Nistri e Mariuccia, era proprio necessario tutto questo, dopo quanto è emerso durante il processo sino ad ora? La scuola allievi Carabinieri aveva proprio bisogno, oggi, di Riccardo Casamassima? Proprio oggi?". Così Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, un un post su fb.

Denuncia un'ingiustizia nell'Inps, ora rischia di pagare lei, scrivono Le Iene il 30 ottobre 2018. Roberta Rei è tornata a palarci della funzionaria dell’Inps Maria Teresa Arcuri che, dopo mille traversie per aver chiesto se il suo capo ha superato o meno il concorso pubblico necessario per ricoprire la carica, rischia ora una sanzione. Ricordate il caso della funzionaria dell’Inps che ha denunciato presunte irregolarità nell’assunzione della sua dirigente (ha chiesto se il suo capo ha superato o meno il concorso pubblico necessario per ricoprire la carica) e per questo ha passato mille traversie? Per Maria Teresa Arcuri i problemi non sono finiti. È stata ascoltata per due giorni nella sede centrale dell’Inps. Roberta Rei l’ha aspettata per capire gli sviluppi sul suo caso. “Mi hanno detto che avrei violato delle regole comportamentali per avere parlato con voi”, ci dice. E i problemi non sono finiti: “La presidente della commissione ha dapprima parlato di licenziamento, poi di sanzione da tre giorni a sei mesi”. Questo provvedimento andrebbe a incidere sull’importo della sanzione dimezzandole la buona uscita. “E’ importante la legalità nella pubblica amministrazione. Così come importante il rispetto delle regole, perché noi siamo l’espressione dello Stato”, ci tiene a precisare ancora una volta Maria Teresa Arcuri.

Inps, chiese i titoli della dirigente Infante: Arcuri sospesa dal lavoro News, scrivono Le Iene il 14 luglio 2018. L’Inps aveva appena ammesso che erano fondati i dubbi sul concorso, sollevati a Crotone nel 2011 dalla Arcuri, che da allora, ha raccontato a Le Iene, non ha avuto più incarichi. Ora però toglie alla funzionaria lavoro e stipendio per 45 giorni, con rischio di licenziamento. L’Inps a inizio mese sembrava aver preso coscienza che c’era qualcosa che non andava, cambiando improvvisamente linea: ha ammesso che sono fondati i dubbi sul concorso pubblico della dirigente Infante. Poi però, con un provvedimento del 10 luglio, ha emesso una sanzione disciplinare per chi aveva sollevato quei dubbi nel 2011, la funzionaria Maria Teresa Arcuri, che comporta un rischio concreto di successivo licenziamento, di 45 giorni di sospensione da lavoro e stipendio. Insomma la dirigente che forse ricopre il suo incarico senza aver fatto il concorso pubblico resta al suo posto da 10 mila euro al mese. Chi l’ha sollevato il caso, che noi de Le Iene seguiamo dal servizio di Roberta Rei del 28 febbraio scorso “150.000 euro l’anno, ma l’ha fatto il concorso?”, va a casa per "dichiarazioni non autorizzate alla stampa (quelle a Le Iene), essersi sottratta a compiti che non riteneva conformi alla sua qualifica e mancata comunicazione di un procedimento penale a suo carico innescato da una vecchia questione condominiale". “Sono pagata 50 mila euro per non far nulla da 5 anni. La dirigente non ha titoli ma puniscono me”, ha detto Maria Teresa nel novembre 2017 in un’aula del Tribunale di Crotone, con una profezia che ora si avvera ancora più in concreto ora con la sospensione dal lavoro. Alla faccia della legge sul “whistleblowing” che tutela i dipendenti che segnalano illeciti in azienda e che veniva approvata proprio in quel mese. Il provvedimento del 10 luglio ha effetto immediato. La funzionaria si è presentata lo stesso al lavoro la mattina dopo, dichiarando di voler far ricorso contro la sanzione e chiedendone la sospensione. Niente da fare: le viene ritirato il badge e intimato di lasciare l’edificio dove lavora da 30 anni. Ma ripercorriamo la storia, partendo proprio dal nostro servizio.  Nel 2011, la funzionaria Inps Maria Teresa Arcuri chiede se la sua nuova superiore, la dirigente Alessandra Infante, ha davvero superato il concorso pubblico necessario per quell’incarico. A suggerirle di farlo sarebbe stato l’ex dirigente andato in pensione. Dopo questa richiesta, che cade nel nulla, si trova, ci racconta, dopo una carriera di incarichi di coordinamento di uffici, a non fare nulla per 5 anni in ufficio da sola (unica mansione: “smistare le caselle istituzionali”), ogni giorno, con forte depressione conseguente. Per 5 anni manda email chiedendo come può essere utile e giustificare anche il suo stipendio. Niente da fare, mentre anche i colleghi l’avrebbero emarginata per non trovarsi pure loro in difficoltà. L’Inps sanziona la Arcuri per la richiesta di chiarimenti, lei fa ricorso e vince in Tribunale. C’è anche un’indagine della Guardia di Finanza che solleva forti dubbi sulla regolarità della posizione dell’Infante. Roberta Rei a quel punto va a chiedere direttamente alla dirigente di mostrare il famoso concorso pubblico che giustificherebbe il suo ruolo. Le sue risposte sono però evasive. L’Infante passa all’ufficio di Catanzaro e arriva il nuovo dirigente di Crotone, Giorgio Benvenuto. Per parlare con la nostra Iena però Benvenuto chiama il dirigente regionale Diego De Felice, che sostiene, tra molti giri di parole, che è tutto in regola. Dopo il nostro servizio alla Arcuri arriva addirittura una denuncia per stalking dalla stessa Infante, mentre la funzionaria ci racconta che non riesce a trovare colleghi disposti a testimoniare perché “hanno paura di ritorsioni” nel processo civile avviato per demansionamento e mobbing nei suoi confronti. Il 15 aprile torniamo sul caso con il servizio “Messa da parte per aver chiesto i titoli della sua dirigente”. Roberta Rei torna a indagare sui vari passaggi con cui Alessandra Infante è diventata dipendente pubblico, come dirigente. E va a incontrare direttamente il presidente Inps, Tito Boeri. Anche da lui, dopo averlo seguito a lungo, non arrivano risposte nel merito, conferma solo che “è stata fatta chiarezza”. Incontriamo allora il presidente dell’Anac, l’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, che dice di essersene occupato ma che la vicenda non è di sua competenza. Tocca al ministero della Funzione pubblica: la nostra Iena va anche là. La risposta? “Stiamo approfondendo il caso”. Intanto era partita l’indagine disciplinare che ha portato al provvedimento del 10 luglio. Risultato: Arcuri via dall’Inps, l’Infante resta. Per ora. Noi continueremo a seguire il caso.

Inps, la dirigente senza concorso resta e prende 10mila euro al mese. Chi l’ha scoperta viene sospesa senza stipendio. Il 10 luglio viene comunicata con effetto immediato la sospensione di Maria Teresa Arcuri, il funzionario direttivo della sede di Crotone che dal 2011 segnala l'assenza di titoli del superiore gerarchico che invece resta al suo posto stipendiata a 10mila euro al mese. L'ente si difende parlando di "vicende diverse" (ma il disciplinare dice altro) e spiegando di aver tentato inutilmente di rimuoverla dopo averla segnalata alla Procura. L'unica misura reale, di fatto, è contro chi ha denunciato, scrive Thomas Mackinson il 13 luglio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". La dirigente assunta senza concorso resta, chi la denuncia viene cacciata. Sprofonda nell’assurdo la vicenda di Maria Teresa Arcuri, la funzionaria direttiva presso la sede provinciale Inps di Crotone le cui disavventure sono ormai un romanzo nazionale a puntate. L’ultima è di tre giorni fa, quando la Arcuri ha ricevuto una sanzione disciplinare con 45 giorni di sospensione dal servizio e privazione della retribuzione per dichiarazioni non autorizzate alla stampa, per essersi sottratta a compiti che non riteneva conformi alla sua qualifica e in ultimo per la mancata comunicazione di un procedimento penale a suo carico innescato da una vecchia questione condominiale. Era stata lei stessa, in realtà, a denunciare l’inerzia cui era ridotta per aver ingaggiato una battaglia di trasparenza sui titoli del proprio superiore gerarchico: “Sono pagata 50mila euro per non far nulla. La dirigente non ha titoli, ma puniscono me”, diceva lo scorso novembre in un’aula di tribunale a Crotone. Otto mesi dopo, puntuale, quella profezia si avvera. L’ufficio del personale di Crotone invia la comunicazione (che comporta un concreto rischio di licenziamento) il pomeriggio del 10 luglio e si premura di precisare che ha effetto immediato, dall’indomani mattina, cosicché la funzionaria non avrà neppure il tempo di consultare un legale. Sentito un sindacalista dell’Usb, la Arcuri si presenta al lavoro dicendo di voler impugnare la sanzione davanti a un giudice e chiedendone la sospensione fino a sentenza. Niente da fare: all’ingresso della palazzina di via Grazia Deledda le viene ritirato il badge e intimato di lasciare subito il palazzo, come non lavorasse lì da 30 e fosse divenuta improvvisamente il più pericoloso degli intrusi. Resta invece al suo posto la “falsa “dirigente che aveva denunciato fin dal 2011.  Continua a percepire lo stipendio da 10mila euro al mese nonostante il 14 maggio scorso, presso la Funzione Pubblica, sia stato acclarato una volta per tutte che non abbia svolto alcun concorso per accedere ai ruoli della Pa come vuole la legge, ma solo procedure di mobilità interna con cui è transitata da un consorzio privato al Mef e da qui all’Inps. L’ufficio stampa del presidente Tito Boeri, che non era informato del disciplinare, prova in qualche modo a sciogliere il paradosso ma non interviene per impedirlo. In una nota sostiene che “il provvedimento nei confronti della dottoressa Arcuri non riguarda in nessun modo la sua segnalazione dell’illegittimità della dottoressa Infante a ricoprire il ruolo da dirigente, segnalazione per la quale la dottoressa Arcuri – cui garantiamo tutela per il ruolo avuto – ha il merito di aver fatto emergere le incongruità della vicenda”. Ma il disciplinare dice l’esatto contrario, menzionando espressamente tra i motivi di contestazione un’intervista alle Iene sull’assenza di titoli del superiore. L’Inps parla di tutela e nega che il provvedimento sia una mera rappresaglia, ma non riesce a spiegare come mai la Arcuri non abbia ricevuto una contestazione in 30 anni di lavoro e ben quattro a partire dal 2011, vale a dire dopo le sue denunce. L’ente conferma poi la “determinazione mostrata negli ultimi mesi da questa amministrazione, su spinta in particolare del presidente Boeri, nel fare chiarezza sul caso della dottoressa Infante e di prendere tutti i dovuti provvedimenti a riguardo. Ricordo che l’Inps, nel corso degli ultimi mesi, ha: denunciato la dirigente alla procura della repubblica, presentato ricorso al Tar e inviato una lettera al Mef di revoca della mobilità. Il Mef ha tuttavia respinto la nostra richiesta di revoca e pertanto, in questo momento, l’Inps altro non può fare se non attendere il pronunciamento del giudice in merito”. Ben altro trattamento ha riservato invece alla dipendente che ha scoperchiato il caso, forse non l’unico, di assunzione illegittima nell’ente previdenziale. L’Inps dice di volerla “tutelare per il ruolo che avuto”. Ruolo che ovunque sarebbe valso una medaglia o almeno una telefonata di scuse (che Boeri mai ha fatto). Ma invece vale una sospensione immediata dal servizio che suona come un monito per tutti a non denunciare.

Ilva di Taranto, rabbia tra i 2.600 operai liquidati via web: "Punito chi ha difeso l'ambiente". Un quinto dei lavoratori sono stati messi in cassintegrazione e non saranno assorbiti da Arcelo Mittal. "Ha perso Taranto", accusa Mirko Maiorino, portavoce del Comitato Liberi e pensanti. Monta la rabbia contro i Cinque Stelle, scrive Gino Martina il 30 ottobre 2018 su "La Repubblica". Il giorno dopo la comunicazione della messa in cassintegrazione dei 2600 lavoratori Ilva arrivata via web, la reazione degli operai e è di sconforto e ira. Con la città e la fabbrica spaccate ulteriormente in due, tra chi è dentro e chi è fuori. "Ha perso Taranto", scrive in un post Mirko Maiorino, portavoce del Comitato dei cittadini e lavoratori Liberi e pensanti, tra i destinatari della missiva senza nessun "egregio signor" nell'incipit, ma con un diretto "le comunichiamo la collocazione in Cigs". "Ora in azienda sono rimasti in pochissimi pronti a denunciare - aggiunge -. Da domani i tarantini non avranno più quella prima linea che provava a far breccia dall'interno. Sia chiaro che nessuno ha intenzione di fermarsi ma da fuori sarà tutto più complicato. Non siamo né santi né eroi, siamo uomini che hanno lottato per un ideale e che ora pagano per l'essere stati liberi e pensanti". L'idea del Comitato è che le scelte, reparto per reparto, siano state mirate. Via per almeno cinque anni gli operai rompi scatole, quelli scomodi, che non piacciono ai capireparto. Per questo non avrebbero ricevuto l'offerta di assunzione dalla nuova proprietà Am Investco buona parte degli animatori del Comitato, tra i quali Massimo Battista e Davide Panico, protagonisti delle battaglie dal 2012 fuori e dentro i cancelli della fabbrica ma anche della frattura con i sindacati, a partire dalla Fiom Cgil, di cui molti, a partire da Battista e Cataldo Ranieri (dopo la comunicazione della Cassa integrazione ha annunciato di voler accettare l'incentivo e lasciare per sempre lo stabilimento), hanno fatto parte in passato. Ma a denunciare i metodi discrezionali dell'azienda, il non rispetto dei "criteri delle mansioni, professionalità, anzianità e carichi familiari," utilizzando "criteri unilaterali al di fuori degli accordi", sono anche i sindacati (Fim, Fiom, Uilm e Usb) che in una nota chiedono l'intervento del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio quale garante per il rispetto di quegli accordi. Sono decine, infatti, i casi di lavoratori lasciati a casa nonostante i gradi di anzianità e professionalità superiori rispetto ai colleghi e, soprattutto, figli a carico. Battista, ad esempio, ne ha tre. Ma c'è il caso anche di chi ne ha cinque. Tra loro non mancano delegati sindacali, sempre tra i più battaglieri. L'ira di molti è ora rivolta contro il Movimento 5 stelle e le promesse tradite sulla chiusura delle fonti inquinanti e la bonifica degli impianti. Ira che accomuna anche Aldo Schiedi, attivista della prima ora dei Pentastellati, che da oltre un anno ha lasciato il Movimento, deluso dai metodi non democratici e da quelle promesse che da tempo definisce "chiacchiere". Il suo è un lungo messaggio di commiato dal reparto sottoprodotti, intriso di amarezza e rancore. "Dopo 18 anni 10 mesi e 3 giorni la mia esperienza lavorativa in Ilva finisce qui - scrive - Sedici di questi lunghi anni trascorsi in guerra, in trincea. Hanno cercato in svariati modi di demolirmi fisicamente e psicologicamente, mandandomi nei peggiori reparti della cockeria come dal 2000 al 2016, ma non mi sono chinato e sono stato più forte e scaltro di loro. Hanno cercato di licenziarmi ma senza fortuna e difeso (sempre a mie spese) davanti ai giudici provinciali del lavoro. Ho denunciato a Spesal e Arpa tutto ciò che metteva a rischio la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini di Taranto, soprattutto nel mio reparto dove spero di aver lasciato un piacevole ricordo almeno fra i vecchi colleghi per i lavori che sono riuscito - conclude - con forza e abilità a far svolgere e a denunciare". C'è poi chi osserva anche un altro aspetto. Circa 800 dei lavoratori messi in cassa integrazione sono tarantini (vale a dire un terzo). Nella platea dei dipendenti del siderurgico rappresentano il 30 per cento (poco sopra i 3 mila), rispetto a quelli provenienti dai comuni della provincia e dal resto della Puglia. Il legame tra fabbrica e città e le battaglie per la salute e l'ambiente subirebbe così un ulteriore colpo. "Riteniamo prioritario chiedere che il governo controlli il rispetto dei criteri di massima trasparenza nella gestione di questa fase. Non vorremmo che, come spesso accade in queste situazioni, la proprietà della fabbrica colga l'occasione per 'liberarsi' di chi è stato protagonista di lotte per la difesa delle giuste condizioni lavorative all'interno dello stabilimento e per la tutela della salute pubblica, messa a rischio dall'inquinamento eccessivo causato dalla produzione". Lo affermano in un comunicato congiunto l'assessore allo Sviluppo economico della Regione Puglia, Mino Borraccino, e il coordinatore provinciale di Sinistra Italiana Taranto, Maurizio Baccaro.

Ilva, a Taranto in cigs anche operai “liberi e pensanti” e ambientalisti, scrive il Michele Tursi il 30 ottobre 2018 su La Ringhiera. Comincia un’altra era per l’Ilva. L’ennesima dopo le partecipazioni statali, i Riva, la gestione commissariale. Dall’1 novembre AmInvestCo, controllata da Arcelor Mittal, si insedierà formalmente alla guida del maggiore gruppo siderurgico italiano, passato sotto la gestione franco-indiana. Ieri, però, è stato il giorno del portale “MyIlva”. Scopri il tuo futuro con un click, verrebbe da ironizzare. Operai col fiato sospeso fino a ieri pomeriggio, quando hanno potuto collegarsi per sapere chi aveva ricevuto la proposta di assunzione con la nuova proprietà e chi no. Brividi e sito subito in tilt, per fortuna tornato a funzionare poco dopo. Confermate le cifre dell’accordo: a Taranto 8.200 passeranno sotto le insegne di Mittal, 2500 resteranno in Ilva amministrazione straordinaria. Di questi però, 4/500 hanno già accettato l’esodo incentivato (77mila euro netti, più Tfr e altre indennità). Chi ha tirato un sospiro di sollievo e chi ha ricevuto la raccomandata dal contenuto fin troppo eloquente fin dall’oggetto: cigs. Gli operai in cassa, spiega l’azienda già dal 31 ottobre 2018 dovranno astenersi “dall’accedere in stabilimento per svolgere attività lavorative”. Per circa 2000 operai, quindi, oggi sarà l’ultimo giorno di lavoro in fabbrica. Come previsto dall’intesa del 6 settembre scorso, la cassa integrazione è stata estesa fino al 2023. Ma in molti, sindacati compresi, pensano che si andrà oltre in parallelo con il mantenimento del regime di amministrazione straordinaria. Tra gli operai non assunti, sentimenti contrastanti. In cassa integrazione, tra gli altri, due leader storici delle lotte in fabbrica e fuori dagli impianti, fondatori del Movimento cittadini e lavoratori liberi e pensanti: Massimo Battista e Cataldo Ranieri. “Dopo 21 anni di licenziamenti, allontanamenti e contestazioni disciplinari a non finire – scrive Battista sulla sua bacheca Facebook – ci siete riusciti a farmi fuori, la squadra da battere questa volta era forte: Azienda, sindacati e Governo del Cambiamento. Purtroppo quando ti metti contro il sistema questi sono i risultati. Ma non finisce qui”. Di tenore simile le parole utilizzate da Ranieri sempre sul popolare social network. Eccone alcuni stralci. “Lettera ricevuta dopo 21 anni di Ilva, nessun trauma, me lo aspettavo. Da tempo, comunque, non mi sentivo più un dipendente Ilva, già deciso a licenziarmi. Per questo non sono nè meravigliato, nè dispiaciuto”. Ranieri guarda al futuro e annuncia: “Non rimango in AS, accetterò l’incentivo all’esodo che sicuramente non basterà per pagare mutuo e debiti accumulati in anni di cassa integrazione, ma potrò essere libero di costruirmi quell’alternativa che le istituzioni italiane non sono in grado di garantire”. Infine un pensiero a chi resta in fabbrica. “In bocca al lupo a tutti i fratelli ribelli – conclude – che pagano per aver parlato. Ma un in bocca al lupo ancor più grande lo voglio fare a tutti i miei ex colleghi che rimarranno con Mittal per sfamare la propria famiglia, rappresentati da Fim, Fiom, Uilm. Sono certo che ne avranno più bisogno. Libero e Pensante”. In cassa integrazione anche altri componenti dei “Liberi e pensanti” e operai vicini a movimenti ambientalisti come Vincenzo De Marco, apertamente schierati per la chiusura del centro siderurgico di Taranto. Una situazione che nei prossimi giorni potrebbe aprire un nuovo fronte di polemiche in aggiunta ai dubbi sui criteri sollevati anche da Fim, Fiom, Uilm, Usb. “Voglio capire fino in fondo cosa è successo – spiega Massimo Battista, al telefono con la Ringhiera – nella mia vita e nel mio percorso professionale non mi sono mai arreso, procedo a testa alta. Non entrare più in fabbrica per me non è un problema, ma sono abituato ad andare in fondo alle cose”. Nelle ultime consultazioni comunali Battista è stato eletto consigliere comunale con la lista del Movimento 5 stelle che ha abbandonato dopo la firma dell’accordo del 6 settembre 2018.

S COME MAFIA DELLO SCIACALLAGGIO A DANNO DEI TERREMOTATI E DELL’OMERTA’.

C'è nessuno? Viaggio tra i dimenticati del terremoto. Nei giorni in cui l'Italia è in ginocchio per il maltempo Panorama è tornata sui luoghi del sisma del 2016, scrive Carmelo Caruso il 5 novembre 2018 su "Panorama". Visitando il Centro Italia a due anni dal terremoto si potrebbe raccontare della tenacia di Amatrice, di Norcia e Camerino. Si potrebbe testimoniare che a due anni dal sisma sono arrivate tutte le casette. Si potrebbe dire che la ricostruzione è partita. Si potrebbe, ma sarebbe mentire. Mi sono fermato a Montegallo, Montemonaco, Capodacqua, Piedilama, Trisungo, Castelluccio, Castro, Pistrino, Uscerno, Ussita, Visso, Accumoli, Illica e ho trovato solo uomini anziani che non chiedono più quando verrà ricostruita la loro casa ma solo quando sarà messo in sicurezza il cimitero. A Posta, in provincia di Rieti, la prima a dirmelo è Sabrina, una donna che lavora in un bar tabacchi, che ha perso la sua abitazione e che da due anni percepisce il Cas, un contributo di autonoma sistemazione: "La verità? Forse era meglio se ci avessero tenuti tutti insieme anziché dividerci e girarci questi soldi. È stato un modo per farci tacere e allontanare da queste montagne e da queste rovine". Incontrando molti terremotati quasi nessuno parla di ricostruzione ma solo di indennizzo. Subito dopo la catastrofe e dopo i primi mesi passati nelle tende, nei camper e in albergo, lo Stato ha offerto loro la possibilità di scegliere tra le casette e il contributo. 400 euro per chi era solo, 500 euro per la coppia, 800 euro per una famiglia di quattro, 900 euro per marito, moglie e tre figli. Sono tantissimi quelli che lo hanno accettato. Il denaro li ha messi uno contro l'altro. Chi ha preferito la casetta si sente tradito da chi ha scelto il Cas. Chi ha scelto il Cas si è dimenticato di chi vive nelle casette. Chi da due anni lo percepisce non teme più un'altra scossa ma la fine dell'erogazione, la modifica che è stata annunciata pochi mesi fa dal capo della Protezione Civile. Da gennaio 2019, il contributo non dovrebbe più seguire come criterio il nucleo familiare ma trasformarsi in un rimborso del contratto di affitto che, in molti casi, è inferiore alla cifra del contributo. "E prova a spiegarmi come si fa a tornare in una casetta quando hai provato a ricominciare in un'altra casa e ripartire da un'altra parte. E, sia chiaro, si poteva ripartire solo da un'altra parte non certo da qui. Guarda un po' tu..." dice sempre Sabrina che indica i luoghi del cratere e gli incroci dove sarà inevitabile fermarsi. Mi avvicino infatti ad Arquata del Tronto. A due anni dal sisma il centro storico è sequestrato dall'Esercito che vigila e allontana gli sciacalli. Provo così a capire dove si è spostata Arquata e mi dirigo verso le casette dove la geografia si è mescolata, le vie saltate e i vicini cambiati. Grazie ad Annamaria Parisse, una donna gagliarda di 72 anni, riesco a ricostruire la mappa di questi paesi. Oggi una parte di Arquata è stata trasferita nel campo Borgo 1, mentre i residenti di Trisungo sono stati spostati dove una volta c'era Capodacqua mentre chi abitava a Capodacqua è stato trasferito a Borgo 2. Nella casetta di Anna, 40 metri quadrati, e dove lei da un paio di mesi vive sola, faccio la conoscenza del genero Dario, un giovane bancario che oggi è venuto a trovarla. Mi assicura che ha provato in tutti i modi a convincerla di andarsene e seguirlo. Non ci è riuscito. "Per un paio di mesi è venuta ad abitare a casa nostra. Per non impazzire aveva deciso pure di costruirsi un orto. Diceva che almeno così le sembrava di stare a casa. Ma rimaneva sempre un'altra casa. Alla fine ha preferito tornare". Ci troviamo così a chiacchierare in questo piccolo campo dove lo Stato ha dislocato 16 casette e dove è rimasto un solo bar, anche questo ospitato in un container. "E però, non pensare che gli abitanti fossero migliaia. Parliamo di frazioni e anche Arquata prima del sisma non arrivava che a mille abitanti. Erano paesi destinati a spopolarsi e il terremoto non ha che accelerato l'esodo" rivela ancora Dario che ha un metodo tutto suo per stabilire a che punto sia la demolizione. "Guarda. Il giallo misura lo stato dei lavori. Finora vedi le ruspe. Quando arriveranno le gru vorrà dire che sarà partita la ricostruzione, ma di gru, e può accorgertene tu stesso, non ce n'è. La nostra fortuna, ed è macabro dirlo, è essere ancora gli ultimi terremotati. Ci teniamo stretto questo titolo. Un altro terremoto ci cancellerebbe due volte". Percorro queste strade e come Dario anche io vengo accecato dal giallo che è il colore dell'interruzione, del guasto, il giallo dei cantieri, dei semafori, dei caschi, delle benne. Mai avrei creduto che la ruspa potesse essere benedetta come lo è da queste parti, mai avrei creduto alla speranza che è in grado di evocare un escavatore. Mi lascio alle spalle Arquata e Pretare, altra frazione sempre di Arquata, dove il 98 per cento degli edifici è rimasta inagibile ma non ancora demolita. Le case sono imbragate, puntellate, insaccate. Sono scomparsi pure i cani che di solito nelle montagne alitano vita e calore. Neanche sul Monte Vettore fino a Montemonaco e poi a Montegallo trovo forme umane, ma solo la croce di una farmacia con la sua porta ormai squassata ed esplosa. Devo scendere a fondo valle per imbattermi nelle casette e quindi riconoscere umanità. Qui incontro Federico Rossi e Nicoletta Scopa, una simpaticissima coppia di Bologna che 6 ore prima del terremoto ha deciso di trasferirsi a Montegallo e aprire il proprio negozio. Confezionano sacchetti di lavanda personalizzati che riescono a spedire anche in Germania e Giappone. Lavorano in un container che gli ha donato la Regione Emilia Romagna, "e forse non ci crederai ma a volte ci diciamo: al mondo chi è più felice di noi?". Si bastano e progettano pure di aumentare la produzione, confidano a raccoglierne 600 kg l'anno. "È ovvio, ci prendono per pazzi" dice sorridendo Federico che è stato in precedenza responsabile commerciale di Aruba e poi il fondatore del sito "Sibillini Web" prima di rifugiarsi tra questi boschi. Li saluto convinto che un giorno la ricostruzione la faranno con la loro buona volontà e il loro contagioso buonumore. "Puoi scommetterci, la finiremo noi". Non la finiranno invece a Uscerno dove su 80 abitanti ne sono rimasti solo 25. Non la potranno vedere nella frazione di Corbara dove non è rimasto più nessuno così come a Forca, Castro. La contabilità demografica la tiene il macellaio Mario Migliarelli che proprio a Uscerno, da agosto, ha riaperto l'attività ma solo perché, per il momento, lo Stato ha sospeso i pagamenti delle tasse, "subito dopo, chiuderò e me ne andrò pure io". Proseguo dunque verso la bellissima Castelluccio che non riconosco perché transennata ma che intravedo, paese presepe, altissimo, che sovrasta i campi seminati a lenticchie. Anche qui mi si presentano dinanzi i visi sbarbati dei militari che con cortesia mi ordinano di parcheggiare l'auto. In due anni, militari e sopravvissuti sono diventati una comunità di destino che si fa coraggio a vicenda. "E ormai ci scambiamo pure i libri" dice Andrea Corona, una ragazza romana di 22 anni con un paio di occhialoni che la fanno tenera e dotta. Ogni estate, da quando ha smesso di studiare, è venuta a lavorare in un bar di Castelluccio. È tornata anche adesso e aiuta il proprietario de Le campagnole, piccolo alimentari oggi ospitato in un piccolo capanno di plastica. Andrea è sicuramente una donna inquieta ma dice che Castelluccio riesce a placarla. "Sono stata in India, a Parigi. Ho viaggiato. Alla fine mi sono rifugiata qui con il mio compagno". Che fai la sera? "Adesso mi rileggo I dolori del giovane Werther e un libro sui vichinghi". Guardi la tv? "Riesco a prendere solo due canali". Credi davvero che un giorno ricostruiranno Castelluccio? "E che importa? Io continuerò a tornarci". Così come Federico e Nicoletta anche Andrea, come si capisce, ha trovato la sua stabilità nel terremoto. Nessuno sa dirmi se esiste un paese dove realmente sia cominciata la ricostruzione ma tutti mi indirizzano a Norcia, il paese che ha dato i natali a San Benedetto e che i terremotati quindi invidiano perché forse guardata con più indulgenza non si sa se da parte dello Stato ma sicuramente dal cielo. A guidare il Comune c'è un tostissimo uomo di centrodestra, Nicola Alemanno, che è riuscito a far partire la ricostruzione leggera, a impedire la fuga dei suoi residenti. "Ma se mi chiede a che punto sia la ricostruzione pesante sono costretto a risponderle che siamo allo zero virgola". Anche lui vive oggi in una casetta. Ha chiesto che fosse l'ultimo a riceverla. Non ama molto comparire sui quotidiani ma è finito sotto i riflettori per aver ricevuto due avvisi di garanzia da parte della procura di Spoleto. Lo hanno accusato di abuso edilizio. Con i fondi raccolti dal Corriere della Sera ha pensato di far allestire una struttura mobile per permettere ai suoi cittadini di ritrovarsi e svolgere attività ricreative. "L'abuso starebbe nell'aver posizionato la struttura mobile su una base di calcestruzzo. È chiaro che se non ci fossero state le fondamenta di calcestruzzo rischiava di crollare la struttura mobile". Alemanno dice che il terremoto ha spazzato via gli edifici ma ha costruito un labirinto di norme. Le ha misurate. La mole arriva a 102 cm. 67 ordinanze, 4 decreti legge e nel frattempo si sono avvicendati tre presidenti del Consiglio e tre commissari. "Senza contare che è un terremoto che ha interessato 4 regioni ognuna con una legislazione diversa in materia". A Norcia i progetti per ricostruire sono stati presentati. Sono meno di mille. Un discreto numero. Prima ancora di depositare un progetto di ricostruzione bisogna attendere che a essere completata sia l'indagine di microzonizzazione sismica da parte della Protezione Civile. Alemanno indica il percorso: "A quel punto il progetto viene inoltrato all'ufficio speciale di ricostruzione. Parte un'istruttoria, si interloquisce con il professionista che il progetto lo ha stilato. Si chiedono quasi sempre integrazioni. Se positiva la pratica viene spedita all'ufficio urbanistico, poi a quello paesaggistico del comune che è chiamato a esprimersi. Viene girata alla Soprintendenza che naturalmente può bocciare tutto. Tutta la norma parte dalla convinzione che il cittadino non voglia ricostruire ma aggirare la legge, ingannare. Mi creda, l'Europa è lontana da Roma ma Roma è lontanissima da Norcia". Finora il meglio è stato fatto dai privati. A Norcia, l'imprenditore umanista Brunello Cucinelli ha finanziato la ricostruzione della torre campanaria con due milioni e mezzo. Ad Arquata, Diego Della Valle ha costruito un laboratorio per dare lavoro a cento dipendenti. "So benissimo che molti hanno accettato il Cas e hanno scelto di lasciare questi luoghi. Non c'è dubbio che sia una resa. In un paese colpito dal terremoto si rimane soltanto se si è capaci di conservare il lavoro e le scuole. Anziché parlare di reddito di cittadinanza qui avremmo bisogno di discutere del dilazionamento delle imposte, anziché dichiarare guerra all'Europa, avremmo bisogno di fare riconoscere dall'Europa quest'area come depressa". Ci salutiamo e decido di ripartire in direzione di Visso e Ussita dove le casette sono state scoperchiate per infiltrazioni e umidità. Me lo dice con franchezza, appena arrivo, il direttore tecnico dei lavori del Consorzio Arcale che ha costruito più di 1600 di cui 46 solo a Visso. Si chiama Gianmarco La Muraglia ed è fiorentino. Spiega che la fretta li ha costretti a lavorare nonostante avessero chiesto all'ufficio ricostruzione una sospensione a causa del meteo. Trasportate con la pioggia e montate ad agosto, le casette si sono ammuffite a ottobre. "E adesso ci tocca ripararle e giustamente con la massima celerità". A farmi sentire l'odoraccio di muffa è Francesca Susini, una donna di 86 anni che insieme al marito è sopravvissuta al terremoto e che per un anno ha girato le Marche. "Sono stata una settimana in auto, 6 mesi al lido di Fermo in albergo, poi a Belforte. In roulotte, 4 mesi a Camerino. Ora sono nella casetta ma come può notare è "fracica", anche se non mi lamento". Al contrario di quanto si possa credere chi è rimasto in questi Comuni non ce l'ha con lo Stato. Dialogo infatti con gente rassegnata ma serena che spera solo di ritrovarsi, almeno un giorno, chi con i mariti e chi con le mogli. Me ne convinco a Ussita, in quella che era la piazza centrale, dopo aver parlato con la signora Carla che con i capelli spettinati passeggia da sola. È vedova di un ufficiale e dice di essere rimasta per questa sola ragione. "E non creda che sia l'unica" mi conferma a Pieve Torina un carabiniere. Mi chiede di scrivere di Muccia, altro paese che ha il 95 per cento di case inagibili ma che la stampa ha, secondo lui, completamente ignorato a differenza di Andrea Bocelli a cui si deve il finanziamento della scuola. Anche nel terremoto c'è sempre un terremotato più terremotato degli altri. Così come aveva fatto il macellaio, anche questo carabiniere mi aggiorna sull'emigrazione interna e rivela che gli abitanti di Muccia hanno traslocato sulla costa: Civitanova Marche, Porto Sant'Elpidio, Porto Recanati. Non resta a questo punto che arrivare ad Amatrice. Ebbene, non avrei mai creduto ma è proprio dove la morte ha fatto più flagello che ho ascoltato la dolcissima melodia dei martelli pneumatici, lo strisciare dei cingolati, il rombo dei camion che trasportano i calcinacci. Ad Amatrice, la demolizione verrà completata a fine anno ma nelle 536 casette sento parlare, per la prima volta, delle 113 chiese che un giorno sicuramente verranno ricostruite e che Emma Moriconi, addetta stampa del Comune, mi confida si va a rivedere la notte, quando non riesce a dormire. Si sveglia, apre il pc e con Google Maps passeggia per la vecchia Amatrice: "Aspetta, ti faccio vedere". Fa passeggiare così anche me nel tempo e nella storia e mi racconta di quanto era magnifica la Chiesa di San Francesco, della miracolosa conservazione della reliquia di Santa Maria di Filetta. Insieme a Martina e Sergio ogni fine settimana, Emma conduce il Tg più terremotato ma prezioso d'Italia. È il Tgr Amatrice e va in onda sulla pagina Facebook di Radio Amatrice e su YouTube. Ogni settimana, Emma va in giro per le 69 frazioni e racconta lo stato della ricostruzione. Per questo tg specialissimo ha vinto perfino il "Premiolino", il premio più ambito da noi giornalisti. Anche oggi va a registrare. Mi accompagna quindi a vedere la Torre Campanaria, mi mostra le case non ancora demolite, l'area dove vengono separati gli scarti. Ci sono ancora delle bollette telefoniche, una copia del Corriere dello Sport del 2003, una collezione di schede telefoniche. "Ma la dimensione rimane biblica" ammette il sindaco Filippo Palombini. Dopo la candidatura in regione dell'ex sindaco Sergio Pirozzi, Palombini è stato nominato sindaco e in passato ha ricoperto la carica di assessore all'urbanistica. Con un comunicato ha fatto sapere agli organi dello Stato, che ad Amatrice venivano a fare passerella, che non li avrebbe più ricevuti. Racconta che tutti gli davano pacche sulle spalle e che gli hanno promesso qualsiasi cosa ma che poi, a rimanere e a rispondere ai cittadini, rimaneva lui, "insomma a fare la figura del fesso. Ho detto basta. Adesso qualsiasi rappresentante dello Stato se desidera venire ad Amatrice deve sottoporsi a un'assemblea pubblica". In pratica, una specie di streaming. È venuto più qualcuno? "Non è venuto più nessuno". La scuola ad Amatrice è stata ricostruita grazie a un finanziamento della Ferrari. I ristoranti sono stati spostati nell'area del gusto progettata da Stefano Boeri, in legno e piena di luce e sempre grazie a donazioni private. "Ma se mi chiede cosa è stato fatto dallo Stato, le dovrò rispondere anche io, come il sindaco di Norcia, poco. Niente. E non creda che a mancare sia il denaro. Per Amatrice ne è stato destinato tantissimo. Peccato che sia impossibile spenderlo". Ogni qual volta Palombini ha provato a lamentarsene, gli uffici dello Stato hanno risposto senza mai entrare nel merito. "Sa cosa fanno? Mi destinano altri soldi. Una montagna di soldi. Sono arrivato al punto di dire: vi prego smettetela, datemi la possibilità di spendere il denaro precedente". Palombini spiega che dopo due anni non riesce a spenderli perché il suo comune non è un centro di committenza e che gli enti attuatori sono elefanti. Pure lui è dell'opinione che se non si è veloci non servirà ricostruire il Centro Italia ma bensì ripopolare. Eppure me ne vado da Amatrice sicuro, cosi come mi assicura Emma, ("vedrai la ricostruiremo più piccola così riusciremo a vedere quanto sono belle le montagne"), che ce la faranno al contrario di Illica, una frazione di Accumoli. Sosto e mi riparo per qualche ora da Davide Carusi proprietario del bed&breakfast Lago secco crollato il giorno del sisma. È zona rossa e tuttavia riesco a camminarci. "Anche i militari se ne sono andati". L'ufficio della ricostruzione gli ha assicurato che presto potrà ricominciare. Gli hanno perfino assegnato delle case mobili da usare come camere. Manca la luce, manca l'acqua. Chi gliele ha consegnate gli ha intimato di non aprirle in quanto zona sottoposta a divieto. "Dici che me le hanno date perché sono rompicoglioni? Per farmi stare zitto?". Lo penso ma non glielo dico. Ogni sera Carusi se le guarda e ripete sempre: "Bellissime, le casette sono bellissime".

Terremoto Col volto coperto davanti alle telecamere. I terremotati a Striscia: “Non vogliono che ci lamentiamo”, scrive Massimo Falcioni su La Nuova Riviera il 31 ottobre 2018. Andrà in onda stasera il servizio di Jimmy Ghione realizzato ad Arquata del Tronto. L’inviato si è recato nel paese piceno distrutto dal sisma dell’agosto 2016 dopo la segnalazione di diverse sparizioni da parte di alcuni cittadini. Trattasi di ricordi e oggetti di valore rimasti nelle case abbandonate dopo il violento terremoto. “Hanno portato via parte delle macerie e tutti i beni che avevamo dentro casa non li troviamo più”, denunciano i residenti. “È sparito tutto. Chi ha avuto la casa completamente distrutta pensava di poter comunque ritrovare dei valori sotto le macerie”. Nel filmato parte delle interviste rimarranno “anonime”, dato che qualche cittadino ha deciso di non apparire con il proprio volto. “Non possiamo dire le cose che non vanno, lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose perché altrimenti ci potrebbero essere delle ripercussioni. Questa è una piccola comunità, dove ci si conosce tutti e metterci la faccia significa avere delle ritorsioni personali e anche vendette”. L’appuntamento è per le 20.45 su Canale 5.

Scrive Striscia la notizia il 31 ottobre 2018: furti tra le macerie di Arquata. Jimmy Ghione è ad Arquata del Tronto (Ascoli Piceno), cittadina colpita dal terremoto del 2016. Diversi cittadini segnalano la scomparsa di oggetti di valore e ricordi dalle case abbandonate a causa del sisma: «Hanno portato via parte delle macerie e tutti i beni che avevamo dentro casa non li troviamo più». E ancora: «È sparito tutto. Chi ha avuto la casa completamente distrutta pensava di poter comunque ritrovare dei valori (catenine, oro, gioielli e oggetti di famiglia) sotto le macerie». Purtroppo però, «niente è stato restituito». Inoltre, raccontano che «una persona preposta alla rimozione delle macerie è stata trovata con le mani nel sacco, in casa aveva oggetti di valore proveniente dal cratere (sismico)». Ma non è tutto, i cittadini hanno deciso di denunciare la situazione che stanno vivendo con il volto coperto: «Non possiamo dire le cose che non vanno – sostengono -. Lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose perché altrimenti ci potrebbero essere delle ripercussioni». E precisano: «Questa è una piccola comunità, dove ci si conosce tutti e metterci la faccia significa avere delle ritorsioni personali». O, come sottolineano, «anche vendette».

Jimmy Ghione raccoglie le testimonianze dei cittadini di Arquata del Tronto: furti dalle macerie, scrive il 31 ottobre 2018 "ilprofumodelladolcevita.com". Jimmy Ghione raccoglie le testimonianze degli sfollati di Arquata del Tronto, che dopo il terremoto del 2016, hanno dovuto lasciare tutti i propri beni sotto le macerie. Purtroppo, come accade spesso, il fenomeno dello sciacallaggio ha colpito anche la piccola comunità. I cittadini denunciano il furto di preziosi dalle macerie, dicono, ad opera di chi avrebbe dovuto tutelarle. Nel servizio di Striscia la Notizia che andrà in onda questa sera (31 ottobre), Jimmy Ghione è ad Arquata del Tronto (Ascoli Piceno), cittadina colpita dal terremoto del 2016. Diversi cittadini segnalano la scomparsa di oggetti di valore e ricordi dalle case abbandonate a causa del sisma: «Hanno portato via parte delle macerie e tutti i beni che avevamo dentro casa non li troviamo più». E ancora: «È sparito tutto. Chi ha avuto la casa completamente distrutta pensava di poter comunque ritrovare dei valori (catenine, oro, gioielli e oggetti di famiglia) sotto le macerie». Purtroppo però, «niente è stato restituito». Inoltre, raccontano che «una persona preposta alla rimozione delle macerie è stata trovata con le mani nel sacco, in casa aveva oggetti di valore proveniente dal cratere (sismico)». Ma non è tutto, i cittadini hanno deciso di denunciare la situazione che stanno vivendo con il volto coperto: «Non possiamo dire le cose che non vanno – sostengono -. Lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose perché altrimenti ci potrebbero essere delle ripercussioni». E precisano: «Questa è una piccola comunità, dove ci si conosce tutti e metterci la faccia significa avere delle ritorsioni personali». O, come sottolineano, «anche vendette».

Sciacalli del terremoto senza limiti, arriva anche Striscia la Notizia, scrive Picchio News l'1/11/2018. Gli atti di sciacallaggio ai danni dei terremotati sono iniziati purtroppo fin da subito e con diverse varianti, dalle finte raccolte, alla sottrazione di beni destinati agli sfollati, fino ai classici furti negli edifici abbandonati. Sembra però che in questi giorni, a due anni dalle violenti scosse dell'ottobre 2016, ci sia addirittura recrudescenza del fenomeno. E' di ieri la scoperta nel quartiere Corneto a Macerata, nel palazzone abbandonato di via Cincinelli, di effrazioni ai danni di una dozzina di appartamenti, con gli sciacalli che si sono introdotti all'interno, portando via quel poco che era rimasto, non di particolare valore economico per fortuna. Nella serata di ieri anche Striscia la Notizia si è occupata dello stesso vile fenomeno, con l'inviato Jimmy Ghione ad Arquata del Tronto, a raccogliere le testimonianze di diversi cittadini che hanno segnalato la scomparsa di oggetti di valore e ricordi dalle case abbandonate a causa del sisma. "Hanno portato via parte delle macerie - racconta un testimone con il viso coperto e la voce camuffata - e tutti i beni che avevamo dentro casa non li troviamo più". E ancora: "È sparito tutto. Chi ha avuto la casa completamente distrutta pensava di poter comunque ritrovare dei valori (catenine, oro, gioielli e oggetti di famiglia) sotto le macerie", purtroppo però, "niente è stato restituito". Sembra addirittura che un addetto alla rimozione delle macerie sia stato preso con le mani nel sacco, e gli abbiano trovato a casa oggetti di valore provenienti dal cratere (sismico)". La cosa più triste di questa vicenda è che oltre ai danni subìti, questi cittadini che denunciano devono farlo senza farsi riconoscere, perché dicono che "Lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose perché altrimenti ci potrebbero essere delle ripercussioni". E precisano: "Questa è una piccola comunità, dove ci si conosce tutti e metterci la faccia significa avere delle ritorsioni personali se non addirittura delle vere e proprie vendette".

Striscia la Notizia ad Arquata del Tronto. Sciacallaggio dopo il terremoto: “se parliamo subiremo ritorsioni”. Striscia la Notizia ad Arquata del Tronto: Jimmy Ghione raccoglie le testimonianze dei cittadini vittime del terremoto e di episodi di sciacallaggio. “Se parliamo ci saranno ritorsioni”, scrive il 31.10.2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Jimmy Ghione, inviato storico di Striscia la Notizia, ha raccolto le segnalazioni di alcuni cittadini di Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. Dopo essere stati già vittime del terremoto nel 2016, ora denunciano un altro fatto ulteriormente increscioso, ovvero la scomparsa di oggetti di valore e ricordi dalle loro case. In tanti, infatti, dopo il terribile sisma sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Tuttavia, si sono accorti della mancanza di oggetti a loro cari e per questo hanno deciso di interpellare il Tg satirico di Antonio Ricci che stasera trasmetterà il servizio di Ghione. “Hanno portato via parte delle macerie e tutti i beni che avevamo dentro casa non li troviamo più”, ha denunciato uno dei cittadini di Arquata del Tronto. Ma questa non è stata la sola segnalazione di sciacallaggio raccolta dall’inviato di Striscia la Notizia: “È sparito tutto. Chi ha avuto la casa completamente distrutta pensava di poter comunque ritrovare dei valori (catenine, oro, gioielli e oggetti di famiglia) sotto le macerie”, ha aggiunto un altro testimone di questi spregevoli atti di sciacallaggio.

STRISCIA LA NOTIZIA: AD ARQUATA DEL TRONTO I CITTADINI HANNO PAURA. Al momento nessuno dei cittadini che ha denunciato a Striscia la Notizia atti di sciacallaggio nelle abitazioni abbandonate ad Arquata del Tronto, in seguito al terremoto del 2016, ha ricevuto nulla indietro. “Niente è stato restituito”, ha commentato in tanti a Jimmy Ghione. In altre circostanze, hanno raccontato addirittura di quanto fatto da parte di una persona preposta alla rimozione delle macerie e trovata con le “mani nel sacco”, ovvero con oggetti di valore provenienti dal cratere sismico nella sua abitazione. Nonostante le segnalazioni e le denunce a Striscia la Notizia, i cittadini hanno paura e per questo hanno deciso di rivolgersi a Ghione con il volto coperto. “Non possiamo dire le cose che non vanno. Lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose perché altrimenti ci potrebbero essere delle ripercussioni”, hanno spiegato. Una situazione davvero incredibile, se confermata, precisata da ulteriori dichiarazioni: “Questa è una piccola comunità, dove ci si conosce tutti e metterci la faccia significa avere delle ritorsioni personali”. Gli stessi cittadini temono anche possibili vendette ai loro danni.

Striscia la Notizia ad Arquata per i furti nelle case: “Non possiamo dire che le cose non vanno”, scrive Leonardo Delle Noci l'1 novembre 2018 su Piceno oggi. I cittadini che hanno parlato con Jimmy Ghione avevano tutti il volto coperto e la voce modificata: “Lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose”. Jimmy Ghione è stato in questi giorni ad Arquata del Tronto cittadina colpita dal terremoto del 2016 per conto di Striscia la Notizia, noto programma Mediaset in onda su Canale 5. Diversi cittadini hanno segnalato la scomparsa di oggetti di valore e ricordi dalle case abbandonate a causa del sisma: “Hanno portato via parte delle macerie e tutti i beni che avevamo dentro casa non li troviamo più – afferma un cittadino nel servizio televisivo – È sparito tutto. Chi ha avuto la casa completamente distrutta pensava di poter comunque ritrovare dei valori (catenine, oro, gioielli e oggetti di famiglia) sotto le macerie. Purtroppo però, niente è stato restituito”. Un altro cittadino ha raccontato la vicenda del dipendente della Picenambiente, addetto alla rimozione delle macerie, che custodiva nella sua abitazione oggetti presi dalle abitazioni lesionate: “E’ stato trovato con le mani nel sacco, in casa aveva oggetti di valore proveniente dalle case terremotate”. Poco tempo fala Regione ha tolto la revoca a Picenambiente per la gestione delle macerie nel Piceno per presunte violazioni degli obblighi contrattuali (numero inadeguato di operai, indebita sottrazione di materiale pubblico e di “strani” viaggi dei camion). I cittadini che hanno parlato con Jimmy Ghione avevano tutti il volto coperto e la voce modificata: “Non possiamo dire le cose che non vanno – sostengono nel filmato diramato da Mediaset – Lo Stato e le amministrazioni non vogliono che diciamo queste cose perché altrimenti ci potrebbero essere delle ripercussioni. Questa è una piccola comunità, dove ci si conosce tutti e metterci la faccia significa avere delle ritorsioni personali, anche vendette”.

S COME MAFIA DELLA SANITA’ E DELLA SCIENZA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE” E “LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Fake "global warming" by Zichichi, scrive Lunedì 10 dicembre 2012 Corrado Penna su Muliduri. Tratto da: La Scienza Marcia. Il fisico nucleare Antonino Zichichi al recente convegno di Erice ha denunciato la falsità della teoria sul Riscaldamento Globale Antropogenico. Ce lo riferisce un articolo del 22 agosto 2012 sul quotidiano Il giornale dal titolo "Il riscaldamento globale? Una bufala (troppo) costosa" nel quale leggiamo che secondo le teorie del global warming ...Agli inizi degli anni Novanta si pensava che le temperature sarebbero salite, a livello globale, di un valore compreso tra gli 0,2 gradi e gli 0,5 gradi ogni dieci anni. Invece l'aumento è stato solo di 0,14 gradi. (...)

Detto in altri termini le teorie sul Riscaldamento Globale hanno partorito delle previsioni di riscaldamento esagerato (sempre che di riscaldamento si possa parlare e non di dati falsificati ad arte). Inoltre ...Per abbattere le emissioni globali di CO2 dello 0,0006 entro il 2020 gli australiani spenderanno 130 miliardi di dollari. Se tutti nel mondo praticassero la scelta australiana il costo salirebbe a 541 miliardi di dollari. Insomma, il rapporto costi benefici secondo Monckton è folle (...) Dal momento che l'accettazione delle teorie sul Riscaldamento Globale ha come conseguenza proprio quella di seguire la scelta australiana, e siccome a livello istituzionale/governativo tali teorie vengono generalmente fatte proprie da governi (e meteorologi) c'è da aspettarsi che i governi aggravino la devastante crisi economica imponendo queste scelte scellerate. Tanto a ben vedere a questi governi della prosperità dei propri concittadini non interessa neanche un po'. Ma passiamo adesso alle dichiarazioni di Zichichi: «Per capire gli spostamenti di un elettrone servono delle equazioni non lineari… Possibile che sul clima, che è complessissimo, circolino così tanti modelli predittivi approssimativi, basati su una matematica elementare, e li si consideri attendibili?». (...) «Il motore meteorologico è in gran parte regolato dalla CO2 prodotta dalla natura, quella CO2 che nutre le piante ed evita che la terra sia un luogo gelido e inospitale, quella prodotta dagli esseri umani è una minima parte… Eppure molti scienziati dicono che è quella minima parte a produrre gravi fenomeni perturbativi. Ma ogni volta che chiedo loro di esporre dei modelli matematici adeguati che sostengano la teoria (e comunque oltre ai modelli servirebbero degli esperimenti) non sono in grado di farlo». Contemporaneamente sul sito dell'emittente statale britannica BBC leggiamo come un terzo degli "esperti" che hanno convinto la BBC a "denunciare il Riscaldamento Globale" non erano esperti climatologi ed in più erano "attivisti" del riscaldamento globale, ovvero persone assolutamente di parte.

NB: non ho mai avuto troppa simpatia per il fisico Zichichi, ben noto per il suo appoggio alla costruzione di inquinanti centrali nucleari, cristiano dichiarato che appariva sempre in televisione quando il paese era retto dal governo della Democrazia Cristiana (curiosa coincidenza). Ciò non toglie che le sue argomentazioni in questo caso siano condivisibili. C'è da chiedersi ancora una volta come mai soggetti perfettamente inseriti nel sistema di potere (non si può andare sempre alla RAI senza essere parte del sistema, ed in questo Gabbanelli, Grillo, Zichichi - solo per fare alcuni esempi illustri -  sono del tutto simili) denuncino una delle più grosse menzogne del sistema propagandata da uno degli uomini più potenti del mondo, l'ex vice-presidente degli Stati Uniti Al Gore. La risposta è sempre la solita: chi occultamente tira le fila dietro il sipario della politica internazionale preferisce gestire e manovrare direttamente sia chi si siede nei posti chiavi del governo e delle istituzioni (anche scientifiche e culturali) sia chi (almeno apparentemente) si pone su posizioni critiche al governo ed alle istituzioni. In tal modo il popolo non avrà mai informazioni approfondite su ciò che viene deciso al vertice della piramide di comando, non avrà mai informazioni precise e veritiere sugli atti e soprattutto sulle finalità delle politiche governative, ed anche l'opposizione verrà guidata verso lotte sterili e obiettivi quanto meno limitati (se non errati). Ma come mai poteri occulti starebbe dietro a entrambi gli opposti schieramenti e li sosterrebbero entrambi? Il primo motivo potrebbe essere che cercano di farci credere che ci sia un gruppo di potenti industriali che si oppone alla riduzione della CO2 perché teme che i provvedimenti richiesti dall'IPCC potrebbero danneggiare i propri affari. Così appena una persona denuncia la mancanza di scientificità dell'ipotesi del Riscaldamento globale viene additato come "avvelenatore al soldo dei grandi potentati industriali". Astuzia diabolica. Il secondo è che se si manovra tanto chi propaganda la tesi ufficiale quanto chi si oppone ad essa, si controlla di fatto quasi ogni dibattito scientifico e si impedisce che la popolazione mondiale scopra qualcosa di veramente orribile. I cambiamenti climatici infatti sono per certi versi causati dall'uomo, ma non attraverso l'emissione di anidride carbonica, bensì attraverso l'uso su scala planetaria di tecniche di geoingegneria clandestina e guerra ambientale. Di fronte a cieli sempre più completamente coperti dalle scie degli aerei appaiono infatti ridicole le lamentazioni pseudo-ambientaliste sull'effetto serra causato dalla CO2: la serra c'è ed è visibile ad occhio nudo se solo ci si intestardisce a guardare il cielo ogni 10 minuti per qualche settimana. Guardate la "serra artificiale" qui sotto e poi puntate gli occhi al cielo ogni volta che potete.

"Metà dei farmaci in commercio oggi sono del tutto inutili". Esami prescritti senza senso, cure usate senza alcuna evidenza scientifica, integratori visti come panacea di tutti i mali. La dura denuncia di Silvio Garattini, fondatore dell'Istituto Mario Negri, scrive Cristina Serra il 21 dicembre 2017 su "L'Espresso". Silvio Garattini, fondatore nel 1963 e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, che oggi conta tre sedi - a Milano, Bergamo, e Ranica (Bg) e oltre 950 unità di personale - è una delle massime autorità mondiali in farmacologia, cancerologia e chemioterapia e immunologia dei tumori. È stato membro, fra gli altri, del Comitato di biologia e medicina del Cnr, del Consiglio sanitario nazionale e Commissione della presidenza del Consiglio per la politica della ricerca in Italia, e della Commissione unica del farmaco del ministero della Salute. Da sempre critico nei confronti delle cure mediche “alternative”, è altresì critico verso l’eccesso di medicalizzazione cui stiamo assistendo oggi in Italia. Nell’intervista all’Espresso spiega perché.

Professor Garattini, quali sono a suo parere le cause principali dell’ipermedicalizzazione?

«Ci sono importanti interessi economici, ma concorre al fenomeno anche una pesante asimmetria dell’informazione. Chi vende fa pressione sui gradini inferiori della piramide, e chi acquista non è abbastanza informato. Questo vale sia per il Ssn che, ancor di più, per il cittadino. Cercando notizie in rete, su siti generici, non si trovano informazioni veramente utili per decidere obiettivamente. Informazioni che andrebbero date fin dai primi anni di scuola».

Quali fattori favoriscono il ricorso eccessivo ai farmaci: la presenza di molecole "me too" (nuovi farmaci simili ad altri già presenti), il marketing delle case farmaceutiche o i medici che prescrivono on demand?

«Tutti questi elementi contribuiscono a determinare la situazione. Anche se credo che alla base di tutto ci sia il fatto che la società si è dimenticata che la scienza è, in realtà, parte integrante della cultura, intesa non solo come sapere, ma anche come capacità critica. In Italia, sembra che il concetto di cultura si applichi solo alle lettere, alla filosofia o al diritto. La scuola non vede la scienza come elemento culturale forte, non insegna principi scientifici che permettano di stabilire con relativa certezza se un farmaco serve o no, se esiste un rapporto di causa-effetto o quali sono i rischi e i benefici. Per questo la gente è meno capace che altrove di individuare principi guida cui ispirarsi per valutare le situazioni».

La medicina è ormai un prodotto di consumo e siamo bombardati da notizie sull'ultima miracolosa cura di turno. Così negli ultimi anni anche le persone sane sono state trasformate in potenziali malati per vendergli qualche pillola

Perché non accettiamo più di vivere con il rischio di ammalarci?

«Siamo vittime della pubblicità e siamo convinti di poter vivere in eterno, evitando qualsiasi rischio di malattia, perché la pubblicità promette cose non vere. A forza di sentire che un certo farmaco serve, ci crediamo davvero. Ma così diventiamo tutti pazienti a rischio».

Dove si prescrive in eccesso: con i tumori, con le malattie mentali, o con disturbi minori, quelli con cui, in definitiva, si può continuare a vivere decentemente?

«La medicalizzazione più spinta è nella diagnostica, perché oggi si prescrivono moltissimi esami ematochimici e funzionali inutili. Non a caso si parla di medicina difensiva, perché il medico dimostra così di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per inquadrare quel paziente. L’Italia è tra i paesi in cui si eseguono più Tac e risonanze magnetiche. E lo stesso succede con i test genetici, dove la scoperta continua di nuovi marcatori nel Dna porta a esagerare la prescrizione di test. Test del tutto inutili, perché nella maggior parte dei casi trovare un “difetto” genetico non impone di passare alla terapia, dato che non tutte le mutazioni nel genoma portano a patologia. Ma anche perché spesso una cura proprio non esiste».

Può fare qualche esempio di trattamento terapeutico inutile?

«Ce ne sono molti. L’assunzione di farmaci usati per malattie croniche (come le statine o gli antipertensivi) da parte di pazienti terminali cui questi farmaci non portano beneficio; l’ozono per l’artrite, gli ultrasuoni per i disturbi muscolari, le camere iperbariche usate per disturbi per i quali non ci sono evidenze di miglioramenti. Rientra in questo elenco anche l’abuso degli integratori alimentari, privi di prove di efficacia. Nessuno dice che non fanno nulla, che basterebbe cambiare stile di vita per stare meglio».

Molti farmaci, soprattutto antidepressivi, sono prescritti spesso in combinazione, nonostante prove della loro inefficacia combinata. Perché l’Ema non interviene?

«L’Ema non interviene perché l’attuale legislazione, facendo il gioco delle case farmaceutiche, chiede che un farmaco possieda caratteristiche di qualità, efficacia e sicurezza. Invece, andrebbe considerato anche il valore terapeutico aggiunto, cioè come quel farmaco si posiziona nel mercato in termini di “valore complessivo”, rispetto a farmaci preesistenti. Questi ultimi, se si dimostrano inutili, andrebbero eliminati. Invece in Italia sono passati 24 anni dall’ultima revisione del prontuario terapeutico, quando erano stati eliminati farmaci (non necessari) per un giro di vendite pari a 4.000 miliardi di vecchie Lire di fatturato».

Quali farmaci eliminerebbe oggi, se potesse?

«Sui circa 12 mila oggi in commercio ne eliminerei almeno il 50 per cento».

Tre azioni che dovremmo fare per iniziare a cambiare questo stato di cose.

«Smettere di inventare mongering diseases, cioè malattie che non esistono e che servono solo a vendere farmaci. Avere il coraggio di cambiare l’approccio alle polipatologie, specie nell’anziano, dove l’assunzione anche di 10 farmaci non migliora lo stato di salute perché non sappiamo come i farmaci interagiscono fra loro. E ridare allo Stato un po’ più di potere rispetto alle Regioni, migliorando l’informazione pubblica e rendendola capillare e corretta sin dall’infanzia. Non possiamo guarire tutto con i farmaci, ma buoni stili di vita possono evitare l’impiego di molti farmaci».

L'industria farmaceutica investe in marketing il doppio rispetto alla ricerca. La medicina è ormai un prodotto di consumo e siamo bombardati da notizie sull'ultima miracolosa cura di turno. Così negli ultimi anni anche le persone sane sono state trasformate in potenziali malati per vendergli qualche pillola, scrive Gianna Milano il 05 dicembre 2017 su "L'Espresso". «Dottore, buongiorno, sto male. Cosa ho? Non è facile dire, ci provo». Il quadro clinico si infittisce di appunti: sintomi, valori di colesterolo, pressione, glicemia. Oltre ad aggettivi: stressato, svogliato, depresso. Ma non solo. Il copione prevede tre possibili scenari: il medico prescrive un elenco di analisi e controlli diagnostici; richiede la visita di uno specialista; passa alla compilazione della ricetta. Raramente succede che il medico sfugga a queste tre soluzioni e liquidi il paziente dicendogli: «Lei è sano come un pesce. Le sue sono ubbie da ipocondriaco». In questo caso il malato immaginario ha pronto uno scenario di ricambio e cioè il pellegrinaggio da un medico all’altro alla ricerca di chi scoprirà il suo “problema”. E lo troverà senz’altro. Così come troverà chi gli prescriverà delle pillole. Spesso utili solo a chi le produce. La salute, come scrive Iona Heath nel suo saggio “Contro il mercato della salute” è ormai un prodotto di consumo. E insieme alla domanda di benessere, spesso alimentata da pubblicità mascherata da informazione, cresce la tendenza a medicalizzare tutto. Se la medicina ha fatto negli ultimi decenni grandi progressi, la salute è nel frattempo diventata una merce e come tale prevede un’offerta. La domanda è spesso condizionata da un’industria farmaceutica che investe un terzo del bilancio complessivo in marketing, il doppio di quello che spende nella ricerca, come ricorda Marcia Angell in “Farma&Co”. Non passa giorno che dai mass media non venga proposta (promossa) l’ultima terapia risolutiva per questa o quella malattia (vera o presunta). Ciò che conta, almeno a questo inducono a credere i messaggi che raggiungono i medici, e i pazienti, è che “l’ultima” terapia sia la migliore. Gli stessi specialisti sono inclini a ritenere sia la più efficace, anche se non risulta essere la più documentata dal punto di vista scientifico. Pregi e difetti per emergere hanno bisogno di tempo e mai come in questi anni (lo dimostrano i casi noti di Lipobay, Vioxx, Avandia, tutti e tre farmaci messi in commercio e poi ritirati per i gravi effetti collaterali) l’iter per l’approvazione dei farmaci ha subìto una discutibile accelerazione voluta dall’industria farmaceutica, in cerca di profitti rapidi, ma anche tollerata (favorita) dalle agenzie regolatorie, che dovrebbero vigilare sulla sicurezza dei medicinali. Del resto, l’Agenzia europea per i medicinali (Ema), che Milano ha perso al sorteggio in favore di Amsterdam, la Food and Drug Administration (Fda) in Usa, per l’80 per cento sono finanziate dall’industria farmaceutica e le loro decisioni possono essere “condizionate” da un inevitabile conflitto di interessi. La mancanza di trasparenza e indipendenza da parte di chi dovrebbe svolgere il ruolo di “controllore” getta un’ombra sulla loro affidabilità. E, nonostante lo straordinario miglioramento delle conoscenze, noi ci troviamo oggi in uno stato di maggiore incertezza, come scrive Marco Bobbio, in “Il malato immaginato”. Se fino alla metà del secolo scorso ci si occupava solo di chi era malato, oggi le malattie si curano prima che si manifestino, si gioca d’anticipo convinti di poterle evitare tutte. E si trasforma chi è sano in malato. Comitati di esperti (con conflitti di interessi spesso non dichiarati) hanno man mano abbassato i valori per colesterolo e ipertensione, creando condizioni di pre-malattia, come la pre-ipercolesterolemia o la pre-ipertensione. Condizioni che ovviamente ampliano il numero di chi ricorre a farmaci. Dubbi sono sorti sugli screening, offerti per prevenire patologie temibili come il cancro: via via che le tecniche diagnostiche si affinano aumenta il numero delle lesioni piccolissime individuate (talora di pochi millimetri) che inducono a trattamenti inutilmente invasivi. Nel caso della mammografia uno studio canadese, pubblicato sul British Medical Journal due anni fa e durato 25 anni, ha messo in dubbio che possa ridurre la mortalità per tumore al seno. Il lato oscuro del progresso tecnologico si chiama overdiagnosis: in persone che non presentano sintomi viene diagnosticata una malattia che non sarà mai sintomatica, né causa di mortalità precoce. E l’eccessivo potere attribuito alla medicina comporta inevitabili rischi. Soprattutto se la scienza medica, come avviene oggi, si muove in un incrocio di poteri economici, sociali, intellettuali, e di carriere. Siamo immersi in una medicina che «corre veloce e non è più in grado di valutare con onestà i propri successi e insuccessi; in una medicina che utilizza strumenti diagnostici e terapeutici senza una completa conoscenza dei rischi e dei benefici; in una medicina che sta perdendo di vista il significato della peculiarità dell’incontro tra medico e paziente», scrive Bobbio. Da metà a un terzo degli studi della ricerca biomedica non arriva alla pubblicazione perché non esiste obbligo di pubblicare le ricerche svolte. E gli studi con esiti negativi, denunciano i promotori dell’iniziativa AllTrials, hanno meno probabilità di essere pubblicati. La petizione lanciata da AllTrials chiede che tutti i trial clinici siano resi pubblici e disponibili ai ricercatori: la loro mancata pubblicazione porta a una perdita di informazioni vitali. Nel 2008 fecero scalpore le conclusioni di una ricerca coordinata dall’inglese Irving Hull, uscita sulla rivista online PloS: dopo aver acquisito dalla Fda i dati delle sperimentazioni cliniche (mai pubblicate) sugli antidepressivi di ultima generazione, gli Ssri o inibitori della ricaptazione della serotonina (tra cui il famoso Prozac, farmaco “cult” contro la depressione), il ricercatore concluse che il miglioramento nei pazienti era paragonabile all’effetto di un placebo, ossia un non-farmaco. Intanto, milioni di persone nel mondo ne hanno fatto uso. Il settore farmaceutico è uno dei pochi, nonostante la crisi economica, che non conosce flessioni. Non tanto grazie alla scoperta di nuove molecole, come sostiene Ben Goldacre in “Bad Pharma”, quanto alla promozione su cui i colossi farmaceutici destinano ogni anno decine di miliardi di dollari. La pressione si esercita con viaggi, inviti a congressi, regali, campagne di informazione, finanziamenti a società scientifiche e associazioni di malati. «Molti medici sono arrivati a considerare “normali” le proprie relazioni pericolose con le aziende farmaceutiche», scrive Goldacre. I nodi da sciogliere, tra medicina e potere, individuati negli anni ’70 da Giulio Maccacaro, restano attuali. E non sono chiusi all’interno della medicina ma esprimono un rapporto di potere complessivo. I medici e la medicina non costituiscono un mondo a parte, una sorta di area protetta. Perché la medicina è diventata a tutti gli effetti un settore economico. E per citare un celebre aforisma di Aldous Huxley, autore de “Il Mondo Nuovo”, «la medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno è sano».

Noi, trasformati da cittadini in pazienti. I governi ci considerano soprattutto come potenziali malati. Da qui una lunga lista di obblighi e divieti, scrive Roberto Esposito il 5 dicembre 2017 su "L'Espresso". Tra politica e medicina si va stringendo un nodo sempre più stretto. Si tratta di una relazione da un lato inevitabile, dall’altro pericolosa. Inevitabile perché da tempo il corpo umano è divenuto obiettivo primario del governo degli uomini. Pericolosa perché questo “contagio” tra due linguaggi diversi rischia di snaturare entrambi. O almeno di esporli a strumentalizzazioni reciproche, che non fanno bene né alla politica né alla medicina. Gli esempi li abbiamo sotto gli occhi. Da quando la campagna elettorale di Trump si è giocata in buona parte sull’attacco all’Obama care, l’estensione o la riduzione della copertura assistenziale è diventato l’epicentro dello scontro sociale in America. Ma, in forme diverse, il cortocircuito tra politica e medicina è diffuso ovunque. Anche in Italia, dove l’imposizione di procedure di profilassi, volte alla protezione non solo di singoli bambini, ma di tutti quelli con cui entrano in contatto, ha scatenato una battaglia istituzionale e ideologica tra competenze diverse. Anch’essa immediatamente politicizzata come conflitto di valori tra libertà di decidere per sé e responsabilità nei confronti degli altri. Quando poi la questione medica è entrata in cortocircuito con quella dell’immigrazione - come è accaduto nel caso della bambina morta di malaria - quel nodo tra politica è medicina ha rischiato di stringersi al punto di rendere anche quell’episodio tragico, di origine incerta, un’arma impropria da brandire a fini elettorali. La medicina è ormai un prodotto di consumo e siamo bombardati da notizie sull'ultima miracolosa cura di turno. Così negli ultimi anni anche le persone sane sono state trasformate in potenziali malati per vendergli qualche pillola. Ma quando è nato, e che effetti genera, questo processo incrociato di politicizzazione della medicina e di medicalizzazione della politica? Alla sua origine vi è l’immagine della popolazione come un corpo sociale bisognoso di cura. Naturalmente la metafora dello Stato-corpo ha radici remotissime. Ma solo a un certo punto essa è uscita dall’ambito metaforico, per assumere un formidabile rilievo politico. Da quel momento, situabile alla fine del XVIII secolo, la gestione dei problemi sociali è stata sempre più intesa come una sorta di terapia destinata a curare disfunzioni, patologie, comportamenti devianti. In questo modo il controllo medico dei sudditi si è trasformato in un potente strumento di disciplinamento sociale. Costruzione di grandi ospedali e manicomi, attivazione di norme igienico-sanitarie, misure di contrasto delle epidemie, utilizzo della scienza demografica a fini terapeutici sono tutti effetti di questa traduzione del benessere fisico della popolazione in risorsa fondamentale dello Stato. Da allora problemi collettivi, prima considerati di altra natura, vengono poco a poco inglobati all’interno dell’ambito medico. Mentre, allo stesso tempo, la medicina dei grandi numeri è diventata un’attività con una crescente rilevanza politica. Solo una popolazione ampia e in buona salute consente allo Stato di prosperare all’interno e di vincere le guerre all’esterno. Il concetto di salute pubblica, esteso rapidamente a tutti i regimi, spesso congiunto a preoccupazioni di carattere etnico, ha costituito il perno di questa grande trasformazione. Conosciamo le perversioni razziali che si sono prodotte quando la pretesa sanità di un popolo è stata contrapposta alla malattia congenita di altri. Ma, anche senza arrivare a questi deliri paranoici, la svolta ha riguardato tutti. La medicina sociale è divenuta qualcosa che va molto al di là di un semplice sapere, accampandosi al centro della prassi politica. Come il bene del paziente costituisce l’obiettivo del medico, quello del corpo sociale appare lo scopo dell’agire politico. Non c’è dubbio che tutto ciò abbia avuto effetti complessivamente positivi, misurati dal decrescente tasso di mortalità e dalla progressiva scomparsa delle grandi epidemie in larga parte del mondo. Anche se ciò aumenta il gap da un lato tra Paesi ricchi e Paesi poveri e dall’altro tra coloro che fanno della cura un costoso stile di vita e coloro che sono costretti a rinunciarvi per fare fronte ad altre esigenze più pressanti. Ma anche per la fascia privilegiata, inclusa nei processi di medicalizzazione, c’è un prezzo da pagare. Perché la messa della vita sotto tutela medica produce un’estensione incontrollata della sfera patologica. Come hanno spiegato i sociologi della sanità Pierre Aïach (L’ère de la médicalisation) e Peter Conrad (The medicalization of society), fare della cura medica una delle prime preoccupazioni della politica significa considerare il cittadino innanzitutto come potenziale malato. Da qui un’impressionante lista di obblighi e divieti. Divieti, o forti dissuasioni a bere, fumare, praticare condotte sessuali definite irregolari, da un lato. E prescrizioni di diete alimentari, attività fisica, determinati modelli di vita dall’altro. È evidente che tutto ciò ha avuto notevoli benefici per i singoli individui e per la società nel suo insieme. Ma costituisce anche una gabbia da cui non è facile evadere. Con il forte e motivato dubbio che i vantaggi maggiori vadano alle industrie farmaceutiche e alimentari, alle palestre e ai centri di fitness. Non solo. Ma questo dovere di essere sani - e anche in forma, non in sovrappeso, eternamente giovani - ha un costo ulteriore. Che è quello di trasformare opzioni soggettive in necessità oggettive. Se scelte politiche - relative al modello di sviluppo, alla destinazione delle risorse, o perfino alla gestione dei flussi migratori - vengono sottoposte al vaglio della medicina, rischiano di mutare aspetto. Passano, per così dire, da un orizzonte storico ad uno naturale, in cui le soluzioni sono già prescritte. Ciò che è possibile, o opinabile, diventa necessario, in base al principio ineludibile della salute pubblica - naturalmente secondo l’interpretazione che danno coloro che lo invocano. Perché ciò possa riuscire, perché prescrizioni e divieti vengano accettati, non devono apparire imposti. Devono essere fatti propri dai soggetti cui sono rivolti. I quali devono sentirsi - prima che diretti, governati, amministrati - curati dalla politica. Ma se i cittadini sono sempre bisognosi di cure da parte di politici-medici, significa che l’istituzione della malattia precede quella della salute. Proprio allo scopo di farci sentire tutti sani, ci si considera tutti potenziali malati. Solo chi diffida continuamente della propria salute e si sottopone a un continuo controllo medico, spesso riempendosi di medicine non necessarie, potrà salvaguardarsi. Anticipando con la propria condotta le terapie preventive propagandate senza sosta dal mercato della salute pubblica. Tutti sanno che l’industria medica, come ogni industria, è alla ricerca prima di tutto di profitti. Ma pochi si sentono di disattenderne le prescrizioni, anche quando assumono carattere di imposizione. Intendiamoci. È un’opzione inevitabile. E comunque migliore di ogni altra. Non curarsi, quando si abbiano le risorse, è impossibile. Farsi curare da altri che da medici, insensato. Quasi tutte le terapie alternative nate al di fuori dei protocolli della medicina ufficiale si sono rivelate ben presto inutili, se non dannose. Il rischio di non vaccinarsi è, per sé e per gli altri, infinitamente maggiore che quello, pressoché inesistente, di vaccinarsi. Resta però una considerazione di fondo che tocca la concezione stessa della vita. Biologica e spirituale. La nostra condizione di malati - che continuamente ci viene ricordata infliggendoci infinite cure - è in ultima analisi incurabile. Non esiste rimedio contro ciò di cui siamo da sempre malati. Che è la nostra mortalità. Ciò vuol dire che la malattia che ci costituisce come esseri umani - la malattia del corpo e dell’anima - può essere lenita, ma non debellata. Essa, come perfino la morte, è parte integrante della vita. Anche il malato vive, sperimenta una forma di vita che ha i suoi gesti e le sue parole, le sue norme e le sue eccezioni. La malattia non è l’opposto della salute, ma un percorso interno ad essa. Così come la sanità è interna alla malattia, il suo stato migliore. E mai definitivo.

Ridateci i medici che sanno fare diagnosi: oggi per il paziente è via crucis tra gli specialisti. Nella medicina moderna sembra sparito lo sguardo d’insieme e ormai chi sta male viene spedito da mille diversi esperti per capire cosa ha. E forse anche per questo si moltiplicano i santoni e le cure fai-da-te, scrive Alessandro Gilioli il 7 dicembre 2017 su "L'Espresso". Il dottore ideale, quello dei nostri sogni, è un/una rassicurante professionista di mezza età che prima ascolta pazientemente le tue lamentazioni, quindi ti osserva la lingua, ti misura la pressione, ti ausculta il torace, magari smartella un attimo le ginocchia e infine decide che malattia hai: imbroccandola, naturalmente. Due ricette rosse, una visita in farmacia e tre settimane dopo stai bene come prima. Questo medico non esiste - se non nei nostri sogni appunto - e dobbiamo farcene una ragione. Purtroppo però esiste sempre di più il suo opposto esatto: il medico che sbadiglia o risponde al cellulare mentre gli spieghi i tuoi sintomi, se fuori dallo studio c’è un po’ di coda nemmeno ti visita, poi ti guarda un po’ scocciato e rapidamente ti prescrive un decathlon di esami diagnostici specialistici, senza spiegartene le ragioni. A questo punto il mondo (dei pazienti) si divide in due: quelli che rassegnatamente si trascinano alla più vicina Asl e prenotano appuntamenti per tutti i mesi a venire, dopo essersi dotati di agende anche degli anni successivi; e quelli, più benestanti o coperti da assicurazione, che si recano in un centro privato per affrontare i test a batteria, uno via l’altro, un giorno nel tubo della Rmn e il mattino dopo a farsi punzecchiare con l’elettromiografia. Abbandoniamo cinicamente i primi (i meno abbienti) al loro destino: probabilmente non riusciranno a completare l’inventario degli esami prescritti prima di quello autoptico.  La medicina è ormai un prodotto di consumo e siamo bombardati da notizie sull'ultima miracolosa cura di turno. Così negli ultimi anni anche le persone sane sono state trasformate in potenziali malati per vendergli qualche pillola Prendiamo in considerazione invece i più fortunati secondi, che mettendo mano al portafogli collezionano una decina di chili di referti e poi iniziano a farsi ricevere negli studi con boiserie degli specialisti. Sembrerà strano, ma è a questo punto che per il/la paziente inizia il gioco più divertente, basato - un po’ come il biliardo - sul principio del rimbalzo con traiettorie più o meno prevedibili. Ad esempio, il cardiologo ti manda dal gastroenterologo che ti consiglia una visita dal neurologo, il quale viste le carte ti spedisce dall’epatologo, che però scuote la testa, prescrive nuovi test e ti inoltra dall’ematologo, e così via con qualche picco da brivido (la sala d’attesa dell’oncologo è tra le meno ambite) e talvolta un finale dall’otorino, il quale non avendo capito perché ti hanno mandato lì, già che c’è ti stura l’orecchio col siringone, per dare un senso all’incontro. E così alla fine di tutto il circo non è che ti senti meglio, ma almeno ci senti meglio. Tutto questo è parodia, s’intende. O quasi. In ogni caso forse un problema ce l’ha, la medicina contemporanea così iperspecializzata e iperfondata sulle più evolute macchine diagnostiche. E il problema è che quasi nessuno ti guarda più per intero, dai piedi alla testa, dall’anima all’unghia. Sembra che ciascuno di noi non sia più una cosa sola e totalmente interconnessa al suo interno, bensì un’addizione di componenti meccaniche, pistoni, giunti, cuscinetti a sfera, assali. Tu stai male e vai dal medico di base, che ti spedisce dallo specialista dei pistoni, il quale ti assicura il funzionamento del pistone quindi lui non c’entra e ti assegna al tecnico dei cuscinetti a sfera, proviamo un po’ a vedere che dice lui, eccetera. E a questo punto al sottoscritto - rigidamente razionalista, illuminista, scientista, cartesiano e kantiano - viene tuttavia un dubbio: non è che oggi hanno tanto successo i bufalari della salute, on line o meno, perché la medicina vera sbaglia qualcosa, almeno nell’approccio al paziente?

Sanità: 41 Scuole di specializzazione sono fuorilegge, scrivono Milena Gabanelli e Simona Ravizza l'11 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Ci fideremmo ad andare in un Pronto soccorso per un’emergenza, se sapessimo che il medico di turno durante gli anni di tirocinio si è occupato di tutt’altro? E partoriremmo con un ginecologo che non ha visto più di tre parti, perché nell’ospedale dove ha svolto il corso di formazione la sala parto non c’è? Quando andiamo dallo «specialista» ci rivolgiamo a un laureato in Medicina che dopo aver fatto altri 4-5 anni di studi specifici e di pratica in un ospedale è diventato cardiochirurgo, rianimatore, oncologo, ortopedico, ginecologo, anestesista, ecc. La formazione è affidata alle Scuole di specializzazione. Troppe non formano.

Università – ospedale: come funziona la rete. Quest’anno il Ministero dell’Istruzione, di concerto con quello della Salute, ha accreditato 1.123 Scuole di specializzazione, che dipendono da 42 Università e sono collegate agli ospedali dove viene svolto il tirocinio. Ogni anno si iscrivono quasi 7.000 neolaureati in Medicina, selezionati con un concorso nazionale a quiz, al quale partecipano oltre 16 mila candidati. Pochi, rispetto alla necessità di sostituire chi va in pensione: la stima è che tra dieci anni mancheranno oltre settemila medici. Il problema è che ogni specializzando costa al Ministero della Salute 1.700 euro netti al mese, e per allargare i numeri bisogna trovare i soldi. Ma almeno quei pochi sono messi nelle condizioni di avere una buona formazione?

Requisiti di accreditamento. Per essere accreditate le Scuole di specializzazione devono garantire spazi e laboratori attrezzati, standard assistenziali di alto livello negli ospedali dove viene svolto il tirocinio e indicatori di performance dell’attività scientifica dei docenti. Oggi — carte riservate alla mano — ci sono almeno 41 Scuole di specializzazione senza i requisiti minimi, a cui vengono affidati ogni anno 383 giovani in formazione. Il calcolo è al ribasso, perché Dataroom, insieme all’Associazione liberi specializzandi di Massimo Minerva, ha potuto accedere solo agli indicatori più «vistosi». Vediamoli.

I medici di Pronto soccorso formati senza Pronto soccorso. La presenza del Pronto soccorso — e sembra paradossale doverlo specificare — è obbligatoria per l’accreditamento delle Scuole di specializzazione in Medicina d’emergenza-urgenza, ovvero quelle che formano proprio i medici di Ps. A Napoli, l’azienda ospedaliera Federico II e il vecchio Policlinico, il pronto soccorso non ce l’hanno. Eppure, nei due ospedali, svolgono il tirocinio gli specializzandi in Pronto soccorso delle università Federico II e Vanvitelli. Solo i più fortunati vengono mandati a rotazione negli altri ospedali collegati alla rete formativa, come il San Paolo, l’ospedale Evangelico Villa Betania, il Cardarelli, oppure a Caserta o ad Aversa. Ma la legge è chiara: il Ps deve essere presente sia nella sede principale che nelle altre strutture della rete. «Quante volte sono andato in Pronto soccorso lo scorso anno? Neanche una», dice uno specializzando del Federico II; un altro aggiunge: «Io faccio le guardie di notte in Cardiologia, e siccome lì ci sono i turni da coprire, anche quest’anno in Pronto soccorso non ci andrò».

Gli altri casi fuorilegge. La presenza del Pronto soccorso è obbligatoria anche per l’accreditamento delle Scuole di specializzazione in Medicina interna, Ortopedia e traumatologia, Pediatria, Radiodiagnostica, Malattie dell’apparato digerente e cardiovascolare. Bene, 4 Scuole sono accreditate al Campus Biomedico, 6 all’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro, 10 alla Vanvitelli e 12 al Federico II. Nessuno degli ospedali collegati ha nella propria sede principale il Pronto soccorso. Le Scuole di Anestesia devono avere l’elisoccorso ed una convenzione con il 118. Non ce l’hanno a Chieti, alla Vanvitelli, al Federico II e al Campus biomedico.

Ostetrici senza sale parto. Non hanno i reparti di Ostetricia l’ospedale Sant’Andrea di Roma, riconosciuto come Scuola di specializzazione in Ostetricia e ginecologia per La Sapienza II, né il Policlinico universitario del Campus biomedico. All’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro, accreditata in Malattie dell’apparato respiratorio, non c’è il reparto di Chirurgia toracica.

La complicità fra politica e accademia. Per l’Università incassare un accreditamento come Scuola di specializzazione garantisce posizioni di prestigio ai professori titolari di cattedra, mentre per gli ospedali collegati significa avere a disposizione forza lavoro a costo zero (gli specializzandi li paga lo Stato con contratti di formazione). Un sistema andato avanti per anni, al di fuori di ogni controllo e a cui hanno messo mano per la prima volta il 13 giugno 2017 gli allora ministri Valeria Fedeli (Istruzione) e Beatrice Lorenzin (Salute). Sono stati stabiliti i requisiti minimi di qualità per ottenere l’accreditamento e parametri rigorosi per valutare la qualità della formazione delle Scuole. È nato l’Osservatorio nazionale composto da 16 figure universitarie di prestigio, ordinari di Medicina e presidi di facoltà (guidati dall’endocrinologo di Padova Roberto Vettor). Il lavoro ha portato all’esclusione di 130 Scuole di specializzazione, il 10% del totale, perché senza i requisiti minimi. Come abbiamo visto, però, le situazioni irregolari continuano. L’unico modo per verificare se un’Università non dichiara il vero, è quello di andare a vedere sul posto, e dovrebbero farlo le Regioni, le quali si sono tutte dotate di un Osservatorio. Il fatto che finora non sia stata prodotta una relazione che sia una, la dice lunga sulla «complicità» locale tra politica e accademia.

Le Scuole di qualità non ci mancano. A febbraio-marzo 2019 dovrebbe esserci la resa dei conti, in vista dei nuovi accreditamenti. Una politica responsabile ha il dovere di mandare gli specializzandi a formarsi solo nelle Scuole dì qualità (e non ci mancano). Le altre vanno cancellate, o devono esse messe nelle condizioni di adeguarsi. La ricaduta finale di una cattiva formazione si scarica sui pazienti, che non ricevono cure appropriate, con conseguente aumento dei costi sanitari. Infine c’è il preoccupante fenomeno in crescita dei chirurghi che, avendo fatto pochissimi interventi durante gli anni di tirocinio, si rifiutano di entrare in sala operatoria per paura di sbagliare. È questa la Sanità che meritiamo?

TUTTE LE MAFIE CHE SPECULANO SULLA SALUTE.

Le mafie in farmacia: così i clan si arricchiscono con furto e spaccio di medicine. Sostanze per milioni di euro destinate ai pazienti italiani vengono rapinate dalla criminalità organizzata e rivendute in Germania: è la nuova frontiera del crimine. Mentre i nostri ospedali rischiano di restare senza antitumorali e ai malati tedeschi arrivano sostanze contraffatte o scadute, scrive Elena Testi il 27 agosto 2018 su "L'Espresso". Lungo la A16, in direzione Cerignola Ovest, non passa un’auto. Attendono nascosti dietro il guard rail. L’assalto è stato organizzato da tempo. Conoscono tragitto e targa del tir, ma soprattutto hanno tra le mani la lista del carico che trasporta: farmaci antitumorali e - in minima parte - medicinali da banco. Sono le 4.30 del mattino del 4 luglio. Il volto coperto. Tra le mani fucili e pistole. Gli autisti riescono a percepire solo qualcosa di anomalo prima che l’assalto paramilitare venga messo in atto. I conducenti scendono con le mani alzate. Gli assalitori sequestrano l’autotreno e percorrono dieci chilometri esatti. Si fermano in una strada di campagna, utilizzano cesoie idrauliche per smembrare il cassone e lasciarlo vuoto. Un bottino da un milione di euro. Ad agire è un commando assoldato da un’organizzazione criminale che sa dove piazzare i farmaci e come reimmetterli nel mercato europeo del “parallel trade” farmaceutico. In sé legale, ma facile da infiltrare grazie a meccanismi di falsa fatturazione e operatori disinvolti. Parte così dall’Italia la catena criminale dei farmaci rubati e mette a rischio vite umane sia in nel nostro Paese sia all’estero.

Il mercato parallelo. Per “parallel trade” s’intende la libera circolazione, all’interno del mercato europeo, di un medicinale autorizzato. Ciò significa che uno stato membro Ue può vendere un farmaco a prezzi vantaggiosi a un altro paese. E il naturale acquirente è la Germania, dove i prezzi degli antitumorali sono molto più costosi che in Italia e in Grecia. Ad esempio, a Berlino a comprare sono ospedali e cliniche che per problemi di budget preferiscono la convenienza alla sicurezza. E proprio in questi giorni nella regione del Brandeburgo è scoppiato lo scandalo: un giro di arresti e un grossista, LunaPharm, che dal 2015 ad oggi, ha introdotto farmaci salvavita all’inizio sottratti ad Atene e più recentemente al Sistema Sanitario italiano, togliendo le cure ai nostri pazienti malati di cancro. Il rischio adesso è per la salute dei pazienti che ne hanno fatto uso, visto che i medicinali venduti dalle organizzazioni criminali potrebbero essere, come già successo in passato, contaminati, diluiti o trasportati a temperature che ne eliminano il principio attivo, rendendo le cure completamente inutili. Come denuncia Aifa in un suo libro bianco: «Introducono rischi di indisponibilità delle cure per i cittadini italiani e - dove riutilizzati - diventano pericolosi a causa dell’uscita dal controllo della corretta conservazione». Tradotto: i farmaci anti-tumorali vengono tolti ai pazienti malati di cancro in Italia e rivenduti inefficaci a quelli tedeschi.

Gruppi criminali specializzati. È dunque lungo l’autostrada dei due mari, quella che taglia l’Italia a metà e collega il Tirreno all’Adriatico, che si è consumato l’ultimo assalto a un tir che trasportava medicinali salva-vita. Le rapine sembravano essersi fermate dopo la prima crisi, quella esplosa tra il 2012 e il 2014, grazie all’operazione internazionale, soprannominata Volcano e coordinata dall’Agenzia italiana del farmaco. Non solo assalti ben studiati agli autotrasportatori, ma anche furti mirati agli ospedali. Secondo lo studio pubblicato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dall’Università degli Studi di Trento, in Italia tra il 2006 e il maggio del 2014, un ospedale su 10 ha registrato furti di farmaci con una perdita media di circa 330 mila euro per ogni colpo andato a segno, soldi e medicinali sottratti al sistema sanitario nazionale. Il 55 per cento erano antitumorali. La pausa è durata tre anni, il tempo - per i criminali - di rigenerarsi e studiare nuovi meccanismi per superare i controlli. Da pochi mesi le bande hanno ripreso gli assalti ai tir e le razzie nelle farmacie ospedaliere in Italia. Dall’inizio del 2018 sono stati già rubati milioni di euro in salvavita, gli ultimi ritrovati grazie all’indagine coordinata dal sostituto procuratore di Foggia Francesco Diliso. Su un documento pubblicato da Sifo (Società italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende ospedaliere) si legge: «Gli investigatori sono sempre più convinti che una parte non trascurabile dei furti commessi ai danni di ospedali e farmacie sia opera di gruppi criminali specializzati». E ancora: «Le ipotesi investigative sono confermate da dati incontrovertibili che fanno presumere la presenza delle organizzazioni criminali mafiose». A confermare queste parole c’è un’indagine della Dda di Bologna, coordinata dal pubblico ministero Enrico Cieri. Nell’inchiesta, partita nel 2014 collegata ai 14 filoni della operazione Volcano, è emerso un legame tra le organizzazione criminali dei farmaci e il clan Licciardi, potente e spietata famiglia della camorra napoletana. Nelle intercettazioni telefoniche si parlava di soldi: cifre su cifre per poter operare nel loro territorio. Secondo la difesa si trattava “solo” di pizzo, per l’accusa di un legame tra i grossisti e il clan camorristico.

‘Ndrangheta protagonista. Ma gli investigatori tedeschi ipotizzano che anche la ‘ndrangheta possa avere addirittura una parte da protagonista nei traffici. A realizzare i furti ai danni dei pazienti italiani, con fiale che possono costare da 1.500 euro fino a 15mila, sono infatti bande specializzate assoldate da organizzazioni criminali che conoscono bene i sistemi tedeschi. Dalle inchieste si è scoperto che sono circa 200 i cognomi in odor di mafia residenti in Germania. Le autorità tedesche hanno detto apertamente di «temere la presenza della mafia» dietro ai traffici di medicinali. Ed è uno dei motivi che ha spinto gli investigatori di Berlino, i primi di agosto, a contattare l’Agenzia del farmaco italiana, che già da tempo ha apertamente messo in guardia su questi rischi, spiegando che in teoria nessun antitumorale potrebbe uscire dal nostro sistema sanitario nazionale, perché sono tutti ceduti in via esclusiva alle farmacie ospedaliere. I clan calabresi, strutturati e ben organizzati, sono da tempo presenti sul territorio tedesco. Un porto sicuro, visto che lì non esiste il reato di associazione mafiosa. Sono loro, insieme alla camorra campana, ad agire sotto traccia. E non è un caso che in Calabria i megafurti di farmaci nell’ultimo periodo siano aumentati: cinque accertati solo negli ultimi due mesi. Più in generale, rapine e stoccaggi avvengono soprattutto nel sud Italia: tra Campania, Calabria, Sicilia, la provincia di Foggia e quella di Bari. Il meccanismo è studiato ad hoc: si infiltrano tra il personale delle strutture sanitarie o corrompono quello già in servizio. Per gli assalti ai tir si appoggiano alle bande specializzate locali. Come quello alla farmacia dell’ospedale Gravina di Caltagirone (Catania), dove il 21 aprile scorso sono state rubate centinaia di confezioni di farmaci chemioterapici. Sono entrati nei locali a notte fonda e hanno svaligiato solo uno dei tre frigoriferi presenti, quello contenente - appunto - i chemioterapici. Nel distretto socio-sanitario di Bitonto (provincia di Bari), il 9 luglio scorso sono state portati via 470 mila euro di anti-tumorali. Anche in questo caso sapevano dove andare a cercare. Un altro colpo a San Marco Argentano (Cosenza) e questa volta la cifra è più bassa: 90 mila euro. Ma il centro Italia non rimane immune alla razzia: è il 19 maggio scorso quando gli operatori sanitari spalancano le porte del mega deposito dell’Estar in via Genova a Grosseto e si accorgono che mancano tre milioni di medicinali, quasi tutti destinati ai malati di cancro. Un furto studiato in ogni dettaglio, dai sistemi di sicurezza fino alle abitudini di chi vive vicino al deposito. Hanno agito nell’unica zona d’ombra dei sensori antifurto.

Le scatole cinesi nell’Est Europa. I medicinali rubati in Italia di solito vengono portati in Grecia e in Turchia, passando per un sistema di fatturazione “a scatole cinesi” tramite filiali fittizie aperte nei paesi dell’Est Europa. In alcuni casi i farmaci vengono etichettati nuovamente per mascherare la loro provenienza, in altri ceduti senza riconfezionarli. L’ultimo passaggio è la vendita agli importatori in Germania, dove la legge impone alle farmacie di comprare dal “parallel trade” almeno il 5 per cento dei medicinali. Il caso LunaPharm tuttavia ha costretto il ministero della salute del Brandeburgo a diramare un allarme pubblico d’emergenza. Diana Golze, a capo del dicastero, è a rischio dimissioni: è ormai certo infatti che dal 2015 ad oggi sono stati somministrati farmaci ai pazienti oncologici tedeschi senza un controllo serrato, nonostante l’Italia avesse informato le autorità competenti in Germania, specificando il rischio che i salvavita provenienti illegalmente dal nostro paese fossero inefficaci o addirittura contaminati. La ministra tedesca ha dichiarato: «Voglio scusarmi personalmente con i pazienti e i loro parenti. Per me è importante fare chiarezza e, soprattutto, prendere tutte le misure necessarie per evitare che accada di nuovo». A LunaPharm, il grossista tedesco, è stata subito sospesa la licenza. Ora una linea telefonica assiste i pazienti, ma nell’allerta del ministero si legge: «Una raccomandazione chiave per tutti è rivolgersi al medico curante, solo quest’ultimo può fare una dichiarazione su quali farmaci sono stati effettivamente somministrati». Dice Lidio Brasola, responsabile della supply chain di Roche: «Due sono le priorità: da un lato è necessario che la Germania renda più efficaci i controlli per evitare infiltrazioni illegali; dall’altro è estremamente importante che le strutture ospedaliere Italiane rinforzino sempre di più la loro sicurezza interna altrimenti i furti continueranno senza sosta. L’Aifa dopo la crisi del 2014 ha fatto un buon lavoro, creando un network tra ospedali, forze dell’ordine, procure e case farmaceutiche. Un modo per avere costantemente la situazione sotto controllo. È su questa strada che bisogna proseguire».

Grossisti compiacenti. Come si diceva, il business è recrudescente ma ha origini meno recenti. È il 31 marzo del 2014 quando un lotto di Herceptin 150 finisce nelle mani di un grossista inglese. Le fiale sembrano essere state aperte e richiuse, all’esterno dell’involucro c’è della sostanza. Il venditore decide di chiamare l’azienda farmaceutica italiana che produce l’antitumorale. Una manciata di ore dopo si scopre che l’Herceptin 150 proviene da un assalto a un tir italiano. Contaminato e comunque rivenduto, senza nessuno scrupolo. La procura di Napoli apre un fascicolo e, insieme ad altre 13 indagini, sgretola, pezzo dopo pezzo, l’organizzazione criminale con base in Campania ma attiva in tutta Italia.

Normativa Ue da rifare. Inchieste come quella coordinata dal pubblico ministero Diana Russo risalgono alle filiali aperte all’estero dall’organizzazione, e identificate da Aifa e dalle altre agenzie del farmaco europee come illegali: Cipro, Ungheria, Lettonia, Romania. Slovacchia e Slovenia. Qui venivano emesse le fatture false, i medicinali da rubati venivano trasformati in perfettamente legali, senza lasciare i capannoni di stoccaggio con sede in Campania e il nullaosta operativo della famiglia Licciardi. Le farmacie di collegamento erano quasi tutte di Napoli o Nola. I salvavita venivano poi rivenduti al mercato tedesco da grossisti compiacenti, come LunaPharm, togliendo così ai pazienti italiani le cure necessarie e rivendendo invece a quelli tedesche medicinali inefficaci o persino letali. L’inchiesta finisce davanti all’Ema (Agenzia Europea per i medicinali) con Aifa che mette in allerta e la Germania con un libro bianco sul caso. Poco però, dopo questo caso, viene fatto a Berlino. I farmaci anti-tumorali illegali continuano a essere distribuiti senza controllo, fino a far scoppiare il caso degli ultimi giorni, con la ministra Golze che ammette: «Sono state chiaramente violate le regole esistenti, regole che hanno portato a questo fallimento». Dice Domenico Di Giorgio, Dirigente Area Ispezioni e Certificazioni Aifa: «Nel 2014 coordinammo l’operazione europea Volcano contro furti e riciclaggio dei farmaci, emergenza fino ad allora contrastata senza percezione strategica dell’organizzazione dietro quei traffici. Amministrazioni e aziende si mossero insieme contro le distorsioni nella rete distributiva, mettendo in atto strumenti come la piattaforma Fakeshare e riuscendo così a bloccare i furti per oltre 2 anni». Oggi il maggior problema per Di Giorgio è che «mancano sanzioni specifiche: gli 80 arresti italiani hanno portato a condanne solo per reati comuni come rapina e semplici furti. Gli operatori che compravano farmaci da canali chiaramente sospetti, all’estero sono stati trattati addirittura come vittime». Aifa ora chiede non solo reati specifici, ma anche un ripensamento della normativa europea contro le distorsioni del mercato tedesco: «I prezzi alti e il vincolo normativo al “parallel trade” fanno sì che lì operino molti trader, tra i quali una minoranza che acquista senza controllare le fonti. Bastano loro a rendere il paese un magnete per prodotti illegali, mettendo a rischio sia i pazienti italiani sia quelli tedeschi, e diventando sponsor di reti criminali che generano ovunque furti e rastrellamenti, danneggiando i sistemi sanitari di tutta Europa».

C'è un mercato parallelo dei farmaci che ci danneggia tutti. Ma è legale (e vale miliardi). In Italia vengono considerate carenti circa 1.500 medicine e la loro mancanza ritarda o rinvia la possibilità di curarsi. Il motivo? Rivenderle ai paesi del Nord Europa è più remunerativo, scrive Fabrizio Gatti il 12 luglio 2018 su "L'Espresso". Se non trovate la medicina che il medico vi ha prescritto, prendetevela con le regole del libero mercato o con le autorità che non sono in grado di domarle: perché probabilmente le vostre confezioni di pillole e di iniezioni sono state esportate in Germania o in Inghilterra o in Olanda dove valgono molto di più. Sono 1.556 i farmaci carenti in Italia, secondo l’elenco settimanale pubblicato il 28 giugno scorso da Aifa, l’agenzia di autorizzazione e controllo del ministero della Salute: di questi, 410 non hanno alternative equivalenti. Significa che la cura necessaria rischia di essere ritardata o rinviata. Mancano perfino alcuni preparati importanti per la sopravvivenza destinati alle unità di pronto soccorso degli ospedali. Nella lista dei vuoti di magazzino appaiono anche trentacinque vaccini. Alcuni sono tra quelli previsti dalla campagna in corso che, secondo la tabella, non possono contare su formule equivalenti: gli anti-Haemophilus influenzae di tipo B diventati rari per problemi produttivi, l’Infanrix contro difterite-tetano-pertosse per cessata commercializzazione temporanea, l’Engerix contro l’epatite B per problemi produttivi, l’Imovax polio contro la poliomielite per problemi commerciali, l’Imovax tetano contro il tetano per problemi commerciali e il Varilrix contro la varicella per problemi produttivi. Si tratta di preparati delle multinazionali Sanofi-Pasteur-Europe e Glaxosmithkline. La denuncia di Francesca Mannocchi “Io, la mia malattia e il patto spezzato”, pubblicata su L’Espresso la scorsa settimana, non riguarda soltanto le terapie a lungo termine. Ne siamo tutti coinvolti. E giugno si conclude con un ulteriore record. Soltanto una settimana prima, il 20 del mese, i farmaci carenti (tra i quali sono comunque incluse le cessate produzioni) erano 1.527, ventinove di meno. E quelli senza alternative equivalenti 398. L’esportazione di medicinali dai magazzini italiani verso il Nord Europa è una distorsione del mercato in corso da qualche anno. Tanto che all’inizio del 2018 la Federazione delle associazioni degli informatori scientifici del farmaco e del parafarmaco ha rilanciato l’allarme sul suo sito: “Carenza e speculazione sui farmaci: quando la salute vale meno di una mazzetta”. Sotto accusa è il mercato parallelo, considerato il principale responsabile della scarsità di medicinali in circolazione: cioè la possibilità legale per grossisti, grandi farmacie e a volte perfino ospedali di rivendere in altri Paesi dell’Unione europea, dove pagano di più, i farmaci destinati a noi. La convenienza, per gli esportatori paralleli, è data dal prezzo stabilito dagli accordi tra Aifa e le case farmaceutiche sulle medicine rimborsabili: prezzo che per Italia, Spagna e Grecia, tutti Paesi afflitti dalla carenza, è tra i più bassi in Europa. Questo mercato fantasma, i cui effetti però si vedono benissimo, riguarda soltanto i farmaci dispensati interamente o parzialmente dal servizio sanitario nazionale: sia quelli di fascia A, disponibili in farmacia su presentazione della ricetta del medico, sia quelli di fascia H il cui impiego, tranne casi particolari, è riservato a ospedali, ambulatori o strutture assimilabili. L’esportazione non riguarda ovviamente le medicine in libera vendita il cui prezzo, anche nei Paesi del Nord Europa, è determinato dal rapporto diretto tra produttore o grossista e venditori. Se la farmacia, anche ospedaliera, non è in grado di fornire i farmaci prescritti dal medico, il cittadino può impugnare i commi 3 e 4 dell’articolo 105 contenuto nel Decreto legislativo 219 del 24 aprile 2006. È uno strumento legale fondamentale che di fronte ai rischi per la salute non va dimenticato. Stabilisce il comma 3: «La fornitura alle farmacie, anche ospedaliere, o agli altri soggetti autorizzati... dei medicinali di cui il distributore è provvisto deve avvenire con la massima sollecitudine e, comunque, entro le dodici ore lavorative successive alla richiesta...». E il comma 4: «Il titolare dell’Aic (Autorizzazione all’immissione in commercio, cioè la casa farmaceutica) è obbligato a fornire entro le 48 ore, su richiesta delle farmacie, anche ospedaliere, un medicinale che non è reperibile nella rete di distribuzione regionale». Davanti alle distorsioni e allo strapotere del mercato, noi pazienti siamo completamente soli. E anche quando le autorità nazionali di controllo hanno provato a intervenire, l’Unione europea ha difeso sia il mercato, sia le sue distorsioni. L’ha fatto nel 2003, con questa comunicazione della Commissione di Bruxelles: «L’importazione parallela di medicinali è una legittima forma di scambio in seno al mercato interno, fondata sull’articolo 28 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (libera circolazione delle merci) e soggetta a deroghe relative alla tutela della salute e della vita...». Il business è cresciuto, le deroghe sono svanite. Tanto che Polonia, Romania e Slovacchia, quando hanno tentato di limitare l’esportazione parallela di farmaci dai loro magazzini, sono state denunciate proprio da Bruxelles. Le procedure di infrazione sono state archiviate il 17 maggio scorso, finalmente con un nuovo convincimento: «La Commissione», è scritto nel provvedimento di archiviazione, «riconosce che il commercio parallelo dei medicinali può essere uno dei motivi per cui si verificano carenze di una serie di medicinali per uso umano. Conciliare il rispetto della libera circolazione delle merci con il diritto dei pazienti di accedere all’assistenza sanitaria è un compito particolarmente delicato. Dopo un’attenta valutazione, la Commissione ha riconosciuto la necessità di esaminare altre vie diverse dalle procedure di infrazione...». Sembra incredibile: ma per Bruxelles il libero mercato e migliaia di cittadini che rischiano la vita per mancanza di medicine in Europa hanno lo stesso peso. Tanto che è necessaria una “conciliazione”. L’obiettivo della Commissione ora è quello di «raccogliere maggiori informazioni dagli Stati membri e dalle altre parti interessate per discutere l’attuazione dell’obbligo di servizio pubblico e le restrizioni all’esportazione nell’ambito del gruppo di lavoro...». Proprio così: basterebbe attribuire a tutta la filiera gli obblighi del pubblico servizio. Con le associazioni di produttori, distributori e farmacisti, tra cui Farmindustria, Adf e Federfarma, il ministero della Salute, Regione Lazio, Regione Lombardia e Aifa avevano firmato un patto già nel settembre 2016. «La sottoscrizione di questo documento testimonia l’impegno capillare e profuso di tutte le istituzioni coinvolte nella filiera farmaceutica», diceva in quei giorni Mario Melazzini, allora presidente e oggi direttore generale di Aifa: «Non posso non sottolineare e apprezzare il grande senso di responsabilità dimostrato da tutti i soggetti intervenuti oggi a firmare questo accordo». Tanto ottimismo aveva spinto il Sole24Ore a titolare: «Mai più carenza di farmaci». I tempi cordiali delle trattative ovviamente sono molto diversi da quelli che separano vita e morte nelle unità di pronto soccorso. Prendiamo il Flebocortid Richter prodotto dalla Sanofi: «È indicato nelle situazioni di emergenza che richiedono rapidamente un’elevata disponibilità nel sangue di idrocortisone... importante ai fini della sopravvivenza», spiega il foglietto illustrativo. Viene impiegato per gli stati anafilattici che non rispondono alla terapia tradizionale o per gli shock gravi, chirurgici, traumatici, emorragici, cardiogeni, da ustioni, resistenti alla terapia standard. Il farmaco risulta carente dal 22 maggio 2018 al 30 giugno 2018: «Problemi produttivi - Si rilascia autorizzazione all’importazione alle strutture sanitarie per analogo autorizzato all’estero», prescrive l’elenco delle carenze di Aifa. All’estero il prezzo del Flebocortid sarà quello di solito ben maggiore, dettato dalla situazione di emergenza. Clexane, nel comune dosaggio iniettabile di 4.000 UI (unità internazionali) da sei siringhe preriempite, è invece un farmaco diventato raro dal 26 aprile 2018, sempre per problemi produttivi. Blocca la formazione di coaguli nel sangue e serve a prevenire la trombosi venosa profonda in chirurgia generale, in chirurgia ortopedica e nei pazienti a rischio trombosi costretti a letto per lunghi periodi. Il prezzo concordato da Aifa con il produttore Sanofi e pagato dal servizio sanitario nazionale è di 32,70 euro a confezione: 5,45 euro a dose. In Germania il prezzo rimborsato dallo Stato sale fino a 11,65 euro a dose, a seconda del tipo di confezione. L’elenco delle carenze contiene anche l’Igantet, farmaco importante per la terapia contro il tetano, antiemorragici efficaci e antireumatici. «L’importazione parallela di farmaci, consentendo l’acquisto di medicinali a prezzi inferiori», spiega Fabrizio Gianfrate nella ricerca “Il Parallel Trade dei farmaci in Europa”, «rappresenta in potenza un vantaggio per i pagatori, pubblici e privati, ovvero i sistemi sanitari e le famiglie». Si stima un giro d’affari di circa quattordici miliardi di euro, il sette per cento di tutto il mercato farmaceutico europeo. Per alcuni medicinali specifici, in Germania, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia, l’importazione parallela rifornisce tra il 55 e il 63 per cento dei consumi. Mentre si calcola che il 16 per cento dei farmaci venduti in Grecia sia dirottato verso Paesi europei più ricchi. Anche in Italia qualunque grossista o distributore, che paga la merce al prezzo nazionale concordato, può trovare più redditizio vendere un certo farmaco sui canali dell’esportazione parallela piuttosto che distribuirlo ai farmacisti suoi clienti: ai quali basta dichiarare che il farmaco è mancante senza spiegarne la ragione. A questo punto la rete delle farmacie segnala la carenza alla Regione. E alla fine il farmaco finisce nell’elenco di Aifa. Anche se alle case farmaceutiche spesso risulta regolarmente distribuito. Il meccanismo permette così un risparmio sulla spesa sanitaria agli Stati del Nord Europa, che in base al loro Pil (Prodotto interno lordo) hanno contrattato prezzi ufficiali più alti con i produttori. Una scorciatoia che lo studio di Gianfrate mette a nudo. In Germania il farmacista deve vendere almeno il 7 per cento di farmaci importati parallelamente e il medicinale parallelo ha un prezzo di almeno il quindici per cento inferiore al listino nazionale. In Olanda i farmacisti sono incentivati a vendere farmaci importati parallelamente poiché vengono rimborsati al 94 per cento dell’intero prezzo nazionale e possono trattenere tutta la differenza tra il valore rimborsato e quello di acquisto dal grossista, mentre il governo olandese recupera circa il 7 per cento dei ricavi del farmacista. In Danimarca il farmacista deve informare il paziente di tutte le alternative inclusi i medicinali di importazione parallela e in Norvegia i medici sono incoraggiati a prescriverli. In Svezia le farmacie sono statali, i farmacisti devono fornire il farmaco più economico tra le alternative equivalenti e i medicinali paralleli sono i meno tassati. Nel Regno Unito a guadagnarci sono soprattutto i farmacisti: possono trattenere la differenza tra il prezzo rimborsato dallo Stato e il prezzo scontato di acquisto del farmaco parallelo, mentre il governo recupera una parte dei ricavi dei grossisti in base alla quota nazionale di importazione. Per la Gran Bretagna sottrarre legalmente farmaci da altri Paesi europei permette un risparmio di un miliardo di sterline all’anno: un miliardo e centotrenta milioni di euro. Il processo prevede che i medicinali siano riconfezionati per tradurre scatole e fogli illustrativi nella lingua di destinazione, senza però la supervisione delle case farmaceutiche. «Questo introduce rischi di sicurezza e qualità per il riconfezionamento, se viene effettuato inadeguatamente», avverte la ricerca di Fabrizio Gianfrate, «e favorisce il crescente fenomeno della contraffazione». Lo scorso anno Aifa ha annunciato che i furti di farmaci in Italia sono crollati dalle ottocentomila confezioni rubate nel 2013 alle ottantamila del 2016. Senza nulla togliere all’azione di contrasto messa in campo dall’agenzia e dal Nucleo antisofisticazioni dei carabinieri, potrebbe non essere una buona notizia: significa che il mercato parallelo è ormai perfino più redditizio e facile di quello illegale.

I farmaci illegali si comprano su Facebook. I negozi di merce contraffatta sono on line. Dove, accanto ai prodotti rubati, ci sono quelli tossici. Dagli ormoni, anoressizzanti, benzodiazepine, antidepressivi: e nessuno sa cosa c’è dentro veramente, scrive Elena Testi il 3 settembre 2018 su "L'Espresso". Contraffatti, diluiti con sostanze potenzialmente tossiche e conservati a temperature che ne uccidono l’efficacia. Passa anche tramite il web la vendita illlegale dei medicinali salvavita. Basta una ricerca per parole. Ad essere messo in vendita, ad esempio, è l’Herceptin 150, un antitumorale che costa 500 euro a fiala, ma in Italia è distribuito gratuitamente ai pazienti. Su Facebook appaiono i video e didascalie in cirillico. Prendiamo contatti, fingendoci dei grossisti. “Sahib apteka”, questo il nome del profilo, risponde dopo cinque ore. L’anonimo interlocutore dice di trovarsi in Ucraina. Gli chiediamo 50 pezzi di Herceptin 150, la risposta è possibilista: «Devo capire che disponibilità ho». Ci contatta nuovamente, il giorno dopo: «Ce l’ho, costa 165 dollari a fiala». Prendiamo accordi. Chiede di raggiungerlo all’aeroporto Ataturk di Instanbul: «Qui controlleremo per voi, è più sicuro». Oltre a procurarci il medicinale, garantisce che lo scambio andrà a buon fine e riusciremo ad eludere i controlli. Gli chiediamo da dove viene l’antitumorale: «Registrato in Turchia, produzione Roche», la nota casa farmaceutica. Ci manda una foto. Prima di chiudere la contrattazione spiega che senza pagamento anticipato non possiamo acquistare nulla. Infine mostra la data di scadenza e il numero di lotto. Lo scambio illegale che passa dai social network tratta farmaci salvavita rubati tra Italia, Grecia, Francia e Inghilterra poi rivenduti in Turchia dove vengono confezionati nuovamente e reimmessi nei mercati. In altri casi prendono invece la strada verso Libia, Tunisia ed Egitto. Conoscere i meccanismi permette di comprare facilmente, ma anche di arruolare persone disposte a impossessarsi illegalmente di qualsiasi tipo di farmaco: dagli antitumorali ai medicinali da banco. «I social network», dicono all’Agenzia del farmaco italiano, «con la loro strategia di profilazioni dell’utenza, sono uno strumento ideale per andare a cercare il cliente giusto per la compravendita del prodotto illegale».

La maggior parte del materiale farmaceutico antitumorale che circola illegalmente via Internet proviene da ospedali italiani. In base ai dati di Fiaso (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere) negli ultimi 5 anni il 50 percento delle strutture sanitarie e ospedaliere ha subito almeno un furto di farmaci o dispositivi medici. Complici la scarsa sicurezza e alcuni addetti ai lavori all’interno degli ospedali che fanno razzia lungo le corsie. Ci sono operatori che, come denunciato dagli organi competenti, postano la foto del farmaco che possono facilmente rubare sui social network, come se fosse in offerta. Una volta mostrato il prodotto, tramite profili fasulli, vengono contattati dalle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico. Le sottrazioni possono essere di piccoli medicinali da banco rimessi nelle centinaia di farmacie on line illegali che proliferano nel web. In altri casi sono loro a tramutarsi nelle talpe interne dei colpi scientificamente studiati. Forniscono nel dettaglio i sistemi di sicurezza da aggirare, gli orari degli operatori sanitari e le celle frigorifere da ripulire. «Difficile arginare il problema», spiega Franco Fantozzi, responsabile sicurezza della Bristol Myers Squibb. «Le norme italiane non permettono di usare agenti provocatori per contattare e poi smascherare queste persone. Anche i piccoli furti rappresentano un grosso problema per il nostro sistema sanitario». Ma se le organizzazioni criminali arruolano i loro complici anche tramite i social network, c’è un altro fenomeno difficile da contrastare: le farmacie illegali. Le oltre ventimila chiuse nel 2016 sono solo una minima parte dell’offerta abusiva. Un fenomeno, quello dell’acquisto on line sempre più diffuso, ma che comporta dei rischi per la salute se ci imbattiamo in siti internet contraffatti. L’allarme parte dai dati di LegitScript, l’agenzia che supporta Google nella caccia alle e-pharmacies illegali, secondo i quali meno dello 0,1 percento delle pagine presenti sono regolarmente autorizzate. Difficile quantificare il giro d’affari, ma si parla comunque di miliardi di euro. Eppure in Italia le regole sono stringenti. Sono 699 i siti web autorizzati dal Ministero della Salute alla vendita di medicinali on-line. Le regioni con il più alto numero di farmacie e-commerce regolari sono Piemonte (106), Lombardia (101) e Campania (91). Nel web i clienti comprano solitamente integratori (35 per cento), seguiti da farmaci da banco (25 per cento), cosmetici (20-25per cento), omeopatici (10 per cento), dispositivi medici (6 per cento).

Si può pagare anche in bitcoin. Dagli anoressizzanti agli ormoni della crescita, fino ai medicinali che promettono di sconfiggere il cancro. Costi esorbitanti e promesse miracolose. Come quella fatta dalla “Anabolic Pharma”, farmacia e-commerce con sede in Cina. Sul sito si legge: «Stiamo fornendo la più grande varietà di prodotti per alcuni gravi tipi di malattie. Non abbiamo concorrenti sul mercato poiché abbiamo il miglior team di specialisti che cercano sempre di creare nuovi tipi di prodotti per soddisfare le esigenze quotidiane e le richieste dei nostri nuovi e vecchi clienti». Propongono vari tipi di farmaci, da quelli specializzati a quelli più generici. Tra questi il Gigaril Sx. Una truffa che costa 429 euro. «Non viene utilizzato per uno solo scopo», spiegano nella pubblicità», ma ha molti usi. Può essere utilizzato per aumentare la produzione di ormoni della crescita, aumentare la produzione di testosterone endogeno soprattutto negli uomini e aumenta la libido nel corpo. Questo prodotto può anche essere utilizzato per la migliore sintesi del sistema proteico». A loro dire: «È anche noto come il miglior prodotto per l’aumento del sistema immunitario». Infine: «Non ha quasi nessun effetto collaterale». Dalla Cina all’India. È da qui che arrivano gli psicofarmaci senza ricetta. Basta connettersi nel Mega-Discount Pharma per scoprire che spediscono «in tutto il mondo una quantità illimitata» di tutto ciò che vuoi. Una confezione di Xanax da 25 pillole costa 172 euro e 18 centesimi. In fondo alla pagina web scorrono le testimonianze dei clienti. Immagini di persone sorridenti che elogiano la professionalità della Mega-Discount Pharma, senza però dire che nessuno è a conoscenza di cosa contengano realmente questi psicofarmaci, con il rischio di ingoiare pillole contraffatte. I pagamenti in questi super-market avvengono tramite carta di credito, ma pubblicizzano anche il pagamento con bitcoin. Facile da fare e impossibile da rintracciare. In passato era l’India la meta dei malati di Epatite C: adesso il mercato si è parzialmente ridotto, grazie all’introduzione di nuovi salvavita rimborsabili dal sistema sanitario nazionale. Anche se meno frequenti di prima però gli scambi continuano, senza che pazienti si rendano conto del rischio.

Il pericolo dei solventi. I prodotti spesso riportano informazioni ingannevoli sul contenuto e sull’origine del farmaco. Può accadere che i costosi medicinali anti epatite vengano contraffatti, come nel caso dello scorso anno seguito dalle autorità di Italia, Israele e Svizzera. Assenza del principio attivo, ingredienti errati o presenti in quantità sbagliata o, ancora, con un principio attivo corretto contenuto in una confezione falsa. Questi sono i rischi. Ma in questa vasta casistica può accadere che lo sciroppo per la tosse sia stato allungato con un solvente tossico invece della più costosa glicerina. Ci sono poi le compresse contaminate con ingredienti anomali - gesso, ma anche vernice stradale - analizzate dall’Istituto Superiore di Sanità nell’ambito dei progetti di controllo della task-force nazionale antifalsificazione. E c’è chi, ignaro dei rischi, muore. Come Eloise Parry, una ventunenne inglese che per dimagrire aveva acquistato sul web delle pillole “miracolose e naturali” provenienti dalla Cina. È deceduta tra spasmi atroci poche ore dopo averle ingerite.

PARLIAMO DI COMPARAGGIO: LA MAFIA DELLE AZIENDE FARMACEUTICHE.

O, ancora, la farmatruffa esplosa nel 2003 a Verona con viaggi, regali, cene, consulenze per un totale di cento milioni di euro per comprare circa tremila medici che avevano prescritto prodotti farmaceutici in cambio di denaro. Oppure c’è l’inchiesta nata a Torino nel 2005 e approdata a Roma che coinvolge addirittura l’Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco, che classifica e cataloga i medicinali da immettere sul mercato. Due dirigenti dell’Agenzia vengono accusati di intrattenere rapporti privilegiati con gruppi multinazionali di società farmaceutiche nella sperimentazione di sperimentazione di due prodotti bio-equivalenti." Questa è la rappresentazione di una realtà, spesso, sottaciuta ed ignorata.

Mezzo milione di euro a 67 medici, così azienda favoriva i propri farmaci, scrive “La Repubblica” il 17 ottobre 2012. I dottori, sia di strutture pubbliche che private, somministravano dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche anche ai bambini per aumentare i profitti della Sandoz. In cambio ricevevano denaro, regali o viaggi. E' un'operazione "medici puliti": 67 dottori in 15 diverse regioni sono indagati per aver ricevuto dall'azienda farmaceutica Sandoz somme di denaro, viaggi all'estero e oggetti di valore con l'obiettivo di incrementare le vendite di alcune tipologie di farmaci. L'inchiesta riguarda in special modo i pazienti pediatrici: i medici prescrivevano dosaggi ben al di sopra delle indicazioni terapeutiche per aumentare gli incassi. Tra i farmaci prescritti illegalmente ci sarebbero anche ormoni della crescita. I carabinieri del Nas hanno eseguito 77 perquisizioni a carico degli indagati. L'inchiesta coordinata dalle Procure della Repubblica di Rimini e Busto Arsizio (VA) è stata condotta dal Nas di Bologna e dai Comandi provinciali di Ancona, Ascoli Piceno, Bari, Brescia, Cagliari, Caserta, Chieti, Ferrara, Firenze, Frosinone, Genova, Lucca, Mantova, Messina, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Pavia, Perugia, Pescara, Roma, Terni, Torino, Trento, Trieste, Verona e Viterbo. Nel corso delle indagini è stata scoperta l'esistenza di una rete formata da dodici informatori scientifici e dirigenti della casa farmaceutica Sandoz incaricata di prendere accordi con i camici bianchi. Gli informatori avrebbero sollecitato i medici indagati (tra cui anche specialisti in nefrologia e endocrinologia) ad aumentare le prescrizioni di alcuni farmaci, con l'inserimento in terapia di nuovi pazienti. "In alcune circostanze - sottolineano gli investigatori - i medici non esitavano ad aumentare le somme pretese" e "alti dirigenti dell'industria farmaceutica incontravano personalmente i medici". Per giustificare lo scambio di denaro gli informatori scientifici producevano false documentazioni che attestavano le somme per attività di consulenza o di studio, di contributi a congressi o seminari e viaggi per partecipare a meeting internazionali. Tra gli indagati infatti c'è anche il titolare di una agenzia di viaggi. I reati contestati vanno dall'associazione a delinquere, alla corruzione, all'istigazione, alla corruzione, alla truffa in danno del Servizio Sanitario Nazionale, dal falso al comparaggio. Ormoni ai bambini in cambio di denaro.

Avrebbero prescritto farmaci ormonali, anche ai bambini, con dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche per ricevere denaro e regali dall'azienda farmaceutica Sandoz, che li avrebbe corrotti tramite gli informatori scientifici. Scrive “Il Corriere della Sera” il 17 ottobre 2012. Sono 67 i medici di ospedali pubblici e privati di Roma e tutta Italia indagati nell'operazione dei Nas "Do ut des" che ha fatto emergere un sistema di corruzione. Indagati anche dodici dirigenti e informatori farmaceutici della Sandoz, che si occupa della produzione di farmaci ormonali e per la crescita, e il titolare di un'azienda che organizza eventi. Tra i sanitari indagati, diversi pediatri ed endocrinologi che in molti casi, dietro la sollecitazione degli informatori, avrebbero aumentato le prescrizioni delle medicine con l'inserimento in terapia di nuovi pazienti. Per incrementare le vendite di alcune medicine, secondo le accuse, gli informatori scientifici avrebbero promesso somme di denaro, viaggi all'estero e diversi oggetti come iPad. Il tutto sarebbe stato giustificato con false fatture che attestavano l'elargizione di denaro per attività di consulenza o di studio, contributi a congressi o seminari e viaggi per partecipazioni a meeting internazionali. I medici avrebbero ricevuto circa 500mila euro tra regali e denaro. In totale sono ottanta gli indagati, le accuse a vario titolo sono di associazione a delinquere, corruzione, istigazione alla corruzione, truffa ai danni del servizio sanitario nazionale, falso. In alcune circostanze i medici non avrebbero esitato ad aumentare le pretese al punto che alti dirigenti della Sandoz avrebbero incontrato personalmente i medici. Le 77 perquisizioni eseguite dai carabinieri del Nas di comandi provinciali in tutta Italia punteranno a verificare se le prescrizioni siano state appropriate per le patologie dei pazienti curati, proprio perché è emerso che ad alcuni bambini venivano prescritti dosaggi al di sopra delle indicazioni terapeutiche. «La speranza è che l'accusa sia infondata. Ma se è vero, sono sgomento e non posso che esprimere una forte condanna per una pratica che è fuori dalla legge e dall'etica - commenta Alberto Ugazio, presidente della Società italiana di pediatria -. Rilevo con preoccupazione il continuo aumento del consumo degli ormoni della crescita, la cui unica indicazione terapeutica appropriata è per il trattamento del nanismo ipofisario, malattia rara». Invece l'uso di questi ormoni è piuttosto elevato «perché vengono adoperati dagli sportivi amatoriali per aumentare le loro prestazioni, e sono venduti anche su internet». Questi farmaci possono essere venduti solo dietro prescrizione medica e «in molte regioni, come Lazio e Lombardia, sono pochi i centri autorizzati che possono prescriverli. Quindi dovrebbe anche essere facile risalire a chi ne prescrive in eccesso». «Comportamenti di questo tipo vanno condannati e meritano il massimo grado di pena: questi presunti medici infatti andrebbero radiati dall'Ordine professionale e, in attesa della sentenza definitiva, almeno sospesi dall'esercizio della professione - chiede Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino -. Somministrare ormoni ai bambini in cambio di denaro è la negazione assoluta del compito che un medico dovrebbe svolgere, i danni per la salute sono incalcolabili, per questo - conclude - riteniamo che atteggiamenti di questo tipo non siano giustificabili e anzi vadano segnalati e puniti». Anche il Codacons chiede per i medici indagati la radiazione a vita. La Sandoz fa sapere di non essere stata contattata dalle autorità inquirenti e di non disporre di ulteriori informazioni rispetto a quelle riportate dalla stampa. «L'azienda non può escludere che tali attività siano riconducibili all'indagine avviata nel giugno 2011 dalla procura di Busto Arsizio - si legge in una nota -. Sandoz ha sempre collaborato pienamente con le autorità inquirenti nell'ambito dell'indagine di Busto Arsizio e ha adottato le più severe misure disciplinari nei confronti dei dipendenti coinvolti. L'azienda ha inoltre avviato nuovi ed ancora più stringenti controlli interni. L'indagine di Busto Arsizio è ancora pendente; pertanto per policy, Sandoz non rilascia commenti sui procedimenti ancora in corso».

Kankropoli - la mafia del cancro. Il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella di Alberto R. Mondini - A.R.P.C. Associazione per la Ricerca e la Prevenzione del Cancro. Meraviglioso! Non ho altre parole per descrivere questo capolavoro. Sull'argomento salute ho letto diversi libri, tutti, chi più chi meno scorrevoli e/o interessanti ma questo libro di Mondini mi ha colpito particolarmente sia per la semplicità, priva delle solite nomenclatura tecnico-scientifiche, ma soprattutto per l'immensa mole di informazioni che raccoglie. Documentazioni, testimonianze, interviste, ricerche che dimostrano senza ombra di dubbio e con prove inconfutabili l'esistenza di un establishment sanitario radicato e molto potente. Il dizionario definisce establishment come: "alta gerarchia di persone che difende la struttura tradizionale". Niente di più esatto. Una gerarchia, visto che stiamo parlando di cancro, composta dalle vette più alte della ricerca medica, delle multinazionali chimicofarmaceutiche che difende con tutti i mezzi leciti e non la ricerca ufficiale da qualsiasi "altra" ricerca pur se comprovata da risultati eccezionali e testimonianze ineccepibili. Questa voglia di proteggere gli interessi di pochi e le cattedre di altri, si scontra però con un grossissimo problema sociale: le persone continuano come non mai a morire di cancro! Dopo tutti questi anni di promesse, false illusioni, nuovi medicinali, ecc. qual è la situazione attuale? "I nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea". Non sono le parole di un medico eretico come Di Bella ma di un certo John C.Balair, professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei massimi esperti di oncologia del mondo. Ma allora ci hanno preso in giro per anni e anni? Perché quelle lusinghiere dichiarazioni attraverso i media da parte dei luminari della scienza? Che sia per tutti quei centinaia di milioni di euro che ogni anno ricevono per la ricerca? Mentre loro pensano come investire tutti questi soldi, abbiamo da una parte tantissime persone che muoiono, dall'altro una folta schiera di ricercatori indipendenti che a proprie spese e molto spesso rischiando la galera e la carriera se non addirittura la vita propongono metodi alternativi, economici e molto semplici dai risultati eccezionali. Perché quasi nessuno conosce Ricercatori, con la erre maiuscola, come Alessiani, Bonifacio, Zora, Hamer, Pantellini, Gorgun, e molti altri? Medici che propongono ognuno una cura diversa, ma che avevano in comune l'amore per la ricerca, quella vera, e centinaia se non migliaia di testimonianze positive, di guarigioni incredibili, di casi senza speranza per la medicina ufficiale che "miracolosamente" regrediscono. Per tutto questo come sono stati trattati dalla "scienza"? Be', i più "fortunati" come per esempio Di Bella sono stati boicottati, messi alla gogna, derisi pubblicamente, altri come Alessiani sono stati minacciati di morte, oppure radiati dall'albo dei medici come è successo ad Hamer. Potrei continuare a lungo in questa carrellata, ma concludo battendo le mani a Mondini e ringraziandolo per essere riuscito a condensare in un libro tutte le ricerche e le disavventure di questi grandissimi scienziati, colpevoli di aver scoperto metodi semplici, indolori, naturali, e purtroppo economici che mettevano e mettono tuttora a repentaglio gli enormi interessi che si nascondono dietro le malattie "cosiddette incurabili".

"Kankropoli" - La mafia del cancro. Alcuni anni fa la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell’immensità delle sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai, inoltre, l’inutilità e l’atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell’umanità di fronte al cancro non era disperazione, era sceso ancora più in basso, fino a una specie di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l’ARPC (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e, con questo strumento, di percorrere fino in fondo e a ogni costo la strada che avrebbe dovuto mettere fine alla malattia cancro. Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto, fantasia. Pertanto, in piena coscienza di tutti i pericoli e di tutte le responsabilità che tale atto comporta, ho deciso di rendere pubblico il materiale che ho raccolto. Queste sono le sconvolgenti conclusioni a cui portano i documenti contenuti in questo dossier (Kankropoli, la mafia del cancro, ARPC, Torino, 1997): Attualmente nella pratica corrente non viene usata alcuna terapia valida per i tumori. Esistono da anni efficaci ed economiche terapie e tecniche di diagnosi precoce ideate da geniali ricercatori spesso con scarsi mezzi economici. Esiste una precisa volontà intesa a impedire che esse vengano usate. Questa volontà viene attuata, contro questi ricercatori, con tutti i mezzi possibili, siano essi legali o illegali, quali indifferenza, privazione di fondi, calunnie, diffamazione, persecuzioni (queste sono le più usuali) professionali e giudiziarie, minacce di morte, omicidio. In queste azioni criminali sono coinvolte molte persone e organizzazioni che spesso ricoprono posti di potere, quali: uomini politici, magistrati, funzionari di forze di polizia, dirigenti di case farmaceutiche, alti funzionari statali della sanita`, medici, professori universitari, ricercatori, associazioni e tanti altri. Ovviamente la responsabilità di questi individui per questa situazione è ampiamente diversificata nei ruoli e nel grado. Alcuni di essi si prodigano attivamente con qualsiasi mezzo per mantenere l’attuale situazione di inguaribilità dei tumori perchè essa permette loro di usufruire di innumerevoli fonti di guadagno, tangenti comprese, che derivano dai vari aspetti con cui oggi si presenta quel colossale affare che è il cancro: la ricerca, la diagnosi, la terapia, le associazioni per la raccolta fondi, la produzione e la vendita di farmaci e di apparecchiature, gli ospedali, le università, il Servizio Sanitario Nazionale, ecc. Essi formano di fatto un’associazione a delinquere di dimensioni internazionali. Altri conoscono bene la situazione, ma tacciono per paura di perdere i loro privilegi. Infine altri ancora, (i più) credono che si stia facendo il massimo e il miglior sforzo per debellare questa malattia; pertanto assecondano e aiutano in completa fiducia ciò che viene imposto con segreta violenza.  Da L’Immensa Balla della Ricerca sul Cancro 

Alberto Mondini, Kankropoli, Recensione scritta da Mirror's Chest per DeBaser il 17 ottobre 2010. Umberto Veronesi una manciata d'anni fa dichiarò, dall'alto della sua incomparabile esperienza, che la via per sconfiggere il cancro si trova nella genetica. Niente "fattore ambientale", nessun fattore psicologico, l'inquinamento poi, un'invenzione bella e buona, sono soprattutto il basilico e la patata ad avere la maggior incidenza sulla salute delle persone: non ci vuole un genio per capire che in questo discorso c'è qualcosa di assolutamente perverso. Trovai quest'informazione per caso in uno spettacolo di Grillo (2005, beppegrillo.it, proiettato nella più casinara assemblea d'istituto di sempre), dove poi si spiega, neanche troppo velatamente, che i "timidi" riferimenti a quella che ormai è una realtà bella e buona erano stati taciuti per via di un lauto compenso fornitogli dalla FIAT, e quindi, citando American Beauty, "vendiamoci tutti l'anima e lavoriamo per Satana perché è più conveniente". Da lì in poi l'interesse per l'argomento scemò col tempo, sarà per la mia allora tenera età, sarà per la naturale inclinazione dell'uomo (naturale=indotta) alla pigrizia, fino a tempi relativamente recenti, in cui il tema della "malattia del secolo" è ritornato presente nella mia playlist quotidiana per un solo ed unico motivo: osservare come parenti, amici, conoscenti alla lontana e perfino vicini di casa da un giorno all'altro finiscono beatamente sotto terra. E se la pura esperienza personale può metterti seriamente alle strette per quanto riguarda dubbi, considerazioni e conflitti interiori, un libro del genere vi potrebbe letteralmente spolpare vivo dalla portata di informazioni che contiene. Citando l'incipit: "Cinque anni fa (1993) la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell'immensa quantità di sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai l'inutilità e l'atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell'umanità di fronte al cancro non era di disperazione, era sceso ancora più in basso, fino ad una sorta di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l'A.R.P.C. e, con questo strumento, di intervenire in prima persona per portare un contributo alla lotta contro i tumori. Non avendo legami con le case farmaceutiche, né con alcuna lobby o corporazione, avrei potuto agire liberamente e raccontare i fatti senza alcuna limitazione. Costi cancro nel 1998 in Italia (stimati per difetto): -Farmaci chemioterapici L. 40 mila miliardi - Tutto il resto (operazioni, esami, radioterapia, ricerca, ecc...) L. 40 mila miliardi - Totale L. 80 mila miliardi Moltiplicate queste cifre per il resto del mondo e otterrete somme paragonabili a quelle di una guerra planetaria. In questo tremendo affare sono coinvolte centinaia di migliaia di persone e potentissime organizzazioni internazionali. Pensate che rinuncerebbero facilmente ai loro lauti guadagni?" A buon intenditore poche parole, per tutti gli altri, dico solo che "Kancropoli" è un libro-inchiesta come pochi se ne sono visti negli ultimi anni sull'argomento, uno spietato resoconto su come morte, malattia, e di conseguenza cure medico-ospedaliere, trattamenti e investimenti rappresentino un business al pari di scarpe, macchine, frigoriferi, soltanto dal piccolo particolare di avere guadagni molto più lauti con entrate che raggiungono cifre da capogiro. Insomma, un business che va salvaguardato, preservato, tenuto sotto chiave e lontano da tutti quegli scienziati "cattivi" e le loro scoperte rivoluzionarie (e a basso costo) in grado di rivoluzionare in un baleno lo stesso concetto di malattia e salute. Esempi? Il semisconosciuto Alessiani, che riuscì a curare la moglie malata terminale attraverso una cura da lui stesso brevettata a costo pari allo zero, utilizzando humus e erbe particolari: su di lui ci sta una sentenza di morte da parte della procura Italiana. Il famosissimo Di Bella, radiato dall'albo, avvelenato diverse volte, che ha dovuto subire ritorsioni professionali, attentati, congiure belle e buone per aver scoperto una cura miracolosa contro tumori ed altre malattie attraverso la melanina. Per non parlare poi di S. Seçkiner Görgün, geniale medico Turco inventore tra l'altro di un cuore artificiale perfettamente funzionante da tipo 40 anni, o di "Albert", l'inventore del tanto miracoloso quanto sconosciuto BIOTRON, fino a tantissimi altri geni della medicina e della scienza consegnati all'anonimato più totale da un'elite invisibile che mangia sulla morte dei nostri cari e su milioni di altre persone in tutto il mondo. Non mi interessa se potrete pensarla come me o avere un'idea totalmente differente, le idee qui non c'entrano assolutamente niente, qui si parla di fatti, di dati, di interviste, di articoli, informazioni di un'importanza a dir poco vitale. Spegnete la televisione, fatevi un thé (stando attenti a che ci mettete dentro...) e dedicate una serata a questo libro, facilmente scaricabile in file .pdf a questo indirizzo.

La favola della ricerca sul cancro, scrive “Napoleta”. Sono ormai anni che siamo abituati al ripetersi di eventi gestiti da organizzazioni di ogni tipo per sostenere la tanta decantata ricerca sul cancro, la quale dovrebbe consentire di sconfiggere definitivamente in un futuro sempre più prossimo malattie come il cancro e il tumore. Ogni volta che sento di questi eventi, mi sembra di vivere nel mondo delle favole, alle quali tutti o quasi tutti credono senza un minimo di giudizio critico. Sarebbe sufficiente dare un'occhiata alle statistiche per vedere che da quando si fa ricerca sul cancro, non solo le malattie di questo tipo non sono diminuite affatto, ma sono aumentate in modo spaventoso quelle che già esistevano prima e ne sono venute fuori altre, anche queste in continuo aumento. Tali statistiche ovviamente non vengono mai mostrate, vengono tenute ben nascoste dalla mafia della Sanità italiana e internazionale, e quando si è costretti a tirarle fuori vengono alterate per fare in modo che la gente possa continuare a credere alla favola che un giorno il cancro sarà eliminato dalla lista delle malattie inguaribili che ci colpiscono. La favola non può che essere tale per ovvie ragioni. Il cancro e il tumore sono malattie che non vengono fuori per puro caso, ma sono causate principalmente dal modo in cui viviamo, mangiamo, respiriamo, pensiamo, ecc. In pratica, non si potrà mai eliminare tali malattie se continuiamo a inquinare l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il cibo che mangiamo, se continuiamo a nutrirci di alimenti tossici come la carne, i latticini e gli zuccheri, se continuiamo a vivere in modo esclusivamente materialistico, pensando solo ad accaparrare quanto più denaro possibile anche a costo di danneggiare il prossimo, se continuiamo a non capire che l'uomo vive in base al principio di semina e raccolta e che se continua a seminare male non può che raccogliere male, se continuiamo ad avere una fede cieca (ovvero non basata sull'esperienza personale) in un Essere Divino, alimentata semplicemente da religioni piene di regole e dogmi privi di ogni fondamento e utilità che servono solo a creare fedeli schiavi di istituzione di potere lontanissime dall'Essere Divino che dicono di rappresentare, se continuiamo a credere che l'uomo sia composto solo dal corpo fisico e ignoriamo gli altri corpi che lo compongono (il corpo astrale, quello eterico e l'ego), anch'essi fondamentali nel sorgere delle malattie, allora la favola della lotta al cancro resterà sempre una favola. Sostenere il business della ricerca sul cancro serve solo a far arricchire medici e scienziati ignoranti e senza scrupoli. Più mi rende conto di ciò con la mia esperienza personale, è più noto come viviamo davvero in un mondo della favole, per la creazione del quale i mezzi di informazione hanno un ruolo fondamentale. Tutto ciò che viene fuori da essi viene ingerito ormai acriticamente, si crede ormai davvero a tutto!! In occasione di questi eventi, ecco una serie di personaggi famosi della scienza, dello sport, dello spettacolo, e anche della cosiddetta cultura, che si impegnano come matti per sponsorizzarli, con quei visi contenti e allegri, che lasciano trasparire l'ignoramento della verità e l'illusione di aver fatto una buona azione per cui essere considerati grandi. L'evento che più mi viene alla mente è quello delle 30 ore per la vita, in cui una marea di personaggi dello spettacolo e della "cultura" si alternano raccontando in pratica 30 ore di favole. Ecco quindi una valanga di miliardi regalati alla mafia sanitaria, che può così continuare a fare i propri interessi anziché quelli di chi la sostiene. Mi chiedo perché tutti questi personaggi prima di fare una cosa del genere non si informano un po' su cosa stanno sostenendo, perché non danno un'occhiata alle statistiche, perché non vanno nei laboratori dove si fa ricerca per vedere le inutili atrocità alle quali sono sottoposti gli animali su cui vengono fatti gli esperimenti. È ovvio che se non lo fanno loro, che in teoria dovrebbero essere quelli più informati, figuriamoci se possono farlo coloro che in occasione di tali eventi fanno di tutto per acquistare una piantina, un sacco di arance, o un qualsiasi oggetto sfruttato per far soldi da destinare alla ricerca del nulla. Anche loro con le belle faccine allegre e contente, dopo averlo fatto se ne tornano nelle loro case mostrando a tutti il loro acquisto, raccontando la "grande" azione appena compiuta al primo che incontrano, magari spingendo anche lui a farlo, spesso regalandolo a qualche persona cara, e credendo con l'acquisto di aver contribuito ad un mondo migliore, che ovviamente non ci sarà mai. La vita non è una favola, è una gran cosa in cui niente avviene per caso e che noi non comprendiamo ormai più e comprenderemo sempre meno con il passare del tempo. Nell'articolo riportato di seguito, si può notare come le cose che ho detto non sono frutto di strane idee che vengono fuori dalla mia testa. Se è un medico di fama internazionale ad affermare che la ricerca sul cancro è stata fino ad oggi un completo fallimento, credo proprio che non possa che essere così. La mia unica speranza, e purtroppo credo resterà solo una speranza, è che sempre più gente si renda conto della verità, si svegli dal mondo dei sogni in cui vive, e smetta di sostenere una cosa meschina come la ricerca sul cancro.

La ricerca ufficiale sul cancro. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini. Iniziamo a vedere cosa realmente viene fatto a chi OGGI si ammala di cancro. Nella stragrande maggioranza dei casi si usano, dove è possibile, unicamente tre metodi: l'asportazione chirurgica, la chemioterapia e l'irradiazione. Il primo rimedio è del tutto inutile, perché il tumore non è che lo stadio finale e più visibile di una situazione patologica che coinvolge tutto l'organismo. Per tanto, dopo l'asportazione, la recidiva è quasi la regola, in quanto le difese immunitarie del paziente saranno ulteriormente indebolite dal trauma delle ferite, dall'intossicazione dell'anestesia, dagli antibiotici e dagli altri medicinali. Gli altri due metodi si basano sul fatto che le cellule cancerose sono più deboli di quelle sane, pertanto, sotto l'azione di veleni o di radiazioni ionizzanti, sono le prime a morire. Questa constatazione porta però a una delle pratiche più insensate della storia della medicina: avvelenare ed irradiare il paziente per guarirlo! Anche la persona meno informata, riesce a comprendere che guarigione significa miglioramento della salute. Nessuno pensa che l'inquinamento, gli esperimenti atomici o l'incidente di Chernobyl siano i provvidenziali vantaggi dei nostri tempi per mantenerci sani. Nei fatti, anche con la chemioterapia e l'irradiazione, dopo un iniziale, apparente successo, il malato, con il sistema immunitario massacrato, indebolito nel corpo e nella mente, svilupperà generalmente in breve tempo un nuovo tumore, questa volta ancor più difficile da curare. Eppure, specialmente negli ultimi mesi, in occasione dei vari dibattiti sulla cura Di Bella, avrete sentito fior di luminari, illustri primari, grandi ricercatori, sostenere che le critiche alle attuali terapie oncologiche non hanno ragione di esistere, che la medicina ha fatto enormi passi in avanti, che le percentuali di guarigione sono già nell'ordine del 50% e che tale percentuale è in fase di crescita. In conclusione, la medicina sta facendo il proprio dovere ed i soldi assegnati alla ricerca hanno dato i frutti sperati. Vediamo ora quali sono, in realtà, i grandi progressi che da alcuni anni la scienza sta compiendo nel campo della lotta ai tumori. Riunione del settembre 1994 del President's Cancer Panel: "Tutto sommato, i resoconti sui grandi successi contro il cancro, devono essere messi a confronto con questi dati" aveva detto Balair, indicando un semplice grafico che mostrava un netto e continuo aumento della mortalità per cancro negli Stati Uniti dal 1950 al 1990. "Torno a concludere, come feci sette anni fa, che i nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea. Grazie". Chi è questo personaggio che esprime idee così eretiche, un medico alternativo? Un ciarlatano come è stato definito Di Bella? Un guaritore che approfitta dei poveri malati? Uno che non conosce le percentuali di guarigione? Purtroppo per loro, niente di tutto questo. Risulta difficile definire ciarlatano o incompetente, John C. Balair III, insigne professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei più famosi esperti di oncologia degli Stati Uniti e dell'intero pianeta. Non parlava del resto ad una platea di sprovveduti; il President's Cancer Panel è nato in conseguenza del National Cancer Act, un programma di lotta contro il cancro, firmato dal presidente americano Richard Nixon il 23 dicembre 1971 e per cui si sono spesi fino al 1994 ben 25 miliardi di dollari. I dati relativi alla situazione delle lotta al cancro vengono forniti direttamente al Presidente degli Stati Uniti. La conclusione principale di Balair, con cui l'NCI (National Cancer Institute) concorda, è che la mortalità per cancro negli Stati Uniti è aumentata del 7% dal 1975 al 1990. Come tutte quelle citate da Balair, questa cifra è stata corretta per compensare il cambiamento nelle dimensioni e nella composizione della popolazione rispetto all'età, cosicché l'aumento non può essere attribuito al fatto che si muore meno frequentemente per altre malattie. La mortalità è diminuita per tumori quali quelli del colon e del retto, dello stomaco, dell'utero, della vescia, delle ossa, della cistifellea e dei testicoli. La mortalità per cancro nei bambini si è quasi dimezzata fra il 1973 e il 1989, in gran parte grazie alle migliori terapie. Tuttavia, dato che i tumori infantili erano comunque rari, questo miglioramento - e quello più lieve registrato nei giovani adulti - ha avuto solo un effetto assai ridotto sul quadro generale. In totale, gli incrementi della mortalità per cancro sono circa il doppio delle riduzioni. Edward J. Sondik, esperto di statistica dell'National Cancer Institute, sostiene che vi sarebbe un aumento di oltre il 100% dei casi di cancro al polmone nelle donne fra il 1973 e il 1990. Anche il melanoma e il cancro alla prostata hanno avuto incrementi considerevoli, di oltre l'80%, in quel periodo. Sondig ha concluso che l'incidenza totale del cancro è aumentata del 18% fra il 1973 e il 1990. "Nessun esperto del settore può continuare a credere che dietro l'angolo vi sia necessariamente tutta una serie di magnifiche terapie contro il cancro in attesa di essere scoperte" asserisce Balair ribadendo di averne abbastanza della continua sfilata di notizie sensazionali che fanno credere che una cura risolutiva stia per essere messa a punto. Le chemioterapie esistenti, nonostante i progressi, sono ancora armi a doppio taglio. Alcuni dei trattamenti per il linfoma e la leucemia inducono altri tumori, dopo il completamento della terapia per la malattia originaria. Non notate una leggera disparità tra i dati che avete letto ora e le statistiche trionfalistiche che avete sentito dai famosi clinici italiani? Forse può dipendere dal lasso di tempo intercorso, in fondo questi dati risalgono al 1993, magari la situazione è notevolmente migliorata. Vediamo allora cosa afferma Balair nel 1997 su New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste mediche a livello mondiale. "La guerra contro il cancro è lontana dall'essere vinta. L'efficacia dei nuovi trattamenti contro sulla mortalità è molto deludente". Il Giornale – Inchiesta sul cancro n°1

Se non siete ancora convinti, o semplicemente desiderate ulteriori dati, eccone altri due. Il primo è la vasta indagine condotta per 23 anni dal Prof. Hardin B. Jones, fisiologo presso l'Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di Cancerologia, presso l'Università di Barkeley. Oltre a denunciare l'uso di statistiche falsificate, egli prova che i cancerosi che non si sottopongono alle tre terapie canoniche sopravvivono più a lungo o almeno quanto chi riceve queste terapie. Come dimostra Jones, le malate di cancro al seno che hanno rifiutato le terapie tradizionali, mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da colore che si sono invece sottoposte alle cure complete. Il secondo caso riguarda uno studio condotto da quattro ricercatori inglesi, pubblicato su una delle più importanti riviste mediche al mondo: The Lancet del 13/12/1975 e che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi. La vita media di quelli trattati con chemioterapia completa fu di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 220 giorni. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini.

DOVE FINISCONO LE VOSTRE OFFERTE. Scrive “La Leva”. Un episodio molto interessante è la situazione che emerge da un articolo pubblicato su La Stampa nel 1994 (Ombre sulla Lega Tumori. "Fa affari, non prevenzione" p. 13). Il soggetto in questione, in questo caso, è la Lega Tumori, una di quelle associazioni che non incontrano difficoltà a reperire fondi pubblici e privati, disponibilità di personale medico e non, sponsor e benefattori, con la motivazione della necessità di sostenere la ricerca contro il cancro. Ebbene il sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, bocciò il bilancio di previsione '93 della Lega Tumori, sostenendo una grave accusa: più del 90% delle spese non veniva destinato alla ricerca o alla cura dei tumori, ma all'investimento immobiliare e mobiliare. L'accusa dell'onorevole Fiori, veniva supportata da cifre di per sé eloquenti: la sede centrale aveva destinato una minima parte dei mezzi finanziari di cui disponeva, al raggiungimento degli obiettivi istituzionali, equivalenti a 810 milioni (nemmeno un miliardo!), mentre ben 9.360 milioni (quasi 10 miliardi!) sarebbero stati spesi per investimenti patrimoniali. Fiori sottolineava che la Lega Tumori "tiene in piedi un'organizzazione che assorbe costi amministrativi ammontanti a circa 2 mila milioni, dedita per la maggior parte ad investire in operazioni finanziarie, consistenti in prevalenza in acquisto o rinnovo di titoli di Stato". Una terapia veramente innovativa per la cura del cancro, la speculazione in titoli! Bocciati come benefattori, non sembrano abili neppure come amministratori, poiché, da un cospicuo patrimonio immobiliare, riuscivano ad ottenere un rendimento annuo di soli 3 milioni. L'onorevole Fiori ha evidenziato nell'analisi che erano ben 745 i milioni di interessi attivi che la Lega Tumori era riuscita a raggiungere in un anno. Gli altri dati, come per esempio i 2,3 miliardi di immobilizzazioni tecniche ed i 10,1 miliardi di partecipazioni e valori mobiliari, comprovano la validità delle accuse mosse dal parlamentare. E dimostrano in quali amorevoli mani sia, in realtà, affidata la cura dei malati di cancro! Se dopo tutto questi fatti, che purtroppo riguardano anche altri Paesi, ci soffermiamo a confrontare i dati forniti dall'americano N.C.I. ed i finanziamenti investiti inutilmente in tutti questi anni, ne segue una valutazione immediata: non hanno ragione d'essere le lamentele di Garattini sugli scarsi finanziamenti, perché meglio sarebbe per lo Stato italiano, non solo non stanziare più di quanto non abbia già fatto finora, ma anzi esigere un reale, quanto dettagliato e costante resoconto pubblico del procedere delle ricerche e dei risultati conseguiti. Sembra però alquanto difficile pensare che possa prendere una simile decisione uno Stato succube delle multinazionali farmaceutiche. Non pare azzardata l'ipotesi di chi sospetta che, in tutta questa attività di millantata pubblica (?) utilità, ci sia quanto meno una parvenza di interesse privato. Soprattutto alla luce di alcune affermazioni che sono state fatte dalla Guardia di Finanza di Roma, quando ha scoperto persino un'intensa attività di sperimentazione clinica negli ospedali della capitale su pazienti ricoverati. Il Coordinamento per i Diritti dei Cittadini ha infatti rimarcato come "uno degli aspetti più inquietanti sarebbe quello che riguarda i finanziamenti da parte delle case farmaceutiche alle strutture pubbliche che, come prevede la legge, pagano le spese delle sperimentazioni cliniche, oltre al fatto che la ricerca è sostanzialmente orientata solo su quei prodotti che possono garantire un vasto mercato" (L'Indipendente, 19 marzo 1996). Che dire della Francia, dove la Lega nazionale contro il cancro è stata accusata di manipolazioni finanziarie, vedendo coinvolti il presidente ed alcuni ricercatori? I finanziamenti della Campagna nazionale, vanno dai 60 ai 500 franchi francesi per persona, fino alle centinaia di milioni di franchi che pervengono dai suoi tre milioni di aderenti, cittadini in buona fede, ma evidentemente male informati, che credono davvero di contribuire alla vittoria sul cancro con un'offerta, oltre tutto deducibile dalle tasse. Il presidente incriminato è Jacques Crozemarie, dottore honoris causa di una sconosciuta facoltà americana di Charleston, per giunta consigliere della Direzione generale del CNRS per la Ricerca sul cancro. Questa persona ha incassato in tre anni, dal '90 al '93, dai 600 ai 700 mila franchi annui, a titolo di onorario, da una società americana di New York, la Andara, la cui presidente è socia del presidente di un'altra società, che fornisce la carta all'ARC per le sue pubblicazioni, ora sotto inchiesta della Corte dei Conti francese. Ancora più interessante risulterebbe il fatto che il sovvenzionatore di Crozemarie, risulti essere un recapito postale, senza alcuna attività alle spalle (Orizzonti della Medicina, n. 67, giugno 1996, p. 8). Ed ecco le dichiarazioni di Ivan Cavicchi, a quel tempo coordinatore del settore Sanità della Cgil, apparse su Panorama del 14 novembre 1993 e riferite dalla pubblicazione Flash-News n° 41, in cui afferma quanto segue: "Un sistema marcio e corrotto, di cui Poggiolini era solo il guardaportone. Qui c'è la complicità dei ministri De Lorenzo in testa, ma anche del Consiglio Superiore della Sanità, dei luminari del Comitato bioetico, dei professori foraggiati dall'industria farmaceutica: un'intera organizzazione finalizzata a fare soldi sulla pelle dei cittadini". Parole pesanti come macigni; ci aspettavamo delle smentite o delle querele. In effetti Cavicchi non è più responsabile del settore: è stato promosso, è passato alla Farmindustria!

Il business delle malattie. Quando il denaro governa la coscienza, scrive il 28/11/2013 "Mediatime”. Vi siete mai chiesti come mai, dopo molti anni di investimenti dedicati alla ricerca scientifica, siamo ancora lontani dall’eliminazione di molte malattie? Il nostro modello sanitario è davvero affidabile oppure è maggiormente interessato ad incrementare i malati lucrando sulla vendita dei medicinali? Sicuramente molte vite umane sono state salvate dalla medicina ufficiale, anche se sappiamo che purtroppo, nella maggior parte delle patologie più gravi, i farmaci imposti dalle grandi industrie farmaceutiche servono a ben poco e in diversi casi danneggiano il nostro organismo. Come tutti sanno i medicinali non eliminano il problema, ma ne riducono i sintomi, spesso in maniera troppo aggressiva. Quante volte entrando in una farmacia vediamo persone in fila, come se fossero alla cassa di un supermercato, intenti a fare acquisti anche per malesseri banali… Non a caso il potere dell’industria farmaceutica fa leva proprio sulla produzione e la vendita di medicinali per curare malattie a volte persino inventate, come alcune particolari epidemie cosiddette “di tendenza”. Purtroppo non sono state del tutto smentite le voci che riguardano l’introduzione di sostanze cancerogene contenute in alcuni vaccini. Non è difficile pensare che le società farmaceutiche si arricchiscano anche inventando epidemie per vendere vaccini. Tutto questo sembrerebbe fantascienza, non è vero? Magari lo fosse. Il dominio sulla politica. Oggi si evidenzia sempre più l’influenza delle industrie farmaceutiche sulla politica, al fine di bloccare l’accesso ai rimedi naturali, caratterizzati da una letalità nulla e dal merito di aver salvato diverse persone, a differenza dei famaci ufficiali, spesso nocivi. Si potrebbero citare vari esempi, come quello di una nota azienda che, negli anni Ottanta, attraverso un altrettanto conosciuto e diffusissimo farmaco (purtroppo non possiamo fare il nome per ovvi motivi), provocò molti morti vendendo medicinali con un elevato potenziale di contagio dell’AIDS”, poiché sviluppati utilizzando il plasma di donatori portatori di HIV. Alcune di queste testimonianze sono state riportate in varie autorevoli testate giornalistiche, tra cui il Sydney Morning Herald, nel 203 e la CBS, nel 2009. Riguardo a questo, la nota emittente televisiva MSNBC ha trasmesso un video che accusa la stessa casa farmaceutica senza mezzi termini. Controllo nei mass media. Queste lobby agiscono anche influenzando i mezzi di informazione. I cittadini indifesi ogni giorno vengono bombardati da notizie terribili, sapientemente filtrate: disgrazie, attentati terroristici, calamità naturali, truffe, ecc. Nel mondo accadono anche molti episodi lieti, positivi; ma purtroppo non fanno notizia. Lo scopo principale è quello di creare, nel tempo, ansie e preoccupazioni tali da indurre i fruitori dell’informazione ad ammalarsi. Una sorta di suggestione collettiva, che colpisce prevalentemente persino quelle persone convinte di essere sveglie e vigili, ma in realtà facilmente influenzabili dai media e dall’opinione pubblica. Le malattie di origine psicosomatiche sono all’ordine del giorno e spesso diventano persino letali. Il vero guadagno dell’industria farmaceutica sta essenzialmente sulle cure contro il cancro. Se da un lato la chemioterapia risulta, senza ogni minimo dubbio, nociva per l’intero organismo umano, dall’altro rappresenta inequivocabilmente il più potente business. Al di là dei costi dei medicinali chemioterapici, in alcuni casi gratuiti grazie al Servizio Sanitario Nazionale, il costo per lo Stato è altissimo, decine di migliaia di euro a ciclo, da ripetere più volte. Vanno anche considerati i farmaci e i trattamenti addizionali per combattere gli imponenti effetti collaterali. Inoltre un paziente che ha subito una chemioterapia nella maggior parte dei casi avrà bisogno per tutta la vita di farmaci di mantenimento. Un’altra forma di manipolazione si verifica attraverso il controllo dell’alimentazione, anch’essa causa di molte malattie. Una cattiva informazione sulle reali proprietà di alcuni alimenti possono, nel tempo, indurre ad abitudini alimentari nocive. Oggi si parla molto di alimenti biologici. Ma chi certifica queste qualità sui cibi che troviamo nei negozi e supermercati? Non tutti sanno che dietro queste istituzioni-commissioni, si cela sempre il monopolio delle società farmaceutiche. Non stupiamoci allora se poi veniamo a scoprire che molti dei cibi in apparenza biologici siano stati trattati, nelle varie fasi del processo di produzione, con diversi additivi nocivi, non naturali. Sembrerebbe inoltre che la politica dalle industria farmaceutica sia costretta a ridicolizzare le varie cure alternative: non sempre risolutive ma in alcuni casi efficaci e sicuramente prive di effetti collaterali, tipici invece dei farmaci convenzionali. Aleggia sempre un aspro paradosso che fa riflettere: molti per curarsi dal cancro, vengono uccisi dai devastanti effetti della chemioterapia. Possibile che la medicina ufficiale non investa anche in ricerche orientate sulle cure alternative? Evidentemente, in caso di successo, il business verrebbe a mancare. L’ambiguità nei confronti dei farmaci naturali. Anche in virtù del fallimento riguardo l’efficacia della medicina ufficiale e alla preoccupante crescita delle patologie cronico-degenerative, sempre più persone nel mondo si sono avvicinate ai farmaci naturali. L’Italia è uno dei principali mercati europeo per i medicinali omeopatici. Una curiosa contraddizione è quella di considerare, da parte della medicina ufficiale, i prodotti omeopatici come NON farmaci, addirittura paragonandoli all’acqua fresca. Allora perché L’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, pretende tutte le analisi, come se fossero veri e propri farmaci, tra l’altro costosissime e tutte a carico dei produttori, molti dei quali costretti, di conseguenza, a chiudere? E’ ovvio che questo sistema industriale, pur di ottenere i risultati necessari, è costretto a ostacolare lo sviluppo della scienza sperimentale e clinica. Non approfondiamo inoltre gli svariati episodi di corruzione nei confronti di medici onesti ed istituzioni sanitarie. Un Premio Nobel dimenticato. Forse seconde questa filosofia industriale della medicina ufficiale dovremmo persino dimenticarci della storia: nel 1931 un prestigioso Premio Nobel per la medicina venne assegnato a Otto Heinrich Warburg, per la prevenzione del cancro. Il “difetto”, se così possiamo chiamarlo, di questa sorprendente tesi, avvalorata da un riconoscimento ufficiale, sta forse nel fatto che ai giorni d’oggi all’industria del settore la prevenzione del cancro a costo zero non porta fatturati interessanti? Fanno discutere persino alcune affermazioni della cosiddetta comunità scientifica quando ribadiscono l’assenza di prove riguardo alcune metodologie alternative: in realtà le prove ci sarebbero, ma non vengono ufficializzate sempre per il solito motivo. Purtroppo il denaro governa anche la coscienza. Alla luce dei milioni di decessi avvenuti negli anni, utilizzando diversi farmaci nocivi, sarebbe inevitabile rivalutare con più serietà e meno ipocrisia, nelle cure mediche, l’uso di rimedi naturali rispetto a quelli sintetici: la posta in gioco è la vita o la morte dell’umanità.

Intervista a Linus Pauling del 2/10/2016 di Marcello Pamio su "disinformazione.it": “la ricerca sul cancro non esiste. E’ una truffa”.

D: Dottor Pauling, lei è l’unico scienziato al mondo ad aver ricevuto ben due Premi Nobel per categorie diverse: quali sono queste categorie?

R: Ho ricevuto il Premio Nobel per la Chimica nel 1954, e per la Pace nel 1962.

D: Nonostante i numerosi studi, pubblicazioni e ricerche, ha avuto persino il tempo per codificare la cosiddetta «medicina ortomolecolare». Ci può spiegare cos’è?

R: Ho coniato il termine «medicina ortomolecolare» per indicare il mantenimento della buona salute e il trattamento delle malattie attraverso la variazione della concentrazione di sostanze che sono generalmente presenti nel corpo umano e sono necessarie per la salute. Per la Vitamina C, credo che il trattamento di una malattia attraverso il ricorso a sostanze che, come, l’acido ascorbico, sono normalmente presenti nel corpo umano e necessarie alla vita, sia da preferirsi a un trattamento che comporti il ricorso a potenti sostanze sintetiche o a estratti delle piante che possono avere, e generalmente hanno, effetti collaterali indesiderabili. L’uso terapeutico di grandi quantità di vitamine, che viene chiamato «terapia megavitaminica», è un procedimento molto importante nella medicina ortomolecolare.

D: Quindi lei sostiene l’importanza delle vitamine nella terapia di moltissime malattie: cosa ci può dire a proposito della Vitamina C?

R: La Vitamina C rafforza i naturali meccanismi di difesa, in particolar modo del sistema immunitario e aumenta l’efficacia degli enzimi nel catalizzare le reazioni biochimiche. E’ necessaria per le reazioni vitali di idrossilazione, in particolare nell’ormone adrenalina e nella sintesi della molecola del collagene. Il collagene è una delle più abbondanti proteine presenti nel corpo che va a costituire il tessuto connettivo (la materia plastica naturale del corpo: cartilagini, tendini, vasi sanguigni, ecc.). Un’elevata assunzione di Vitamina C aiuta a controllare molte malattie: non solo il comune raffreddore, ma anche altre, virali e batteriche, come l’epatite, e altre ancora, assolutamente non correlate fra loro, come la schizofrenia, i disturbi cardiovascolari e il cancro. Il dott. Claus W. Jungerblut, dell’Università della Columbia, nel 1935 riferì che la Vitamina C ad alte dosi rende inattivo il virus della poliomielite, dell’herpes, del vaiolo bovino e quello dell’epatite. Non solo, la Vitamina C rende inattivi pure i batteri e le loro tossine (difterite, stafilococco, dissenteria, ecc.)

D: Uno dei problemi più seri della nostra società sono le malattie cardiovascolari. Nonostante l’immenso bagaglio farmaceutico messo a disposizione dalle corporazioni della chimica, ogni anno muoiono moltissime persone nel mondo. In questo caso la Vitamina C può essere d’aiuto, oppure no?

R: Le patologie cardiache costituiscono la principale causa di morte nei paesi industrializzati. Sono convinto che il tasso di mortalità relativo a queste patologie a ogni età potrebbe essere diminuito in maniera notevole, probabilmente ridotto a metà, attraverso un uso appropriato della Vitamina C.

D: Viste le proprietà eccezionali di questa vitamina, non capisco perché le case farmaceutiche non s’interessano della Vitamina C! O meglio, so bene qual è il motivo, ma vorrei sentire la sua opinione!

R: La mancanza d’interesse delle multinazionali risiede nel fatto che la Vitamina C è una sostanza naturale che è disponibile a bassi costi e che non può essere brevettata! Proprio come pensavo. Sempre la solita minestra: una sostanza, nonostante le proprietà terapeutiche, non viene presa in considerazione dalle corporazioni della chimica se non produce ritorni economici enormi.

D: Dottor Pauling, la RGR della Vitamina C (Razione Giornaliera Raccomandata) consigliata dal ministero dell’Alimentazione e della Nutrizione è di 60 milligrammi al giorno. Lei invece parla di svariati grammi al giorno…

R: Le RGR relative alle vitamine, sono le dosi che hanno la probabilità di prevenire nelle persone «di salute normalmente buona» la morte per scorbuto, beri-beri, pellagra, o altre malattie da carenza vitaminica, ma non sono le dosi che fanno acquistare alla gente uno stato ottimale di salute. Per un essere umano, 2300 milligrammi (2,3 grammi) al giorno di acido ascorbico sono inferiori al tasso ottimale di assunzione di questa vitamina. Da numerosi studi risulta che l’assunzione ottimale di Vitamina C per un essere umano adulto varia da 2,3 grammi a 10 grammi al giorno. Le differenze biochimiche individuali sono tali che, su una vasta popolazione, il tasso di assunzione può essere incluso tra i 250 milligrammi e i 20 grammi, o anche più, al giorno.

D: Ma dosi così elevate non sono pericolose per la salute?

R: L’acido ascorbico nella letteratura medica è descritto come «virtualmente non tossico». Alcune persone hanno ingerito dai 10 a 20 grammi di Vitamina C al giorno per 25 anni senza che si producessero calcoli renali o altri effetti collaterali. Un ammalato di cancro ne ha presi 130 grammi al giorno per 9 anni, ricavandone beneficio. Non è mai stato segnalato alcun caso di morte per una ingestione massiccia di acido ascorbico e neppure alcuna malattia seria.

D: Ma non basta la Vitamina C contenuta negli alimenti?

R: Il ricercatore Irwin Stone, nel 1965, rilevò che gli esseri umani e altri primati come la scimmia rheus, non sanno sintetizzare la Vitamina C e la richiedono come vitamina integrativa. Una volta che una specie ha perso tale capacità di produrla autonomamente, essa dipende, per la sua esistenza, dalla possibilità di trovarla nel cibo a disposizione. Però, visto che la maggior parte delle specie animali non hanno perso questa capacità (ad esclusione dell’uomo), significa che la quantità di acido ascorbico generalmente presente nel cibo non è sufficiente a fornire la dose ottimale.

D: Quindi se ho capito bene: l’uomo, avendo perso la capacità di sintetizzare la Vitamina C autonomamente, necessità di un apporto esterno attraverso il cibo. Ma il cibo non è ricco a sufficienza per soddisfare questo fabbisogno! Come possiamo allora integrare l’acido ascorbico?

R: La Vitamina C, o acido ascorbico, è una polvere bianca cristallina che si scioglie in acqua. La sua soluzione ha un sapore acido, che ricorda quello dell’arancia. Essa può essere assunta oralmente, anche sotto forma di sali dell’acido ascorbico, in particolare come ascorbato di sodio e ascorbato di calcio. Tuttavia solo questi ultimi due, che sono sali, possono essere iniettati per via endovenosa, poiché diversamente la soluzione acida danneggia le vene e i tessuti.

D: Lei ha criticato molto lo zucchero, come mai? Ci sono evidenze scientifiche della sua pericolosità per la salute?

R: Da numerosi studi siamo portati a concludere che gli uomini che ingeriscono molto zucchero corrono rischi di gran lunga maggiori di ammalarsi di cuore, in un’età variante fra i 45 e i 65 anni, rispetto a quelli che ne ingeriscono quantità inferiori. L’incidenza di malattie coronariche, inclusa l’angina pectoris, va di pari passo con l’aumentato consumo di zucchero, e non è affatto correlata con il consumo di grassi animali o dei grassi in genere. Il metabolismo del saccarosio (zucchero) produce al primo stadio uguali quantità di glucosio e di fruttosio. Il glucosio entra direttamente nei processi metabolici che forniscono l’energia alle cellule del corpo, il metabolismo del fruttosio invece procede in parte per una direzione diversa, che prevede la produzione di acetato, precursore del colesterolo che sintetizziamo nelle cellule del fegato. In uno studio clinico della massima serietà, è stato dimostrato che l’ingestione del saccarosio porta a un aumento della concentrazione di colesterolo nel sangue.

D: Per concludere, qual è la sua ricetta, se ne ha una, per stare bene e vivere a lungo?

R: Ecco i punti fondamentali del regime:

1) INTEGRARE L’ALIMENTAZIONE CON NOTEVOLI QUANTITÀ DI VITAMINA C (DA 6 A 18 GRAMMI), VITAMINA A, E, B.

2) ASSUMERE MINERALI (CALCIO, FERRO, RAME, MAGNESIO, ZINCO, CROMO, SELENIO, ECC.)

3) RIDURRE L’ASSUNZIONE DI ZUCCHERO

4) MANGIARE CIÒ CHE PIACE, MA IN MANIERA MODERATA

5) BERE MOLTA ACQUA E POCHI ALCOLICI

6) FARE ATTIVITÀ FISICA

7) NON FUMARE

8) EVITARE OGNI FORMA DI STRESS

La caratteristica principale rimane comunque l’apporto di vitamine, soprattutto di Vitamina C!

Cancro “incurabile”, il business infinito della chemioterapia, scrive il 22/10/15 "Libreidee". Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistemagli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari». Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistema gli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari».

Beneficenza, fondi Airc: alla ricerca solo la metà. Più di 90 milioni di entrate nel 2008, ai laboratori destinati 45 milioni e mezzo L’anno scorso quasi 23 milioni dirottati verso fondi di investimento e obbligazioni. Viaggio nel lato oscuro della beneficenza, scrive Stefano Filippi, Giovedì 13/08/2009, su "Il Giornale". La sigla è una delle più conosciute dalle famiglie italiane: Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro. È il male del secolo, ed è una malattia ancora oscura. I fondi da investire negli studi non sono mai abbastanza. E la macchina per raccogliere denaro è enorme. L’associazione ha una lunga storia alle spalle: nacque nel 1965 da una costola dell’Istituto dei tumori di Milano. Conta su un milione 700mila soci in tutta Italia che ne confermano la vastissima fiducia. Ha l’appoggio di testimonial famosi (attori, campioni dello sport, intellettuali) che invitano a fare testamento a favore della ricerca. Un nome di spicco della medicina italiana, quello dell’oncologo Umberto Veronesi, senatore ed ex ministro, è garanzia di serietà. Lo staff è composto da un comitato tecnico-scientifico che vigila sull’impiego dei fondi e un gruppo di 250 scienziati stranieri che valuta i progetti di ricerca. Numerosi imprenditori di successo arricchiscono la composizione dei 17 comitati regionali. Un parterre consolidato di grandi aziende (Rai e Mediaset, Intesa e Unicredit, Tim e Vodafone, Starwood ed Esselunga) assicurano stabilità nel tempo. Gli ultimi due spot istituzionali sono firmati dal regista Ferzan Ozpetek e hanno come protagoniste Isabella Ferrari e Valeria Golino. Le iniziative promozionali entrano in tutte le case italiane: l’Azalea della ricerca, le Arance della salute, la Giornata nazionale. E ancora feste, mercatini, concerti, pubblicazioni scientifiche. E soprattutto l’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare), fondato nel 1998 dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, un centro di studio e ricerca non profit ad alta tecnologia. Dare soldi all’Airc è come metterli nel salvadanaio regalato dai nonni: sono al sicuro. Un nome, una garanzia. Infatti l’associazione raccoglie una montagna di denaro: nel 2008, informa il bilancio appena pubblicato, sono arrivati 90.542.066 euro dall’attività di raccolta fondi. Arance e azalee, quote associative e bollettini postali, auguri e donazioni hanno fruttato 58 milioni e rotti di euro cui si aggiungono oltre 32 milioni dal 5 per mille. Per avere dei paragoni, Actionaid ha proventi per 44 milioni di euro, Telethon 30 milioni, Emergency 22 milioni, Telefono azzurro 7 e mezzo. Ma quanti di questi denari raccolti finiscono effettivamente ai ricercatori che devono sconfiggere il cancro? La risposta, contenuta nel medesimo bilancio, è sorprendente: poco più della metà. Nel 2008 l’Airc ha destinato 43.892.390 euro (il 48,5 per cento) a «progetti di ricerca, borse di studio e interventi vari», altri 1.146.497 euro (1,3 per cento) ad «attività istituzionale d'informazione scientifica “Notiziario fondamentale” e sito internet», infine 577.339 euro (0,6 per cento) ad altre attività istituzionali. In totale, l’«attività istituzionale di sviluppo della ricerca oncologica e informazione scientifica» è costata all’Airc 45.616.226 euro: il 50,4 per cento delle somme raccolte presso gli italiani. Percentuale che scenderebbe al 49,4 se, invece che limitarsi ai fondi donati, considerassimo il totale dei mezzi disponibili (raccolta fondi più proventi finanziari). E l’altra metà della mietitura, dove finisce? È una ricostruzione complessa. Raccogliere soldi costa, e costa caro. Per comprare e distribuire le arance della salute si spendono un milione 373mila euro (ricavo netto due milioni409mila), i 700mila cestini delle azalee della ricerca assorbono quattro milioni 774mila (per un guadagno di cinque milioni 638mila). E poi la spedizione dei bollettini postali, l’attività dei comitati, le campagne pubblicitarie e di sensibilizzazione. Complessivamente, gli oneri direttamente legati al «fundraising» ammontano a 16.333.434 euro: come dire che per ogni euro raccolto, 18 centesimi sfumano in spese vive. A questo calcolo vanno aggiunti i costi generali, cioè quelli sostenuti per tenere in piedi la complessa macchina dell’associazione: stipendi (cinque dirigenti, 72 impiegati, 5 collaboratori), gestione soci, attrezzature, computer, telefoni, comitati regionali. Questa voce si porta via 5.864.642 euro. E fanno 22 milioni 200mila euro di spese: un quarto delle entrate. Sono cifre paragonabili al bilancio di una media azienda italiana. Ricapitoliamo. Nel 2008 l’Associazione per la ricerca sul cancro ha avuto a disposizione 92.285.542 euro, di cui 90.542.066 donati direttamente dagli italiani in varie forme. Una quantità di soldi strabiliante. I vertici dell’Airc ne hanno destinato soltanto metà alla ricerca oncologica, scopo istituzionale dell’organismo. Per pareggiare i conti, manca l’ultimo quarto: 24 milioni e mezzo di euro. Che sono stati iscritti in bilancio come «risultato gestionale dell’esercizio». Un utile accantonato e non utilizzato. Un ottimo risultato, se paragonato alla perdita di quasi quattro milioni di euro registrata nel 2007. Secondo l’articolo 20 dello statuto dell’Airc, gli avanzi di gestione «saranno destinati, negli esercizi successivi, agli scopi istituzionali»: in ogni caso non viene distribuito nessun utile. Ma nel frattempo, come vengono impiegati? Vengono investiti in titoli e fondi comuni di investimento. In attesa di tempi migliori nei quali aprire nuovi fronti di lotta al cancro, l’Airc mette in banca i soldi versati con tanta generosità dagli italiani. Il dettaglio è contenuto nella nota integrativa al bilancio. Al 31 dicembre 2008 risultavano titoli di stato italiani (20.220.000 euro contro i 698mila del 2007), fondi comuni monetari (573mila, un anno prima erano 5.802.000), obbligazioni di società italiane (20mila), titoli di Stato estero denominati in euro (5.054.000 euro). Le disponibilità liquide ammontavano a 22.965.000 euro. Tra interessi e cedole, questa serie di investimenti ha reso un milione scarso. L’Airc spiega che un avanzo di gestione di tali dimensioni è dovuto al 5 per mille sui redditi 2005, solo parzialmente utilizzato. «Il consiglio direttivo ha dato mandato alla Commissione consultiva scientifica di predisporre il piano strategico per l’utilizzo delle eccezionali risorse pervenute e che perverranno negli esercizi futuri. Possibile che l’associazione non avesse idea di quanto avrebbe incassato? E che non abbia progetti, borse di studio o iniziative pronte per essere lanciate? Il Giornale avrebbe voluto porre queste e altre domande a Piero Sierra, presidente dell’Airc, il quale però era già partito per le vacanze lontano dall’Italia dove non è stato possibile telefonargli.

La grande truffa del Telethon il professor Testard denuncia una "mistificazione". Il Telethon 2008 in Francia è terminato il 7 dicembre, dopo 30 ore di appello ai donatori. Più di 95 milioni di euro sono stati raccolti per la ricerca sulle malattie genetiche. Sono 20 anni che questa "grande fiera" televisiva continua... Ecco cosa ne pensa un ricercatore, uno specialista in biologia della riproduzione. (La grande escroquerie du Téléthon Le professeur Testard dénonce une "mystification". Traduzione di Giuditta). "E 'scandaloso. Il Telethon raccoglie annualmente tanti euro quanto il bilancio di funzionamento di tutto l'Inserm. La gente pensa di donare soldi per la cura. Ma la terapia genica non è efficace. Se i donatori sapessero che il loro denaro, prima di tutto è utilizzato per finanziare le pubblicazioni scientifiche, ma anche i brevetti di poche imprese, o per eliminare gli embrioni dai geni deficienti, cambierebbero di parere. Il professor Marc Peschanski, uno dei architetti di questa terapia genica, ha dichiarato che abbiamo intrapreso un strada sbagliata. Si stanno facendo progressi nella diagnosi, ma non per guarire. Inoltre, anche se progrediamo tecnicamente, noi non comprendiamo molto di più la complessità della vita. Poichè non possiamo guarire le malattie, sarebbe preferibile cercare di scoprirne l'origine, prima che si verifichino. Ciò consentirebbe l'assoluta comprensione dell'uomo, di una certa definizione di uomo".  In un'intervista con Medicina-Douces.com. Jacques Testard, è direttore di ricerca presso l'Istituto Nazionale della Sanità e della Ricerca Medica (Inserm), specialista in biologia della riproduzione, "padre scientifico" del primo bebè-provetta francese, e autore di numerose pubblicazioni scientifiche che dimostrano il suo impegno per una "scienza contenuta entro i limiti della dignità umana". Testard scrive sul suo blog, fra l'altro: "Gli OGM (organismi geneticamente modificati) sono disseminati inutilmente, perché non hanno dimostrato il loro potenziale, e presentano un reale rischio per l'ambiente, la salute e l'economia. Essi non sono che degli avatar dell'agricoltura intensiva che consentono ai produttori di fare fruttificare i brevetti sulla Natura e la Vita. Al contrario, i test terapeutici sugli esseri umani sono giustificati quando sono l'unica possibilità, anche piccola, per salvare una vita. Ma è assolutamente contraria all'etica scientifica (e medica) far credere a dei successi imminenti di uno o di un altro farmaco. Nonostante i numerosi errori, i fautori della terapia genica (spesso gli stessi fra quelli degli OGM) sostengono che "finiremo per arrivarci", e hanno creato un tale aspettativa sociale che il "misticismo del gene" si impone ovunque, sino nell'immaginario collettivo. Il successo costante del Telethon dimostra questo effetto, poiché a forza di ripetute promesse, e grazie alla complicità di personalità mediatiche e scientifiche, questa operazione raccoglie donazioni per un importo vicino al bilancio di funzionamento di qualsiasi ricerca medica in Francia. Questa manna influisce drammaticamente sulla ricerca biologica in quanto la lobby del DNA dispone del quasi monopolio dei mezzi finanziari (finanziamenti pubblici, dell'industria e della beneficenza) e intellettuali (riviste mediche, convenzioni, contratti, man bassa sugli studenti ...). Quindi, la maggior parte delle altre ricerche sono gravemente impoverite - un risultato che sembra sfuggire ai generosi donatori di questa enorme operazione caritativa... " Per completare, ultima citazione estratta dal libro di Testard "La bicicletta, il muro e il cittadino": Tecno science e mistificazione: il Telethon. "Da due decenni, ogni anno, due giorni di programmazione della televisione pubblica sono esclusivamente riservati ad un'operazione orchestrata, alla quale contribuiscono tutti gli altri mezzi di comunicazione: il Telethon. Col risultato che, delle patologie, certamente drammatiche ma che, per fortuna, interessano relativamente poche persone (due o tre volte inferiore alla sola trisomia 21, per esempio), mobilitano molto di più la popolazione e raccolgono molti più soldi rispetto ad altrettante terribili malattie, un centinaio o un migliaio di volte più frequenti. Possiamo solo constatare un meritato successo di una efficace attività di lobbying e consigliare a tutte le vittime, di tutte le malattie, di organizzarsi per fare altrettanto. Ma si dimenticherebbe, per esempio, che:

-il potenziale caritativo non è illimitato. Quello che ci donano oggi contro la distrofia muscolare, non lo doneranno domani contro la malaria (2 milioni di decessi ogni anno, quasi tutti in Africa);

-quasi la metà dei fondi raccolti (che sono equivalenti al bilancio annuale di funzionamento di tutta la ricerca medica francese) alimentano innumerevoli laboratori che influenzano fortemente le linee guida. Contribuendo in tal modo alla supremazia finanziaria dell'Associazione francese contro la distrofia muscolare (l'AFM che raccoglie e ridistribuisce a suo piacimento i fondi raccolti), sarebbe anche e soprattutto impedire ai ricercatori (statutari per la maggior parte, e quindi pagati dallo Stato, ma anche laureati e, soprattutto, studenti, sicuramente raccomandati, post-dottorato che vivono sul finanziamento della AFM) di contribuire alla lotta contro altre malattie, e/o di aprire nuove strade; 

-non è sufficiente disporre di mezzi finanziari per guarire tutte le patologie. Lasciar credere a questo strapotere della medicina, come lo fa il Telethon è indurre in errore i pazienti e le loro famiglie;

-dopo venti anni di promesse, la terapia genica, non sembra essere la buona strategia per curare la maggior parte delle malattie genetiche;

-quando delle somme così importanti sono raccolte, e portano a tali conseguenze, il loro utilizzo dovrebbe essere deciso da un comitato scientifico e sociale che non sia sottomesso all'organismo che le colletta.

Ma anche, come non domandarsi sul contenuto di una "magica" operazione in cui le persone, illuminate dalla fede scientifica, corrono fino ad esaurimento o fanno nuotare i loro cani nella piscina comunale ... per "vincere la miopatia"? Alla fine della tecnoscienza, spuntano gli oracoli e i sacrifici di un tempo che credevamo finito ... " In conclusione: non fate dei doni al Telethon! Di Olivier Bonnet

Intervista a Alberto Mondini, autore de "Kankropoli" di Marcello Pamio su “Disinformazione”.

D: Gentile Alberto Mondini racconti brevemente a tutti i lettori la sua disavventura legale, partendo però dalla sua Associazione per la Ricerca e Prevenzione dal Cancro. Cos'è, e soprattutto qual è il fine dell'ARPC?

R: L'ARPC è un'associazione no-profit fondata e regolarmente registrata il 20-2-1992. Nel suo statuto gli scopi sono così enunciati: "Effettuare la ricerca, la diffusione, la promozione e la pratica di conoscenze e tecniche non-mediche atte alla conservazione o ripristino della salute fisica e mentale, cioè di quelle conoscenze e tecniche che attualmente non vengono insegnate nei corsi di laurea in medicina e nei corsi di specializzazione universitari. Occuparsi principalmente della prevenzione e guarigione dei tumori". In quanto alla mia ultima disavventura giudiziaria, il racconto può essere molto breve. Il 7 marzo 2002, a causa di alcuni energumeni che erano entrati negli uffici dell'ARPC (io non ero presente), viene chiesto l'intervento dei carabinieri. Due agenti arrivano dopo pochi minuti e, invece di identificare ed allontanare i violenti, mettono i sigilli alla porta dei locali per sequestro e mandano la pratica alla magistratura, che convalida il provvedimento. Accusa: associazione a delinquere finalizzata alla truffa. A questo punto io mi son trovato a dover pagare migliaia di euro al mese senza poter procedere alla consueta raccolta fondi; in caso contrario avrei potuto subire un arresto cautelativo per reiterazione del reato. A fine gennaio scorso (dopo 11 mesi!) le accuse vengono archiviate, in quanto non è stato trovato alcun elemento che possa sostenerle.

D: Il suo libro "Kankropoli", che personalmente trovo eccezionale, ha praticamente scatenato e lanciato all'opinione pubblica il caso Di Bella. Oggi sappiamo come il professore modenese e il suo "pericoloso Metodo" sono stati boicottati in tutte le maniere: farmaci scaduti, pazienti allo stadio terminale, protocolli bloccati dopo pochi mesi, ecc. Lei pensa che il problema giuridico che ha avuto lei e l'Associazione ARPC sia in qualche maniera riconducibile al libro?

O più precisamente riconducibile a Di Bella?

R: Sono e sono sempre stato un "tipo scomodo", come mi ha definito un giornalista della Stampa. Purtroppo ho sempre cercato di ragionare con la mia testa e di sentire cosa suggeriva la mia coscienza, e non mi sono mai fatto inquadrare; questo non piace alle istituzioni e alle varie lobbies. L'ARPC e Kankropoli sono state due prese di posizione, forse le mie più forti, che non sono "piaciute" in particolar modo e che, quindi, hanno attirato gli attacchi. Il ruolo che Kankropoli ha avuto nel far scoppiare il caso Di Bella è certo un'aggravante. Io sono classificato tra gli "amici di Di Bella" (v. il libro su Di Bella degli Editori Riuniti).

D: Se non è così quali sarebbero le vere motivazioni, se ce ne sono naturalmente, che hanno fatto partire l'azione giudiziaria con tutto quello che ne consegue? Dava fastidio a qualcuno, a qualche organizzazione medica?

R: Certo che dò fastidio alla lobby medico-farmaceutica! So che nell'ambiente del potere medico Kankropoli è ben conosciuto e viene sussurrato in segreto. In pubblico non ammetterebbero mai di conoscerlo. La loro prima regola su questi argomenti è: "Non parliamone, ignoriamolo e facciamo in modo che tutti lo ignorino".

D: Il cancro è una malattia molto, molto redditizia. Questa cinica affermazione è inconfutabile: dietro i tumori si nascondono interessi economici enormi. Secondo lei, perché la medicina ufficiale non vuole, e fa di tutto per impedire che vengano alla luce, questi rimedi alternativi? Semplicemente perché sarebbero controproducenti per le casse, oppure perché la salute delle persone viene prima di tutto, e pertanto vogliono garantire la sicurezza nella cura?

R: Perché sarebbero controproducenti per le casse. Questa affermazione è assolutamente vera, ma non è completa. Ci sono anche fortissimi interessi personali di potere e di prestigio, oltre che economici, nel campo universitario e della ricerca. Ci sono delle persone, in questi ambienti, la cui cialtroneria sconfina spesso con un comportamento criminale. Spesso possiedono un quoziente d'intelligenza mediocre e una competenza dilettantistica. La ricerca è un pozzo senza fondo in cui vengono gettati milioni di euro in quantità senza che, per legge, sia minimamente richiesto alcun risultato concreto. Questa è una logica da manicomio, dal mio punto di vista; ma da parte dei ricercatori è una pacchia, è l'albero della cuccagna, è il paese dei balocchi! Pensate un po': "ti dò dei soldi, ma se non produci niente, non ti preoccupare: il prossimo anno te ne darò ancora". Anzi, meno si "scopre", più fondi vengono assegnati; perché ciò vuol dire che il problema è molto difficile, ci vogliono più mezzi, ecc, ecc, ecc.....

D: E' d'accordo con quei ricercatori sempre più numerosi che propongono alla medicina allopatica di cambiare totalmente strada nella cura del cancro, comprendendo che il cancro non è un virus e neppure un agente eziologico esterno, ma un qualcosa che nasce e cresce dentro, qualcosa di nostro?

R: Sono d'accordo che la medicina deve cambiare totalmente strada. Se però si intende "qualcosa di nostro" come qualcosa che ha a che fare con le ricerche sul genoma, direi che siamo ancora fuori strada. Il grande tradimento della medicina è cominciato quando i medici hanno iniziato a considerare l'uomo come un corpo, invece che uno spirito che abita un corpo. Da lì gli errori sono venuti a valanga.

D: Non è assolutamente vero che il cancro è stato sconfitto! Eppure i "luminari" della scienza medica durante le interviste si accaparrano arrogantemente il diritto di affermare ciò. La verità è che moltissime persone muoiono e stanno morendo di questo male, tantissime di loro seguiranno fiduciose le pratiche terapeutiche chimicamente devastanti della medicina ufficiale, altri imboccheranno strade alternative. Vi saranno risultati positivi e nefasti da entrambe le parti, come lo spiega? Destino, fatalità o forse non è importante in sé quale rimedio si scelga, ma semmai come lo si fa: in una parola l'atteggiamento?

R: Direi che la cosa più importante è trovare un naturopata competente.

D: Adesso Mondini, cosa ha intenzione di fare, ora che la giustizia ha fatto il suo corso? Continuerà a portare avanti l'associazione o mollerà tutto?

R: Ora devo rimettere a posto la mia vita dopo la bufera. Dato che devo ancora pagare 25.000 euro di debiti dell'ARPC, causati delle indagini giudiziarie, e dato che non vivo di rendita, dovrò darmi da fare. Per il momento continuo a dare assistenza ai pazienti che si rivolgono a me; cercherò poi (a piè pagina trovate già una prima iniziativa) di ricostruire l'ARPC con una struttura più "leggera"; inoltre sto cercando di riunire molte associazioni italiane in unico movimento anti farmaceutico e anti psichiatrico e, forse, in un partito politico: l'inizio è già piuttosto promettente.

L'eretico che lanciò il caso Di Bella "Ecco tutti i segreti di Kankropoli". Alberto Mondini è un naturopata. Si batte da anni contro la mafia del cancro; andando in cerca di medici che la pensano come lui. È stato indagato, ma poi lo stesso Pm ha chiesto l’archiviazione per insussistenza dei reati, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 05/10/2008, su "Il Giornale". Alberto Mondini sa di essere un eretico e non fa nulla per nasconderlo. «Se lei chiede in giro informazioni sul mio conto, i medici le diranno che da giovane ero dedito alla meditazione yoga, che ho fatto il croupier, che ho avuto tre mogli, che una di loro era una cantante di musica leggera. Tutto vero, o quasi. Solo che al Casinò di Venezia, un posto orribile, ho lavorato dal ’71 all’81 e quella attuale è la mia seconda moglie. Ma a loro torna comodo farmi passare per un personaggio losco o ridicolo, che adesso gioca alla roulette con le vite degli altri. Le diranno anche che a Torino sono stato indagato per truffa aggravata e associazione a delinquere. Vero anche questo. La mia colpa? Ero entrato in competizione con le varie leghe e associazioni contro i tumori, una delle quali in un anno raccoglieva offerte per 10 miliardi di lire e destinava alla ricerca appena 810 milioni, tanto che l’allora sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, si rifiutò di firmarne il bilancio. Però ometteranno di aggiungere che fu lo stesso pubblico ministero a chiedere e ottenere l’archiviazione per insussistenza dei reati». Da quel giorno gira col certificato penale in tasca; sopra c’è scritto che al casellario giudiziale risulta questo a suo carico: «Nulla». Mondini, 61 anni, naturopata veneziano, è diventato un eretico da quando ha fondato l’Arpc (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e ha pubblicato il libro Kankropoli, sottotitolo La mafia del cancro, presentato in copertina come «il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella». Nel capoluogo piemontese aveva aperto un ambulatorio gratuito con un medico che consigliava ai pazienti come curarsi secondo natura, «si trovava allo 0 di via Vespucci». Un numero civico vero, esistente, eppure talmente assurdo da sembrare immaginario, proprio come le teorie scientifiche propugnate da Mondini, che richiederebbero alla medicina di ripartire da zero per poter essere accolte: «L’origine del cancro non è genetica. La cellula non ha niente a che vedere con i tumori. Il cancro è provocato dalla candida, un fungo. Dieci milioni di morti per tumore all’anno nel mondo dimostrano il totale fallimento dell’oncologia. Gli errori medici, sommati ai farmaci somministrati correttamente, rappresentano col 7,58% la terza causa di decesso negli Usa e più o meno in tutti i Paesi occidentali, subito dopo le malattie cardiovascolari (47%) e il cancro (22,11%) e prima di fumo, alcolismo, incidenti stradali, suicidi, assassini. La chemioterapia non guarisce, anzi è un genocidio. Idem la radioterapia. I medici hanno piegato la conoscenza al servizio di un business colossale controllato da grandi multinazionali che dipendono dai Rockefeller negli Stati Uniti e dai Rothschild in Europa. Dieci anni fa il cancro nella sola Italia era un affare da 80.000 miliardi di lire, calcolati per difetto, di cui la metà, 40.000 miliardi, per farmaci chemioterapici». Sono teorie che Mondini non ha formulato in proprio bensì andando a trovare uno per uno una dozzina di eretici come lui. Ha soppesato le ricerche, ha vagliato i risultati, ha acquisito le cartelle cliniche, s’è mantenuto in contatto con loro per anni. Ne è uscito un altro libro, Il tradimento della medicina. Il primo medico che avvicinò fu il dottor Aldo Alessiani, ex primario plurispecialista di Roma, oggi defunto. «Era partito da un’intuizione: visto che l’incidenza dei tumori andava di pari passo con l’aumento della statura media della popolazione, poteva trattarsi di una malattia da carenza. Immagini l’uomo come un fiore: tolto dal suo habitat naturale, cresce più forte e più alto ma perde il suo profumo. Bisognava cercare il rimedio nel terreno, in profondità. L’occasione di sperimentare si presentò quando la moglie fu colpita da un cancro all’utero, che aveva presto invaso il retto, l’intestino e il peritoneo. L’addome era aumentato a dismisura, la signora sembrava incinta di otto mesi. Il professor Ercole Brunetti tentò di operarla nel luglio 1991 presso la clinica Santa Rita da Cascia: come si suol dire, la aprì e la richiuse. Niente da fare. Ma Alessiani non si arrese e di nascosto preparò una soluzione, disciogliendo in acqua dei particolari terricci, e la somministrò alla moglie. In 21 giorni la signora Alessiani lasciò la clinica, anziché nella bara, sulle sue gambe e partì per una vacanza. Guarita. Il marito fu convocato da un magistrato che gli disse: “Mi creda, ho avuto questo incarico da molto in alto. Si ricordi che l’Italia è piena di falsi incidenti d’auto”. Nell’estate 1993 il dottor Alessiani subì un incidente stradale molto strano, che aveva tutte le caratteristiche dell’avvertimento criminale».

Lei è un esperto di medicina naturale, non un medico. Che titolo ha per parlare di tumori?

«Caspita! Sono un potenziale paziente».

Che cosa le fa credere che all’origine del cancro vi sia la candida?

«Dieci anni di ricerche. Dove non c’è il fungo, non c’è tumore. L’errore di base dell’oncologia è stato attribuire un’origine genetica al cancro. Quella della cellula che a un certo punto impazzisce e si riproduce all’infinito è un’ipotesi finora indimostrata. In realtà le cellule cancerose non sono altro che l’estrema difesa dell’organismo contro il fungo: il corpo le crea affinché il fungo attecchisca solo lì e non vada a intaccare gli organi vitali. Quindi non ha senso accanirsi contro di esse. È solo eradicando la candida che scompare il tumore».

Chi lo afferma?

«Il dottor Tullio Simoncini, oncologo e diabetologo romano, secondo il quale la candida albicans è sempre presente nei malati neoplastici, può produrre metastasi, ha un patrimonio genetico sovrapponibile a quello dei tumori, riesce a invadere tessuti e organi d’ogni tipo, dimostra un’aggressività e un’adattabilità illimitate».

Ma Simoncini non è lo studioso che cura il cancro col bicarbonato di sodio?

«Esatto. L’antifungino più attivo. È con quello che le mamme hanno sempre eliminato il mughetto dalla bocca dei figli. Simoncini lo provò su una zia e la guarì da un tumore allo stomaco con un cucchiaino di bicarbonato mattina e sera. Ma il sale dell’acido carbonico deve arrivare a contatto diretto col tumore, quindi è necessario posizionare nel paziente piccoli cateteri endocavitari o endoarteriosi. Ed è il motivo per cui contro i tumori delle ossa può fare ben poco, essendo irrorati da minuscole arterie che non consentono una sufficiente diffusione del bicarbonato».

Simoncini è stato radiato dall’Albo dei medici o ricordo male?

«Ricorda bene. Però dovrebbe anche ricordare che l’Ordine non ha tenuto in alcun conto la legge numero 94 dell’8 aprile 1998. La quale stabilisce che il medico, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente, può impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di utilizzazione diverse da quelle autorizzate, purché “tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. Il dottor Simoncini ha dalla sua 31 studi internazionali relativi al potere antiacido del bicarbonato di sodio nei tumori».

Lei ha visto debellare il cancro col bicarbonato?

«La mia regola è questa: mostratemi tre casi di tumori guariti, documentati da Tac eseguite prima e dopo una cura, e io divento paladino di quella cura. Nel caso di Simoncini ho esaminato dieci cartelle cliniche. E ho constatato che i tumori sotto i 3 centimetri spariscono in dieci giorni. Nel cancro al seno non infiltrato la probabilità di guarigione è del 99%, al fegato dell’80%, al polmone del 60%». 

Simoncini guarisce la maggior parte dei pazienti? Un po’ dura da credere.

«Sicuramente nei malati già trattati con la chemio la percentuale di successo è meno alta. Ma se venisse un tumore a me, andrei subito da lui. Prima di farsi devastare il corpo dalla chemio, perché non provare una terapia che non ha effetti collaterali negativi? All’oncologo romano non perdonano d’aver individuato un principio attivo che nei supermercati costa 80 centesimi di euro al chilo. Per un paziente trattato con i chemioterapici lo Stato spende mediamente 100.000 euro. Moltiplichi per i 250.000 nuovi casi di tumore che si registrano ogni anno in Italia e capirà il vero motivo per cui la cura Simoncini viene osteggiata».

Lei scrive: «Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto o fantasia». Sa di cospirazione planetaria.

«Cospirazione? No, è marketing. Per l’industria farmaceutica si tratta solo di vendere di più. Il fatto è che la chemioterapia non funziona. Quando proclamano che 50 malati di cancro su 100 guariscono, significa che 50 muoiono entro 5 anni dalla scoperta del male e gli altri poco dopo. Se un malato muore dopo 5 anni e un giorno, per loro è un morto guarito».

Non può negare che già nel 2002 la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per tutti i tipi di tumore, esclusi quelli della cute, era del 45,7% per gli uomini e del 57,5% per le donne, con una punta dell’83% per il cancro al seno.

«Come lei dice, in oncologia non esistono statistiche di guarigione, solo di sopravvivenza a 5 anni. Una volta fornivano anche quelle a 10 e 15 anni. Ora non le presentano più, si vergognano. Lei provi a cercarle: non le troverà. La sopravvivenza media calcolata a 5 anni su tutti i tumori certi e maligni è del 7%».

Come fa a dirlo?

«Sono gli stessi oncologi a dirlo, ma solo sui manuali destinati agli studenti universitari. Ci sono tumori a lungo decorso o addirittura semibenigni, tipo quelli delle ghiandole, i baseliomi, i liposarcomi, che vengono inseriti nelle statistiche per edulcorarle. Anche le esasperate campagne di diagnosi precoce del tumore al seno servono allo scopo: dimostrare la sopravvivenza oltre i fatidici 5 anni. Ma per i tumori maligni basti un solo esempio: su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con chemioterapia completa è stata di 75 giorni, mentre quelli che non hanno ricevuto alcun trattamento sono sopravvissuti in media per 220 giorni. Cinque mesi di più. Non lo dico io: lo ha scritto The Lancet, il vangelo dei medici, nel dicembre 1975. E da allora non è che sia cambiato molto».

Il metodo Di Bella fu sperimentato dieci anni fa negli ospedali italiani sotto la supervisione del ministero della Sanità. Non pare che abbia dato gli esiti sperati. Nel maggio scorso lo ha bocciato persino la Cassazione.

«Quando seppi che il professor Luigi Di Bella aveva accettato la sperimentazione offertagli dal ministro Rosy Bindi, pensai: ecco, s’è fatto fregare. Le pare serio che il test sia stato affidato a oncologi che si erano pubblicamente dichiarati contrari alla multiterapia? Per onestà avrebbero dovuto astenersi».

L’oncologo Umberto Tirelli sollevò un interrogativo non da poco: «Se le cure convenzionali non sono valide, allora perché anche Di Bella le usa?». Il professor Tirelli era entrato in possesso di fotocopie di prescrizioni del medico siculo-modenese nelle quali figurava la ciclofosfamide, che viene utilizzata abitualmente in chemioterapia contro alcuni linfomi.

«Rimproverai il professor Di Bella, per questo. Mi rispose mogio mogio: “Non sarebbe necessaria, ma in piccole dosi serve per accelerare la cura...”. Assurdo. Com’è possibile avvelenare un paziente con la pretesa di guarirlo? L’Istituto superiore di sanità è stato costretto a pubblicare uno studio sui pericoli mortali cui sono esposti medici e infermieri che maneggiano i chemioterapici antiblastici. S’intitola Rischi per la riproduzione e strategie per la prevenzione. Esso documenta come tutti i 42 principi attivi più usati negli ospedali italiani contro il cancro siano cancerogeni riconosciuti o possibili cancerogeni o probabili cancerogeni. Bella contraddizione, no? Non basta: la maggior parte sono anche teratogeni, mutageni, abortivi, vescicanti, irritanti. Tant’è vero che alle infermiere in stato interessante è vietato somministrarli e in Portogallo fin dal 1990 i residui dei farmaci antiblastici vengono inceneriti a 1.000 gradi, insieme con sacche, aghi, cannule, camici, guanti e visiere».

D’accordo, però io stento a immaginare un paziente con un tumore al pancreas che decide di affidarsi al frullato di aloe vera, miele e whisky messo a punto da padre Romano Zago, frate francescano, e consigliato da Alberto Mondini.

«Sempre meno rischioso che sottoporsi a una chemio».

In Kankropoli lei descrive addirittura una «macchina per guarire i tumori solidi, il Gemm», inventata dal turco Seçkiner Görgün.

«Il professor Görgün era un mio caro amico. Purtroppo è morto d’infarto qualche settimana fa in Kosovo. Con le radiofrequenze emesse dal Gemm aveva conseguito risultati strabilianti su un paziente con metastasi ricoverato all’ospedale San Luigi di Orbassano. Ma poi un pretore sequestrò il macchinario, salvo archiviare l’inchiesta con un non luogo a procedere due anni più tardi. Io stesso non avrei accettato le teorie di questo scienziato se non mi avesse esibito una documentazione inoppugnabile. Non era un ciarlatano: aveva lavorato in cliniche, università e istituti di ricerca di varie nazioni, compresa la Galileo Avionica, società di Finmeccanica che opera nel campo della difesa».

Ma lei ha mai fatto curare qualche suo congiunto con queste terapie alternative?

«Mio cognato è in cura in questi giorni col metodo Görgün a Pristina. Invece il mio unico fratello, Luigino, non ha mai voluto saperne. Da buon iscritto al Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, fondato fra gli altri da Piero Angela, s’è fatto operare e irradiare per un tumore al retto. Dopo 90 giorni aveva le metastasi al fegato. Altri 90 giorni ed era morto. Se n’è andato in otto mesi dalla diagnosi».

Non la sfiora l’atroce dubbio d’aver dirottato parecchi pazienti verso una terapia sbagliata?

«Assolutamente no».

Non s’è mai posto la domanda: ma chi me lo fa fare?

«Qualche volta sì».

E che risposta s’è dato?

«Quando conosci la verità, aumenta la responsabilità. Non puoi tenere la verità per te».

BUSINESS NON SOLO SUI TUMORATI. Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza, scrive Angelo Riky Del Vecchio su “Nurse 24” del 17 aprile 2016. Le Iene, la trasmissione d’inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull’argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell’emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. In tutto lo Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall’Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all’ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano).

Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus, scrive il 18 aprile 2016 Michele Calabrese su “Nurse Times”. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento, ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale e costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce la propria attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito. 

S COME MAFIA DELLA SCUOLA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI”. Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

...E PROMOZIONE PER TUTTI SIA!

Alle elementari e alle medie tutti promossi per legge. Da quest'anno basterà un solo professore contrario alla bocciatura e l'alunno sarà ammesso alla classe successiva. Scuole obbligate a organizzare corsi di recupero. Altra novità della Buona Scuola: il test Invalsi non inciderà sul voto finale dell'esame di terza, scrive Salvo Intravaia il 30 agosto 2017 su "La Repubblica". Bocciature "abolite" per decreto alle elementari e medie, nuovi esami e test Invalsi rivoluzionati in terza media. L'anno scolastico ormai alle porte si apre con una serie di novità introdotte dalla Buona scuola che riguardano i bambini della primaria e i ragazzini della scuola media. Per la scuola superiore occorrerà attendere ancora 12 mesi prima di vedere gli effetti della legge 107. Il governo Renzi e il suo successore Gentiloni, che ha approvato le deleghe della riforma Renzi/Giannini, hanno dichiarato guerra alle bocciature: l'Italia è una delle nazioni europee con la dispersione scolastica più alta. Alle elementari si potrà bocciare solo in caso di abbandono dell'anno scolastico o per le troppe assenze. Una situazione che riguarda una fascia marginale di alunni: tre su mille in prima elementare e uno su mille nelle altre quattro classi della primaria. In pratica, non si potrà bocciare per il profitto. "Le alunne e gli alunni della scuola primaria sono ammessi alla classe successiva e alla prima classe di scuola secondaria di primo grado anche in presenza di livelli di apprendimento parzialmente raggiunti o in via di prima acquisizione", recita il decreto legislativo 62 dello scorso mese di aprile. Nei casi di promozione "agevolata", le scuole dovranno attivare "specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento". La bocciatura sarà possibile sono se tutti gli insegnanti del consiglio di classe saranno d'accordo: "Solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione", spiega la norma. Basterà un solo parere contrario per fare scattare la promozione ope legis. Novità anche per le prove Invasi. Oltre ai consueti test di Italiano e Matematica, in seconda e quinta, in quest'ultima classe i bambini verranno sottoposti a una ulteriore prova di Inglese. Anche alla scuola media la promozione diventerà la regola generale: "Le alunne e gli alunni della scuola secondaria di primo grado sono ammessi alla classe successiva e all'esame conclusivo del primo ciclo", prevede il decreto legislativo sulla Valutazione. Tranne i casi di gravi infrazioni disciplinari e nei casi di "parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline". Situazioni in cui "il consiglio di classe può deliberare" la bocciatura ma con adeguata motivazione. Anche in questo caso potrà scattare la promozione in presenza di insufficienze in una o più discipline, a patto che le scuole avviino percorsi di supporto per colmare le lacune. Le prove Invalsi, che da qualche anno si svolgono solo in terza media, non saranno più in concomitanza con gli esami conclusivi e non incideranno più sul voto finale. Si svolgeranno entro il mese di aprile, saranno effettuate al computer - computer-based - e contempleranno anche una prova di Inglese. Così come avverrà alla scuola elementare, tutta la fase di spoglio delle schede e di caricamento al computer degli esiti degli Invalsi sarà a carico degli insegnanti, come "attività ordinaria d'istituto". E la partecipazione alle stesse costituirà requisito di ammissione agli esami. Dopo anni di polemiche e dibattiti, l'esame di licenza media verrà semplificato: solo tre prove scritte - Italiano, Matematica e Lingue straniere - e un colloquio. Per gli indirizzi musicali, durante lo stesso colloquio, è prevista una prova pratica relativa allo strumento studiato. Alla media, più che le risultanze degli esami, la Buona scuola premierà la carriera scolastica. Il voto finale sarà espresso in decimi - con eventuale lode - e scaturirà dalla media tra il voto di ammissione e la media dei voti delle prove d'esame. E a presiedere gli esami sarà lo stesso dirigente scolastico dell'istituto in cui si svolgo gli esami. Niente più presidente esterno.

Scuola, vietato bocciare alle elementari e alle medie. SCUOLA TUTTI PROMOSSI. Scuole: studenti promossi a elementari e medie per legge. Ecco i 2 solo casi di bocciatura, scrive "Affari Italiani" il 30 agosto 2017. Scuola, addio studenti bocciati. Tutti promossi a scuola. Tra le novità introdotte dalla riforma del governo, la Buona Scuola, ha praticamente abolito la bocciatura sia alle scuole elementari sia alle scuole medie. Il provvedimento che cancella le bocciature a scuola almeno nelle intenzioni, dovrebbe porre un freno all’altissimo numero di alunni vittime di dispersione scolastica. L’Italia è una delle nazioni con il più alto tasso di dispersione scolastica che si registri in tutta Europa. Si cerca di cambiare il trend evitando nuovi studenti bocciati.

Addio bocciature per scarso rendimento scolastico. Con la riforma della Buona Scuola, un alunno delle elementari o delle medie potrà essere bocciato solo in caso di abbandono dell’anno scolastico o per le troppe assenze fatte registrare. Casi rari: le statistiche dicono che sono tre alunni ogni mille in prima elementare e un alunno ogni mille nei restanti quattro anni scolastici. Sono gli unici due motivi per bocciare gli alunni. Tradotto: addio bocciature per scarso rendimento scolastico.

Il compito delle scuole. E gli alunni che superano l’anno scolastico pur con carenze e deficit evidenti? Le scuole dovranno mettere a disposizione specifiche strategie per colmare queste situazioni. La bocciatura potrebbe comunque essere possibile qualora tutti gli insegnanti del consiglio di classe siano d’accordo e solo qualora vi siano casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione. Basta che uno degli insegnanti non sia d’accordo sulla bocciatura e l’alunno dovrà essere promosso. Ha senso non bocciare gli studenti di scarso rendimento? Quesito che dividerà gli italiani.

Le scuole medie. Passando alle scuole medie gli alunni potranno essere bocciati in caso di grave infrazione disciplinare o nel caso di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più materie (bocciatura sempre giustificata con adeguata motivazione).

«Giusto bocciare alle elementari». Il governo non vuole il divieto. Via libera alle norme per attuare la riforma. «Si deve ripetere solo in casi eccezionali». La preside: il problema sono i voti troppo alti, scriveva il 14 gennaio 2017 Claudia Voltattorni su "Il Corriere della Sera”. È giusto bocciare alla scuola elementare? Sì, devono aver pensato ieri mattina in Consiglio dei ministri dove il tema è stato al centro di un mini-dibattito durante la discussione sulle 8 delle 9 deleghe della Buona scuola portate a Palazzo Chigi dalla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. L’esecutivo ha dato il via libera a 8 dei 9 decreti attuativi che rappresentano un po’ il «secondo tempo» della riforma (rimasto fuori solo quello sulla revisione sul Testo unico della scuola: ci sarà un disegno di legge ad hoc). E parlando della delega sulla valutazione degli studenti (dal 2018 novità per l’esame di terza media e la maturità), l’agenzia Ansa racconta che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto di inserire il divieto di bocciatura degli alunni alle elementari, «un peso che resta tutta la vita». Contraria la ministra Fedeli che invece ha eliminato il divieto inserito originariamente nella prima stesura della delega. Però ha previsto che «l’alunno possa essere non ammesso solo in casi eccezionali e comprovati». «Ma questo è un falso problema: da anni la bocciatura alla scuola primaria è un caso più unico che raro e, se prevista, è concordata con la famiglia, proprio nell’interesse del minore», dice Wilma De Pieri, preside dell’Istituto comprensivo Armando Diaz di Meda (Monza). In effetti, ormai quasi la totalità degli alunni viene ammessa alla classe successiva, nonostante non tutti a volte lo meritino. Ma, spiega la dirigente, «bocciare un bambino quasi mai porta a qualcosa di buono, anzi, spesso sfocia in comportamenti da bullo verso i più piccoli». D’altronde, Maria Montessori e don Lorenzo Milani hanno sempre considerato la bocciatura un’assurdità («la scuola non deve spingere fuori») e pure l’Ocse la definisce «dannosa» perché «chi deve ripetere di solito non recupera» e ha «un costo elevato per il Paese». Piuttosto, sottolinea la preside De Pieri, «è la valutazione il vero nodo: alle elementari c’è un appiattimento generale con bimbi inchiodati su 9 e 10, con lo choc dopo i primi 6 delle medie». Ma «la scuola deve premiare il merito, altrimenti il motto diventa “l’importante è partecipare”»

Scuola dell’obbligo, da quest’anno vietato bocciare. Lettera di Mario Bocola su Orizonte scuola del 30 agosto 2017. È stata messa al bando la bocciatura e la promozione si acquisisce ormai ope legis. Si tratta della promozione per legge quella che traspare dalla lettura attenta di una delle otto deleghe della “Buona Scuola” varate dal governo Gentiloni che entreranno pienamente in vigore dall’anno scolastico che sta per cominciare. Lo spirito della delega sulla valutazione degli apprendimenti degli alunni della scuola primaria e della scuola secondaria di I grado è quello, scricto sensu, di dichiarare guerra aperta alle bocciature. Alla scuola primaria la bocciatura è consentita soltanto in caso di numerose assenze o nel caso di abbandono della frequenza della scuola.

Per il profitto si deve essere promossi. L’art. 62 del decreto delega recita infatti che “le alunne e gli alunni della scuola primaria sono ammessi alla classe successiva e alla prima classe della scuola secondaria di I grado anche in presenza di livelli di apprendimento parzialmente raggiunti o in via di prima acquisizione”. Tradotto in parole povere: se un alunno presenta numerose insufficienze e non ha raggiunto pienamente gli obiettivi prefissati può essere promosso, tanto li raggiungerà sine die. Quindi promozione assicurata per legge. Però le scuole dovranno in questo caso attivare “specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento”. Escamotage per dire chiaramente all’alunno: noi ti promuoviamo ma tu dopo devi impegnarti per colmare le lacune. Come per la scuola primaria, dove fino ad ora la bocciatura era considerata un tabù, anche per la scuola media la situazione sarà identica. Infatti in questo segmento di scuola dell’obbligo bocciare diventerà quasi un peccato mortale. Infatti, sempre lo stesso decreto delega sulla valutazione prevede che “le alunne e gli alunni della scuola secondaria di I grado sono ammessi alla classe successiva e all’esame conclusivo del primo ciclo tranne in casi di gravi infrazioni disciplinari e nei casi di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline”. Anche in siffatto caso l’alunno ottiene la promozione nelle discipline in cui presenta insufficienze, a patto che le scuole organizzino percorsi per colmare le lacune. Ma l’alunno pensa: tanto mi hanno promosso, il prossimo anno studio il minimo sindacale tanto mi promuovono lo stesso. È un messaggio aberrante quello che la scuola invia agli alunni e alle famiglie, perché poi le famiglie vogliono che i propri figli vengano promossi. La bocciatura viene vista come una punizione inflitta all’alunno non come occasione di prendere consapevolezza di non aver studiato per un intero anno scolastico. Ad avvalorare ancor di più il clima di maggiore tendenza a promuovere tutti sono i Dirigenti Scolastici che mantengono sempre un atteggiamento favorevole nei riguardi degli studenti grazie ad una linea di condotta che va quasi sempre nella direzione di “aiutare” l’alunno che presenta numerose insufficienze tributandogli la magica frase: “diamogli fiducia promuovendolo”. Questo perché subentrano numerosi fattori ragioneristici, cioè la formazione delle classi, la salvaguardia delle cattedre per non parlare dei benefici economici e degli standard ministeriali che ciascuna istituzione scolastica ottiene se trasmette al MIUR un quadro molto positivo delle promozioni ottenute a conclusione dell’anno scolastico che vanno a premiare l’azione del Dirigente in termine di iscrizioni. Allora che senso ha promuovere tutti se vogliamo puntare verso una scuola di qualità?; così andiamo inevitabilmente verso il basso provocando un livellamento dell’istruzione. Che tipo di società potremo aspettarci in futuro se tutti ottengono la promozione? Sono tutti bravi? No, bisogna fare dei distinguo. Allora l’alunno sempre impegnato, attento, diligente lo andiamo a mortificare, a squalificare, perché poi dirà: l’anno prossimo studio il minimo, tanto vengo promosso alla stessa stregua di chi non studia. Stiamo attenti e vigili perché sulla pelle degli insegnanti scorre la linfa che farà germogliare la futura classe dirigente di questo sgangherato Paese!

Il trionfo degli analfabeti: non si è mai scritto tanto e tanto male. Dagli strafalcioni grammaticali dei politici alla dealfabetizzazione resa evidente dai social network, oggi siamo circondati dalla brutta scrittura. E non si tratta di un fenomeno solo italiano, scrive Raffaele Simone il 13 aprile 2017 su "L'Espresso". L’italiano è in declino? I giovani lo stanno perdendo? Nelle settimane scorse queste domande hanno rifatto capolino per via di un fait-divers: 600 professori universitari, tra i quali alcuni nomi noti, hanno scritto una lettera al capo del governo, al ministro dell’istruzione e alla stampa, per denunciare che «alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente» e commettono «errori appena tollerabili in terza elementare». Forti di questa diagnosi, i Seicento hanno stabilito che la colpa è della scuola, troppo disinvolta e liberale: ne chiedono quindi una «davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica». Dopo questo rullo di tamburi, che sembrava annunciare chissà quale carica, i Seicento si sono limitati però a proporre qualche ritocchino qua e là all’organizzazione della scuola, di portata così modesta da sembrare, più che un manifesto di riscossa, un post-it passato da un preside ai suoi docenti. Del resto, qualche giorno dopo, quasi a farlo apposta, l’appello ha trovato una brutale conferma nei fatti: in un concorsone per maestri, la metà dei candidati si sono lasciati andare a plateali svarioni e castronerie. Comunque sia, benché il documento fosse scritto in una prosa malferma e burocratica e non tutti i Seicento siano noti come campioni di bello stile, non c’è dubbio che il dominio dell’italiano da parte dei giovani sia in grave declino. Nei miei decenni all’università ho incontrato non meno di dieci coorti di ragazzi, e posso confermare per esperienza diretta che uno smottamento linguistico e culturale presso i giovani era evidente almeno dagli anni Ottanta.

La questione si può affrontare a diversi livelli. Se vogliamo solo farci quattro risate, potremo fare collezioni di un po’ e fà, di un'elemento e i zoccoli ecc. Ci sorprenderà che solo pochi padroneggino l’apostrofo e gli accenti, distinguano sì (segno di assenso e avverbio multiuso) da si, sappiano come si scrivono soqquadro, acquitrino e intravvedere, e coi congiuntivi se la cavino meglio di Di Maio. Va detto però che strafalcioni non si trovano solo nel linguaggio dei giovani, ma affiorano anche in prose premium. Le scemenze pullulano sui maggiori media del paese, nei quali la punteggiatura è ormai traballante, il passato remoto è scomparso (Giulio Cesare è nato…) e la virgola dopo il vocativo è solo dei cruscanti. A un livello un po’ più complesso, ci sorprenderà vedere (esperienza personale) che neanche uno degli studenti di un corso specialistico conosca il senso di imbelle, imberbe, inerme, empio, beffardo e tanti altri aggettivi di questo tono. La sorpresa sarà ancora maggiore scoprendo che nessuno o quasi è in grado di completare un proverbio che a voi pare ovvio (tanto va la gatta al lardo…, bandiera vecchia…). Ma se vogliamo andare un po’ a fondo, bisognerà dire (e ricordare ai Seicento) che a indebolirsi non è la “lingua italiana” come materia scolastica. È molto di più: non stanno andando in fumo solo l’ortografia, la grammatica, la sintassi e il lessico, ma tutta quella formidabile macchina mentale (un tesoro dell’Occidente) con cui si acquista, conserva, elabora la conoscenza. Parlo insomma dell’intera attrezzatura che si usa per acquisire conoscenze e elaborarle, esporle, farle valere, ricordarle, usarle nella pratica.

Qualcuno cercherà di consolarci ricordandoci che il declino, se c’è, colpisce tutti i paesi avanzati. Il saggio The Closing of the American Mind di Allen Bloom, che descriveva con allarme cose esattamente di quel genere che accadevano negli USA, è del 1987. A un livello più basso, in Francia nel 2016 si sono visti costretti a sopprimere per legge alcune trappole ortografiche, tanti erano gli errori (anche dei colti) nella scrittura. Sono state modificate una quantità di grafie ingannevoli (oignon “cipolla” si potrà scrivere anche ognon); poi, arrendendosi al fatto che per i giovani il circonflesso è ormai solo un dettaglio delle faccine, lo si è abolito su i e su u (chissà perché, non su a)! Quindi, per dire, la maîtresse sarà d’ora in poi una maitresse… Questo tentativo di consolazione si può leggere però anche come un allarme da horror: l’attacco ai meccanismi del conoscere (ortografia inclusa) non è locale, ma planetario, e questa non è fantascienza. Ma chi sono i nemici? Non sappiamo dove sono, ma sappiamo chi sono. Da almeno trent’anni i giovani si trovano nella tenaglia di un mondo che è insieme descolarizzante e dealfabetizzante. Quanto al primo punto, è un mondo pieno di attrazioni, tentazioni, trappole seducenti, inviti, richiami a esperienze facilmente accessibili (droga inclusa). Insomma, nel complesso, un mondo così terribilmente attraente che al confronto la scuola, con tutto quel che comporta (pazienza, attenzione, ripetizione, silenzio), ha perduto mordente e appare piuttosto come una gran noia. La vita fuori è mille volte più libera e ricca di quella che si svolge entre les murs (“tra le mura” della scuola, secondo il titolo del bel film francese, in Italia La classe).

A dealfabetizzare queste generazioni già descolarizzate ci pensa il digitale di massa usato senza criterio. Una frase del genere è sicuramente impopolare, ma bisogna ben ammettere che i primi dieci anni dello smart phone, celebrati qualche settimana fa, sono anche i primi dieci anni del crollo della cultura condivisa. Su smartphone e tablet ubiqui, tutti scrivono o leggono qualcosa in ogni momento e luogo, perfino al cinema, in sala operatoria e alla guida di autobus. Ma come scrivono? Cosa scrivono? Cosa e come leggono? Molte di queste cose sono puro trash, junk, monnezza. Per giunta, la loro vita mentale è sottoposta a una perturbazione perpetua, dominata dall’interruzione continua, dallo zapping compulsivo, dalla mezza cultura che circola in rete, dal copia e incolla come pratica standard. Faccine piazzate dappertutto, fusioni di parole (tecnicamente, univerbazioni: massì, mannò, maddai, evvai, eddai, ecc.), contrazioni coatte (dal celebre xché in poi), appunti presi coi pollici e whatsapp per descrivere (fotografandoli) anche i momenti più irrilevanti e triti della vita. Insomma, se è vero che non si è mai scritto tanto nella storia, mai lo scrivere è stato a tal punto privo di ogni potere alfabetizzante.

Il guasto linguistico che ha tanto scandalizzato i Seicento è quindi solo una delle facce della e-cultura ormai prevalente, e neanche la più importante. La scuola, poveretta, non è colpevole che in parte. Nata per caso, la e-cultura è salita dalle aule e dalle discoteche alle professioni e alla vita comune, a partire dai media, e si è propagata viralmente. Basta sentire gli spropositi di pronuncia dei giornalisti televisivi, le intonazioni sballate, le pause viziose, i discorsi letti senza evidentemente capirci niente, per rendersi conto che il virus si è scatenato. I maestri elementari che scrivono svarioni sono i primi frutti maturi e adulti di questa semina.

Basteranno le quattro propostine di riorganizzazione didattica frettolosamente sottoscritte dai Seicento per compensare gli effetti di un bradisismo catastrofico? Cosa può la scuola? Chi può contrastare il blocco computazionale-educativo dominato da corporations come Apple, Google, Facebook e Pearson?

Come sempre, però, nella catastrofe c’è chi corre ai ripari. Mentre la scuola si dequalifica (e la lingua si liquefa), i giovani più svegli continuano a prepararsi seriamente, imparano a scrivere e leggere come si deve e usano i device solo quando gli servono. Ne conosco non pochi. L’esplosione internazionale dello house-schooling (ora si chiama così: far scuola a casa) è un indizio minuscolo, ma eloquente, di questo “si salvi chi può”.

Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori. Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato, scrive Elisa Murgese il 21 marzo 2017 su "L'Espresso". Hanno più di 55 anni, sono poco istruiti e svolgono professioni non qualificate. Oppure sono giovanissimi che stanno a casa dei genitori senza lavorare né studiare. O, ancora, provengono da famiglie dove sono presenti meno di 25 libri. Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. È “low skilled” più di un italiano su quattro e l'Italia ricopre una tra le posizioni peggiori nell' indagine Piaac, penultima in Europa per livello di competenze (preceduta solo dalla Turchia) e quartultima su scala mondiale rispetto ai 33 paesi analizzati dall'Ocse (con performance migliori solo di Cile e Indonesia). Non si parla in questo caso di persone incapaci di leggere o fare di conto, piuttosto di persone prive «delle competenze richieste in varie situazioni della vita quotidiana», sia essa «lavorativa, relativa al tempo libero», oppure «legata ai linguaggi delle nuove tecnologie», precisa Simona Mineo, ricercatore Inapp, l'Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol). «Chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere - continua Mineo, che è stata anche National data manager per l’indagine OCSE-PIAAC condotta in Italia - ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni». Un monito che riguarda gli italiani tutti perché, come conferma all'Espresso Friedrich Huebler, massimo esperto di alfabetizzazione per l'Istituto di statistica dell'Unesco: «Senza pratica, le capacità legate all'alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno». Come a dire che analfabeti non si nasce ma si diventa. Secondo l'Unesco, nel 2015 gli analfabeti in Italia erano pari all'1 per cento, percentuale che si riduce allo 0,1 se si considera solo la popolazione dai 15 ai 24 anni. «In molte regioni industrializzate, come l'Europa, la maggior parte della popolazione è capace di leggere e scrivere - continua Huebler - L'enfasi, infatti, è da porre sull'analfabetismo funzionale e sui livelli di alfabetizzazione piuttosto che sulle basiche capacità di lettura e scrittura». Al centro dell'analisi dell'esperto dell'Unesco ci sono proprio i dati dell'analisi Piaac, che mostrano come, nonostante l'Italia abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100 per cento, la percentuale di analfabeti funzionali è la più alta dell'Unione europea. D'altronde, «anche se la maggior parte degli abitanti dei paesi ricchi è capace di leggere e scrivere - chiude Huebler - non si deve dimenticare come i livelli di alfabetizzazione non sono gli stessi per tutta la popolazione».

L'identikit dei nuovi analfabeti in Italia. Solo il 10 percento è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre degli analfabeti funzionali italiani è over 55. Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani. A tracciare l'identikit dell'analfabeta funzionale italiano sono le elaborazioni dell'Osservatorio Isfol raccolte nell'articolo “I low skilled in Italia”, studio nato per indagare su quella nutrita parte della popolazione italiana che nell'indagine dell'Ocse ha mostrato di possedere bassissime competenze. Tra i risultati più interessanti, l'aumento della percentuale di low skilled al crescere dell’età, passando dal 20 percento della fascia 16-24 anni all'oltre 41 percento degli over 55. «Questo perché chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria - continua la ricercatrice Mineo - ma anche perché nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno». Ovvero, «se non sono coltivate, vengono perse anche quelle competenze minime acquisite durante le fasi di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Andamento inverso per gli high skilled: in altre parole, mano a mano che i mesi passano sul calendario, aumentano le possibilità di diventare analfabeti funzionali. Balsamo contro la perdita delle nostre capacità può essere tornare tra i banchi di scuola da adulti o partecipare attivamente al mondo del lavoro. Eppure, non ogni occupazione può “salvarci” dall'essere potenziali analfabeti funzionali visto che solo alcune attività garantiscono il mantenimento se non addirittura lo sviluppo di capacità e conoscenze. «Sono le skilled occupations, ovvero professioni intellettuali, scientifiche e tecniche» precisa Simona Mineo. Quale quindi la causa delle cattive performance degli over 50? Colpa dei loro brevi percorsi scolastici e di un precoce ingresso nel mercato del lavoro, ma «ciò che conta più di tutto è la mancanza di una costante 'manutenzione' e 'coltivazione' delle competenze». È l'assenza di allenamento mentale, quindi, la causa che la ricercatrice individua per il declino della popolazione più anziana. «Si dovrebbe garantire un invecchiamento attivo», e sostenere attività di apprendimento in età adulta. «Iniziative che purtroppo, in Italia, continuano ad essere estremamente ridotte». Contraltare degli over 50 sono i Neet (i giovani tra i 16 e i 24 anni che non stanno né lavorando né studiando), visto che secondo lo studio di Inapp coloro che appartengono a questa categoria hanno una probabilità cinque volte maggiore di avere bassi livelli di competenza.

I libri che abbiamo in casa fanno la differenza. Quanti volumi erano riporti sulla libreria di casa tua quando avevi 16 anni? Ecco una delle domande del questione Piaac che può fare la differenza visto che spesso gli analfabeti funzionali sono cresciuti in famiglie in cui erano presenti un numero limitato di libri. «Questo dato è particolarmente accentuato nel nostro Paese -si legge nel report - dove il 73 percento dei low skilled è cresciuto in famiglie in cui erano presenti meno di 25 libri». Una mancanza che può portare i giovani a cadere in un crudele circolo vizioso. «L'assenza di un livello base di competenze - racconta Simona Mineo - rende difficili ulteriori attività di apprendimento», tanto da portare le competenze dei giovani con background fragili a «invecchiare e deteriorarsi nel tempo», rendendo per loro sempre un miraggio «l’accesso a qualsiasi forma di apprendimento». Le nostre competenze, quindi, non sono statiche. La famiglia, l’età, l’istruzione e il lavoro possono determinarne nell’arco della vita lo sviluppo ma anche la loro perdita. E il tessuto italiano potrebbe addirittura aiutare la diffusione dell'analfabetismo funzionale. Tra i punti deboli del nostro Paese, infatti, «l’abbandono scolastico precoce, i giovani che non lavorano o vivono condizioni di lavoro nero e precario, la mancanza di formazione sul lavoro» continua la ricercatrice, puntando il dito anche contro «la disaffezione alla cultura e all'istruzione, che caratterizza tutta la popolazione». D'altronde, come ricordava Tullio De Mauro, «la regressione rispetto ai livelli acquisiti nel percorso scolastico colpisce dappertutto gli adulti». «Occorre -, quindi, secondo lo studioso che più di tutti in questi ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, - riflettere su stili di vita e assetti sociali che producono questi dislivelli di competenze e queste masse di deprivati tra gli adulti». 

«Gli studenti non sanno l’italiano». La denuncia di 600 prof universitari. Appello accorato dei docenti che chiedono un intervento urgente al governo e al Parlamento. «Nelle tesi di laurea, errori da terza elementare. Bisogna ripartire dai fondamentali: grammatica, ortografia, comprensione del testo», scrive Orsola Riva il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle testimonianze drammatiche dei 600 professori universitari che in pochi giorni hanno sottoscritto un accorato appello al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali: «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa male». O, come preferisce ricordare il professor Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è il ragionare». «E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». La notizia non è nuova, ma non per questo è meno drammatica. Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E a sorpresa è soprattutto in italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della lettera si contano (al momento) 8 accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche perché severa), matematici e docenti di diritto, storici dell’arte e neuropsichiatri. Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti universitari. Come racconta bene questa testimonianza di uno dei firmatari: «Mi è capitato di incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera del codice di prenotazione del suo biglietto».

La lettera dei 600 docenti universitari al governo: "Molti studenti scrivono male, intervenite". Il documento firmato da accademici della Crusca, linguisti, storici e filosofi. Nella lista Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari e Carlo Fusaro: "Alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di italiano", scrive Gerardo Adinolfi su "La Repubblica” il 4 febbraio 2017. "Molti studenti scrivono male in italiano, servono interventi urgenti".  E' il contenuto della lettera che oltre 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti hanno inviato al governo e al parlamento per chiedere "interventi urgenti" per rimediare alle carenze dei loro studenti: "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente", si legge nel documento partito dal gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e firmato, tra gli altri, da Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo Fusaro e Paola Mastrocola. "Da tempo - continua la lettera - i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana". Secondo i docenti, il sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, "anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico". "Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all'aggiornamento degli insegnanti, ma - si fa notare -  non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né l'impegno degli insegnanti, né l'acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti". Nella lettera si indica quindi una serie di dettagliate linee d'intervento per arrivare, "al termine del primo ciclo" di studi, ad un "sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti". Nella lunga lista dei firmatari ci sono molti nomi illustri: gli Accademici della Crusca Rita Librandi, Annalisa Nesi e Piero Beltrami, i linguisti Stefania Stefanelli e Edoardo Lombardi Vallauri, quatto rettori universitari, i docenti di letteratura italiana Giuseppe Nicoletti e Biancamaria Frabotta, gli storici Luciano Canfora e Mario Isnenghi, il matematico Lucio Russo e i costituzionalisti Paolo Caretti e Fulco Lanchester e ancora l'economista Marcello Messori e i docenti di diritto pubblico comparato e romano Ginevra Cerrina Feroni e Giuseppe Valditara. "Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto semianalfabeti - si legge tra i commenti dei docenti alla lettera -  È una tragedia nazionale non percepita dall’ opinione pubblica, dalla stampa e naturalmente dalla classe politica. Apprezzo che finalmente si ponga il problema. Ahimè, ho potuto constatare anch'io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle... È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che vogliono intraprendere la professione di giornalista e presentano povertà di vocabolario, scrivono come se stessero redigendo un sms, con conseguenti contrazioni di vocaboli, o inciampano sui congiuntivi". Un altro docente invece spiega: "Fortunatamente si incontrano anche ragazzi in gamba e preparati. Dedico ormai una buona parte della mia attività di docente a correggere l'italiano delle tesi di laurea. Purtroppo l'insegnamento di base, invece di concentrarsi su poche ed essenziali competenze, tende ad ampliarsi e a complessificarsi a dismisura, coi risultati che constatiamo. Le maestre elementari - spesso bravissime e motivatissime - devono obbedire a un sacco di circolari che le inducono a fare le assistenti sociali. La situazione, poi, è resa oggettivamente problematica dalla latitanza di troppe famiglie, che mandano a scuola bimbi incapaci di una normale convivenza".

«Si, nò, un’altro strafalcione» L’italiano incerto dei miei studenti. Il racconto del docente di linguistica. Più degli errori, preoccupa la difficoltà di decodificare i testi scritti. La grammatica va rispettata, ma sfidi la lingua in cui viviamo, scrive Giuseppe Antonelli il 6 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La situazione è grammatica, si potrebbe dire riprendendo l’arguto titolo di un libro recente. Anche nel senso che improvvisamente la grammatica si è ritrovata al centro di un’attenzione che di solito non le viene riservata. E questa è un’ottima cosa, se è vero che - come scriveva Pessoa - «la fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica». Va detto, d’altra parte, che la situazione era già ampiamente nota. «Le lamentele sull’italiano approssimativo degli studenti costituiscono un topos abituale», si legge nella prima pagina di un libro del 1991 intitolato La lingua degli studenti universitari. Negli studi degli ultimi anni sull’italiano degli universitari vengono segnalati errori di tanti tipi. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata («un centro urbano, gode di maggiore prestigio»), usi impropri dell’apostrofo («un’altro»), dell’accento («si, nò») e delle maiuscole («alcuni Tratti»), fraintendimenti lessicali («tutte le mie speranze si sono assolte»). Ma la questione più urgente riguarda la scarsa capacità di organizzare, o anche solo decodificare, adeguatamente un testo. Ovvero di argomentare il proprio pensiero e di interpretare - comprendendone il senso e lo scopo - quello degli altri. Vale a dire quegli aspetti che fanno della grammatica un elemento determinante non solo per la comunicazione e la socializzazione, ma anche per una cittadinanza consapevole. Ecco perché diventa sempre più importante insegnare la grammatica finalizzandola alla produzione di testi. Solo che per far questo bisogna liberarsi di alcuni riflessi condizionati. Nessuno insegna più la geografia o le scienze come si faceva cinquant’anni fa: il mondo è cambiato, ci sono state nuove scoperte. Bene: è cambiato anche l’italiano, oltre a quello che sappiamo sul funzionamento delle lingue. La grammatica non è granitica, ma dinamica. Che senso ha - ad esempio - demonizzare la tecnologia, quando è grazie alle nuove tecnologie che la scrittura è entrata davvero a far parte delle nostre vite? Tutto acquista un’altra concretezza se lo si mette in relazione con i testi reali. Resta grave, ovviamente, sbagliare l’uso di una acca o di un accento (anche se nel segreto della tua tastiera, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Ma ancora più grave è che la scrittura dei messaggini stia abituando i ragazzi a una testualità spezzettata, incompleta, insufficiente. E allora si potrebbe partire dal confronto tra questi testi e quelli tradizionali, per far capire come si costruisce un testo compiuto ed efficace: che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine. Si potrebbe insistere un po’ di meno sulla differenza tra complemento di compagnia e di unione e un po’ di più su quei connettivi che servono a stabilire i rapporti logici tra le varie frasi. Smettere di dire che lui e lei non possono essere usati come soggetto e spiegare bene i casi in cui il soggetto di una frase deve essere esplicitato. Ogni livello della grammatica - dalla punteggiatura al lessico, dalla coniugazione dei verbi alla costruzione della frase - può essere orientato verso questo obiettivo. Anche per evitare la sensazione di un eccessivo scollamento tra l’essere e il dover essere, tra la norma e l’uso, tra la scrittura scolastica e quella di tutti i giorni. La sensazione di una doppia verità, infatti, rischia di alimentare atteggiamenti di lassismo e rinuncia: «tanto la grammatica che insegnano a scuola nella vita vera non serve ...». Per mostrarsi vitale (in ogni senso) la grammatica deve accettare la sfida con la lingua in cui viviamo. Se la situazione è grammatica, la grammatica dev’essere all’altezza della situazione. 

Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano, scrive Spartaco Pupo, Ricercatore e docente di storia delle dottrine politiche, Università della Calabria, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". È davvero singolare che oltre 600 docenti universitari, alcuni anche prestigiosi, abbiano firmato un appello dai toni così semplicistici o, per usare un termine di gran moda, «populistici», per chiedere al governo e al parlamento «interventi urgenti» contro il «semianalfabetismo» dei loro studenti, accusati di scrivere malissimo in italiano e di commettere gravi errori di sintassi, grammatica e lessico. Il problema, in realtà, è più complesso di quanto vorrebbero fare apparire questi colleghi, e investe, oltre alla scuola, anche e soprattutto l'università italiana, che fino a prova contraria laurea i professori delle scuole che formano i ragazzi somari oggi denunciati, i quali esistono per davvero, aumentano ogni anno di più, e di cui è giusto dibattere. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di scandaloso se dei genitori italiani firmassero anch'essi un appello per prendersela con l'università che regala lauree ai docenti dei propri figli. Sarebbe, certo, un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, ma una cosa è certa: gran parte delle responsabilità di questo fenomeno è ascrivibile proprio alla crisi dell'intero sistema formativo, che è il prodotto non solo di scelte politiche, teorie pedagogiche e psicologiche e convinzioni ideologiche di origine sessantottina tendenti a un generale livellamento delle competenze, sempre più tecnicistiche e sempre meno umanistiche, a dispetto della valorizzazione del talento e del merito, ma anche dell'indisturbata «selezione» di un corpo accademico che lancia solo oggi l'allarme, piangendo lacrime di coccodrillo. È vero che nella scuola dell'obbligo il buonismo con cui gli insegnanti tendono a promuovere tutti, anche gli analfabeti, è dilagante, ma è altrettanto vero che i nostri ragazzi fanno oggi i conti con un disprezzo generalizzato della lingua italiana diffuso sia nei romanzi di certi autori contemporanei, pieni zeppi di parolacce, sia nei giornali e nella televisione, che fanno largo uso di un linguaggio sempre più sciatto, pieno di scorciatoie e strafalcioni. E che dire del predominio incontrastato dell'inglese oggi peraltro imposto a cominciare proprio dall'università, a tutto svantaggio dell'uso dell'italiano? Gran parte della classe accademica che oggi si lamenta dell'ingresso all'università di gente che non usa bene il congiuntivo, fino all'altro ieri si è abbeverata agli insegnamenti di professori come Tullio De Mauro, che dopo averci per una vita invitato a privilegiare e conservare i nostri dialetti, solo poco prima di morire si è messo a denunciare l'ignoranza della lingua italiana tra i giovani. Ma la nostra è anche una università figlia di intellettuali devoti alla «oicofobia» (letteralmente vuol dire «paura della propria casa»), fenomeno che colpisce soprattutto la classe intellettuale italiana ed europea e che porta al disprezzo della propria cultura e di tutto ciò che ha a che fare con il retaggio identitario della nazione, a iniziare dalla lingua. Sin dal 1965, l'anno del suo Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa non ha mai smesso di prendersela con gli intellettuali nazional-popolari, bollandoli di provincialismo e conservatorismo e accusati di essere l'incarnazione di una cultura paesana e piccolo borghese. Si ricorderà il suo feroce attacco a Francesco De Sanctis, reo, a suo dire, di avere scritto una storia della letteratura che celebrava la civiltà italiana moderna, e ai «ridicoli soprassalti nazionalistici» in cui la cultura letteraria italiana è stata coinvolta. Ancora nel 2009 Asor Rosa pensava di convertire una «normale» storia della letteratura italiana in una storia «europea» della letteratura italiana, come recita il titolo della sua ultima opera. Tutto ciò ha sin qui fatto parte dell'«impegno» del buon accademico e della sua missione «salvifica» del mondo, con risultati assai deludenti e che sono sotto gli occhi di tutti.  

"Se potrei" e altri orrori: come si usano i verbi. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 6 febbraio 2017 su "L'Espresso". Oh davvero, il verbo è tutto. Volete fare una frase? Ci vuole un verbo. Voi mi direte: “No, guarda, ci stanno pure le frasi senza verbo." Il che è vero, ma poi vedremo che magari un verbo, in qualche modo, ce l'hanno pure loro. Quindi, il verbo, dicevamo.

Il verbo, nelle frase, fa tutto. Senza, è come fare un aperitivo senza le patatine: si può ma non è granché.

Il verbo è fondamentale perché dice tutto: racconta infatti l'azione. Se non c'è una azione, reale, immaginata, sperata, attesa, pensata, auspicata non succede niente, e non se non succede niente non si racconta, né si fanno frasi. Quindi il verbo è il nostro caposaldo.

I verbi, lo sappiamo tutti, hanno i tempi e i modi e le persone. A scuola, quando ce li fanno coniugare pensiamo tutti: “Eccheppalle!". In effetti coniugare i verbi è operazione noiosissima. Il problema è che per spiegare come succedono le cose è necessario usare i verbi in maniera corretta.

Il modo del verbo, per esempio, ci spiega l'azione: è una cosa reale? E' una cosa immaginaria? La differenza è notevole. Io, per esempio, se adesso ho fame mangio una mela. Perché ce l'ho. Se non ce l'avessi, al massimo potrei dire che mangerei volentieri una mela, ma resto a bocca asciutta. Quindi, capite bene, comprendere il modo del verbo è importante, se non altro per capire se digiunerò e no.

Quando una cosa accade nella realtà il modo da usare è l'indicativo. Io mangio una mela, io incontrai Elena al mercato, io vedrò domani la partita allo stadio. Sul serio, queste cose le faccio, le ho fatte o le farò davvero.

Se invece io non sono certa che una cosa sia accaduta davvero, ma lo penso o me lo auguro, si usa il congiuntivo. Io penso che tu sia buono (lo penso, e magari pure lo spero, ma non ne sono certo, potresti essere una carogna). Magari piovesse! (Ma non è detto che piova). Credo che fosse Luigi quello che ho visto ieri sera per strada (ma magari no, era Carlo, o un tizio qualsiasi, perché non l'ho visto bene e sono pure cecata di mio).

Se l'azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota). Se avessi una mela (condizione)-> me la mangerei (azione). Se invece do un ordine, allora si usa l'imperativo (ve l'ho detto, non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuro che si capisca che è un ordine, l'imperativo di solito viene usato con un bel punto esclamativo dopo: Portami una mela!

Il verbo, in analisi logica, si chiama "predicato" perché racconta quello che succede. È predicato verbale se racconta una azione, è predicato nominale se invece descrive una qualità del soggetto, ed in quel caso è formato dal verbo essere più una parte nominale, che può essere un aggettivo o un nome. Luca mangia - > predicato verbale (racconta una azione). Luca è alto / è un professore - > predicato nominale, racconta una caratteristica o una qualità di Luca.

Ora, se scrivete una frase, mettetecelo, il verbo. Le frasi senza verbo un po' sono zoppicanti e si sentono molto sole. Non fatele bullizzare dai periodi pieni di verbi e di subordinate, che si sentono superiori.

I verbi raccontano il mondo. Del resto anche il Vangelo di Giovanni comincia dicendo che in principio era il Verbo. Il che dimostra che Giovanni forse aveva anche le visioni, ma comunque sapeva bene come si raccontano le storie e aveva capito tutto della grammatica.

S COME MAFIA DELLO SPORT E DELLO SPETTACOLO.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “SPORTOPOLI” E “SPETTACOLOPOLI”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Una squadra di “pippe”. Russia 2018, mister Pochesci attacca la nazionale: "Ce menano e piagnemo", video di Repubblicatv dell'11 novembre 2017. Parole forti in conferenza stampa per l'allenatore della Ternana Sandro Pochesci. Il mister, non nuovo a uscite "singolari", commenta la sconfitta subita dall'Italia contro la Svezia nell'andata dello spareggio che vale la qualificazione ai Mondiali 2018 in Russia: "Abbiamo perso contro una squadra di profughi e ci siamo fatti anche menare", ha detto Pochesci in dialetto romanesco. "Una volta l'Italia menava e vinceva, adesso ci menano e piangiamo".

L'inchiesta di Report sui rapporti tra Juventus e 'ndrangheta: cosa ha detto. In onda la ricostruzione degli atti dell'indagine Alto Piemonte. Intercettazioni, bagarinaggio che prosegue, il suicidio di Bucci e le altri documenti, scrive il 22 ottobre 2018 Panorama. Dopo settimane di lanci, anticipazioni e polemiche è andata in onda la puntata di Report (programma di inchiesta di RaiTre curato e condotto da Sigfrido Ranucci) che si è occupata della vicenda dell'indagine Alto Piemonte, giunta al secondo grado di giudizio e dentro la quale c'è una parte dedicata a ricostruire il tentativo delle cosche calabresi di infiltrarsi nel business del bagarinaggio e del controllo della Curva Sud dell'Allianz Stadium della Juventus. Una storia emersa già lo scorso anno e finita anche sul tavolo della giustizia sportiva con il deferimento del club e del suo presidente Andrea Agnelli, le richieste della Procura della Federcalcio (30 mesi di squalifica per Agnelli), le sentenze in primo e secondo grado e il lavoro della Commissione parlamentare Antimafia con i veleni per l'intercettazione fantasma raccontata dal procuratore Pecoraro e poi smentita nella sua esistenza. Report è entrato in possesso dei documenti dell'indagine della Procura di Torino e ha raccolto altre testimonianze che, secondo i curatori della trasmissione, hanno offerto uno spaccato inquietante del rapporto tra la Juventus e le sue frange più estremiste di tifosi oltre che del sistema calcio in generale. Un contesto, ha spiegato il conduttore Sigfrido Ranucci, in cui "la Juventus ha rischiato seriamente di essere infiltrata dalla ‘ndrangheta; se questo non è avvenuto è perché ha degli anticorpi forti, più forti di altri". Quasi un docu-film, più che un'inchiesta, essendo il materiale già agli atti di due corti oltre che di quella sportiva.

Le sentenze del processo Alto Piemonte. La premessa doverosa è che nè la Juventus in quanto società, nè alcun suo dipendente o collaboratore è mai stato indagata, accusata, rinviata a giudizio o tanto meno condannata per quanto emerso nella parte dell'inchiesta Alto Piemonte relativa ai rapporti nelle curve dello Stadium. Il processo penale è arrivato alla sentenza d'appello che ha visto condannati Saverio e Rocco Dominello, quest'ultimo a cinque anni, oltre all'ex ultras bianconero Fabio Germani. L'uomo che, secondo quanto appurato dal Tribunale, avrebbe introdotto Dominello nel mondo Juventus consentendogli di prendere in mano il business del bagarinaggio. La società sarebbe stata ben disposta a garantire ai capi ultras quote di biglietti da rivendere lucrando, ma allo stesso tempo avrebbe avuto un rapporto quasi succube nei confronti dei personaggi finiti al centro dell'inchiesta e sarebbe stata inconsapevole del loro profilo legato alla criminalità organizzata. E' la stessa conclusione del procedimento sportivo in cui Andrea Agnelli è stato condannato a 12 mesi di inibizione, poi ridotti a 3 in appello con multa di 100mila euro e proscioglimento per non processabilità degli altri dirigenti con l'eccezione di Francesco Calvo, all'epoca direttore commerciale. Il tribunale sportivo ha accertato la violazione della normativa sulla vendita dei tagliandi da parte della Juventus, ma ha anche scritto che Agnelli era ignaro rispetto ai legami di Rocco Dominello che gli era stato presentato solo in qualità di persona in grado di fare da intermediario con i tifosi e di garantire l'assenza di problemi di ordine pubblico all'interno della Curva Sud.

Cosa ha detto l'inchiesta di Report. L'inchiesta di Report si è concentrata in particolare sue due filoni: il suicidio di Raffaello 'Ciccio' Bucci, ex componente dei Drughi della Curva Sud e collaboratore del club nella gestione dei rapporti con i tifosi, rimasto misterioso e sul quale si indaga ancora e il bagarinaggio non terminato nemmeno dopo indagine e condanne.

Bagarinaggio non finito. Report ha raccolto la testimonianza di Bryan Herdocia, ex ultras bianconero arrestato nel 2015 e al quale erano state trovate 80 carte d'identità false utili per intestarsi biglietti dello stadio. L'uomo ha raccontato mostrato una chat con altri responsabili della curva relativa a Valencia-Juventus dello scorso mese di settembre e a biglietti per la trasferta a Londra contro il Tottenham della passata stagione e Juventus-Lazio dell'inizio di questo campionato. Il fenomeno non si sarebbe, dunque, interrotto con le indagini e le condanne (anche sportive), ma sarebbe proseguito oltre e fino a qualche mese fa all'esterno dello Stadium sarebbe rimasto attivo il banchetto dei Drughi per la vendita di materiale. Tutto abusivo, sfrattato dall'interno dello stadio, ma comunque presente. In un'intervista che era già stata anticipata dalla stessa emittente, uno dei leader del gruppo Bravi Ragazzi (Andrea Puntorno) racconta al reporter Federico Ruffo di essere stato in grado di guadagnare anche 30-40 mila euro per partita grazie al bagarinaggio e di aver acquistato con quei proventi due case e una panetteria.

Il ruolo dei dirigenti della Juventus. Report ha trasmesso chat e prove (in parte già anticipate nei lanci della puntata) che dimostrerebbero il legame tra i massimi dirigenti della società e i gruppi ultras. Il processo penale e sportivo ha già sentenziato l'esistenza del rapporto e la violazione delle regole anti-bagarinaggio (per questo la Juventus e i suoi dirigenti sono stati puniti in sede sportiva). L'inchiesta ha mostrato, invece, l'attività dell'allora amministratore delegato Beppe Marotta per riservare tagliandi di una gara di alto livello a uomini poi emersi come intermediari di Rocco Dominello poi condannato a cinque anni in appello nel corso del processo Alto Piemonte che ha ricostruito le ramificazioni della 'ndrangheta nel Nord Ovest d'Italia. Marotta avrebbe garantito anche un provino al figlio di un personaggio riconducibile alla cosca Pesce-Bellocco.

Il suicidio di Raffaello Bucci. La vicenda del suicidio di Raffaello 'Ciccio' Bucci (morto il 7 luglio 2016) è quella più controversa. La stessa famiglia ritiene che non si sia trattato semplicemente di un gesto volontario, ma che il collaboratore del club nella gestione dei rapporti con gli ultras sia stato istigato a lanciarsi dal cavalcavia di Fossano. La Procura di Cuneo a febbraio ha riaperto l'inchiesta. Report fa ascoltare i dialoghi al telefono tra Alessandro Nicola D'Angelo (security manager della società) e i dirigenti compreso Agnelli. Telefonate concitate dalle quali emergerebbe la convinzione che si fosse ammazzato per timore di ritorsioni da parte di qualcuno (per paura che gli prendessero il figlio) dopo essere stato interrogato il giorno prima dagli investigatori che si stavano occupando dei rapporti tra cosche e gruppi ultras. Due gli elementi nuovi della ricostruzione giornalistica: il contributo di Placido Barresi (uno dei capi storici delle cosche a Torino) a il racconto attraverso intercettazioni delle ore precedenti l'interrogatorio di Bucci in Procura prima del suicidio. Barresi ha rivelato che il tentativo di infiltrazione in curva non ha riguardato solo Dominello ma "la Calabria unita", ovvero un accordo che coinvolge più famiglie. E che il collaboratore della Juventus si sarebbe suicidato sotto ricatto perché "volevano i soldi indietro" e avevano minacciato di portargli via il figlio. Bucci conosceva il contesto e non avrebbe retto la pressione. In un'intercettazione in cui parla con la ex compagna del suicida, invece, Stefano Merulla (ticket manager del club) racconta di aver trascorso la sera prima dell'interrogatorio dai pm parlando con Bucci di cosa avrebbe dovuto dire.

Report ha dato conto anche dei dubbi della famiglia su quanto accaduto nei minuti e nelle ore successive al suicidio, compresa la riapparizione in un secondo tempo degli oggetti personali dell'uomo non ritrovati dalle forze dell'ordine nell'auto lasciata sul cavalcavia di Fossano prima del lancio mortale. Su questo episodio indaga la Procura di Cuneo.

Lo striscione su Superga. Report ha anche fatto ascoltare l'intercettazione in cui D'Angelo racconta di come, in occasione del derby contro il Torino del febbraio 2014, entrarono allo Stadium striscioni vietati col consenso della società. Una trattativa in cui il responsabile della sicurezza dovette cedere alle pressioni dei capi ultras pur consapevole che questo avrebbe portato a una forte multa per la società. Comparvero anche due striscioni inneggianti alla tragedia di Superga che suscitarono un'ondata di sdegno. Nell'intercettazione si racconta che i capi sicurezza dello Stadium scovarono la prova che D'Angelo si era reso disponibile nell'organizzare l'ingresso in curva di due zaini sospetti e che, una volta venutolo a sapere, il presidente Agnelli non denunciò ma si limitò a fargli notare che si era "fatto beccare".

Juventus, i tentacoli di ultrà e ’ndrine (ancora) sui biglietti. L’inchiesta di Report, scrive Carlo Tecce il 22 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Criminali, pestaggi, riciclaggio, biglietti gonfiati, affari sporchi, finti ultras. In campo è sempre più forte, fuori la Juventus rischia di apparire ancora succube volontaria della malavita. La vecchia Signora ha smesso col vecchio vizio di foraggiare le frange più estreme del tifo con centinaia di biglietti che si trasformano in guadagni sporchi col bagarinaggio? A Federico Ruffo di Report l’ex ultrà Bryan Herdocia, detto lo “squalo”, dodici anni di Daspo, un arresto per una rissa con i fiorentini, detenzione illegale di un coltello, due pistole, una mazza da baseball e ottanta carte d’identità false, mostra una chat con Salvatore Cava, fedelissimo di Moccia dei “Drughi”: “Hanno smaltito i biglietti a 250 sterline, anche se in origine costavano 35”. Herdocia fa riferimento a una trasferta di Champions League del marzo scorso, gli ottavi di finale contro il Tottenham.

La Vecchia Signora e le frange “cattive”. Stasera Report ritorna in onda con un servizio devastante per l’immagine aristrocratica dei bianconeri, un servizio che racconta l’indagine Alto Piemonte sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta a Torino, in cui la Juventus non è stata coinvolta (se non come testimone) e neppure considerata parte lesa; il suicidio di Raffaello “Ciccio” Bucci, collaboratore della Juve, ex vertice degli ultrà e informatore della polizia e dell’intelligence; il ruolo di Rocco Dominello, fondatore del fasullo gruppo ultrà “Gobbi”, esponente assieme al padre della cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, condannato in appello a cinque anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Per quattro anni e con almeno 1.500 biglietti a partita, secondo la ricostruzione della Procura Figc poi diventata sentenza, la Juve ha mantenuto l’ordine pubblico con un patto occulto con gli ultras dal valore di oltre 5 milioni di euro. I dirigenti bianconeri Alessandro D’Angelo (sicurezza), Stefano Merulla (botteghini) e Francesco Calvo (marketing) hanno agito in combutta con gli ultras con l’assenso del presidente Andrea Agnelli. Il figlio di Umberto l’ha sfangata con una squalifica a tre mesi e una multa di oltre mezzo milione di euro per la società perché la giustizia sportiva ha accolto la versione della Juve: Agnelli & C. ignoravano il profilo mafioso di Dominello, un ragazzo squattrinato che girava in Jaguar e dava del tu al presidente bianconero. Il processo sportivo s’è celebrato con l’ostentato dissenso di Michele Uva, il direttore generale della Federcalcio, le pressioni dei bianconeri sui media e un modesto spazio sui giornali (il Fatto ha seguito l’intera vicenda).

Ciccio Bucci, che volò dal viadotto. Le ultime tracce del bagarinaggio autorizzato dal club risalgano al 2016. Il 7 luglio Ciccio Bucci, il giorno dopo l’interrogatorio davanti ai magistrati di Torino, si lancia da un viadotto dopo un breve viaggio con un Suv ricevuto in dotazione dalla Juve. La Procura di Cuneo ha riaperto il fascicolo su Bucci. “Era terrorizzato! Era terrorizzato! Sembrava che lo dovessero ammazzare da un momento all’altro perché ha parlato coi pm”, spiega al telefono – intecettato – D’Angelo all’ex collega Calvo, passato al Barcellona dopo la rottura per ragioni personali con Agnelli (che ha sposato l’ex moglie del responsabile del marketing). Bucci era una sorta di ministro delle Finanze – spiega Report – dei Drughi di Gerardo “Dino” Mocciola, uomo carismatico, riservato e temuto, uscito di galera un dozzina di anni fa (nell’89 partecipò a una rapina a un portavalori e all’omicidio di un carabiniere). Poi Ciccio entra nella Juve per curare il dialogo con la tifoseria. Bucci maneggiava troppi soldi, si pensa ai proventi del bagarinaggio, e li ripuliva – ha scoperto Report – con vincite taroccate del Lotto o di altri concorsi pubblici. Il metodo è semplice e l’ha sperimentato la ‘ndrangheta: il vincitore incassa denaro in contante, il riciclatore ottiene le ricevute e si fa pagare con un bonifico di una concessionaria dello Stato. Più sicuro di così? La morte di Bucci scuote la dirigenza della Juve, soprattutto D’Angelo e Merulla. A un anno dal suicidio, Merulla va a casa dell’ex compagna di Bucci e confessa che alla vigilia del faccia a faccia con i pm aveva “istruito” Ciccio: “Quella sera io mi ricordo che lui era seduto sul divano e facevamo – anche un po’ scherzando – le domande che avrebbe potuto fare il pm visto che delle cose le aveva chieste anche a me. E quindi facevamo, diciamo, domanda e risposta: “qui puoi dire così, qui puoi dire cosà, qui puoi non andare nello specifico”. E facevamo un… non un gioco, ma un modo per sdrammatizzare quello che sarebbe successo”. Il dramma, invece, si stava per compiere. Questo non è l’unico episodio sulle strane manovre attorno all’inchiesta Alto Piemonte. Paolo Verra, avvocato dell’ex compagna di Bucci, sostiene che nel 2015 – un anno prima del suicidio – Bucci gli abbia confidato: “Io so per certo che alla fine di questo campionato scoppierà la bomba. E quindi io, come tanti altri all’interno della curva, ci stiamo organizzando”. Un esponente dei Viking chiama in causa D’Angelo: nel 2013 avrebbe avvisato il gruppo di un’indagine dei carabinieri per la “storia dei calabresi in curva”.

“Mi sono comprato due case e un’Audi”. Report intervista Andrea Puntorno, frequentatore di ambienti mafiosi siciliani e calabresi, leader del gruppo ultrà “Bravi ragazzi”, con obbligo di dimora ad Agrigento per una condanna a sei anni e mezzo per traffico internazionale di droga: “Io ero in contatto con D’Angelo e Merulla. Con il Real Madrid il prezzo dei biglietti si ricaricava anche di duecento euro. Così mi sono comprato due case e un’Audi”. Herdocia in diretta Skype agita un tagliando della finale di Champions tra Juventus e Barcellona (2015): “Ne ho piazzati tredici a 1.500 euro ciascuno”. Le telecamere di Report riprendono le attività di bagarinaggio anche per Juventus-Bologna del 5 maggio 2018. E Beppe Marotta? L’ormai ex amministratore delegato della Juventus ha un contatto con Dominello nell’ottobre del 2013: gli regala cinque biglietti per il Real e concede un provino (infruttuoso) al figlio di un amico, sempre affiliato alla ‘ndrangheta. Marotta non ha patito conseguenze di gustizia ordinaria e sportiva, non l’hanno mai indagato, però viene spinto davanti agli inquirenti della Federcalcio interessati al bagarinaggio – circa un paio di anni fa – proprio da Andrea Agnelli: “Domandate a Marotta”. In quel momento, Agnelli era in guerra col cugino John Elkann e dubitava della fedeltà di Marotta. Andrea ha sconfitto il nemico, ha superato quasi indenne i tribunali della Figc e, un mese fa, anche per questi motivi, ha “licenziato” Marotta.

Italia fuori dai Mondiali, chi non ha 70 anni non l’ha mai visto, scrive Lucio Fero il 14 novembre 2017 su “Blitz Quotidiano”. Italia fuori dai Mondiali, chi non ha almeno 70 anni non l’ha mai visto. Anzi nessuno ha mai visto da casa un Mondiale di calcio senza la nazionale italiana. Quando fu, l’altra volta che fummo eliminati, la televisione non c’era. Era il 1958, ci buttò fuori un’Irlanda. E per averlo in qualche modo saputo e vissuto bisognava allora avere diciamo almeno dieci anni, esser nati almeno dalle parti del 1945/1948. Quindi chi non ha almeno 70 anni un Mondiale senza l’Italia non l’ha mai visto. Italia fuori dai mondiali significa anche un po’ di soldi che non entrano e non girano. Soldi non solo loro, loro di quelli del calcio, allenatori, giocatori, dirigenti…Non entrano i soldi e non girano se sei fuori dai Mondiali i soldi dei premi, dei diritti televisivi, degli sponsor. Ad occhio almeno un centinaio di milioni gireranno in meno nell’economia italiana. E in più una quota di non calcolabile indotto. Insomma sarà uno zero virgola qualcosa in meno del Pil Italia 2.018. Un graffio minimo al Pil, ma pur sempre un graffio. Italia fuori dai Mondiali, una cosa mai vista e pure qualche soldo in meno che gira. Come è successo? Come succede che un allenatore, Giampiero Ventura, pagato 1,5 milioni di euro l’anno, non riesca a mettere in piedi e insieme una squadra? E come succede che una ventina abbondante di giocatori di serie A non riescano ad essere una squadra? E come succede che un intero paese viva a lungo nella falsa percezione di avere una squadra da Mondiali e anche di più? E come succede che a buttarci fuori dai Mondiali sono gli svedesi del calcio, cioè una squadra che con il calcio giocato non ha grande confidenza, insomma una squadra, per dirla in maniera più pedestre, con i piedi fucilati? Per avere un’idea di come succede, partire dall’ultimo atto dello spettacolo, l’Italia-Svezia di lunedì sera a San Siro. Spettacolo triste, presuntuoso e letal…La retorica boriosa e caramellosa della cronaca Rai tutta infarcita di inutili e patetiche “pelle d’oca” e “non ho parole” (sono pagati per ripetere “che dire” e “non ho parole” i commentatori, si fa per dire, ex giocatori?). I fischi di popolo all’inno nazionale svedese, tanto per segnalare il tasso altissimo di…nazionalismo? La superstizione discretamente idiota del segnalare come buon auspicio lo scendere in campo tra i bambini mano in mano coi giocatori del nipote di Giacinto Facchetti. Poi, subito dopo la consueta inversione dei pronomi (l’intera comunicazione calcistica ignora esista il “suo” e sempre e solo usa il “proprio”) ecco dopo 40 secondi la telecronaca lamenta la “provocazione degli svedesi” e invoca un rigore dopo otto minuti neanche…Spettacolo triste e presuntuoso quello di un allenatore che ha mandato in campo una squadra grottesca e improbabile nei ruoli e posizioni, che ci fa Florenzi là a centro campo più o meno? E chi lo sa. E che deve fare Gabbiadini? E chi lo sa…E chi mai può sapere perché Insigne non gioca ed El Shaarawy entra solo nei minuti disperati? L’unica cosa che si sa è che Ventura aveva secondo costume nazionale assicurato che tutto era a posto, che la vittoria era certa e che l’unica cosa che disturbava era, anzi erano i sabotatori interni e gli arbitri internazionali. Spettacolo triste e presuntuoso. E letal…letale perché toglie a milioni di italiani la prossima estate il piacere delle partite ai Mondiali con la squadra italiana (sceglietevi ciascuno altra cui tifare). Triste perché fa del 2.018 un anno in filo più mesto per milioni di italiani, un’estate senza i Mondiali abbassa l’umore pubblico e non è un sentimento da ultras, è una circostanza verificata anche sul piano dei consumi e dei comportamenti pubblici. E soprattutto è successo (questo il terribile e inconfessabile sospetto) che l’Italia del calcio sia fuori dai Mondiali anche perché l’Italia tutta è sempre più come si dice “fuori come un balcone”. Fuori come un balcone nel suo percepirsi scippata e tradita mentre è assistita e protetta anche quando e dove non si dovrebbe assistere e proteggere. Fuori come un balcone quando immagina se stessa l’Italia come abitata da classi, ceti e caste dirigenti. Classi, ceti e caste ci sono ma non dirigono un bel nulla, sono proprio come la Nazionale in campo. Fuori come un balcone l’Italia quando pensa che furbizia e predazione siano diritti acquisiti e inalienabili. Fuori l’Italia dai Mondiali e l’Italia fuori come un balcone quando, ad esempio (ma è solo uno dei tanti esempi purtroppo possibili) Matteo Salvini commenta l’eliminazione così: “Troppi stranieri mezze pippe nel campionato italiano”. No, le mezze pippe siamo noi, non gli stranieri. Sul campo di calcio, sui campi dell’economia, su quelli della vita associata, per non dire dei campacci della politica. Le mezze pippe siano noi e Italia fuori dai Mondiali di calcio 2.018 rischia grosso di essere presagio di Italia fuori come un balcone alle elezioni politiche 2.018.

Travaglio senza freni, sentite che dice: “Nazionale italiana una squadra di pippe…”, scrive il 15 novembre 2017 Sabrina Franzese. Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, fa un duro commento nel corso di Di Martedì, trasmissione in onda su La7, a proposito dell’eliminazione patita dalla Nazionale italiana per mano della Svezia. Ecco quanto ha detto: “E’ un momento in cui non abbiamo campioni ma pippe e quando mandi in campo una squadra di pippe allenata da una pippa (Ventura, ndr) e con un presidente federale (Tavecchio, ndr) superpippa e non riesci a fare nemmeno un gol contro le pippone della Svezia in due partite ci piò stare l’eliminazione. Se eravamo all’ultimo tuffo con la Svezia vuol dire che già prima avevamo fatto male per finire in questo spareggino tra sfigati…”

La Nazionale di Ventura è lo specchio dell’Italia. Mentre il mondo indica una strada completamente diversa, l’Italia – che vinto sempre così – decide di rimanere ferma. Anche se così non vince più, scrive il 10 novembre 2017 "Il Napolista". Ci siamo. Svezia-Italia si giocherà questa sera, veniamo da una settimana piena, ricca di commenti e analisi e racconti su questa partita. Giornali, tv, siti internet: sappiamo tutto, lo sappiamo prima e la sensazione è quella dell’assoluto deja-vù. Con la storia, con noi stessi. Ce l’ha spiegato José Altafini, oggi, in un’intervista a Repubblica: «A Mexico 70 l’Italia non schierò dall’inizio Mazzola e Rivera, il Brasile aveva cinque numeri dieci in campo». Si parlava di Insigne, su Repubblica, ma ovviamente il discorso va oltre. Basta leggere la Gazzetta o ancora Repubblica per renderci conto che siamo fermi. A un anno fa, che poi è come dire tre o quattro o anche cinque anni fa. Scrive così, Enrico Currò sul quotidiano romano: «Età media avanzata: sette titolari sopra i 30 anni. E il modulo 3-5-2, gradito allo spogliatoio, ai senatori». Non è molto diverso da Mexico 70, ma non perché ci sia fuori Insigne. Magari. Il punto è un altro. In questo modo, si fanno fuori Lorenzo, El Shaarawy, Florenzi, Bernardeschi. Si fanno fuori tutte le indicazioni del campionato italiano, che tatticamente è molto più avanti di quanto amiamo raccontare e raccontarci. Merito di Sarri, ma lui è solo una parte dell’atlante. Ci sono la Roma di Di Francesco, l’Inter di Spalletti, la Sampdoria di Giampaolo. C’è un intero paese calcistico che prova a parlare un’altra lingua, perché la retorica autocostruita della grinta, della difesa e del gioco speculativo funziona quando hai i calciatori più forti. Quando c’è il talento cui aggrapparsi. Vedi la Juventus, che è un’altra cosa rispetto ad altre squadre di Serie A eppure ha ripudiato (sta ripudiando) le marce basse. Perché se innesti le marce basse contro il Real Madrid, fai poco. Perdi, comunque. Come il Napoli, ma almeno il Napoli si è divertito a “giocare in faccia” a Sergio Ramos – fin quando gli è stato consentito. Ci si è messo anche Chiellini, ieri. «Il guardiolismo ha rovinato una generazione di difensori, Oggi tutti vogliono impostare, ma nessuno sa più marcare. Ed è un peccato, perché certe caratteristiche hanno permesso al nostro calcio di eccellere ovunque». Non che il buon Giorgio non abbia ragione, è tutto vero quello che dice. Però il gioco e il mondo si evolvono, vanno avanti, cambiano. Serve altro. Lo dice la storia, quella recente e quella meno recente. Il nostro calcio ha prodotto gioco e risultati d’élite quando ha potuto schierare calciatori d’élite. Non solo difensori e centrocampisti di rottura, ma anche grandi uomini offensivi. Mazzola e Riva e Boninsegna a Mexico 70; Rossi e Antognoni e Bruno Conti a Spagna 82; Totti e Del Piero e Toni e Pirlo a Germania 2006. Certo, anche Facchetti, Zoff, Scirea, Gentile, Cannavaro, Buffon e Zambrotta. Tutti insieme, una qualità spaventosa. Che oggi non appartiene all’Italia, a confronto con altre nazionali. Succede, questione di cicli e di programmazione. È il tempo che gestisce e andrebbe gestito. Proprio per questo, però, potrebbe essere un’idea cambiare le cose. Provare ad uscire da questa narrazione ormai anacronistica rispetto a (tutto) il calcio internazionale, che punta sui giovani e sul talento. La domanda è per Ventura, ma anche per tutti coloro che “credono” in questi valori calcistici dal sapore vagamente patriottico: noi siamo l’Italia e siamo così, non è giusto cambiare. Ci siamo. Però sono tutti scemi tranne noi? Sono scemi anche quelli che vincono? Cioè, per dire: della nazionale in campo stasera, Buffon, Barzagli e De Rossi sono gli unici ad aver vinto un titolo internazionale. Era il Mondiale 2006. Per il resto, si tratta di uomini di secondo piano nelle grandi stanze del calcio internazionale. Oltre i “senatori” di cui sopra, ci sarebbero Bonucci e Verratti. Entrambi, però, rappresentano quanto più di antitetico possa esistere alla concezione del calcio italiano: difensore che imposta e porta palla; centrocampista moderno, offensivo, un trequartista che agisce da mezzala in una squadra che schiera, accanto a lui, Neymar, Cavani, Mbappé e uno tra Di Maria e Draxler. Cioè, ci viene da sorridere: i nostri calciatori più riconoscibili a livello internazionale sono due simboli – più o meno lucenti – del gioco propositivo e noi li incastoniamo in una squadra basata sull’impermeabilità della difesa. Sulla forza di un trio difensivo che non gioca più insieme. E che insieme è riuscito a vincere solo quando (e dove) ha avuto la certezza di essere nella squadra più forte. Il punto finale: questa Italia potrebbe bastare per battere questa Svezia. Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Candreva, Parolo, De Rossi, Verratti, Darmian, Immobile, Belotti. Nove undicesimi di Euro 2016, ma neanche questo è il punto. Perché, ripetiamo: così la Svezia è battibile, eccome. Ma una volta ai Mondiali, si spera: cosa avremo costruito? Cosa resterà di questo biennio? Se la partita decisiva è (ancora) fondata sull’esperienza dei senatori e «sul modulo o modo di giocare che piace ai senatori», qual è stato il senso di questi due anni? Il puro e semplice risultato finale, verrebbe da dire. Ripensandoci, però, è il minimo auspicabile. Ventura, lungo il suo percorso, ha via via inserito calciatori nuovi e giovani e promettenti nella sua lista convocazioni. Almeno quello, viene da dire, perché c’era comunque la percezione di un cambiamento possibile. Nel modo di giocare, nei nomi, nel senso della nazionale. Poi, però, tutto è stato e sarà sacrificato. Sull’altare della nostalgia, sull’altare di un nonsense: noi vinciamo così, eppure sono undici anni che non vinciamo a livello internazionale. Ci crogioliamo nella nostra storia, anche quando è ormai preistoria calcistica. Siamo fermi. Qualcuno disse e dice: nessuna rappresentazione è più pregnante e precisa di una nazionale di calcio, rispetto alla sua nazione. Svezia-Italia conferma e confermerà questa visione delle cose, inevitabilmente. Nonostante il mondo normale, ma anche di quelli che vincono, vada da tutt’altra parte.

Ventura, Tavecchio e la Nazionale, specchio dell'italico vittimismo. In questo Paese non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. La colpa è sempre dell'arbitro, per dire il destino, il clima, il tempo, Iddio. Il solito melodramma, anzi la solita operetta, la farsa che non passa, scrive Massimo Del Papa il 14 novembre 2017 su "Lettera 43". Vai a dormire tranquillo perché, il pallone non è la tua tazza di tà e, specie di questi tempi, non è proprio la prima delle tue preoccupazioni, giusto un filo allegro, di quell'allegria un po' carogna di fronte allo spettacolo del melodramma, urla, disperazione, anatemi per l'eliminazione, Buffon che piange come un bambino, braccialettini di gomma inclusi, la Rai col suo esercito di giornalisti sportivi che scappa, non copre l'evento a suo modo storico, si rifugia nella ridotta di Che Tempo Che Fa, si fa parare le chiappe da Fabio Fazio, e poi l'immancabile servilismo dei servi che passano dalla saliva allo sputo, tracimano in odio, in gogna, il web che scoppia e rigurgita fiele, tutti a dare addosso al povero Ventura che, con la sua onesta faccia da pompista, forse l'hanno messo al posto sbagliato e non lo sa. Il Ct ricorda, parafrasiamo molto, una battuta di Groucho Marx, «quel tale sembra uno sprovveduto, ma non lasciatevi ingannare: lo è davvero», però, via, che sporco che è questo solito gioco di prendersela col capro espiatorio quando si sa che c'è tutto un sistema, una filiera di decisioni sbagliate da teste di paglia o di ponte, frutti di decisioni politiche sbagliate, e che a loro volta hanno preso le decisioni sbagliate. Insomma sorridi, tristallegro, un po' mesto un po' distaccato; non ti convince il solito psicodramma italiano, prendersela con l'allenatore in fama di idiota (dopo la fama di salvatore della patria), coi giocatori effemminati, tatuati, viziati, infingardi, quando sai benissimo che è assurdo distinguere in tempi di globalizzazione anche sportiva, anche calcistica, che fa disperare un ossessionato Salvini, che i giocatori coi loro tatuaggi e acconciature e smalto alle unghie sono più o meno gli stessi ovunque e ovunque giocano al limite dei vizi e dei compromessi più miseri.

AZZURRI SPECCHIO DELL'ITALIA. Questi nostri azzurri saranno più scarsi, d'accordo, senza personalità, va bene, l'ultimo ad avere una sorta di autorevolezza, un barlume di carisma era il Pirlo che pareva sempre dormisse, ma si può fare una colpa a una squadra mediocre di essere quella che è? Si possono odiare quando li hai visti sputare sangue senza risolvere niente, «poveri cani», come avrebbe detto Gianni Brera? No, non ti piace, non ti suona lo psicodramma della identificazione freudiana, uccidere la Nazionale come si uccide il padre, temerne lo specchio, la rappresentativa pallonara come il resto del Paese, gli stessi difetti, le stesse presunzioni, la stessa aria fritta. E lo stesso vittimismo. Forse è questo che i tifosi intuiscono con orrore, essere degni tifosi di una Nazionale degna di un Paese indegno.

NESSUNO DEI RESPONSABILI SI DIMETTE. E allora vai a dormire e non ci pensi più. Ma al mattino ti alzi e per prima cosa, la maledizione laica del mattino, scorri in modo compulsivo anzi malato le notizie della notte, le home page dei siti di informazione, scorri Twitter e t'imbatti in una dichiarazione di Ventura che va oltre Marx, Groucho e i suoi fratelli, e va anche oltre Achille Campanile: «Dimettermi io? Perché?». Allora ti sale un convulso di riso irresistibile, non ti tieni, vai a svegliare tua moglie - «ma lo sai cosa ha detto quello?» - solo per il gusto di vederla destarsi stravolta come quando si è usciti da un incubo e si fatica a capire di essere altrove. Ma sì, ti dico, ha detto proprio così, che prima di dimettersi vuole parlare con la Federazione, il che significa che anche quell'altro, Tavecchio, il degno compare, quello piccolotto, quello delle banane per i negri e delle calciatrici tutte lesbiche, anche lui non ci pensa proprio a schiodarsi, hic manebimus optime, e l'avverbio non è un singulto alcoolico. Dal terremoto reale, con macerie e vittime, a quello metaforico e pallonaro, non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. Debbono parlare, prima. Cioè chiedere garanzie. Cioè avere la sicurezza di altri posti all'altezza del disastro che hanno combinato: una piccola, simpatica catastrofe che mancava da 60 anni nei quali questo Paese ha visto tutto, le ha viste tutte, ha combinato il peggio del peggio, in tutti i campi, in ogni aspetto della vita associata, ma bene o male galleggiava, svolazzava malamente come il calabrone che non dovrebbe volare eppure vola, anche nel calcio, dove le disfatte venivano prima o dopo, in un modo o nell'altro riscattate da trionfi anche incredibili, anche illogici. Ma questo! Ventura e Tavecchio che «ci debbono pensare», non capiscono perché mai dovrebbero farsi da parte.

UN PAESE INCAPACE DI ASSUMERSI RESPONSABILITÀ. Neanche la dignità residua di togliersi dai piedi di «60 milioni di commissari tecnici», immigrati e naturalizzati inclusi, che giustamente non vogliono più saperne delle loro facce un po' da “oggi le comiche”. Ed è una comica infatti quella che vien fuori da una piccola fragilissima figura da cioccolatini nazionali. È la conferma che, da queste parti, si è incapaci perfino di assumersi le responsabilità più fisiologiche, più soggettive, più oggettive, più lampanti, più devastanti. E allora la serenità olimpica della sera prima non funziona più, perché appare chiara un'altra cosa, speculare ma più inquietante: non è la Nazionale che si identifica nel Paese, è il contrario, a cominciare dai dirigenti, per continuare con l'allentatore (non è un refuso), i giocatori, per finire con quelli che portano i borsoni.

NESSUNO CHE DICA «HO SBAGLIATO». Dal terremoto reale, con macerie e vittime, a quello metaforico e pallonaro, non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. La colpa è sempre dell'arbitro, per dire il destino, il clima, il tempo, Iddio, il problema sta a monte, signori miei, io sono una vittima, sono scomodo, vogliono farmi fuori ma non cederò senza combattere, ah!, se voi sapeste, ma prima o poi parlerò, racconterò tutto in un libro e allora rideremo! Già, il solito melodramma, anzi la solita operetta, la farsa che non passa. Il degno Paese per la degna Nazionale, non il contrario. «Siete pezzi di me..., pezzi di me..., pezzi di me», canterebbe Levante.

L'Italia senza Mondiali specchio di una nazione malata, scrive Leo Turrini il 14 novembre 2017 su "Quotidiano.net". C'era una volta mio padre. Io ero piccino e negli anni Sessanta lui mi ricordava l'onta della esclusione dell'Italia dal mondiale di calcio del 1958. Sono passati 60 anni. Papà non c'è più, come non ci sono più tanti testimoni di quel disastro sportivo. In compenso, ci siamo noi. Oggi. Senza Mondiale. Io credo che l'eliminazione sia giusta. Credo che Ventura, il Ct, abbia le sue colpe, ci mancherebbe. Ma qui non ci serve il capro espiatorio. Qui conviene aprire il cuore. Da quanti, da troppi anni il sistema calcio si interessa della Nazionale soltanto ogni quattro anni? Non è forse vero che il mondo della informazione in primis (e mi metto anche io tra i colpevoli) si esalta per il business, per i compratori cinesi, per le squadre di serie A farcite di stranieri, per tacere di quelle di serie B? Contro la Svezia potevamo anche passare, ma qui vorrei ricordare che nel 2010 in Sud Africa pareggiamo con Nuova Zelanda e Paraguay, perdendo dalla Slovacchia. E in Brasile nel 2014 fummo eliminati da Costa Rica e Uruguay. Qualcuno disse qualcosa? Questo è un dramma, per fortuna solo sportivo, che viene da lontano. Prendetevela con Ventura, se vi va. Ma questa disfatta è lo specchio di una nazione malata, insicura, fragile, ripiegata sulle sue debolezze. Siamo l'Italia. Purtroppo. E talvolta per fortuna.

La nazionale di calcio come specchio dell’Italia ma con più supporters, scrive Alessandro Falanga il 14 novembre 2017 su "Zon". L’Italia, con l’eliminazione per mano della modesta Svezia, mette in mostra le pecche di un Paese ormai alla deriva anche nello sport. È finita nel peggiore dei modi l’avventura per le qualificazioni ai Mondiali della nazionale di calcio guidata da Giampiero Ventura. La debacle contro la Svezia nello spareggio per approdare in Russia, infatti, ha totalmente estromesso gli azzurri dalla corsa al titolo internazionale iridato ma, in una visione più ampia di quanto accaduto, questa eliminazione permette – finalmente – di avere una visione più ampia di ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Con il presupposto che senza la metafora calcistica lo Stivale non avrebbe alcuno stimolo ad affrontare la situazione che lo circonda – come dimostrano le vicende Jobs Act, Buona Scuola e Pensioni – si può dire che quanto mostrato da questa nazionale di calcio evidenzia due elementi che rappresentano, in tutto e per tutto, il disagio della nostra povera, cara, Italia. In primo luogo, facendo un parallelo con quanto sta accadendo nel mondo del lavoro in particolar modo, il mondo del pallone ha creato un circolo vizioso in cui si estromettono a prescindere le giovani generazioni, considerate inadeguate, e si punta sull’usato quasi sicuro che, pur non garantendo nulla in termini di merito, rimane l’unica alternativa. Con questa situazione – che come si è visto ha generato un mostro a livello sportivo – si inceppa totalmente un meccanismo di per sé bloccato da anni in cui l’unico appiglio è riposto in vecchie glorie, ormai incapaci di dare il proprio contributo, contrapposto ad una classe dirigente sempre più vecchia e poco qualificata per il mondo del domani. All’elemento generazionale se ne aggiunge un altro che è ancor più preoccupante: la comprensione generale della realtà solo perché coinvolto il gioco più amato del territorio. Si è sempre saputo che il calcio in Italia – e nel mondo – è stato la più grande arma di distrazione di massa, in grado di attribuire mano libera ai governanti di turno. L’eliminazione per mano della modesta Svezia, però, sembra in parte aver svegliato una fetta di connazionali che, guardando la situazione della nazionale di calcio di Ventura, si sono finalmente resi conto che qualcosa non va come dovrebbe. In un certo senso, quindi, la mancata partecipazione a Russia 2018 può essere vista come una manna dal cielo, in grado da un lato di porre maggiore attenzione – almeno si spera – sulle problematiche che attanagliano il nostro Stato ormai da quattro anni e dall’altro di affrontare con più attenzione una vita che, a causa proprio del calcio, è stata indirizzata su un binario morto data la disattenzione generale.

LA NAZIONALE AZZURRA E’ LO SPECCHIO DELL’ITALIA RENZIANA, scrive Francesco Erspamer il 14/11/2017 su "Alga news". La nazionale azzurra è lo specchio dell’Italia renziana: come il paese, il calcio è governato da dirigenti totalmente inetti, che hanno permesso alla serie A di diventare il campionato con più stranieri d’Europa a parte la Premier League e senza neppure la qualità degli stranieri che giocano in Inghilterra. Per non parlare della scelta di un allenatore senza carisma e senza idee come Ventura, confermato anche quando è diventato chiaro che non avesse il coraggio di liberarsi di una vecchia guardia ormai consunta e comunque mediocre, campioni di carta (carta di giornale e carta moneta) senza carattere, palloni gonfiati da media compiacenti. Mancanza di programmazione, di progetti, di serietà e di capacità, a ogni livello e soprattutto a quelli più alti. Devono andarsene tutti, a cominciare da Tavecchio, presidente della FIGC, a Malagò, presidente del CONI. Il declino dell’Italia è evidente e precipitoso, in ogni settore, e la causa è la superficialità, la corruzione e la drammatica incompetenza della sua (sedicente) élite, spalleggiata da una stampa completamente asservita. Vanno spazzati via, i colpevoli ma anche i loro fiancheggiatori e coloro che non sono stati capaci di opporsi o che facevano finta di non vedere; non è tempo di moderazione, in caso di dubbio meglio buttarli, i don Rodrigo insieme ai don Abbondio.

La Nazionale di Conte? Specchio dell'Italia che rinnega i leader. Un saggio del sociologo Marco Revelli “Dentro e contro” racconta il rancore degli italiani contro tutto ciò che viene avvertito come potere, non solo a livello politico, ma anche economico, burocratico, sportivo, scrive Simone Savoia, Mercoledì 15/06/2016, su "Il Giornale". Questa nazionale potrebbe entrare nel cuore degli italiani. Infatti nel Paese tira un’aria contraria ai leader, ai capi, alle istituzioni, a chi comanda, chiunque esso sia. Infatti, ad esempio, anche chi governa si affanna a presentarsi come estraneo alla politica o comunque distante dalla stessa, vedi il presidente del Consiglio Matteo Renzi che presenta l’Italicum come le forbici giustiziere sui costi della macchina statale, parlamento in testa. Ma anche i candidati a sindaco di diverse città tendono a presentarsi come persone che nella vita si occupano di altro. “Politico a me? Come ti permetti?” si sente spesso gridare nei sempre più rari e usurati talk-show. A Milano e a Napoli questo fenomeno è evidente nella campagna elettorale per le elezioni comunali. Un saggio del sociologo Marco Revelli “Dentro e contro” racconta in profondità questo rancore degli italiani contro tutto ciò che viene avvertito come potere, non solo a livello politico, ma anche economico, burocratico, sportivo. Proprio per questo la nazionale di calcio guidata da mister Antonio Conte può essere il nuovo oggetto dei desideri degli italiani. E se non la più amata dagli italiani, certo occupare un posto nella galleria storica del pallone. Il giorno dopo l’esordio vincente degli azzurri contro il Belgio si sentiva più d’uno dire, tra bar e metropolitana: “Mi piace questo gruppo senza leader! Ragazzi semplici, che lavorano!”. Stiamo parlando logicamente di emozioni, di sensazioni, di ragioni del cuore che magari la ragione calcistica non riconoscerebbe mai. Questa è una nazionale senza leader in campo e con un sergente di ferro in panchina. Cioè rappresenta in qualche modo l’Italia come oggi la vorrebbero molti italiani. Sembrano passati secoli dagli Europei del 2012, quelli in Polonia e Ucraina. L’immagine di quel torneo, che perdemmo in finale contro la Spagna “galattica”, resta la star Mario Balotelli che si toglie la maglietta e mostra i pettorali dopo aver steso la Germania a Varsavia (nemesi storica). Oppure del rigore a cucchiaio di Andrea Pirlo che fa impazzire l’insolente portiere degli inglesi, Hart. Stiamo parlando di Pirlo, l’eroe che tinse d’azzurro il cielo di Berlino e ci portò assieme agli altri eroi sul tetto del mondo. Era l’estate (l’unica, per fortuna) del governo tecnico di Mario Monti, e comunque i cittadini ancora volevano una leadership forte per vincere ai rigori e superare una devastante crisi economica. Volendo tornare indietro nel tempo, agli Europei del 2000, forse una delle nazionali più belle della storia, quella di Dino Zoff, punita dal francese Wiltord all’ultimo secondo di una finale crudele e subito dopo dal golden gol di Trezeguet. Quella era la nazionale delle stelle: Del Piero, Totti, Maldini, Cannavaro, Inzaghi, Nesta, Ferrara tanto per fare qualche nome. In Olanda e Belgio Zoff mise in campo una squadra bella, elegante, spumeggiante. Le vincemmo tutte, e anche quella maledetta sera a Rotterdam avevamo già più di una mano sulla coppa, ma i francesi ci ruppero le uova nel paniere. Anni rampanti della seconda Repubblica quelli, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. Anni di maggioritario, di leadership forti, della politica “o di qua, o di là”. Oggi anche Gigi Buffon, quello che a Berlino nel 2006 fece piangere Zidane strozzandogli in gola l’urlo di un gol che sembrava praticamente fatto, sembra non si dica un esordiente ma comunque un giocatore qualsiasi, che festeggiando appeso alla traversa cade pure come nemmeno alla partita del giovedì scapoli contro ammogliati. E il mister Conte che festeggiando il gol di Giaccherini sbatte contro il capoccione di Zaza e si fa male al naso, con uscita di sangue? Uno di noi! Giaccherini, Parolo, Darmian, Pellè: questi ragazzi sono perfetti per l’Italia del 2016, che non vuole, non accetta e non riconosce leader. Ma chiede e pretende persone normali.

Un Paese che ha perso il suo cuore azzurro. Non è l'apocalisse, ma il sintomo di una Nazione che ha smesso di crederci. E che deve ricominciare da zero, scrive Vittorio Macioce, Martedì 14/11/2017, su "Il Giornale". Non è vero che non si può fare più scuro della mezzanotte. C'è un buio pesto, che fatichi ad immaginare, un azzurro che sprofonda ancora di più nelle tenebre e ti lascia a casa. Adesso, davvero, non ci puoi credere. Non c'è neppure la voglia di maledire. C'è solo un silenzio incredulo, che scivola nella rassegnazione. Facce sconfitte, meste, il pianto di Buffon, con lo sguardo che punta il vuoto. È quello che siamo, gente a cui hanno strappato il futuro. No, non è certo questa l'apocalisse. Non lo è la maschera messa e poi buttata via di Bonucci, il quasi palo in mezza acrobazia di Florenzi, le sostituzioni confuse, sacramentare per i rigori non dati, quel tempo che scorre senza che accada nulla. Non lo è la sventura di un uomo seduto su una panchina troppo grande per lui. Chi se ne frega del calcio. Solo che il pallone è uno specchio. È un sfera che guardi e in cui ti riconosci. Vedi quello che sei, come paese, come individui, come qualcosa che assomiglia a un popolo. Te lo ricordi quel luglio del 1982? L'urlo di Tardelli al Bernabeu era un sentimento che passava di bocca in bocca come una liberazione, con la rabbia di chi voleva scacciare via angosce, piombo e paure, per sentirsi leggero, ottimista, per uscire fuori di casa senza scannarsi tra rossi e neri, senza ideologie, senza sangue, senza rivoluzioni. Te la ricordi l'estate del 2006? L'ultima prima di questa crisi senza orizzonti, quando in pochi avrebbero pensato che ci si può abituare a tutto: al terrore islamico e quotidiano, alla pensione da moribondi, ai figli senza lavoro, alle clausole di salvaguardia, allo spread da bar, a una vita da facebook e a tirare a campare. Adesso pensa alla prossima estate. Non c'è neppure quel mese ogni quattro anni che ti regala una scommessa, un'illusione, una cavolo di speranza, un segno del destino. L'oracolo del pallone, come il fondo del caffè, ti dice che non c'è riscossa, che il cielo è sempre più grigio, che da questi anni micragnosi non si esce neppure con un tiro sbilenco e fortunato oltre il novantesimo, non si esce in zona Cesarini, quando tutto sembra perduto e puoi solo appellarti al rocambolesco spirito italico. Questa volta non c'è uno stellone che ti salva, non c'è il genio improvviso, non c'è quell'abitudine a cavarsela che straluna i tedeschi e fa girare le palle ai francesi. Niente, neppure una magia sporca e di sponda. Solo il vuoto e la rassegnazione. Sono mesi che si sta lì a dire che non è verosimile un mondiale di calcio senza l'Italia. Si, è successo nel 1958 in Svezia, eliminati dall'Irlanda del Nord, ma sono passati quasi 60 anni e di quella squadra sono rimasti vivi in pochi, come Gino Pivatelli, centrattacco del Bologna. Era l'Italia oriunda di Montuori, Da Costa (l'altro superstite), Ghiggia, Schiaffino. Era solo un lontano ricordo, un'anomalia, un cigno nero, qualcosa di imprevisto nel gioco delle probabilità. La regola è che l'Italia ci va, magari inciampa, carambola, ritorna in ciabatte, sfiora il miracolo e qualche volta vince. Giovanni Arpino raccontò la caduta del '74, di un'Italia cacciata al primo turno da polacchi e argentini. Era Azzurro tenebra. Non era un romanzo sul calcio, ma sulla vita, su come anche dentro una sconfitta ci sono personaggi che sanno essere uomini, su gente mediocre e palloni gonfiati, sulle guerre di potere di grassi burocrati e su come siamo bravi certe volte a farci del male. «La spedizione azzurra ai mondiali di calcio aveva affittato quella residenza imbottendola di giocatori, ruote di formaggio grana, unguenti e acque minerali patrie, orgogli e terrori, menischi pericolanti, isterie e berrettini multicolori, taciute diarree e illusioni muscolari, vaseline ideologiche ed omertà coi giornalisti amici, polemiche a fil di denti e onestà solitarie. E tutto un arcobaleno di diplomatici abbracci, frasi fatte, slogan, luoghi comuni, evviva, distinguo, alibi, euforie». Ce ne saranno altre di cadute. In Sudafrica e in Brasile, per esempio. Ma almeno uno spicchio di speranza lo abbiamo visto. Quelle notti erano meno scure. Quell'azzurro tenebra era comunque azzurro. Forse è questa allora la differenza. In questa notte manca l'azzurro. Non c'è più, svanito, evaporato, sbiadito. Non ci crediamo più. L'Italia è un'espressione geografica, qualcosa su cui non conviene scommettere, perché non si sa neppure bene cosa sia. È un battello alla deriva, dove ognuno pensa ai fatti suoi, dove non ti puoi fidare né dei ladri e né di chi grida onestà. È un vuoto a perdere. È vero. Non andare al mondiale non è certo l'apocalisse, ma vale come una premonizione: di questo passo ci aspettano altri anni di purgatorio.

Russia 2018: il disastro Nazionale, scrive Gianfranco Turano il 14 novembre 2017 su “L’Espresso”. E adesso andatevene tutti. Luca Lotti, ministro dello Sport. Carlo Tavecchio, presidente della Figc. Giampiero Ventura, commissario tecnico. Giovanni Malagò, numero uno del Coni. C'è bisogno di spiegare perché? No ma c'è bisogno di spiegare perché sarà difficile licenziare per giusta causa anche uno solo dei principali responsabili della disfatta storica della nazionale contro la Svezia, il 13 novembre 2017. La ragione è semplice. La classe dirigente italiana, in ogni campo nessuno escluso, è la più disastrosa d'Europa e si regge su un patto fra mediocri cementato da una serie infinita di fallimenti e passi falsi. Se ne cade uno, si rischia che cadano tutti. La sera di San Siro è il riassunto migliore di questo teatrino, con De Rossi che giustamente si rifiuta di entrare in campo, con Buffon lasciato solo a piangere davanti alle telecamere e con Fabio Fazio – ce lo meritiamo Fabio Fazio - che sorride nel post-partita perché bisogna smitizzare, bisogna sopire, bisogna troncare e, nel suo caso, guadagnare. Chi non guadagna, anzi perde a rotta di collo, sono i network televisivi che avevano scommesso su Russia 2018, Sky e Rai in testa, a conferma dell'adagio per cui in Italia non si può investire (per colpa dei sindacati e delle tutele ai lavoratori, si capisce). L'analisi tecnica della notte di San Siro non richiede grandi doti interpretative. Un allenatore giunto al suo massimo livello di incompetenza ha sistemato in campo un'Italietta sperimentale escludendo in modo sistematico ogni possibile traccia di talento perché è questo che un dirigente italiano fa. Perseguita il talento. Il talento è una minaccia. Il talento prende iniziative e rischia in proprio. Se va bene, diventa un eroe popolare e questo non può succedere. Se va bene, deve essere merito del dirigente. Tanto, se va male, è colpa di qualcun altro. Per esempio, del talento che non è abbastanza talento. Oppure degli stranieri che rubano il posto agli italiani. Infatti a San Siro ha giocato Jorginho, un brasiliano troppo scarso per vestire la maglia verdeoro. Insigne, seduto. De Rossi, seduto. Bernardeschi, prima seduto poi inutile. Per battere i volenterosi svedesi, una squadra al livello del Chievo o del Sassuolo, abbiamo tirato nello specchio della porta sei volte e crossato quaranta volte, quasi sempre palla alta dalla trequarti, per essere sicuri che la prendessero sempre loro. Non li abbiamo saltati in dribbling mai e non abbiamo preso gol soltanto perché l'arbitro ha deciso di non dare quattro rigori (due per noi e due per loro), favorendo l'Italia anche se non abbastanza. Ai mondiali l'arbitro ci vuole andare e, scarso com'è, ci andrà. Noi, invece, a casa. Dopo sessant'anni restiamo esclusi dalla più grande festa dello sport internazionale. Oggi i giornali diranno che i nostri giocatori sono inadeguati e che Antonio Conte aveva fatto un miracolo ad arrivare fino ai quarti agli Europei due anni fa. Non è vero. I giocatori non sono il problema. La politica è il problema. La cooptazione tra farabutti è il problema. Questo problema ha come soluzioni possibili il commissariamento o la rivoluzione. Di rivoluzione non è aria, a meno di andare verso una nazionale grillina con il cittì e i convocati scelti attraverso votazioni web. E il commissariamento non può certo essere affidato a un comitato olimpico che ai Giochi tira a campare con le medaglie della scherma, del nuoto e di quelli che sparano. Si farà come si fa nel calcio. Si caccerà Ventura e si prenderà un altro. I dirigenti opporranno la massima resistenza con buone probabilità di salvarsi, tanto adesso ci sono le politiche e abbiamo cose più serie da pensare. Perché esistono cose più serie del calcio. O no? 

PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.

La giustizia nel pallone, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale" il 5 dicembre 2016. I pm scrivono libri sugli imputati sotto processo che poi vengono pure assolti. La giustizia, in Italia, finisce spesso in fuorigioco. Non ci voleva certo la storia di Paolo Dondarini per accorgersene. Di professione assicuratore, arbitro per passione, nel 2000 il fischietto emiliano viene mandato a dirigere in serie A. Nel 2005 diventa internazionale. L’anno dopo Calciopoli lo travolge. L’accusa: frode sportiva. La Procura di Napoli lo manda alla sbarra. Il mondo del calcio lo mette alla porta degli stadi. Per sempre. Ma le partite, diceva uno come Vujadin Boskov che di pallone e vita se ne intendeva, finiscono quando arbitro fischia. E il triplice fischio arriva nel 2015, quando la Cassazione chiude l’affaire, respingendo la pretesa di rimandare a giudizio Dondarini, già assolto in Appello nel 2012 dalla condanna rimediata in primo grado nel 2009. Serve insomma un decennio, o quasi, per definire un caso che intanto ha rovinato la carriera (e probabilmente l’esistenza) di un uomo: non la prima, non l’ultima vittima – sicuramente, purtroppo – della lentezza e dei difetti del sistema giudiziario italiano. Ma non è solo questione di burocratica e giudiziaria inerzia la vicenda del Dondarini vittima (e non artefice) di Calciopoli. C’è altro. C’è di più: il pm che lo inquisì, Giuseppe Narducci, ha scritto un libro. Intitolato “Calciopoli, la vera storia” e pubblicato proprio nel 2012, parla anche di “Donda”. Descrivendolo come colpevole di aver aggiustato alcune partite. Un racconto – a processo ancora aperto – dell’inchiesta che al processo, a quel processo, aveva dato origine e che alla fine ha svelato i tanti punti deboli dell’inchiesta poi fatta libro.

Tutto lecito. Anche opportuno? E normale? L’ex arbitro, che per un’intercettazione mal interpretata ha dovuto rinunciare alla carriera passando i guai, ha citato in giudizio per danni il pm scrittore. «Non cerco vendetta o soldi, cerco la verità», ha detto spiegando i motivi della causa di risarcimento promossa davanti al Tribunale di Bologna. «L’importo lo deciderà eventualmente il giudice. A me interessa ristabilire la verità dopo averlo già fatto in sede legale. Ho trovato incredibile che un pm scrivesse un libro su di un processo che non era ancora giunto al termine». Incredibile. Ma possibile. In Italia è possibile. Non è fallo da rigore e nemmeno da punizione. E poi, nel libro la prefazione era curata da Marco Travaglio. Molto meglio di Pelè, come cantano gli ultrà al ritmo delle manett

Con Zalone ridiamo di noi stessi. Di quello che noi italiani siamo diventati…scrive il 4 gennaio 2016 Gianluca Bernardini (presidente Acec Milano) su "Agensir". Non c’è più il posto fisso, una famiglia “normale”, una etnia e un’unica religione che ci accomunano eppure ci possono essere valori che ci uniscono, che ci richiamano al dovere di educare la propria coscienza ad aprirci all’altro, alla condivisione ad una comunione che è più grande del giardino che ci circonda. C’è un senso di umanità in Checco, sebbene possa essere caustico e volgare in certe sue battute. La sua forza sta, però, nel codice comunicativo che usa, che sa “risvegliare” gli animi più assopiti e a volte troppo “perbenisti” (una necessità, potremmo dire). Del “fenomeno Zalone” non ce ne libereremo presto. Quarto film, quarto successo. Questa volta addirittura ha sbancato in soli due giorni di proiezione con già 22 milioni di incasso. Che si voleva di più per il cinema e per le sale che continuamente si sentono in crisi, ma che in questi giorni hanno tirato un respiro, quasi tutte “sold out”? Se Zalone certo non risolverà i problemi dell’industria cinematografica certo molti esercenti, e non solo, lo invocheranno sì lui, a Natale, come il “salvatore”. Che cosa sta sotto a tale “miracolo”? Sicuramente un lavoro geniale, fatto ad arte insieme a Gennaro Nunziante che, ricordiamolo, come regista e autore fa coppia fissa da anni con il bravo comico, “performer”, cantante nonché attore Luca Pasquale Medici (in arte Checco Zalone). C’è chi lo annovera tra i grandi della commedia italiana come Sordi, Risi, Totò e chi invece ancora lo denigra come “furbetto” di bassa volgarità o dalla risata facile. Saranno i posteri a giudicare. Checco Zalone, sta di fatto, sa arrivare dritto là dove a volte le nostre intelligenze sublimi non sanno portarci. Perché ignoranti o poco colti? Forse, ma soprattutto perché molte volte, incupiti nelle nostre riflessioni più profonde che vanno alla ricerca di un senso (quale poi?) e avvolti da parole altisonanti, auliche che messe in fila una dietro all’altra hanno il solo potere di metterci in confusione (e dunque?), abbiamo bisogno di qualcuno che con il sorriso ci faccia comprendere quello che oggi siamo. Forse sta tutto qui il suo successo “popolare”, proprio perché di tutti, accessibile e comprensibile anche dal “volgo”. In “Quo vado” noi ridiamo in fondo di noi stessi, di quello che siamo diventati grazie anche, forse, al concorso di “altri” (per cui Checco da fastidio). Non c’è più il posto fisso, una famiglia “normale”, una etnia e un’unica religione che ci accomuna eppure ci possono essere valori che ci uniscono, che ci richiamano al dovere di educare la propria coscienza ad aprirci all’altro, alla condivisone ad una comunione che è più grande del giardino che ci circonda. C’è un senso di umanità in Checco Zalone, sebbene possa essere caustico e volgare in certe sue battute. La sua forza sta, però, nel codice comunicativo che usa, che sa “risvegliare” gli animi più assopiti e a volte troppo “perbenisti” (una necessità, potremmo dire). Certo “Quo Vado” non è cinema d’autore. Non è nemmeno un cinema che scava e va in profondità. Non è questo l’intento ed è inutile giudicarlo con questi parametri. Si rincuori ogni critico che fa bene il suo mestiere. Non è nemmeno un film per le famiglie (e sbagliano quei genitori che vi portano i piccoli a vederlo). È una storia che, con l’intento di allettare e far ridere, ti fa uscire dalla sala con almeno sulle labbra: “Beh, in questo però dice il vero…”. Fa pensare, dunque, Checco Zalone? Sì questa è la verità e, forse purtroppo, il paradosso odierno. Non ci dà soluzioni e anche il finale non vuole consegnarci nulla di facile e pronto all’uso, non ci dà nemmeno la morale, tuttavia ci “restituisce” la speranza che, nonostante tutto, si può sempre essere migliori. Ancora una volta. Non solo a Natale.

Siamo tutti Checco Zalone: vince la comicità pura in cui ognuno si rispecchia, scrive Gemma Gaetani su “Libero Quotidiano il 6 gennaio 2016. Ormai lo sanno anche i sassi, Quo Vado? è il nuovo film di Checco Zalone. Che ha incassato 22.248.121 euro in tre giorni, più o meno quanto ha guadagnato Star Wars, che però è fuori da settimane e sono quasi quarant’anni che fidelizza seguaci e seduce nuovi adepti. Ma il trionfo di Checco non si sostanzia solo negli incassi. Noi l’abbiamo visto in un cinema di Milano centro sabato scorso e abbiamo assistito a scene di vero tripudio, applausi a film in corso, applausi a film finito, cori quasi da stadio: una compartecipazione dello spettatore a quanto vedeva sullo schermo che prima apparteneva soltanto ai film porno. Quo va, dove va, quindi, Checco, è facile da dire: verso la consacrazione assoluta. E come spesso accade in questi casi, è partita la «corsa collettiva al commento». Ricordate Friedrich Nietzsche a Torino quando - incominciando a impazzire - si fermò per strada a guardare un cavallo frustato e l’abbracciò piangendo, gridandogli - secondo una delle varie versioni - «Io ti capisco!»? Sta accadendo la stessa cosa con Checco: tutti quelli che prima lo snobbavano ora si sentono in diritto, anzi in dovere di esprimere il proprio parere, dall’anonimo commentatore del web al vip al ministro al quotidiano intellettuale. Tutti costoro, che prima lo consideravano ciarpame comico senza pudore, «lo capiscono» e ce lo vogliono spiegare... Il che fa piuttosto ridere. È la «comicità derivativa»: il talento comico di Zalone è così grande che si riverbera anche su chi ne parla. Quo vado? racconta, tra l’altro, uno Stato italiano che preferisce liquidare a suon di soldoni i dipendenti delle Province pur di liberarsene. È quello Stato di cui Matteo Renzi è esponente di un certo livello e dovrebbe sentirsi chiamato in causa. Invece, al solito prontissimo a vampirizzare il successo altrui, il premier ci ha tenuto a far sapere all’universo mondo, tramite intervista alla Stampa, che lui Quo Vado? l’ha visto insieme coi suoi figli, tenendoci pure la lezione di grande comicità derivativa: «Sorrido di fronte a certi cambi di atteggiamento: fino a ieri era un reietto volgare, snobbato da certi intellettuali. I professionisti del radical chic, che ora lo osannano dopo averlo ignorato o detestato, mi fanno soltanto sorridere». I professionisti del radical chic, cioè lui. Che difatti ora s’inventa fan di Checco. Renzi non è il solo a tentare di cavalcare il fenomeno-Zalone, proiettandolo su di sé nell’ennesimo «storytelling»: altro «radical chic» pronto a osannare il comico pugliese al punto da risultare grottesco è il ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha twittato: «Grazie a #CheccoZalone! L’incredibile record di #QuoVado con sale ovunque stracolme di spettatori, fa bene a tutto il cinema italiano». «Grazie» di cosa? Di essere un comico che ce l’ha fatta nel ferocissimo mondo del cinema italiano, in cui spesso si coprono di finanziamenti pubblici film di vera cacca che in sala non vede pressoché nessuno? Come dicevamo, è la comicità derivativa: le uscite del ministro della Cultura fanno ridere quasi come Quo Vado?. E mentre i giornali si interrogano se Zalone sia di destra o di sinistra, sul Corriere Adriano Celentano gli ha attribuito effetti taumaturgici: «Quando mi capita magari di essere un po’ stressato a causa di una eccessiva concentrazione sul lavoro, anziché prendere 5 gocce di Lexotan accendo il televisore», ha scritto il Molleggiato. «Zalone è anche un efficace toccasana di cui le farmacie non possono essere sprovviste». Casomai la similitudine corretta sarebbe stata con un eccitante, non con un sedativo, giacché Checco fa morire dal ridere, non addormentare...Via Facebook, invece, è intervenuto Gabriele Muccino, che ha ringraziato Zalone perché «abbiamo tutti bisogno di film come i tuoi». E c’è da credere che gli odiatori del web non lo linceranno come fecero quando ebbe il fegato di criticare l’opera cinematografica di Pasolini. Ha senso che Muccino parli di cinema, essendo lui un regista con rara passione per la sua arte. Meno che di Checco si mettano a fare gli esegeti persone che col cinema e l’ideologia della comicità di Checco hanno zero a che fare. Ma qual è l’ideologia di Checco? Nessuna. Zalone incarna una comicità nuovamente pura, fatta di varie sfumature. C’è, nei suoi film, una grande percentuale di comicità demenziale, dietro la quale però si nasconde una marea di possibili letture: dalla più semplice e immediata alla più raffinata e intellettuale. La grandezza di Checco sta nella sua capacità di riscrivere comicamente tutto: dalle tirate di Massimo Gramellini alla pugnetta fatta a un orso polare (in una delle tante scene esilaranti di Quo vado?). Checco sa ridere di qualunque cosa proprio perché non è ideologico. Anzi, le ideologie le infila tutte nei suoi film per prenderle in giro. In Quo Vado? dileggia: l’italiano schiavo del posto fisso e innamorato della mamma; la femminista fricchettona con figli di tutte le etnie e religioni; l’ecologismo; l’animalismo; l’inciviltà. Prende in giro tutte queste cose però mostrandole, incarnandole, senza ergersi superiore a nessuno. La sua comicità pura è politicamente scorretta verso tutti. Vi pare poco? No, perché è la comicità che in Italia non si vedeva da tempo. Da queste parti vigeva una rigida dicotomia: da un lato la comicità ideologizzata e intellettualoide (da Nanni Moretti ai Soliti Idioti passando per i Guzzanti); dall’altro i cinepanettoni, cioè il disimpegno assoluto. Checco invece inserisce nei suoi film questioni sociali e politiche e ideologiche, ma per farne oggetto di comicità totale, senza prendere mai posizione. Questa è la sua forza: aver risciacquato i panni della comicità italiana nella comicità pura. Lo dice infatti anche lui: «Io non voglio fare analisi sociologiche (...) ma solo far passare un’ora e mezza a ridere». In realtà le analisi le fa, ma non ci conficca sopra bandiere, se non quella della risata.

Zalone, così siam tutti, scrive Fabio Ferzetti su “Il gazzettino” il 30 dicembre 2015. Dal paesino pugliese al Polo Nord. Dal calduccio del posto fisso al gelo del pack artico. Dall'italica autoindulgenza all'ipercorrettezza scandinava. Dagli incontri ravvicinati con i prosciutti e i sottolio conservati dai colleghi nei loro confortevoli uffici (pubblici), a quelli con le foche e gli orsi della stazione di ricerca in Norvegia, dove l'inamovibile impiegato di una Provincia pugliese, ufficio caccia & pesca, viene catapultato dalla perfida funzionaria Sonia Bergamasco (una meraviglia: sembra la Franca Valeri degli anni d'oro con una marcia sexy a sorpresa in più) per cercare di farlo dimettere come vuole la nuova direttiva...Secondo una teoria molto diffusa nel cinema non solo americano, ogni sceneggiatura segue più o meno fedelmente lo schema del “viaggio dell'eroe”. All'inizio l'eroe vive in un mondo ordinario dominato da un equilibrio (o squilibrio) immutabile. Poi riceve la “chiamata”, un evento che lo fa uscire dal bozzolo e tentare l'avventura. Avventura che sulle prime rifiuta, per poi accettarla grazie all'incontro con un mèntore, affrontando prove (luoghi, personaggi, ambienti) sempre più difficili in nome di una Grande Ricompensa. Ma cosa succede se l'eroe/antieroe ha la faccia di gomma e i tempi da urlo di Checco Zalone, il miglior comico del cinema italiano perché quello con l'orecchio più sensibile, oltre che l'unico capace di fare un vero gioco di squadra (premio a chi trova una faccia sbagliata, anche tra le ultime comparse in fondo all'inquadratura)? Succede che in 86 minuti secchi, misura aurea, Luca Medici/Checco Zalone e Gennaro Nunziante (che la forza continui a essere con voi) smontano e rimontano mille volte, come al pit stop, tutti i trucchi e i vizi, le bassezze e le ipocrisie, i timori e i pregiudizi, le abitudini e le omertà di cui si nutre la nostra pavida, pigra, arretrata natura italica. Fino a farci ridere a crepapelle e insieme vergognare di noi stessi come non capitava da un pezzo. Per giunta limitando al massimo quei colpi bassi e sempre troppo facili che sono le battute su emorroidi e genitali (degli orsi, in questo caso). Che conceda una licenza di caccia in cambio di una quaglia («Non è corruzione né concussione, solo educazione»), o che scambi la dirigente del Ministero per la segretaria solo perché è una donna, Checco è un tale concentrato di storture nostrane da non rendersene nemmeno più conto. Salvo trasformarsi per qualche tempo, dopo aver deciso di restare in Norvegia per amore della bella scienziata Eleonora Giovanardi, in un improbabile vichingo dal pizzetto biondo (anche se è dura resistere a Al Bano e Romina durante l'inverno boreale...). Con sconcerto dei genitori in visita (Ludovica Modugno e Maurizio Micheli, un po' sottoutilizzati), che non capiscono come più che il familismo amorale la vera “arma più forte” di quel finto immobilista sia un trasformismo alla Zelig (quello di Woody Allen). Tanto da adattarsi benissimo anche quando finisce in Calabria, da vero erede dei nostri grandi commedianti di una volta (Sordi in testa), pronti a tutto per sopravvivere. Anche se la stagione delle vere commedie non tornerà. Forse perché la realtà è ormai così caricaturale da esigere rappresentazioni “al cubo”. Nessuno possiede più un grammo di innocenza, sono tutti troppo (cinicamente) consapevoli della propria immagine per costruire un racconto comico e realistico insieme come quelli della coppia Sordi-Sonego, vero modello di Quo Vado. Di qui il trionfo di una comicità farsesca in cui le tappe del racconto sono solo palcoscenici offerti al mattatore e i comprimari, peraltro efficacissimi (il senatore Lino Banfi, il ministro Ninni Bruschetta), sono pure maschere (i Genitori, la Fidanzata, il Collega, etc.). Ma se lo schema del racconto non è certo una novità, la cura dell'invenzione, e dell'esecuzione, sono davvero fuori dal comune. È questo a fare la differenza (malgrado il lieve calo “buonista” in sottofinale), oltre alla bravura oggi inarrivabile di Checco Zalone. E poi, chi altro oserebbe far rimare “fuck” con “Margherita Hack”?

Zalone: "Dico grazie a tutti, anche agli indignati". Checco Zalone ai microfoni di Rtl 102.5 parla dello straordinario successo di Quo vado? Scrive Luisa De Montis Lunedì 4/01/2016 su "Il Giornale". "Io non sono riuscito a controllare tutte le dichiarazioni perché sono tantissime. Però voglio ringraziare quelli che mi dicono “grazie”, ma anche gli indignati, perché siamo un popolo di indignati, anzi, soprattutto loro, perché fanno scaturire curiosità e quindi la gente va al cinema. Grazie indignati. Non puoi essere simpatico a tutti, anzi quando c’è questo consenso quasi plebiscitario, paradossalmente, senti l’esigenza di ritornare a terra e di trovare qualcuno a cui stai sulle balle, altrimenti potrei avere manie di onnipotenza. Continuate ad indignarvi che io sono contento". Parola di Checco Zalone che, ai microfoni di Rtl 102.5, parla dello straordinario successo di Quo vado?. Il comico poi aggiunge: "Chi fa questo mestiere non pensa ai beni o ai mali di questo Paese, ma solo a far ridere. Il comico per una battuta si venderebbe l’anima. Poi se la battuta è azzeccata, nel senso che muove da una realtà tangibile e familiare a tutti, è più efficace. Io però non voglio fare analisi sociologiche sul nostro Paese, sul posto fisso, sul degrado, sul berlusconismo, su tutto quello che hanno scritto in questi giorni. Io e Gennaro Nunziante (regista e coautore del film ndr) vogliamo solo far passare un’ora e mezza a ridere. Ringrazio per le analisi, sono veramente lusingato dagli articoli, Celentano ne ha parlato, Muccino ha scritto su Facebook un post lusinghiero più lungo della sceneggiatura del mio film, però la questione è molto più semplice: il comico fa ridere ed evidentemente c’è riuscito". Alla domanda se ha rivisto il film, Zalone risponde: "No, l’ho visto per quattro mesi al montaggio, il lavoro dell’attore è questo: si vede al montaggio, si taglia, quindi quando esce mi ha nauseato; non lo vedrò mai più per almeno tre o quattro anni. Poi sono ingrassato, sono un po’ più rotondo, quindi mi mette un po’ di tristezza. Ritornando al discorso di prima: far ridere è tremendamente complicato, e il pubblico di oggi poi è molto sgamato. Sì, hanno internet, c’è una nuova cifra che è molto più immediata e veloce della rete. Ci sono gli sketch, ci sono un sacco di ragazzi che fanno anche cose molto interessanti. Portare un nuovo linguaggio in un film è difficile, devi essere più veloce. Rispetto alla commedia degli anni ’80, anche a quella degli anni ’60, che era sicuramente più interessante perché dietro c’erano veri intellettuali come Risi o Sonego, ora cambia il montaggio, l’immediatezza. Bisogna essere, ahimè, molto più brevi ed efficaci, infatti non riusciamo a fare un film più lungo di 83 minuti. Siamo partiti da due ore, una palla incredibile, ci volevamo ammazzare, poi al montaggio tagliuzziamo qui e lì".

T COME MAFIA DEI TRADITORI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “L’IVASIONE BARBARICA DEL MEZZOGIORNO D’ITALIA” e “MAFIOPOLI” e “LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Cria il traditore, scrive Antonino Beninati su Carabinieri. Dai tesori caduti vittima della furia iconoclasta del fondamentalismo a un affresco “parlante”. Quello che, dalle pareti di una chiesa salentina, racconta una storia di straordinaria attualità: la vicenda di un foreign fighter di cinquecento anni fa. È tristemente nota la figura dei foreign fighters, uomini e donne che, dopo un processo di radicalizzazione religiosa, lasciano il proprio Paese per raggiungerne un altro nel quale, opportunamente addestrati, parteciperanno ad atti di guerra o di terrorismo che non hanno nulla a che vedere con la loro storia, la loro cultura. Individui capaci di usare l’arma del terrore anche per colpire il proprio stesso Paese, come è successo di recente a Parigi. Non si tratta, però, di un fenomeno inedito. Anche il nostro Paese, nei secoli scorsi, ha avuto dei casi di foreign fighters. Una preziosa testimonianza storica ci viene fornita in proposito dall’affresco che decora la parete sopra l’ingresso laterale della chiesa di Sant’Antonio (XII secolo), a San Pancrazio Salentino, villaggio appartenuto alla Terra d’Otranto e dall’anno 1927 comune della provincia brindisina. Quasi come una moderna illustrazione a fumetti, le scene dell’anonimo dipinto narrano del tradimento di Cria, un foreign fighter di epoca rinascimentale proveniente dal vicino comune di Avetrana, in provincia di Taranto. Il traditore, cosi viene definito nell’opera, abbracciata la fede mussulmana, si arruolò nelle milizie turche. Le cronache scritte da Girolamo Marciano di Leverano (Descrizione, origini, e successi della provincia d’Otranto) raccontano che «...San Pancrazio... soffrì le ultime sue rovine nell’anno 1547 da corsari turchi, i quali accostatisi con cinque galeotte nella marina della provincia, e presa terra in un porticello detto della Calimera (Torre Colimena), presero il castello di Veterana (Avetrana), la notte del 1° gennaio, ch’era il capo dell’anno, e sbarcarono da circa cento Turchi guidati da un certo rinnegato del detto castello chiamato Chria (Cria), il quale li menava per prendere Vetrana sua patria; ove essendo arrivati, ed inteso il suono di un taburretto, con cui facevansi mattinate, dubitando che non fosse la guardia di qualche presidio militare, passò avanti e li portò a saccheggiare questa piccola terricciuola di S. Pancrazio, avendola colta d’improvviso, e portatene tutte le genti che vi erano alla marina sopra de’ vascelli, parte ne furono allora riscattati, e parte menati in Turchia e venduti per ischiavi». Inspiegabilmente, però, Cria cadde in mano ai superstiti sanpancraziesi. Il traditore venne legato nudo ad una colonna e finito con il lancio di pietre e frecce. Oltre che per la raffigurazione dei galeoni battenti bandiera turca e per quella dei corsari lanciati al trotto, l’affresco colpisce per la presenza di alcuni dettagli di eccezionale attualità: braccia e gambe penzolanti da alberi di ulivo; corpi decapitati. Mutilazioni che richiamano in modo sinistro le efferate azioni delle odierne milizie ­dell’Isis. Le iscrizioni presenti sull’affresco, venuto alla luce durante i lavori di restauro della chiesa di Sant’Antonio nel 1983, datano l’episodio storico al1° gennaio 1547 e mostrano quanto sentita fosse, già allora, la questione dei foreign fighters nelle piccole realtà locali. Perché essere accusato di tradimento, in un’epoca in cui esso veniva punito con la pena capitale, poteva macchiare d’infamia un’intera comunità.

Illustri traditori del meridione, Crispi: l’eroe garibaldino, scrive Luigi Maganuco il 25 agosto 2018 su "Il Quotidiano di Gela. Gela. Abbiamo raccontato degli uomini del risorgimento Italiano, e con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto ch nessuno appartiene alla categoria degli onesti ma chi più chi meno si sono macchiati di crimini spaventosi, però nella vita hanno raggiunto posti di responsabilità invidiabili. Tra questi, visto che le nostre città sono pieni di questi uomini illustri, vogliamo ricordare il siciliano Francesco Crispi. Nasce a Ribera, provincia di Agrigento, di etnia Albanese nel 1818, non brillante avvocato a Napoli, fu prima carbonaro e mazziniano, complice di Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al momento opportuno, trasformatosi in massone, divenne l’eminenza grigia, l’arruolatore e l’organizzatore della logica Garibaldina. Crispi si avvale delle sue originali e giovanili conoscenze mafiose, quando il 10 aprile del 1860 sbarcò segretamente a Messina, assieme a Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per preparare quel disordine popolare che, provocando la repressione Borbonica, avrebbe giustificato la spedizione dei mille, ormai pronta. L’altro aspetto della missione segreta era contattare ed accordarsi con i capi dei picciotti di Carini, Terrasini, Montelepre, S. Cipirello, Piana degli Albanesi, Partinico e Trapani. Fu così che Crispi, che lo stesso Garibaldi diceva che “…arruolava tutti, in ispecia gli avanzi di galera…”, preparò gran parte del successo della spedizione dei mille. Una volta divenuto Primo Ministro del re Umberto I, soffocherà, usando un esercito che spara ed uccide, i Fasci Siciliani, facendo centinaia di morti e feriti tra i suoi conterranei: Crispi era stato un ex rivoluzionario, ex carbonaro, ex mazziniano, ex democratico, ex siciliano ma grande uomo di Stato per noi servili adulatori della malavita organizzata (da risorgimento o rivolgimento di Aurelio Vento). Nel 1887 diviene Presidente del Consiglio Italiano, ma nel tentativo di trasformare l’Italia in potenza coloniale, incappa nella disfatta africana di Adua, che provocò migliaia di morti in Abissinia e il fallimento provvisorio dell’avventura coloniale dell’Italia in Africa. Fu accusato di bigamia perché sessantenne sposò la chiacchierata giovane siracusana Lina Barbagallo, allora sposato con Rosa Monimasson, che fu l’unica donna vestita da uomo a seguirlo tra le camicie rosse garibaldine. Così, l’armata Garibaldina dei mille al porto di partenza da Quarto presso Genova assorbiva tra le sue file di piccoli borghesi spiantati e indebitati di Bergamo, una Legione Britannica, migliaia di picciotti arruolati dall’instancabile Francesco Crispi, con il permesso ottenuto dai capizona mafiosi, conosciuti e frequentati durante la sua gioventù vissuta in Agrigento. Secondo l’autore, Aurelio Vento, che cita uno scritto ironico di Massimo D’Azeglio “…quando s’è vista un’armata sbrindellata di 60.000 uomini conquistare un regno di sei milioni con la perdita di solo otto uomini e diciotto storpiati, bisogna pensare che sotto ci sia qualcosa di non ordinario…”. Il dubbio è perfettamente legittimo perché il tradimento operato dai nostri grandi uomini è eclatante e le documentazioni venute alla luce in questi ultimi anni dimostrano chiaramente come i generali e alti comandanti borbonici, si sono venduti per trenta denari ai nostri salvatori. Questi, con l’oro rubato al banco di Napoli e al banco di Sicilia, oggi venerati e ricordati nei nostri centri abitati con strade e piazze a loro dedicate per non dimenticare, hanno corrotto parte degli ufficiali borbonici. Tratteremo questo argomento e proviamo a ricordare l’onorario pagato per tradire. Un esempio eclatante è la storia del gen. Salvatore Landi, che aveva ottenuto direttamente da Garibaldi, un pagherò di 14.000 ducati, purchè nella battaglia del 15 maggio 1860, suonasse la ritirata delle forze borboniche, per permettere ai Garibaldini di dilagare e sconfiggere l’armata borbonica. L’esito della vittoria mise in crisi il grande scrittore Cesare Abba, al seguito come reporter di guerra, che aveva inventato la famosa frase indirizzata a Nino Bixio “qui si fa l’Italia o si muore”. Ma l’anno successivo il generale si presenta al Banco di Napoli per incassare il pagherò, si accorge che era falso e valeva solo 14 ducati. Aveva tradito per 13 danari e né morì di pena. Altro grande traditore fu il gen. Ferdinando Lanza che tenne bloccati i suoi 24.000 uomini al palazzo Reale per permettere ai Garibaldini di entrare a Palermo già ingrossati dei 2.000 picciotti forniti da Francesco Crispi e arruolati nel territorio (noi gelesi abbiamo dedicato una arteria importante della nostra città per i suoi meriti) Il gen. Lanza si affrettò a firmare l’armistizio di resa alle ridicole forze garibaldine, sulla nave dell’ammiraglio inglese Mundy, fermo sulla rada con una piccola flotta militare. Il gen. Lanza così potè partecipare al furto compiuto da Garibaldi al Banco di Sicilia e incassare 600.000 ducati d’oro, per spese di guerra. La ricevuta, debitamente firmata fu consegnata a Ippolito Nievo, intendente delle finanze Garibaldine. Anche questo poeta merita una arteria importante nelle nostre città meridionali. Il 20 luglio 1860 Garibaldi arriva a Milazzo e qui il capitano Amilcare Anquissola, della corvetta “la veloce”, si consegna, senza combattere, all’ammiraglio sabaudo Persano, così la flotta militare borbonica composta da 100 vascelli 796 cannoni, si consegnò alle forze Savoiarde nel porto di Napoli. La conquista fu completata quando il criminale gen. Enrico Cialdini, il 13 gennaio 1861, rade al suolo la città di Gaeta con 160.000 cannonate. Tutti gli scrittori apologetici hanno voluto mettere in evidenza la grande armata dell’eroe dei due mondi che conquista il Regno delle Due Sicilie per la sua bravura di combattente e grande stratega militare, come l’ammiraglio Carlo Pellion di Persan ex comandante borbonico, tradisce e diventa Ammiraglio del regno Sabaudo che il 20 luglio 1866, nel corso della III guerra di indipendenza, viene sconfitto pesantemente a Lissa da pochi vascelli di legno della flotta Austriaca. Atro grande traditore il gen. Pinelli che in una nota poteva cinicamente permettersi di bandire (come asserisce lo scrittore Aurelio Vento): “sua eccellenza il Ministro della guerra si rallegra con voi del vostro slancio e delle eroiche vostre gesta. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste ma nulla è fatto quando qualcosa rimane a fare. Ancora ladroni si annidano tra i monti, correte e snidateli e siate inesorabili come il destino. Contro tali nemici la pietà è delitto! Noi li annienteremo e purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava”. Altra nota degna di rilievo, riguarda i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, dove i soldati nordisti e sabaudi fecero stragi, saccheggi e stupri senza alcun processo e uccisero quattrocento persone per quaranta soldati nordisti. La stessa identica proporzione l’applicarono nel 1944 i soldati nazisti uccidendo trecento civili per trenta militari nazisti uccisi in via Rasella a Roma. E’ da mettere in evidenza l’onestà dei nazisti che non distrussero il quartiere di via Rasella a Roma, come fecero i piemontesi che saccheggiarono due centri di circa ottomila abitanti. Secondo i pennivendoli ufficiali, il massacro delle fosse Ardeatine non fu compiuto per vendetta dell’attentato di via Rasella ma per volontà del regime nazista. Così i partigiani che compirono l’attentato poterono continuare ad uccidere. A che serve ricordare questi epistemi storici? A chi servono? Sicuramente a nessuno legato ai colonizzatori nordisti o ai fanatici attuali al servizio della massoneria dominante. Hanno una enorme importanza per i meridionali onesti che tengono alla dignità e alla loro storia di uomini liberi e pensanti.

Borsellino: «Attorno a me vipere a traditori». Parole di un uomo che sapeva di dover morire, scrive il 9 marzo 2012 Lettera 43. Circondato da «vipere» e «traditori», Paolo Borsellino aveva compreso chiaramente che dopo Giovanni Falcone presto sarebbe stato eliminato anche lui. La sua fine, decisa in un summit di mafia alla fine del 1991, sarebbe stata accelerata perchè veniva considerato un ostacolo alla «trattativa» tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato. Per questo ora i magistrati di Caltanissetta hanno fatto scattare l'aggravante di terrorismo per quattro nuovi accusati della strage di via D'Amelio. «Qualcuno mi ha tradito». Alcuni giorni prima della strage, il giudice Borsellino fece questa confidenza a due giovani magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, che erano stati suoi sostituti quando dirigeva la Procura di Marsala. Camassa e Russo si erano recati nella seconda metà di giugno del 1992 a trovarlo al palazzo di giustizia di Palermo.

CLIMA OSTILE A PALERMO. A loro rassegnò la sua amarezza e lo scoramento per il 'tradimento' intuito ma anche per il clima ostile che a Palermo lo circondava. «Quì è un nido di vipere», esclamò improvvisamente. «Lo trovammo molto cupo. Aveva le lacrime agli occhi», ha raccontato Russo. «Borsellino era così abbattuto», ha aggiunto l'ex magistrato oggi assessore regionale alla Salute, «che a un certo punto si alzò dalla scrivania e di distese, quasi lasciandosi andare, sulla poltroncina del suo studio. Fummo colpiti dal suo stato per un clima tanto diverso da quello amichevole e accogliente che aveva lasciato a Marsala».

«TRADITO DA UNA PERSONA AUTOREVOLE». Oltre a quel riferimento al traditore Borsellino non andò «nè avemmo la forza di chiedere altro», ha sottolineato Russo. Alessandra Camassa, a verbale, ha detto: «La mia impressione fu che Paolo si sentisse tradito da una persona adulta autorevole, con la quale vi era un rapporto d'affetto. Pensai che potesse trattarsi di un ufficiale dei carabinieri».

«HO VISTO LA MAFIA IN DIRETTA». Sull'esistenza di un 'traditore' Borsellino aveva parlato anche con la moglie Agnese sul balcone di casa verso le 7di sera. A lei non fece il nome del traditore ma una grave confidenza: «Ho visto la mafia in diretta». E aggiunse: «Mi hanno detto che il generale Antonio Subranni era punciutu». Per “punciutina” nel gergo della mafia si intende il rituale di affiliazione a Cosa Nostra che prevede anche una puntura al dito per fare sgorgare una goccia di sangue. «Non chiesi a Paolo», ha precisato la signora Agnese, «da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che, in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri».

BORSELLINO ATTANAGLIATO DAI SOSPETTI. Borsellino era attanagliato dai sospetti fino al giorno prima della strage. Sfuggendo alla vigilanza della scorta, portò la moglie a fare una passeggiata in macchina sul lungomare di Sferracavallo. E in auto spiegò che «non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere». Erano i pensieri di un uomo che si sentiva prigioniero di un «nido di vipere» e di un illustre «traditore» ancora senza volto.

Processi di Mafia. Contrada, Mori: traditori o traditi? Scrive Giulio Ambrosetti il 13 Gennaio 2008 su "La Voce di New York. Intervista con l'avvocato Pietro Milio, difensore del poliziotto Bruno Contrada e del generale dei carabinieri Mario Mori. Pietro Milio, avvocato penalista del Foro di Palermo, nella vita ne ha viste di cotte e di crude (è stato anche parlamentare eletto nella lista Pannella). Tanto per cominciare, da quindici anni difende Bruno Contrada, il superpoliziotto condannato a dieci anni di galera per mafia con una sentenza che non finisce mai di suscitare perplessità. Poi ha difeso Mario Mori, generale dei Carabinieri, già ai vertici del Ros (il Reparto operativo speciale dell’Arma) e poi ai vertici del Sisde, il Servizio segreto civile. Lo ha difeso nella tormentata vicenda del covo Totò Riina. Storia tutta italiana (avvertimento più che mai necessario per i lettori americani) e, naturalmente, controversa. Che risale al 1993, quando viene catturato il boss dei corleonesi, Riina. Una grande operazione di intelligence macchiata dalla mancata perquisizione della casa dove l’allora capo della mafia siciliana viveva. Oggi Milio torna a difendere Mori, accusato di aver mandato all’aria, nel lontano 1995, la cattura dell’altro boss corleonese, Bernardo Provenzano. La prima domanda che poniamo a Milio parte da una considerazione: sia Contrada, sia Mori sono stati ai vertici del Sisde, e tutt’e due sono accusati di aver aiutato due grandi boss mafiosi a rendersi uccel di bosco. Insomma, avvocato, questo Sisde porta sfiga…

"Bisognerebbe vedere perché porta sfiga – ci risponde Milio -. Contrada, nel 1991, operò per utilizzare il Sisde anche nella lotta alla mafia, compresa la cattura dei latitanti. Ecco, secondo me il lavoro svolto da Contrada deve avere suscitato la gelosia di qualche nascituro".

Prego?

"Insomma, avrà fatto ombra a qualche apparato dello Stato allora nascente. Parallelamente, il Ros, che nel 1993 ha arrestato Riina, comincia a subire contestazioni. Il riferimento, ovviamente, è alla vicenda del covo di Riina".

Avvocato, ammetterà che è singolare catturare il più importante boss mafioso dell’epoca e non perquisire l’abitazione dove viveva chissà da quanto tempo.

"Non condivido la sua considerazione. Quegli ufficiali dei Carabinieri, e in particolare Mori, ultimi allievi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, seguivano una tecnica investigativa e operativa precisa: e cioè non rompere il filo d’indagine costruito con grande fatica nel tempo. Il Ros, giustamente, voleva colpire tutta l’organizzazione che, negli anni, aveva protetto Riina. Tra l’altro, in quel covo c’erano moglie e figli del boss".

E questo che significa?

"Significa che i mafiosi tutelano la propria famiglia prima di ogni altra cosa al mondo. Una base operativa della mafia lì avrebbe messo in pericolo i familiari di Riina. E questo un boss mafioso non lo avrebbe mai consentito".

Se non ricordiamo male, i magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo vennero informati di tutto.

"E’ tutto vero. Mori informò i magistrati, e in particolare l’allora capo della Procura, Giancarlo Caselli. Cosa, questa, confermata dal giudice Luigi Patronaggio, che stava per dare il via alla perquisizione del covo e venne bloccato".

Tutto questo, però, non ha eliminato le polemiche. E un processo che ha visto come imputato non soltanto Mori, ma anche il capitano "Ultimo".

"Per amore di cronaca e di verità, dobbiamo sottolineare che tutt’e due sono stati assolti. Tuttavia, in questa storia del covo, dove si è parlato di tutto, è rimasta senza risposta una domanda".

Quale?

"A due passi dal covo di Riina, proprio all’incrocio con la circonvallazione della città, c’era sempre un fruttivendolo con il suo furgoncino. Dopo l’arresto di Riina questo signore è scomparso. Era proprio un fruttivendolo? E poi c’è un’altra cosa ancora".

Cosa?

"Ricordo che in una nota inviata ai giudici di Milano, i pubblici ministeri di Palermo scrivono che la cassaforte dell’abitazione di Riina era stata asportata da chi aveva ripulito il covo. Poi, però, si scopre che i due che avevano ripulito il covo erano talmente noti agli inquirenti che erano stati subito individuati dai Carabinieri, interrogati, processati e assolti".

Assolti?

"Sì, assolti. I due si giustificarono dicendo che erano stati contattati dal padrone di casa per imbiancare le pareti dell’abitazione. Cosa che è risultata vera. Altro che covo ripulito! Tra l’altro, in una stanza della casa vennero trovati i mobili accatastati e chiusi nel cellofan. Proprio perché i due stavano imbiancando i muri".

Mettiamo da parte la vicenda del covo di Riina e parliamo di questo nuovo caso. Ci può spiegare di che si tratta?

"Michele Riccio, colonnello dei Carabinieri oggi in pensione, nel 2001 si ricorda che, nel 1995, Mori avrebbe impedito la cattura di Provenzano. Mi spiego meglio. Riccio dice che in quegli anni poteva contare su un confidente, Luigi Ilardo, oggi deceduto. Questo Ilardo avrebbe potuto portare gli inquirenti a Provenzano. Ma, dice Riccio, non se ne fece nulla perché Mori lo impedì. Ovviamente, è tutto falso. Prove alla mano".

Cioè?

"Cominciamo col dire che Riccio è finito nel bel mezzo di una vicenda giudiziaria per una storia legata agli stupefacenti. Nel maggio dello scorso anno si è beccato nove anni e sei mesi di reclusione. Questa precisazione è importante".

Perché?

"Perché oggi, Riccio, con le sue accuse, smentisce un rapporto che porta la firma del capitano Mauro Obino, ma che è stato stilato proprio da lui. In questo rapporto, denominato “Grande Oriente”, Riccio racconta che Mori gli aveva detto di dotare Ilardo di un registratore mimetizzato. Questo dimostra che Mori non ostacolò minimamente Riccio. Oggi, però, lo stesso Riccio smentisce il suo rapporto".

Perché, secondo lei, Riccio accusa Mori?

"Forse per alleggerire la sua posizione giudiziaria".

Magari viene utilizzato da qualcuno?

"Non è da escludere".

Da chi?

"Da chi potrebbe avere avuto interesse a mettere nei guai Mori".

Perché dovrebbero mettere nei guai Mori?

"Potrebbe essere una vendetta. O, con molta più probabilità, un’azione mistificatoria di copertura di vicende tristi e tragiche che hanno attraversato l’Italia. In fondo, se riflettiamo, nella vicenda del covo di Riina hanno tirato in ballo pure il capitano "Ultimo". Anche se l’obiettivo non era lui".

Ovvero?

"L’incriminazione di ‘Ultimo’ avrebbe dovuto rendere più credibile le accuse mosse a Mori. E la prova di ciò è che i responsabili intermedi nell’operazione legata alla gestione del covo di Riina, pur avendo avuto un ruolo attivo, non sono mai stati sfiorati. Così come, in questa nuova vicenda che coinvolge ancora una volta Mori, è strano che per gli stessi fatti non sia stato incriminato Riccio, che pure era impegnato nell’operazione".

Avvocato, ci tolga una curiosità: della cattura di Riina è stato detto tutto e il contrario di tutto: grande operazione dei Carabinieri e patteggiamento tra Stato e mafia. Lei che idea si è fatto?

"La cattura di Riina è stata una brillantissima operazione di polizia giudiziaria. Il resto sono chiacchiere malevole".

Insomma, l’invidia avrebbe generato una tempesta di fango…

"C’è stato certamente il concorso a seminare il dubbio".

Oggi il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, dice che suo padre collaborò con lo Stato per far catturare Riina…

"Nelle parole di questo Massimo Ciancimino non c’è nulla di vero. La verità è che, nella disperazione istituzionale di quei giorni – ricordiamoci che c’erano stati attentati ai luoghi simbolo della cultura italiana – c’era chi parlava di resa dello Stato e chi si rimboccava le maniche. Gli uomini del Ros erano tra questi ultimi. Così si misero alla ricerca di soggetti che avrebbero potuto consentire la cattura di questi pericolosi boss. Vito Ciancimino, nei colloqui investigativi autorizzati dalla magistratura, quando capì che gli ufficiali dei Carabinieri avevano il solo obiettivo di farsi indicare da lui la strada per catturare i latitanti, cacciò di casa Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Li cacciò da casa dicendogli: andate via, voi mi volete morto e volete morire pure voi. In quel momento, tanto per capirci, Ciancimino temeva ritorsioni anche sui suoi figli".

Vuole dire qualcosa ai lettori che la leggono in America?

"Che se questa è la Giustizia italiana, beh, c’è da fuggire da questo Paese. Purtroppo, non posso farne a meno di essere pessimista".

Mafia anni 90. I “buoni” erano “cattivi” e viceversa? Scrive Piero Sansonetti il 5 Maggio 2018 su "Il Dubbio". La ricostruzione fornita dal Dubbio rovescia i teoremi: i Ros avevano attaccato frontalmente la mafia, la magistratura, persi Falcone e Borsellino, mollò la presa. Da qualche giorno stiamo pubblicando sul “Dubbio” una ricostruzione dei fatti tragici che all’inizio degli anni 90 insanguinarono la Sicilia. Continueremo la settimana prossima. Damiano Aliprandi sta realizzando questa ricostruzione, lavorando su documenti, sentenze, requisitorie, testimonianze, carte, atti giudiziari. Senza violare nessun segreto, senza fidarsi di nessun “uccellino”, senza fonti riservate e coperte, senza basarsi su supposizioni prive di prove. Generalmente l’informazione giudiziaria funziona in un altro modo: non perde tempo a seguire i processi e a verificare le carte, ma “suppone”; e di solito più che supporre prende per buone le supposizioni delle Procure. Qual è la novità che emerge dalla nostra ricostruzione? E’ abbastanza sconvolgente. Ci fa capire che probabilmente la verità è più o meno l’opposto di quello che sin qui si è fatto credere. Vediamo. Recentemente il processo di Palermo (quello sulla presunta trattativa stato- mafia) ha stabilito che un gruppo di carabinieri dei Ros tradì lo Stato e lavorò, insieme alla mafia, per minacciarlo e ricattarlo. Con l’aiuto di Dell’Utri. Se le cose davvero stessero così, sarebbe una cosa gravissima. Un vero e proprio tradimento da parte di un settore molto prestigioso dei carabinieri. Finora, però, non è stata mostrata una sola prova che avvalori questa ipotesi, tranne la testimonianza di un mafioso pentito (Brusca) che in cambio della sua testimonianza ha ottenuto le attenuanti, e quindi la prescrizione, e quindi l’assoluzione. C’è da fidarsi di Brusca, senza un riscontro, senza una carta, un fatto, un documento? Aspettiamo le motivazioni della sentenza e vediamo se esce fuori qualcosa. Per ora, zero. La nostra ricostruzione però giunge a una conclusione del tutto opposta: i carabinieri “traditori” non erano affatto traditori, ma erano investigatori molto competenti che avevano scoperchiato (tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90) un gigantesco giro di reati, compiuti per assegnare in modo illegittimo a mafiosi e imprenditori una quantità mostruosa di appalti. La descrizione di questi delitti, e le prove, erano contenute in un dossier chiamato “mafia appalti”, che fu consegnato dai Ros alla magistratura. E precisamente al sostituto procuratore Falcone che iniziò le indagini e giudicò clamorose le scoperte dei carabinieri. Poi Falcone fu chiamato a Roma e il dossier passò ad altri sostituti procuratori. Lo stesso Falcone chiese a Borsellino di occuparsi lui personalmente di quel dossier, perché solo di lui si fidava e perché il dossier conteneva verità scioccanti. Ma prima che il Procuratore Giammanco si decidesse a consegnare il dossier a Borsellino, successero tre cose: fu ucciso Falcone, fu ucciso Borsellino e, nel frattempo, i sostituti procuratori che avevano in mano il dossier chiesero (e rapidissimamente ottennero) che fosse archiviato. In una parola sola: insabbiarono. Questi sostituti procuratori erano Roberto Scarpinato, attuale Procuratore generale di Palermo e Guido Lo Forte. E visto che nel frattempo Borsellino e Falcone erano morti, nessuno più mise le mani su quei documenti (che noi abbiamo potuto leggere) i quali contenevano nomi, circostanze, collegamenti, con una tale precisione ( e di una tale gravità) che probabilmente avrebbero creato un vero e proprio cataclisma. Sulla mafia, ma anche sulla politica. Non solo su quella siciliana, perché le imprese coinvolte operavano su tutto il territorio nazionale e anche gli appalti non erano solo siciliani ma erano sparsi in ogni regione italiana.

Ora le questioni aperte sono tre.

La prima riguarda l’uccisione di Borsellino. In questi anni spesso si è detto che la sua morte è avvenuta perché si opponeva alla trattativa stato mafia. Poi si è detto che stava indagando su Berlusconi. Ora si capisce con una certa sicurezza che non era così. Borsellino non stava indagando su nessuna trattativa né su Berlusconi, ma voleva occuparsi di questo dossier, e negli scandali contenuti in questo dossier non c’era trattativa né c’era ombra di Berlusconi o di Dell’Utri. Dunque tutta la ricostruzione, soprattutto giornalistica (ma presente massicciamente anche nelle requisitorie dei Pm al processo di Palermo) è infondata.

La seconda questione riguarda i Ros. È chiaro che i Ros del generale Mori non solo non trattarono con la mafia, ma avevano una strategia del tutto opposta: quella di andare a scontrarsi frontalmente sia con la mafia sia con quei settori della politica e dell’imprenditoria che con la mafia facevano affari.

La terza questione è la più inquietante. Cosa successe in alcuni settori della magistratura di Palermo? Perché insabbiarono una inchiesta che era una vera bomba atomica e che conteneva i presupposti per annientare Cosa Nostra? C’è un collegamento tra questa decisione di insabbiare e di disinnescare quella inchiesta e il clamoroso depistaggio, seguito dalla magistratura, innescato dal falso pentito Scarantino (primo processo Borsellino)? E ancora: il processo Stato mafia è in qualche modo figlio di questi clamorosi abbagli?

Come vedete, la terza questione è formata da domande. Chi può rispondere a queste domande? La magistratura è in grado di fornirci almeno qualche lume?

Figli e figliastri: Servitor di più padroni.  

Quella norma che autorizza i Carabinieri a “tradire” i pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi l'11 Novembre 2018 su "Il Dubbio".  La Corte Costituzionale ha bocciato il decreto che estese a tutte le forze di polizia la “licenza” concessa all’Arma dei Carabinieri. «Non potrà non subire medesima sorte», dichiara il professore Giovanni Cordini, ordinario di Diritto pubblico comparato all’università di Pavia, a proposito dell’articolo 237 del Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, che disciplina “obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica”. “Indipendentemente – questo il testo della norma – dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del comandante generale dell’Arma dei carabinieri”. L’articolo in questione, contenuto nel decreto 90 del 15 marzo 2010, può essere considerato il “padre” dell’articolo 8 comma 5 del decreto legislativo 177 del 2016, recentemente dichiarato incostituzionale dalla Consulta. “I vertici delle Forze di polizia – recita la norma bocciata dalla Corte costituzionale – adottano istruzioni affinché i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale”. Praticamente due norme sovrapponibili quanto al dettato letterale e al merito. «In casi del genere – prosegue il professor Cordini – la norma va disapplicata dai destinatari della norma stessa. Non è necessario attendere che il legislatore, in questo caso il presidente della Repubblica, provveda a modificarne il testo in aderenza al dettato costituzionale». Secondo la Consulta – la sentenza sarà depositata nei prossimi giorni – la disposizione «è lesiva delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero, garantite dall’articolo 109 della Costituzione». Sotto i riflettori dei giudici è dunque «la specifica disciplina della trasmissione per via gerarchica delle informative di reato, pur riconoscendo le esigenze di coordinamento informativo poste a fondamento della disposizione impugnata meritevoli di tutela». Il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, colui che sollevò il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, interpellato sul punto dal Dubbio, ha affermato che «bisognerà comunque attendere le motivazioni della sentenza per comprendere l’iter interpretativo dei giudici costituzionali prima di esprimere giudizi». Quando venne approvata la norma nel 2016, furono molte le voci critiche. Il Csm dedicò alla discussione del parere sul testo un intero Plenum. Si era nel pieno dell’indagine “Consip”, condotta dal Noe dei carabinieri coordinati dal pm napoletano Henry John Woodcock. A causa di questa disposizione, si disse, venne svelato il contenuto dell’indagine ai vertici della centrale acquisti della Pa. A posteriori si può però affermare che tale norma non avrebbe cambiato di una virgola quanto già previsto per i carabinieri circa il dovere di informare i propri superiori. Se poi i vertici dell’Arma, iniziando dall’allora comandante generale Tullio Del Sette, come ipotizzato dalla Procura di Roma, avvertirono i capi di Consip, lo deciderà il gip della Capitale nelle prossime settimane pronunciandosi sulla richiesta di rinvio a giudizio per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio.

Il patto tra Csm e Procure contro la regola che obbliga la polizia a violare il segreto. Legnini e i pm andranno in pressing sul governo perché liberi la polizia dall’obbligo di informare i capi, scrive Errico Novi l'11 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Lite Legnini- Woodcock? Mai stati così d’accordo. Entrambi segnalano i rischi del decreto che obbliga la polizia giudiziaria a informare le “scale gerarchiche” su notizie di reato e sviluppi delle indagini. Con toni diversi, il vicepresidente del Csm e il titolare originario dell’inchiesta Consip dicono che la fuga di notizie può venire da lì. Adesso Consiglio superiore e magistratura inquirente si preparano a stabilire un’alleanza per spingere il governo a rivedere le norme. L’appuntamento è per il 16 e il 23 marzo, date in cui a Palazzo dei Marescialli sono previste le audizioni dei capi delle Procure. Con loro saranno sentiti anche il superprocuratore Antimafia Franco Roberti e i procuratori generali di tutte le Corti d’Appello. Le riunioni sono propedeutiche a una circolare sugli uffici inquirenti che, per Legnini, dovrebbe cercare soluzioni alle «numerose patologie», in particolare rispetto alla tutela del segreto d’indagine. Ma visto che dai pm di tutta Italia sale il grido d’allarme per gli effetti sulle norme che di fatto impongono alla polizia giudiziaria la violazione del segreto, è chiaro che la richiesta dei magistrati sarà innanzitutto una: il Csm si unisca a noi nell’invitare il governo a rivedere quelle norme. Richiesta destinata a cadere nel vuoto? Non è detto. L’esecutivo su altri versanti ha mostrato di tenere in gran conto il parere della magistratura inquirente impegnata “sul campo”. Lo ha fatto, di recente, in vista dell’emanazione delle nuove regole sulle intercettazioni. Prima di arrivare allo schema inserito nel ddl penale, il capo di Gabinetto del guardasigilli Andrea Orlando, Giovanni Melillo, ha incontrato più volte una delegazione di procuratori della Repubblica di cui hanno fatto parte tra gli altri Armando Spataro (Torino) e Giuseppe Pignatone (Roma). E molta attenzione aveva avuto, il ministro della Giustizia, per le circolari diffuse dai capi di una ventina di uffici inquirenti per garantire la riservatezza delle intercetta- zioni. L’esecutivo potrebbe dunque ascoltare i pm e correggere il famigerato provvedimento: per la precisione il decreto legislativo 167 dell’agosto 2016 che, nascosto al quinto comma dell’articolo 18, stabilisce l’obbligo per i vertici di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza di dare ordine affinché «i responsabili di ciascun presidio trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria». Non solo per l’avvio ma anche per «tutto ciò che rappresenta uno sviluppo» e «fino alla conclusione dell’indagine preliminare». Alla fine il governo dovrebbe trovare una linea di mediazione. Altrimenti ogni pretesa di maggiore riservatezza sulle indagini rischia di sbattere contro obiezioni analoghe a quelle di Woodcock: «Solo un cretino potrebbe bruciar- si l’indagine con la pubblicazione di atti altrimenti inconoscibili all’indagato: il problema è quel decreto». Il procuratore di Torino Armando Spataro ha già messo per iscritto il problema in una direttiva rivolta ai propri sostituti e inviata per conoscenza anche al ministero della Giustizia. Nella disposizione Spataro invita i suoi pm a «comunicare motivatamente i casi in cui ritengano di dover segnalare» alla pg «il rispetto assoluto del segreto» anche nei confronti delle «rispettive ‘ scale gerarchiche’». In tutti quei casi, lo stesso Procuratore di Torino ha previsto di invitare la polizia giudiziaria a «comunicare formalmente» di «non poter aderire alla richiesta» perché vincolata dal decreto sulle informative. In tal modo lo stesso procuratore potrebbe sollevare «conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato» davanti alla Corte costituzionale. Un’estrema ratio. Che il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, in una riunione di inizio febbraio, ha condiviso con i capi di tutte le altre Procure ordinarie del distretto di Torino, che hanno “replicato” la direttiva Spataro. Quest’ultimo e lo stesso Saluzzo hanno trasmesso il testo anche alla Procura generale della Cassazione e al Csm. Non a caso nell’intervento in plenum di mercoledì scorso Legnini ha ricordato che Saluzzo e Spataro hanno espresso «osservazioni critiche» e sollecitato «l’apertura di una pratica». Detto fatto: lo stesso vicepresidente del Csm ha investito sul punto la Sesta e la Settima commissione. Quando giovedì 16 i capi degli uffici, incontreranno l’organo di autogoverno, il lavoro delle commissioni non sarà ancora avviato. Ma l’esito pare segnato: far arrivare, e in fretta, l’invito all’esecutivo affinché corregga il decreto sull’obbligo di informare le scale gerarchiche (e quindi, potenzialmente, lo stesso governo, come potrebbe essere tranquillamente avvenuto, norme alla mano, nel caso Consip). La modifica potrebbe far decadere l’obbligo nei casi in cui il pm lo chieda. In modo da non violare il principio, indirettamente sancito dalla Costituzione, secondo cui coordinare le indagini è compito che spetta ai magistrati, non ai corpi di polizia. Basterà a convincere l’esecutivo? Si vedrà. Se non bastasse, rischia davvero di doverci pensare la Consulta.

V COME MAFIA DELLA VIOLENZA E DEGLI OMICIDI DI STATO.

Uno Stato di violenza, scrive Checchino Antonini il 18 ottobre 2018 su Left. All’alba del 22 ottobre 2009 muore, paralizzato e disidratato, Stefano Cucchi, arrestato sei giorni prima per una ventina di grammi di hashish. Le carte della prima inchiesta, che rinviò a giudizio guardie carcerarie e sanitari del Pertini, dicevano già che c’erano questioni da chiarire rispetto alle ore in cui il giovane era stato nelle mani dei carabinieri. Ma ci vorranno nove anni perché venissero alla luce il pestaggio e i nomi dei carabinieri picchiatori. Se c’è una novità in questa storia è quella che spiega a Left Fabio Anselmo, il più famoso avvocato dei casi di “malapolizia”: «È la prima volta che a parlare è uno dei protagonisti diretti». Si tratta di Francesco Tedesco. Da imputato di omicidio preterintenzionale si è trasformato in grande accusatore dei colleghi coimputati. Però nove anni dopo. Scrisse un rapporto proprio il giorno in cui seppe della morte di Stefano, ma lo insabbiarono. È stata la determinazione di Giovanni, Rita e Ilaria, padre, madre e sorella di Cucchi, a trasformare un dolore privato in una storia condivisa. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Cucchi, o Aldrovandi e Uva, Budroni, Magherini? Prendiamo Ilaria. Ilaria che buca lo schermo. Come Salvini, al contrario però di Salvini. Più come Mimmo Lucano. L’Italia è un Paese spaccato, come raccontano le piazze di questi giorni. È la linea etica: i solidali e gli ostili, gli ostili contro i solidali. E in mezzo, certo, gli indifferenti, che però sono più amici degli ostili. «Queste zecche del cazzo… speriamo che muoiano tutte… Intanto, uno a zero per noi», si disse in questura, a Genova, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani mentre migliaia di agenti di ogni corpo violentavano i manifestanti. E i cellulari dei celerini squillavano cantando Faccetta nera. Sulle loro chat si possono leggere chicche come: «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio da celerino». Ecco, quando parliamo di Cucchi parliamo anche della persistente subcultura fascistoide dentro settori di forze armate e di polizia. E i carabinieri che lo avrebbero pestato se ne vantavano al telefono: «Quel drogato di merda». Giovanardi dice lo stesso ma in modo più elegante. Ma il succo è sempre quello. Drogati di merda, immigrati di merda, poveri di merda. Giovanardi è anche l’autore, con Fini, della peggiore legge sulle droghe mai stata in vigore in Italia: ha riempito le galere e le tasche delle cosche. Quando…

Violenza della polizia, scrive ita.anarchopedia.org.

Brutalità poliziesca. Seppur l'uso della forza da parte delle forze di polizia e dell'esercito venga strettamente regolamentato dalle leggi, esistono prove in cui gli stessi hanno pesantemente abusato dei loro poteri: si va dai "semplici" pestaggi alla violenza durante manifestazioni ed eventi sportivi, sino a veri e propri casi di omicidi; tutti questi abusi, talvolta sono stati compiuti da singole individualità  (quelle che ipocritamente i media chiamano "mele marce"), talvolta invece si è trattato di vere e proprie operazioni illegali che hanno goduto dell'appoggio esterno di alti funzionari dello Stato e della classe politica. In tutti i casi essi sono il risultato di un'educazione e di un addestramento che tende a disumanizzare e a considerare pericolosi per l'ordine sociale gli antagonista, i ribelli, gli emarginati, i carcerati, ecc. In questo capitolo verranno sinteticamente descritti significativi episodi di violenza che hanno visto coinvolti le forze di polizia e dell'esercito. Riguardo alle violenze compiute da uomini dell'esercito, saranno citate solo quando compiute durante compiti di polizia, ovvero quando l'esercito è stato utilizzato come mezzo repressivo dell'antagonismo sociale.

Episodi recenti. Recentemente sono saliti alla ribalta della cronaca diversi casi di omicidio compiuti dalle forze di polizia:

Marcello Lonzi, ucciso nel carcere di Livorno l'11 luglio 2003;

Federico Aldrovandi, assassinato il 25 settembre 2005;

Riccardo Rasman, morto a a Trieste il 27 ottobre 2006;

Aldo Bianzino, trovato morto nel carcere di Perugia il 14 ottobre 2007

Gabriele Sandri, ucciso da un “colpo accidentale” l'11 novembre 2007;

Giuseppe Uva, violentato e ucciso in caserma il 14 giugno del 2008;

Stefano Cucchi, ucciso durante custodia cautelare il 22 ottobre 2009;

La polizia ha compiuto gravi atti di violenza in diversi momenti dell'epoca a noi recente, i più brutali sono stati quelli compiuti durante il G8 di Genova del 2001: omicidio di Carlo Giuliani, violenze e torture alla caserma Bolzaneto e alla scuola Diaz. Sono diventati di dominio pubblico nuovi e diversi episodi che hanno certificato l'uso della tortura da parte delle forze dell'ordine per estorcere confessioni. In particolare essa fu utilizzata durante gli interrogatori di alcuni veri o presunti brigatisti ma anche contro detenuti comuni. Gravissimi episodi di violenza poliziesca furono ancora messi in atto durante diverse manifestazioni sportive o il 16 marzo 2003, quando gli antifascisti accorsi all'ospedale S. Paolo di Milano per avere notizie di Davide Cesare, noto Dax, accoltellato a morte da simpatizzanti neofascisti, furono pesantemente e assurdamente caricati dalle forze dell'ordine. 

Elenco di (soltanto alcuni) ragazzi morti per mano dello stato:

Riccardo Rasman, 34 anni, muore il 27 ottobre 2006, nel suo appartamento a Trieste: ammanettato a terra, prono, con le caviglie legate da un fil di ferro, ha un arresto respiratorio. La polizia era intervenuta a seguito della segnalazione di alcuni vicini perché Riccardo teneva il volume della musica troppo alto e aveva lanciato due petardi nella corte interna dello stabile;

Giulio Comuzzi, 24 anni, muore suicida il 28 febbraio 2007 in un Centro di riabilitazione mentale di Trieste. Secondo il padre, parte di responsabilità per il gesto del figlio sarebbero imputabili ai medici che lo avevano in cura per un problema psichiatrico;

Federico Aldrovandi, studente ferrarese di 18 anni. Il 25 Settembre 2005 una volante sarebbe stata avvertita da una donna preoccupata dalla presenza di un ragazzo che, forse, camminava in modo strano, forse cantando. Quando arrivò la volante seguì una colluttazione. All'arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena, era incosciente e non rispondeva". Il giovane morì sul posto. Secondo un'indagine medico–legale dall'esame autoptico la causa ultima di morte sarebbe stata “un'anossia posturale”, dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l'immobilizzazione;

Manuel Eliantonio, 22 anni, muore il 25 luglio 2008, nel carcere Marassi di Genova, coperto di lividi e di segni di violenze, ufficialmente dopo aver inalato del gas butano. Stava scontando una condanna a 5 mesi per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. La sua pena avrebbe dovuto terminare il 4 settembre;

Marcello Lonzi, 29 anni, muore l’11 luglio 2003 nel carcere di Livorno: sarebbe deceduto per collasso cardiaco, dopo essere caduto battendo la testa. La madre non crede a questa ricostruzione e sospetta si sia trattato di un omicidio, anche perché il corpo del figlio era coperto di lividi;

Stefano Cucchi, 31 anni, muore il 22 ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma, dopo essere passato per il Tribunale, il carcere di Regina Coeli e l’Ospedale Fatebenefratelli. Otto giorni fatali durante i quali la famiglia ha tentato invano di mettersi in contatto con il proprio caro e con i medici che lo avevano in cura;

Aldo Bianzino, 44 anni, muore il 14 ottobre 2007, nel carcere “Capanne” di Perugia, dove era detenuto da meno di 48 ore. L’autopsia fa risalire le cause della morte a un aneurisma cerebrale. Incensurato, pacifista, di professione falegname, lascia la moglie, anch'essa imputata e che morirà di lì a poco, e un figlio, Rudra, ora diciassettenne, senza più una famiglia;

Stefano Consiglio, 16 anni, il 16 aprile 1989 fu ucciso da un colpo di Beretta 92F esploso da un poliziotto che lo aveva inseguito le vie di Brancaccio (quartiere di Palermo), dopo averlo visto rubare un'autoradio. Colpito con un colpo a bruciapelo alla testa, morirà tre giorni dopo in ospedale;

Gabriele Sandri, 28 anni, muore l’11 novembre 2007 in un Autogrill dell’autostrada A1, dove, dopo un accenno di rissa tra tifoserie opposte, la polizia stradale interviene e un agente spara due colpi di pistola a grande distanza colpendo Gabriele al collo mentre si trova all’interno di un’auto;

Stefano Frapporti, 50 anni muore suicida il 21 luglio 2009 nel carcere di Rovereto (TN). Era un muratore provetto e stimato. Con la legge non aveva mai avuto problemi, fino a quando una pattuglia di Carabinieri lo ferma, contestandogli una manovra errata in bicicletta. Gli perquisiscono la casa, dove gli trovano dell’hashish e lo arrestano. Il giorno stesso viene rinvenuto morto, impiccato in cella;

Simone La Penna, 32 anni, muore il 25 novembre 2009 nel carcere di Regina Coeli (Rm). Era in carcere per reati legati alla droga e soffriva di un’anoressia nervosa che gli aveva fatto perdere oltre 20 chili di peso in due mesi. A Regina Coeli, dove non poteva essere curato, era arrivato dal reparto medico per detenuti dell’ospedale “Belcolle” di Viterbo;

Katiuscia Favero, 30 anni, il 16 novembre 2005 viene ritrovata impiccata con un lenzuolo ad una recinzione, nel giardino interno dell’Opg di Castiglione delle Stiviere (Mn): è un suicidio, secondo gli investigatori, la madre però non crede a questa versione: “Voglio sapere cosa hanno fatto a mia figlia. Io non credo che si sia suicidata, sospetto che sia stata uccisa”;

Aldo Scardella, 24 anni, muore suicida il 2 luglio 1986 nel carcere Buoncammino di Cagliari. Era stato arrestato il 29 dicembre 1985, dopo una rapina in un market nel corso della quale perse la vita il titolare del negozio. Dieci anni dopo la sua morte, nel 1996, altre persone sono state condannate per quella rapina e quell’omicidio. Aldo era stato arrestato sulla base di sospetti infondati e messo in isolamento dove si è tolto la vita prima di essere processato. A tutt'oggi la famiglia attende di avere spiegazioni su alcune circostanze misteriose legate alla sua morte, e di un pronunciamento postumo di innocenza.

Giuliano Dragutinovic, 24 anni, muore il 7 marzo 2009 nel carcere di Velletri (Rm). Sembra si sia ucciso impiccandosi, ma tante sarebbero le incongruenze che portano i suoi famigliari a dubitare di una tale ricostruzione;

Riccardo Boccaletti, 38 anni, muore il 24 luglio 2007 nel carcere di Velletri. Era detenuto in attesa di giudizio per reati legati alla droga. Dopo il suo ingresso in carcere ha cominciato ad accusare inappetenza, vomito, astenia e progressivo peggioramento anoressico, arrivando a perdere oltre 30 chili di peso in pochi mesi. Nonostante le sue scadenti e precarie condizioni di salute, nei suoi confronti non sono state approntati tutti quegli interventi specialistici che il grave e disperato quadro clinico avrebbe richiesto.

Aiuto, ho un figlio”: la storia di Riccardo Magherini, morto durante (e per) un fermo dei carabinieri. La notte del 3 marzo 2014, Riccardo Magherini, ex promessa del calcio e padre di un bimbo di due anni, muore stroncato da un arresto cardiaco mentre i carabinieri lo tengono bloccato a terra. Un film già visto. Come Federico Aldrovandi anche, ‘Richy’ è morto per ‘asfissia posturale’ mentre gridava: “Aiuto! Ho un figlio!”. I segni sul suo corpo, però, raccontano di violente percosse ricevute proprio mentre era immobilizzato e inoffensivo, scrive su FanPage il 25 settembre 2018 Angela Marino. "Aiuto! Aiuto! Sto morendo!". Quella notte di marzo del 2014, Riccardo Magherini, ex promessa della Fiorentina e papà di un bimbo di due anni, correva per le strade di Firenze in preda alla paura di morire. E alla fine è morto. Tra le mani di tre carabinieri. Riccardo, 39 anni, si era separato da poco dalla moglie Rosangela e aveva preso in affitto una stanza a borgo San Frediano. La notte di domenica 3 marzo era uscito a cena con degli amici, era sereno. Esce a passeggiare per strada, ma dentro sta montando una paura irrazionale che qualcuno voglia fargli del male. Un terrore incontrollabile che diventa paranoia quando, a bordo del taxi che lo sta portando a casa, perde la testa quando il tassista non svolta nella strada da lui indicata. Si lancia fuori dall'auto gridando aiuto e piomba in una pizzeria del quartiere San Frediano, dove prende un cellulare a un cameriere e scappa. Invoca disperatamente aiuto finché non si imbatte in due carabinieri che lo trattengono mentre lui continua ad agitarsi, allora chiamano rinforzi. Nel quartiere le finestre si illuminano, chi è stato svegliato da quelle grida disperata si affaccia alle finestre, alcuni cominciano a riprendere la scena con il cellulare, perché qualcosa, è evidente, non va. I militari lo hanno ammanettato prono e gli sferrano calci nell'addome, uno sta a cavalcioni su di lui, che continua a invocare aiuto: "vi prego, ho un figlio!". Dopo diversi minuti arriva un'ambulanza – senza medico – poi ne arriva una seconda, ma ormai è troppo tardi. Qui comincia il dramma della famiglia Magherini. Prima lo choc di aver perso un figlio – che godeva ottima salute e non aveva mai dato segnali di malessere – poi la costernazione di apprendere che ciò sarebbe avvenuto per ‘intossicazione da cocaina e per asfissia'. Questa la spiegazione data loro sulle prime. E quei lividi sul corpo di Richy? Le ecchimosi sul volto e sul corpo come si spiegano? A turbare maggiormente la famiglia, spunta uno dei video che i residenti hanno girato con i telefonini. Si sentono le grida disperate di Riccardo che continua a chiedere aiuto, pur ammanettato e immobilizzato. È un colpo al cuore. Intanto la Procura di Firenze apre un'inchiesta, ma l'unico indagato è proprio Magherini, per il furto del cellulare che ha strappato al cameriere per chiedere aiuto. Non è stata la cocaina – che pure aveva assunto in una quantità che non avrebbe potuto causare la morte – a uccidere Riccardo, ma, come l'autopsia appurerà l'asfissia posturale. In poche parole, il torace di Richy è stato schiacciato con veemenza sull'asfalto impedendogli di respirare, un film già visto. A nove anni dalla morte di Federico Aldrovandi, la morte di un uomo innocente e incensurato nelle mani dei carabinieri, diventa nuovamente un caso. Fabio Anselmo, lo stesso avvocato di Aldro e del caso Cucchi, assume l'incarico della parte civile. Le foto e i video del corpo martoriato finiscono in Senato, dove la vicenda viene denunciata dal presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e un anno dopo, nell'inchiesta per omicidio colposo, finalmente appaiono degli indagati. Sono le tre volontarie della Croce Rossa intervenute quella notte e i carabinieri Stefano Castellano, Davide Ascenzi, Agostino Della Porta e Vincenzo Corni. Il processo si conclude con la condanna in primo grado, confermata in appello, a otto mesi per ‘cooperazione in omicidio colposo' per i soli carabinieri. Nessuna responsabilità viene riconosciuta invece alle volontarie della Croce rossa. In poche parole i giudici riconoscono che le manovre di contenimento di Riccardo hanno contribuito al decesso, ma non si dà peso ai calci sferrati mentre era ammanettato e inoffensivo. Per questo, dopo il verdetto d'appello del 2017, l'avvocato Anselmo ha chiesto l'annullamento della sentenza e un nuovo processo a carico dei carabinieri, per omicidio preterintenzionale, "che contempli l'evento morte come conseguenza del reato di percosse".  "La verità noi la sappiamo – ha detto fuori dall'aula Rosangela – il processo è per nostro figlio, ogni giorno chiede del suo babbo".

Tarzan si è impiccato nel carcere di Trieste. È il quarantacinquesimo suicidio dell’anno: aveva problemi psichiatrici e doveva essere trasferito, scrive Damiano Aliprandi il 14 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Ennesimo suicidio in carcere che riguarda la situazione psichiatrica, oramai ingestibile, dei detenuti. La tragedia è avvenuta martedì sera nell’istituto penitenziario “Coroneo” di Trieste. Si è suicidato, impiccandosi, in cella di isolamento dove era finito per motivi disciplinari. Veniva soprannominato “Tarzan”, un uomo, 46enne, di origini bosniache e arrestato per rapina. Soffriva di problemi psichiatrici, per questo non era un tipo tranquillo. Qualche giorno prima aveva innescato un incendio e aggredito un agente mandandolo in ospedale. Non è stata la prima volta in cui avrebbe dato segni di squilibrio. Selimovic, questo era il suo cognome, nel 2014 a Cagliari per due settimane aveva terrorizzato medici e pazienti di un ospedale dove ha fatto irruzione ogni giorno armato di coltello per minacciare i medici e farsi consegnare soldi e farmaci. Viene tratto in arresto, poi scarcerato e indagato in stato di libertà. Niente da fare, ricomincia. Il 27 marzo del 2017, questa volta entra all’ospedale Cattinara di Trieste: aveva prima infastidito un ricoverato e poi gli aveva strappato di mano il cellulare scappando. Il ricoverato lo aveva inseguito e recuperato il telefono, ma Tarzan lo aveva colpito con una sedia. Subito dopo, in un’altra zona dell’ospedale ha divelto sedie e suppellettili fino all’arrivo della Polizia che lo ha arrestato per rapina e danneggiamenti. Rinchiuso al Coroneo da un anno e mezzo è stato ristretto nelle celle di isolamento del reparto psichiatrici, perennemente imbottito di psicofarmaci – pare che avrebbe subito almeno un Tso durante questa detenzione -, fino a mercoledì sera quando si è suicidato. La notizia della tragedia ha colpito profondamente tanto gli operatori carcerari quanto i detenuti, pare avvisati il mattino successivo dagli addetti alla distribuzione della colazione. La direzione del carcere aveva fatto domanda per il trasferimento del bosniaco in un istituto adatto e attrezzato per le persone con patologie psichiche che necessitano di un’assistenza sanitaria specifica e costante. Il Coroneo era quindi in attesa di una risposta dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Troppo tardi. L’assistenza psichiatrica in carcere è uno dei problemi irrisolti. Tanti, troppi detenuti soffrono di questa patologia mentale e non tutti gli istituti penitenziari sono adatti per contenerli. Gli agenti penitenziari, d’altronde, non possono gestire una situazione che è di competenza degli operatori sanitari, medici e psichiatrici. Qui si aggiunge il discorso complessivo dell’assistenza sanitaria. Non a caso, Franco Corelone, il garante dei detenuti della regione Toscana, ha indetto tre giorni di digiuno per porre l’attenzione al grave problema della salute mentale in carcere. Ha puntato l’indice alla riforma dell’ordinamento penitenziario approvato dal governo legastellato che non ha contemplato pienamente i decreti della riforma originaria. Tra questi l’equiparazione tra la salute fisica con quella mentale e la realizzazione delle sezioni psichiatriche dedicate nei penitenziari. Poi c’è il problema delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie), già piene, dove rischiano di diventare una discarica e quindi delle mini Opg. Con l’ennesima tragedia siamo giunti a 45 sucidi dall’inizio dell’anno, per un totale di 105 morti. Il penultimo suicido è avvenuto a settembre nell’ospedale di Ponticelli. Si chiamava Giovanni Guglielmo, 32enne residente a Pozzuoli, finito in carcere dopo aver ucciso la madre a coltellate nel giugno scorso. Aveva dei profondi disturbi mentali. Si è alzato dal letto, ha chiesto agli agenti della Polizia penitenziaria che lo piantonavano di poter uscire per fumare una sigaretta ed è volato giù nel vuoto battendo violentemente la testa sul selciato. Morto sul colpo. È stata informata la Procura, ed è toccato al procuratore aggiunto e vicario, Nunzio Fragliasso, il doloroso compito di informare il padre della vittima, il giudice Gianpaolo Guglielmo. Per lui una tragedia nella tragedia: dopo la perdita della moglie, ora arriva anche quella del figlio. 

Altri due suicidi in pochi giorni nell’inferno di Poggioreale. Sono 48 dall’inizio dell’anno, molti sono stati evitati grazie all’intervento degli agenti penitenziari, scrive Damiano Aliprandi il 17 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Ieri mattina un 35 enne si è impiccato, nel carcere di Poggioreale, a Napoli. Si chiamava Diego Cinque e avrebbe dovuto finire di scontare la pena del 2023. Con questa ennesima tragedia siamo giunti – incrociando i dati di ristretti orizzonti con gli ultimi sviluppi – a 48 suicidi dall’inizio dell’anno, su un totale di 110 morti. Solo a Poggioreale, con la morte di ieri, siamo arrivati a cinque suicidi durante questo 2018 che ancora si deve concludere. Sempre in Campania, spunta un altro suicidio che non è stato diffuso da nessuna agenzia stampa o dai comunicati – di solito sempre attenti – dei sindacati di polizia. Parliamo di un 30enne che si è impiccato, tre giorni fa, in isolamento al carcere di Carinola (Caserta). Per una rissa, avvenuta a Poggioreale, il ragazzo è stato raggiunto dal provvedimento disciplinare, il 14 bis, ed è stato trasferito al penitenziario di Carinola. Raggiunto telefonicamente da Il Dubbio, il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello spiega che «per certi versi, il 14 bis è peggiore del 41 bis, perché durante la detenzione non possiedi nulla, nemmeno un televisore per poterti distrar- re». A proposito dei suicidi, il Garante, spiega che le cause sono molteplici: «Il carcere è un luogo che deprime l’animo umano, questa compressione dei loro diritti come la limitazione della libertà di movimento, gli spazi minimi, i disagi psichici, il personale insufficiente, anche i ritardi della magistratura di sorveglianza comportano queste scelte drammatiche». A proposito di Poggioreale, dove c’è il triste primato dei suicidi, Ciambriello spiega che la causa è soprattutto il sovraffollamento: «Ci sono spazi minimi e si vive anche in cinque dentro una cella». E aggiunge: «C’è anche il problema della chiusura totale delle celle con la sorveglianza dinamica quasi inesistente». Il Garante, a fronte di questa escalation di suicidi, sta pensando, assieme al suo staff, di costituirsi come parte offesa per tutti le indagini relative ai suicidi che avvengono nella sua regione, così come sta facendo il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. «Ma – spiega Ciambriello – bisogna trovare delle risposte culturali, formative e a carattere legislativo come l’implementazione delle pene alternative. Cosa non avvenuta con l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario». Il garante campano sottolinea anche l’importanza del personale della polizia penitenziaria che negli anni ha sventato migliaia di tentativi di suicidio. «Solo in Campania – spiega -, l’anno scorso gli agenti hanno sventato 77 tentativi di suicidio, quest’anno già più di 50». I numeri, se non ci fosse stato l’intervento della polizia, sarebbero diventati altissimi. Una vera e propria strage: nel 2017 il totale è stato di 52 detenuti che si sono uccisi, mentre il trend di quest’anno ancora non concluso è decisamente in aumento. Sì, perché al 3 ottobre dell’anno scorso, i suicidi risultavano 45. Quest’anno, invece, siamo già a 48.

Mille suicidi dal 2000, quando il carcere fa venir voglia di morire, scrive il 17 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". Per l’osservatorio Antigone le condizioni detentive sono all’origine di molti suicidi: spazi minimi, disagi psichici sottovalutati, personale insufficiente per i controlli. I numeri, monitorati dal 2000, sono in calo ma restano una sconfitta per lo Stato. Di solito avviene di notte. Nessuno si accorge di nulla per ore finché non si alza una voce a dare l’allarme. Chi si suicida in carcere non fa rumore, se ne va nel silenzio di una cella, all’improvviso. Dal Duemila sono 2.830 le morti avvenute nelle strutture penitenziarie italiane, tra queste 1.030 sono suicidi. Quasi la metà. Soltanto nei primi nove mesi di quest’anno siamo a 44 detenuti che hanno scelto di togliersi la vita secondo il registro del Centro Studi Ristretti Orizzonti. Il suicidio di un detenuto è un evento traumatico che non coinvolge solo la persona che sceglie di compiere l’estremo gesto. È una tragedia per tutto il carcere. E ha un effetto domino. «L’evento - spiega Claudio Paterniti Martello, sociologo della scuola di alti studi di Parigi e membro dell’osservatorio nazionale di Antigone - è traumatico sotto più aspetti. È un fallimento per la struttura penitenziaria incapace di prevenire l’azione, è un trauma per l’agente che trova il detenuto e sconvolge la vita dei compagni di cella. Oltre al dramma di una vita umana persa». Anche perché, al netto dei protocolli di sicurezza, è difficile prevedere un suicidio. «In genere i detenuti che scelgono di suicidarsi sono uomini e le modalità sono tre: per impiccagione, inalando gas o tagliandosi con le lame da barba. Servirebbe un controllo 24 ore su 24», aggiunge. Ma il problema è che spesso nelle strutture manca il personale. «La situazione varia da carcere a carcere ma quando gli agenti o i medici sono troppo pochi rispetto alla popolazione carceraria il disastro è annunciato». A rischiare sono i detenuti più fragili. Ogni gesto estremo ha una storia a sé ma è innegabile che sia legato alla drammaticità della reclusione, all’esisto delle condanne, alla speranza che se ne va e alla perdita degli affetti. «Le ragioni - prosegue Martello - che spingono al suicidio in cella sono innumerevoli ma sono spesso riconducibili alle condizioni di detenzione e al disagio che ne deriva. Tanto che nelle strutture modello come Bollate simili episodi sono rari». I rischi aumentano quando entrano in cella i detenuti cosiddetti «fragili». «Mi riferisco in particolare a persone con disturbi mentali, sono più del 70 per cento in carcere, o agli stranieri che, non avendo legami o affetti sul territorio, vivono la reclusione come una condizione doppiamente alienante. In questi casi il rischio di suicidio è particolarmente elevato ancor più se si tratta della prima volta in carcere». Lo shock dell’ingresso in cella è infatti tra i più difficili da superare. «Molti detenuti non riescono a tollerare la compressione dei loro diritti e specialmente la limitazione della libertà di movimento». In genere, spiegano da Antigone, nelle carceri dove il sovraffollamento si unisce e combina con altri fattori, come il mancato rispetto della regola dei tre metri quadrati per ogni soggetto, la chiusura totale delle celle ad esclusione delle ore d’aria e la mancanza di attività formative e lavorative, è più facile che si verifichino gesti estremi. Guardando ai numeri dei suicidi in cella emerge come siano diminuiti rispetto a dieci anni fa. Uno dei motivi è la sentenza Torreggiani. La Corte europea dei diritti umani nel 2013 ha infatti condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) criticando aspramente le condizioni di detenzione. «In precedenza - dice Martello - la situazione era disumana. Oggi che, a fatica, si cerca di proporre un modello di struttura penitenziaria più aperto le condizioni sono leggermente migliorate. Anche se la questione è lontana dall’essere risolta, il carcere resta un posto che deprime l’animo e dove i più fragili rischiano di essere schiacciati». L’allerta rimane quindi alta. Soprattutto perché, se è vero che i numeri dei suicidi sono rimasti costanti - attestandosi attorno ai 50 all’anno - negli ultimi anni sono aumentati invece gli atti di autolesionismo. E a compierli sono nel 70 per cento dei casi gli stranieri, un terzo dei detenuti. C’è chi si taglia, chi si ustiona, chi si procura fratture. Secondo il Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, solo nel primo semestre del 2018 ci sono stati nelle carceri italiane 5.157 atti di autolesionismo. E da anni le associazioni che monitorano le condizioni di vita negli istituti sottolineano come non si debba sottovalutare simili atti dato che possono sfociare in tentativi di suicidio. «I gesti autolesivi rappresentano l’esternazione di un disagio utilizzato come strumento di comunicazione di quei soggetti fragili che utilizzano il corpo come mezzo e messaggio», spiega Martello. Finché quel disagio resterà inascoltato il suicidio rimarrà un rischio concreto. «Dobbiamo ricordarci che ogni morte in cella è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità. Soprattutto se si crede nella funzione rieducativa della pena».