Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL COGLIONAVIRUS
OTTAVA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
GLI ESPERTI
INDICE PRIMA PARTE
IL VIRUS
Introduzione.
Le differenze tra epidemia e pandemia.
I 10 virus più letali di sempre.
Le Pandemie nella storia.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
La Temperatura Corporea.
L’Influenza.
La Sars-Cov.
Glossario del nuovo Coronavirus.
Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.
Il Coronavirus. L’origine del Virus.
Alla ricerca dell’untore zero.
Le tappe della diffusione del coronavirus.
I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.
I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.
A Futura Memoria.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.
Fattori di rischio.
Cosa risulta dalle Autopsie.
Gli Asintomatici/Paucisintomatici.
L’Incubazione.
La Trasmissione del Virus.
L'Indice di Contagio.
Il Tasso di Letalità del Virus.
Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.
Morti: chi meno, chi più.
Morti “per” o morti “con”?
…e senza Autopsia.
Coronavirus. Fact-checking (verifica dei fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.
La Sopravvivenza del Virus.
L’Identificazione del Virus.
Il test per la diagnosi.
Guarigione ed immunità.
Il Paese dell’Immunità.
La Ricaduta.
Il Contagio di Ritorno.
I preppers ed il kit di sopravvivenza.
Come si affronta l’emergenza.
Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?
Lo Scarto Infetto.
INDICE SECONDA PARTE
LE VITTIME
I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.
Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.
Eroi o Untori?
Contagio come Infortunio sul Lavoro.
Onore ai caduti in battaglia.
Gli Eroi ed il Caporalato.
USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.
Covid. Quanto ci costi?
La Sanità tagliata.
La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.
Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?
Una Generazione a perdere.
Non solo anziani. Chi sono le vittime?
Andati senza salutarci.
Spariti nel Nulla.
I Funerali ai tempi del Coronavirus.
La "Tassa della morte".
Epidemia e Case di Riposo.
I Derubati.
Loro denunciano…
Le ritorsioni.
Chi denuncia chi?
L’Impunità dei medici.
Imprenditori: vittime sacrificali.
La Voce dei Malati.
Gli altri malati.
INDICE TERZA PARTE
IL VIRUS NEL MONDO
L’epidemia ed il numero verde.
Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri?
Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.
Il Coronavirus in Italia.
Coronavirus nel Mondo.
Schengen, di fatto, è stato sospeso.
Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.
…in Africa.
…in India.
…in Turchia.
…in Iran.
…in Israele.
…nel Regno Unito.
…in Albania.
…in Romania.
…in Polonia.
…in Svizzera.
…in Austria.
…in Germania.
…in Francia.
…in Belgio.
…in Olanda.
…nei Paesi Scandinavi.
…in Spagna.
…in Portogallo.
…negli Usa.
…in Argentina.
…in Brasile.
…in Colombia.
…in Paraguay.
…in Ecuador.
…in Perù.
…in Messico.
…in Russia.
…in Cina.
…in Giappone.
…in Corea del Sud.
A morte gli amici dell’Unione Europea.
A morte gli amici della Cina.
A morte gli amici della Russia.
A morte gli amici degli Usa.
INDICE QUARTA PARTE
LA CURA
La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
L'Immunità di Gregge.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.
Meglio l'App o le cellule telefoniche?
L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
Epidemia e precauzioni.
Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.
La sanificazione degli ambienti.
Contagio, Paura e Razzismo.
I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?
Tamponi negati: il business.
Il Tampone della discriminazione.
Tamponateli…non rinchiudeteli!
Epidemia e Vaccini.
Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.
Il Costo del Vaccino.
Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.
Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..
Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.
Gli anticorpi monoclonali.
Le Para-Cure.
L’epidemia e la tecnologia.
Coronavirus e le mascherine.
Coronavirus e l’amuchina.
Coronavirus e le macchine salvavita.
Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.
Attaccati all’Ossigeno.
INDICE QUINTA PARTE
MEDIA E FINANZA
La Psicosi e le follie.
Epidemia e Privacy.
L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.
Epidemia ed Ignoranza.
Epidemie e Profezie.
Le Previsioni.
Epidemia e Fake News.
Epidemia e Smart Working.
La necessità e lo sciacallaggio.
Epidemia e Danno Economico.
La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.
Il Supply Shock.
Epidemia e Finanza.
L’epidemia e le banche.
L’epidemia ed i benefattori.
Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.
Mes/Sure vs Coronabond.
La Caporetto di Conte e Gualtieri.
Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.
I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.
"Il Recovery Fund urgente".
Il Piano Marshall.
Storia del crollo del 1929.
Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.
Un Presidente umano.
Le misure di sostegno.
…e le prese per il Culo.
Morire di Fame o di Virus?
Quando per disperazione il popolo si ribella.
Il Virus della discriminazione.
Le misure di sostegno altrui.
Il Lockdown del Petrolio.
Il Lockdown delle Banche.
Il Lockdown della RCA.
INDICE SESTA PARTE
LA SOCIETA’
Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.
I Volti della Pandemia.
Partorire durante la pandemia.
Epidemia ed animali.
Epidemia ed ambiente.
Epidemia e Terremoto.
Coronavirus e sport.
Il sesso al tempo del coronavirus.
L’epidemia e l’Immigrazione.
Epidemia e Volontariato.
Il Virus Femminista.
Il Virus Comunista.
Pandemia e Vaticano.
Pandemia ed altre religioni.
Epidemia e Spot elettorale.
La Quarantena e gli Influencers.
I Contagiati vip.
Quando lo Sport si arrende.
L’Epidemia e le scuole.
L’Epidemia e la Giustizia.
L’Epidemia ed il Carcere.
Il Virus e la Criminalità.
Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.
Il Virus ed il Terrorismo.
La filastrocca anti-coronavirus.
Le letture al tempo del Coronavirus.
L’Arte al tempo del Coronavirus.
INDICE SETTIMA PARTE
GLI UNTORI
Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?
Un Virus Cinese.
Un Virus Americano.
Un Virus Norvegese.
Un Virus Svedese.
Un Virus Transalpino.
Un Virus Teutonico.
Un Virus Serbo.
Un Virus Spagnolo.
Un Virus Ligure.
Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.
Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.
La Bergamasca, dove tutto si è propagato.
Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.
Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.
Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.
La Caduta degli Dei.
La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
La Televisione che attacca il Sud.
I Mantenuti…
Ecco la Sanità Modello.
Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.
INDICE OTTAVA PARTE
GLI ESPERTI
L’Infodemia.
Lo Scientismo.
L’Epidemia Mafiosa.
Gli Sciacalli della Sanità.
La Dittatura Sanitaria.
La Santa Inquisizione in camice bianco.
Gli esperti con le stellette.
Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.
Le nuove star sono i virologi.
In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…
Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.
Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.
Giri e Giravolte della Scienza.
Giri e Giravolte della Politica.
Giri e Giravolte della stampa.
INDICE NONA PARTE
GLI IMPROVVISATORI
La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.
Un popolo di coglioni…
L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.
Conta più la salute pubblica o l’economia?
Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.
“State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.
Stare a Casa.
Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.
Non comprate le cazzate.
Quarantena e disabilità.
Quarantena e Bambini.
Epidemia e Pelo.
Epidemia e Violenza Domestica.
Epidemia e Porno.
Quarantena e sesso.
Epidemia e dipendenza.
La Quarantena.
La Quarantena ed i morti in casa.
Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.
Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.
Cosa si può e cosa non si può fare.
L’Emergenza non è uguale per tutti.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Dipende tutto da chi ti ferma.
Il ricorso Antiabusi.
Gli Improvvisatori.
Il Reato di Passeggiata.
Morte all’untore Runner.
Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.
INDICE DECIMA PARTE
SENZA SPERANZA
TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE
In che mani siamo!
Fase 2? No, 1 ed un quarto.
Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.
Fase 2? No, 1 e mezza.
A Morte la Movida.
L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.
I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.
“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.
Le oche starnazzanti.
La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.
I Bisogni.
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Non sarà più come prima.
La prossima Egemonia Culturale.
La Secessione Pandemica Lombarda.
Fermate gli infettati!!!
Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.
Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?
Gli Errori.
Epidemia e Burocrazia.
Pandemia e speculazione.
Pandemia ed Anarchia.
Coronavirus: serve uno che comanda.
Addio Stato di diritto.
Gli anti-italiani.
Gli Esempi da seguire.
Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…
I disertori della vergogna.
Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus.
Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.
Grazie coronavirus.
IL COGLIONAVIRUS
OTTAVA PARTE
GLI ESPERTI
· L’Infodemia.
Il conflitto tra idee opposte resuscita la politica. Fausto Bertinotti de il Riformista il 14 Giugno 2020. La convocazione da parte del Governo Conte degli Stati generali induce a riflettere ancora più stringentemente sullo stato della politica, della nostra democrazia e sulla gravità della loro malattia. Difficile sfuggire alla domanda di fondo, se cioè essa sia ancora curabile e, se sì, per quale rottura radicale con l’ordine delle cose esistenti. È difficile intanto, proprio a partire dall’evocazione degli Stati generali, sottrarsi alla famosa formula di Marx, secondo cui nella storia, la prima volta è una tragedia, la seconda è una farsa. In ogni caso, si può annotare che in Francia per passare dagli Stati generali dei rappresentanti dei tre ordini (clero, nobiltà, borghesia) all’Assemblea generale, che avrebbe voluto dar vita alla volontà del popolo, c’è voluta nientemeno che una rivoluzione. Da noi un’inflazione di comitati senza popolo, radunati senza un’ispirazione chiara e dichiarata, sono stati chiamati a far da corona al governo e a fornire una legittimazione tecnico-scientifica alle sue scelte. La politica, svuotata dalle sue caratteristiche principali, che ne fanno il fondamento della vita pubblica e del suo governo, è diventata la grande assente, proprio quando una situazione di emergenza avrebbe richiesto la messa in campo della sua forza e, quando possibile, della sua potenza. Inabissatasi la vera politica, quando riemerge, essa prende la sostanza e la forma di una deforme caricatura. La sua cifra è allora quella che ci appare ora dinnanzi, la forma del litigio che prende il posto della contesa e dell’alternativa; un litigio impotente, quanto permanente, tra governo e opposizione, dentro il governo, dentro le opposizioni, tra lo Stato centrale e le autonomie regionali locali, con gli “esperti” e tra gli “esperti”. È la condizione del tutti-contro-tutti sull’inessenziale, al solo fine di alzare un proprio vessillo da mostrare nella grande giostra delle comunicazioni di massa. Sotto la turbolenza della superficie regna una calma piatta che riveste di sé i drammatici processi materiali in corso, i quali così diventano i nuovi sovrani. Essa inoltre opacizza i conflitti e le intese, insomma le scelte politiche che vengono compiute nel frattempo e con particolare peso nella dimensione europea. Solo così si spiega il caso di un governo come quello in carica, un governo sempre moribondo, ma che non muore mai. Anche il conflitto sociale in questo quadro viene anestetizzato, la drammaticità di tante realtà, a partire da chi si ritrova a dover vivere senza alcun reddito, spunta a fatica, accanto a manifestazioni di cattivo folklore, qualche volta persino osceno, e accanto ad altre confinate nella loro ritualità. C’è anche altro, per fortuna, che si affaccia promettente, prima fra tutti la piazza antirazzista di vicinanza alle possenti manifestazioni negli Usa conto l’infame uccisione di George Floyd, da parte degli agenti di polizia. Ma certo, il conflitto sociale non è protagonista sulla scena pubblica e la politica lo esorcizza. Al contrario, l’orizzonte proposto è quello della tregua sociale e, in politica, dell’unità nazionale. Il governo moribondo non muore anche perché l’unico suo accompagnamento è di ordine evolutivo, una sorta di possibile mutazione nel governo dei capaci e degli onesti, guidati dalle ragioni di una ripresa comandata dal mercato e dall’impresa. La politica, come l’intendenza di de Gaulle, dovrebbe solo seguirle. Sarebbe il primato neoborghese instaurato sul completamento dell’eutanasia della politica, così come si era affermata in tutta la modernità. Non so se essa possegga ancora un residuo di forza per rompere questo cerchio e tornare ad affermarsi, ma se ce l’avesse, dovrebbe al contrario del dissolversi nell’unità nazionale, tornare al classico, tornare alla fonte della sua esistenza, cioè ricominciare a dare vita ad una contesa aperta, comprensibile al “colto e all’inclita”, innervata sulla partecipazione popolare, una contesa tra la sinistra, il centro e la destra, affinché il popolo possa tornare protagonista di una scelta tra opzioni di società diverse, meglio se tra loro alternative. A partire proprio dalla risposta all’emergenza e alla crisi. A partire da queste risposte, dovrebbero prendere corpo e forza le diverse opzioni. Si è affermata a questo proposito una retorica su come il Paese affrontò l’uscita dalla Seconda guerra mondiale con la ricostruzione, si può anche assumere il riferimento storico degli anni Cinquanta, ma la verità in esso contenuta è il contrario di ciò che ci viene strumentalmente proposto. Altro che unità nazionale! Le sinistre vennero cacciate dal governo De Gasperi mentre erano ancora in corso i lavori per la Costituzione della Repubblica. Un intero ciclo politico, dentro il quadro più generale della Guerra fredda nel mondo, fu caratterizzato dallo scontro tra le sinistre e i governi neocentristi con conflitti elettorali portentosi e con un conflitto sociale acutissimo. Nella divisione sindacale, la Cgil di Di Vittorio animò un panorama di lotte sociali con occupazioni di fabbriche e grandi scioperi, accompagnati dalla proposta del Piano del lavoro. La polizia sparava sugli operai. La discriminazione sindacale era un’arma padronale. Ma proprio quelle lotte sociali, lo scontro politico tra sinistra e centro-destra, la presenza nel popolo di una cultura che parlava di una società diversa consentirono di contenere le drammatiche conseguenze sociali delle politiche liberiste e aprire la strada verso un nuovo e diverso ciclo politico, quello degli anni Sessanta. Non si tratta di ripetere una storia conclusa, ma di smentire una narrazione mortifera per la politica dell’oggi. Oggi c’è bisogno di restituire al popolo una possibilità di scelta sulle risposte della crisi e su quale prospettiva di modello economico, sociale ed ecologico avviare. Oscurati nella politica, i conflitti di interessi, di potere, per i diritti, di aspettative di vita sono invece acutissimi nella realtà sociale del Paese. Basterebbe per tutti assumere il prisma delle diseguaglianze. Se non ci si vuole impegnare, come pure si dovrebbe, nell’inchiesta partecipata sul campo, ci si affidi almeno agli ultimi dati dell’Oxfam sul divario intollerabile tra ricchezza e povertà. L’Italia del Coronavirus li sbatte in faccia a tutti come uno scandalo. Se il conflitto standard tra sinistra, centro e destra è uscito dalla politica, esso rivive duramente, sebbene incompiutamente, nella società. Il ritorno al classico chiede questa operazione vitale per la politica, quella di estrarre dalla realtà composita del mondo contemporaneo, dalla realtà dell’economia dello scarto e della disumanizzazione che lo connota, dal nuovo e inedito conflitto tra capitale e lavoro, i materiali da rielaborare in proposte politiche e culturali tra loro diverse. A dire che il conflitto tra capitale e lavoro è tutt’altro che obsoleto, ce lo ricordano ancora in questi giorni non solo Bonomi, ma anche il rapporto Colao, evidenziando così tutto l’arco delle posizioni pro-impresa. Un arco peraltro assai stretto che già lascia vedere le basi fondative di una nuova destra economica. Per rinascere la politica deve riscoprire le ragioni di fondo della contesa che l’ha fatta nascere nella modernità e che solo può dare senso e forza alla sua rinascita. La competizione, il confronto e lo scontro tra ordini di proposte programmatiche di ispirazioni diverse, a partire dalla concretezza drammatica e immediata dell’oggi, come sulle diverse alternative di società per il futuro, sono diventate questioni di vita (la sua rinascita) e di morte (quella già annunciata) della politica. Questo scontro può continuare a chiamarsi il conflitto tra sinistra, centro e destra. Sarebbe un inedito ritorno al classico, al fine di reinventarsi e ricostruirsi, dopo la fine dei due secoli che l’hanno fatta grande. Hic Rhodus, hic salta. Altrimenti la scena resterà occupata da morti che camminano, finché la società civile aprirà essa direttamente un conflitto con la politica.
Monti: "Stati generali? Una Bilderberg dei 5 Stelle..." Pubblicato il: 12/06/2020 da Adnkronos. "Gli Stati generali? Si potrebbero definire la Bilderberg dei 5 Stelle, direi io". Questo il commento ironico del senatore Mario Monti, ospite di Lilli Gruber a "Otto e mezzo" su La7, sugli Stati generali di Villa Pamphili. Quanto a Conte, "non penso che il premier abbia bisogno di fondare un suo partito per restare in politica, è stato presidente del Consiglio per ben due volte senza averne uno" dice Monti.
Il Club Bilderberg di Conte. Andrea Indini il 15 giugno 2020 su Il Giornale. Otto e mezzo. In collegamento c’è Mario Monti che, trattenendo a stento il riso, parla degli Stati Generali indetti dal premier Giuseppe Conte per far ripartire l’economia nostrana. “Li possiamo chiamare la Bilderberg dei Cinque Stelle”. In studio anche Lilli Gruber trattiene a stento la risata. Entrambi, d’altra parte, sanno bene come funzionano le cose quando, una volta l’anno, il club creato nel 1954 dal banchiere statunitense David Rockefeller si riunisce per stabilire le sorti dell’ordine mondiale. Se la ridono, forse, perché lo standing delle conferenze organizzate in questi giorni a Villa Pamphili non eguaglia quelle a cui sono soliti partecipare. Eppure i grillini, che hanno a lungo demonizzato i gruppi di potere e la finanza che si riuniscono al Bilderberg, sono riusciti a replicare l’esperimento. Un luogo appartato (la residenza progettata nel Seicento da Alessandro Algardi e Giovanni Francesco Grimaldi), uno stuolo di boiardi con una sfilza di ricette (e di richieste) e l’estromissione della stampa. Filtra solo quello che deve filtrare. Il resto rimane tra i commensali. Il primo giorno, sabato scorso, ci è toccata la passerella dei vertici europei. Ieri, poi, si sono presi un giorno di pausa. E oggi è stata la volta di Vittorio Colao, capo della task force governativa per la “fase 2″. Domani toccherà alla Confindustria e alle associazioni di categoria. In queste prime ore nessuno ha fatto magie. Dal cilindro magico di Conte non sono uscite sorprese. E molto probabilmente non ne usciranno nemmeno da qui a domenica prossima quando chiuderà i battenti di Villa Pamphili e se ne tornerà a Palazzo Chigi con lo stesso pugno di mosche con cui è partito. I problemi del Paese, al termine di questa scampagnata, saranno tali e quali a quelli che ha lasciato quando l’auto blu l’ha portato fuori dalle mura capitoline. Le decisioni prese (almeno quelle in chiaro) potevano tranquillamente essere trattate nelle sedi istituzionali. È lì, infatti, che devono essere affrontate le crisi. L’emergenza economica, in cui il coronavirus ha gettato l’intero Paese, deve essere risolta al più presto e per farlo non servono le passarelle-show tra le siepi. Il parlamento non è chiuso per ferie, almeno per qualche settimana ancora. Perché il governo non ha scelto di confrontarsi con i parlamentari? Perché non ha scommesso sul dialogo tra maggioranza e opposizione per provare a far ripartire il sistema economico italiano? Forse, sotto sotto, c’è la presunzione di voler fare da solo. La sceneggiata di Villa Pamphili genera tra chi assiste inerme lo stesso scetticismo con cui i grillini sono soliti guardare gli invitati che si rinchiudono negli alberghi affittati per l’occasione dagli organizzatori del Gruppo Bilderberg. Al netto dell’inutilità dell’appuntamento, infatti, fanno sorgere più di un sospetto gli inviti estesi ai vertici di Commissione europea (c’è la presidente Ursula Von der Leyen), Banca centrale europea (c’è la governatrice Christine Lagarde) e Fondo monetario internazionale (c’è la direttrice Kristalina Georgieva). La Troika al gran completo, per intenderci. E qui il dubbio (più che lecito visti i trascorsi a Bruxelles degli ultimi mesi) è che quanto viene suggerito (se non imposto) a Conte non sia esattamente la ricetta migliore per il nostro Paese. A far loro le pulci non ci sarà alcun giornalista. Li hanno tenuti tutti fuori. Alla faccia della trasparenza… e dello streaming.
Il paradosso degli Stati Generali, i grillini alla corte dei poteri forti. Deborah Bergamini su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Nel 2013 i 5Stelle entrarono in Parlamento dicendo di voler disintermediare tutti: stampa, politici, associazioni di categoria, lobby e chi più ne ha più ne metta. Dicevano che erano solo i cittadini a contare, e che loro erano proprio questo, cittadini delegati da altri cittadini. Sono passati 7 anni, e oggi quei cittadini celebrano il loro l’ingresso nell’alta società politica ed economica con un evento, battezzato “Stati Generali dell’Economia”, che sa molto di Gran Ballo dei debuttanti. Sede dell’evento, Villa Doria Pamphilj. La storica residenza seicentesca che un tempo appartenne all’omonima famiglia della nobiltà romana, venne espropriata nel Novecento e in seguito divenne sede di alta rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ad aprire le danze, la Troika. Nulla di male in tutto ciò: è giusto che chi governa crei occasioni per confrontarsi con chi subisce gli effetti delle sue decisioni. Ed è anche un bene che i 5Stelle abbiano capito che a non dare ascolto ai corpi intermedi della società si possono commettere errori fatali. Certo è paradossale, se si pensa a come e perché è nato il Movimento 5Stelle, vedere il loro leader maximo invitare a corte tutti quei poteri forti che un tempo dicevano di voler buttare fuori per sempre dai palazzi della politica. La dura realtà, che ha il nome di emergenza Coronavirus, ha spinto i pentastellati a cambiare il proprio modello decisionale: prima si decideva sulla piattaforma Rousseau, adesso si decide con le task force guidate dai manager internazionali o tra le siepi dei giardini segreti un tempo appannaggio della nobiltà romana. Ma qua l’attenzione non va tanto al trasformismo del Movimento 5Stelle, bensì al corretto funzionamento della democrazia e a cosa occorre fare per difenderla. È bene ricordare che nel nostro ordinamento il potere di fare le leggi spetta al Parlamento eletto dal popolo e che il potere esecutivo è esercitato dal governo che deve avere la fiducia del Parlamento. La Costituzione non prevede né task force né Stati generali: prevede appunto Parlamento e Governo. E se il governo proprio non ce la fa e ha bisogno di una mano, prevede il Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) che ha proprio funzione consultiva in materia economica e sociale. Se il Parlamento non è più il luogo che ha capacità di prendere decisioni, se queste vengono esternalizzate a terze parti che non hanno alcun mandato popolare, si corre il rischio di umiliare la democrazia parlamentare e in altri termini umiliare il popolo. Chi siede in Parlamento (o nei corridoi del Parlamento, dove ora i membri eletti sono costretti a votare – fuori dall’aula – sempre per ragioni Covid), checché ne dicano i 5Stelle non rappresenta semplicemente un partito: ogni parlamentare rappresenta un pezzo di società, di popolo, di culture, di territorio, che nessuna forma di aristocrazia moderna potrà mai sostituire. Ci sono sia alla Camera che al Senato 14 task force permanenti, divise per competenze, che sono le migliori disponibili, anche perché rispecchiano proporzionalmente l’elettorato: si chiamano Commissioni parlamentari e sono dedicate proprio a questo, a confrontarsi con i corpi sociali ed elaborare proposte. A differenza di quelle istituite dal governo Conte, sono task force che rispondono al popolo. Chi ne fa parte, se fa male il proprio lavoro, va a casa perché non viene rieletto. Intendiamoci: è bello – e non solo esteticamente – indire Stati generali come occasioni di confronto. Ma chi governa deve avere chiaro che è il Parlamento ad avere il compito di rappresentare gli interessi di tutti i cittadini nel loro insieme, e nessun altro. E deve avere chiaro che questa funzione decisionale non può essere un mero esercizio di forma, perché se così fosse si ridurrebbe il Parlamento a passacarte di un governo orfano di una qualsiasi legittimazione elettorale. Non so cosa abbia portato i 5Stelle a cambiare così tante volte modus operandi nel tempo. Ma se il loro obiettivo non è la fine della democrazia parlamentare, sarebbe bene che iniziassero a tutelare gli equilibri costituzionali che consentono al popolo di esercitare la sua sovranità. Forse, se lo facessero, si renderebbero conto che tutti gli esperti di cui si sono avvalsi nelle fasi dell’emergenza li avrebbero trovati in Parlamento e nella costante interlocuzione del Parlamento con i segmenti della società. In questo senso ridurre il numero dei parlamentari con la scusa dei risparmi avrà come unico effetto quello di costringere chi governa ad affidarsi sempre di più a professionisti che non dovranno mai affrontare il giudizio popolare per i loro errori. Un po’ come nelle aristocrazie del tempo che fu.
Francesco Merlo per la Repubblica il 14 giugno 2020. Cosa rimane del gran debutto degli Stati Generali? Il recinto del potere, l' Italia che governa l' Italia nascondendosi all' Italia, la processione di autoblu e di scorte armate, l' informazione ridotta ai pizzini di Casalino, le immagini preconfezionate per i tg a reti unificate. Poi alle 18 una breve conferenza stampa con un' autocelebrazione davvero imbarazzante: «siamo stati d' esempio », «ci è stato riconosciuto di avere indirettamente salvato vite umane in Europa». E via con l' elogio del proprio coraggio, della propria ambizione, «non ci accontenteremo della normalità». E mai una sola giornata sarà sottratta al servizio del Paese, che è il più vecchio luogo comune della retorica italiana, di Renzi, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini: tutti lasciavano la luce sempre accesa. E, manco a dirlo, negli spazi di reality confezionati per noi da Casalino ieri c' era sempre Giuseppe Conte immortalato in mezzo agli ospiti illustri: soddisfatto vip fra i vip, Ursula von der Leyen che sussurra in italiano «l' Europa s'è desta », Christine Lagarde, Sassoli, Gentiloni, Michel, tutti ospiti virtuali. E poi nel pomeriggio il governatore Visco e un bel panel di economisti, incolpevolmente esibiti come la testa d' alce sopra il camino di un club inglese, anche se il modello qui sono i muri delle pizzerie romane dove il pizzaiolo è abbracciato a Bonolis, Totti e Pippo Baudo. Odiosa, infine, l' evasività di Conte sulla decisione del governo di vendere due navi da guerra all' Egitto offendendo certo Paola e Claudio Regeni e la memoria del loro Giulio, ma soprattutto le enormi questioni di diritto e di libertà che quel nome evoca non solo nel Paese di Al Sisi dove è stato torturato e ucciso. Anche lo slogan "verità per Giulio" è diventato così un pretesto per le solite ritualità italiane. Probabilmente non era il caso di trattare come un colpo di teatro neppure l'accordo con Germania, Francia e Olanda sul vaccino che, studiato a Oxford, sarà prodotto a Pomezia, in Italia. Il ministro Speranza, accentuando l' espressione dolente che gli è naturale, sembrava persino a disagio in quel lungo tavolone rettangolare con la tovaglia arancione mentre raccontava di aver firmato un contratto con la società AstraZeneca per 400 milioni di dosi «da destinare a tutta la popolazione europea». Nella cultura di Speranza, che è sempre riuscito a tenere se stesso e il ministero della Sanità fuori dal populismo di governo e dalle incompetenze grilline, il vaccino di cui tutti avranno bisogno dovrebbe essere prodotto come «bene comune» e distribuito a tutti, dovunque. Forse dunque l' argomento andava protetto dalla scenografia fru-fru di quel salone e tenuto lontano dalle lunghe trecce d' edera che - tocco berlusconiano - ornavano il Casino del Bel Respiro. La corsa al vaccino (si parla di mille euro a dose) sta infatti accentuando le diseguaglianze, eccitando i nazionalismi e alimentando conflitti tra Stati e tra popoli. Ieri sembrava invece una di quelle pubblicità che fateci caso - stanno caratterizzando la riapertura dell' Italia e coinvolgono lo yogurt, le automobili e persino la carta igienica: "È prodotto in Italia!". Mai come ieri mattina, sfilando sull' invisibile red carpet dell' Aurelia antica, stretta e senza marciapiedi, e subito nascondendosi dentro il casino del Bel Respiro, il nuovo potere italiano aveva mostrato la sua verità di nomenklatura e chissà se lo è diventato a poco a poco o a scatti. Oppure forse c' è stato, nei due lunghi anni di governi dominati dai grillini, un momento fatale che ha cambiato il "contediprima" nel "contedipoi", e non nel senso del banale trasformismo politico, ma in quello antropologico. Chissà come ha fatto il professore che dilatava i suoi titoli e truccava il suo curriculum universitario a diventare l' uomo solo al comando, fastoso come Berlusconi, spavaldo come Renzi, sapiente nelle promesse e nel Rinvio come Andreotti, e "nazionalista" come Salvini nell' esibizione dei simboli italiani, da padre Pio al tricolore nella cravatta, dalle dichiarazioni d' amore per la Patria identificata con se stesso, sino «alla bellezza ci salverà» di ieri mattina: «abbiamo scelto questa location perché crediamo nella bellezza italiana» dove la password è "location". Villa Pamphili per lui non è bene comune, opera d' arte, luogo della memoria, parco, ma "location", una parola che individua il fondale per le cerimonie, il set cinematografico, le scene da matrimonio, la scenografia di questo nuovo potere, il rococò del populismo italiano. Rimane vero che nel parco di Villa Pamphili è stata tagliata l' erba e, per terra, tra gli alberi bellissimi ieri non c' erano più i soliti sacchetti vuoti, le siringhe,le bottiglie di plastica e le cartacce, nonostante siano rimasti rarissimi i cestini dei rifiuti. A Villa Pamphili, che è grandissima, gli habitués si sono accorti solo di questo: «non c' è più la spazzatura» mi dice la signora che raccoglie le foglioline d' edera, «solo le più tenere si possono ripiantare nei vasi». Cani e padroni si riconoscono tra loro, Argo e Medea sono bellissimi, il più disobbediente è Jack: «Er segreto è dargliele sur sedere ». Eh? «Colle mani, dico, mai col bastone». L' anno scorso qualcuno qui uccise una volpe. Villa Pamphili, si sa, è un posto dell' anima, un florilegio di capricci edilizi in mezzo al bosco. Ora Conte, come l' Adriano della Yourcenar, dice: «Io sono il custode della bellezza». Ma forse andrebbe incoraggiato l' uso statale delle ville e dei parchi di Roma, Colle Oppio e Villa Ada, la Caffarella e Villa Sciarra, Monte Mario e l' Appia Antica Sarebbe un modo per rimediare, ogni tanto, ai disastri della sindaca Raggi. L'esempio storico virtuoso è quello di Luigi Einaudi che per far restaurare Caprarola, che oggi è una meraviglia dell' umanità, decise di andarci in vacanza. Conte direbbe: la scelse come "location". Dunque i giornalisti, gli operatori e i fotografi sono stati tenuti fuori dalla bella "location", come in un campo profughi, come i baraccati che sulla via Vitellia anche ieri si arrangiavano sotto le mura di villa Pamphili. E infatti sono state diffusi solo video e foto ufficiali, tutte uguali, tutte agiografiche, e l' informazione è diventata un umiliante pissi pissi, un passaparola, con una grande produzione di pizzini. Già al mattino leggo che «il presidente Conte ha detto che". Ma come «ha detto» se sono solo le 9.45 e il benvenuto è previsto alla 10.30? Finito il tempo degli arrivi a piedi, in taxi o persino in bici, adesso hanno tutti la macchinona di Stato, l' autista e pure due auto di scorta e quando riconosciamo il faccino di Conte in mascherina «presidente!» gli gridiamo perché anche noi non abbiamo occhi che per lui. Ci guarda, scruta i nostri visi, forse cerca amici che non trova: le porte chiuse, che per l' Italia in quarantena sono state l' odiosa reclusione, ciascuno nel proprio appartamento, qui diventano grottesche autopromozioni, una gran voglia di autocertificarsi come una specie di "gruppo Bilderberg". Ma ci credono solo i simpatici compagni di Potere al popolo, di Rifondazione comunista, dei Cobas, un centinaio di militanti che ordinatamente sventolano le bandiere rosse già alle nove del mattino: «Mentre ci rubate il futuro fate festa. Saremo noi a farvi perdere la testa». Ecco, gli antagonisti, i ribelli, i rivoluzionari non lo sanno, ma spacciano la medesima allucinazione di Casalino, e cioè che a Villa Pamphili stia nascendo l' imbattibile Contepensiero: i pensieri di Conte come i pensieri di Mao.
Francesco Bechis per formiche.net il 14 giugno 2020. “Gli Stati generali mi ricordano una vecchia edizione del Grande Fratello. C’era Alessia Marcuzzi che metteva tutti di fronte al divano e iniziava a parlarci, con la mora, il biondo, quello più o meno famoso. Ecco, tutto questo sta succedendo ora, a Villa Pamphili”. Nicola Porro non ci va per la leggera. La grande kermesse radunata dal premier Giuseppe Conte per parlare di economia, rilancio, ripresa e dintorni nella storica villa romana è “una presa in giro colossale”, dice a Formiche.net il conduttore di Quarta Repubblica e vicedirettore del Giornale. C’è chi l’ha definita “la Bildelberg” del Movimento Cinque Stelle. Lo ha detto con un ghigno in tv Mario Monti, l’ex premier che, ai tempi di Palazzo Chigi, era già nel mirino del rampante movimento di Beppe Grillo e ora sorride di fronte al via vai di ministri pentastellati con il gotha dell’economia e della politica europea. “Ma quale Bilderberg, non scherziamo. Il Bilderberg è una cosa seria – dice Porro fra il serio e il divertito – lì almeno si fa networking, le persone si incontrano, parlano davvero. Questo è un happy hour ma con gli stuzzichini. Solo acqua e caffè, così ha deciso il geniale spin di Palazzo Chigi”. Gli chiediamo un bilancio della prima giornata. La passerella non era da poco. In fila, sono intervenuti i tre presidenti Ue, Ursula von der Leyen, Charles Michel, David Sassoli. Con loro il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Discorsi di incoraggiamento, e tante congratulazioni al modello-Italia durante la crisi. Ma non sono mancati moniti più o meno velati da Bruxelles. Michel ha detto che c’è ancora molta “strada da fare” nei negoziati Ue per gli strumenti della ripresa e che rimangono “divergenze significative”. La von der Leyen ha ricordato che ai fondi devono seguire, subito, riforme strutturali in Italia. Porro sorride. “La cosa più divertente è che inviti la Troika e ti aspetti che dica cose diverse da queste. Bastava che Conte facesse una telefonata a Tsipras e avrebbe avuto un anticipo”. “Io non ho ancora visto nell’universo mondo, a meno che non sei Madre Teresa di Calcutta, qualcuno che dona senza chiederti qualcosa in cambio – aggiunge – L’Ue non ci regala nulla, ci dà una mano, non servono gli Stati generali per capirlo”. E se i fondi non mancano, ora il vero rischio è un altro, dice il giornalista. “Non sappiamo spendere qualche centinaio di milioni per il raddoppio Maglie-Leuca, né quelli per finire la Gronda. Non sappiamo erogare la Cassa integrazione. Figuriamoci la pioggia di soldi in arrivo. Lo dico da ora: i miliardi per la Sanità in arrivo dal Mes saranno un disastro. Meglio erogarne uno per macroregione che prenderli tutti insieme”. Conti a parte, c’è il bilancio politico del maxi-evento a Roma. Un bilancio netto. “È un’iniziativa di Conte-Casalino, con la speranza di rilanciare l’immagine un po’ ammaccata del premier affiancandolo alla von der Leyen. Nessuno, neanche loro, crede che da questo possa nascere mezza soluzione”. E se Pd e Cinque Stelle, salvo qualche rumore di sottofondo, hanno alla fine sposato l’iniziativa del premier, c’è un grande escluso che, dice Porro, darà filo da torcere a Conte: Davide Casaleggio. “Oggi ci sono due partiti, quello di Conte e quello di Casaleggio, ormai rivali in casa. Nell’intervista di oggi (al Corriere, ndr) ha messo più di un bastone fra le ruote di questo governo. Ha detto che non si deve fare il terzo mandato. E che bisogna passare dallo stimolo dei consumi agli investimenti. L’esatto contrario del reddito di cittadinanza. Una mazzata micidiale”.
Umberto Giovannangeli per ilriformista.it il 14 giugno 2020. «Siamo giunti a un punto di saturazione storica del potere costituito che non potrà mai essere potere costituente». È una lezione di storia e di politica, di passione civile e lucidità intellettuale, quella che viene da un signore di 93 anni, uno degli ultimi “Grandi vecchi”, e grandi per statura politica e non per anzianità acquisita, della politica italiana: Rino Formica. Dar conto di tutti gli incarichi di primo piano, di governo – ministro delle Finanze, dei Trasporti, del Commercio con l’estero, del Lavoro e della Previdenza sociale – e di partito, che il senatore Formica ha ricoperto, prenderebbe tutto lo spazio di questa intervista. A dar forza ai suoi ragionamenti, ai sui giudizi sempre puntuali e taglienti, non è il suo cursus honorum, ma quel mix, un bene oggi introvabile sul mercato della politica italiana, di sentimenti e di ragione che Formica offre ai lettori de Il Riformista.
Senatore Formica, in una intervista a questo giornale, Giovanni Maria Flick, che è stato ministro di Grazia e Giustizia nel 1996, chiamato a questo importante incarico da Romano Prodi, oltre che trentaduesimo presidente della Corte Costituzionale, ha affermato, dolente: «Che pena e che tonfo questa magistratura dilaniata da faide interne». E questo nel mezzo della bufera del Palamara-Gate. La storia si ripete?
«La storia si ripete nel senso che quelle che erano delle registrazioni è ciò che si ricava grazie alle tecnologie attuali. C’è da domandarsi: ma quando non c’erano queste tecnologie, queste cose avvenivano o no? Qui mi sovviene una cosa: nel 1991, il ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, scrisse una lunga lettera, oltre tre pagine, al presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, in cui denunciava che nel Consiglio Superiore della magistratura, tutto era ferocemente lottizzato e che l’Associazione Nazionale magistrati gestiva quello che poi è emerso dalle registrazioni attuali. Qui nasce un problema serio, che mi pare essere l’intenzione difensiva di Palamara: in sostanza, tutto avveniva da sempre e tutto era a conoscenza di tutti e tutti coloro che all’interno della magistratura volevano concorrere a ricoprire incarichi direttivi, avevano perseguito e perseguono le strade del comparaggio associativo. Ma qui la questione si fa più grave, molto più grave…»
E da cosa nasce questa gravità?
Dall’atteggiamento di Palamara, che non sostiene, per ipotesi, che tutti non potevano non sapere, ma che tutti sapevano. A questo punto si pone un problema che investe l’intero corpo istituzionale del Paese. Ma senza una rivoluzione, si potrà mai fare questo processo? Siamo giunti a un punto di saturazione storica del potere costituito che non potrà mai essere potere costituente».
E in tutto questo, che ne resta della sinistra?
«Niente. Perché se si guarda bene, nell’attuale farsa da circo equestre degli “Stati generali” si esibiscono forze politiche, di governo e di opposizione, che non hanno una vita democratica interna. Tre donne in Europa – la cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – hanno con un colpo solo distrutto la democrazia diretta e la piattaforma Rousseau dei 5 Stelle. Hanno demolito l’entrismo governativo opportunistico dei post-comunisti e dei post-democristiani e hanno liquidato la rumorosa combriccola sovranista del centrodestra a guida Salvini».
Ora, ma davvero c’è qualcuno che non ha portato il cervello all’ammasso e che mantiene un minimo di decenza intellettuale, che possa sostenere che una confusa parata di gitanti post segregazione virus, possa tirar fuori un piano di stabilità politica da presentare all’Europa, per realizzare riforme che richiederebbero un periodo di tempo dai 10 ai 15 anni?
«Si tratta di un arco temporale che copre almeno due legislature, quando non si riesce a far previsioni sulla vita di un governo per i prossimi 10-15 giorni. Questo è il punto».
Un punto che chiama in causa un deficit di leadership politica?
«Non è la leadership politica che manca, fosse solo questo… Quello che manca davvero è il pensiero politico. Vede, la tradizione occidentale dice che la vita politica delle nazioni era regolata da forze politiche in concorrenza tra di loro, sulla base di serrati confronti di dottrina e di prassi nel realizzare prospettive storiche non sovrapponibili. In Italia la sbornia dello splendido ed isolato isolazionismo sovranista, avrebbe virtuosamente ed automaticamente gestito il progresso della nazione. Tutto questo era sufficiente per coprire la pigrizia mentale di classi dirigenti raccattate alla men peggio. Ma davvero pensiamo di poter affrontare le immani sfide del presente senza un pensiero forte, e critico, in grado di misurarsi con una rottura, già avvenuta e resa ancora più deflagrante dalla crisi pandemica, dell’ordine istituzionale, politico, economico e sociale, sia nella dimensione nazionale che in quella globale? Chi lo pensa, e magari ha anche responsabilità di governo, è pericoloso per sé e per gli altri».
Senatore Formica, ciclicamente si torna a parlare, scrivere, evocare, denunciare i “poteri forti”. Ma a cosa si vuole alludere?
«Ci sono poteri forti extranazionali che svolgono la loro pressione sulla realtà nazionale, ma non sono affezionati a occuparsi in eterno dei guai di questo Paese, e quindi sono poteri che a un certo punto potrebbero anche disinteressarsi dell’Italia. Quanto ai poteri forti nazionali, residuali, sono Eataly di Farinetti, l’associazione degli albergatori e il sindacato dei bar e dei ristoranti… Francamente mi pare troppo poco per affidare a questi il potere sostitutivo delle istituzioni democratiche per far volare in Europa le ragioni di un grande Paese».
Ad alludere a poteri forti che tenterebbero di minare il cammino del governo da lui presieduto, è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Come lo definirebbe?
«Un mediatore operoso, vicino alla figura del sensale».
E questo “mediatore operoso” può reggere un governo alle prese con la crisi pandemica e le sue pesanti ricadute economiche e sociali?
«Può reggere in una fiera del bestiame».
Lei ha attraversato la sua lunga e impegnativa vita politica nel campo del socialismo. italiano. Le chiedo: socialismo, è oggi ancora una parola pronunciabile?
«Si, è pronunciabile ma a una condizione: che i socialisti, quelli che restano dei vecchi e quelli che, giovani, vogliono abbracciare i vecchi ideali, la smettano di fare lunghi discorsi sulla distruzione del Partito socialista da parte dei suoi avversari, di destra e di sinistra, e comincino a ragionare sul perché nel ‘92-’96 non vi fu una resistenza socialista».
Cosa sono gli Stati Generali convocati dal governo per rilanciare l’economia. Redazione su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha lanciato l’idea degli Stati Generali dell’economia, un’occasione di confronto e dialogo con le parti sociali – sindacati, Confindustria, Confcommercio, Confagricoltura e Pmi – , soggetti economici e rappresentanti politici per discutere su provvedimenti e misure da adottare per uscire dalla crisi causata dalla pandemia da coronavirus. Una proposta che ha scatenato più di qualche perplessità, soprattutto nell’opposizione. L’appuntamento partirà venerdì a Villa Doria Pamphili a Roma con gli incontri proprio con le opposizioni. Sabato sarà dedicato agli incontri con organismi internazionali e poi si continuerà da lunedì 15. Secondo l’Adnkronos gli Stati Generali dureranno per tutta la prossima settimana. Dovrebbero concludersi sabato.
CENNI STORICI – L’idea degli Stati Generali nasce in Francia nel XIV secolo. Secondo quanto riporta la Treccani, erano formati dall’assemblea generale dei rappresentanti di clero, nobiltà e “terzo Stato”, la borghesia. Il primo a convocarli il re Filippo il Bello il 10 aprile 1302 nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. Alcuni rappresentanti venivano eletti prima a livello locale – dove si riunivano e stilavano i cosiddetti cahiers de doléance, nei quali raccoglievano lamentele e voti – e poi questi ultimi eleggevano i deputati all’Assemblea Generale. Alla convocazione degli Stati Generali ciascun ordine si riuniva separatamente e redigeva un proprio cahier. Un solo deputato parlava all’assemblea seguendo l’ordine clero, nobiltà e borghesia. Gli Stati Generali vennero convocati periodicamente, intervenendo nella deliberazione e ripartizione delle imposte, a partire dal 1484 fino al 1789, quando vennero trasformati in una Assemblea nazionale costituente. Gli Stati, a livello provinciale, votavano i sussidi richiesti dal sovrano e avevano competenze fiscali. Gli Stati Generali, nell’unione delle Province Unite, erano l’organo federale composto dai delegati provinciali. Vennero istituiti dai duchi di Borgogna nel XV secolo e riuniti nel 1576 per la costituzione di un esercito federale delle province cattoliche e riformate. L’organo divenne federale dopo il fallimento del trattato del 1756 e con l’Unione di Utrecht del 1579. Furono attivi fino al 1795, sostituiti dall’Assemblea Generale.
L’APPUNTAMENTO – In preparazione degli Stati Generali in programma a partire da venerdì 12 giugno, il premier Giuseppe Conte sta conducendo dei colloqui con i ministri (specie di brainstorming) del suo esecutivo. L’obiettivo è quello di arrivare all’appuntamento del 18 giugno, quando si deciderà sul Recovery Fund, con delle proposte precise.
Venerdì saranno ospitate le opposizioni. Sia il leader della Lega Matteo Salvini che quella di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni hanno mosso delle perplessità sull’appuntamento. “Non so ancora nulla, non so dove, come, quando e perché, poi vado, per carità”, aveva affermato Salvini. Ancora più critica Meloni: “Non ho capito bene che cosa siano. Mi pare che ci sia enorme confusione. Se devo andare a fare una bella serata, non ci vado da parlamentare della Repubblica … Se devo andarci come parlamentare della Repubblica, gli Stati Generali a casa mia si fanno nel Parlamento della Repubblica …”. Di avviso diverso Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia: “Sono sicuro che si debba andare. Decideremo una linea comune e dovremo partecipare ad un appuntamento che, pur tardivamente, va nella strada che abbiamo indicato. Speriamo che stavolta l’ascolto non sia soltanto un atto formale”. Sabato sarà il turno degli incontri internazionali. Ci sarà sicuramente il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli, forse la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Da lunedì gli incontri saranno dedicati alle parti sociali. La dieci giorni di incontri e confronti è stata voluta fortemente dal premier e ha trovato resistenze anche nella maggioranza oltre alle critiche sollevate dalle opposizioni. L’appuntamento sarà chiuso alla stampa, tranne per la conferenza finale e un probabile altro momento stampa che dovrebbe tenersi in corso, forse a metà della settimana prossima.
La storia degli Stati Generali, di cui si parla tanto. L'idea nacque nella Francia del XIV secolo, quasi cinquecento anni prima della Rivoluzione, quando gli Stati Generali, scrive la Treccani, erano costituiti dall’assemblea generale dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati: clero, nobiltà e "terzo Stato", ossia la borghesia. Agi il 06 giugno 2020. La convocazione degli Stati generali dell'Economia e l'illustrazione del "Recovery plan" da parte di Giuseppe Conte sono state criticate dal Pd come iniziative "unilaterali", "delle uscite a freddo" del Presidente del Consiglio. Ma cosa sono questi Stati Generali di cui si parla tanto.
Chi partecipa agli Stati Generali. L'idea nacque nella Francia del XIV secolo, quasi cinquecento anni prima della Rivoluzione, quando gli Stati Generali, scrive la Treccani, erano costituiti dall’assemblea generale dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati: clero, nobiltà e "terzo Stato", ossia la borghesia.
Chi li convocò per primo. Furono convocati per la prima volta dal re Filippo il Bello il 10 aprile 1302 nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. Le elezioni dei rappresentanti procedevano attraverso una prima designazione di elettori locali (mediante gli Stati provinciali), i quali si riunivano nel capoluogo, elaboravano i cahiers de doléances (quaderni nei quali erano raccolte, per ciascun ordine, le lamentele e i voti da presentare al sovrano) ed eleggevano i deputati all’assemblea generale.
Cosa facevano gli Stati Generali prima della Rivoluzione. Durante la convocazione, i 3 ordini si riunivano separatamente per redigere un cahier unico basato su quelli provinciali e un solo deputato per ogni stato parlava nell’assemblea generale e nell’ordine: clero, nobiltà e terzo stato. Poi si scioglievano senza attendere la risposta del governo del re. Dal 1484 furono convocati periodicamente e intervennero nella deliberazione e ripartizione delle imposte. L’ultima convocazione si ebbe nel 1789, quando furono trasformati in una Assemblea nazionale costituente. Negli Stati provinciali, a differenza dei generali, la rappresentanza dei 3 ordini era elettiva solo in minima parte, il terzo stato non essendovi rappresentato che dalle città, le quali delegavano uno o più ufficiali municipali.
Cosa facevano gli Stati provinciali. La funzione principale degli Stati provinciali era di votare i sussidi richiesti dal sovrano; erano inoltre competenti in materia fiscale, venendo le imposte stabilite, ripartite ed esatte secondo le usanze e per mezzo di funzionari provinciali. Nell’unione delle Province Unite, gli Stati generali erano l’organo federale composto dai delegati, con precisi incarichi delle singole province. Istituito dai duchi di Borgogna (XV secolo), furono riuniti nel 1576 per deliberare la costituzione di un esercito federale delle province cattoliche e riformate; fallito il trattato del 1576, con l’Unione di Utrecht (1579) divenne, con il consiglio di Stato e gli statolder, organo federale. Gli Stati Generali rimasero attivi fino alla rivoluzione del 1795, quando vennero sostituiti dall’Assemblea generale.
Stati generali, che cos’erano e perché portano male. Alessandro Di Stefano l'11 giugno 2020 su startupitalia.eu. L'organismo consultivo affonda le sue radici nella storia medievale francese. La premessa è d’obbligo: il Governo Conte nulla ha in comune con l’assolutismo francese dell’Ancient Régime. Ma la convocazione degli Stati Generali previsti a Roma durante il week end, per raccogliere le idee sulla ricostruzione post pandemia, solleva più di una domanda sulla scelta del nome di questo appuntamento. Bizzarra sia per la storia degli Stati generali, sia perché il partito di maggioranza relativa che esprime il Governo – il Movimento Cinque Stelle – è solito pescare nomi e spunti dalla storia francese (basti pensare al nome della piattaforma di democrazia partecipativa Rousseau, ispirata a uno dei filosofi di riferimento della Rivoluzione francese). Ma andiamo con ordine.
Stati generali: cosa erano. Gli Stati generali sono l’antico parlamento feudale francese. La loro prima convocazione avvenne nel 1302 a Parigi, dentro Notre Dame, e l’ultima andò in scena nel 1789. Di fatto non dobbiamo pensare a un organo legislativo moderno che si riunisce con cadenza regolare: erano piuttosto un organismo di consultazione che il Re convocava soltanto nei momenti di grave crisi. Gli Stati generali erano formati su base elettiva e rappresentavano i tre Stati in cui era suddivisa la società francese. Nobiltà, clero e Terzo Stato.
Differenze tra oggi e ieri. Se gli Stati generali convocati dal governo Conte vogliono ricostruire l’Italia dopo il lockdown e gli effetti devastanti della pandemia sull’economia, quelli di fine Settecento in Francia rappresentano invece un organismo da cambiare radicalmente. Così avvenne nella storica seduta del 5 maggio 1789, quando il Terzo Stato chiese la votazione per «testa», anziché per «ordini». Pochi giorni dopo l’organismo cambiò nome, divenendo l’Assembla Nazionale (il 17 giugno) e a seguito del giuramento nella sala della Pallacorda – sciogliersi soltanto con una nuova Costituzione e cedere soltanto alla forza delle baionette – prese inizio la prima fase della Rivoluzione francese, poche settimane prima dell’assalto alla Bastiglia. La storia non si ripete mai: il secondo tempo, al limite, rischia la farsa.
In Francia si chiusero con la ghigliottina. Armando Moro Libero Quotidiano l’11 giugno 2020. Un Paese fortemente indebitato; un ministro delle Finanze che, per ottenere dalle banche prestiti a tassi sostenibili, si vede costretto a ridurre l’enorme disavanzo dello Stato e pensa di farlo aumentando la tassazione sugli immobili; disordini in varie città... Siamo nella Francia di ne ’700, la Francia di re Luigi XVI, il monarca che, per affrontare la grave crisi economica, decide infine (è il 5 maggio del 1789) di convocare a Versailles gli Stati generali. Si trattava dell’assemblea che riuniva i rappresentanti delle parti sociali dell’epoca: nobiltà, aristocrazia e terzo stato (cioè la borghesia, che però ormai pensava a sé stessa non come a una parte ma come alla rappresentante dell’intera nazione). Quel consesso non era una novità: la prima convocazione risaliva addirittura al 1302. Ma dall’ultima riunione erano passati più di centosettant’anni. E gli animi di tutti erano profondamente commossi. Ragion per cui i lavori, in quel 1789, furono assai turbolenti. Il governo, per la verità, aveva provato a ricondurre il tutto a una questione di risorse da trovare. Un soporifero discorso (tre ore di durata) del ministro delle Finanze Necker (un tecnico prestato alla politica: nella sua vita precedente faceva il banchiere, ed era pure svizzero) provò a tranquillizzare i convenuti: il disavanzo non ammonta a 105 milioni come si dice in giro, ma quasi alla metà. Insomma, se collaboriamo insieme ce la faremo. Il terzo stato non lo ascoltò, anzi disconobbe il consesso e si trasformò in assemblea nazionale. La rivoluzione travolse la Corona. E il 21 gennaio del 1793, a meno di quattro anni dalla convocazione degli Stati generali, re Luigi XVI venne ghigliottinato. Luigi XVI convocò clero, nobili e borghesia per affrontare la crisi. Poi perse la testa... In Francia si chiusero con la ghigliottina.
Testo ripreso da un libro del 2017. La figuraccia di Colao e dei cervelloni della task force: copiati e incollati dati sbagliati per il rilancio dell’Università. Redazione de il Riformista il 15 Giugno 2020. Parte del piano per il rilancio dell’Università copiata da un libro pubblicato nel 2017, che vede tra gli autori uno dei componenti della task force guidata da Vittorio Colao, a sua volta basato su alcuni dati errati diffusi dagli economisti. E’ quanto dimostra, con tanto di alcune parti integrali del libro, il sito Roars.it (Return On Academic Resarch and School). Lo “Spunto di riflessione – Una differenziazione smart per il sistema universitario” contenuto nel Rapporto redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale è stato ripreso da un libro, intitolato “Salvare l’università italiana“, dei tre autori Giliberto Capano, Matteo Turri e Marino Regini, quest’ultimo parte del comitato di esperti che il Governo ha selezionato per affrontare l’emergenza coronavirus. Tre le pagine riprese dal libro uscito nel 2017 e al cui interno sono presenti anche dati sbagliati perché i tre autori avevano a loro volta ripreso un post degli economisti di LaVoce.info, senza curarsi di verificare cosa c’era veramente scritto nel rapporto VQR. “Il testo dello spunto di riflessione di Colao riporta letteralmente, con qualche taglio, gran parte delle pagine 146-148 del volume di Capano, Regini e Turri” si legge su Roars.it. L’unica modifica “rilevante” fatta dal team di esperti della task force è cambiare “differenziazione intelligente” con “differenziazione smart”. Un lavoro di “copia e incolla” rilanciato tre anni dopo e con al suo interno anche diversi errori. “Non è vero – spiega Roars.it – che ‘i ricercatori valutati tutti come eccellenti erano solo 296 (poco più del 6%)”. Nella VQR 2004-2010 i ricercatori di area economica che presentarono “lavori valutati tutti come eccellenti” furono infatti 440 pari al 9,6% (lo si legge a pagina 30 del rapporto ANVUR, Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, di Area 13). Tra questi 440, scrive ANVUR, si distinguono “144 soggetti con un numero di lavori attesi inferiore a 3 (si tratta in massima parte di giovani ricercatori assunti …) e i 296 soggetti valutati con 3 valutazioni eccellenti (6,4% del totale)”. “Non è vero che quei “296 … erano distribuiti in ben 59 atenei”; erano distribuiti su 52 atenei. Mentre ad essere distribuiti su 59 atenei erano i 440 ricercatori eccellenti (tabella 4.14 del rapporto VQR); infine non è vero che quei 296 appartenessero a “93 dipartimenti diversi”. Secondo il testo del rapporto ANVUR (p. 31) sono i 440 totali che si distribuivano su 93 dipartimenti diversi. (Peccato solo che il dato riportato nel rapporto ANVUR non coincida con quanto contenuto nella tabella 4.15 dello stesso rapporto, dove i dipartimenti con almeno un ricercatore “tutto eccellente” sono 107. Ma si sa dei dati dell’ANVUR non c’è da fidarsi)”. L’errore è dovuto a una serie di dati copiati e incollati (citando la fonte) da un post firmato dagli economisti della Voce.info e non da una pubblicazione scientifica o da un rapporto originale Anvur.
Alberto Baccini per roars.it il 16 giugno 2020. Lo “Spunto di riflessione-Una differenziazione smart per il sistema universitario” contenuto nel Rapporto redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale, presieduto dal top manager Vittorio Colao, già oggetto di un tagliente post di Giuseppe De Nicolao, è stato copiato e incollato (senza citazione) da un libro uscito nel 2017 per i tipi de Il Mulino. Il libro è intitolato Salvare l’università italiana. Gli autori di quel volume sono Giliberto Capano, Matteo Turri e Marino Regini, quest’ultimo parte della task-force capitanata da Colao. Evidentemente per rilanciare l’università dopo l’emergenza COVID, non c’era niente di meglio da fare che rispolverare una ricetta di qualche anno fa (fortunatamente) dimenticata. Il testo dello spunto di riflessione di Colao riporta letteralmente, con qualche taglio, gran parte delle pagine 146-148 del volume di Capano, Regini e Turri. Per essere precisi, Colao e la sua task-force hanno fatto un solo intervento rilevante sul testo originario: hanno trasformato la “differenziazione intelligente” di Capano et al. in “differenziazione smart“, come richiede un testo dal piglio manageriale. Nella figura riportata sopra si confrontano visivamente il testo di Colao (in celeste a sinistra) e quello originario di Capano et al. (a destra). Nelle tre pagine di destra sono evidenziate in giallo le parti copiate e incollate dalla task-force. L’effetto è a tratti esilarante. Il lettore del rapporto è portato a credere che Colao e la sua task-force abbiano effettivamente elucubrato e discusso e poi scritto: “E’ possibile allora … stimolare ciascuna università a a definire la propria particolare vocazione in una specifica combinazione di quelle funzioni per ciascuna delle aree scientifiche al suo interno, tendendo conto delle risorse disponibili e delle esigenze del territorio di riferimento? Noi riteniamo di sì.“ Peccato che quella domanda e quel “noi riteniamo di sì” siano stati scritti non da Colao e dalla task-force, ma da Capano e coautori a pagina 148 del loro libro. Una volta trovato l’originale, è stato facile trovare ricostruire anche la fonte originaria della supercazzola sui dati VQR sbeffeggiata nel post di Giuseppe De Nicolao. Una supercazzola di terza mano, come vedremo.
Scrive la task-force: “La qualità scientifica in Italia non e concentrata in pochi atenei eccellenti, ma e relativamente diffusa. Prendiamo l’esempio dell’area economica: nel primo esercizio di valutazione della qualità della ricerca (Vqr) i ricercatori che hanno presentato lavori valutati tutti come "eccellenti" erano solo 296 (poco più del 6% del totale), ma distribuiti in ben 59 atenei e 93 diversi dipartimenti.”
La task force ha copiato e incollato le frasi in rosso della precedente citazione dal testo di Capano e coautori. Purtroppo i tre dati contenuti in quelle frasi sono tutti sbagliati: non è vero che "i ricercatori valutati tutti come eccellenti erano solo 296 (poco più del 6%)”. Nella VQR 2004-2010 i ricercatori di area economica che presentarono “lavori valutati tutti come eccellenti” furono infatti 440 pari al 9,6% (lo si legge a pagina 30 del rapporto ANVUR di Area 13). Tra questi 440, scrive ANVUR, si distinguono “144 soggetti con un numero di lavori attesi inferiore a 3 (si tratta in massima parte di giovani ricercatori assunti …) e i 296 soggetti valutati con 3 valutazioni eccellenti (6,4% del totale)”; non è vero che quei “296 … erano distribuiti in ben 59 atenei”; erano distribuiti su 52 atenei. Mentre ad essere distribuiti su 59 atenei erano i 440 ricercatori eccellenti (tabella 4.14 del rapporto VQR); infine non è vero che quei 296 appartenessero a “93 dipartimenti diversi”. Secondo il testo del rapporto ANVUR (p. 31) sono i 440 totali che si distribuivano su 93 dipartimenti diversi. (Peccato solo che il dato riportato nel rapporto ANVUR non coincida con quanto contenuto nella tabella 4.15 dello stesso rapporto, dove i dipartimenti con almeno un ricercatore “tutto eccellente” sono 107. Ma si sa dei dati dell’ANVUR non c’è da fidarsi). Ma perché Capano, Regini e Turri riportano dati sbagliati? Perché pure loro li hanno presi di seconda mano, senza controllare cosa c’era veramente scritto nel rapporto VQR. Li hanno copiati e incollati (citando la fonte) non da una pubblicazione scientifica o dal rapporto originale di ANVUR, ma da un post firmato dagli economisti della Voce.info (che evidentemente essendo eccellenti e avendo a suo tempo occupato in forze il panel di valutazione della VQR, non possono certo scrivere dati sbagliati). Nel post pubblicato sul sito del FattoQuotidiano il 22 luglio 2013, rilanciato il giorno successivo sul blog lavoce.info, gli economisti della voce avevano scritto: coloro che hanno ricevuto la valutazione massima in ciascuno dei lavori presentati… sono complessivamente 296 (poco più del 6 per cento del totale), e presenti in 59 diversi atenei e 93 dipartimenti distinti. Quindi, per riassumere, la task-force capitanata da Colao, per tratteggiare i dati essenziali sulla ricerca in Italia, fa copia-incolla da un libro di Capano, Regini e Turri; i quali a loro volta, invece di verificare i dati alla fonte, li avevano ripresi da un post su internet, errori inclusi. Se il rilancio dell’Italia è affidato a questi esperti, che possiamo dire? Andrà tutto bene!
Il piano Colao e il male dei tecnici: la politica li sceglie ma poi diffida. Francesco Damato Il Dubbio il 10 giugno 2020. Accusati di essere troppo rigidi e di non capire le sfumature della politica sottovalutando le ricadute elettorali e gli equilibri con gli alleati. Il mio amico Stefano Folli -il cui approccio giovanile alla politica avvenne, come quello di Maurizio Molinari, che ora ne è il direttore, in un ambiente molto sensibile ai tecnici come il Partito Repubblicano- dev’essersi messo le mani nei capelli osservando dalla sua postazione di Repubblica quello che nell’editoriale, o “punto”, ha definito “il cortocircuito” tra tecnici e politici a proposito del cosiddetto “piano Colao”. Che, concepito originariamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in pieno tempo di coronavirus, come un aiuto nella gestione di una crisi economica e socialista prevedibile con l’epidemia virale, è sorprendentemente diventata una specie di arma contundente di Matteo Salvini nell’assalto quotidiano al governo. Liquidato immediatamente, prima ancora che ne fossero rese note le 46 pagine e le 102 “idee”, come infarcite del peggiore “lobbismo” dal giornale allo stato delle cose più filogovernativo e più filo-Conte che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, il piano del povero Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, è diventato un po’ la pietra dello scandalo in vista degli Stati Generali dell’Economia. La ciliegina sulla torta è stata o è apparsa -in politica non fa molto differenza- la mancata firma dell’economista di fiducia, consigliera e quant’altro di Conte in persona, che è la professoressa Mariana Mazzucato. Alla quale qualche giornalista ha strappato, non so se davvero o con una forzata interpretazione, una spiegazione del tipo: ho avuto ben altro di cui occuparmi. Oltre alle mani di Stefano Folli fra i capelli sono tentato di pensare a quelle di Conte fra i suoi. Non mi azzardo invece a pensare a quelli bianchissimi e folti di Sergio Mattarella al Quirinale, dove pure temo che non saranno rimasti insensibili di fronte al clamore provocato delle cronache politiche. A consolazione di tutti gli interessati, da Conte a Mattarella, coi loro trascorsi peraltro accademici, debbo dire e ricordare che i tecnici sono sempre stati un po’ spine nei fianchi dei politici.Aldo Moro, anche lui approdato alla politica dai suoi studi giuridici, divenuto nel 1959 segretario della Dc succedendo ad Amintore Fanfani, un altro professore giunto in seconda battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito incontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali c’era, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica l’ideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dell’orto accompagnando gli ospiti verso casa. Moro rimase non meravigliato ma scioccato dalla demolizione “tecnica” che Miglio fece anche a lui, come aveva fatto con Fanfani senza però turbarlo, della Costituzione in vigore da soli 11 anni. Essa già meritava, secondo il professore dell’Università Cattolica, profonde modifiche sulla strada del presidenzialismo. Non parliamo poi dei ritardi che il federalista Miglio considerava scandalosi nell’applicazione delle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario, i cui consigli in effetti sarebbero stati eletti per la prima volta solo dopo altri undici anni, nel 1970. Terminato l’incontro, di prima e insolita mattina, come se avesse ascoltato un mezzo guerrigliero, il prudentissimo Moro, che peraltro aveva la pressione bassa e carburava solo sul tardi, confidò tutto il suo sconcerto al povero Franco Salvi. Che era qualcosa più del segretario personale e meno di un vice segretario politico. Fu proprio lui che mi confidò -prima che i nostri rapporti non si rovinassero per la frequenza con la quale parlavo con Moro senza chiedergli il permesso- di avere ricevuto dal nuovo capo della Dc l’invito ad eliminare Miglio dall’elenco dei consulenti di Piazza del Gesù. Diventato nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo “organico” di centro-sinistra, col trattino e a partecipazione diretta dei socialisti, al posto dei liberali archiviati con l’esperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica “programmazione” voluta dai socialisti, l’allora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva. Ebbene, parlandomene una volta come persona ”preparatissima, per carità”, che avrebbe peraltro avuto fra i suoi allievi un altro pezzo da novanta della politica come Romano Prodi, l’allora presidente del Consiglio mi disse che il suo consigliere andava “ascoltato ma non sempre seguìto” perché, adottandone alla lettera ricette, indicazioni e quant’altro, sarebbe stato impossibile governare non solo con i socialisti ma con nessun altro. Esse erano -mi spiegò- di una durezza tale che si sarebbe rischiata una “guerra civile”. Mica male, come paura. Di Giulio Andreotti e dei suoi consiglieri, fra i quali ci fu per un certo tempo anche Michele Sindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si abbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una sola volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale della Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso. Mi accordo di essermi dilungato anche troppo. Ma consentitemi almeno di ricordare i problemi creati nella cosiddetta seconda Repubblica al pur volitivo imprenditore di successo Silvio Berlusconi dal “tecnico” Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.
“Quando il mondo verrà distrutto, non sarà ad opera dei pazzi, ma dagli esperti e dai burocrati”. Davide Ricca, Esperto di politiche attive del lavoro, su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Non ho trovato un titolo migliore per queste riflessioni se non la famosa citazione di John le Carré. Ci voleva, infatti, il Covid 19 per farmi constatare che in Italia, perfino in queste settimane, c’è chi vive in un mondo perfetto, asettico, fatto di regole ideali definite a tavolino senza bisogno di alcuna verifica pratica. Purtroppo il divario tra i garantiti e i non garantiti cresce e si allarga. L’imbarazzante prestazione che la burocrazia ha fornito in queste settimane è stata un’ulteriore conferma della sua inadeguatezza e di quale costosissimo fardello costituisca per il Paese. Leggetevi le norme per la riapertura delle attività turistiche e dei pubblici esercizi. Schematizziamo il ragionamento: vi sono delle prescrizioni che sono palesemente inapplicabili e che costringeranno molti a non riaprire. Un approccio che trascura la sostanza per tutelare unicamente gli estensori del provvedimento, senza alcuna preoccupazione per gli esiti della norma e degli effetti che determinerà. Quando si compiono scelte politiche o si definiscono atti amministrativi, la prima regola dovrebbe essere la preoccupazione di prevedere quali conseguenze essi determineranno. Una disposizione non può essere svincolata dalle sue conseguenze e dalla concreta applicabilità, secondo la vecchia regola “non dare mai un ordine che sai già non potrà essere eseguito” perché ne va della tua credibilità. Ma questo non vale per la nostra burocrazia, che non ha avuto uno scatto di orgoglio neanche in questi mesi disgraziati. La qualità della democrazia è però indissolubilmente legata al suo funzionamento, che presuppone una burocrazia selezionata con criteri meritocratici, trasparente, rapida nelle decisioni, capace di leggere la realtà per viaggiare alla stessa velocità. Il disallineamento della Pubblica Amministrazione con la società reale è un nodo potenzialmente dirompente da affrontare, ma è una delle condizioni imprescindibili per riprendere la strada della crescita, ed è quindi un tema non più dilazionabile. La debolezza della politica, sempre più in difficoltà al cospetto dell’opinione pubblica, acuisce il problema. Quando la politica perde la sua prerogativa più alta, ovvero la capacità di convincere le persone della bontà delle proprie idee, deve trovare altrove la giustificazione delle proprie scelte e porsi in secondo piano rispetto ai tecnici, ai sondaggi, alla piazza. Ecco che la perdita di autorevolezza della politica la porta di volta in volta all’incapacità di assumersi responsabilità in proprio. Abbiamo così assistito in questo periodo a scelte che hanno trovato la propria giustificazione nel dettato dei comitati tecnici, dei comitati scientifici, degli esperti. Nulla contro le professionalità di costoro, ma se la politica deroga completamente al proprio ruolo, se non ha il coraggio e la capacità di decidere, di assumersi le sue responsabilità, ragionando solo nella logica di rispondere alle pressioni del momento senza guardare al medio periodo, è semplicemente inutile. Da qui il trionfo della burocrazia, delle procedure e l’inasprirsi della distanza tra chi vede ormai lo Stato come un avversario, se non come un nemico, piuttosto che come un alleato nel fare impresa, nel sostegno al reddito o alla salute, nella formazione propria o dei suoi figli, …Il rimpallo di responsabilità tra Governo e Regioni su colpe e attribuzioni di competenza è solo l’ultima manifestazione di un processo lungo e di mali antichi che hanno segnato la retrocessione dell’Italia in posizioni sempre più di rincalzo all’interno del consesso internazionale. La modernità presuppone tempi rapidi. Inevitabilmente si rende necessaria la sburocratizzazione e la relativa semplificazione delle norme. Spero che la pandemia faccia avere, in questo senso, uno scatto di reni a tutta la classe politica o saranno guai seri per il nostro Paese.
L'"effetto Peltzman" del virus. Leopoldo Gasbarro, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Si chiama «Effetto Peltzman» e misura il vantaggio parallelo ottenuto grazie a decisioni prese per motivazioni diverse rispetto a quelle che l'effetto contabilizza. Un esempio? Per arginare il contagio da Covid-19 si è deciso di tenere la gente in casa. Sta funzionando. Ma Peltzman ci dice che di vantaggi ce ne sono altri. Cominciamo? Nell'ultimo mese quante persone saranno morte per incidenti stradali? L' 80% in meno. E per le normali malattie respiratorie e influenzali che sono state diffuse molto meno proprio a causa dell'isolamento? Anche qui la risposta è molto alta, circa il 50% in meno. Sta diminuendo anche la mortalità per malattie cardiovascolari. Il freddo è spesso causa d'infarto e febbraio di solito è uno dei mesi più freddi dell'anno. La riduzione è consistente anche in questo caso. Negli Usa, dove i dati sono puntualmente disponibili, si stanno registrando cali generali di mortalità che superano il 50%. Ed inoltre, tutti siamo preoccupati per Covid-19, ma sono pochi quelli che, a ragione, considerano il virus già formalmente sconfitto. La ricerca continua ad avanzare e sono almeno 70 i vaccini già in fase di sperimentazione ed aumentano i farmaci che vengono usati in terapia e che stanno alleggerendo notevolmente le unità intensive: le persone vengono curate meglio e a casa. Ma se non ci fosse il vaccino, se dopo tutti i sacrifici in autunno il virus dovesse tornare a colpire? Saremmo già pronti sapremmo come individuarlo ed affrontarlo. Insomma, Covid-19 ha i giorni contati. Ma non lo percepiamo. Ne volete un'altra? Il Fondo monetario internazionale ci racconta di una possibile profonda recessione per l'Italia quest'anno del -9,1%. I titoloni negativi si sono sprecati. Ma nessuno si è accorto che sempre l'Fmi per il 2021 prevede un Pil italiano al 4,8%? Sarebbe tra le crescite maggiori degli ultimi trent'anni. Ma di questo chi ne parla? Mister Peltzman ci aiuta lei?
Laura Cesaretti per ''il Giornale'' il 16 aprile 2020. Ha resistito per settimane. Ha fatto muro di gomma, rifugiandosi dietro l’emergenza sanitaria, il numero di morti, la priorità di tenere sotto chiave gli italiani. C’è chi racconta di vere e proprie sfuriate: «Il premier sono io e non mi faccio commissariare. Non ho nessun bisogno di super-manager per sapere cosa decidere per il Paese». Poi Giuseppe Conte ha capito che alla pressione del Quirinale e a quei pezzi di maggioranza che reclamavano da tempo una cabina di regia per gestire la Fase due non poteva continuare ad opporre solo dinieghi, e ha provato ad aggirare l’ostacolo, per svuotare dall’interno una manovra che serviva, effettivamente, a far presidiare da competenze esterne un governo estremamente debole e confuso. Mettendo sul mercato politico nomi che potrebbero tornare preziosi per un eventuale (e da molti auspicato) dopo-Conte. Così ha consentito al suggerimento insistente del Colle («La situazione è gravissima, devi farti aiutare, servono competenze indiscutibili»), ha fatto buon visto a cattivo gioco e si è occupato lui stesso di far filtrare il nome di Vittorio Colao, facendola passare per una sua scelta e non – come sostanzialmente è stata – per un’imposizione. E attorno a Colao ha creato una sorta di comitato di studi monstre, del tutto privo di poteri ma accuratamente lottizzato, per appesantire e rendere inefficace l’operazione. Sedici nomi, alcuni scelti dal premier, altri da lui richiesti come indicazione ai partiti di maggioranza e ad altri soggetti sul cui appoggio Conte vuole poter puntare: per fare un esempio, l’illustre (e sconosciuto) Franco Ficareta, molisano che fa l’assistente di Diritto del lavoro a Bologna, è stato caldeggiato dal capo Cgil Stefano Landini, con l’avallo della ministra del Lavoro grillina Catalfo. Altri nomi sono stati suggeriti da Zingaretti o Franceschini, da Di Maio e dalla Casaleggio, dallo stesso premier (che già li aveva infilati tra i suoi consiglieri, come Mariana Mazzuccato o Filomena Maggini). Colao si è così ritrovato sul groppone una pletora di psicologi e sociologi, sindacalisti e economisti (alcuni di indubbia fama, altri meno) senza avere grande voce in capitolo. Tant’è che sulla squadra già filtrano le sue perplessità. Così come le sue critiche alla farraginosità burocratica con cui il governo si è finora mosso: «In Albania hanno già la app e noi ancora andiamo avanti con decine di moduli diversi di autocertificazione». Giuseppe Conte non si intende granché di governo, ma di gestione del potere sì, eccome. E sembra essere riuscito, per ora, nell’intento di neutralizzare il secondo tentativo (dopo il «caso Draghi») di provare a togliere progressivamente la regia della peggiore crisi dal dopoguerra dalle mani sue e di Rocco Casalino. Ora però, racconta chi conosce Vittorio Colao, bisogna vedere se e quanto un manager di statura e riconoscimento internazionale come lui, abituato a comandare, sarà disponibile a farsi bruciare dalle nebbiose lotte di potere romane. «Entro un mese – dice un dirigente dem assai critico con il governo – la task force dovrebbe indicare le possibili ricette per gestire quello che si prefigura come un cambiamento epocale di parametri. Non credo che Vittorio Colao sia disponibile a mettere in gioco la sua credibilità, se verificherà che non ci sono le condizioni per fare un lavoro serio, e tutto quel che gli si consente è di dirigere una sorta di gruppone variopinto di consiglieri del Principe».
Dall'articolo di Lorenzo Salvia per il ''Corriere della Sera'' il 16 aprile 2020. Non è un mistero che la composizione originaria della task force dovesse essere più snella, otto componenti in tutto. E che, dicono nel Pd, sia stato proprio il premier Giuseppe Conte a volerla allargare per annacquarla un po', per evitare che si trasformasse in un vero e proprio governo ombra. Ma ci sono anche altre contraddizioni. Tra i temi affrontati dalla commissione c' è anche la ripartenza della pubblica amministrazione, quando il ministero competente ha già emanato le direttive per la sua fase 2, con gli appuntamenti da prendere in anticipo per evitare assembramenti. Mentre manca un esperto di turismo, forse il settore più colpito in assoluto. Anche per questo a metà giornata, dalla commissione filtra una delle proposte allo studio, quella sullo scaglionamento degli orari di entrate e di uscita dal lavoro, che in realtà era già uscita due giorni fa. Insieme a quella per lo smart working obbligatorio nelle sedi al di sopra di un certo numero di dipendenti, sempre con l' obiettivo di alleggerire la congestione sui mezzi pubblici. Un segnale di vitalità. E una reazione all' assedio che c' è intorno.
Maurizio Belpietro per la Verità il 19 aprile 2020. Le aziende messe in crisi dall' epidemia di coronavirus non hanno ancora visto un euro dei 400 miliardi promessi da Giuseppe Conte. E nonostante le rassicurazioni del presidente del Consiglio, migliaia di lavoratori a tutt' oggi rischiano di perdere il posto. In compenso, il governo ha già creato 450 consulenti, un esercito di professionisti o presunti tali chiamati ad affiancare premier e ministri nel momento dell' emergenza. Sì, qualcosa di positivo il Covid-19 lo ha fatto: ha dato una ribalta - e forse un compenso - a una legione di professori o presunti tali, i quali sono stati chiamati a svolgere un ruolo di supervisori e super consiglieri, senza ovviamente dover rendere conto a nessuno, perché le diverse task force ministeriali non hanno un ruolo preciso, non sono inquadrate nella pubblica amministrazione e come referente hanno solo chi ha deciso di volerli al proprio fianco. A fare l' elenco del plotone di consulenti schierato da Palazzo Chigi contro il virus è stato Il Sole 24 Ore, che con pazienza si è preso la briga di censire tutti gli esperti di cui si sono circondati i ministri del Conte bis. Già il titolo del quotidiano confindustriale la dice lunga sulla necessità di arruolare una truppa così numerosa, infatti il giornale salmonato parla di caos fra le diverse task force, le quali sono così numerose da farsi ombra l' una con l' altra e da infastidirsi a vicenda. Anche perché ogni esponente del gabinetto di guerra allestito dal governo ha voluto al fianco una propria squadra. Tra i primi a circondarsi di consulenti, dopo aver capito di non aver capito niente di ciò che stava succedendo, è stato Roberto Speranza, il parlamentare di Leu che dovrebbe difendere la nostra salute. Dopo aver dato assicurazioni a destra e a manca sulle misure messe in atto, Speranza (nomen omen) ha preferito tutelarsi con una sua personale guardia pretoriana di consulenti. In totale se ne contano otto, tutti provenienti dagli alti gradi degli enti sanitari. Ma se il ministro della Salute ha voluto la task force, poteva la Protezione civile non avere la sua? Ovvio che no e così anche Angelo Borrelli, il ragioniere a cui è stata affidata la cura degli italiani, ha insediato il suo comitato di esperti. Non volendo essere da meno, il revisore dei conti che non è riuscito a rivedere gli ordini di mascherine protettive per i medici, ha insediato 15 consulenti, chiamandoli a far parte del comitato tecnico scientifico. Se il capo della Protezione civile ha la sua squadra, posso non averla io, deve aver pensato Francesco Boccia, il ministro che deve tenere i rapporti con le Regioni. E quindi ecco insediata la cabina di regia tra governo ed enti locali, con 40 componenti. Lucia Azzolina, ministro dell' Istruzione, ha però deciso di sbaragliare sia Speranza che Boccia, nominando una task force di 100 esperti, con dentro dirigenti del ministero, esponenti della protezione civile, pediatri, responsabili territoriali e, perché no, anche studenti. Ma, per non farsi mancare niente, al Miur, cioè al ministero dell' Istruzione, dell' università e della ricerca, hanno deciso di fare una seconda task force: la prima per l' emergenza, la seconda per il dopo emergenza, con altri 15 esperti. Vi sembra troppo? Beh, non avete ancora letto ciò che sono riusciti a fare negli altri ministeri. All' economia Roberto Gualtieri e i suoi hanno insediato la task force per la liquidità del sistema bancario (35 consiglieri), all' Ambiente Sergio Costa si è fatto il suo bravo gruppo di lavoro per l' accesso delle imprese green al credito (9 consulenti), alla Giustizia Alfonso Bonafede ha voluto la task force delle carceri (40 esperti), mentre Paola Pisano, ministro dell' Innovazione, ha creato un super gruppo di lavoro composto da 76 tecnici per vigilare sui dati. Le commissioni più interessanti però sono quelle della ministra della Famiglia, Elena Bonetti, e quella predisposta dal sottosegretario all' editoria, Andrea Martella: la prima ha insediato una task force denominata «Donne per un nuovo Rinascimento» (13 membri), il secondo ha voluto al suo fianco una pattuglia contro le fake news (abili e arruolati in 11). È finita? No, ci sono ancora i magnifici 40 ingaggiati dal commissario Domenico Arcuri, i 20 di Bonafede per la Giustizia e gli otto chiamati a far parte della cabina di regia tra governo ed enti locali per la fase due, una super task force pretesa da Speranza e Boccia, perché delle commissioni che avevano già insediato non ne avevano abbastanza. Per finire, c' è poi la commissione della riapertura, già soprannominata Colao Meravigliao, dal nome del suo esponente più illustre, l' ex amministratore delegato di Vodafone: 20 esperti che dovranno decidere se si è usciti dall' emergenza e si può tornare a una vita normale. Certo, parlare di vita normale non è facile. Soprattutto se si considera che l' Italia, pur avendo il più alto numero di parlamentari e di burocrati, è costretta a farsi aiutare e rappresentare da 450 signori che nessuno conosce, ma che soprattutto nessuno ha mai eletto. Pensandoci, ci vorrebbe una task force che insegni la democrazia al professore Giuseppe Conte, primo ministro senza voti ma con tanti consulenti.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 30 novembre 2020. Stavolta, nella nuova super-commissione, sono in 300. Forse per smentire la certezza di Benedetto Croce secondo il quale, in politica, «l' unica commissione in grado di fare qualcosa è quella con un numero di componenti pari che sia inferiore all' uno». Ovvero, zero. Sennò si straparla e si litiga senza approdare a nulla. Magari in questo caso non sarà così e viene da canticchiare «Eran trecento, giovani e forti...», anzi no perché quella spedizione (di Pisacane) non andò bene. Il fatto è che la Repubblica delle commissioni, dei comitati, delle task force, dei commissari e dei conferenzieri (quelli degli Stati Generali di maggio non resteranno nella storia della concretezza politica) ha trovato il suo apice e il suo apogeo in questo ultimo anno un po' per via del Covid, che richiede la moltiplicazione degli sforzi, e un po' per un altro motivo. Ossia per via dello pseudo machiavellismo per cui il modo migliore per decidere in proprio, o per non decidere proprio, è quello di allargare a dismisura gli organi di consulenza. Nella speranza di suscitare l' effetto bla bla. Fin dall' inizio della vicenda Recovery, la Repubblica dei commissari che rischia la paralisi per eccesso di commissari aveva pensato che per coordinare le politiche di sviluppo bastasse moltiplicare i titolari o presunti tali: e via con il Cipess, il Dipe, il Mattm, Benessere Italia, Investitalia, Commissione nazionale per lo sviluppo sostenibile, più il Ciae (Comitato interministeriale affari europei) e corrispondente Dipartimento per le politiche europee. E adesso a dare manforte (sembra quasi di stare alle Termopili) sono arrivati i 300 di Leonida-Conte contro Serse re di Persia che sarebbe la crisi provocata dal Covid. Ma c' è poco da sorridere. E infatti il titolare della celebre Task Force per la Ripresa, Vittorio Colao alla guida di 15 super-esperti con il compito di non fare ombra al premier e al governo, ha sempre rilasciato pochissimi sorrisi. Una giungla popolata dall' inizio dell' emergenza virus da una ventina di commissioni - più tutte quelle regionali, provinciali, comunali - e da 1400 incarichi affidati, secondo il calcolo di Openpolis, a uomini e donne. Poche donne e basti pensare che il Comitato tecnico-scientifico è al 100 per cento maschile. Un commissario come Arcuri può anche essere pluri-commissario, ossia moltiplicare l' eccezionalità di cui è investito. E lo stesso posto di commissario può passare di mano anche quattro volte in pochi giorni come nel caso Calabria. In verità si rischia di perdere il conto: task force Carceri (40 componenti), task force Giustizia (in 20 e 3 tavoli tecnici), task force Finanza Sostenibile (del ministero Ambiente, 9 componenti), due task force della ministra Azzolina ( 115 persone in tutto), la task force Donne per un Nuovo Rinascimento (in 13 nominate dal dicastero Pari opportunità), la task force Data Drive per Immuni (74 componenti). E via così, in una sbronza collettiva che, in nome della semplificazione, non semplifica. Generando sovrapposizioni, e anche invidie e ripicche. Mentre Palazzo Chigi coordina il procurato caos animato da virologi ed epidemiologi (e fin qui ci siamo) ma anche da tuttologi, politologi, sociologi, psicologi, manager veri e manager emozionali, sapienti veri e imbucati. Se non sei un commissario, non conti nulla. E c' è chi dice che la commissionite e la commissarite rappresentano la via italiana al problem solving. Già descritta da Cesare Pascarella più di un secolo fa: «E invece de venì a 'na decisione, / Sa, je fecero, senza complimenti, / Qui bisogna formà 'na com
Borrelli, Arcuri, Colao: Conte ha paura di decidere e si auto commissaria. Deborah Bergamini de Il Riformista il 15 Aprile 2020. Mentre impazza la discussione sul ricorso al Mes che rischia di mettere sotto commissariamento l’Italia, prendiamo atto che di fatto l’Italia è già commissariata. A decidere del futuro sanitario ed economico di tutti noi ci sono commissioni per ogni palato: c’è il comitato tecnico-scientifico che si occupa di supportare la Protezione Civile su questioni di carattere epidemiologico; c’è il commissario straordinario per l’emergenza Borrelli, che si occupa di coordinare e organizzare il lavoro della Protezione Civile; c’è l’altro commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri, che si occupa dell’approvvigionamento delle forniture sanitarie; c’è la task force tecnologica di 64 esperti voluta dalla Ministra Pisano, e da ultimo c’è Vittorio Colao, chiamato a guidare la task force che si occuperà di immaginare, insieme ad altri, la cosiddetta fase 2, e cioè la ricostruzione economica del Paese. A fronte di tutti queste commissioni e comitati tecnici si evidenzia, e macroscopica, l’assenza della politica. Sì, perché il coinvolgimento di quest’ultima, da parte del Presidente del Consiglio, è al minimo. La cosa non è strana, essendo Conte espresso da un partito, il M5S, che, considerando l’esercizio della politica solo un costo, si batte per la democrazia diretta e il taglio dei parlamentari. E immaginiamo – ma non siamo certi – che tutti questi esperti e commissari lavorino peraltro a titolo gratuito, a cominciare dalla Task Force fase 2, perché sarebbe assurdo voler abbattere un costo – quello degli eletti dal popolo – per sostituirlo con un altro, quello di figure non elette per fare quello che dovrebbero fare gli eletti, e cioè decidere per il bene comune. Fatto sta che l’avvocato Conte, mai eletto a sua volta, ha perso l’opportunità di coinvolgere nella gestione dell’emergenza uno strumento disponibile e molto valido, oltre che molto politico: le commissioni parlamentari, quelle sì legittimate da libere elezioni. Decine di parlamentari lavorano in quelle commissioni, sono divisi per competenze e potrebbero benissimo audire gli esperti e svolgere un ruolo chiave nell’aiutare il governo sui provvedimenti da assumere. Invece sono ridotti a vidimatori di decisioni già elaborate nelle segrete stanze. Tutto ciò non vuol dire esautorare il Parlamento, ma umiliarlo sì. Non si capisce infatti perché non potevano essere le commissioni permanenti preposte (dove comunque Pd e 5stelle hanno la maggioranza), o commissioni ad hoc, il luogo in cui raccogliere e trasformare in leggi i consigli di virologi, economisti, medici, esperti e via dicendo. Se il governo intende delegare tutte le scelte rilevanti a tecnici esterni, non legittimati da un voto popolare, a cosa serve il Parlamento, a cosa serve la politica: a ratificare le decisioni prese da terze parti? Oppure, ma spero non sia così, Conte e Zingaretti non reputano i loro presidenti di commissioni parlamentari all’altezza di raccogliere i pareri dei tecnici e decidere sui provvedimenti da adottare? Chissà perché, ad esempio, il senatore Stefano Collina, presidente della Commissione Sanità al Senato per il Pd, non è stato incaricato di audire tutti gli esperti del caso e svolgere un efficace lavoro sui contenuti, così da consentire al Parlamento di assumersi la corresponsabilità delle scelte indispensabili per fronteggiare l’emergenza sanitaria? Perché non si è chiesto alle Commissioni economiche o di altro tipo di sentire imprenditori, associazioni di categoria, economisti, esperti, per preparare la fase 2? Perché, proprio nel momento in cui il governo è chiamato a definire le scelte più importanti ha preferito esternalizzare questa responsabilità a soggetti non votati da nessuno? E infine: a cosa serve una politica che non sa decidere e che appalta all’esterno scelte così importanti? Se si vuole pensar male viene il dubbio che chi governa proprio questo voglia: non assumersi la responsabilità politica e giuridica delle proprie scelte ed eventualmente dei propri errori, delegandola a soggetti terzi. È singolare che un movimento giustizialista voglia tenersi al riparo da eventuali risvolti penali. Nessuno, né Conte né Arcuri né Borrelli, vuole fare la fine di Bertolaso che dopo essersi prodigato per il post-terremoto a L’Aquila ha dovuto passare anni nel tritacarne mediatico-giudiziario prima di essere assolto. Nessuno vuole patire quel che hanno patito Berlusconi, per essersi opposto ai diktat della magistratura, o Salvini, che per aver bloccato gli sbarchi sulle nostre coste si è visto recapitare avvisi di garanzia. La paura di questa classe politica verso il sistema giudiziario è tale che un emendamento al decreto Cura Italia firmato dai dem Paola Boldrini e Stefano Collina metteva le mani avanti e prevedeva una limitazione “ai soli casi di dolo e colpa grave” della “responsabilità civile, penale e amministrativa dei titolari di organi di indirizzo o di gestione che abbiano adottato ordinanze, direttive, circolari, atti o provvedimenti la cui attuazione abbia cagionato danni a terzi”. Poi hanno fatto marcia indietro. Questo conflitto perenne tra politica e giustizia, tra burocrazia e diritti dei cittadini, oltre a dimostrare che in Italia non esiste una vera separazione dei poteri, rallenta un Paese che ora più che mai ha bisogno di andare veloce. Conte e i suoi ministri non possono ragionare con la mentalità dei burocrati che evitano di decidere in autonomia per paura di avere delle grane: in una situazione di emergenza il loro compito non è difendere la propria reputazione ma difendere il Paese. E costruire comitati, commissioni, task force, la cui unica finalità è non assumersi la responsabilità di governo, non dimostra condivisione, ma paura. La storia di questo periodo, comunque vada, non porterà come prima la firma di Borrelli, Arcuri o Colao, porterà la firma del Governo Conte, che nel bene o nel male – speriamo nel bene – dovrà rendere conto di tutte le sue azioni o omissioni.
Una cinquantina di task force e quasi 1.500 incarichi. Ecco come è cresciuta in Italia la macchina dell'emergenza. Gli organismi, secondo uno studio di Openpolis, si sono moltiplicati sia a livello nazionale che regionale. E in tutto sono stati emanati duecento atti. Emanuele Lauria il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La macchina dell'emergenza Coronavirus ha sfornato, in Italia, già 1.500 nomine. Commissari, esperti, consulenti in movimento da mesi, con ruolo spesso inutili o sovrapposti, e figli di una profilerazione di strutture, sia a livello statale che regionale. Basti pensare che, da gennaio a oggi, sono stati 17 gli organismi coinvolti a livello nazionale nella gestione della crisi, ai quali però vanno sommati 16 task force e 19 unità di crisi costituite dai governatori. ...
Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it il 28 aprile 2020. Un comitato di 17 + 2 per prima cosa non lo doveva formare. Per via dei numeri e della scaramanzia. Leggetevi poi l’elenco dei componenti. Tranne Giovanni Gorno Tempini e Enrico Giovannini risulta difficile vedere in quella lista di eccelsi qualcuno che sia in grado di dare un contributo alla ripresa dell’Italia post Covid-19. Infatti l’esordio dell’accoppiata Conte-Colao è stato deludente. Con sfumature di ridicolo. Riaprono i parrucchieri il primo giugno? Impossibile: il primo giugno è lunedì e di lunedì i parrucchieri sono chiusi. Lo sanno anche i neonati. O chi non vive in Italia, come Colao fino a poco tempo fa. Bene è andata che non è passata l’idea di bloccare in casa in una sorta di coprifuoco le persone con più di 60 o 70 anni. Ma è l’impressione complessiva a deludere. Come ha detto Massimo Cacciari, sarebbe l’ora di smettere di dire parole in libertà. Ci si aspettava un colpo d’ala, un progetto, un’idea. Non quando riprenderanno gli allenamenti del calcio. Giuseppe Conte conosce bene il principale guaio dell’Italia: la burocrazia. L’intorcinamento di leggi, commi, rinvii, procedure, pareri eccetera che paralizzano l’Italia. Tutto il resto sono chiacchiere. Quante volte abbiamo sentito parlare di Sblocca-Italia? Quante leggi sono ancora bloccate, a 10 anni dall’annuncio? Leggi anche approvate, due, tre votazioni. Poi definite meglio nei regolamenti. Poi i decreti…Conte doveva prendere i quattro direttori generali di ministero più direttamente interessati al gioco al massacro delle procedure e fare come fa la Chiesa. Chiuderli in una stanza di Palazzo Chigi come in Conclave, senza lasciarli uscire fino a quando non avessero risposto alla domanda chiave. La domanda doveva essere: come si fa a far sì che un ordine del primo ministro o una legge del Parlamento diventino esecutive in giorni se non ore? Invece Conte ha messo assieme un gruppo di persone una meglio dell’altra, ciascuna nel proprio campo specifico. Nessuna però mi appare in grado di sciogliere la domanda di Turandot. E Colao non è Calaf, non canta il mio mistero è chiuso in me. Uno che si è occupato tutta la vita di telefonini, tranne un breve e non felicissimo interludio nei giornali, anche se in possesso del metodo universale McKinsey che tutto capisce e tutto risolve, tra tabelle, grafici e scale logaritmiche, quanto può capire e risolvere i misteri della pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione, la burocrazia, il potere carsico dell’alta dirigenza politica, militare, giudiziaria non è una invenzione della Repubblica, prima seconda terza. Erano già lì ai tempi di Vittorio Amedeo di Savoia e del marchese d’Ormea. Erano lì quando si trattava di mandare Garibaldi a morire sulle Alpi (senza riuscirci). E anche quando mandarono i nostri soldati a morire nelle nevi ucraine con le scarpe di cartone. Dei comitati di Conte e Colao se ne fanno un baffo. Nessuno ci ha spiegato perché sia stato scelto Colao. Colao non ha spiegato i criteri di scelta dei suoi colleghi. Mi ha colpito la presenza di tale Raffaella Sadun, Professor of Business Administration, Harvard Business School, secondo il sito del Governo. Vive nel Massachusets, possibile che non ci sia qualcuno di più addentro nei misteri italiani? Mi do una risposta. Sadun è fra i tre autori di un articolo pubblicato un mese fa sulla Harvard Business Review. Repubblica lo aveva presentato così: “Harvard boccia le misure italiane sul coronavirus: rischi sottovalutati e tanti errori”. Risposta implicita: ci vuole Mario Draghi. Di Mario e Supermario gli italiani dovrebbero averne abbastanza. Ricordino il SuperMario Monti. Da Monti Conte sembra avere appreso una lezione. Ai tempi del suo Governo, Monti era costantemente sotto attacco del duo Alesina-Giavazzi. Fino a quando ebbe una idea geniale. Incaricò Francesco Giavazzi di studiare una grande spending review, alla ricerca del tagli di spesa. La spending review fece tacere Giavazzi. Ingoiò anche il bravissimo Enrico Bondi, risanatore di aziende, infelice salvatore della Parmalat, regalata da Berlusconi ai francesi per averne l’appoggio a postarlo alla Bce. Secondo me, è bastato l’articolo sulla rivista di Harvard per motivare Conte. Penso male? Il risultato mi pare simile a quello di Monti. Come la tanto conclamata spending review finì in fumo, il Comitato Colao ha portato guai. Le conclusioni del Comitato che sono alla base della Fase 2 di Conte, sono banalità che un qualunque giornalista di provincia avrebbe concepito. Un buon giornalista non avrebbe proposto l’errore di tenere chiuse le chiese (e, presumo, sinagoghe, chiese protestanti varie e moschee). Mettete il naso in una chiesa un giorno feriale. Scoprirete che sono vuote. La domenica (o il sabato o il venerdì) si trattava di applicare i metodi in vigore per i supermercati. Le organizzazioni religiose erano e sono perfettamente in grado di gestire il servizio d’ordine, senza aggravare il lavoro delle Forze dell’Ordine. E ora pare che Conte farà una umiliante retromarcia. Poteva evitarsela. Bastava chiedere consiglio a un commesso di Palazzo Chigi. Altra scemenza: quella di non potersi spostare da una regione all’altra. E di non potersi recare, chi ce l’ha, in una seconda casa. Quanti italiani possiedono una seconda casa in altra regione, diversa da quella di residenza? Se la sua seconda casa è in Liguria, ad esempio, o in Val d’Aosta, si attacca. Sì è rotto un tubo? C’è una perdita? O una infiltrazione nel tetto? Niente da fare. Ma per il ministro dei trasporti Paola De Micheli nemmeno nella stessa regione un poveraccio può andare a vedere, dopo mesi di assenza, se tutto è in ordine. Siamo un po’ nel regno dell’assurdo. Chissà quale recondito calcolo politico muove la De Micheli. Scusi, ma se salgo in macchina a Torino, tanto per dire, arrivo a Varigotti (Savona) che dovrebbe essere più o meno deserta. Entro in casa e mi ci chiudo dentro. Non incontro nessuno, non saluto nessuno. Se vedo qualcuno gli parlo da 2 metri con mascherina. Come posso passare per untore? O infettarmi? Siamo stati in tanti a sentire Conte parlare in tv domenica sera. Premetto che finora ho guardato Conte con ammirazione. Assurto a presidente del Consiglio per ragioni che un cittadino normale non riesce a spiegarsi (ma fu così anche con Monti, quindi orma ci siamo abituati), sballottato per un anno fra Scilla-Salvini e Cariddi-Di Maio, si è ritrovato in autunno a capo di una coalizione impensabile un mese prima. Non era, penso, una esistenza semplice. Quelli del Pd non sono folcloristici come Salvini, ma vengono da lontano e vanno lontano. Esplosa la crisi del Coronavirus, Conte è stato bravissimo. Navigava in un mare in tempesta, fra gli scogli delle autonomie locali e il vento della politica e dell’economia che cambiava forza e direzione ogni ora. Chiedeva aiuto ai tedeschi e il suo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, metteva in piazza, su giornali siti e tv, il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti. Come indignarsi se la Welt, giornale di Germania, dice le stesse cose? Come sostenere che scrive fesserie? La signora prefetto Lamorgese bastava che lo scrivesse ai suoi colleghi sottoposti prefetti o al capo del suo Governo, o ai ministri interessati. C’era bisogno di un comunicato stampa, di mettere, come si dice, il guano nel ventilatore? Conte ha glissato su tutto. Ha cavalcato il Covid come Tarzan cavalcava l’ippopotamo inferocito. Penso sia stato decisivo nel far crollare di 5 punti il consenso della Lega. Anche se non si può negare che gli errori di Giulio Gallera (peraltro non leghista ma di Forza Italia) e il volto attonito di Attilio Fontana una mano gliela hanno data. E poi è stato bravo, dite quello che volete. Ha fatto suo il motto di Antonio Ferrer, Gran cancelliere spagnolo di Milano ai tempi della peste, che in tanti abbiamo conosciuto a scuola: “Pedro, adelante con juicio”. Avanti con prudenza, riporta Alessandro Manzoni nei promessi sposi. E lui si è mosso con accortezza, ottenendo eccellenti risultati, pur fra errori, incertezze e in mezzo alla tempesta. La strategia ha pagato. Cala il numero dei morti e dei malati. Sale il consenso attorno a Giuseppe Conte. Conte è riuscito a isolare i veri virus che stanno a cuore a lui: Salvini e Draghi. Ma la partita non è ancora finita, basta un piccolo errore e sei fatto. Se gli va bene, Conte diventa intoccabile come Garibaldi… Ma domenica 26 si è avvertito un crack. In quello che veniva detto sul teleschermo. E in quello che si intravvedeva dietro le quinte. Che sia in atto una certa tensione fra Conte e Colao era stato anticipato da un articolo sul Fatto di Luca De Carolis. L’eloquio di Conte ha confermato i sospetti. Troppe volte, almeno 5 o 6, Conte ha fatto riferimento al Comitato e a Colao. Chi ha un po’ di esperienza di vita associativa o aziendale, sa che più uno lo nomini, più intensamente lo detesti. Ma allora perché lo ha nominato? Misteri d’Italia.
Su grandi vicende la politica si prenda le sue responsabilità. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. Io ai miei figli ho sempre suggerito di seguire questa regola irregolare: se un’idea è maggioritaria, allora molto spesso è un’idea sbagliata. Quando mi hanno domandato perché, gli ho risposto con una domanda e cioè se a loro giudizio la maggioranza è fatta di persone intelligenti e che sanno tante cose, o no. Non serviva spiegare altro, avevano già capito. Non serviva cioè aggiungere: «E dunque, se la maggioranza non è fatta di persone intelligenti e che sanno tante cose, ma perlopiù di stupidi e ignoranti, non credete che facilmente l’idea della maggioranza sia sbagliata?». Mi piace pensare che ci abbiano pensato in questi giorni virali, ascoltando i discorsi di “quelli che comandano” (loro chiamano così i politici), tutti uniti a spiegare che «bisogna lasciare la parola agli scienziati». A questa scemenza si sono abbandonati veramente tutti, nella solerte unanimità che sempre muove il cosiddetto “senso comune”, questa comoda e riposante dimora delle pubbliche imbecillità. «La politica faccia un passo indietro», dicono; «Facciamo parlare i tecnici», spiegano. Dovrebbe essere esattamente il contrario. Davanti alle gravi vicende, quando si tratta di decisioni importanti da prendere e comunicare, la politica dovrebbe semmai fare un passo in avanti e i tecnici dovrebbero piuttosto lavorare, ma zitti. Che cosa si fa se c’è una guerra? Il capo dello Stato va in televisione e spiega che «la parola passa ai generali»? Tu, politico, gli scienziati e i tecnici li convochi, li ascolti in contraddittorio, ti fai un’idea, scremi (perché stupidità e stupidaggini abbondano anche nelle parole dei tecnici), e poi decidi prendendoti la responsabilità della tua decisione. Tra gli scienziati cui la stupidità maggioritaria ha appaltato la linea c’è chi, per esempio, se n’è uscito con la bella trovata di spiegare in mondovisione che chiunque abbia trentasette e mezzo di febbre dovrebbe farsi fare il tampone. Dagli ospedali avvertono che è stato già un macello farne quattro o cinque mila, e quest’altro viene a dirci che bisogna farlo a chiunque presenti una linea di febbre, cioè a circa mezzo milione di cittadini. Che è una pericolosissima, doppia sciocchezza. Primo, perché è impossibile. E secondo (anche peggio) perché genera panico e senso di abbandono in qualcosa come quattrocentonovantacinquemila cittadini che non saranno, perché non potranno essere, sottoposti al tampone. Una classe politica che non si dice buona, ma appena responsabile, dovrebbe semmai essere unita a contenere se non a togliere la parola a simili scienziati, anziché ad attribuirgliela in esclusiva. E invece no: «Siano i tecnici a parlare». Attenzione, per evitare fraintendimenti. Alla tecnica, alla scienza, bisogna certamente affidarsi, ma non per la gestione della cosa pubblica e tanto meno nei casi di emergenza. Altrimenti, appunto, se c’è una guerra mettiamo un colonnello a capo del governo e se c’è una crisi finanziaria mettiamo un analista al ministero dell’Economia: l’uno e l’altro magari anche bravissimi nel loro lavoro, ma dargli la linea di comando, o anche solo consentirgli di spiegarla, è quanto di peggio si possa fare in un sistema democratico non arretrato. C’è ancora un motivo (e questo ai miei figli ancora non posso spiegarlo) per cui allo scienziato non dovrebbe essere consentito di impancarsi: ed è che la scienza che accede alla politica, che “si fa” politica, assume veste di sacro, e allora naturalmente, inevitabilmente tira a giustificare le proprie scelte e a ordinare i nostri comportamenti in funzione della sacralità del proprio ruolo. Come fa il sacerdote. Come fa il santone. Come fa il tiranno. Con la maggioranza che sta a guardare.
Coronavirus, la vita tra quarantena e infodemia. È la prima volta che in Italia vengono sospesi diritti e movimenti per far fronte a un virus. Tra iper informazione e ricerca di risposte, nelle aree del Nord Italia sospese dall'isolamento e dalla paura del contagio. Rita: «Almeno noi siamo in quattro, e possiamo confrontarci in casa. Penso che fatica dev'essere per le persone sole». Francesca Sironi il 24 febbraio 2020 su La Repubblica. Lo stato d'eccezione ha un suono: è il rumore della tv accesa in sottofondo. Del flusso costante di notizie, di titoli a ripetizione sul coronavirus. È la colonna sonora nelle stanze del Nord Italia, dove la paura del contagio segna per chiunque la nuova convivenza con il virus o la sua ombra. Rita vive a Codogno da 20 anni. Ha due figli, il più grande frequenta Economia all'Università, l'altro fa uno stage. Entrambi, come il marito, sono a casa, in quarantena preventiva, insieme a lei. Stanno bene, ma sono cinturati nella zona rossa del lodigiano, «anche se i controlli sono molto inferiori di quanto dicono», insiste Rita. Questa mattina si è mossa da casa per la prima volta in quattro giorni. «Guardo Canale 5, principalmente», racconta: «Ascolto le notizie, cerco risposte sui social, scambio messaggi con i residenti sulla pagina "Sei di Codogno se...". Sono in ansia perché mio marito deve assolutamente andare a un presidio sanitario a Casalpusterlengo e non riesco a capire se ci faranno entrare. I numeri verdi, sia quello della regione che quello nazionale, sono sempre occupati. Sul gruppo whatsapp giravano testimonianze di persone che hanno aspettato anche cinque ore al telefono per avere un'informazione». Nel flusso costante di messaggi, allarmi, domande, sui suoi gruppi girano vocali e foto, «che spesso i miei figli mi mostrano essere false: loro sono più bravi a capirlo, seguono siti specializzati. Almeno noi siamo in quattro, e possiamo confrontarci in casa. Penso che fatica dev'essere per le persone sole». Non si sono ancora dovuti inventare strategie per passare il tempo, continua, «perché tutto il nostro tempo lo dedichiamo a cercare risposte, a discutere con gli altri, a provare di capire costa sta succedendo veramente con questo virus». La quotidianità stravolta di Rita, la sua ricerca di risposte, sono l'esempio perfetto di quella che l'Organizzazione mondiale della Sanità definisce infodemia. Ovvero «una sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate altre no – che rende difficile alle persone trovare fonti attendibili e indicazioni affidabili quando ne hanno bisogno». Non è solo una questione di bufale o di fake news. Ma solamente di eccesso: di troppe voci, incessanti, che pur nell'eccedere, non bastano. Non servono a molto. Perché quello di cui hanno bisogno le persone, in questo momento, sono risposte concrete che in quei flussi faticano a trovare spazio: dove posso trovare i supermercati aperti; come mi comporto con il cane; quanto durerà la chiusura; come fare se si sta male per sintomi diversi dal Covid19, in un momento in cui ospedali e presidi sanitari in Lombardia sono in frontiera contro il virus. E questo riguarda le esigenze pratiche. Le domande invece più ampie, continue e incessanti anche quelle, sull'estensione, le origini, la gravità della malattia e la necessità delle drastiche misure di contenimento adottate in Italia, sono le stesse che accomunano gli abitanti di tutta Europa. «Siamo di fronte a un problema di comunicazione fin dall'inizio», riflette Guido Bertolini, capo del laboratorio di Epidemiologia Clinica dell'Istituto Mario Negri: «Ci è stato sostanzialmente detto che la malattia fosse gravissima, ma che non ci avrebbe riguardato. Entrambe le affermazioni sono false. La patologia causata dal Covid-19 è seria, ed è un problema di sanità pubblica perché si tratta di un virus nuovo a cui non siamo preparati dal punto di vista delle difese immunitarie». I dati epidemiologici sono quelli più volti comunicati, legati ora al primo e più esteso studio pubblicato sul Chinese Journal of Epidemiology pochi giorni fa , basato sulle diagnosi di 72.314 pazienti nell'area di Hubei.L'80,9% delle infezioni risulta di lieve entità. Sintomi come l'influenza, che passa. Il 13,8% delle infezioni è più grave. E nel4,7% dei pazienti si tratta di casi critici, come polmoniti, con sintomi quali insufficienza respiratoria, shock settico o insufficienze a più organi contemporaneamente. La mortalità indicata in Cina è del 2,3 per cento. «Malattie come Ebola, o la Sars del 2003, avevano un tasso di mortalità molto più elevato. Ciò non toglie che la letalità del nuovo coronavirus sia alta. E per questo vada assolutamente controllato il rischio che il contagio si estenda: è comprensibile a chiunque quale sarebbero le conseguenze se gli infetti diventassero milioni, come accade per l'influenza, che ha un tasso di mortalità 20 volte inferiore», spiega dall'Istituto Mario Negri Guido Bertolini: «Gli interventi di salute pubblica, per ridurre il più possibile i contatti, sono in questo senso necessari e giusti. È vero che la paura di polemiche può innescare catene di "politica difensiva", ma è bene aver preso seriamente la questione del contenimento». Antonio è un operaio specializzato. Lavora alla Tecnim di Codogno, un'azienda che si occupa di fabbricazione di impianti di manutenzione. È a casa da venerdì. Per tutto il weekend non è uscito di casa. «Mio figlio Samuele, 14 anni, ha paura anche a uscire sul balcone. Io e mia moglie stiamo reagendo abbastanza bene, anche se non riesco a dormire per il nervosismo, e ho momenti neri, perché anche domani non potrò tornare a lavorare». Lunedì mattina Antonio è andato al supermercato del paese. Ha mandato un video della coda di carrelli. Solo le persone con la mascherina, poche per volte, venivano fatte entrare. «Ho preso il necessario e sono tornato subito a casa». Per informarsi Antonio segue i telegiornali «e leggo il sito di Codogno su Facebook. Poi facciamo lunghe conversazioni su Skype: noi qui siamo soli, i nostri familiari abitano altrove». La solitudine pesa. «Faccio lavatrici, cucino, dò una mano a mia moglie, i bambini giocano con la Xbox o vanno su YouTube». Le giornate si allentano, si svuotano, ma la fame di risposte non può diminuire. È la prima volta che in Italia vengono sospesi diritti e movimenti per far fronte a un virus. La quarantena, lo stato d'eccezione. L'ansia che ne consegue: c'è chi l'affronta razionalmente, chi meno. I supermercati a Milano sono in gran parte pieni e sereni, ma l'immagine diventata virale è quella degli scaffali d'acqua e scatolette svuotati per le scorte. Per strada, fra bar poco frequentati e traffico diminuito, i discorsi convergono quasi esclusivamente sul coronavirus e le sue conseguenze. Sul proprio sito il ministero della Salute ricorda alle persone di rivolgersi al numero verde 800.46.23.40. In caso di dubbi o sospetti, dice di chiamare il numero apposito: 1500. Alla presenza di sintomi l'invito è a non andare assolutamente al pronto soccorso o in ospedale, ma a chiamare il 118. Le chiamate al 118 sono in effetti esplose in questi giorni. La preoccupazione collettiva invade i dipartimenti di medicina d'urgenza. Le sale d'aspetto dei pronto soccorso, che erano diventate in Italia l'anticamera comune in caso di malattie o dolori anche lievi, sono inaccessibili. Il rapporto con la salute pubblica cambia completamente. È una delle tante pratiche sospese o travolte dall'epidemia. Per avere rassicurazioni bisogna andare altrove, ma inseguendo il virus finiamo per sapere troppo, e troppo poco al tempo stesso. L'iper rappresentazione del problema corre sul filo fra informazione e paranoia. Rassicurare, nell'eccesso di fonti, funziona a fatica. Per strada, come sui social, il bisogno di comunicare, lo scambio di solidarietà oppure di insulti, di richieste o segnalazioni, diventa velocemente il ricettacolo dell'altra epidemia; quella infodemica.
Andrea Fontana per formiche.net il 25 febbraio 2020. Abito a Milano da una ventina d’anni. Sono uno di quei milanesi adottivi – accolti dalla città meneghina – per lavoro. Milano mi ha dato molto: identità professionale e tante occasioni di vita. La Lombardia, ma in senso l’Italia – che giro in lungo e largo per motivi professionali – sono sempre state per me sinonimo di: speranza, futuro, bellezza. Tra sabato 22 febbraio e domenica 23 febbraio un terremoto comunicativo ha messo tutto in discussione. Da circa 48 ore siamo in piena e totale infodemia. Non solo siamo stati attaccati da un virus influenzale severo ma siamo anche sotto un’epidemia cognitiva. Come ci ricorda la Treccani il termine infodemia compare per la prima volta nel dibattito pubblico nel 2003 a seguito di un articolo di David J. Rothkopf, il quale ne parla in questo suo scritto comparso nel quotidiano «Washington Post», When the Buzz Bites Back. Il termine Infodemic ricorrerà poi nei documenti ufficiali dell’Organizzazione mondiale della Sanità. In sostanza è la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie. Spesso non vagliate con precisione, o che non possono essere verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili ma anche certe. In queste ore però in Italia stiamo vivendo qualcosa di più profondo e rilevante. Mentre l’epidemia biologica avanza, e speriamo si fermi al più presto, l’epidemia cognitiva accelera con informazioni di tutti i tipi date da fonti rilevanti. Medici, virologhi, esperti della salute pubblica in queste ore hanno fatto affermazioni che sono poi state spesso riportate, dai mezzi informativi, in modo contradditorio tra di loro. Tra i tanti modi di diffondere notizie mi ha colpito questo: alcune dichiarazioni del prof. Fabrizio Ernesto Pregliasco e poi della prof.ssa Maria Rita Gismondo, prima diffuse dal Huffpost Italia e poi riprese anche da altre testate giornalistiche. Nel leggere queste notizie un cittadino non esperto in medicina come me ovviamente si sente abbastanza confuso e forse anche un po’ spaventato. Perché la notizia che arriva è totalmente contraddittoria: da una parte una rassicurazione dall’altra una sorta di minaccia necessaria per un bene superiore. Nel frattempo, sempre quel cittadino – non esperto come me in questioni biologico-politiche – ha visto nella sera di sabato 22 febbraio, la conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che riporta la decisione del Consiglio dei Ministri di approvare un decreto-legge che introduce misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-2019. Nello stesso tempo sente amici o parenti nelle zone focalaio i quali manifestano ansie e preoccupazioni legittime. E domenica 23 febbraio 2020 ha sentito il Governatore della Regione Lombardia affermare: “Misure come a Wuhan se situazione degenera” mentre i supermercati sono presi d’assalto da cittadini che fanno provvista. Sembra un B Movie apocalittico degli anni Novanta, ma è la nostra attuale realtà. La questione non è banale. Perché la domanda rimanda al quesito: chi deve parlare nelle democrazie occidentali nel momento in cui queste sono sottoposte a eventi potenzialmente catastrofici che possono generare un danno collettivo enorme? La risposta non è affatto semplice. Potrebbe essere: tutti visto che è un diritto democratico. Ma nello stesso tempo, l’epidemia cognitiva sta mettendo in evidenza i limiti dell’informazione nelle emergenze quando non è chiara, tempestiva ed univoca. La domanda allora diventa: perché le agenzie informative prendono dichiarazioni così diverse con l’autorevolezza di un “camice bianco” che mette sempre in scena una competenza, senza però specificare chi è virologo, chi è infettivologo, chi è epidemiologo, chi è un analista di dati di laboratorio, etc. La questione forse è che un’emergenza catastrofica si affronta anche a livello comunicativo e che in questo momento siamo tutti responsabili:
i politici nell’avere una visione chiara del fenomeno e nel dare una comunicazione specifica alle loro comunità di riferimento;
i giornalisti nell’avere un’uniformità di messaggi verificati capaci di dare un quadro chiaro della situazione;
gli esperti del settore medico ed infettivologico nelle interviste che fanno;
noi cittadini che siamo chiamati a un esercizio di comprensione notevole e di pace sociale (anche nei nostri social media).
Dobbiamo fare sistema. L’infodemia cognitiva e forse anche l’epidemia biologica si batte in modo sistemico. Oggi è lunedì 24 febbraio 2020. Le scuole saranno chiuse, gli Atenei lombardi e veneti anche. Una parte della pianura padana sarà isolata. Molte aziende applicheranno lo smartworking e altre cercheranno di capire cosa fare in questo momento di confusione informativa. Non so cosa succederà a Milano, in Lombardia o in Italia. Ma voglio provare a vivere con il massimo della speranza sapendo che solo se ci sentiremo uniti e faremo sistema potremo affrontare la sfida che ci attende.
· Lo Scientismo.
Scientismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Lo scientismo viene descritto dal Devoto Oli come quel «movimento intellettuale sorto nell'ambito del positivismo francese (seconda metà del XIX secolo), tendente ad attribuire alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell'uomo». Il vocabolo assume spesso un'accezione negativa «per indicare l'indebita estensione di metodi scientifici validi nell'ambito di scienze particolari (come quelle naturali) ai più diversi aspetti della realtà, con pretese di conoscenza altrettanto rigorosa».
Storia. Nella storia della filosofia, lo scientismo nasce in Francia nella seconda metà dell'Ottocento,[2] da una costola del Positivismo, sia come termine che come concetto, per indicare l'atteggiamento intellettuale in base a cui il sapere scientifico deve essere a fondamento di tutta la conoscenza in qualunque dominio, anche in etica e in politica. Per estensione, è una posizione filosofica che ritiene rilevante da un punto di vista conoscitivo solo ed esclusivamente la scienza (nelle sue varie branche, a partire dalle scienze fisiche). Quest'accezione del termine, originata dal Positivismo, ritiene che l'universo sia essenzialmente conoscibile, ma che nessuna conoscenza sia accettabile se non stabilita dal metodo scientifico. Pertanto è respinta ogni forma di metafisica tradizionale. Critiche. Dal XX secolo, il termine ha prevalentemente una connotazione negativa, come ad esempio in Gaston Milhaud, per criticare un dogmatico eccesso di fiducia nella possibilità di estendere con successo i metodi scientifici al di fuori dei loro ambiti naturali. Secondo le tesi del Convenzionalismo e del Costruttivismo, indica una mancanza di consapevolezza del fatto, supportato dallo studio delle grandi rivoluzioni scientifiche, che l'intero approccio epistemologico della scienza, i suoi metodi, i contenuti e lo stesso paradigma dominante in una data epoca storica sono soggetti a continue variazioni, e non possono essere fissati una volta per tutte. Alla problematica, il sociologo Friedrich von Hayek ha dedicato un testo, Scientism and the Study of Society, in cui contesta l'applicazione del metodo della scienza naturale alla risoluzione dei problemi relativi alle istituzioni sociali e alla collettività. Lo scientismo infatti, secondo Hayek, ha la presunzione di saper comprendere realtà complesse come le istituzioni sociali sulla base delle proprie fallibili conoscenze scientifiche, ignorando che le società e i rapporti in essa vigenti sono sempre il risultato non voluto e non intenzionale delle azioni dei singoli individui, e non possono essere disegnate e ricostruite a piacimento. Critiche a una tale razionalità costruttivista, su cui si fonda lo scientismo, sono venute anche da Karl Popper, che rifacendosi ad Hayek intravede nel dogmatismo metodologico tipico dello scientismo il presupposto del totalitarismo, dato che esso ritiene di avere cognizioni sufficienti per pianificare ogni progettualità umana in maniera oggettiva, escludendo i fattori soggettivi come dei fastidiosi inconvenienti; ne deriva un modo di pensare «ingegneristico» e collettivista, incline a degenerare nel collettivismo politico. Lo scientismo inoltre, secondo Popper, non tiene conto che la scienza non procede passivamente per induzione, ma è sempre il frutto dell'inventiva umana e dunque occorre rivalutare il ruolo fondamentale che in essa assumono altre forme di pensiero come la metafisica. Egli considera un grande pericolo la passività tecnica tipica dell'addestramento scientifico, temendo «l'eventualità che ciò divenga una cosa normale, proprio come vedo un grande pericolo nell'aumento della specializzazione, che è anch'esso un fatto storico innegabile: un pericolo per la scienza e, in verità, anche per la nostra civiltà». Scettico sulla possibilità di approdare a una qualunque certezza in ambito scientifico, ma non sulla necessità di ricercare la verità che è invece il presupposto del razionalismo critico, Popper sostiene l'inconsistenza di concetti come quello tanto invocato di metodo scientifico, con cui si valuta una teoria in base a un presunto criterio oggettivo: «Non esiste alcun metodo scientifico in nessuno di questi tre sensi: [...] non c'è alcun metodo per scoprire una realtà scientifica; non c'è alcun metodo per accertare la verità di un'ipotesi scientifica, cioè nessun metodo di verificazione; non c'è alcun metodo per accertare se un'ipotesi è probabilmente vera.»
Massimo Gramellini per il Corriere della Sera l'1 maggio 2020. Quando GiusHappy Conte, in versione intellettuale della Magna Grecia, si è inerpicato sulle pareti della speculazione filosofica per illustrare la superiorità dell' Episteme rispetto alla Doxa, nell' aula di Montecitorio c' è stato un momento di comprensibile panico. A Salvini, per la tensione, si è addirittura oscurata la mascherina. Qualcuno tra i più colti avrà pensato che Doxa fosse il cognome di una cantante, ma nel dubbio tutti hanno applaudito. Tale doveva essere la sorpresa che non ci si è fermati troppo a riflettere sul contesto. E cioè che a criticare la Doxa, la volatile opinione comune, era un politico indicato dal movimento che sull' esaltazione della Doxa ha costruito le sue fortune. E che l' elogio dell' Episteme, la solida conoscenza degli esperti, si riferiva a una vicenda, quella del virus, in cui gli esperti non hanno fatto una grande figura, mostrandosi in disaccordo su tutto e con tutti, a volte persino con sé stessi. Nessuno intende farne loro una colpa, forse le nostre aspettative erano troppo alte. Ma c' è un limite anche all' incoerenza e a superarlo è stato uno dei capi dell' Organizzazione Mondiale della Sanità, quando ieri ha elogiato pubblicamente gli svedesi per avere affrontato la pandemia senza mai chiudersi in casa, dopo che a noi per due mesi era stato intimato di tenere il comportamento esattamente contrario. Cornuti e mazziati, per dirla con Aristotele. E questa non è Doxa, ma Episteme di quelle furenti.
CONTE, I FILOSOFI, IL COVID-19 E LA ROVINA DELLO SCIENTISMO. Andrea Staiti il 30 aprile 2020 su glistatigenerali.com. Ieri mattina il Presidente del Consiglio Conte ha voluto nobilitare il suo intervento alla Camera dei Deputati con un riferimento dotto: “La filosofia antica da Platone ad Aristotele distingueva la doxa – la credenza, l’opinione -, dall’episteme, che è la conoscenza che ha salde basi scientifiche”. Conte intendeva così giustificare le sue scelte restrittive riguardo alla riapertura progressiva del Paese mentre ancora imperversa nel mondo l’emergenza COVID-19. Sarebbe pedante e dunque poco incisivo far notare che il riferimento è in realtà fuori luogo: né per Platone, né per Aristotele le ‘basi scientifiche’ dei virologi, epidemiologi, ecc. evocati da Conte soddisferebbero gli standard per essere considerate episteme, rientrando invece ancora interamente nella sfera della doxa. Gli scienziati si occupano del mondo empirico e transeunte delle cose sensibili, virus inclusi, sebbene cerchino di prevederne effetti e comportamenti con strumenti teorici più rigorosi e raffinati di quelli disponibili al senso comune. Per i filosofi antichi l’episteme è il sapere riferito ai principi eterni e immutabili delle cose e trae la sua superiorità e autorità rispetto alla doxa dal diverso statuto ontologico dei suoi oggetti, non dalla raffinatezza dei suoi metodi. Ma, dicevamo, questa potrebbe essere semplice pedanteria. È un altro, invece, il punto sostanziale e rivelatore. Le parole di Conte, a prescindere dalle sue effettive intenzioni e conoscenze in materia filosofica, ci presentano la scienza naturale come un’episteme platonica, dando così involontariamente voce allo scientismo diffuso che domina la cultura occidentale da almeno un paio di secoli. Beninteso, non intendo affatto a questo punto riproporre la litania post-moderna per cui la scienza non è che una pratica umane tra le tante pratiche umane, socialmente costruita ecc. Quelle sono, appunto, litanie che hanno fatto il loro tempo. Si tratta invece di rendersi conto che la miglior manifestazione di stima e di fede nella scienza è prenderla sul serio per ciò che essa è veramente, invece che per ciò che vorremmo essa fosse. Fanno sorridere (o piangere) lo scandalo e il senso di smarrimento che hanno accompagnato la scoperta che, ahinoi, i virologi la pensano diversamente su un sacco di cose. Un gustoso siparietto sul tema è stato offerto dal Presidente del Land tedesco Nordrhein-Westfalen Armin Laschet in TV qualche giorno fa, che in un famoso talk show ha sbottato: “ogni paio di giorni cambiano idea!”
Già. La scienza cambia idea. Lo ha fatto sul sistema solare, sulla combustione, sul modello che meglio descrive la luce, … Più un fenomeno è nuovo e ignoto, più la forza della scienza si esprime proprio nel suo cambiare spesso idea al subentrare di nuovi dati e nuove prospettive teoriche. Questo NON perché la scienza non sia affidabile, ma proprio perché lo è in sommo grado, vale a dire, proprio perché, pace Conte, NON è un’episteme platonica. Il vero scienziato ha lo sguardo fisso sul mondo sensibile, mutevole, incerto e problematico che ci circonda e cerca di comprenderlo teoricamente trattandolo come se fosse una totalità matematica. È uno sguardo molto particolare, quello dello scienziato, perché per esercitarsi efficacemente deve prescindere da una dimensione realissima del mondo che ci circonda: quella delle persone e dei valori. La scienza astrae dalla dimensione valoriale e tratta il mondo come una totalità retta da leggi matematiche nella quale la presenza di soggetti è del tutto superflua. Si tratta di un’astrazione necessaria e legittima, senza della quale del mondo che ci circonda sapremmo poco o nulla. Ma pur sempre di un’astrazione. Lo scientismo, invece, è la visione del mondo che attribuisce alla scienza superpoteri che sono del tutto alieni alla sua pratica effettiva, sognando che essa assuma da sé una funzione salvifica e riformatrice per la cultura, regalandoci certezze di contro alle bugie della politica e delle religioni. Lo scientismo è, in effetti, la religione dei non-religiosi.
Guardando indietro agli scorsi due mesi risulta evidente anche che lo scientismo è l’atteggiamento dominante con cui, come rivela il riferimento fuori luogo di Conte, i governi occidentali hanno affrontato la crisi del COVID-19. Nei virologi hanno sognato di trovare dei re filosofi platonici, forti di un sapere certo e insindacabile che da sé ci avrebbe indicato la strada per non soccombere, non solo fisicamente, ma anche politicamente, socialmente e moralmente. Ora lo possiamo dire chiaro e tondo: lo scientismo si è rivelato per quello che è: un sogno che, quando la realtà bussa alla porta, si trasforma in un incubo. Trovandoci a dover immaginare, partendo da zero, come uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo infilati con il lockdown più duro d’Europa, occorrerà anzitutto risvegliarsi dal sonno dogmatico dello scientismo e rendere agli scienziati l’onore e il rispetto che gli è dovuto, trattandoli cioè non da re filosofi platonici ma da validi collaboratori, le cui legittime divergenze corredate di curve e tabelle multicolore appartengono però al mondo dei laboratori e delle aule accademiche, non a quello della politica.
La politica, sì. Anche la politica può e deve cambiare idea quando le circostanze lo richiedono ma la politica è attività che si svolge in un’arena ontologica ben diversa da quella in cui lavorano gli scienziati. La politica si muove nel mondo dei soggetti umani, riconoscendo la realtà di persone e valori e immaginando, in base a questo riconoscimento, prospettive nuove per la società. La scienza può contribuire alla decisione politica fornendo elementi preziosi invisibili all’occhio del senso comune, ma essa, in quanto scienza, è esonerata dal contesto di realtà in cui la decisione politica si esercita proprio dai suoi presupposti ontologici e metodologici. Lo scienziato può, certo, prendere decisioni politiche se ricopre un ruolo pubblico legittimamente attribuitogli ma quando lo fa, non lo fa in quanto scienziato, perché lo scienziato in attività lavora in un mondo deliberatamente rarefatto dove valori e persone non sono e non devono essere contemplati. Non esattamente il tipo di mondo da cui possiamo trarre spunti per capire come orientarci nel mare in tempesta nel quale ci troviamo attualmente a navigare. Una volta constatato il fallimento dello scientismo non resta che ripartire da persone e valori, riproponendo sulla crisi attuale un’angolatura politica e culturale, starei per dire umanistica, nel senso più nobile di questi termini.
Visto che nel suo discorso il premier ha scomodato, almeno implicitamente, un altro filosofo sostenendo che è un “imperativo categorico decidere su basi scientifiche”, aiutiamoci con Kant a immaginare come quest’angolatura potrebbe configurarsi. Un imperativo categorico è un imperativo (“fai così!”, “agisci così!”) cui dobbiamo obbedire indipendentemente dai desideri e dalle inclinazioni che ci capita di avere in un dato momento. Quindi è palese che decidere su basi scientifiche non è un imperativo categorico: si tratta al massimo di un imperativo ipotetico cui dobbiamo obbedire se riteniamo che farlo sia un mezzo efficace in vista di un determinato fine, ad esempio uscire dall’emergenza sanitaria. Ma “decidere su basi scientifiche” non significa “far decidere gli scienziati”, bensì integrare gli input (discordanti, mutevoli, ecc.) che ci vengono dalla comunità scientifica con i fini e i principi valoriali che reggono la nostra comunità umana e politica. Come? Ad esempio, passandoli al vaglio dei veri imperativi categorici. Kant ha suggerito tre formulazioni dell’imperativo categorico (qualcuno dice quattro, ma non divaghiamo), consideriamone due.
(1) “agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”
(2) “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”
Questi, secondo Kant, sono imperativi cui dobbiamo obbedire sempre e indipendentemente dai nostri desideri contingenti se vogliamo onorare pienamente la nostra natura razionale agendo in maniera autonoma e non etero-diretta dai nostri impulsi. Un esempio classico di azione in contrasto con la prima formulazione è mentire per il proprio tornaconto. Se mento per mio tornaconto, ad esempio promettendo di restituire dei soldi ma senza l’intenzione di farlo davvero, è palese che la mia azione è efficace solo in un mondo dove in genere le persone non mentono. Se la massima del mio comportamento diventasse una legge universale, la menzogna stessa perderebbe la sua efficacia, perché in un mondo dove tutti sistematicamente mentono, nessuno mi presterebbe soldi a fronte della mia promessa di restituirli. Mentendo per perseguire il proprio tornaconto, la ragione pratica entra così in contraddizione con sé stessa. Ritorniamo al presente. Immaginiamo uno scenario in cui un lockdown invocato e prolungato per proteggere il nostro sistema sanitario e la salute di una certa fascia di cittadini comporti delle conseguenze economiche talmente gravi da minare alla base il sistema sanitario a salvaguardia del quale era stato introdotto, esponendo così la salute dei suddetti cittadini a rischi ancora più gravi di quelli costituiti dal virus da cui tutto era partito. Evitare questo scenario sarebbe, seguendo Kant, una scelta conforme al vero imperativo categorico nella prima formulazione riportata. Si badi bene che non si tratta qui di un calcolo utilitaristico di costi e benefici del lockdown, che lasciamo di buon grado agli economisti, ma della consistenza intrinseca della ragione pratica, che, nello scenario evocato, negherebbe con la sua decisione le stesse identiche ragioni che aveva dapprima esibito come i suoi motivi. Non sappiamo se lo scenario in questione sia realistico, ma se lo fosse non sarebbe “su basi scientifiche” che esso andrebbe evitato, ma su basi filosofiche, politiche e valoriali. Distruggere il sistema sanitario per salvaguardare il sistema sanitario non è il tipo di massima che possa essere elevata a legge universale.
Veniamo alla seconda, più famosa formulazione. L’umanità delle persone dev’essere sempre trattata anche come un fine e mai solo come un mezzo. Anzitutto notiamo che l’umanità delle persone non coincide con la loro salute ma con la pienezza di una vita vissuta secondo ragione e animata da sentimenti ed emozioni adeguate alla ricchezza (estetica, morale, ecc.) del mondo che ci circonda. Quante volte nelle scorse settimane abbiamo sentito affermazioni assurde come “la salute viene prima di tutto”. Come?? Se davvero fosse così perché stimiamo tanto i medici e gli operatori sanitari che, infischiandosene della propria salute, hanno servito in prima linea rischiando di ammalarsi e di contagiare i propri cari? Se la salute venisse prima di tutto costoro sarebbero dei folli, non degli eroi. La salute è un mezzo in vista di un fine: il pieno esercizio della propria umanità. Perché questo sia possibile non basta non essere malati. Occorre vivere in un mondo umano dove siano garantiti un certo livello di prosperità e soprattutto alcuni diritti fondamentali. Un perseguimento cieco e spasmodico della salute sopra tutto e sopra tutti che arrivi a minare le fondamenta di un mondo del genere non è segno di rispetto dell’umanità delle persone, bensì di una sua riduzione a mezzo in vista di un fine, dove la salute diventa quel fine ultimo a cui tutto il resto può essere sacrificato. Anche questa, dunque, sarebbe una violazione dell’imperativo categorico, che si rivela ben diverso da quello prospettatoci dal nostro premier.
L’auspicio quindi, sia ben chiaro, non è ricacciare gli scienziati nei laboratori, ma tenerseli stretti, possibilmente senza lasciarli inebriare troppo al calice della celebrità, integrando però le loro divergenti prospettive con le esigenze e le istanze ben più univoche che emergono sempre più forti dal mondo umano in cui viviamo. Sopravvivere al coronavirus per morire di crisi economica, desertificazione spirituale, vuoto educativo e solitudine affettiva è una prospettiva tutt’altro che desiderabile. Questa sì, caro premier, è un’affermazione candidabile al rango di episteme platonica…
COSA FA LA POLITICA. UNA COSTITUENTE DEI SAPERI. Fabio Cavallari il 5 aprile 2020 su glistatigenerali.com.
Abbiamo vissuto un periodo temporale in cui il dispregio del sapere, della cultura, della competenza, tecnica e scientifica, sembrava essere diventato il mantra del nuovo millennio. La politica, una passeggiata da affrontare con le arti del televoto. Si doveva parlare esattamente come la pancia delle persone pretendeva, guai ad affrontare un tema cercando di travalicare il comune senso della retorica. Dai terrapiattisti, ai no-vax, al, complottismo casalingo, sino alla ricca diaria dei migranti, ad un’idea della geografia che nemmeno in prima elementare. Un’idea del mondo spazzato via dal coronavirus, dall’emergenza, dalla paura, dalla morte senza commiato. Sembrava di potersene addirittura rallegrare all’inizio di questa vicenda, senza accorgersi che il “male” stava e sta alla radice. Si può, infatti, credere a tutto e al contrario di tutto, quando non c’è più un’idea strutturata del mondo, una visione dell’uomo e delle cose che non sia semplicemente un compendio finanziario del mercato. Così siamo passati dal dilettantismo come dovere, alla consegna incondizionata al parterre scientifico per ogni decisione politica. Come se la scienza fosse una teologia, con una verità unica e rivelata, e soprattutto neutra al cospetto dell’economia e del capitale. Con la frase “facciamo quello che ci dirà il comitato tecnico-scientifico” la polis ha dismesso la sua funzione, trasformando il Parlamento nel passacarte dello scientismo. E in un Paese privo di leader, di intellettuali, di una narrazione da costruire, la massa è pronta a sposare il primo “guru” di turno. Agli insipienti di ieri, si sono sostituiti i tecnici di oggi. Essi hanno competenze specifiche, che nessuno discute, ma la “crisi” di oggi non contempla semplicemente una “disfunzione” sanitaria ma una molteplicità di implicazioni che richiedono una “Costituente dei saperi”. Si badi bene, non è il mondo scientifico ad attentare alla polis. Certo, non mancano individualità che hanno assunto l’immagine della “sancta sanctorum” e che spopolano in ogni dibattito televisivo da mattina a sera, ma questa è la storia dell’uomo e del suo narcisismo. Il succo sta altrove, sta alla radice. Sta in quella inconsistente idea del mondo. Stiamo assistendo alla plastica fotografia di quel vulnus che le macerie del Novecento ci hanno consegnato. È sempre la stessa medaglia, lo stesso difetto d’origine. Cambiano i protagonisti, tutti sfuggevoli al tempo veloce della società moderna, ma il “male” è rimasto il medesimo. Oggi con ancor meno consapevolezza. È un patto costituente quello di cui avremmo bisogno, negli Stati Uniti d’Europa.
La Salvezza e la conoscenza. Covid19, il trionfo degli gnostici. Luca De Netto il 30 aprile 2020 su loccidentale.it. Se per Carl Marx le leve del mondo erano di fatto mosse dall’Economia, e se per Carl Schmitt, invece, ogni conflitto assumeva carattere riconducibili al Politico, la complessità della natura umana, così come la storia delle grandi rivoluzioni, ha fatto emergere il carattere centrale dell’elemento religioso. Il c.d. fattore “R”, la scelta di senso che ogni essere umano compie, volente o nolente, dal momento in cui viene al mondo, assume ricadute fortissime sul piano storico, sociale, politico, economico. Basterebbe, a titolo di esempio, citare il noto saggio di Max Weber sul rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo, in verità corretto dal più nostrano lavoro di Amintore Fanfani “Cattolicesimo e protestantesimo nella genesi storica del capitalismo”, o gli studi di personalità del calibro di Augusto del Noce, di Sameck Ludovici, come anche dei laicissimi lasciti di Hans Jonas, per avere contezza dell’importanza del fenomeno. In termini molto semplici, alla base della storia dell’Umanità, in ogni epoca, vi sarebbe un conflitto tra Verità e Gnosi, che, in ambito cristiano, viene ricondotta alla scelta per Dio o contro Dio. Ad Ennio Innocenti si deve la precisazione e la distinzione tra vera e falsa Gnosi, ossia tra Gnosi pura, che coincide con la conoscenza della Verità che rende liberi (Gv. 8,32). E Gnosi spuria, ossia la Gnosi a cui facciamo riferimento.
Ma cosa intendiamo per Gnosi (spuria o falsa)?
Va premesso, in via molto approssimativa, che la Gnosi è quell’idea che vede la realtà del mondo come una caduta: per lo gnostico, l’Uomo è Dio, ma è stato imprigionato nella materia a causa di un inganno da parte di forze negative che hanno dato origine all’universo, alla terra, al corpo, disgregando l’unità originaria. Tutto ciò che noi vediamo, dunque, è opera del Male. L’essere umano, fintanto che vive su questa terra, è quindi prigioniero, in gabbia: la sua natura non è di corpo, anima e spirito, ma di puro spirito luminoso, in quanto, appunto, Dio.
L’obiettivo dello gnostico è tornare dunque alla condizione divina, tramite la conoscenza (gnosi) di questa verità che disprezza tutto ciò che è realtà materiale. Lo gnostico, infatti, è uno spiritualista. Ciò non deve sorprendere: ricordiamo che Chesterton, con una nota battuta, chiosava: “l’opera del Cielo fu materiale, la costruzione di un mondo materiale; l’opera dell’inferno è interamente spirituale”.
Ma attenzione: soltanto una ristretta cerchia di iniziati, di illuminati, può tornare ad essere Dio. La maggior parte è destinata a restare prigioniera delle forze telluriche. Costoro, non sono degni di sapere, non sono degni della divinità, e quindi devono perire con il mondo fisico. Anzi, dato il loro legame con la realtà materiale, hanno imbruttito sempre di più la terra, che deve essere liberata quanto prima dallo loro infausta presenza, affinché torni ad essere quantomeno una sorta di specchio del paradiso perduto, un’unità indifferenziata per pochissimi in attesa che gli eletti tornino in Alto. Ogni forma di gnosi, sia antica che contemporanea, si caratterizza inoltre per il disprezzo nei confronti delle norme morali e nell’attacco al Diritto, che assume un’importantissima funzione katechontica: esso, infatti, non va confuso con la Legalità, ma identificato con la Giustizia che è insita nella Legge naturale. Che per la Gnosi è male o non esiste. Ma se il Katechon viene rimosso, se la funzione del Politico viene meno, come desiderano gli gnostici, vi è il dilagare del Mistero dell’Iniquità e l’instaurarsi del dominio dell’Anti-Cristo. Cioè di Chi e di Cosa si oppone a Cristo. Ossia proprio le svariate sfaccettature della Gnosi. Ancor più chiaramente: se Cristo è Dio che si fa Uomo, l’Anti-Cristo è l’uomo che si fa Dio, che indica sé stesso come Dio e siede al posto di Dio (cfr. 2 Ts. 6-7).
Ma se è vero che la Gnosi, nel corso dei millenni, è mutata, nascondendo la sua caratteristica religiosa e diventando una forma mentis, ed assumendo così le vesti dell’idealismo, del marxismo, del malthusianesimo, dello scientismo, della rivoluzione sessuale, essa mantiene dei tratti fondamentali che consentono di rintracciarla anche negli eventi che stanno sconvolgendo il mondo in questi ultimi periodi. Già da diverso tempo, alcune voci preziose hanno sottolineato il carattere gnostico della teoria del gender, dove il corpo è inteso come prigione per la mente, che pertanto è la sola realtà determinante ed importante, sì da modificare anche la propria realtà biologica per adeguarla all’idea che si ha di sé. Cornelio Fabro sottolineava, del resto, come tutta la Modernità, intrisa di idealismo, faccia dipendere la Realtà dal pensiero.
Ma anche l’ambientalismo, oggi nella sua versione climatista, che combatte una battaglia perenne contro la presenza nel mondo dell’uomo, ritenuto colpevole dei mali che affliggono il pianeta – concepito come Gaia, un “essere vivente” – nonché di un presunto imbruttimento, è una forma di gnosi, nonché evidente falsificazione della realtà del Peccato originale. Né è da meno l’animalismo, che, eliminando le differenze tra uomo e animale, non fa altro che ridurre l’essere umano non eletto ad uno stato animalesco, o, persino inferiore alle bestie. O, dall’altro lato, a ripristinare l’ideale unità indistinta di marca panteista, dove tutto è Dio. L’elenco è lungo, e potrebbe continuare.
Ciò che però dovrebbe suscitare qualche riflessione, è il carattere gnostico che sembra aver assunto la nota vicenda del COVID-19: non solo i corpi bruciati senza riti religiosi, le fosse comuni, l’isolamento e spesso l’abbandono degli ammalati o di presunti tali, ma soprattutto la dinamica dogmatica del “distanziamento”, con tanto di mascherine, guanti, plexiglas. Fino al punto che, contro ogni logica, marito e moglie sono impossibilitati a viaggiare insieme in auto. Se ci soffermiamo a pensare, infatti, per la prima volta nella storia dell’umanità, su scala globale, si mette sotto accusa la corporalità, e si bandisce ogni contatto fisico. L’uomo è posto sotto una teca di plastica, impossibilitato – vuoi per norme, vuoi perché terrorizzato dalla campagna mediatica – ad abbracciare, a toccare, a baciare, a stringersi la mano. E’ uno scenario unico sulla cui possibile tentazione gnostica vale la pena interrogarsi. Anche alla luce della constatazione che lo Scientismo è Gnosi, come molti Autori hanno ben rilevato. Ed è proprio da quello Scientismo dominante, tanto da reggere oggi le sorti del pianeta e alle cui decisioni si piegano governi e popoli, che provengono queste “soluzioni”.
Una casta di eletti – ma non eletti – espressione di un potere tecnocratico senza alcuna garanzia di natura etica o controllo popolare, assume di fatto enormi poteri decisionali in virtù di una presunta conoscenza ritenuta di rango superiore che libererebbe l’umanità dalle menzogne, dalle credenze, dalle fake news. In virtù, appunto, di una forma di Gnosi, un “sapere che sa”. “Chi è illuminato non ascolta più, perché ha già visto” sintetizza Sameck Ludovici, stigmatizzando l’atteggiamento gnostico di presunzione, di illusione di possedere la conoscenza, di chiusura alla Realtà e alla Verità. E dovrebbe far riflettere anche l’esultanza di taluni verso un “ritorno della natura libera ed incontaminata” (dall’uomo), grazie alle chiusure disposte a causa del COVID. Ma attenzione: non stiamo dicendo che tanti scienziati onesti, capaci, che fanno bene il proprio mestiere, abbiano artatamente ipotizzato tali “soluzioni”. Anche perché abbiamo visto la grandissima confusione che regna nel mondo scientifico. Più semplicemente, venendo meno il ruolo katechontico della Politica, dello Ius, una forma mentis scientista e tecnocratica, presente in alcuni, o meglio nella formazione di alcuni, è dilagata, anche grazie ai mezzi di comunicazione di massa, lasciando libero sfogo alla tentazione gnostica. Da questi “iniziati”, proviene così un attacco alla realtà corporea considerata mera entità biologica. Aggregato di cellule. Fonte del male e di contagio. E non, invece, tempio dello Spirito. Non più il corpo aristotelico, di cui l’anima è la forma.
Non più l’Uomo nel suo complesso, capace di conoscere ed amare il Buono, il Bello, il Giusto. Capace di vivere la propria naturale socialità a contatto con gli altri. Un contatto sia morale che fisico, sia spirituale che corporeo, sia sentimentale che sessuale. Un uomo completo, appunto. (Cfr. Benedetto XVI, Enciclica “Deus Caritas est”). Che oggi invece si scontra con un rovesciamento del divino “noli me tangere”, “non mi toccare!”. Solo Dio, a fin di bene, può dare quel comando di “distanziamento”. O l’uomo che crede di essere Dio. Lo gnostico, appunto. Dimenticando però che il vero Dio, che si era fatto vero Uomo, comanda di mettere il dito nel segno dei chiodi e nella ferita del costato. Che quel vero Dio fonda tutto sulla Sua Incarnazione, santificando così la Carne, e sulla Resurrezione del Corpo. Ed è sempre presente, grazie proprio al Suo Corpo e al Suo Sangue. Quello che è stato infatti impedito di ricevere. Ma qui emerge l’errore spiritualista, quella forma di Gnosi – opposta ma speculare a quella pelagiana – che fa coincidere la Salvezza con un percorso intimo, personale, domestico, a prescindere dalla Realtà della Carne, e, in ambito cattolico, dei Sacramenti. Errore grave, denunciato, tra l’altro, dalla recente lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, “Placuit Deo”, del marzo 2018. Intanto, la Gnosi prosegue la sua battaglia.
Attacco alla natura umana. “Immuni” sì, ma dal giacobinismo. Luca De Netto il 23 aprile 2020 su loccidentale.it. Privacy. La parola ormai è pesantemente inflazionata. Famoso è il GDPR che dovrebbe tutelarla. Tornata di moda dopo l’ipotesi di tracciamento che il Governo vorrebbe porre in essere tramite l’applicazione “Immuni”. Il problema, però, non è affatto la tutela della riservatezza in sé. Così come, a maggior ragione, non è la libertà quella maggiormente castrata dalla retorica del “restate a casa”. Un sguardo realista, ci fa infatti comprendere che il pericolo maggiore consista nell’attacco alla natura umana, sulla cui unicità si è soffermato anche Roger Scruton in uno dei suoi ultimi scritti. E la natura umana si caratterizza essenzialmente per due peculiarità: l’uomo come animale sociale per natura (Anthropos physei politikon zoon) e l’uomo come essere religioso (homo religiosus). Se vogliamo, riconducibili ad un concetto: l’uomo come creatura razionale che vive di relazioni, verso l’Alto, e con gli altri.
Impedire, danneggiare, distruggere queste relazioni, significa colpire al cuore l’essenza dell’essenza dell’essere umano. Ed è interessante notare anche la gerarchia di queste due relazioni, in senso verticale, ed in senso orizzontale, ben rappresentate dal simbolo della croce, dove divino ed umano si incontrano proprio sulla Croce. Dagli studi di Julien Ries, Mircea Eliade e tanti altri, è stato dimostrato che la dimensione religiosa, l’asse verticale, non può essere in alcun modo divelto o distrutto. L’uomo mantiene sempre un’essenza religiosa. Anche la persona più atea, alla fine crede religiosamente in qualcosa. Con tutta probabilità crede in sé stesso, nelle proprie granitiche convinzioni, nei propri dogmi. Comunque resta essere religioso. E non si sfugge. Dunque l’asse verticale, può essere al massimo proiettato verso il basso, rovesciato verso gli istinti primordiali, verso il regno animale. Come diceva il Santo Curato d’Ars: togliete i parroci, chiudete le chiese, e presto le persone adoreranno gli animali. O si inchineranno davanti alla nuova religione dell’umanità vagheggiata da Comte: la Scienza. Ossia lo scientismo dogmatico che non ammette ricerca, confronto, interrogativi. Nel piano orizzontale, invece, ossia nelle relazioni con gli altri, l’asse di questa croce se non può essere del tutto divelto, può essere rovinato e spezzato. In modo da trasformare l’uomo in una monade infelice, isolato dagli altri, e chiuso nella sua gabbia di odio, rancore, consumo, istinti. Nel quadro di questo processo, realizzato da diversi fenomeni storico-politici, si cerca di distruggere ogni tipo di relazione umana in modo da poter esercitare un controllo totale ed evitare che la gente cooperi, inducendo una diffidenza capillare nei confronti di chiunque. Tutti sono sospetti. Tutti sono nemici. L’essere umano è completamente solo, fragile, debole, senza potersi fidare di nessuno, in balia della propaganda mediatica di chi detiene il potere. La croce è spezzata.
Ed oggi, non corriamo forse questi rischi? La psicosi del virus, quando tutto sarà riaperto, non farà tenere le persone a distanza? Ognuno non vedrà forse l’altro come potenziale minaccia alla propria salute? La fiducia è già ridotta a zero. Perché il terrore ha preso il sopravvento, anche grazie ad una narrazione mediatica martellante. Fino al punto che la gente preferisce nascondere un infarto, piuttosto che chiedere aiuto ai sanitari. Per paura di infettarsi e morire di COVID-19. Purtroppo, però, a volte muore proprio di infarto. O di altre mille malattie e problemi che sono passati tutti in secondo piano. O addirittura scomparsi.
E chi non indosserà la mascherina, sarà visto come nemico pubblico, come queste settimane ci hanno insegnato? Saranno affissi cartelli all’ingresso dei supermercati e dei ristoranti – sempre che qualcuno ci torni – con le scritte “vietato l’ingresso ai deboli”? Vietato l’ingresso a chi non ha determinati profili immunologici? Una volta nella Germania nazista si vietava gi ingresso agli Ebrei. Oggi saranno stigmatizzati altri, coloro che non superano certi profili sierologici? Coloro che non risulteranno ”immuni”. Non siamo forse alla minaccia concreta della ghettizzazione di nuove categorie sociali indicate come “deboli”: anziani, malati cronici, chiunque rifiuti di scaricare un’app o, liberamente, di sottoporsi a determinati trattamenti sanitari?
Non c’è forse il rischio di tenere alla larga dalla vita pubblica, in un rinnovato darwinismo, quelli che le linee guida di un ministero riterranno i meno adatti a sopravvivere? Ma magari saremo prontissimi ad accogliere in pizzeria i cani. Perché il virus non si trasmette ai nostri animali da compagnia. E perché “gli animali sono migliori delle persone”, come sostiene la propaganda anti-umana della gnosi animalista. Ma nel delirio giacobino che si prospetta, neanche la malattia sarà più una colpa sociale. Siamo già oltre. Sarà la potenziale malattia a rappresentare una colpa. Sarà l’essere potenzialmente deboli una colpa sociale. Non avere l’app. Non essere “immuni”. O non essersi sottoposti a determinati trattamenti sanitari, in alcuni casi per scelta, in altri perché costo inutile per lo Stato. Sarà mantenere la propria personalità la grande colpa che questi esperimenti di ingegneria sociale, ben noti, vogliono innescare. In fin dei conti, la grande colpa sociale, sarà il restare autenticamente umani. Ossia razionali e relazionali. Ecco che davanti all’attacco alla natura umana, anche la diatriba su privacy e libertà perde di senso. Perché chi non è più de facto uomo, non ha diritto né alla privacy, né alla libertà. E soltanto difendendo la natura umana, la croce integra, verso l’Alto e verso gli altri, hic et nunc, qui ed ora, abbiamo qualche speranza.
La legge è per l’uomo, non l’uomo per la legge. Luca De Netto il 20 aprile 2020 su loccidentale.it. Quelli che “ma l’OMS ha detto…” tutto e il contrario di tutto ha detto! Ma gli scienziati dicono…” Uno contro l’altro, peggio che andar di notte!! “Eh, ma in Cina…” in Cina? E perché non guardiamo alla Svezia, all’Australia, alla Nuova Zelanda o a Singapore? Chiariamo dunque un fatto: non spetta né ai comitati di “esperti” decidere il da farsi, né a quelli di certe organizzazioni internazionali. E nemmeno ai giornali o alla finanza internazionale o alla BCE! La decisione spetta alla Politica con la P maiuscola. E come si prende una decisione politica autentica e giusta? Semplice. La Scienza deve accertare i fatti correttamente in base alle conoscenze che si hanno fino a quel momento. Essa è quindi relativa, fallace e sempre perfettibile per definizione. Fosse dogmatica e assoluta, sarebbe religione (come la voleva Comte, padre dello scientismo moderno). Ma anche il Diritto tende a stabilire i fatti correttamente. Il Diritto, però, a differenza della Scienza, subordina l’accertamento dei fatti all’obiettivo primario: assumere una decisione giusta ed efficace. Razionale e non dannosa. Perché si ha a che fare con le persone. Intese integralmente come esseri sociali inseriti in un ordine naturale. Non con agglomerati biologici (come sono i virus) scomposti ed isolati. Ecco perché il Giurista può utilizzare le conoscenze che la Scienza gli fornisce. Anzi, deve conoscere l’intera realtà delle cose, cioè avere una visione complessiva del Reale (che non è una visione settoriale). Proprio perché non deve mai dimenticare che la decisione spetta a lui, e non alla Scienza (o alla Finanza…). E la decisione pubblica del Giurista, quella che una volta si chiamava “primato della Politica”, affinché sia davvero giusta, deve tendere al bene comune. Ed è qui il problema principale. Cosa è il bene comune? Perché riguarda la visione della Realtà tutta. E’ un problema ontologico che richiama la funzione dello Stato e la realtà delle persone in un ordine complessivo che è dato oggettivamente. E su cui si stagliano diversi errori di impostazione, che qui sarebbe inutile e lungo elencare. E dove emerge l’assenza di cultura di chi governa ed assume le decisioni. L’assenza di una classe dirigente formata, attrezzata, consapevole. L’amara constatazione che non è vero che c’è troppa politica. Ma l’esatto contrario: non esiste più! C’è solo gestione del potere fine a se stesso. Ed è ancor più grave che ci sia assenza di una vera cultura giuridica. Che non è affatto la conoscenza delle norme (su cui, del resto, si sono pur viste certe storture…). Perché il Diritto non è mera tecnica al servizio del potere costituito, come vorrebbero i normativisti, e nemmeno pura scienza sociale, come vorrebbero certe scuole sociologiche, ma fenomeno naturale, storico e politico al tempo stesso perché fondato sull’uomo, sia come singolo che nelle sue relazioni e formazioni sociali, che non si esaurisce nelle norme, ma ha una primaria dimensione fattuale e una giustificazione razionale. Esso cioè è in primis Cultura, conoscenza della realtà umana e dell’agire umano. In tal senso è servizio all’uomo e all’intera Comunità, perché la legge è fatta per l’uomo, e non l’uomo per la legge. E in questo senso trascende le stesse norme e trova il suo fondamento ultimo nella natura umana e nella natura delle cose. Ontologicamente date e naturalmente ordinate. Questa è la concezione realista del Diritto. Ma il realismo giuridico (non quello anglosassone, ma quello latino e tomista) è merce rarissima… Scomparso quasi del tutto persino dalle Università italiane. Ecco perché poi ci affidiamo all’onda. Vuoi quella emozionale dei social networks. Vuoi quella dei diktat dell’Eurozona. Vuoi quella dell’esperto di turno. Vuoi quella della narrazione dei media. Mala tempora currunt. Sed peiora parantur.
· L’Epidemia Mafiosa.
Mario Giordano contro i colossi della farmaceutica: "Ecco quali dati divulgano e perché. Ha un senso?" Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Dito puntato contro i colossi della farmaceutica, oggi più che mai, con il mondo alle prese con il coronavirus e con la sfida tutt'ora in atto per mettere a punto un vaccino. A puntare il dito è Mario Giordano, che nel corso di un'intervista a Money.it, spiega: "Spero che la batosta presa negli ultimi mesi ci aiuti a capire che su queste cose non si può scherzare. Oggi conosciamo solo il 40% delle ricerche effettuate in ambito farmacologico: lasciandole solo alle aziende farmaceutiche, decidono o no di pubblicare i dati, nella loro convenienza. È legittimo, ma è un sistema sensato?", si interroga il giornalista. E ancora: "Se sono uno scienziato ho bisogno di sapere tutte le ricerche per aumentare la mia conoscenza. Se conosco solo i dati che è conveniente per qualcuno pubblicare, andiamo avanti più lentamente", conclude Mario Giordano.
Coronavirus, "Autopsie e altri errori non casuali. L'ombra del Deep State". Angelo Maria Perrino su Affari italiani Lunedì, 8 giugno 2020. Da Alberto Contri (Università Iulm) una requisitoria e un j'accuse contro il Deep State e gli interessi dietro il Coronavirus. Un gruppo di scienziati e di medici ha deciso di scrivere al presidente del Consiglio, al ministro della Salute e ai governatori delle Regioni per chiedere chiarimenti su molti punti controversi dell'emergenza coronavirus, chiedendo "per quale motivo si siano impediti gli esami autoptici, che si sono invece rivelati, quando effettuati, una fonte insostituibile di preziosissime informazioni e che hanno consentito di scoprire che la causa principale dei decessi non era la virulenza della patologia, ma una sua errata cura”. Alberto Contri, docente di Comunicazione Sociale all’Università IULM, pur non essendo un medico, aveva sollevato il problema a fine aprile, analizzando e criticando la comunicazione istituzionale sulla pandemia.
Professor Contri, come ha fatto ad anticipare con anticipo e tempestività un giudizio di carattere tipicamente medico?
«Per venti anni, su cinquanta di quelli impegnati in comunicazione, ho lavorato nella più grande agenzia multinazionale specializzata nell’informazione alla classe medica. Con tutto quello che ho dovuto studiare, penso che mi potrei presentare a sostenere gli esami di diverse specialità. Per parlare della mia esperienza di virus, mi piace ricordare che il primo documentario scientifico sull’HIV in cui si richiamava l’attenzione su una rara polmonite interstiziale che si stava diffondendo nelle comunità gay della California, fu realizzato dall’immunologo Aiuti e da me. Ma a parte questo, sono rimasto e sono in contatto con molti illustri medici e clinici che si sono trovati ad affrontare il coronavirus sul campo, e da loro, in tempo reale, ho appreso cosa stava accadendo e come si stava modificando la malattia. Confrontando le loro analisi e il loro vissuto con le azioni del Governo, mi sono ben presto reso conto di due cose: innanzitutto che virologi ed epidemiologi vedono le persone e i pazienti come numeri su un grafico, e seguono poco gli aggiornamenti della pratica clinica. Poi. che la troppo prudente lentezza delle istituzioni della Sanità non ha saputo far tesoro delle acquisizioni dei medici sul campo che si succedevano in tempo reale. Concentrandosi su un’unica, granitica certezza, il vaccino, che invece è tuttora una speranza assai labile».
Ma non è paradossale, visto che il vaccino è per l’appunto di là da venire?
«Gli approcci terapeutici individuati dai medici di Napoli, Pavia e Mantova hanno fanno in pochi giorni il giro del mondo salvando molte vite. Certo che lo è. Il Dr. Vincenzo Cennamno, direttore dell’Unità operativa complessa di Gastroenterologia ed Endoscopia dell’Ausl di Bologna, ha affermato: “Penso che sia molto importante investire nella condivisione e comunicazione dei dati clinici. Nel caso del coronavirus l’allarme dato sui social dall’esperienza di medici sul campo (il primo fu un oculista) è stato ignorato dall’apparato ufficiale e invece ascoltato ad esempio da Taiwan....con i risultati che tutti sappiamo. Avremmo potuto battere il virus con una comunicazione virale sanitaria e creare una PandeMedia che avrebbe evitato la Pandemia”. E’ stato anche sorprendente notare come istituzioni che dovrebbero tutelare la salute pubblica hanno nicchiato o cercato di dichiarare poco utili approcci terapeutici che in tutto il mondo ora stanno facendo la vera differenza tra la vita e la morte. L’ultima gaffe, ma è un eufemismo, riguardo la circolare dell’OMS che vietava l’impiego dell’Idrossiclorochina sulla base di uno studio pubblicato su Lancet costruito con dati inverificabili. In base a una protesta di 120 medici e ricercatori, Lancet ha chiesto scusa, l’OMS ha ritirato la circolare e così alcuni baluardi della Scienza Ufficiale hanno perso molta credibilità. Già Report aveva segnalato che dopo il ritiro dei fondi americani, l’OMS è di fatto un ente finanziato da privati, tra cui Bill Gates è il primo, oltre che da imprese del Big Pharma. Ciononostante i grandi mezzi di comunicazione ne sono di fatto il portavoce, accreditando l’ipotesi del vaccino come unica via d’uscita. Ma sono stati battuti dai social media, grazie ai quali la comunità scientifica di tutto il mondo si è tenuta in contatto passandosi le informazioni chiave sulle autopsie che poi sono state addirittura vietate. Cose da non credere. Perché è proprio grazie alle autopsie che alcuni medici intelligenti hanno capito che la polmonite era l’ultimo effetto della trombosi dei microvasi polmonari. Intervenendo per tempo, gli usuali anticoagulanti (insieme ad altri farmaci antiinfiammatori) si sono rivelati in grado di rallentare il flusso dei ricoveri ospedalieri annullando quello verso ke Terapie Intensive, riportando l’infezione da Covid 19 al livello di una grave influenza. E’ sempre grazie ai social che si sono diffuse assai rapidamente le intuizioni del Prof. Luciano Gattinoni (ex presidente della Società Mondiale di Terapia Intensiva) sui vantaggi della posizione prona dei pazienti con gravi difficoltà respiratorie, oltre che la raccomandazione di ridurre la pressione dell’ossigeno nei respiratori, che stava facendo danni letali a polmoni troppo ammalorati».
Sembra quindi ci sia stato uno scollamento tra i Comitati Scientifici, il Governo e la classe medica operante sul campo.
«Temo proprio di sì. Un ulteriore paradosso è costituito dal fatto che proprio le Istituzioni parlano continuamente di medicina del territorio, mentre i medici di base sono stati lasciati senza kit di protezione e informazioni adeguate. A sentire i più impegnati, un vero punto di svolta è stata proprio la comunicazione circolare che si è stabilita volontariamente tra loro e i medici ospedalieri. Eppure il Governo ha deciso di investire somme cospicue in molte nuove Terapie Intensive, quando le attuali sono vuote o quasi. Denaro che potrebbe servire a moltiplicare i medici di base, con adeguata formazione, così da farli agire come vera sentinella contro il virus (e non solo) mettendoli anche in grado di visitare i pazienti a domicilio. Qualcuno ricorda per caso un medico di base uscito per una visita domiciliare? Forse c’è stato qualche eroe volontario. Invece di affrontare sul serio questo problema, ci spaventano con la seconda ondata, investendo in trincee nel posto sbagliato (le Terapie Intensive) invece che nel potenziamento vero della cosiddetta medicina del territorio, che rimane una vuota espressione sempre più abusata».
C’è chi pensa che gli errori commessi non siano casuali, ma dettati dalla pressione delle imprese interessate al vaccino.
«Su questo tema si rischia di entrare in un campo minato, perché a chi pensa così viene subito lanciata un’accusa di complottismo. Ma se guardiamo alle notizie che emergono un poco alla volta, si scopre una realtà ben diversa dalla versione cosiddetta ufficiale. Innanzitutto trovo sorprendente la velocità con cui è stato maltrattato un Premio Nobel come Montagnier, che si era permesso di ritenere il virus frutto di una manipolazione in laboratorio. Il giorno dopo la sua intervista, tutti i media del mondo si sono scatenati all’unisono a delegittimare lui e la sua versione, incluso i virologi nostrani che straparlano da tv, radio e giornali, in alcuni casi senza nemmeno avere un curriculum adeguato.
Bene, da un paio di giorni è uscito uno studio molto autorevole anglo-australiano che sostiene la tesi di Montagnier. Mentre un altro studio israeliano dimostra che a dicembre tutte le infezioni arrivate da loro erano di origine americana. Gli esperti mi hanno spiegato che i virus hanno in realtà una carta di identità che permette di risalire alla vera origine, oltre ad una sorta di biglietto di viaggio che indica tutte le tappe che ha fatto…Motivo per cui, è solo questione di tempo, ma tra non molto tutta la verità potrebbe venire fuori. E molti scienziati si troverebbero in forte imbarazzo».
Nei suoi post e nelle sue interviste, lei ha sempre anticipato i tempi con verità che poi sono state dimostrate incontrovertibili. Nell’attuale momento, è in grado di anticiparci qualcosa?
«Posso ringraziare qualche amico che sta nei posti giusti condividendo con me analisi basate su fatti in genere ignorati o poco conosciuti. Però vorrei ugualmente usare il condizionale, finché non verranno fuori le carte di identità e i biglietti di viaggio che qualcuno avrebbe già trovato, ma che aspetta ad esibire, perché siamo ancora troppo lontani dalle elezioni americane. E già questo è un bell’indizio.Ci sono insistenti voci che indicherebbero il virus sintetizzato nello stesso laboratorio americano in cui era stato sintetizzato l’antrace, e sotto l’amministrazione Obama. Laboratorio poi chiuso per l’eccessiva pericolosità dei suoi esperimenti, che sono stati trasferiti quindi a Wuhan. Da lì potrebbe essere uscito intenzionalmente o per errore (data la forza della censura cinese, non è certo semplice scoprirlo). C’è un indizio che potrebbe avallare l’operato intenzionale: a ottobre ci sono state le Olimpiadi militari a Wuhan. Larga parte degli atleti ha raccontato di essersi ammalata, con tipici sintomi da Covid 19. In quelle olimpiadi prevalgono le discipline guerresche (scherma, equitazione, pentathlon, lotta, ecc.) in cui gli atleti militari americani sono da sempre ai primi posti nel mondo. Ebbene, dalle informazioni in mio possesso, questa volta il medagliere ha visto gli americani posizionarsi al 33° posto. Segno che l’esercito ha mandato a Wuhan gli atleti più scarsi. Come sapeva che ci sarebbe stata una pericolosa epidemia? E’ uno dei tanti puntini da unire, per cercare di vedere emergere il disegno reale».
Un’ultima cosa: Chi potrebbe essere interessato a creare una pandemia che ha messo in ginocchio l’economia mondiale? Cui prodest?
«Man mano che le verità ufficiali si sgretolano una alla volta, sembra consolidarsi l’ipotesi della manina di un agglomerato di interessi militari, finanziari, industriali che da tempo ha preso il nome di Deep State. Che sarebbe disposto a qualsiasi accelerazione pur di evitare la rielezione di Trump e di scardinare gli attuali equilibri mondiali. Continuando con le ipotesi, potrebbe anche essere che l’attuale diffusione della pandemia sia stata preterintenzionale: proprio per la pericolosità degli esperimenti sul coronavirus in questione fu chiuso il laboratorio americano, che per l’esattezza era situato nella North Carolina. E se riflettiamo sul fatto che la pandemia da Covid 19 ha provocato finora nel mondo 252.000 morti, mentre quelli annui per gli incidenti stradali sono 1,35 milioni, e 8 milioni quelli per il fumo, senza che nessuno abbia chiuso le strade o le tabaccherie, ma tutto il resto si, qualche ulteriore domanda ce la dovremmo porre».
VACCINI & BUFALE / AUTORIZZATI A PARLARE SOLO SCIENZIATI E GIORNALISTI PRO. Bagarre vaccini. Prosegue la campagna di “disinformazione di massa”. E continuano le “cannonate” di Repubblica contro chi “osa” mettere in discussione la “non nocività” dei vaccini. Tutto comincia – nomina sunt consequentia rerum – con la trasmissione Virus condotta da Nicola Porro e le frasi anti vaccini di Red Ronnie (“Non puoi obbligare a vaccinare i bambini. Quanto sono i morti per gli effetti collaterali”?). Insorge il virologo Roberto Burioni, che non ha tempo per illustrare via Rai2 le sue alte doti scientifiche e esterna la rabbia su facebook, dove implora (scrive una “accorata” lettera) l’aiuto della Vigilanza Rai, chiamando in campo il consigliere Pd Michele Anzaldi. Ecco, fior tra fiori, le chicche del Burioni pensiero. Ti vaccini oggi e ti viene un attacco epilettico domani? No problem, per il Vate in camice bianco: “una semplice coincidenza”, pontifica. “Già basterebbe ma in realtà i medici sono molto testardi, la medicina va avanti perchè, come diceva Goethe, il sapere è come una sfera che aumentando aumenta il suo contatto con l’infinito”. Sfere e palle a parte, eccoci al nodo dell’Einstein de noantri. “Quasi tutti i bambini che hanno sviluppato l’epilessia avevano proprio questi difetti e il vaccino non ha avuto altro ruolo che quello di svelare una malattia preesistente, e non di causarla, perchè queste alterazioni erano presenti dalla nascita e non possono essere state indotte dalla vaccinazione”. Ma è nelle metafore che il prossimo Nobel di fiale & provette riesce a dare il meglio di sé: “è come se una persona stonata si mette a cantare: fino a quando non canta non sappiamo che sia stonata, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che la canzone che ha cantato l’ha fatto diventare stonato!”. Meraviglioso: proprio come Volare…. Ecco la spiegazione del Mistero: “con il vaccino accade la stessa, identica cosa: un bambino ha dei difetti genetici o congeniti che causano l’epilessia e il vaccino semplicemente la svela. Ma non ne costituisce la causa”. E la metafora finale: “Immaginate una crepa nel muro, il vaccino è la luce che ve la mostra”. La luce divina che conduce alla Verità il popolo bue, tramite il Verbo di Vate Burioni. Ma la lezione del Maestro non è finita. E le sue sferzate colpiscono soprattutto quei luridi giornalisti che diffondono il seme del Terrore. “Un giornalista che sa fare il suo dovere – ammonisce – subito dopo aver riportato il terribile grido di dolore dei genitori, dovrebbe avere la correttezza professionale di informarsi, sentire qualcuno che se ne intende e scrivere quello che sto scrivendo io”. In attesa che arrivi il 113 per prelevarlo, il Profeta trova ancora il modo di raccontare la sua ultima metafora: “un giornalista dovrebbe capire che il parere del capo dei vigili del fuoco sulla prevenzione degli incendi non vale tanto quanto quella di un piromane incallito”. E ancora, mentre viene indotto ad indossare una certa camicia: “dovrebbe sapere che un conto è farsi spiegare i viaggi su Marte dal direttore della Nasa, un conto è chiedere ad una fattucchiera che fa gli oroscopi”. E in un soffio finale: “non sempre esistono ‘due campane da sentire’, ma ne esiste solo una in quanto dovrebbe essere facile distinguere i rintocchi dai ragli dei somari”. E alla quinta metafora l’ambulanza chiude il portellone e parte a sirene spiegate. L’ineguagliabile scienziato, però, viene addirittura insidiato, nella performance, dal giornalista scientifico di Repubblica, Marco Cattaneo, a quanto pare collaboratore del National Geograpich, che sta veleggiando in brutte acque. Già impegnato a fiancheggiare un’altra Cattaneo, la senatrice- farmacista a vita Elena, sul fronte della vivisezione (con l’altra firma scientifica del quotidiano fondato da Scalfari, Elena Dusi), l’intrepido Marco randella chiunque gli capiti a tiro e osi solo nominare i vaccini. Le frasi di Red Ronnie diventano “terrificanti sciocchezze” e “affermazioni sgangherate”, la malefica correlazione vaccini-autismo “pur essendo stata negata da un’infinità di studi, continua pericolosamente a fare proseliti”, magicamente il profilo del Maestro-Virilogo diventa “frequentatissimo”, “5 milioni di visualizzazioni”, il nostro un Paese infestato da “stregoni che possono mettere in pericolo la vita della gente” (sarebbero – incredibile ma vero – le parole di Anzaldi), “il Paese dei casi Di Bella e Stamina” (facendo un incredibile minestrone parascientifico). Le parole conclusive di Cattaneo sono scolpite nella Roccia e – da domani – nelle coscienze di tutti gli italiani: “dal dopoguerra in poi i vaccini hanno salvato milioni di vite, permettendo di debellare nel mondo una malattia terribile come il vaiolo, contro la quale infatti non ci si vaccina più”. Eccoci al finale, un colpo da Maestro: “sarebbe una buona cosa se a parlarne, in tv, ci andasse solo chi è competente. E che l’informazione sul servizio pubblico non si prestasse a veicolare messaggi socialmente pericolosi. Ora la parola è alla Vigilanza”. E alle Emergenze del 113, costrette a intervenire una seconda volta.
5 Gennaio 2017 di: PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci.
CASO VACCINI / IL QUASI NOBEL BURIONI NON PARLA COL POPOLO BUE. Caso vaccini, un must per i media negli ultimi mesi. A fare il botto, dopo quelli di Capodanno, è il 5 gennaio la sparata della scienziato che oggi va per la maggiore, la star del San Raffaele, il mago di tutti i vaccini, Roberto Burioni. Al quale, con tutta evidenza, i vaccini danno alla testa. Ecco tutta l’overdose in diretta, frase per frase, così come fedelmente riportata dalla giornalista scientifica del Corriere della Sera, Simona Ravizza – un cognome che evoca la celebre casa farmaceutica – in un’intera paginata dedicata ai vaccini e alle picconate del cattedratico. In neretto, tra giganteschi virgolettoni, campeggia il Verbo del prof, che per i profani viaggia via Facebook: “preciso che questa pagina non è un luogo dove la gente che non sa nulla può avere un ‘civile dibattito’ per discutere alla pari con me”. Ecco l’incipit dell’umile quasi Nobel. Che ai suoi pazienti mortali spiega: “è una pagina dove io, che studio questi argomenti da 35 anni, tento di spiegare in maniera accessibile come stanno le cose impiegando in maniera gratuita il mio tempo che in generale viene retribuito in quantità estremamente generosa”. Niente fattura stavolta, tanta scienza miracolosamente ‘a gratis’! Chiarisce ancora il Vate: “il rendere accessibili i concetti richiede semplificazione: ma tutto quello che scrivo è corretto e, inserendo immancabilmente le fonti, chi vuole può controllare di persona la veridicità di quanto riportato”. Ma ecco l’avvertimento, per mettere in guardia furbi e furbetti d’ogni razza: “però non può mettersi a discutere con me. Spero di aver chiarito la questione: qui ha diritto di parola solo chi ha studiato e non il cittadino comune. La scienza non è democratica”. Capito? Genuflessa, Ravizza si scioglie davanti al “virologo del San Raffaele diventato una star grazie al coraggio di stroncare i fabbricanti di bufale. Soprattutto sui vaccini. In uno dei suoi ultimi post su facebook, letto da oltre 2 milioni e 400 mila lettori, il medico ristabilisce le (giuste) distanze tra chi sa e chi no”. E aggiunge: “la scienza non va a maggioranza. Anche se per il 99 per cento della popolazione mondiale pensa che due più due fa cinque, due più due continuerà sempre a fare quattro”, in un improbabile italiano. Forte, invece, in matematica il prof, e anche in sport, visto un altro raffronto: “chi ascolterebbe una cronaca di calcio da qualcuno che non sa cos’è il fuorigioco?”. Imperdibile. Del resto, il quasi Nobel aveva sfornato quarti di scienza qualche mese fa davanti alle telecamere Rai per la trasmissione – guarda caso – Virus, in un replay organizzato apposta per lui. Nicola Porro, infatti, finì quasi fucilato per non avergli dato lo spazio giusto in una puntata sui vaccini. Al round seguente, quindi, Burioni a tutto campo, pronto a sciorinare i suoi fiumi di sapere senza alcun contraddittorio scientifico.
Del resto non c’è mente che possa reggere il confronto. Nel corso di una trasmissione di Colorsradio e alle domande del direttore David Gramiccioli, a proposito di alcuni medici che osavano parlare di vaccini (e soprattutto di attenzioni e cautele nel loro utilizzo, e anche sui necessari controlli per garantire dei prodotti di qualità a monte) Vate Burioni picconò: “Ma quali studi scientifici hanno mai fatto costoro? Quali pubblicazioni hanno nel loro curriculum? Chi ha pubblicato i loro studi? Non mi confronto con chi non ha i miei titoli”.
6 Gennaio 2017 di: PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci.
ILARIA CAPUA / L’ESPERTA PLANETARIA DI VACCINI E AVIARIA APRE IL SUO CUORE A SETTE. Il Genio che l’Italia si fa sfuggire dalle mani. La madame Curie lasciata scappare all’estero. Il prossimo Nobel da noi mai compreso. E’ il ritratto pieno di calore ed emozione che trasuda dalle due pagine d’intervista dedicata da Sette, il magazine di casa Corsera, alla scienziata Ilaria Capua, “una delle massime esperte planetarie di influenza aviaria, pluripremiata e strapubblicata”, come sobriamente descrive la didascalia della foto (titolo del pezzo “Portare avanti compagne contro le vaccinazioni è una scelta criminale”). A firmare l’esclusiva, altrettanta planetaria, Vittorio Zincone, che in poche righe d’esordio pennella la figura della nostra Mente, che “ora vive in Florida, tra praticelli ben rasati, scoiattoli e fenicotteri. Si è trasferita in un piccolo paradiso della ricerca americana perchè ustionata dall’inferno kafkiano della giustizia italiana”. Mancano solo i Sette nani, farfalle e orchi cattivi. Breve ma efficace la sintesi che sgorga dalla penna di Zincone: “nel 2013 Mario Monti le chiede di partecipare alle Politiche nella lista professorale di Scelta Civica. Viene eletta. Un anno dopo scopre, leggendolo in un servizio di copertina dell’Espresso, di essere coinvolta in una pesantissima inchiesta. Titolo, Trafficante di virus”. Pochi mesi fa “il giudice per le indagini preliminari di Verona emette il verdetto: prosciolta perchè il fatto non sussiste”. L’incontro a Roma, “in una stanzetta della Luiss che qualche mese fa l’ha accolta nel consiglio d’amministrazione”, l’intervista, che sgorga pura e limpida come acqua sorgiva. Il Vate in camice immacolato – scrive il De Amicis prestato a Sette – “alterna l’italo-inglese scientifico a slanci in romanesco”: vale mezzo viaggio a Stoccolma. Ma ecco, fior tra fiori, quelli più odorosi, proprio come in quel magico praticello della Florida. Appena cito l’inchiesta che l’ha coinvolta – scrive l’Autore – le si piega un po’ la voce: “hanno sparato a un passerotto col cannone”. In un praticello di casa nostra. Quando accenno al dibattito sull’opportunità di vaccinare i bambini – continua Zincone – si inalbera. “E’ da criminali portare avanti campagne contro le vaccinazioni. La forza di questi movimenti è la disinformazione. Vanno combattuti. I vaccini sono la principale conquista del Ventesimo secolo. Senza i vaccini né io né lei saremmo qui”. Più o meno lo stesso copione di un altro quasi Nobel, Roberto Burioni, cui ha appena dedicato un’altra paginata – guarda caso – il Corriere della Sera. A proposito di quell’articolo dell’Espresso: “ho sentito una colata di cemento invadermi il cuore”. “Ho cercato pure di chiamare l’Espresso ma non ci sono riuscita. Erano riportate frasi decontestualizzate. Mi sono sentita violentata. Gelo. Gola secca. Mi accusavano di essere un mostro. Di aver commesso reati da ergastolo”. Massacrata, di più. “Frequento una psicoterapeuta e una psichiatra. Le vittime di stupro hanno bisogno di supporto”. A proposito dei rapporti tra ricerca & impresa, finalmente un fascio di Luce: “il mondo della ricerca deve dialogare con il mondo imprenditoriale. Se non lo fa rende inutili le sue scoperte. E’ normale che chi non fa ricerca seria si stupisca per certi meccanismi o non li capisca”. A proposito della vivisezione, pardòn della "sperimentazione animale", chiodo fisso per soloni & scienziati (sic) di casa nostra, a cominciare dalla senatrice e farmacista a vita Elena Cattaneo, ecco il Capua-Pensiero: “Ricordo una conversazione avuta con un parlamentare del Movimento Cinque Stelle. Cercavo di spiegargli che mettere delle limitazioni alle sperimentazioni animali avrebbe bloccato la ricerca sui tumori. Alla fine lui ha replicato: "Tu non hai capito". A me. Gli ho chiesto: "Scusa, ma tu che formazione hai?". E lui: "Ho fatto qualche esame di biologia". Ma si rende conto?”. Sì, ci rendiamo perfettamente conto. Sempre in tema, il genuflesso Zincone domanda: “Una grande passione per gli animali?”. E lei pronta: “Neanche troppo. Volevo fare ricerca e andare via da Roma”. Racconta la sua solitudine politica, la futura Nobel per la medicina (bersaglio del resto sfiorato, un quarto di secolo fa, anche da Sua Sanità Franco De Lorenzo): “avrebbero dovuto respingere le mie dimissioni per dare un segnale contro il giustizialismo che mi ha travolto”. E oggi, per ridarle credibilità? “Che ne so… Renzi avrebbe potuto proporre il mio nome per lo Human Technopole, il centro di ricerca che dovrebbe sorgere negli spazi dell’Expo milanese, e invece…”. Invece è pronto il volo per Miami, dove già sogna una cena col ‘nemico’ Donald Trump…
REAZIONI AVVERSE. REPORT RAI 3 PUNTATA DEL 17/04/2017 DI Alessandra Borella - Salute. Il papilloma virus (HPV) è stato collegato all’insorgere del tumore al collo dell'utero. Per prevenirlo l’Italia è stata il primo paese in Europa ad introdurre il vaccino anti-papilloma virus, tra i più costosi in età pediatrica. Le nostre autorità sanitarie hanno potuto contare su una valutazione positiva dell’Agenzia Europea del Farmaco, che ha dichiarato sicuro questo tipo di vaccini. Ma le segnalazioni sui possibili danni causati dal vaccino anti HPV sono state correttamente valutate? Se lo chiede un team di ricercatori indipendenti danesi della rete “Cochrane Collaboration”, che ha presentato un reclamo ufficiale a Strasburgo. L’accusa è contro l’Agenzia Europea del Farmaco: avrebbe sottovalutato le reazioni avverse e ci sarebbero anche dei conflitti d’interesse che non sono stati dichiarati.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Si stima che nel corso della vita il 75 per cento delle persone venga a contatto con il virus del Papilloma umano, che si trasmette per via prevalentemente sessuale. Molti sono portatori sani, senza saperlo. Sono 120 i ceppi del virus. Tredici quelli che dopo una latenza di circa 20-30 anni, possono causare lesioni, che solo nell’uno per cento dei casi si trasformano in tumore. I vaccini presenti sul mercato sono: il Cervarix, prodotto dalla Glaxo. Protegge contro due dei tredici tipi più pericolosi. E il Gardasil, di Merck e Sanofi Pasteur, che estende l’immunità a nove. A oggi circa 80 milioni di persone sono state vaccinate nel mondo. Un milione solo in Italia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Allora, l’Italia è stato il primo Paese europeo a mettere a carico del Sistema sanitario nazionale i costi della vaccinazione dell’Hpv. Ultimi dati disponibili, fino al 2015, abbiamo speso 306 milioni di euro. Dal gennaio del 2017 la vaccinazione riguarderà anche noi maschietti che siamo portatori sani. Allora, la prima cosa importante che diciamo è che questa inchiesta non è contro l’utilità dei vaccini, si tratta in tema di prevenzione probabilmente della scoperta più importante degli ultimi 300 anni. Parliamo però di farmacovigilanza. Cioè che cosa accade quando ti inietti il vaccino e hai una reazione avversa. La legge prevede che il medico, appena venuto a conoscenza, debba informare l’ufficio di farmacovigilanza entro 36 ore. Ma in quanti lo fanno? Alessandra Borella.
GIULIA DUSI: Io ho un dolore cronico al corpo tutti i giorni, tutto il giorno, che non va via con nessun farmaco... Mi hanno riempito di cortisone, di qualsiasi antidolorifico possibile, morfina in vena, anestesia della sala operatoria...
ALESSANDRA BORELLA: Cosa ti hanno detto?
GIULIA DUSI: Che io sono una pazza, che tutti i sintomi che ho sono letteralmente inventati...
ALESSANDRA BORELLA: Tu ti riconosci nelle parole di Giulia?
GIULIA LUPPINO: Anche io ho dolori a tutto il corpo, tutti i giorni per tutto il giorno... non c'è niente che li fa passare…
ALESSANDRA BORELLA: Anche tu hai consultato tanti medici, cosa hanno detto?
GIULIA LUPPINO: Eh, che sono da ricoverare in psichiatria…
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Ci sono voluti quattro anni per cambiare diagnosi. Eppure i sintomi delle ragazze sono tra gli effetti indesiderati descritti nel bugiardino del vaccino.
ANNA PEZZOTTI – ASSOCIAZIONE RAV HPV REAZIONI AVVERSE PAPILLOMA: Un medico ha voluto ascoltarci e ha aperto un'inchiesta presso la farmacovigilanza. Qui mi è stato detto che a dicembre 2014 vi erano 900 segnalazioni di reazioni avverse al vaccino anti-papilloma virus, 180 di queste segnalazioni già presenti avevano gli stessi sintomi descritti di mia figlia… Io non sono assolutamente contro i vaccini, anzi…
ALESSANDRA BORELLA: Voi fate parte di una rete di quaranta famiglie. Di queste famiglie, in quante sono riuscite a fare la segnalazione?
ANNA PEZZOTTI - ASSOCIAZIONE RAV HPV REAZIONI AVVERSE PAPILLOMA: Quattro famiglie. Le altre non riescono perché il medico si rifiuta di inoltrare la segnalazione. La giustificazione è la letteratura scientifica ad oggi asserisce che non vi è nessuna correlazione tra i sintomi delle ragazze e il vaccino anti papilloma virus.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Eppure un medico, per legge, è tenuto a farla subito la segnalazione di qualsiasi sospetta reazione avversa. Nel caso dei vaccini entro 36 ore. La madre di Giulia ha cercato risposte anche in Israele. Nell’ospedale Sheba Medical Center di Tel Aviv, lavora il professor Shoenfeld. Per lui i sintomi della ragazza sono una tipica reazione autoimmune al vaccino. Che forse si potrebbe prevenire attraverso gli studi genetici.
YEHUDA SHOENFELD – IMMUNOLOGO: Possiamo identificare i marcatori genetici che predispongono a sviluppare reazioni autoimmuni. Questa ragazza ha 16 anni, dopo aver preso il Gardasil è sprofondata in uno stato vegetativo. Questa è la madre, vede, ha dichiarato: “Abbiamo mandato a scuola una ragazza sana e non è più tornata la stessa”.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Shoenfeld è diventato in questi anni il punto di riferimento di chi sospetta di aver subito danni dal vaccino.
YEHUDA SHOENFELD – IMMUNOLOGO: Io sono a favore dei vaccini, penso che siano la migliore rivoluzione degli ultimi 300 anni. Ma non sono convinto che il vaccino contro l’HPV possa prevenire il cancro. Lo sapremo tra 20 anni. Per ora è stata rilevata una riduzione delle lesioni pre-cancerose. La durata della copertura vaccinale è ignota. E ogni giorno vedo troppe reazioni avverse.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Una sospetta reazione al vaccino l’ha avuta anche Martina. I suoi genitori sono riusciti a segnalare il caso alla farmacovigilanza solo dopo sei anni.
GLORIA MARCHESAN: Martina ha fatto la prima dose del vaccino e la nostra vita è cambiata…
MARTINA TROIAN: Mi sento veramente ingabbiata, mi sento rinchiusa in un corpo che non è il mio. Non riesco a fare tantissime cose con la stanchezza, perdo la memoria, inizio a studiare, mi addormento sui libri...
ALESSANDRA BORELLA: Dopo queste reazioni che cosa vi hanno detto al centro della Asl?
GLORIA MARCHESAN: Che non è causato dal vaccino, assolutamente di stare tranquilla...
ALESSANDRA BORELLA: Con certezza.
GLORIA MARCHESAN: Sì, sì.
ALESSANDRA BORELLA: Quando avete potuto fare la segnalazione della farmacovigilanza?
GLORIA MARCHESAN: Nel 2016 dopo che abbiamo contattato il professor Palmieri.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Un medico che ha fatto conoscere alle mamme uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità, proprio sulle reazioni avverse.
BENIAMINO PALMIERI – MEDICO CHIRURGO UNIVERSITÀ MODENA E REGGIO EMILIA: Che ha riscontrato, partendo dal 2008 e fino al 2011 come il 60 per cento delle ragazze vaccinate con i due classici vaccini Gardasil e Cervarix anti-HPV manifestassero delle reazioni avverse.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Il 60 per cento di un campione di 12mila donne tra i 9 e i 26 anni, da 9 regioni diverse. Vista la percentuale forse meritava di essere approfondito, ma non ci risulta sia stato fatto.
BENIAMINO PALMIERI – MEDICO CHIRURGO UNIVERSITÀ MODENA E REGGIO EMILIA: Io auspicherei che il Ministero della Sanità veramente ci fornisse, e anche gli osservatori epidemiologici regionali dei vaccini, ci potessero fornire informazioni ulteriori, cosa che abbiamo già fatto un anno fa e hanno risposto circa il 2/3 per cento degli enti a cui abbiamo richiesto questo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: La direttiva europea imporrebbe trasparenza, massima trasparenza sui dati della farmacovigilanza, ma ogni Regione fa un po’ a modo suo: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna segnalano sul singolo farmaco, Sardegna e Piemonte fanno report generici sulla categoria dei principi attivi. Friuli, Toscana, Umbria e Marche non pubblicano dati online. La Basilicata ci dice “ho problemi con il sito. Abbiamo solo un archivio cartaceo, raccogliamo i dati e ve li inviamo”. Mai arrivati. Il Molise dice “abbiate pazienza, li stiamo raccogliendo per voi”, e anche qui, non sono mai arrivati; la Puglia dice, l’ufficio, la farmacovigilanza l’abbiamo messo in piedi pochi mesi fa, abbiamo un po’ di difficoltà”. Valle d’Aosta, Umbria e Lazio non forniscono dati ai giornalisti, ci hanno detto. Però tutti hanno assicurato di aver fornito i dati all’ufficio della farmacovigilanza dell’Aifa, cioè dell’Agenzia italiana del Farmaco. Poco male, a noi poco importa, nel senso che se li forniscono a loro a noi va benissimo, il problema è che poi i conti però non tornano. A vedere per esempio i dati del 2012, Aifa riporta complessivamente su tutto il territorio nazionale 293 casi di reazioni al vaccino, la sola Lombardia invece per lo stesso anno ne registra 692. Delle due l’una, o l’Aifa sottovaluta o la regione Lombardia largheggia. Che cosa è successo invece in Danimarca, si son fatti due conti e dei ricercatori indipendenti hanno presentato un reclamo al Mediatore europeo, a questa signora qui, Emily O’Reilly, che ha il compito di indagare sulle denunce fatte nei confronti di enti dell’Unione Europea. Questa volta sul banco degli imputati c’è l’EMA, cioè l’Agenzia del 4 Farmaco europea, per i medicinali, europea: è accusata di poca trasparenza nella valutazione di immissione sul mercato del vaccino e di aver sottovalutato le reazioni avverse. ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO In Giappone il governo ha ufficialmente smesso di raccomandare l’uso del Gardasil e del Cervarix. Reazioni al vaccino si sono registrate anche in Francia e Inghilterra. Ma è in Danimarca che si sono verificati i casi più gravi. Il professor Gøtzsche, medico, chimico e biologo, è il leader della sezione danese di un’organizzazione mondiale di ricercatori indipendenti. Che puntano il dito contro l’azienda farmaceutica.
PETER GØTZSCHE – DIRETTORE NORDIC COCHRANE: La Sanofi Pasteur ha già ingannato il Ministero della Sanità. Le è stato chiesto di cercare i casi di gravi effetti collaterali tra i dati a sua disposizione. E le è stato detto anche come cercarli. Non si capiva come mai ne avesse trovati così pochi rispetto a quelli già conosciuti dal Ministero. Hanno scoperto che la casa farmaceutica aveva usato una diversa strategia di ricerca. Io questa la chiamerei frode.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Il centro che raccoglie i dati delle reazioni avverse per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si trova a Uppsala, in Svezia. Ha registrato finora oltre 71mila casi. E si tratterebbe di numeri in difetto. La stessa OMS stima che solo il 10 per cento di chi ha effetti collaterali li denunci. Allarmato dai numeri, il Ministero della Sanità danese ha chiesto all’EMA, l’Agenzia Europea dei Medicinali, la revisione del vaccino. Le carte le hanno studiate qui, nella sede di Londra dell’EMA. Sono finite sulla scrivania della dottoressa Alteri, che è stata a capo del Comitato per i medicinali per uso umano. Alla fine hanno deciso che il vaccino si poteva continuare a iniettare.
ALESSANDRA BORELLA: Io leggo in alcuni documenti ufficiali che questo vaccino non ha causato reazioni avverse preoccupanti o gravi. Come si può dichiarare questo, sono 71mila secondo l’Uppsala…
ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Guardi che... sì, ma ci stanno 100 milioni di persone che sono state vaccinate. La maggior parte di queste segnalazioni vengono perché c’è quella che si chiama una relazione temporale, diciamo, “io ho un vaccino e il giorno dopo mi fa male la testa”. Quello che dobbiamo domandarci è: “Questi eventi succedevano prima del vaccino?” La risposta è sì. Quello che dico è che può essere una coincidenza.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Potrebbe. Ma secondo i ricercatori danesi le case farmaceutiche non sarebbero andate a fondo sugli effetti collaterali. Alcuni studi sarebbero viziati alla base.
PETER GØTZSCHE – DIRETTORE NORDIC COCHRANE: Negli studi di controllo con il placebo, invece di usare una sostanza inerte come acqua salina, hanno iniettato spesso alluminio, che è presente nel vaccino come adiuvante, o addirittura un altro vaccino, quello dell’epatite. Non è più un placebo! Non si distingue dal farmaco, potrebbe causare le stesse reazioni avverse e quindi i dati ottenuti non sono attendibili.
ALESSANDRA BORELLA: Di chi possiamo fidarci sui report di questi dati?
PETER GØTZSCHE – DIRETTORE NORDIC COCHRANE: Di certo non possiamo fidarci delle case farmaceutiche e nemmeno dell’Agenzia europea, che si è fidata dei loro dati e non li ha ricontrollati.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Durante il processo di revisione sono emerse anomalie. I nomi di alcuni consulenti sono oscurati dai report. Impossibile capire chi è stato critico nei confronti del vaccino. Nel rapporto confidenziale del Comitato, mai pubblicato, c’è l’ipotesi della correlazione con due sindromi diagnosticate ad alcune pazienti vaccinate. Ma nelle conclusioni divulgate l’Agenzia dice soltanto: “Non c’è prova che il vaccino sia la causa: non sulla base dei dati a disposizione, che però, riconosce, sono limitati”. Troppe incongruenze, dunque, secondo i ricercatori danesi, che si sono rivolti a ottobre al Mediatore europeo, che giudica sulle denunce contro gli enti dell’Unione. Nel dossier, accolto l’8 novembre, la prima accusa è: mancanza di trasparenza.
ALESSANDRA BORELLA: Il punto cruciale è proprio la mancanza della possibilità di consultare quello che è accaduto, o il disaccordo.
ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Ci sono dei rapporti iniziali del relatore, che sono stati a seguito chiarificati, discussi nel comitato, in questo caso il PRAC, il comitato della farmacovigilanza e il rapporto finale era consensuale…
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Sulle modalità di valutazione dell’EMA è critico anche Silvio Garattini, direttore dell’istituto di ricerca farmacologica Mario Negri di Milano. C’è anche la sua firma sul reclamo al Mediatore europeo.
ALESSANDRA BORELLA: Mi conferma che durante questo processo di valutazione non si rifanno anali, trial clinici?
SILVIO GARATTINI – DIRETTORE ISTITUTO RICERCA FARMACOLOGIA MARIO NEGRI: Non c’è certamente la replicazione dei dati e questo naturalmente rappresenta un importante conflitto di interessi perché siccome il dossier può essere per un farmaco può essere presentato solo dall’industria farmaceutica, è chiaro che abbia il massimo interesse a mettere in evidenza le cose favorevoli. Lo stesso impegno a cercare i benefici deve essere trasmesso anche a cercare i rischi.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Per farlo, Garattini propone da tempo, così come i ricercatori danesi e il professor Shoenfeld in Israele, che almeno uno degli studi clinici prima dell’immissione di un farmaco sul mercato, venga fatto da un ente indipendente.
YEHUDA SHOENFELD – IMMUNOLOGO: Le industrie farmaceutiche non sono necessariamente interessate alla tua salute, sono interessate ai soldi. Quindi non mi importa se mi criticano. Noi dobbiamo rivolgerci agli enti controllori. Sono loro i nostri interlocutori, devono ascoltarci, non soffocare la voce di quei ricercatori che dicono “attenzione possono esserci effetti indesiderati”.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: I controllori però si mantengono di fatto con i soldi dei controllati. Per la valutazione e approvazione di un farmaco da introdurre sul mercato, le industrie pagano circa 250 mila 6 euro, più un contributo annuale. Praticamente l’82 per cento delle entrate dell’EMA derivano dalle industrie farmaceutiche, che finanziano anche tutti gli studi clinici.
ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Io non ho nessun problema che l’industria farmaceutica finanzi degli studi, sono loro poi che vendono le medicine quindi per quale motivo non dobbiamo mettere su di loro il peso del costo di questi studi.
ALESSANDRA BORELLA: Però ci dobbiamo fidare, diciamo, che non ci sia nessun tipo di pressione…
ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Noi dobbiamo proteggere i nostri comitati durante il lavoro di valutazione da qualsiasi influenza che li possa diciamo, sviare dal loro lavoro puramente scientifico.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Il sistema di protezione però non ha funzionato proprio nel 2008. Nel comitato di valutazione dell’EMA che ha approvato il vaccino c’era una vecchia conoscenza di Report: Pasqualino Rossi.
DA REPORT DEL 10/10/2016 GIULIO VALESINI: Dottor Rossi? Salve, Valesini di Report.
GIULIO VALESINI: …Ma in cambio di cosa lei riceveva tutti quei regali da Matteo Mantovani? Perché non mi spiega dottor Rossi? Tranquillamente.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: È proprio Rossi che svela informazioni riservate e addirittura la password dei terminali dell’Agenzia europea a Matteo Mantovani, il manager che curava gli interessi delle case farmaceutiche. Secondo i magistrati lo scopo era quello di informarlo sull’iter dell’approvazione del vaccino. In cambio, Mantovani ha pagato a lui e famiglia vacanze in un resort, mobili, infissi, un televisore da 46 pollici e 4 mila euro. Rossi viene arrestato nel 2008, dopo essere stato filmato mentre incassava una mazzetta da un altro manager. Ma dopo sette anni è scattata la prescrizione.
ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Non sono al corrente di questo caso specifico, nel 2008 non ero in agenzia …
ALESSANDRA BORELLA: Però la robustezza del sistema che non permette a un singolo di intervenire … e poi in realtà scopriamo che un singolo qui dentro …
ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Ovviamente non è accettabile, io questo signore non lo conosco… Non so chi sia, non è qui.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Non più. È a Bruxelles infatti. Rossi è stato inviato dal ministro Lorenzin all’ufficio di rappresentanza a tutelare la nostra salute alimentare e quella animale. Un salto di carriera. Ma il suo caso oggi viene citato nel reclamo presentato al Mediatore europeo: per i ricercatori danesi è una ulteriore prova che non ci si può fidare delle case farmaceutiche e nemmeno di come l’Agenzia europea dei medicinali svolga la sua funzione di controllore. Antonietta Gatti si occupa di nanopatologia: nel corso degli ultimi 10 anni ha analizzato al microscopio, anche su mandato delle procure 44 tipi diversi di vaccini. Tra questi anche tre fiale di vaccino per il papilloma virus.
ALESSANDRA BORELLA: Cosa avete trovato dentro questi due vaccini?
ANTONIETTA GATTI – FISICO E BIOINGEGNERE: Prendiamo ad esempio il Cervarix, oltre ad esserci l’alluminio, ovviamente che ce n’è una quantità abbastanza importante, abbiamo trovato anche delle polveri di silicio magnesio, delle polveri di rame stagno piombo, ferro cromo, acciaio, calcio zinco. Per il Gardasil io ho trovato piombo bismuto.
ALESSANDRA BORELLA: Secondo lei come mai ci sono queste sostanza, questi materiali all’interno dei vaccini che avete analizzato?
ANTONIETTA GATTI – FISICO E BIOINGEGNERE: È difficile da dire… Se io avessi potuto entrare dentro all’azienda, probabilmente avrei identificato alcune procedure che potevano presentare contaminazioni.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Le aziende farmaceutiche, però, non hanno risposto. Un decreto del 2001 del ministro Umberto Veronesi, impone di denunciare il ritrovamento di corpi o sostanze estranee all’interno di un medicinale. La dottoressa Gatti non l’ha fatto, ma ha pubblicato il suo studio e lo ha inviato all’Agenzia europea dei medicinali che risponde che lo considera privo di valore: le quantità di sostanze non sono rilevabili, e comunque entro certi limiti è normale che ci siano, e non rappresenterebbero un pericolo per la salute. L’EMA cita degli studi francesi che però, particolare non trascurabile, si riferiscono al vaccino contro la meningite.
ALESSANDRA BORELLA: Le normative non prevedono che si cerchino questi materiali all’interno dei vaccini, è corretto?
ANTONIETTA GATTI: E ovviamente non c’è neanche un limite.
ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Bianca ha avuto gli stessi sintomi di Giulia e Martina dopo il vaccino anti-HPV. Una dottoressa che si occupa di malattie rare le aveva consigliato un esame per rilevare una intossicazione da metalli pesanti. Ma del risultato delle analisi non c’è traccia.
BIANCA CESARONI: Mi hanno fatto appunto il prelievo e mi hanno dimesso dicendo che da lì a breve tempo sarebbero arrivati i risultati finché dopo parecchi mesi, mi sembra 4-5 mesi è stato detto finalmente “guardi le analisi non le abbiamo potute fare perché non c’erano abbastanza fondi e soltanto per una persona non si potevano effettuare queste analisi”.
ALESSANDRA BORELLA: Bianca ha fatto la vaccinazione anti-HPV e poi è stata male.
ANTONELLA CRISCIOTTI: Lei ha fatto la prima dose e non è successo nulla, tutto tranquillo, seconda dose, novembre 2008, e dopo 15-20 giorni sono cominciate una serie di problematiche…
ALESSANDRA BORELLA: Quali?
ANTONELLA CRISCIOTTI: Tra cui questa sensazione di dolore muscolare forte, non riusciva nemmeno ad alzarsi dalla poltrona, dal letto… E mio marito la portò tranquillamente al centro vaccinale, mi arrivò questa telefonata dal medico che mi disse che tutte queste problematiche di mia figlia al 99 per cento, non poteva logicamente metterlo per iscritto, ma al 99 per cento erano derivate dal vaccino e mi disse “guardi, io se fossi in voi non la farei la terza dose”. Mi disse che era importante a questo punto fare la scheda di segnalazione avversa di reazione al vaccino…
ALESSANDRA BORELLA: E gliel’ha fatta e firmata lui.
ANTONELLA CRISCIOTTI: Sì, me l’ha fatta e me l’ha firmata lui.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Le ha lasciato anche una copia firmata come prevede la legge. La mamma di Giulia, invece non è riuscita ad averla questa copia. La mamma di Martina ha impiegato sei anni, tutte le altre mamme invece non sono riuscite a fare la segnalazione alla farmacovigilanza La sensazione è un po’ quella che se ti va male, forse è meglio non saperlo. Ora, premesso che se anche sono casi rarissimi, queste persone non devono sentirsi abbandonate. E premesso anche che forse si potrebbero anche prevenire questi casi di reazioni avverse se fossero implementati gli studi, come gli studi genetici, come suggerisce il professor Shoenfeld. Ora premesso tutto questo, se la farmacovigilanza però funziona così, come facciamo a sapere con esattezza quanti sono i casi di reazioni avverse? I conti non tornano anche per quello che riguarda la mortalità per il tumore al collo dell’utero. Da cui il vaccino dovrebbe in qualche modo proteggerci. Secondo gli ultimi dati disponibili e parliamo del 2012, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarebbero i morti 13mila l’anno, secondo invece l’Agenzia per il Medicinale europea sarebbero 20mila, secondo gli ultimi dati che ci sono arrivati adesso adesso, l’Associazione europea del cancro cervicale, 30 mila. E non tornano neanche in Italia, perché secondo l’Aifa, la nostra Agenzia per il Farmaco, sarebbero 1.500 i morti l’anno, secondo l’Associazione per la ricerca contro il cancro, 1.016 e secondo il nostro Istituto Superiore di Sanità sarebbero 700 l’anno. Ora, metti tutto questo, e metti che i controllori sono finanziati dai controllati. E metti anche che chi era nel comitato di valutazione del vaccino è stato beccato mentre percepiva una mazzetta da chi doveva appunto valutare e che invece di essere cacciato via è stato promosso. Ecco, tutto questo, secondo noi, non fa altro che alimentare le campagne contro l’utilizzo di questi farmaci. Se si volesse utilizzare un vaccino, vero, contro la diffidenza, sarebbe il caso di utilizzare maggiore trasparenza e lotta alla corruzione, vera.
REAZIONI AVVERSE. PUNTATA DEL 24/04/2017. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Ma prima lasciatemi fare due precisazioni sul tiro incrociato a cui è stato sottoposto Report in questa settimana: riguarda il tema che abbiamo trattato lunedì scorso, quello sul vaccino che rende innocuo il papilloma virus che è importante perché previene alcune forme di tumore al collo dell’utero. Abbiamo detto che si tratta di un vaccino utile, che l’inchiesta non era contro l’utilità dei vaccini, abbiamo anche detto che il vaccino è la più grande scoperta in tema di prevenzione degli ultimi 300 anni, e abbiamo anche specificato che il tema era quello della farmacovigilanza e cioè dei casi anche di reazioni avverse. Nonostante tutto questo è passato il contrario, è passato come se fosse un’inchiesta contro i vaccini. C’era chi aveva capito bene, chi aveva capito male, chi ha giudicato senza neppure vedere. Bene, se siamo stati fraintesi la responsabilità è anche mia perché forse evidentemente siamo stati poco chiari. Però questo non era vero, ribadisco l’utilità del vaccinarci. Però, attenzione, avevamo posto due questioni: i casi, i numeri di reazioni avverse al vaccino, perché non collimano tra quelli denunciati dalle regioni e quelli presentati dall’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco e poi perché non è stato possibile per alcuni pazienti che hanno avuto quelle reazioni avverse denunciare entro 36 ore dai medici alla farmacovigilanza dell’Aifa come richiede la legge? Queste sono domande che sono rimaste senza risposta ancora oggi.
Burioni: «Basta bufale sui vaccini, la scienza non può essere democratica», scrive Daniele Zaccaria il 4 gennaio 2017 su "Il Dubbio". «Le opinioni di persone ignoranti non possono avere lo stesso valore delle valutazioni di chi ha dedicato la vita a studiare un argomento, non è una posizione totalitaria ma puro buon senso».
«Se il 99% degli abitanti del pianeta sostenesse che 2+ 2 fa 5, 2+ 2 continuerebbe ugualmente a fare 4». Roberto Burioni, medico virologo e immunologo all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano preferisce la logica all’opinione, l’evidenza scientifica alla credenza popolare. E nel campo dei vaccini ha intrapreso da tempo una battaglia contro la continua divulgazione di menzogne che avvelenano i pozzi del web. In particolare la “madre di tutte le bugie”, e cioè il rapporto di causa- effetto tra le vaccinazioni e l’autismo nei bambini, vera e propria leggenda metropolitana fabbricata dal medico britannico Andrew Warkfield successivamente radiato dal suo ordine professionale per truffa (aveva contraffatto i suoi studi). Nella sua pagina Facebook (seguita da 120mila persone) Burioni si è recentemente scagliato contro l’odiosa bufala dei migranti africani che avrebbero portato in Italia il ceppo del meningococco C. Una fandonia creata ad arte dal gruppo xenofobo Forza Nuova che il virologo ha smontato con semplicità, dimostrando come i ceppi presenti nel continente africano sono diversi da quelli presenti in Europa ( A, W- 135 e X) e tra questi non c’è il meningococco C, alla radice degli ultimi casi di meningite avvenuti in Italia. Di fronte alle opinioni razziste di alcuni internauti Burioni ha deciso per la prima volta di cancellare i commenti dalla sua pagina per non alimentare il telefono senza fili della propaganda anti- immigrati: «Non ritengo che in un dibattito scientifico chi dice che i neri sono meno intelligenti debba essere invitato a parlare. C’era gente che diceva delle bugie che potevano avere un riflesso sociale che ho ritenuto inaccettabile, non mi andava che sulla mia pagina ci fossero derive xenofobe».
Lei ha affermato che la scienza non è democratica.
«Ed è proprio così, le opinioni di persone che non conoscono nulla in un determinato campo scientifico non possono avere lo stesso valore delle valutazioni di chi ha dedicato la vita a studiare quel campo scientifico. Non si tratta di una posizione totalitaria o arrogante, ma di puro buon senso. Peraltro è qualcosa che accade in tutte le discipline: non sentirete mai una partita di basket commentata da chi non ne conosce le regole o un telecronista di calcio che non sa cosa sia il fuorigioco. Allo stesso modo non tollero che sulla mia bacheca vengano propagandate falsità e bugie».
Facebook è uno strumento orizzontale che permette una straordinaria diffusione della conoscenza ma anche alle bugie di viaggiare più in fretta e raggiungere più persone.
«Per questo evito di addentrarmi in discussioni con persone ignare delle basi della medicina, i dibattiti possono avvenire solo tra persone che conoscono gli argomenti di cui parlano. Qualche mese fa in una trasmissione televisiva sono stato costretto a replicare al signor Red Ronnie il quale sosteneva la grande bufala della correlazione tra vaccini e autismo, non mi pare che Red Ronnie sia un grande esperto di virologia. Comunque ricevo ogni giorno migliaia di commenti e quesiti da parte di chi mi segue e a questi applico un metodo, tento cioè di rispondere a più persone possibile cumulando le domande per tema e argomento».
Uno degli argomenti più usati dagli antivaccinisti è che la scomparsa delle malattie è dovuta al miglioramento delle condizioni di vita.
«Si tratta di un’affermazione falsa. In un capitolo del mio ultimo libro (Il vaccino non è un’opinione, Mondadori) analizzo quel che è successo in Germania. Nel povero Est la vaccinazione a tappeto è stata introdotta nel 1960, nel ricco Ovest invece solo due anni dopo. Cosa è successo? Ebbene: nel 1961 e nel 1962 a Est ci sono stati rispettivamente 126 e 4 casi di polio, all’Oest 4198 e 4673, una statistica che dimostra un’ovvietà».
Si è chiesto perché attorno alla medicina spesso nascono queste leggende?
«Vorrei correggere la sua affermazione: questo fenomeno accade quasi esclusivamente con i vaccini. Intorno alla produzione di nuove valvole cardiache o, che so, sulle nuove scoperte dell’ortopedia non mi pare che nascano grandi polemiche o si alimentino leggende».
Questo scetticismo sui vaccini sembra un tratto della modernità. Fino a qualche decennio fa nessuno si sarebbe sognato di metterne in discussione l’efficacia.
«Un tempo c’era molta più fiducia nella scienza, eravamo riusciti a sconfiggere la poliomelite e la difterite salvando milioni di vite con le campagne di vaccinazioni di massa. Oggi che l’efficacia delle vaccinazioni non è un argomento sindacabile non si avverte più nel senso comune il pericolo rappresentato da alcune malattie gravi. Per paradosso si può dire che i vaccini sono vittime del loro stesso successo».
Per propagandare falsità c’è bisogno di un pubblico disposto a crederci. Viene in mente il caso Stamina.
«Anche se la cura delle malattie neurodegenerative non è il mio campo di ricerca il caso Stamina (la pseudoterapia a base di cellule staminali inventata dal non- medico Stefano Vannoni n. d. r.) è emblematico su come sia facile approfittare della debolezza di genitori disperati, confrontati al dramma di avere dei figli affetti da patologie incurabili. In questi casi è lo Stato che deve intervenire per proteggere le persone dagli impostori».
La proliferazione delle medicine alternative, le promesse di guarigioni miracolose, le bordate al metodo scientifico, stiamo forse vivendo un ritorno al passato?
«Purtroppo sta venendo a mancare il principio di autorità e allo stesso tempo assistiamo a un processo di dequalificazione nei vari mestieri, le competenze e le professionalità contano sempre di meno. Questo, mi permetta, vale anche per voi giornalisti e in generale per la sfera dell’informazione. Oggi chiunque può aprire un blog o un sito web e diffondere notizie false, prive di fonti riscontrabili, scritte in un italiano zoppicante. Immagino che un giornale serio abbia un caporedattore che verifichi l’attendibilità di una notizia e che presti attenzione agli errori e ai refusi negli articoli. Si può capire quanto questo principio sia importante nella medicina e per chi si occupa di salute pubblica».
Gaia Scorza Barcellona per repubblica.it il 6 giugno 2020. Le mascherine vanno indossate nei luoghi pubblici e non più solo da operatori sanitari, malati di Covid-19 e chi li assiste. Lo stabilisce l'Organizzazione mondiale della Sanità che ha diffuso le nuove linee guida sui dispositivi di protezione ormai in uso da mesi per l'emergenza coronavirus, diffondendo i consigli per sanificarli e smaltirli. Anche se da sole non bastano, come ha ribadito ieri il direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel consueto briefing sulla pandemia a "proteggere contro il Covid-19". Un bel cambio di rotta in piena pandemia. Fino ad ora l'Oms aveva infatti rimarcato il "falso senso di sicurezza" trasmesso dall'indossare una copertura sul viso, senza specificare l'importanza dell'utilizzo. Ma considerate le nuove prove sulla trasmissione del coronavirus che si sta cominciando a conoscere l'organizzazione torna sui suoi passi rispetto al documento rilasciato il 6 aprile, allargando l'obbligo di indossarle perché utili a contenere i contagi. Le nuove linee guida, ha spiegato il capo dell'Agenzia dell'Onu, "sono un aggiornamento di quello che diciamo da mesi". "Alla luce della situazione attuale, l'Oms raccomanda i governi ad incoraggiare l'uso delle mascherine dove c'è un'ampia diffusione del virus e la distanza fisica è difficile da mantenere, come i trasporti pubblici, i negozi o in altri ambienti chiusi e affollati", ha sottolineato il direttore. In particolare, l'invito è rivolto anche agli operatori sanitari "che non trattano pazienti Covid-19. Alle persone di età superiore ai 60 anni o quelle con patologie pregresse è consigliato di indossare una mascherina medica in situazioni in cui il distanziamento sociale non può essere mantenuto". Tutti gli altri "devono indossare mascherine di tessuto a tre strati". Nelle nuove indicazioni dell'Oms ci sono anche tutte le istruzioni per fabbricarle in casa. Si tratta di suggerimenti per realizzare mascherine in tessuto, con dettagli su strati e materiali da utilizzare. Fino ad ora l'Oms aveva infatti rimarcato il "falso senso di sicurezza" trasmesso dall'indossare una copertura sul viso, senza specificare l'importanza dell'utilizzo. Ma considerate le nuove prove sulla trasmissione del coronavirus che si sta cominciando a conoscere l'organizzazione torna sui suoi passi rispetto al documento rilasciato il 6 aprile, allargando l'obbligo di indossarle perché utili a contenere i contagi. Le nuove linee guida, ha spiegato il capo dell'Agenzia dell'Onu, "sono un aggiornamento di quello che diciamo da mesi". "Alla luce della situazione attuale, l'Oms raccomanda i governi ad incoraggiare l'uso delle mascherine dove c'è un'ampia diffusione del virus e la distanza fisica è difficile da mantenere, come i trasporti pubblici, i negozi o in altri ambienti chiusi e affollati", ha sottolineato il direttore. In particolare, l'invito è rivolto anche agli operatori sanitari "che non trattano pazienti Covid-19. Alle persone di età superiore ai 60 anni o quelle con patologie pregresse è consigliato di indossare una mascherina medica in situazioni in cui il distanziamento sociale non può essere mantenuto". Tutti gli altri "devono indossare mascherine di tessuto a tre strati". Nelle nuove indicazioni dell'Oms ci sono anche tutte le istruzioni per fabbricarle in casa. Si tratta di suggerimenti per realizzare mascherine in tessuto, con dettagli su strati e materiali da utilizzare. In Italia è d'obbligo l’uso della mascherina nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, per esempio mezzi di trasporto pubblico, mercati ed esercizi commerciali. Ma alcune regioni hanno introdotto norme più restrittive che resteranno in vigore anche dopo le riaperture del 3 giugno. In Piemonte e Lombardia, ad esempio, sarà obbligatorio coprire naso e bocca all’aperto almeno fino al 14 giugno. Così come in Friuli Venezia Giulia, in Campania e a Genova. Mentre in Veneto, dove il governatore Zaia ha definito le mascherine "una delle condizioni sine qua non" per le riaperture nella regione, l'obbligo di indossarle all'aperto decade dal 1 giugno. Altri assessorati alla Salute, come quello siciliano (stessa linea adottata in Sardegna), raccomandano in generale l'uso della mascherina in quanto "oltre che un dispositivo di protezione personale, è un segno di rispetto per le persone che ci circondano. Portarla sempre con sé, anche nei luoghi all'aperto, e indossarla quando non si può garantire una distanza interpersonale idonea a proteggere dal rischio del contagio, è un obbligo". Eccetto per chi fa attività motoria (e mantiene la distanza di sicurezza di due metri), i bambini al di sotto dei sei anni e le persone con disabilità. Anche nel resto del mondo ci si era regolati finora in modo non omogeneo. E' di ieri il dietrofront del Regno Unito, solo per fare un esempio, dove l'indicazione di indossarla è stata estesa a tutti i visitatori e a tutto lo staff sanitario e amministrativo degli ospedali, rafforzando le linee guida - finora decisamente blande sul punto, - solo dopo l'annuncio di ieri sull'obbligo di coprirsi il volto a partire dal 15 giugno valido per i passeggeri dei trasporti pubblici. Preoccupazioni analoghe si sono manifestate in altri Paesi dove la pandemia sta obbligando i governi a prendere misure più forti, soprattutto alla luce di maxi assembramenti e proteste. Non a caso l'Organizzazione mondiale della sanità ha fatto riferimento ai fatti di cronaca di questi ultimi giorni, rivolgendosi ai manifestanti scesi in piazza dopo la morte negli Stati Uniti di George Floyd durante un arresto e ricordando la necessità di proteggere se stessi e gli altri dal virus SarsCov2. Un allarme giustificato dal fatto che negli Usa si segnalano oltre 20 mila nuovi casi di contagio al giorno. "Abbiamo di sicuro assistito a molta passione questa settimana, con gente che ha sentito il bisogno di uscire ed esprimere i propri sentimenti. Chiediamo loro di ricordare che è necessario proteggere se stessi e gli altri", ha detto la portavoce dell'Oms Margaret Harris. Quindi, un monito: "Non è finita. Non sarà finita fino a quando non ci sarà più il virus in nessuna parte del mondo", ha concluso Harris ricordando come l'epicentro della pandemia sia al momento in Paesi dell'America Centrale, del Sud e del Nord America
Luca Fraioli per ''la Repubblica'' il 6 giugno 2020. Il coronavirus non ha mandato in tilt solo le terapie intensive di mezzo mondo. Ha fatto collassare anche il sistema delle riviste scientifiche: una pandemia di articoli si è abbattuta sulle redazioni e sui referee , gli scienziati che valutano le ricerche altrui e danno il via libera alla pubblicazione. Con effetti dirompenti, come dimostra il caso dell' idrossiclorochina. È il 25 maggio quando l'Oms sospende la sperimentazione di quella sostanza per la cura del Covid 19. Il farmaco per l' artrite reumatoide aveva mostrato possibili effetti benefici, ma uno studio pubblicato qualche giorno prima sulla rivista medica Lancet sostiene che i pazienti trattati con l' idrossiclorochina hanno una mortalità da coronavirus persino più alta degli altri. E così l' Oms ferma tutto. Fino a tre giorni fa, quando torna sui suoi passi e invita i medici a riprendere i test. Perché nel frattempo si è scoperto che l' articolo di Lancet è completamente sbagliato e che i dati usati per realizzarlo sono fasulli. Protagonista della storia è Sapan Desai, amministratore delegato della SurgiSphere, un' azienda americana che si vanta di gestire un database con numeri provenienti da migliaia di ospedali in tutto il mondo. Desai, che è anche un medico, viene contattato da un team guidato da Mandeep Mehra, della Harvard Medical School: vogliono usare i dati della SurgiSphere per capire l' impatto dell' idrossiclorochina sui malati di Covid 19. Mehra e colleghi pubblicano su Lancet il loro studio, firmato anche da Desai. Poi un secondo, anche questo firmato dall' ad della SurgiSphere e basato sul suo presunto database, esce sul New England Journal of Medicine : sostiene che gli Ace inibitori (farmaci contro l' ipertensione arteriosa) non hanno controindicazioni per chi è infetto da coronavirus. L' Oms si fida delle riviste e delle affiliazioni dei ricercatori coinvolti: l' Harvard Medical School, il Policlinico universitario di Zurigo, l' Università dello Utah. E ferma i test sull' idrossiclorochina. Ma alla comunità scientifica qualcosa non torna. «Tutto è iniziato alla Columbia University di New York», racconta Enrico Bucci, professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia. «Lì i colleghi hanno notato incongruenze statistiche contenute nei due articoli. Se ne è cominciato a discutere in Rete tra scienziati e si è scoperto che il database su cui tutta la ricerca poggiava non era accessibile a chi volesse fare controlli. E non c' era traccia delle autorizzazioni degli ospedali a usare dati così sensibili». Inoltre, secondo lo studio di Lancet, il 25% dei contagi e il 40% dei decessi da coronavirus in Africa si sarebbero verificati nei pochi ospedali del continente di cui Surgi-Sphere raccoglie i dati. «Una cosa poco credibile», commenta Bucci. Alla fine 182 scienziati, che avevano scoperto falle nei due studi, hanno scritto a Lancet e al New England Journal of Medicine . Nel frattempo il Guardian ha svelato che tra i pochi dipendenti dichiarati dalla Surgi-Sphere una è un' autrice di fantascienza e un' altra, formalmente direttrice del marketing, una modella per adulti. Dopo le scuse delle riviste, i tre scienziati ieri hanno infine deciso di ritrattare i loro articoli. Ma resta un dubbio: sono stati ingenui o conniventi? «Penso si siano fidati, senza controllare i dati che venivano loro forniti», ipotizza Bucci. «È un errore grave. Così come è grave che una verifica sul database non l' abbiano fatta i referee degli articoli». La vicenda si inserisce in uno scenario caotico, con migliaia di team scientifici e aziende che inseguono il risultato di una cura contro il virus. Dove c' è chi addirittura affida i suoi presunti risultati ai comunicati stampa, anziché ad articoli scientifici, come ha fatto Moderna giorni fa, rivendicando che il suo vaccino aveva prodotto anticorpi efficaci. «Ma la vicenda dell' idrossiclorochina ci ricorda che anche la pubblicazione su una rivista prestigiosa non è il punto di arrivo, ma l' inizio di un confronto nella comunità scientifica», conclude Bucci. «E dovrebbero ricordarlo anche istituzioni come l' Oms, che hanno disimparato a leggere i nostri articoli». Biologo Enrico Bucci insegna Biologia dei sistemi alla temple University di Philadelphia.
Da corrieredellosport.it il 27 giugno 2020. Acceso scontro sui social network tra Massimo Clementi, virologo dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms e membro del comitato tecnico scientifico che sta affiancando il governo italiano nella lotta al Coronavirus: “Avete sentito Ricciardi e avete letto Guerra? Fate le vostre conclusioni per favore. Io qui non posso dire di più”, il post di Clementi, che contestava il parallelismo fatto dai colleghi tra la possibile seconda ondata di contagio da Coronavirus e quanto accaduto con l’influenza spagnola, poco più di un secolo fa. Guerra replica negando l’addebito: “Basta aprire la pagina di Agorà e ascoltare. No? Troppo difficile per alcuni immagino”. E Clementi esplode: “Sei un saccente. Non puoi insultare chi parla con te. Ma chi ti credi di essere?”. Dura la risposta di Guerra: "Io sono nessuno. Lei che insulta invece è qualcuno da cui guardarsi. Torni nelle fogne". Clementi, a questo punto, minaccia una denuncia: "Sei troppo nervoso. Di quanto hai appena scritto risponderai legalmente. Posso accettare questo commento da un membro dell'Oms? Premetto che non lo ho insultato, ma gli ho chiesto ragione di un comportamento irriguardoso verso una signora. Se la filosofia della commissione tecnico scientifica Cts è quella di Ranieri Guerra ce lo facciano sapere per favore".
Galli risponde a Guerra: «Seconda ondata come la Spagnola? Non siamo nel 1918. Ma attenti ai nuovi focolai». Giovanni Ruggiero su Open il 27 giugno 2020. Il primario dell’ospedale Sacco di Milano è scettico su un ritorno della pandemia in autunno paragonabile alla prima ondata. L’attenzione però non può calare fino ad allora, soprattutto alla luce dei recenti focolai scoppiati in varie parti d’Italia. Su un dato sono d’accordo il primario dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, e il direttore aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra: la pandemia di Coronavirus non è affatto finita. Ma sul timore di una seconda ondata per il prossimo autunno paragonabile a quella della Spagnola, Galli è molto meno drastico del collega. Galli ha spiegato quanto il virus stia dimostrando di «serpeggiare dall’emisfero settentrionale a quello meridionale, e viceversa». Potrebbe essere questo aspetto ad aumentare i rischi di un ripresa dei casi a settembre: «ma non necessariamente con una seconda ondata e con le conseguenze della Spagnola, non siamo nel 1918». L’attenzione non può che restare alta, soprattutto alla luce dei nuovi focolai scoppiati in Italia. Situazioni che devono «preoccupare quanto basta», dice Galli che sottolinea il lato positivo proprio nell’aver individuato quei focolai: «Aver trovato questi 10 focolai può essere l’espressione della capacità affinata di fare interventi a livello territoriale – dice il professore – e accorgersi di fenomeni come questi prima che sia troppo tardi». La loro stessa presenza , comunque, dice una cosa su tutte: «La storia non è finita».
La resa dei conti interna al mondo scientifico nel dopo Covid. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 5 novembre 2020. Dilaga il coronavirus e, con esso, anche la confusione nel mondo scientifico e, di conseguenza, fra i cittadini che un giorno seguono la linea espressa dai più ottimisti e, un altro, il filone dei pessimisti. Il settore scientifico risulta diviso e questo accresce le perplessità di tutti in merito a come affrontare la propria quotidianità con il virus. La spaccatura dai piani alti della scienza ha la conseguenza di favorire nel popolo la libera interpretazione circa la pericolosità del coronavirus. Una situazione questa che fa pensare a cosa accadrà nel post pandemia, con domande che sorgono spontanee: alla fine dell’emergenza sanitaria ci sarà una resa dei conti nel mondo scientifico per accertare eventuali responsabilità sulla confusione?
Le notizie non univoche.
Da quando è esplosa la pandemia la maggioranza della popolazione si è incollata ai televisori ascoltando una vasta moltitudine di pareri. Ma di fondo c’era e c’è tutt’oggi un problema: la mancanza di un’informazione univoca. E che questa lacuna arrivi proprio dal mondo scientifico è un aspetto che ha un impatto rilevante fra i cittadini i quali, di conseguenza, preferiscono prendere scelte in modo autonomo nonostante l’esistenza dei protocolli anti Covid. C’è così chi, per troppa paura, si isola da tutti e chi, invece, su una linea del tutto opposta adotta comportamenti poco prudenti. Poi c’è anche la linea estrema dei negazionisti che negano appunto la presenza della pandemia e la necessità delle conseguenti misure di sicurezza per prevenirne i casi di contagio. La comunicazione mai come adesso ha acquisito un ruolo di fondamentale importanza ed invece, proprio in questa fase, sembra si stia manifestando impreparata. Una giustificazione poteva essere accettata ad inizio pandemia, quando il mondo è stato travolto dalla morsa del virus. Ma adesso, dopo la tregua estiva che doveva consentire di fare il punto della situazione con una strategia condivisa da tutti, la situazione appare peggiore di quella della scorsa primavera. Che la mancanza di una comunicazione unitaria sia stata determinante lo ha confermato gli scorsi giorni lo studioso Pierluigi Fagan su InsideOver: “Sin dall’inizio c’è stato un grosso problema di comunicazione. Su tutti i canali televisivi – ha detto l’esperto di comunicazione – ci sono stati e ci sono epidemiologi, virologi, che esprimono il loro punto di vista alimentando diversi pensieri, in alcuni casi contrapponendosi. Manca una comunicazione centrale, affidabile e credibile espressa in termini semplici ma diretti verso la popolazione in modo da far capire veramente il problema”.
“L’Oms un organismo più politico che scientifico”.
Quanto accaduto in questi mesi potrebbe aver avuto conseguenze anche all’interno dello stesso mondo scientifico. L’arrivo della pandemia ha evidenziato come qualcosa evidentemente non sia andata per il verso giusto. A partire dal ruolo e dalle responsabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Quando tutto questo sarà finito – ha dichiarato a InsideOver il virologo Massimo Clementi – Occorrerà capire cosa è successo in Cina e perché l’Oms si è mossa così in ritardo”. Una posizione, quella del professore del San Raffaele, che è arrivata anche da un’oggettiva constatazione: “Nel 2009, in occasione dell’epidemia da A/H1N1, ci si è mossi per tempo – ha fatto notare Clementi – Oggi no. Forse perché oggi l’Oms è più un organismo politico che scientifico”. E del resto dubbi sull’operato dell’organizzazione sono stati avanzati da più parti negli ultimi mesi. A partire dall’ambito politico, con in testa il presidente Usa Donald Trump che ha più volte accusato l’Oms di aver nascosto i veri dati su pressione della Cina. Nel Libro Nero del Coronavirus di Andrea Indini e Giuseppe De Lorenzo è stato messo in evidenza come tra gennaio e febbraio i delegati dell’Oms abbiano più volte elogiato gli sforzi cinesi per il contenimento dell’epidemia, senza rilevare grandi criticità. Osservazioni però ben smentite dai fatti, visto che il virus non è stato affatto contenuto e si è dovuto attendere l’11 marzo per dichiarare la pandemia. In quel momento il Covid era già diffuso in buona parte del pianeta. A gettare ulteriore sospetto sulle azioni dell’Oms in Cina, anche la figura del segretario Tedros Adhanom Ghebreyesus. Eletto al vertice dell’organizzazione nel 2017, da ministro degli Esteri dell’Etiopia, come raccontato da Gian Micalessin su IlGiornale, è risultato molto vicino alla Cina e anche sulla sua nomina ci sarebbe lo “zampino” di Pechino. Da qui le critiche verso la sua azione, ritenuta profondamente orientata verso gli interessi cinesi soprattutto a inizio emergenza.
Le tensioni interne al mondo scientifico.
Ma non è soltanto l’Oms ad essere potenzialmente nel mirino di una possibile vera e propria resa dei conti all’interno del mondo scientifico. L’impressione è che la comunità scientifica al momento si sforzi di apparire compatta soltanto perché impegnata a combattere contro il nemico comune rappresentato dal coronavirus. Una volta terminata l’emergenza però, i nodi potrebbero salire tragicamente al pettine. Un buon numero di virologi sta iniziando a chiedersi se forse non sia il caso di fare “mea culpa”, usando ancora una volta le parole di Maurizio Clementi. Questo perché le avvisaglie su una possibile pandemia c’erano tutte e da tanti anni. Eppure non si è riusciti a intervenire per tempo. La Sars del 2003 e la Mers del 2012 non sono servite da monito, le lezioni di quelle epidemie non sono state imparate. Forse i focolai spenti relativamente presto hanno repentinamente fatto passare le paure, portando quindi a una fatale sottovalutazione del problema. Fatto sta che quando il coronavirus è arrivato ci si è fatti cogliere di sorpresa, a livello sia politico che scientifico. E c’è già chi ha iniziato a pensare al dopo emergenza, quando da più parti si chiederà conto delle responsabilità dell’attuale situazione e dei disastri procurati dal non controllo della pandemia. In poche parole, non è dato sapere se il mondo post Covid sarà o meno uguale a quello di prima, mentre è assai probabile che il panorama scientifico subirà scossoni molto profondi.
Tutti gli errori dell’Oms sul Covid-19. Federico Giuliani il 28 giugno 2020 su Inside Over. Sulla gestione della pandemia di Covid da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità abbiamo già scritto e detto molto. Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, quando il Sars-Cov-2 iniziava a mietere vittime nell’epicentro di Wuhan, l’Oms ha agito con estrema lentezza e titubanza. Anziché indagare subito sulle origini del misterioso virus, se necessario incalzando anche il governo cinese, l’istituto specializzato dell’Onu per la salute ha perso giorni preziosi senza alzare un dito. Altre settimane sono passate prima che il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, si decidesse a dichiarare la pandemia in seguito alla diffusione su scala globale del Sars-CoV-2. Da quel momento in poi l’organizzazione con sede a Ginevra ha inanellato una gaffe dietro l’altra. Sia chiaro: il virus che sta mettendo in ginocchio il mondo intero è inedito, ancora sconosciuto e quindi imprevedibile. Questo non giustifica tuttavia il comportamento approssimativo tenuto dall’Oms durante le varie conferenze stampa. Le istruzioni sanitarie fornite ai vari governi non sono mai state (e non lo sono tutt’ora) precise. Due sono gli esempi emblematici: l’uso della mascherina e le linee guida sui tamponi.
Mesi di gaffe. Per quanto riguarda le mascherine, inizialmente sembrava che indossarle potesse servire a stroncare la catena del contagio. In un secondo momento (siamo a inizio giugno, quindi dopo almeno tre mesi dallo scoppio della pandemia in Occidente) l’istruzione dell’Oms ha rivisto le indicazioni fornite, invitando a indossare i dispositivi di protezione individuale nei luoghi pubblici e non più solo da operatori sanitari, malati di Covid e chi li assiste. Non solo: un ruspante Ghebreyesus dichiarava inoltre che le mascherine, da sole, non bastano “a proteggere contro il nuovo coronavirus”. Paradossale anche l’inversione a U sui tamponi. Da pochi giorni l’Oms non raccomanda più il doppio tampone negativo per certificare la guarigine da Covid e liberare i malati dalla quarantena. Bastano tre giorni senza sintomi. E questo vale indipendentemente dalla gravità dell’infezione. Detto altrimenti, non è più richiesto il doppio tampone negativo per certificare la fine della malattia.
Le dichiarazioni di Guerra. Eppure l’Oms, al netto di tutti i misteri ancora da svelare sul Covid, dovrebbe essere un organo autorevole e come tale dovrebbe comunicare con il mondo intero. Che dire delle parole rilasciate ad Agorà, su Raitre, da Ranieri Guerra, vice direttore delle iniziative strategiche dell’Oms? L’andamento della pandemia “è previsto e prevedibile, si sta comportando come avevamo pensato. La Spagnola ebbe un’evoluzione dello stesso tipo andò giù in estate per riprendersi ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata. È quello che dobbiamo evitare”. Alla luce delle poche certezze che abbiamo in mano – e considerando i numerosi buchi nell’acqua dell’Oms – ha senso spaventare i cittadini profetizzando scenari aleatori? Nel frattempo, sul web, Guerra è stato protagonista di uno scambio di battute piuttosto animato con il virologo dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano Massimo Clementi. Tutto nasce da un commento a un post dello stesso Clementi, nel quale una lettrice sottolineava come Guerra avesse smentito di aver paragonato, intervenendo ad Agorà, la possibile seconda ondata di Covid a quella, che ci fu, della Spagnola. L’esperto Oms ha replicato seccamente: “Basta aprire la pagina di Agorà e ascoltare. No?? Troppo difficile per alcuni immagino”. Al che è intervenuto Clementi: “Ranieri Guerra sei un saccente. Non puoi insultare chi parla con te. Ma chi ti credi di essere? Ripeto, chi ti credi di essere?”. Durissima la replica di Guerra: “Io non sono nessuno. Lei che insulta invece è qualcuno…da cui guardarsi. Torni nelle fogne”. Al che, Clementi ha chiuso così: “Ranieri Guerra sei troppo nervoso. Di quanto hai appena scritto risponderai legalmente”. Al netto di chi ha torto o ragione, possono l’Oms e i suoi membri commettere simili leggerezze comunicative in un momento di massima tensione?
Mara Magistroni per wired.it il 29 ottobre 2020. Qualche settimana fa vi abbiamo raccontato del balletto dei Centri di controllo e prevenzione delle malattie statunitensi (Cdc) che prima pubblicano un aggiornamento sulle modalità di trasmissione del coronavirus evidenziando la possibilità di trasmissione aerea (airborne), e poi lo ritirano. Un errore, dicono: una bozza non sottoposta a revisione che non doveva ancora essere pubblicata. Adesso quella bozza, forse un po’ edulcorata, è tornata online. Sulla base di evidenze scientifiche crescenti, gli esperti dei Cdc riconoscono che la modalità di trasmissione aerea (a più di un metro di distanza) tramite aerosol (goccioline più piccole di 5 micron) del coronavirus è possibile, sebbene più rara di quella per contatto diretto con una persona infetta o tramite droplet. Le condizioni per la diffusione airborne sarebbero spazi chiusi, non adeguatamente ventilati e affollati. Insomma, sempre più organizzazioni nazionali e esperti mondiali mettono sostengono la questione airborne, trovandosi così in disaccordo con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), reticente all’aggiornamento delle proprie linee guida. Che cosa la blocca?
Le prove crescenti di trasmissione airborne. Già a luglio 239 scienziati avevano sollecitato con una lettera l’Oms a modificare il proprio punto di vista, sottolineando come le prove di trasmissione aerea di Sars-Cov-2 si stessero accumulando. E oggi alcuni di loro rincarano la dose, con una nuova lettera pubblicata su Science. “Ci sono prove schiaccianti che questa è un’importante via di trasmissione per Covid-19, e abbiamo un disperato bisogno di una guida federale in questa direzione”, ha dichiarato al Washington Post Linsey Marr, esperta di aerosol alla Virginia Tech e tra gli autori della lettera su Science. “Vorrei sottolineare che la trasmissione aerea a corto raggio quando le persone sono a stretto contatto, ovvero l’inalazione di aerosol, probabilmente è più importante della trasmissione da parte di goccioline di grandi dimensioni che vengono spruzzate sulle mucose”. Secondo questi scienziati ci sarebbero casi ben documentati in cui il coronavirus si è diffuso in modo ampio e rapido in un ambiente chiuso: un ristorante a Guangzhou, in Cina, un autobus nella provincia cinese di Zhejiang, un call center a Seoul, un coro nello stato di Washington (dove un membro ha infettato più di 50 persone). Episodi che gli esperti dei Cdc hanno ritenuto sufficienti per modificare le proprie linee guida. Gli aerosol e la trasmissione aerea “sono l’unico modo per spiegare gli eventi di superdiffusione che stiamo vedendo”, ha aggiunto sempre al Washington Post Kimberly Prather dell’Università della California a San Diego, anche lei tra gli autori del nuovo documento. Secondo l’esperta una volta che la via aerea verrà ufficialmente riconosciuta diventerà un problema risolvibile attraverso un’adeguata ventilazione e indossando sempre le mascherine al chiuso. Perché una distanza sociale sicura non esiste in ambienti chiusi.
La reticenza dell’Oms: motivazioni e critiche. Come aveva già dichiarato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico del settore dedicato al controllo delle infezioni dell’Oms, l’organizzazione non nega che il coronavirus possa diffondersi anche per via aerea tramite aerosol oltre la distanza di sicurezza attualmente raccomandata. Sostiene tuttavia che dal punto di vista scientifico le prove siano ancora insufficienti: le condizioni in cui si verificherebbe la trasmissione aerea sarebbero particolari e più rare, e gli scienziati non sarebbero ancora riusciti a replicarle per studiare le dinamiche di diffusione. Una visione troppo rigida e medicalizzata secondo molti esperti, che contestano anche le definizioni di airborne e aerosol dell’Oms, ritenendole formali e in fin dei conti fittizie. Ma non sarebbe solo questo a frenare l’Oms. Stando a quanto dichiarato da Paul Hunter dell’Università dell’East Anglia in Gran Bretagna, l’organizzazione deve tenere conto delle questioni geopolitiche. Le linee guida si rivolgono a ogni Paese del mondo e non tutti hanno le medesime risorse: spostare l’attenzione su una modalità di trasmissione al momento ritenuta meno determinante potrebbe indurre alla migrazione di quelle poche risorse negli stati a basso e medio reddito. Anche questa motivazione, però, è soggetta a critiche da parte di alcuni esperti internazionali, che reputano l’atteggiamento dell’Oms un po’ paternalistico.
L’ENNESIMO DIETROFRONT DELL’OMS (NON NE PIGLIANO UNA): «LIBERI DOPO TRE GIORNI SENZA SINTOMI» ISOLAMENTO, I DUBBI SULLA LINEA DELL'OMS. M.D.B. per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2020. Cambiare la politica italiana dei tamponi? Gira la domanda ai tecnici del comitato scientifico (Cts) il ministro della Salute Roberto Speranza. Nuove linee guida dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) hanno proposto diversi criteri per interrompere l'isolamento dei pazienti risultati positivi al Sars-CoV-2. Non più il doppio tampone negativo a distanza di almeno 24 ore il primo dal secondo. I pazienti sintomatici potranno essere «liberati» dopo 10 giorni dall'inizio dei sintomi più altri 3 senza sintomi (un totale di 13), per quelli asintomatici via libera 10 giorni dopo la diagnosi di positività. Si tratta di raccomandazioni, di indicazioni non vincolanti per i singoli governi, come è per tutti gli scientific brief dell'agenzia Onu. Un asterisco nel documento chiarisce bene che i «Paesi possono continuare a usare i test come criteri di rilascio» dei pazienti secondo le iniziali raccomandazioni «di due test negativi» a 24 ore di distanza. Speranza sollecita un approfondimento da parte degli esperti coordinati da Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità: «Le nuove linee segnano un cambiamento che può incidere significativamente sulle disposizioni finora adottate. Chiedo che il delicato tema venga affrontato nel Cts fermo restando il criterio di massima precauzione che finora ci ha guidati». Una riunione del Comitato è in programma già oggi sul tema della scuola. È possibile che si parli anche di questo argomento. La decisione non dovrebbe arrivare a tamburo battente. Non c'è fretta. L'Italia si è mossa finora con estrema prudenza ed è stata ripagata. L'epidemia sembra sotto controllo e i costi sono sostenibili. Se si scegliesse di alleggerire le procedure, cambierebbe molto invece sul piano della libertà individuale. Oggi una persona positiva rischia di restare «in ostaggio» anche un mese, nonostante la scomparsa dei sintomi, finché il tampone non si negativizza. Quindi la possibilità di stoppare l'isolamento e consentire il rientro in tempi più brevi avrebbe un valore sociale di rilievo. Dall'altra parte però ci sono le incognite legate al virus. L'Oms non afferma infatti che l'applicazione dei nuovi criteri più snelli sia esente da rischi. I dati giornalieri continuano a volgere al bello. Nuovo calo di positivi e morti. Hanno contratto il virus 238.499 persone, con un incremento rispetto al giorno precedente di 224 casi. Gli attualmente positivi sono 20.972, 240 meno del giorno prima. Ieri le vittime sono state 24, in tutto sono 34.634. In sedici regioni non si sono registrati decessi. Calano i ricoveri in terapia intensiva: sono 148, 4 in meno tra sabato e ieri.
Elena Dusi per “la Repubblica” il 22 giugno 2020. Quando si è guariti dal Covid? In Italia, dopo due tamponi negativi consecutivi. Solo così si può uscire dall'isolamento. Nella maggior parte dei Paesi basta aspettare 2-3 giorni dalla fine dei sintomi. Questa è l'indicazione data a marzo dai Cdc ( Centers for disease control ) americani: 3 giorni dalla scomparsa dei sintomi e 10 dal loro inizio. L'8 aprile anche l'ente europeo Ecdc ha emanato indicazioni simili: si può uscire di casa senza timore di contagiare gli altri dopo 8 giorni dall'inizio dei sintomi e 3 dalla fine. In Germania ne bastano 2 dalla guarigione, mentre in Gran Bretagna basta che ci si senta bene e siano passati 7 giorni dall'inizio dei sintomi. Il 17 giugno a questa linea si è allineata anche l'Organizzazione mondiale della sanità, che oggi considera un paziente guarito tre giorni dopo la fine dei sintomi. Perché l'Italia ha regole diverse? Si è adeguata alle raccomandazioni precedenti dell'Oms, che il 12 gennaio richiedevano i due tamponi negativi. Il nostro Paese ha seguito molti dei suggerimenti dell'Oms, nonostante a volte da Ginevra siano arrivate indicazioni discutibili (su tamponi, mascherine, asintomatici). Ieri il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto agli esperti del Comitato tecnico scientifico di rivalutare la regola dei due tamponi. «Le nuove linee guida dell'Oms sulla certificazione della guarigione segnano un cambiamento che può incidere sulle disposizioni vigenti». Secondo l'Oms di oggi, «alcuni pazienti hanno probabilmente cessato di essere infettivi nonostante il test positivo». Quali sono i rischi? Il rischio è che un paziente, anche senza sintomi, resti contagioso. «In realtà siamo propensi a credere il contrario» spiega Carlo Federico Perno, virologo dell'università di Milano e del Bambino Gesù di Roma. «Chi non ha più sintomi, molto raramente si riammala. E i resti di virus che si possono trovare nei tamponi sono quasi sicuramente incapaci di replicarsi e infettare. I dati degli altri paesi ci spingono a credere che uscire di casa sia sicuro, quando scompaiono i sintomi». Sappiamo però che i sintomi del Covid sono vari e sfumati. «Parliamo di fine della febbre e delle difficoltà respiratorie» spiega Perno. «È normale che restino tosse, mal di testa, diarrea, mancanza di forze. Questi non sono sintomi, ma postumi della malattia e con il Covid durano fino a un paio di mesi. Anche l'influenza dà sintomi per 3-4 giorni: il periodo di contagiosità. Ma prima che le cellule dell'albero respiratorio si ricostituiscano e quindi scompaia la tosse possono passare 20 giorni». Perché dopo la scomparsa dei sintomi il tampone resta positivo? Nelle vie respiratorie possono restare residui di virus, quasi sicuramente non vitali. Prima di raggiungere i due tamponi negativi, ci sono persone costrette in isolamento per 50-60 giorni. «La soluzione più sicura - per Perno - sarebbe affiancare il tampone alla diagnosi del medico e al test sierologico. La presenza di anticorpi protettivi è un altro segnale che la malattia è stata messa alle spalle».
Lo studio che smentisce l'Oms sulle infezioni da asintomatici. Il ruolo degli asintomatici nella trasmissione del virus. Le parole dell'Oms. E quella ricerca sui contagi in famiglia. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 11/06/2020 il giornale. Non è ben chiaro se quello dell'OMS sia un problema di comunicazione oppure di sostanza. Quel che appare lampante però, complici anche un po’ di leggerezze giornalistiche, è che l’unica certezza di questa pandemia sia l’incertezza con cui Ginevra ha affrontato il dossier coronavirus. Mascherine sì, mascherine no. Guanti sì, guanti nì. Tamponi solo ai casi sospetti, anzi “test, test, test”. L’ultimo pastrocchio comunicativo riguarda quando dichiarato dal capo del team tecnico anti Covid-19, Maria Van Kerkhove, durante un briefing dell’Agenzia Onu: "È molto raro - ha detto - che una persona asintomatica possa trasmettere il coronavirus”. Le parole della Van Kerkhove hanno scatenato un putiferio. Per Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell'OMS, si tratta di una “risposta inaugurata e sbagliata”, visto che “la trasmissione da sintomatici è tipica di questo virus” ed è ciò che lo differenzia da Mers e Sars. Andrea Crisanti, l’ormai noto virologo di Vo’, suggerisce una cura dimagrante ad una organizzazione dove "ci sono troppi burocrati e pochi esperti con competenze". Alla fine l’esperta ha fatto marcia indietro, sottolineando che si riferiva solo “a un set di dati”. “Sappiamo - ha detto - che alcuni asintomatici possono trasmettere il virus e ciò che dobbiamo chiarire è quanti sono gli asintomatici e quanti di questi trasmettono l’infezione”. La tesi è più o meno quella riportata pure da Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms: “Il problema è che molti di quelli che consideriamo asintomatici in realtà sono paucisintomatici, gli asintomatici veri non sono molti”. È come se ci fossero "diverse tipologie di asintomatici" (Matteo Bassetti dixit) con una "diversa possibilità di infettare". I tempi della scienza non sono quelli della politica e dei media. Dunque per avere una risposta definitiva occorrerà forse attendere ancora un po’. Ma c’è una ragione se dall’Italia si sono sollevate così tante voci di protesta. Il motivo si chiama “Abolizione dell'epidemia di COVID-19 nel comune di Vo'”, cioè il titolo dello studio redatto da 36 studiosi italiani guidati da Crisanti. Come noto, nel piccolo paese sui Colli Euganei gli scienziati hanno potuto sottoporre per due volte a test tutti i residenti a distanza di 15 giorni, all’inizio e alla fine della zona rossa. Tra le tante informazioni che lo studio è stato in grado di fornire, c’è proprio il ruolo degli asintomatici nella trasmissione del virus. "La traccia dei contatti dei nuovi casi infetti e la ricostruzione della catena di trasmissione - si legge infatti - hanno rivelato che la maggior parte delle nuove infezioni nella secondo rilevazione sono state provocate nella comunità prima del blocco o da infetti asintomatici che vivono nella stessa famiglia". Una conclusione che sembra smentire quanto detto ieri dall’esponente dell’Oms. Gli studiosi hanno condotto un’analisi approfondita su otto “nuove infezioni” trovate nel secondo giro di tamponi, andando a scandagliare i loro incontri passati e scoprendo che alcuni di loro avevano avuto interazioni con individui asintomatici. “Il soggetto 2 aveva contatti con quattro parenti infetti che non presentavano alcun sintomo al momento del contatto”, si legge nel documento. “Il soggetto 5 ha riferito di aver incontrato un individuo infetto asintomatico prima del blocco” mentre “il soggetto 8 ha condiviso lo stesso appartamento con due parenti asintomatici”. Crisanti&co. ne hanno dedotto che “le infezioni asintomatiche possono svolgere un ruolo chiave nella trasmissione di SARS-CoV-2”. “Abbiamo anche trovato prove che la trasmissione può avvenire prima dell'inizio dei sintomi, come di seguito dettagliato per un gruppo familiare - si legge - Il soggetto A è stata la prima infezione da SARS-CoV-2 confermata in famiglia, rilevata il 22 febbraio: il soggetto ha mostrato sintomi lievi della malattia il 22 febbraio, è stato ammesso all'unità Malattie Infettive il 25 febbraio e successivamente dimesso il 29 febbraio, con restrizioni di quarantena. Il partner (soggetto B) e i bambini (soggetti C e D) sono risultati positivi il 23 febbraio ma hanno mostrato solo sintomi lievi e non hanno richiesto il ricovero in ospedale. Il soggetto A ha riferito di aver partecipato a una riunione di famiglia tre o quattro giorni prima dell'insorgenza dei sintomi, insieme a un genitore (soggetto E) e altri tre fratelli (soggetti F, G e H). A quel tempo, erano tutti sani. I tamponi nasali e della gola hanno confermato la presenza di RNA virale in tutti i contatti familiari”. Tradotto: “Le dinamiche di trasmissione all'interno di questa famiglia mostrano chiaramente che lo spargimento virale di SARS-CoV-2 si è verificato nelle prime fasi dell'infezione e in assenza di sintomi”. A conferma dello studio, infine, ci sarebbe il fatto che “la carica virale” negli sintomatici “non differisce significativamente” da quelle dei sintomatici. Parola di Crisanti.
Tutti contro l'Oms. Gli asintomatici? Eccome se contagiano. Pubblicato mercoledì, 10 giugno 2020 da La Repubblica.it. Una bufera prevedibile, quella che si è scagliata contro l'Oms, l'Organizzazione mondiale della Sanità. Solo qualche giorno fa il capo del team tecnico anti-Covid-19 dell'Oms, Maria Van Kerkhove, si lascia scappare in un briefing che gli asintomatici non trasmettono il Coronavirus. Come se la stessa Oms soltanto ad aprile non avesse raccomandato - invece - di tracciarli per prevenire la diffusione di Sars-Cov-2. E di fare test a tappeto. La notizia rimbalza dappertutto e piovono perplessità da tutto il mondo degli infettivologi. Gli scienziati dell'Harvard Global Health Institute rispondono subito con una nota in cui scrivono che tutte le dimostrazioni più quotate suggeriscono che le persone senza sintomi possono e diffondono prontamente il Sars-Cov-2. Poi, la smentita della Van Kerkhove: è stato un misunderstanding e "le stime della trasmissione da persone senza sintomi provengono principalmente da modelli che potrebbero non fornire una rappresentazione accurata. Questa è, e rimane, una grande incognita". Già. ma allora perché comunicare a mezzo mondo, senza alcuna evidenza e anzi in presenza di evidenze contrarie, che gli asintomatici non sono contagiosi? Una figuraccia che è difficile giustificare con l'imbarazzato commento di Ranieri Guerra, l'italiano direttore vicario dell'Oms che, in una intervista a "Radio uno giorno per giorno", si lascia andare a un diplomatico "Noi - bisogna ammettere - non siamo dei fenomeni in ambito comunicativo, ci esprimiamo spesso in maniera tecnica o tecnicistica poco chiara". In realtà l'Oms è stata accusata sin dall'inizio di aver gestito male la questione Coronavirus, di aver dichiarato troppo tardi la pandemia, di essersi esposta a favore della Cina, di aver dato informazioni contraddittorie e poco chiare, nella migliore delle ipotesi fuorvianti. E quest'ultima uscita non ha certo giovato a rasserenare gli animi. Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare e virologia all'Università di Padova, chiede di definire il ruolo dell'Oms che - ai microfoni di 24 mattino su Radio 24 - definisce "un baraccone che va smontato e rifatto da capo perché finanziato in gran parte da industrie private e pochi Stati e invece dovrebbe fare gli interessi della comunità mondiale". E parla di risposta "inaccurata e sbagliata" sugli asintomatici che non trasmettono il nuovo coronavirus anche Walter Ricciardi, rappresentante italiano presso l'Oms e consigliere del ministro della Salute, Speranza: "La trasmissione da asintomatici - ha precisato ad Agorà su Rai 3 - è, invece, tipica di questo virus e proprio ciò lo differenzia da Sars e Mers. L'Oms, tuttavia, va criticata ma sostenuta". E parla di dichiarazioni "tanto ardite quanto pericolose" Nino Cartabellotta, presidente di Fondazione Gimbe, che ricorda come le migliori evidenze disponibili sull'infezione asintomatica siano state pubblicate ai primi di giurno da Daniele Horan ed Eric Topol sugli Annals of internal medicine. Bastava leggersele, insomma. Ancora più netto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto nazionale Malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma che, nel corso di un'audizione in Commissione Affari Sociali della Camera, ha definito l'Oms "come in precedenti esperienze, non precisa, non indicativa e, soprattutto, senza una solida base clinica". La Diamond Princess Entra ancora più nel merito, spiegando bene a Timeline su SkyTg24 Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e componente del Comitato tecnico scientifico per l'emergenza coronavirus. "I cosiddetti asintomatici possono essere pre-sintomatici e paucisintomatici in una fase prima di sviluppare sintomi. Poi ci sono gli asintomatici veri e propri. Abbiamo delle pubblicazioni scientifiche che documentano come anche un asintomatico può avere carica virale significativamente elevata" e dunque "i soggetti asintomatici hanno la possibilità di infettare". E' ovvio e intuitivo che il carico virale è più alto in chi i sintomi ce li ha "e quindi ha una maggiore capacità di trasmettere l'infezione - ha aggiunto Locatelli - ma il caso della Diamond Princess dimostra che c'è stata diffusione del contagio anche da parte degli asintomatici". E da Oltreoceano anche Anthony Fauci, il virologo americano più noto e criticato, ha ammesso che la dichiarazione sugli asintomatici non è corretta e che l'Oms è tornata sui suoi passi perché non solo non ci sono evidenze a sostegno di quanto dicharato dalla sua rappresentante. Ma - al contrario - l'evidenza che abbiamo è che tra il 25 e il 45 per cento del totale degli infetti non ha sintomi. E che sappiamo dagli studi epidemiologici che queste persone possono trasmettere il coronavirus ai sani, anche se non hanno sintomi. Insomma, l'Oms ha davvero toppato.
Oms, appello di 238 scienziati. "Contagio aereo sottovalutato". La lettera prova a mettere in guardia sul comportamento del virus: "Anche le particelle più piccole sono pericolose". Manila Alfano, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. Una lettera aperta all'Organizzazione mondiale della Sanità, 239 scienziati uniti per dire attenzione a sottovalutare. «Il covid viaggia nell'aria più di quanto si pensava». Più di quanto credeva l'Oms. Attenzione alle particelle virali che rimangono nell'aria che sono infettive. È uno dei temi più dibattuti nel mondo scientifico dall'inizio dell'epidemia di Coronavirus. Secondo quanto riporta il New York Times 239 scienziati di 32 Paesi hanno inviato una lettera aperta all'Oms, indicando le prove che dimostrerebbero come anche le particelle più piccole, quelle che rimangono per più tempo nell'aria, possono infettare le persone. Gli esperti chiedono all'Organizzazione di rivedere quindi le sue raccomandazioni. I ricercatori hanno in programma di pubblicare la loro lettera su una rivista scientifica la prossima settimana. Dal canto suo, l'Oms sostiene da tempo che il Coronavirus si diffonde principalmente attraverso grandi goccioline respiratorie che, una volta espulse da persone infette in tosse e starnuti, cadono rapidamente sul pavimento. La dottoressa Benedetta Allegranzi, riporta il New York Times, responsabile tecnico dell'OMS sul controllo delle infezioni, ha affermato che le prove che il virus che si diffonde nell'aria non sono convincenti: «Soprattutto negli ultimi due mesi, abbiamo affermato diverse volte che consideriamo la trasmissione aerea possibile, ma certamente non supportata da prove solide o addirittura chiare», ha detto, sottolineando come ci sia «un forte dibattito su questo». Eppure, all'interno dell'Oms i pareri non sono unanimi. Diversi consulenti e membri dell'agenzia hanno osservato come il Comitato per la prevenzione e il controllo delle infezioni sia vincolato da una visione rigida e eccessivamente medicalizzata delle prove scientifiche, oltre ad essere lento e avverso al rischio nell'aggiornamento della sua guida. Nelle linee guida dettate il 6 aprile l'Oms sosteneva che le mascherine sono utili per non diffondere il virus se indossate da persone malate e sono indispensabili per gli operatori sanitari, ma invitava alla cautela rispetto all'uso generalizzato, sottolineando che non esistono sufficienti prove scientifiche del fatto che le mascherine aiutino una persona sana a evitare l'infezione. Anzi nella stessa informativa ammoniva sul falso senso di sicurezza che potrebbero infondere. «Sono molto scossa dalle questioni relative alla trasmissione aerea del virus», ha affermato al Times Mary-Louise McLaws, membro del comitato ed epidemiologa dell'Università del New South Wales a Sydney. «Se iniziassimo a riconsiderare il flusso d'aria, dovremmo essere pronti a cambiare molto di ciò che facciamo». Il dibattito era partito all'inizio di aprile, quando un gruppo di 36 esperti in materia di qualità dell'aria e aerosol esortava l'Oms a considerare le prove crescenti sulla trasmissione aerea del Coronavirus. L'agenzia aveva risposto chiamando Lidia Morawska, leader del gruppo e consulente dell'Oms di lunga data. Ma dalla discussione sarebbe emersa la solita raccomandazione (senza dubbio fondamentale) del lavaggio delle mani. La dottoressa Morawska e altri avevano segnalato diversi episodi in cui indicano la trasmissione aerea del virus, in particolare negli spazi interni scarsamente ventilati e affollati. Secondo loro l'OMS stava facendo una distinzione artificiale tra piccoli aerosol e goccioline più grandi, anche se le persone infette sono in grado di produrle entrambi.
Paolo Russo per ''la Stampa'' il 7 luglio 2020. Gli esperti italiani invitano alla prudenza e aspettano la pubblicazione dello studio prima di tirare le somme, ma quella lanciata da 239 scienziati di tutto il mondo è a suo modo una bomba: il Covid non si trasmetterebbe soltanto con colpi di tosse, starnuti e contatti ravvicinati, ma anche semplicemente respirando l'aria in una stanza dove ha sostato una persona infetta. Un rischio che, se confermato, costringerebbe a dover dare una bella stretta alle misure di sicurezza che molti hanno già deciso invece per proprio conto di allentare. «È ora di occuparsi della trasmissione area del Covid-19» scrivono in una lettera aperta all'Oms e alle altre autorità sanitarie del pianeta gli oltre 200 esperti di 32 Paesi, anticipando le conclusioni di uno studio multicentrico in via di pubblicazione nella rivista "Clinical Infectious Diseases". Finora l'Organizzazione mondiale della sanità ha continuato a ripetere che la trasmissione del virus avviene da persona a persona, attraverso il cosiddetto «droplet», le goccioline di dimensioni comunque rilevanti emesse quando si parla, si tossisce o emette uno starnuto. Ma in 239 chiedono ora all'Oms di rivedere le sue posizioni, perché «esiste un potenziale ma significativo rischio di inalare il virus contenuto nelle microscopiche goccioline respiratorie», che si propagherebbero a breve e media distanza, fino a diversi metri». Da qui la necessità di ventilare meglio luoghi di lavoro, scuole, ospedali e case di riposo. O installare strumenti di controllo delle infezioni, come filtri d'aria di alto livello, e speciali raggi ultravioletti in grado di uccidere i microbi. Anche se poi precisano che quella aerea «non è certamente la principale modalità di trasmissione del coronavirus». Secondo un altro studio dell'Università di Nicosia, precauzioni andrebbero però prese anche all'aria aperta, quando tira il "venticello". Con uno strumento in grado di replicare i colpi di tosse i ricercatori ciprioti hanno dimostrato infatti che con un vento tra i 4 e i 14 chilometri orari le goccioline possono viaggiare fino a 6 metri in una manciata di secondi. Ma sul fatto che ci si possa contagiare soltanto respirando l'aria che ci circonda i nostri scienziati ci vanno cauti. «Che la trasmissione possa avvenire anche con micro-goccioline di aerosol è ancora da dimostrare. Abbiamo visto che questo è stato possibile nelle terapie intensive, ma li la concentrazione del virus era elevata», afferma il virologo dell'Università di Milano, Fabrizio Pregliasco. «Prima di trarre conclusioni aspettiamo la pubblicazione dello studio. Certo è -aggiunge- che se fosse vero dovremmo adottare misure più stringenti, come l'obbligo della mascherina in tutti i luoghi chiusi o la presenza di non più di due persone per 10 metri quadri quando non si è all'aria aperta». Alla cautela invita anche il direttore sanitario dello Spallanzani, Francesco Vaia. «Se lo studio dimostrerà una sua validità scientifica anche l'Oms finirà per cambiare la strategia di prevenzione, aumentando a oltre un metro il distanziamento nei luoghi chiusi, vietando l'uso dei ventilatori e dei condizionatori senza sistemi di ricambio dell'aria. Come Spallanzani -anticipa- stiamo già per pubblicare il decalogo dell'areazione corretta nei luoghi chiusi». Chi nello studio internazionale ci vede poco di nuovo è invece il consigliere del ministro Speranza, Walter Ricciardi. «Che il virus si potesse trasmettere anche con il vapore acqueo generato dalla respirazione lo sapevamo già. La strategia non cambia: al chiuso mantenere il distanziamento, lavare le mani, indossare la mascherina e dove possibile far entrare il sole, che è il più potente disinfettante in natura».
«Ricambio d’aria e tono di voce basso. Covid, come combattere le goccioline infette». Laura Cuppini su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2020. L’Oms ha ammesso, dopo la lettera di 239 scienziati, che il problema della trasmissione aerea esiste. Buonanno: «I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione». E le mascherine chirurgiche non bastano. La trasmissione aerea di Sars-CoV-2, attraverso le particelle emesse da soggetti positivi che rimangono sospese nell’aria, potrebbe diventare una delle frontiere della lotta alla pandemia. Dopo la lettera di 239 scienziati di 32 Paesi, anticipata dal New York Times e pubblicata su Clinical Infectious Diseases, l’Organizzazione mondiale della sanità ha ammesso che il problema esiste. «Stiamo collaborando con molti dei firmatari della lettera. Ci sono evidenze su questo tema e crediamo di dover essere aperti e studiare per comprenderne le implicazioni sulle modalità di trasmissione e sulle precauzioni da prendere. Ci sono alcune specifiche condizioni in cui non si può escludere la trasmissione aerea, soprattutto in luoghi molto affollati, chiusi. Ma le evidenze vanno raccolte e studiate» ha sottolineato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico dell’Oms per il controllo delle infezioni. «Gli esperti che hanno firmato la missiva ci potranno aiutare per esempio nel comprendere l’importanza della ventilazione negli ambienti. Stiamo studiando e tenendo in considerazione ogni possibile via di contagio» ha precisato Maria Van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico per il coronavirus dell’Oms.
I 239 scienziati, tra cui l’italiano Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia), chiedono di rivedere o integrare le linee guida: «L’Oms ha ribadito che il coronavirus si diffonde soprattutto per droplet di dimensioni rilevanti che, una volta emesse dalle persone infette attraverso tosse e starnuti ma anche durante la semplice respirazione o mentre il soggetto parla, cadono rapidamente a terra» scrivono. Ma anche le particelle più piccole possono infettare le persone e dunque una corretta ventilazione degli ambienti e i cosiddetti “filtri facciali” (mascherine N95, FFP2, FFP3) sarebbero essenziali negli ambienti chiusi.
Professor Buonanno, come avviene la trasmissione aerea?
«La trasmissione aerea del contagio avviene per inalazione dell’aerosol emesso da un soggetto infetto (goccioline di diametro inferiore a 10 micron). Per avere il contagio è però necessario inalare un’adeguata quantità di carica virale, ovvero una dose infettante. Inoltre questo virus ha un tempo di dimezzamento della carica virale di circa un’ora».
Quali sono le differenze tra goccioline “grandi”, che cadono a terra per la forza di gravità, e goccioline piccole, che rimangono sospese nell’aria?
«Sulle goccioline grandi (droplet, diametro superiore ai 10 micron) la gravità agisce in modo importante, portandole di fatto al suolo in pochi secondi. Le goccioline più piccole (aerosol) sono invece soggette ai fenomeni di evaporazione e rimangono in sospensione in aria per tempi molto lunghi: hanno quindi la possibilità di muoversi per tratti molto più lunghi rispetto ai droplet».
Le goccioline di piccole dimensioni possono trasmettere il contagio?
«I principi che spiegano teoricamente la dinamica dell’aerosol sono noti da tempo e sono validi per molti altri virus. Durante il corso di una epidemia è sempre difficile trovare dei casi che provino il contagio per via aerea: questa analisi retrospettiva viene svolta solitamente a fine epidemia (come nel caso della Sars). Abbiamo però numerosi casi ed evidenze che dimostrano chiaramente come questo virus possa contagiare per via aerea».
Il rischio esiste anche se la persona che le produce ha una bassa carica virale (come sta emergendo da numerosi studi sui tamponi)?
«Il rischio esiste anche in questo caso, ma notevolmente ridotto. Il soggetto infetto emetterà una minore carica virale e, quindi, in condizioni di buona ventilazione e ridotti tempi di esposizione, il rischio sarebbe basso».
Quali sono i luoghi in cui potrebbe avvenire più facilmente la trasmissione aerea di Sars-CoV-2?
«I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione».
Ci può descrivere il modello che ha messo a punto per calcolare il livello di rischio nei vari ambienti e quali sono i fattori che entrano in gioco, oltre naturalmente alla presenza di uno o più soggetti positivi?
«Il modello teorico messo a punto permette di valutare il rischio individuale di infezione di un soggetto sano sulla base del carico virale emesso dal soggetto infetto (quanta, dove un quantum rappresenta una dose infettante), il numero di ricambi orari dell’aria (ventilazione), la volumetria del locale, i tempi di esposizione. Bisogna specificare che i quanta emessi dipendono dall’attività del soggetto: un soggetto che parla ad alta voce può emettere 100 volte più carico virale rispetto allo stesso soggetto in silenzio».
Facciamo qualche esempio pratico: cosa si può fare per rendere sicuri scuole, ospedali, residenze per anziani, uffici?
«La ventilazione gioca un ruolo fondamentale nella gestione del rischio. Purtroppo in Italia la cura della qualità dell’aria degli ambienti indoor non è mai stata affrontata, delegando alla semplice ventilazione naturale (aria che passa attraverso porte e finestre) il compito di “ripulire” l’aria negli ambienti. Questo è un problema più generale, che riguarda la qualità dell’aria in presenza di qualsiasi sorgente indoor (inquinante). Potrebbe essere questa l’occasione per mettere in sicurezza i nostri ambienti, ma sarebbero necessari investimenti importanti».
Uso corretto delle mascherine e ricambio frequente dell’aria sono criteri sufficienti per proteggersi?
«Il rischio zero non esiste, ma accanto alla ventilazione e alla riduzione dell’emissione (evitando di parlare ad alta voce, per esempio) l’uso corretto delle mascherine chirurgiche può ridurre ulteriormente le possibilità di contagio da aerosol, anche se non in modo rilevante. Questo perché le mascherine chirurgiche nascono per particelle di dimensioni maggiori di 10 micron».
Va bene qualunque tipo di mascherina?
«A differenza delle mascherine chirurgiche, i filtri facciali (FFP2, FFP3, N95) hanno un’efficienza di filtrazione molto elevata, anche per le tipiche dimensioni dell’aerosol».
Il distanziamento di almeno un metro è comunque utile?
«Il distanziamento è condizione necessaria ma non sufficiente per non avere contagi per via aerea negli ambienti chiusi. Con il distanziamento si evita di entrare in contatto con i droplet, le goccioline più grandi, che cadono in prossimità del soggetto infetto».
Lo smog può essere un fattore che facilita la diffusione di Sars-CoV-2?
«Non c’è alcuna relazione tra la diffusione del contagio da Sars-CoV-2 e il particolato atmosferico. In ambienti aperti il contagio non può trasmettersi per via aerea a causa dell’elevata “diluizione” della carica virale: è impossibile, per il soggetto sano, inalare una sufficiente dose infettante».
L’aria condizionata può avere un ruolo?
«L’aria condizionata non ha alcun ruolo nella trasmissione del contagio per via aerea».
Come si è svolta la discussione con l’Oms?
«La prima petizione firmata da 36 scienziati nei primi giorni di aprile è stata discussa con l’Organizzazione mondiale della sanità, ma senza risultato. Abbiamo quindi inviato una lettera-articolo, sottoscritta da 239 esperti internazionali, sullo stesso tema. Il 6 luglio abbiamo inviato una nuova petizione all’Oms per il riconoscimento della possibilità di questa modalità di contagio. In realtà, tra le raccomandazioni internazionali, compare da tempo la ventilazione negli ambienti chiusi che, ovviamente, non sarebbe necessaria in assenza di trasmissione aerea».
Virus, Guardian accusa: «Oms e governi hanno agito sui dati taroccati di un'azienda sconosciuta». Ilmessaggero.it Mercoledì 3 Giugno 2020. Covid-19, il Guardian in un'inchiesta esclusiva punta i riflettori sulla Surgisphere, azienda Usa nel cui staff figurano anche «uno scrittore di fantascienza e una modella di riviste per adulti», che ha fornito i dati necessari alla compilazione di diversi studi sul Covid-19 pubblicati anche su 'Lancet' e sul 'New England journal of medicinè, ma che «fino ad ora non ha fornito spiegazioni sui dati o sulla metodologia» applicata. L'Organizzazione mondiale della sanità e vari governi nazionali hanno modificato le loro politiche di risposta al Covid-19 e le terapie, quindi, sulla base di dati «imperfetti» provenienti da una semisconosciuta azienda statunitense che si occupa di analisi sanitaria. I dati che la Surgisphere sostiene di avere acquisito legittimamente da oltre un migliaio di ospedali nel mondo, scrive il Guardian, sono stati alla base di articoli scientifici che hanno portato ad una modifica delle terapie per il Covid-19 nei Paesi dell'America Latina. Gli stessi dati sono stati utilizzati dall'Oms e dagli istituti di ricerca di tutto il mondo per fermare i test sull'uso dell'idrossicolorochina, farmaco sul quale si è a lungo dibattuto per il trattamento del coronavirus. Due delle maggiori riviste scientifiche mondiali come Lancet e il New England journal of medicine, sottolinea il Guardian, hanno pubblicato studi basati sui dati della Surgispehere. Co-autore di questi studi è l'amministratore delegato dell'azienda Usa, Sapan Desai. Dopo essere state contattate dai giornalisti del Guardian, che le hanno informate sui risultati dell'inchiesta, le due riviste hanno espresso «preoccupazione». Gli altri autori degli studi pubblicati, non affiliati alla Surgisphere di Desai, hanno ora commissionato un'indagine indipendente a seguito dei dubbi sollevati sull'«affidabilità del database» utilizzato. Il Guardian sottolinea che, a seguito delle ricerche effettuate sull materiale disponibile pubblicamente, numerosi dipendenti della Surgispehere hanno scarsa o nessuna esperienza scientifica. Uno dei dipendenti, indicato come caporedattore scientifico, è in realtà uno scrittore di fantascienza, mentre la 'dirigente marketing' risulat in realtà essere una modella di riviste per adulti e hostess per fiere e congressi. La pagina Linkedn dell'azienda ha meno di 100 follower e la scorsa settimana, riporta ancora il Guardian, indicava un organico composto da sei persone, poi diventate nelle ultime ore tre. Surgisphere, che sostiene di gestire «una delle più vaste e veloci banche dati ospedaliere del mondo», rileva il Guardian, non ha praticamente alcuna presenza online. L'account Twitter presenta meno di 170 follower, senza alcun post tra l'ottobre 2017 e il marzo 2020.
Disorganizzazione mondiale. Report Rai PUNTATA DEL 11/05/2020 di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.
DISORGANIZZAZIONE MONDIALE. Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione: Alessia Marzi e Alessia Pelagaggi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché di briciole alla fine si tratta. Quel fondo era stato istituito dopo l’epidemia ebola perché bisognava dotare l'OMS di risorse necessarie da investire in caso di una emergenza sanitaria, per la prima risposta, quella che serve forte, immediata, con determinazione per evitare che un’epidemia diventi poi una pandemia. Ecco hanno contribuito dal 2015 a oggi solamente 18 dei 194 stati membri che fanno parte dell'OMS. E hanno donato solamente 114 milioni. E da quel fondo l'OMS ha destinato in queste settimane 9 milioni a quei sistemi sanitari più deboli per fronteggiare l’emergenza del coronavirus. Ecco proprio sull’esperienza di ebola nel 2015 Bill Gates aveva riunito a Seattle la crema degli scienziati avendo alle spalle un virus che evocava in maniera incredibile il Covid19, annunciava quella che era la pandemia più annunciata della storia. Però se la prendeva con gli Stati, noi ne avevamo già parlato, ma poi ci siamo chiesti ma con chi ce l’aveva in particolare? E soprattutto è un sincero filantropo, Bill Gates?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Giusto ma chi è che deve pagare? Il viceministro alla Salute Sileri ammette onestamente che il piano pandemico del 2010 non è mai stato attuato né aggiornato. Ma io sono arrivato da poco, ho chiesto spiegazioni all’interno del ministero ma non mi rispondono. Chi avrebbe potuto rispondere invece è l’ex direttore generale dimissionario da dicembre, poi andato recentemente via, Claudio D’Amario, e anche chi c’era prima di lui fino al 2017, Ranieri Guerra. Due illustri professionisti per carità, ma disattenti in questa vicenda. E Ranieri Guerra anche un po’ smemorato, perché sapeva benissimo che il piano pandemico doveva essere attuato e non è stato fatto. Sapeva benissimo come ha lasciato le cose. E poi noi abbiamo scoperto che l’unica cosa che girava che somigliasse a un piano pandemico era una bozza del 2016. Poi abbiamo anche provato a chiedere un’intervista a Tedros e il suo ufficio stampa però ci ha risposto criticando Report: dice “visto il vostro stile giornalistico, non vediamo l’utilità di partecipare”. Non gli piace il nostro modo di fare le domande. Ora ci verrebbe facile rispondere che neanche noi non siamo così entusiasti della loro gestione della pandemia. Tuttavia insomma noi non cerchiamo colpevoli, né responsabili, cerchiamo solo di capire dove si è sbagliato per non ricommettere gli stessi errori. E poi anche perché crediamo nell’OMS, crediamo nell’istituzione purché sia indipendente dalla politica e dalle pressioni delle lobby farmaceutiche. Ecco perché la storia ci dice che non è sempre stata così indipendente.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2009 il mondo era in allarme per un altro virus: l’H1N1.
TG AMERICANO GIORNALISTA La nuova influenza suina che infierisce in Messico ha potenziale pandemico, dice l'OMS.
TG AMERICANO GIORNALISTA L'influenza suina è in Europa. C'è un caso confermato.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Iniziata in Messico, l'influenza H1N1 in pochi mesi ha contagiato il mondo. L'11 giugno, per la prima volta in 40 anni, l'OMS dichiara la pandemia.
MARGARET CHAN - DIRETTRICE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ 2006 - 2017 Ho deciso di aumentare il livello di allerta all'influenza pandemica da fase cinque a sei.
JEAN PIERRE DOOR - RAPPORTEUR COMMISSIONE D’INCHIESTA PARLAMENTARE FRANCESE SULLA CAMPAGNA DI VACCINAZIONE Dall'attivazione del livello sei, si è innescato in effetti l'acquisto di vaccini. Bisognava contestare e non accettare? La Francia non poteva permetterselo, gli altri paesi hanno fatto la stessa cosa.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La dichiarazione di stato di pandemia presa dal comitato di esperti dell’OMS fece scattare gli obblighi di acquisto dei vaccini di tutti i paesi, Italia compresa.
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI I componenti erano segreti, nell'ipotesi che mantenerli segreti li proteggeva dall'influenza dell'industria.
GIULIO VALESINI Quindi sostanzialmente l'accusa fu che l'Oms dichiarò …
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI Dichiari pandemia e fai partire i contratti.
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI L’Italia era vincolata da un contratto con aziende farmaceutiche multinazionali ad un acquisto di vaccini, solo nel caso di una pandemia. Ha comprato mi sembra 24 milioni di dosi di vaccino…
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO German Velasquez per più di 20 anni è stato un alto dirigente dell’OMS: dirigeva proprio il programma sui farmaci. E oggi rivela alcuni particolari di ciò che accadde in quei giorni dentro l’OMS.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER All’epoca fu creata una Task Force di circa 20 persone, di cui facevo parte. Ma alla riunione con le industrie farmaceutiche che avrebbero prodotto i vaccini non potei partecipare. Quando arrivai l’usciere mi fermò sulla soglia, e disse “No. Lei non può entrare”. Io ero contrario alla dichiarazione di pandemia, il contagio avveniva molto velocemente, ma la mortalità era molto bassa. E dissi che se fosse stata dichiarata si sarebbe dovuto stabilire che i farmaci e i vaccini sarebbero stati di dominio pubblico. Questo approccio non è piaciuto. GIULIO VALESINI Secondo lei la dichiarazione di pandemia dell'Organizzazione mondiale della sanità favorì le grandi industrie farmaceutiche in quell'occasione?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Chiaramente, è stato il business del secolo.
GIULIO VALESINI Chi si vaccinò per il virus H1N1V, dentro l’OMS?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Io personalmente non mi vaccinai. E dei 2500 colleghi che lavoravano presso la sede dell’OMS a Ginevra non conosco nessuno che l'abbia fatto. E ti dirò di più: quattro mesi dopo l'uscita del vaccino in una conferenza stampa chiesero a Margaret Chan: "Signora direttore generale, lei si è vaccinata?" e lei rispose: "Beh, sono stata troppo impegnata, non ho avuto tempo”.
VOCE TG FRANCESE È un classico nelle campagne di vaccinazione, la Ministra della salute fa la puntura in diretta.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A conti fatti si vaccinarono pochi milioni di persone in Europa. Ma l'operazione costò ai paesi centinaia di milioni di euro. L’Italia pagò 24 milioni di dosi 184 milioni. Furono usate appena 900 mila dosi. Alla fine l'H1N1 fa meno morti di un'influenza stagionale. Il rischio pandemico si rileva infondato.
GIULIO VALESINI Rimanemmo con le scorte di vaccino che non servirono a niente.
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI Si, ma non si che fine abbiano fatto. Credo che l'abbiamo poi donate a qualche paese in via di sviluppo che non so cosa se ne potesse fare.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche in Germania la campagna contro l'H1N1 fallì. Si vaccinò solo il 5% della popolazione. Dal 2009, Wolfgang Wodarg denuncia una pandemia contraffatta. Allora era presidente della Commissione per la salute europea. Secondo lui, gli esperti sapevano del basso rischio ma hanno scelto di favorire le finanze dei laboratori farmaceutici.
WOLFGANG WODARG - PRESIDENTE COMMISSIONE SALUTE CONSIGLIO D’EUROPA 2009 Nel 2009, non avevamo dati che dimostrassero la morbilità e la mortalità associata a una pandemia di fase sei e dichiarare questo livello di allerta. Quindi l'OMS aveva il dito sul grilletto, l'operazione era stata preparata a monte. L'OMS doveva dichiarare la pandemia, così gli stati impegnati ad assumere una certa quantità di farmaci in determinate condizioni, sarebbero andati avanti.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla fine l'OMS ha fatto mea culpa. Ma non sono mai emersi reati. NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Perché alcuni dei componenti del gruppo dell'Oms si scoprì che aveva anche un conflitto di interesse.
GIULIO VALESINI Quanto è presente la presenza e il conflitto di interesse di aziende farmaceutiche dentro l'OMS.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE L'OMS riflette le debolezze, le contraddizioni le incongruenze degli Stati che la compongono.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Viene il dubbio che rifletta le debolezze, perché quando un ente è molle è più facile penetrarlo da chi sa fare lobby. Nel caso della suina, dopo 40 anni viene dichiarata lo stato di pandemia. Si è scoperto che solo successivamente che quella dichiarazione era legata alla necessità di far rispettare i contratti che gli stati avevano con le case farmaceutiche. Quelle che riguardavano l’acquisto di un vaccino che poi si è rivelato una specie di flop, anche perché poi gli stessi membri dell’ OMS che avevano votato quella dichiarazione di pandemia non si erano vaccinati. Ecco, uno può alla fine, questo sa un po’ di ridicolo, può dire un osservatore, se questa è l’organizzazione vale la pena chiudere tutto. Noi non arriviamo a questo, anzi crediamo, continuiamo a credere nell’istituzione purchè si impari dagli errori del passato.
VOCE TG CNN L'OMS lavora per contenere la diffusione del temibile virus ebola diffuso in tre, forse quattro, paesi africani.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo l’H1N1 un altro virus ha colto l'OMS di sorpresa. Nel dicembre del 2013 emerge un nuovo ceppo di ebola. Si scatena il panico nell'Africa dell'ovest e in Canada. Una unità di crisi si riunisce più volte al giorno. Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'OMS partecipa alla riunione. Il dottor Hugonnet fa rapporto al rientro dalla Guinea Conakry, dove è iniziata l'epidemia.
STÉPHANE HUGONNET - ESPERTO SCIENTIFICO OMS. Tre aree hanno trasmissioni attive e generano casi. Il messaggio è che l'epidemia non è finita. Coinvolge tutto il paese, più di 1000 km coinvolti. È un'epidemia internazionale. Servono delle risorse straordinarie per comprendere e dominare questa epidemia.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È la prima volta che un caso di trasmissione avviene in una megalopoli di milioni di abitanti. Sul campo, l'OMS guida le attività di decine di esperti arrivati d'urgenza, tra cui Manuguerra dell’Istituto Pasteur.
JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR Dobbiamo sbrigarci perché l'epidemia può sfuggire, Bisogna sbrigarsi perché la reazione a catena può travolgere il sistema.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Conakry, Medici senza frontiere hanno costruito un centro separato dall'ospedale. Il villaggio ebola.
DONNA Chiamate se vi serve aiuto, io resto qui.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Senza vaccini né cure, i medici possono solo alleviare i malati e assistere i moribondi. Si devono anche isolare tutti i contagi sospetti. Si fanno prelievi per stabilire una diagnosi. Un laboratorio francese di Lione procedeva con l'analisi. Bisognava essere veloci per evitare il degrado dei campioni di sangue.
JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR Ora prenderemo una parte del campione del virus. Usiamo una parte per le analisi, prima lo disattiviamo, così possiamo estrarlo da qui. È un test sofisticato ma che funziona in modo semplice, con un risultato che si legge facilmente, vedete due campioni giallo fosforescente che indica la presenza di tracce di ebola.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Due casi confermati, uno negativo, il numero di test da fare diminuisce. A un mese dall'inizio, l'epidemia è in declino.
JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR A posteriori è facile dire: "Ci sono meno di 200 casi, "meno di 100 morti", non si sa mai come può evolvere la situazione.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo una stasi primaverile, l'ebola è ripartita a giugno. Senza capire come, Oularé Bakary, è uscito indenne.
OULARE BAKARY Vedevo i cadaveri quindi facevo domande, chiedevo da quanto fossero lì i malati. Erano venuti con me? Ero veramente preoccupato. Sarei morto, per me era finita. Ho visto un altro malato bagnarsi, perdere sangue, aveva la diarrea, vomitava sangue. C'erano i cadaveri pronti alla sepoltura. Aspettavo la mia ora, per me era finita. Mi hanno fatto un primo test, poi un secondo test, mi hanno detto che era negativo. Ero felice. Non sono più malato!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’accusa all’OMS, nel caso dell’Ebola fu quella di essersi mossa in colpevole ritardo. Sul campo per mesi a lavorare c’erano gli operatori di medici senza frontiere”.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Ebola è stato l'altra vicenda dove l'OMS ha rivelato molte debolezze per sua stessa ammissione. Dopo Ebola si creò nel 2015 questo fondo, questo Contingency Fund che dal 2015 a oggi, finanziato da 18 dei 194 Governi che finanziano, che partecipano e sono parte dell'OMS, ha raccolto 114 milioni di dollari.
GIULIO VALESINI In cinque anni. NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE In cinque anni quindi praticamente niente, briciole.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché di briciole alla fine si tratta. Quel fondo era stato istituito dopo l’epidemia ebola perché bisognava dotare l'OMS di risorse necessarie da investire in caso di una emergenza sanitaria, per la prima risposta, quella che serve forte, immediata, con determinazione per evitare che un’epidemia diventi poi una pandemia. Ecco hanno contribuito dal 2015 a oggi solamente 18 dei 194 stati membri che fanno parte dell'OMS. E hanno donato solamente 114 milioni. E da quel fondo l'OMS ha destinato in queste settimane 9 milioni a quei sistemi sanitari più deboli per fronteggiare l’emergenza del coronavirus. Ecco proprio sull’esperienza di ebola nel 2015 Bill Gates aveva riunito a Seattle la crema degli scienziati avendo alle spalle un virus che evocava in maniera incredibile il Covid19, annunciava quella che era la pandemia più annunciata della storia. Però se la prendeva con gli Stati, noi ne avevamo già parlato, ma poi ci siamo chiesti ma con chi ce l’aveva in particolare? E soprattutto è un sincero filantropo, Bill Gates?
BILL GATES – TED TALK, MARZO 2015 Quando ero ragazzo la catastrofe che più ci preoccupava era la guerra nucleare, ecco perché avevamo un barile come questo in cantina, pieni di cibo e acqua. Partito l’attacco nucleare dovevamo scendere, accovacciarci e mangiare dal barattolo. Oggi il rischio di catastrofe globale non è più questo. Invece è più simile a questo. Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso, piuttosto che una guerra. Questo perché abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, pochissimo invece su un sistema che possa fermare un epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia. Prendiamo l’ebola, il problema non era che il sistema non funzionava, il problema è l’assenza totale di un sistema. Non c’erano epidemiologi pronti a partire, per controllare la diffusione del virus. Le notizie sui contagi arrivavano solo tramite i giornali, messi online con ritardo ed erano anche imprecisi. Nessuno analizzava terapie e diagnosi. Un fallimento globale. Ma potrebbe anche andarci peggio: l’ebola è un virus che non si diffonde per via aerea, e quando i malati diventano contagiosi, non girano, stanno così male da essere costretti a letto e per pura coincidenza non è arrivato nelle aree urbane. La prossima volta potremmo non essere così fortunati e trovarci di fronte a un virus in cui si sta bene anche quando si è contagiosi, tanto da salire su un aereo o andare al mercato. Come l’influenza spagnola del 1918 che ha provocato la morte di più di 30 milioni di persone. Oggi abbiamo la tecnologia per contrastare un’epidemia. Con i cellulari possiamo raccogliere informazioni e trasmetterle, con le mappe satellitari possiamo vedere come la gente si muove. Gli strumenti li abbiamo, ma devono essere inseriti in un sistema sanitario globale. La banca mondiale stima che se ci fosse una pandemia di influenza la ricchezza globale si ridurrebbe di circa tre trilioni di dollari e ci sarebbero milioni e milioni di morti. Per questo bisogna essere pronti.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Chissà con chi ce l’aveva Bill Gates, perchè se parlava dell’impreparazione dell’OMS e di chi fa le scelte sulle politiche da adottare, allora bisogna anche vedere chi è che la condiziona, chi è che contribuisce alle sue entrate. Il suo bilancio ha totalizzato 5,6 miliardi di dollari lo scorso biennio. Ma nemmeno il 20% sono le quote fisse pagate dagli stati.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Oggi un'organizzazione che controlla più o meno il 20% del proprio budget è, come si può capire, un'organizzazione che è ingestibile. L'OMS si è trasformata in una specie di service provider.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’80% del budget è versato da stati e privati su base volontaria. Mettono i soldi e decidono per cosa si spendono.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER L’OMS negli ultimi 20 anni è stata privatizzata, l’operazione l’ha completata la direttrice Margaret Chan durante il suo mandato triennale.
GIULIO VALESINI Ma a chi ha fatto comodo trasformare la OMS di fatto in una agenzia privata?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Principalmente all'industria farmaceutica. E la verità, volendo essere un po' cinici è che i Paesi industrializzati fino a quattro mesi fa volevano un OMS senza molti poteri, per non danneggiare la propria industria.
GIULIO VALESINI Qual è il peso secondo lei, obiettivamente il peso delle aziende farmaceutiche dentro l'organizzazione mondiale della sanità, oggi?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER É molto, molto, molto, molto forte, perché oltre ad essere donatori si dà il caso che siano totalmente protetti dai paesi in cui si trovano. Non oggi, da diversi anni.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il primo donatore, gli USA, hanno annunciato pochi giorni fa di ritirare i fondi.
DONALD TRUMP PRESIDENTE STATI UNITI - CONFERENZA STAMPA 14 APRILE 2020 Oggi ho detto alla mia amministrazione di fermare i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della sanità. Mentre si sta facendo un report che valuterà il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità nel gestire male e coprire la diffusione del coronavirus. I contribuenti americani stanno pagando tra i 400 e i 500 milioni di dollari all’organizzazione mondiale della sanità ogni anno. La Cina contribuisce circa 40 milioni di dollari e forse anche meno.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma dopo gli Usa, il secondo donatore al mondo non è uno stato, ma Bill Gates. La sua fondazione versa più mezzo miliardo di dollari all’OMS ogni biennio. Di fatto stabilisce lui quali sono le priorità dell’organizzazione. Ad esempio investire sulla cura della polio, invece che della malaria. I fondi provengono dal trust di famiglia dove ci sono i proventi dei suoi investimenti nel campo sanitario: ha investimenti nelle industrie farmaceutiche. Report ha scoperto che il Trust di Gates ha investito in azioni nel campo sanitario per circa 320 milioni di dollari. E se Gates condizionasse da donatore su cosa l’OMS deve investire il conflitto di interessi sarebbe enorme.
ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Il trust fa soldi, investe e genera la massa di soldi che poi passa alla fondazione. Si tratta di cifre importanti, cioè oltre 5 miliardi di dollari. La fondazione a questo punto elargisce questi soldi.
GIULIO VALESINI Praticamente non è uno stato ma come se fosse una superpotenza. Come se fosse in realtà il 195esimo membro dell’Oms.
ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Ma in realtà forse il concetto di stato qui è addirittura superato. Quindi fa quello che vuole.
GIULIO VALESINI Quindi dice lei Bill Gates di fatto è diventato il proprietario dell'organizzazione mondiale della sanità.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Le faccio un esempio di qualcosa di molto scioccante che ho visto quando ero all'OMS. All'assemblea mondiale della salute Bill Gates è stato invitato dalla direttrice. Ha avuto 40 minuti per parlare con i ministri della salute. Nessun Ministro della sanità di qualsiasi paese del mondo, che si tratti di Francia, Italia o Inghilterra, ha più di cinque minuti per parlare all'Assemblea Mondiale. Quest’uomo può avere un sacco di soldi ma non è un esperto di salute pubblica. Bill Gates Sta uccidendo l'OMS e cerca di dimostrare al mondo che è un grande filantropo che si preoccupa della salute dell’umanità.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gates sta dando un contributo decisivo alla ricerca del vaccino e ha promesso che sarà accessibile a tutti. Ma visti i suoi investimenti sull’industria farmaceutica riuscirà a imporre un brevetto per così dire aperto?
ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Bill Gates nasce con in testa il concetto di brevetto cioè lui ha fatto un patrimonio con la logica del brevetto e soprattutto con la logica di protezione delle capacità e delle invenzioni.
GIULIO VALESINI Secondo lei l'OMS può imporre alle case farmaceutiche un vaccino con una proprietà intellettuale allentata, per rendere il farmaco disponibile a tutti, a prezzi accettabili?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Legalmente l’OMS non può revocare un brevetto, ma potrebbe raccomandare fortemente a tutti i paesi di optare per la licenza obbligatoria, strumento grazie al quale ogni singolo stato paga una quota simbolica per avvalersi di un brevetto altrui. Ma questa cosa non la sta facendo.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO German Velasquez però porta avanti però una proposta ancora più coraggiosa e radicale.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Noi chiediamo che il direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il direttore dell'OMS Tedros, il direttore dell'Ufficio della Proprietà Intellettuale Mondiale, facciano una dichiarazione in tempi di pandemia davanti al mondo intero che dica “nulla di quello che sarà scoperto deve essere brevettabile”.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Magari. E invece chi produrrà il primo vaccino potrà sedersi al tavolo internazionale con la forza, con la moral suasion di avrà vinto una guerra. E invece il vaccino dovrà essere accessibile a tutti, per quantità di dosi e per accessibilità del prezzo. Ma quale è la strada da seguire? Una che potremmo percorrere è quella della GAVI, un’alleanza finanziata, che si occupa di vaccinazione e immunizzazione per l’intero pianeta ed è finanziata tra gli altri paesi, da Norvegia, Italia, Giappone, Gran Bretagna e anche da Bill Gates. Dovrebbe occuparsi di distribuire il vaccino nelle parti povere del paese, tra i governi più poveri, però non si è espressa sul brevetto del vaccino per il Covid19. Così come non si è espressa l’OMS. Che è guidata da Tedros. Tedros che è a capo di un’agenzia che è diventata sostanzialmente privata. Perché gli stati l’hanno voluta più debole per tutelare le proprie aziende farmaceutiche. E così l’80% dei suoi finanziamenti sono donazioni private, o di natura vincolata. Il numero uno, il finanziatore più importante privato è Bill Gates. Nell’ultimo biennio ha finanziato con circa mezzo miliardo di dollari, è il secondo in assoluto dell’OMS. Più di uno stato, più degli altri stati. È lui decide anche le politiche, le strategie dell’OMS, decide se investire su una campagna di vaccinazione per la poliomelite piuttosto che sulla malaria che provoca anche più morti. Ora lui ha detto mi sto impegnando nella produzione del vaccino per il Covid 19 e sarà accessibile a tutti. Sì, ma a quale prezzo? E poi brevetto, sarà un brevetto libero? Proprio lui che sui brevetti ha costruito la sua fortuna? Ecco lui i soldi li prende dal suo trust di famiglia e li mette nella fondazione, e dalla fondazione finiscono nell’OMS, ma i soldi che arrivano al trust, abbiamo scoperto noi di Report, arrivano anche da investimenti sul mondo sanitario. E parliamo di circa 323 milioni di dollari nel 2018 che avrebbe anche investito in case farmaceutiche tra quelle importanti, anche quelle che producono i vaccini, Novartis, Pfizer, Merck, Medtronic. E poi di questi 237 milioni invece li aveva investiti, almeno fino a un anno fa nella Walgreen Boots Alliance, la società che distribuisce farmaci all’ingrosso e al dettaglio in mezzo mondo. Poi tra l’altro Bill Gates aveva anche fatto un accordo attraverso Microsoft per costruire e gestire la rete informatica di questa società. Ecco, serve anche per accaparrare dati sanitari sulle prescrizioni? Per sapere quali farmaci vengono più venduti e di conseguenza per investire su quei farmaci? Ecco, il cerchio si chiude. Più soldi nel suo Trust, che poi soldi che partono nella sua fondazione, veste i panni da filantropo, li dona, risparmiando tasse, all’OMS. Determina quelle politiche sanitarie, le campagne di vaccinazione, o quelle cure farmaceutiche, magari prodotte da quelle multinazionali dove lui ha investito. Ecco insomma più che un conflitto, sembra una visione di un mondo. Chapeau Mister Gates. Però crediamo che la salute della popolazione mondiale meriti qualcosa di meglio.
Coronavirus e plasma iperimmune: il mondo ne parla, in Italia fioccano le polemiche. Le Iene News il 13 maggio 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci della possibile terapia con il plasma iperimunne, affrontando le critiche che vengono mosse da molti esperti in Italia. Mentre nel resto del mondo il protocollo su cui si lavora a Pavia, Mantova e ora anche Padova viene studiato con interesse. E intanto il governatore del Veneto Zaia si porta avanti. Alcide ha 81 anni, e ha rischiato di morire per il coronavirus. Oggi, dopo esser stato trattato con il plasma iperimmune, sta meglio: “Ero un mezzo cadavere”, dice ad Alessandro Politi. Ma dopo il plasma “ho sentito questa spinta interna, il corpo ce la fa. Quando si comincia a mangiare e aver voglia di vivere è una cosa meravigliosa”. Alessandro Politi e Marco Fubini ci hanno portato a conoscere la possibile terapia con il plasma iperimmune per combattere il coronavirus, che gli ospedali di Mantova, Pavia e adesso anche Padova stanno testando con risultati finora incoraggianti. E la notizia della sperimentazione ha fatto il giro del mondo. Negli Stati Uniti la terapia viene adesso testata in 116 università. In Italia però molti esperti sono scettici, sostenendo che “i plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”. E’ davvero così? “Tutti i servizi trasfusionali sono attrezzati per la raccolta del plasma, non è difficile da preparare”, ci dice la dottoressa Giustina De Silvestro, dell’azienda ospedaliera di Padova. “Una sacca di plasma costa intorno agli 80 euro”, aggiunge il professore di pneumologia a Padova Andrea Vianello. “Con tre somministrazioni siamo intorno ai 300 euro complessivi. I farmaci antivirali possono arrivare a costare anche 4, 5 o 6 volte di più”. “Al momento non c’è nessuna evidenza, né per i farmaci né per il plasma”, specifica Giustina De Silvestro. “Le consideriamo tutte terapie che possono contribuire all’evoluzione benigna delle malattie”. Ma il plasma iperimmune è sicuro? “Una delle caratteristiche è la sicurezza”, ci spiega Andrea Vianello. “Non è noto per causare importanti effetti collaterali. Lo possono ricevere tutti, salvo che non ci siano controindicazioni specificatamente legate al soggetto”. C’è anche un’altra critica mossa da molti esperti, tra cui il professor Burioni: “Questi plasmi si basano sulla disponibilità di persone guarite che abbiano questi anticorpi, che non sono tantissime”. I guariti in Italia oggi sono oltre 100mila, i malati ospedalizzati poco più di 13mila di cui mille in terapia intensiva. A conti fatti, ci sono quasi dieci potenziali donatori per ogni paziente in ospedale. Non tutti comunque hanno un plasma con alti livelli di anticorpi, solo un 60/80% ha un plasma utile: un numero comunque elevato. Negli Stati Uniti da poche settimane è partita una sperimentazione con il plasma, che coinvolge 7mila malati trattati in 2.178 ospedali. “Sono tutti pazienti trattati in forme severe o gravi, che hanno bisogno di ossigeno o intubati“, ci dice il professor Alessandro Santin dell’università di Yale. E il dipartimento della Salute “ha contattato la Croce rossa americana chiedendo la raccolta e la distribuzione del plasma iperimmune e renderlo disponibile a tutti gli ospedali americani”. E sentendo le parole del professor Santin verrebbe da pensare che il problema della disponibilità del plasma dipende dalla raccolta, non dal numero dei donatori. E gli Stati Uniti, dove essenzialmente non c’è un sistema sanitario pubblico, hanno deciso di investire soldi pubblici in questa ricerca. “Quello che abbiamo visto fino a oggi è estremamente confortante”, ci dice ancora Santin. “Ma è solo quando riusciremo a confrontare tutti i pazienti con quelli che hanno ricevuto solo le terapie di supporto” che si riuscirà a capire “quanto il plasma aggiunge in termine di efficacia terapeutica”. Intanto, dopo la messa in onda del primo servizio sul plasma iperimmune, qualcuno fa una segnalazione ai Nas che intervengono per verificare come viene fatta la sperimentazione. Il professor Giuseppe De Donno viene attacca da molti esperti, e nel frattempo lui stesso oscura le sue pagine. Dopo qualche giorno riappare e dice: “Non sono disponibile in questo momento a risse televisive, a zuffe mediatiche con questo o quello collega, atteso che essendo noi tutti medici lavoriamo per una causa unica: la lotta al coronavirus”. E ci tiene a ricordare che il protocollo di ricerca “è stato preso come esempio da molti Stati europei e americani”. Mentre ci si azzuffa sull’efficacia e convenienza della terapia con il plasma iperimmune, c’è chi porta avanti: il governatore del Veneto Luca Zaia. “Se verrà confermato che il plasma funziona, tutti si gireranno verso le emoteche e diranno: il sangue dov’è? Noi quindi ci portiamo avanti”. Il Veneto ha infatti deciso di creare la più grande banca del sangue per raccogliere il plasma dei guariti dal coronavirus. Potete ascoltare le parole del governatore Zaia nel servizio qui sopra. “Dico a tutti i colleghi: accumulate sacche di sangue. Anche se dimostrassero che il plasma non funziona, si può utilizzare per altro”. E pochi giorni fa, su Nature, è uscito questo articolo: “Plasma di convalescenti, trattamento di prima scelta per il coronavirus”. Da tutta Italia ci hanno scritto persone guarite che vorrebbero donare, ma nelle loro regioni non ci sono ancora i centri per la raccolta del plasma iperimmune: cosa stiamo aspettando?
Plasma-terapia: così il salentino De Donno ha curato a Mantova 80 pazienti. Trnews.it il 4 Maggio 2020. Impiegando il plasma dei soggetti affetti da Covid ormai guariti, ha trattato più di 80 dei suoi pazienti con gravi problemi respiratori, evitando loro la morte. Giuseppe De donno, medico originario di Maglie, è alla guida del Reparto di Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Questa terapia sperimentale, sulla quale parte del mondo scientifico invita ad andarci cauti, è stata messa in pratica proprio da lui, partendo dalla scoperta dei direttori di Immunologia e Medicina Trasfusionale di Pavia e Mantova: i primi ad accorgersi che il sangue dei guariti avrebbe potuto aiutare il resto degli ammalati alle prese, ancora, con il coronavirus. Risultato: i pazienti con più sintomi, in poche ore, si sono ritrovati senza febbre, tosse e difficoltà respiratorie. La sperimentazione è stata già avviata al Policlinico di Bari. Oltre al plauso del sindaco di Maglie, il primario salentino nelle scorse ore è stato contattato anche dall’ONU: “Da parte della comunità scientifica internazionale -ha detto De Donno – è stato manifestato grande interesse a conoscere i risultati del nostro studio”. Non solo. Una seconda chiamata è arrivata direttamente da un consigliere del Sottosegretario alla Salute, che ha spiegato come anche negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia e ferve l’attesa per i risultati della sperimentazione condotta, appunto, a Mantova e Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari. In Italia, invece, le cose non filano proprio così lisce. Nei giorni scorsi, ad esempio, il primario salentino è stato contattato telefonicamente dai Nas, venuti a conoscenza della terapia al plasma applicata, eccezionalmente, su una donna incinta che, viceversa, avrebbe rischiato la sua vita e quella del bambino. Sebbene quotidianamente alle prese con diffidenza e lungaggini burocratiche, il primario salentino rassicura: “Non ci lasceremo sfiduciare”.
Covid, primario salentino a Mantova: “Il plasma dei guariti funziona”. Giuseppe De Donno, 53enne pneumologo di Morigino di Maglie: “A Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”. Il Gallo il 4 Maggio 2020. La terapia basata sul plasma iperimmune prelevato dai pazienti con Covid-19 si sta rivelando efficace. Lo ha spiegato primario del Reparto Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma, Giuseppe De Donno, che, per inciso è salentino, originario di Morigino di Maglie. Tra Mantova e Pavia sono stati trattati quasi 80 pazienti con gravi problemi respiratori, nessuno dei quali è deceduto. “La mortalità del nostro protocollo finora è zero”, ha sottolineato il 53enne pneumologo magliese, “a Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.
“La richiesta di autorizzazione al comitato etico ci fa perdere tempo prezioso”. Sono stati arruolati dei volontari donatori di plasma tra persone già guarite dal coronavirus (per accertare la guarigione, gli esperti li hanno sottoposti a due tamponi sequenziali): “I donatori guariti”, ha spiegato in un’intervista radiofonica il dott. De Donno, “donano 600ml di sangue. Tratteniamo quindi il liquido che ha come caratteristica fondamentale la concentrazione di anticorpi, tra cui quelli contro il coronavirus”, ha aggiunto De Donno. Prima di procedere, però, gli esperti devono chiedere ogni volta l’autorizzazione al Comitato etico. “Si tratta di un impedimento enorme, perché ci fa perdere tempo prezioso per salvare le persone”, ha commentato il luminare salentino, “il plasma può essere congelato e durare fino a sei mesi in stoccaggio: questo ci ha portato a creare una banca del plasma a Mantova. Riusciamo anche ad aiutare altri ospedali che ci stanno chiedendo aiuto”. Per illustrare meglio quanto possa essere efficace il trattamento col plasma, De Donno ha raccontato di Francesco, un ragazzo di 28 anni ricoverato in terapia intensiva: “Le sue condizioni si sono aggravate lo scorso venerdì. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione del Comitato Etico, l’abbiamo trattato col plasma iperimmune. Dopo 24 ore era già sfebbrato e stava bene. Da poco lo abbiamo svezzato dal ventilatore. È un ragazzo arrivato qui senza altre patologie: doveva essere intubato e invece tra due giorni potremo restituirlo ai suoi genitori”. Francesco non è l’unico: circa un centinaio di pazienti con coronavirus sono guariti grazie alla cura col plasma iperimmune. “Finora non abbiamo avuto decessi tra le persone trattate. E i segni clinici tendono a sparire dalle 2 alle 48 ore dopo il trattamento”, ha concluso De Donno. “abbiamo sottoposto i risultati ottenuti alla comunità scientifica e siamo in attesa di pubblicazione. Senza alimentare false speranze”, ammette infine, “se la malattia ha lavorato a lungo fino a compromettere la funzionalità degli organi, il plasma non è sufficiente a salvare il paziente”.
Congratulazioni da Maglie. Intanto dal Salento, in particolare da Maglie arrivano le congratulazioni del sindaco Ernesto Toma: “Non ho le competenze per giudicare il lavoro che in questo periodo stanno compiendo medici e scienziati”, ha postato il primo cittadino, “voglio però congratularmi da cittadino magliese con il dott. Giuseppe De Donno, originario di Morigino di Maglie, dirigente del reparto di pneumologia di Mantova, in Lombardia epicentro dell’epidemia, che da quasi un mese ha azzerato i morti per Covid. A Mantova hanno utilizzato e testato il plasma iperimmune ricavato dal sangue dei guariti senza tante passerelle e questo potrebbe essere utile anche in altre parti d’Italia. Spero”, ha concluso, “di poter salutare a Morigino, anche quest’estate, insieme ai suoi parenti, il dottor De Donno”.
Plasmaterapia, De Donno contro Burioni: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Riccardo Castrichini il 04/05/2020 su Notizie.it. De Donno contro Burioni sulla Plasmaterapia sminuita in malo modo dal famoso virologo dei talk show. Il primario di Pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, ha sperimentato con successo la Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid gravemente malati. Questa scoperta che potrebbe salvare la vita a molte persone è stata però banalizzata dal virologo Roberto Burioni come “nulla di nuovo”. L’esternazione del virologo più famoso dei talk show ha fatto molto innervosire De Donno che a Radio Cusano Tv Italia, si è così espresso: “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca. Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”. Il riferimento a Burioni è presto fatto. La Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid consiste nell’infusione di plasma iper immune (o super immune) nell’organismo di pazienti gravemente malati. Per De Donno si tratterebbe di una vera arma magica, che consentirebbe di salvare molte persone. É lo stesso primario a sottolineare tra l’altro la sua volontà di non arrogarsi alcun merito circa l’invenzione di nulla. La sua struttura, insieme al Policlinico di Pavia, avrebbe solo perfezionato un’idea che già esisteva e generato un protocollo ambiziosissimo.
Come funzione la Plasmaterapia. Per rendere possibile questa tecnica, sono stati fondamentali i donatori di sangue dei guariti Covid che devono avere caratteristiche fondamentali e il cui plasma deve essere certificato come contenente di anticorpi iper immuni. Ognuno dei guariti, ha spiegato De Donno, dona poco più di mezzo litro di sangue ma, per usarlo, d’ora in poi, pare stiano sorgendo degli impedimenti: “Adesso ogni volta dobbiamo chiedere l’autorizzazione al Comitato etico e questo ci fa perdere tempo prezioso”, spiega il primario di Pneumologia del Carlo Poma. Certo, il plasma può essere congelato, motivo per cui a Mantova hanno creato una banca del plasma per conservarlo ed eventualmente aiutare gli altri ospedali che ne fanno richiesta. De Donno ha detto che “creando banche plasma in giro per l’Italia riusciremmo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.
Coronavirus, il plasma iperimmune e lo scontro tra Burioni e il primario di Mantova. Le Iene News il 02 maggio 2020. All’ospedale di Mantova si lavora a una possibile terapia per il coronavirus usando il plasma dei pazienti già guariti dal COVID-19. In un video sul suo sito il professor Burioni parla dei pro e dei contro di questa cura, ma il primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova lo ha attaccato su Facebook: ecco qual è l’oggetto della contesa. Il plasma dei guariti dal coronavirus può curare i malati di COVID-19? E’ la teoria su cui stanno lavorando al Carlo Poma di Mantova e al policlinico San Matteo di Pavia. I due ospedali lombardi hanno concluso da pochi giorni la sperimentazione e “i risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice il responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma. Intorno a questa possibile cura per il coronavirus si è scatenata una lotta sui social tra Roberto Burioni e il primario di pneumologia dell’ospedale di Mantova, il dottor Giuseppe De Donno. Ma andiamo con ordine: cos’è la terapia in discussione? Secondo molti ricercatori una possibile cura per i pazienti affetti da una forma severa di COVID-19 sarebbe il trattamento con “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Non esiste ancora certezza assoluta che questa cura possa essere efficace, ma gli ospedali di Pavia e Mantova hanno appena concluso una sperimentazione che avrebbe portato a esiti molto soddisfacenti: "I risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice Massimo Franchini, responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma di Mantova. “Ora con i colleghi di Pavia stiamo riesaminando tutti i casi, valutando la risposta clinica e strumentale, per trarre delle conclusioni generali su questa che è una terapia specifica contro COVID-19". Una possibile terapia di cui si sta parlando molto in rete, e che ha dato adito anche una bufala secondo cui si rischierebbe di contrarre altre malattie: “Il plasma prodotto in questo modo è sicuro e la possibilità che trasmetta malattie infettive è pari a zero”, specifica Franchini. Che poi aggiunge: "Si tratta di una terapia di emergenza, ma noi non abbiamo realizzato un protocollo d'emergenza: si tratta di un lavoro rigoroso che segue le indicazioni del Centro nazionale sangue. Il risultato è una terapia specifica e mirata, all'insegna della massima sicurezza". In attesa di un vaccino sembra che i risultati ottenuti finora siano molto importanti. Perché allora s’è scatenata una polemica con Roberto Burioni? Il noto virologo il 29 aprile ha pubblicato un video sul suo blog MedicalFacts, in cui ha commentato la terapia col plasma. Tra le varie cose che ha detto Burioni afferma che “è qualcosa di serio e già utilizzato”. Insomma, il professore conferma che non stiamo parlando di una qualche strana terapia. Però poi aggiunge che “non è nulla di nuovo”, perché in passato anche altre malattie sono state trattate in modo simile. Inoltre, racconta Burioni, già in Cina si è sperimentata questa terapia. “Una prospettiva interessante, ma d’emergenza. Non può essere utilizzata ad ampio spettro”, dice. Ricordando poi tutte le necessarie precauzioni e protocolli da rispettare. E poi aggiunge: “(Questa cura) diventa interessantissima nel momento in cui riusciremo a stabilire con certezza che utilizzare i sieri dei guariti fa bene, perché avremo aperta una porta eccezionale per una terapia modernissima: un siero artificiale” prodotto in laboratorio. Parole insomma tutto sommato positive verso gli studi e le sperimentazioni sulle cure con il plasma, che però a qualcuno non sono andate giù. Parliamo del dottor Giuseppe De Donno, primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova. Il medico infatti ha attaccato frontalmente Burioni su Facebook: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, scrive in un post. “Forse il prof non sa cosa è il test di neutralizzazione. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di AVIS glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Ora, ci andrà lui a parlare di plasma iperimmune. Ed io e Franchini alzeremo le spalle, perché.... importante è salvare vite! Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano”. E poi una postilla, che sembra suonare come un’accusa: “PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”, conclude. Non sappiamo a cosa De Donno intendesse alludere: quello che sappiamo per certo è che se il plasma iperimmune sarà confermato come terapia valida, ci sarebbe una nuova e formidabile arma nella lotta contro il coronavirus.
“La plasmaterapia funziona. Pronto alla galera pur di salvare un paziente”. Il Dubbio il 5 maggio 2020. Il professor Giuseppe De Donno dell’ospedale di Mantova: “Abbiamo trattato 48 pazienti e non abbiamo avuto decessi”. “Se dovessi scegliere tra salvare una vita ed andare in carcere non ho dubbio in merito. Anche se non dovessi avere l’autorizzazione del comitato etico per me la vita e’ sacra. Sono un cattolico praticante e la vita è l’obiettivo della mia professione”. Lo ha detto il primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, a Tv2000 in collegamento con il programma "Il mio medico" in merito alla plasmaterapia da lui inventata per salvare la vita di altri pazienti gravi affetti da coronavirus. “Tra pochi giorni- ha annunciato De Donno a Tv2000- pubblicheremo la nostra produzione scientifica sulla plasmaterapia. Nei 48 pazienti arruolati nel nostro studio non abbiamo avuto alcun decesso anzi sono tutti guariti e ora sono a casa. Chiedo ai nostri legislatori che una volta pubblicato il lavoro ci diano la possibilità di usare il plasma iperimmune come si usano altri farmaci perchè abbiamo in mano un’arma che è l’unica in questo momento che agisce contro il coronavirus”.
“La plasmaterapia - ha proseguito - è un atto democratico che viene dai pazienti e torna ai pazienti. I pazienti guariti da coronavirus donano il loro plasma ricco di anticorpi che serve per guarire altre persone. Ogni donatore riesce a far guarire due pazienti riceventi”. “L’intuizione della plasmaterapia- ha rivelato De Donno a Tv2000- nasce quando io e il mio infettivolgo il prof. Casari ci siamo trovati una notte a gestire il pronto soccorso con i colleghi che erano disperati perchè erano arrivati 110 pazienti. Anche la nostra direttrice sanitaria, anche lei sull’orlo della disperazione, ci aveva chiamati per chiederci se qualcuno dei nostri medici poteva andare ad aiutare i medici del pronto soccorso. Ci siamo andati noi come gli ultimi degli specializzandi con grande umiltà. Quella notte abbiamo capito che dovevamo inventarci un’arma che ci aiutasse a salvare i pazienti”.
La polemica con Roberto Burioni. Nei giorni scorsi il professore De Donno aveva polemizzato con Roberto Burioni che aveva minimizzato la plasmaterapia. : “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria – dichiara De Donno – anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca”. Burioni aveva commentato la terapia di recente ed il suo approccio allo studio di De Donno non è stato in realtà negativo. Ha parlato di un “qualcosa di serio e già utilizzato”. Certo, dal suo punto di vista resta una soluzione “d’emergenza e che non può essere utilizzata ad ampio spettro” ma De Donno non l’ha comunque presa bene: “Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”.
La terapia del plasma nel mondo. De Donno contattato da Onu e Usa. Affari Italiani Lunedì, 4 maggio 2020. E' il caso lanciato da Affari degli ospedali di Mantova e Pavia. Come far mangiare la frutta ai bambini? I successi dell’ospedale Carlo Poma con la terapia del plasma iperimmune per i malati di covid approdano oltre Atlantico e arrivano alle Nazioni Unite e tra i più stretti collaboratori del Governo Usa. Il caso è quello emerso alla ribalta della cronaca dopo questo articolo di Affaritaliani.it di sabato scorso. Tutto accade ieri a metà pomeriggio quando il primario della Struttura di Pneumologia del Poma Giuseppe De Donno riceve una telefonata da un alto rappresentante dell’Onu, come si legge su mantovauno.it. “Voleva complimentarsi con il nostro ospedale – spiega De Donno – per la sperimentazione del plasma iperimmune su cui c’è molta attenzione da parte della comunità scientifica internazionale. Mi ha detto che sono molto interessati a conoscere i risultati del nostro studio”. Passa solo mezz’ora e a De Donno arriva una seconda telefonata: questa volta è un consigliere del sottosegretario alla salute. Anche lui si complimenta con il medico mantovano, gli spiega come pure negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia del plasma iperimmune e, come era accaduto per l’alto funzionario Onu, anche lui gli dice che c’è molta attesa per i risultati della sperimentazione conclusa dall’ospedale mantovano insieme a quello di Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari: è al via una sperimentazione su infermieri e medici a cui sarà infuso preventivamente il plasma iperimmune, per aiutare le loro difese nel caso in cui venissero infettati. L’infusione dovrebbe avere un’efficacia di qualche settimana ma ovviamente, trattandosi di plasma. potrebbe essere ripetuta. E intanto proprio domani De Donno sarà protagonista di una iniziativa a stelle e strisce. Interverrà infatti a un evento promosso da NYCanta (Il Festival della Musica Italiana di New York) e l’Associazione Culturale Italiani di New York, in collaborazione con la Nazionale Italiana Cantanti. Si tratta di un pomeriggio, che prenderà il via alle 15,30, tra parole e musica con tanti big della musica italiana tra cui Fausto Leali, Al Bano, Enrico Ruggeri, Riccardo Fogli, Stefano Fresi, Paolo Vallesi, Massimo di Cataldo. L’intento è quello di promuovere una raccolta fondi a sostegno della creazione di un centro di ricerca etico sul plasma all’ospedale Carlo Poma di Mantova. Un centro, indipendente dalle case farmaceutiche, che in futuro potrebbe poi occuparsi di altre ricerche.
Il professor De Donno: “Quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto. In Italia non mi cerca nessuno”. De Donno, il prof della plasmaterapia: “Mi ha chiamato l’Onu, ho pianto”. (Selvaggia Lucarelli – tpi.it 5 maggio 2020) – Il direttore della Pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, che sta sperimentando, sembra con risultati incoraggianti, la terapia sui pazienti Covid col plasma dei pazienti guariti, oggi ha rilasciato un’intervista a Radio Bruno in cui è tornato sulle polemiche dei giorni scorsi. In particolare, ha commentato le parole di Roberto Burioni che ospite di Che tempo che fa aveva affermato: “La plasmaterapia è una tecnica già in uso, si vedrà nelle prossime settimane se funziona. Ha dei limiti, perché serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche. Questi plasmi non sono la soluzione ideale, sono costosissimi e difficilissimi da preparare, si basano sulla disponibilità di persone guarite che non sono tantissime, è un approccio di emergenza, se si dimostra che anticorpi funzionano possiamo riprodurli artificialmente in laboratorio”. De Donno, stamattina in radio si è sfogato con una certa amarezza: “La plasmaterapia è l’unica terapia specifica per il Coronavirus, si destina il plasma solo a pazienti che non abbiano storie di insufficienza respiratoria per più di 10 giorni. Oggi noi a Mantova abbiamo il maggior numero di pazienti nell’ambito di questo protocollo e nella nostra sperimentazione non abbiamo avuto alcun decesso tra 48 pazienti con polmoniti”. E poi: “Leggo corbellerie immani sulla plasmaterapia, oggi ho letto di chissà quali indagini che vanno fatte e di una terapia costosa, noi non abbiamo avuto reazioni avverse e gli indici di infiammazione si sono ridotti, per cui oggi quei 48 pazienti sono tutti a casa con le loro famiglie. Riguardo i costi, tenendo conto di tutti gli elementi, dalla sacca al personale alla macchina e ai reagenti, ogni sacca da 600 ml costa 164 euro. Per un paziente la usiamo da 300 ml, vuol dire che ne costa 82 a terapia, più o meno quanto gli integratori per la palestra. Se sono tanti per salvare una vita non ho capito nulla della medicina”. Il professor De Donno ha poi commentato l’interesse internazionale su questa sperimentazione: “Mi stanno chiamando tutti, ieri il console del Messico, l’Onu, il consigliere del ministro della Salute americana, abbiamo avuto proposte di lavoro nei centri di ricerca stranieri. Ogni volta che mi chiama un istituto straniero e non mi chiama mai il nostro Istituto superiore di sanità o non sento il nostro ministro della Salute sono grandi dolori per un ricercatore come me, che fa il medico ospedaliero e che si è speso, che è stato in prima fila nell’emergenza Covid lavorando di notte in pronto soccorso”. De Donno non nasconde l’amarezza: “Quando mi ha telefonato l’alto funzionario dell’Onu ho pianto dalla commozione, finita la telefonata, però, ho provato un grande senso di amarezza perché questa sperimentazione è una chance che stiamo dando al nostro paese e lo dico a prescindere dal risultato finale, perché magari questa sperimentazione dirà che mi sto sbagliando e nel caso lo ammetterò, ma non credo. Però abbiamo in mano una sperimentazione terapeutica che può cambiare la sorte di questa epidemia e dei pazienti, l’amarezza resta”. Infine, commenta le dichiarazioni di Roberto Burioni sui costi alti e le difficoltà di reperimento del plasma: “Questa per me è la cosa più grave e mi ha fatto più male perché mettere in dubbio la rete trasfusionale italiana, il fatto che il plasma possa essere insicuro e trasmettere malattie mette una grossa ombra rispetto al nostro sistema trasfusionale che è uno dei più sicuri del mondo. È inaccettabile che il presidente di Avis nazionale non sia intervenuto su questo ma sia intervenuto mettendo in dubbio la nostra sperimentazione che è stata fatta con grande serietà e con criteri di arruolamento specifici e stringenti pubblicati per dirimere ogni dubbio”.
Laura Cuppini per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Pavia, Mantova, Lodi, Novara, Padova. In arrivo anche Pisa e un laboratorio in Puglia. La plasmaterapia sta scatenando entusiasmi e polemiche. Ma a vincere è la prudenza, la necessità di avere dati scientifici inconfutabili. «L' uso del plasma da convalescenti come terapia per Covid-19 è oggetto di studio in diversi Paesi del mondo, Italia compresa. Il trattamento non è consolidato perché non sono ancora disponibili evidenze robuste sulla sua efficacia e sicurezza» sintetizza il ministero della Salute. «Perché il governo non chiede nulla e l' Istituto superiore di sanità se ne disinteressa?» chiede polemico il leader della Lega Matteo Salvini in diretta su Facebook. Per chiarirsi le idee bisogna fare un passo indietro. Al Policlinico San Matteo di Pavia e all' Ospedale di Mantova il plasma immune è stato infuso in 52 pazienti con esiti definiti «confortanti». Si attende un bilancio di questa prima fase di sperimentazione. Un progetto internazionale che in Lombardia si avvale anche della collaborazione di Avis per il reclutamento dei donatori. Negli Stati Uniti sul plasma dei guariti scommettono in molti, a partire dalla Food and Drug Administration , l'ente di regolamentazione dei farmaci, che ha messo un annuncio in grande evidenza sul proprio sito: «Donate Covid-19 plasma».
Come funziona la tecnica? Il plasma (parte liquida del sangue) prelevato da persone guarite viene purificato e poi somministrato a pazienti con Covid. L' obiettivo è trasferire gli anticorpi specifici a chi ha l' infezione in atto per sostenerne la risposta immunitaria. Prima di questo passaggio sono necessari dei test di laboratorio per quantificare i livelli di anticorpi in grado di combattere efficacemente il coronavirus. Non solo: le procedure sono volte a garantire la massima sicurezza per il ricevente. Gli anticorpi sono proteine prodotte dai linfociti B: quelli cosiddetti «neutralizzanti» hanno il potere di legarsi all' agente patogeno, rendendolo inoffensivo. Ma esistono anche altri tipi di anticorpi, che possono essere inutili o addirittura dannosi per l' organismo. «Quella del plasma è una risorsa terapeutica nota da oltre 50 anni - ha spiegato Pierluigi Viale, direttore dell' Unità di Malattie infettive al Policlinico Sant' Orsola di Bologna -, ma sarebbe necessario mettere in atto uno studio prospettico randomizzato e soprattutto verificarne l' efficacia in fase più precoce di malattia e in assenza di co-trattamenti». Non solo. Isolare anticorpi dai guariti non è semplice né economico, al contrario di quel che si potrebbe pensare. «La terapia al plasma è interessante e importante, un approccio molto sofisticato. Bisogna saperlo fare e avere grandi tecnologie - ha precisato Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza -. Consente di traferire gli anticorpi naturali da un soggetto a un altro: è una cosa difficile, costosa e complessa. Se questi anticorpi naturali funzionano, la sfida è produrli artificialmente e in larga scala, altrimenti si potrebbero proteggere e curare solo poche persone».
Simone Pierini per leggo.it il 7 maggio 2020. Mentre tutti cercavano Giuseppe De Donno, primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, ormai paladino del web per la terapia del plasma iperimmune, è passata in secondo piano la precisazione della struttura ospedaliera dove opera: proprio l’ASST di Mantova. Su Leggo.it proviamo a fare chiarezza. «Anche in questa azienda l’effetto letale del virus si è manifestato, avviato uno studio specifico per valutare questa casistica». Una nota apparsa sul sito ufficiale dell’ospedale il 5 maggio che ha sentito la necessità di puntualizzare e calmare le acque di un fenomeno che ha scatenato la “guerra” tra complottisti, virologi e politici (tra cui Matteo Salvini che ha usato tutti i suoi profili puntando il dito contro il governo colpevole secondo lui di voler nascondere la terapia), aprendo un dibattito che aveva assunto toni troppo aspri. Tra l'altro, sempre il 5 maggio, anche il ministero della Salute aveva pubblicato sul sito internet le informazioni sulla terapia al plasma. La prima considerazione è indicativa: la sperimentazione non è partita dal Poma di Mantova e, di conseguenza, non si tratta di una scoperta del dottor De Donno attorno al quale ieri si è creato un giallo. Improvvisamente salito alla ribalta per il suo scontro a distanza con Roberto Burioni, le sue lamentele per non essere ascoltato, da un giorno all’altro i suoi profili social sono “scomparsi”. Si è immediatamente gridato al complotto: «Lo hanno oscurato», hanno gridato in molti su Facebook e Twitter. A quanto pare sembra che sia andata diversamente e che lo pneoumologo si sia chiuso in una sorta di “silenzio stampa”. «L’ASST di Mantova - si legge nella nota apparsa sul sito - ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione». A lanciare la sperimentazione è in effetto stato il laboratorio di virologia molecolare del Policlinico San Matteo di Pavia diretto da Fausto Baldanti che, durante Che tempo che fa, ha parlato di «risultati incoraggianti» specificando però come si trattasse di «un trial che è in fase di completamento», ma «che questa non sia la soluzione del problema» che «arriverà con il vaccino, con farmaci specifici oppure con la sintesi di questi stessi anticorpi in maniera ingegnerizzata, cose che richiedono tempo». Tornando alla precisazione dell’ASST di Mantova, si legge: «Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati». Poi viene fatta chiarezza sulla richiesta di informazioni dei Nas, letta dal mondo del web come un tentativo di frenare la sperimentazione al punto che lo stesso De Nonno aveva dichiarato: «non mi farò scoraggiare». «Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni - ha scritto il Poma di Mantova - si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione». Infine il passaggio chiave, sulla necessità di non mettere in contrapposizione l’utilizzo del plasma iperimmune con la ricerca di un vaccino, e un chiarimento sui decessi: «La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica».
Pamela, incinta, curata con il plasma. E arrivano i Nas in ospedale. Lo pneumologo De Donno: non mi intimidite. Redazione de Il Secolo d'Italia domenica 3 maggio 2020. Coronavirus, una donna incinta, Pamela, sta bene dopo la cura col plasma iperimmune all’ospedale di Mantova. Ma alle porte dell’ospedale hanno bussato i Nas: chiedono informazioni sulla cura. La terapia sperimentale è “somministrata fuori protocollo in ambito compassionevole”, precisa il direttore generale dell’Asst di Mantova, Raffaello Stradoni, sulla "Gazzetta di Mantova", che riporta la notizia della richiesta del Nas. La terapia con il plasma iperimmune, utilizzato in pazienti con Covid-19 in condizioni critiche, è diventata molto popolare sui social, suscitando diverse polemiche fra gli addetti ai lavori sulla sua efficacia. “Il plasma iperimmune ci ha permesso di migliorare ancora di più i nostri risultati. È democratico. Del popolo. Per il popolo. Nessun intermediario. Nessun interesse. Solo tanto studio e dedizione. Soprattutto è sicuro. Nessun evento avverso. Nessun effetto collaterale”, rivendica su Facebook Giuseppe De Donno, direttore della Pneumologia del Poma, dove è stata condotta la sperimentazione. Uno studio alla ricerca di una cura per Covid-19 è portato avanti congiuntamente al Policlinico San Matteo di Pavia da marzo. Sul caso della donna incinta trattata con il plasma iperimmune è “tutto in regola” per De Donno, che scrive: “Ho letto su qualche quotidiano che la mia oramai figlioccia, non avrebbe avuto i requisiti per ricevere il plasma. Beh, nei criteri di esclusione non è prevista la gravidanza – sottolinea – quindi amici, tutto ok. Lo dico perché un protocollo va rispettato, ma certo, quando fosse possibile salvare vite, concorderei con la deroga per uso compassionevole”. Lo pneumologo sta utilizzando il plasma su un altro giovane paziente, sottoposto alla seconda infusione. “Il nostro giovane amico, come vi avevo anticipato, sta sorprendentemente bene. Così anche Pamela”, la donna incinta. “Se qualcuno crede di scoraggiarmi – scriveva De Donno sempre su Facebook qualche giorno fa, riferendosi appunto al giovane paziente – non ci riuscirà. Oggi, dopo l’infusione di plasma iperimmune, ormai amico mio, stai molto meglio. La febbre quasi scomparsa. Migliorata l’ossigenazione. Meno ore di ventilazione meccanica. Tutto come da protocollo. Non sempre riusciamo a salvare tutti. Ma il più delle volte sì. E se qualcuno volesse solo provare ad intimidirmi, dovrà risponderne alla sua coscienza. La mia è limpidissima”.
Plasma iperimmune, Giuseppe De Donno costretto al silenzio dai vertici dell’ospedale. Ecco cos’è successo. Manuel Montero il 7 Maggio 2020 su frontedelblog.it. Lo pneumolgo Giuseppe De Donno, che ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus a Mantova, ha sospeso i suoi profili social per andare il silenzio stampa. L’Asst: “Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni”. Ma non tutto è chiaro…Cominciano ad essere più chiari i contorni del giallo sulla sparizione del profilo e della pagina Facebook del dottor Giuseppe De Donno, lo pneumologo che per l’ospedale di Mantova ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus. Il medico li avrebbe sospesi il giorno dopo la puntata di Porta a Porta in cui era ospite per mettersi in silenzio stampa. Racconta La Voce di Mantova: «A dare l’innesco è stata l’interruzione dell’intervento del dottor Giuseppe De Donno, titolare della pneumologia del “Poma”, cui Bruno Vespa ha tolto la parola durante la puntata di “Porta a porta” di martedì, durante la pausa pubblicitaria, senza più restituirgliela nel corso della puntata». Ecco cos’è accaduto:
A quanto spiegava il medico prima del black out, la sperimentazione del plasma iperimmune a Mantova – condotta unitamente al San Matteo di Pavia – aveva coinvolto 48 pazienti: e nessuno dei 48 pazienti era morto. Tanto che identici programmi sono iniziati altrove, nel mondo, ma nella stessa Lombardia, da Lodi a Crema, come abbiamo avuto modo di raccontarvi. Tra i guariti (con miglioramenti che cominciavano quasi subito, dalle 2 alle 48 ore dall’infusione) c’era anche Pamela Vincenzi, 28enne incinta di sei mesi: unico caso al mondo. Ma un caso che aveva pure indotto i Nas a chiedere chiarimenti all’Asst, non essendo prevista l’infusione in una donna gravida. E c’è anche il caso di un uomo dato per spacciato e salvato a Mantova da De Donno dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma cos’è successo poi? Il quotidiano mantovano riporta una nota che l’Unità di crisi avrebbe trasmesso alla direzione dell’ospedale di Mantova: «La struttura comunicazione è l’unico canale comunicativo ufficiale dell’Asst. Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni per le quali i risultati non siano ancora stati pubblicati senza l’autorizzazione rilasciata dalla Direzione attraverso coinvolgimento della dottoressa Elena Miglioli come da regolamento vigente». Ma il bollettino n. 52 del team dell’Unità di crisi avverte anche che «l’articolo relativo alla sperimentazione con il plasma convalescente è stato sottoposto al “New England Journal”, siamo in attesa della risposta per la definitiva validazione dei dati che dovrebbero giungere entro la prossima settimana». Il New England è forse la più importante pubblicazione medico scientifica del mondo: evidentemente, per aver deciso di sottoporle la sperimentazione, ci sono stati a Mantova significativi risultati. E forse si è deciso di usare la linea della prudenza. De Donno paventava presunte pressioni sul suo lavoro e sui social si erano diffuse voci, dicono, complottiste. Eppure stiamo parlando di una tecnica collaudatissima che ha cento anni, non di pozioni miracolose, non di bizzarre terapie: semplicemente l’articolazione del protocollo di De Donno starebbe dando risultati eccelsi. De Donno sostiene che abbia funzionato anche dove ha fallito l’ormai noto farmaco contro l’artrite reumatoide tocilizumab. Ma sul sito dell’Asst di Mantova appare ora un messaggio che prova a far chiarezza, ma che si conclude in maniera sibillina: L’ASST di Mantova ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione. Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati. Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni, si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione. La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica.
Che cosa significa che anche a Mantova ci sono stati dei morti? Nessuno l’aveva messo in discussione, tantomeno De Donno. Lo pneumologo aveva detto che dei 48 pazienti sottoposti a plasma iperimmune nessuno è morto; non aveva detto che tutti i pazienti di Mantova erano stati sottoposti a plasma iperimmune. Aveva anzi chiarito come il plasma potesse essere infuso solo a determinate condizioni. A cosa serve dunque la nota finale? Perché uno potrebbe intendere che ci siano state vittime anche tra quelle sottoposte a plasma. E dunque che ciò che ha detto il medico non corrispondesse alla realtà. E questo non va bene: per la sua immagine e per quello dell’ospedale. Fatelo parlare, lasciate che sia lui a chiarire eventuali equivoci e che la gente sia informata direttamente dalla fonte di chi sta a contatto coi pazienti 18 ore al giorno. Il silenzio stampa, di fronte a decine di migliaia di morti, non è una bella soluzione. Soprattutto in Lombardia, dove le bare furono portate via con l’esercito due settimane dopo aver sentito i virologi dire in tv che questa era solo una «forte influenza» e che in Italia, per carità, non c’era «alcun pericolo». Persone che, ancora, senza vergogna, discettano di ridicole certezze.
Dal plasma iperimmune al giallo su Facebook: scomparso il profilo di De Donno. Le Iene News il 7 maggio 2020. È il simbolo della possibile terapia che potrebbe curare il coronavirus con il plasma iperimmune. Proprio martedì sera a Le Iene Giuseppe De Donno, primario dell’ospedale di Mantova, ha spiegato come funziona questa possibile terapia. Dopo qualche ora dalla messa in onda del servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini i profili Facebook del professore risultano irraggiungibili come se qualcuno li avesse disattivati. Chiusi i profili Facebook di Giuseppe De Donno? Il primario di pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova è diventato il simbolo per una possibile cura del coronavirus. Anziché ricorrere al vaccino atteso non prima di un anno, il professore ha avviato la sperimentazione del “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Nel servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini che vi riproponiamo qui sopra abbiamo cercato di capire come funziona questa possibile terapia. Proprio dopo la messa in onda su Italia 1 del nostro servizio, De Donno è scomparso dai social. I suoi profili sono irraggiungibili, come se fossero stati chiusi. Cos’è successo? Proviamo a ricostruire questa lunga settimana per tentare di dare una risposta. Proprio Facebook per lui si è trasformato in un campo di battaglia già da sabato scorso. Su iene.it vi abbiamo parlato dello scontro tra De Donno e Roberto Burioni (qui l’articolo). “È qualcosa di serio e già utilizzato”, ha detto il virologo riferendosi alla sperimentazione in corso di De Donno. Parole che a quest’ultimo non sono andate giù: “Il signor scienziato si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, ha replicato il medico. E poco dopo ha rimarcato: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Passano le ore, De Donno rimane al centro della polemica. “Salvo vite con il plasma iperimmune e da Roma mi mandano i carabinieri”, titola La Verità di martedì riferendosi a una sua dichiarazione. Un titolo che dopo qualche ora viene ridimensionato dallo stesso professore che parla di una “chiamata informativa” da parte dei carabinieri. È possibile che i Nas abbiano voluto verificare che tutti i protocolli siano stati osservati. Come ad esempio se il numero totale delle persone arruolate fosse quello previsto dal protocollo. “Con queste trasfusioni sono in via di guarigione 48 pazienti e ad altri 10 è stato chiesto di fare altrettanto”, dichiara De Donno nella giornata di martedì. Nella puntata di martedì a Le Iene vi abbiamo mostrato questo studio, e il primario ci ha spiegato “che è l’unica terapia mirata in questo momento”. Dopo poche ore la sua scomparsa dai social. I suoi due profili Facebook risultano ancora irraggiungibili. È stato fatto dal social network o forse è una decisione presa dallo stesso De Donno? Qualcuno parla di “silenzio stampa” e quindi di un gesto volontario. E se così fosse, perché è stato fatto?
I poteri forti "censurano" il profilo del dottor De Donno, la bufala cavalcata da Salvini. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Quando si tratta di cavalcare bufale e tesi complottiste, in Italia la Lega e Matteo Salvini sono sempre in prima fila. Non contenti di aver contribuito a diffondere, con tanto di interrogazione parlamentare, il video del Tg Leonardo del 2015 sul Coronavirus, un filmato scientificamente corretto ma strumentalizzato per far passare il messaggio che il Covid-19 fosse stato realizzato in un laboratorio cinese, ora è il turno del dottore Giuseppe De Donno. Il medico pneumologo dell’ospedale Carlo Poma di Mantova è diventato in queste settimane un volto noto al pubblico televisivo per la sua terapia sperimentale col plasma per curare i pazienti affetti da Coronavirus. Ma il medico è anche al centro di diverse teorie complottiste, in parte rilanciate dallo stesso De Donno, tra cui la finta irruzione dei Nas nell’ospedale (in realtà una semplice telefonata per il caso di una donna incinta curata con la terapia) o il complotto di governo, poteri forti e Bill Gates contro la sua terapia per facilitare l’ascesa del vaccino finanziato dal miliardario americano. L’ultima bomba sul medico riguarda il presunto oscuramento della sua pagina personale di Facebook, diventata oggetto di teorie complottiste sui social e cavalcata da Lega e Salvini. La realtà? È stato lo stesso medico a decidere di disattivare il suo account, altro che poteri forti. A rivelarlo è stato un suo “portavoce”, come viene definito da alcuni utenti il profilo di Leonardo M. che nel gruppo Facebook “Io sto con il dott. De Donno” scrive chiaramente che “la pagina l’ha chiusa lui stesso, mi ha detto solo che per ora non può dire niente”. Di silenzio stampa autoimposto parla invece su Twitter l’utente Bonnie379, che aveva provato ad intervistare De Donno: “Sono finalmente riuscita a contattare il Dott De Donno. È in silenzio stampa, quindi annulla l’intervista di domani sera”, riferendo poi di “fonti sicure” che rivelano come il dottore “è molto provato, ha cancellato lui stesso la pagina e per ora non può rilasciare dichiarazioni”.
Quarantena, autopsie e plasma iperimmune: tre domande al ministro della Salute. Le Iene News il 20 maggio 2020. Quarantena, autopsie sulle vittime del coronavirus e plasma iperimmune: Alessandro Politi ci racconta alcune cose che non siamo riusciti a capire nelle decisioni del ministero della Salute in questa crisi. Dopo aver parlato con il professor Giuseppe De Donno della sperimentazione del plasma iperimmune, abbiamo fatto alcune domande al ministro della Salute Roberto Speranza. Perché non avete ancora aggiornato i protocolli per le quarantene? Perché avete sconsigliato di fare le autopsie ai casi conclamati di Covid-19? Perché l’ospedale di Mantova è stato estromesso dalla sperimentazione nazionale del plasma iperimmune? Sono le tre domande che rivolgiamo al ministro della Salute, Roberto Speranza, ora che tutta Italia è entrata nella Fase 2 dell’emergenza coronavirus. Partendo dal primo quesito, Alessandro Politi ci ha raccontato di essere stato positivo per ben 49 giorni e purtroppo non è un caso isolato, nonostante i numeri regionali continuano a consigliare “una quarantena di 14 giorni dalla fine dei sintomi”. Durante l’emergenza sanitaria il ministro ha firmato un decreto in cui scrive che “per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19”. C’è chi ha preferito non seguire queste indicazioni come il professore Paolo Dei Tos, dirigente di anatomia patologica all’Università di Padova: “Una scelta che non aveva senso, noi oggi sappiamo che il virus rimane all’interno dei liquidi biologici per alcuni giorni. Abbiamo compreso che non si tratta semplicemente di una banale polmonite. Probabilmente il ministero ha consigliato di non fare le autopsie per un eccesso di zelo nel non esporre gli operatori a un rischio giudicato da loro non sufficientemente utile”. Il ministero della Salute ha dato il via libera a una sperimentazione sul plasma iperimmune che ha messo a capo l’ospedale di Pisa, nonostante a Mantova ci lavoravano con successo già da due mesi. “Un protocollo preso da esempio da molti stati europei”, dice Giuseppe De Donno, direttore di terapia intensiva al Carlo Poma di Mantova. “Alla fine Speranza con me non si è fatto vivo, nonostante la prima certificazione dello studio sia di Mantova e Pavia”, dice a Le Iene. “Non ci sono motivi scientifici per questo nuovo studio a Pavia, le motivazioni vanno cercate in altro ambito. C’era la volontà di chiudere il plasma in cantina”. Ma nessuno sembra si sia scagliato allo stesso modo contro le sperimentazioni con i farmaci. “In questo paese si usano due pesi e due misure”, sostiene De Donno. Pochi giorni fa l’Emilia-Romagna ha bocciato la plasma-terapia. “Gli esperti in tv creano un effetto negativo sull’opinione pubblica e sarebbe il caso che si assumessero le loro responsabilità, i pazienti guariti così non verranno mai a donare e quelli attualmente malati non potranno ricevere il plasma dai convalescenti”, dice De Donno. “È una cosa gravissima. Abbiamo avuto scienziati che dicevano che per ammalarsi di coronavirus bisognava andare a Wuhan…”. Ora è importante creare le banche del plasma dei guariti che sono in numero maggiore rispetto agli ammalati, ma non sappiamo fino a quando il loro plasma rimane iperimmune. “Dobbiamo essere prontissimi qualora dovesse arrivare una seconda fase, se continuiamo così la Lombardia e il Veneto saranno pronti”. Intanto che il governatore Zaia è partito con la raccolta del plasma due settimane fa, rimangono senza risposta le nostre 3 domande che abbiamo fatto al ministro Speranza.
Coronavirus, Salvini: “Perché nessuno parla della terapia al plasma?” Marco Alborghetti il 05/05/2020 su Notizie.it. Il leader della Lega Salvini chiede spiegazioni riguardo al presunto silenzio dei media sulla terapia al plasma utilizzata contro il coronavirus. Il leader della Lega Matteo Salvini su Twitter ha parlato della terapia al plasma utilizzata per curare i malati di coronavirus negli Stati Uniti e all’ospedale di Mantova, chiedendo spiegazioni sul silenzio che aleggia intorno alla notizia, nonostante la sua efficacia. Un implicito attacco alle aziende farmaceutiche? Matteo Salvini tuona di volerci vedere chiaro sulla questione della terapia al plasma che negli Usa e all’ospedale di Mantova avrebbe trovato consistenza in termini clinici per la cura del coronavirus, esprimendo con toni polemici la propria opinione a riguardo e attirando non poche polemiche. “Dateci una mano facendo sapere agli italiani quello che molte televisioni nascondono, il fatto che funziona una cura il virus ed è gratis o quasi”. Una terapia che come ricorda lo stesso leader della Lega “è dovuta all’ingegno dei medici, dei ricercatori e dei donatori di plasma”.
Attacco alle aziende farmaceutiche. Il silenzio che si è creato attorno alla notizia ha destato qualche sospetto nell’ex ministro degli Interni: “Perché non sperimentarla a livello nazionale? Perché il silenzio del ministero della Salute, perché il silenzio dell’istituto superiore della sanità?”. “I cittadini – sottolinea con tono sarcastico – a questo punto potrebbero avere il dubbio che siccome il plasma è gratis, siccome non c’è dietro un business di qualche industria farmaceutica, siccome non ci sono appalti e guadagni milionari, allora è meglio occuparsi di altro“.
Cura al plasma, De Donno saluta: mi faccio da parte, per il bene della scienza. Lo hanno costretto? Redazione venerdì 8 maggio su Il Secolo d'Italia. Cura al plasma, il dottore-sponsor Giuseppe De Donno si autocensura. Dopo la sparizione dai social è arrivato il videomessaggio di cinque minuti nel quale il direttore di Pneumologia al Poma di Mantova, il principale paladino della cura al plasma iperimmune per battere il Covid, annuncia che farà un passo indietro. Che non cerca visibilità, che ringrazia le istituzioni e anche i Nas che hanno voluto indagare sui suoi metodi. Dice che non vuole zuffe tra colleghi e che non vuole utilizzare i morti per fare pubblicità. Ringrazia chi lo ha sostenuto e invita i gruppi social in suo sostegno a lanciare solo messaggi di pace e amore.
De Donno si fa da parte, un’imposizione dall’alto?
“Sembra un prigioniero dell’Isis”, ha commentato Selvaggia Lucarelli, facendo intendere che lei propende per l’ipotesi secondo cui a De Donno è stato intimato il silenzio. Troppi interessi in gioco, troppo pericolosa la divaricazione che si era creata tra lo schieramento in favore di De Donno e i suoi detrattori per i quali senza vaccino il virus non è imbattibile. I virologi da talk show lo hanno attaccato, i media lo hanno trascurato fino a quando la pressione dal basso dei social è stata talmente evidente da non poter più ignorare il caso De Donno. Ora lui stesso si fa da parte, ristabilendo equilibri e gerarchie tra poteri e lobby sanitarie che la sua cura “per il popolo” aveva destabilizzato. Ecco cosa ha detto nel suo videomessaggio: “La pressione mediatica è stata tale da non permettermi di operare serenamente. Per questo motivo ho reputato prudente chiuderei miei account social”.
Ha detto poi di voler lanciare un “messaggio di calma e rasserenazione”. “Se ho parlato l’ho fatto per fare informazione ma non come mezzo per azzuffarsi, i miei interventi sui mass media sono stati solo animati da spirito divulgativo su un protocollo che ottiene risultati lusinghieri e incoraggianti”. Un protocollo – ha specificato – che tanti Stati ci invidiano e che ora viene seguito da più centri in Italia.
Lavoriamo tutti per la lotta al virus. “Vi ringrazio per la vicinanza- ha detto poi ai suoi sostenitori – ma non sono disponibile a zuffe mediatiche atteso che tutti noi medici lavoriamo per una causa unica che è la lotta al virus. Non utilizzo i morti per fare pubblicità. Manterrò un profilo basso in attesa che arrivino i risultati sulla sperimentazioni che riguardano l’Italia e il mondo”.
Massimo Finzi per Dagospia l'8 maggio 2020. Un po' di chiarezza a proposito della terapia con plasma iperimmune nella lotta al Covid19. E’ una cura innovativa? No, è stata impiegata per la prima volta su basi scientifiche nella seconda metà del 1800 dal Prof. Paul Ehrlich, uno scienziato ebreo tedesco premio Nobel. In pratica una cura che prevede la somministrazione per via iniettiva di siero prelevato da persone o animali resi immuni da una determinata malattia. Esistono varie forme di sieroterapia: antitossica, antibatterica ecc. Una pratica che in oltre 140 anni ha permesso di affrontare malattie come difterite, tetano, botulino o di neutralizzare il veleno di serpenti, scorpioni ecc. Nel caso del covid19 si tratta di usare il plasma dei soggetti guariti dalla malattia contenente gli anticorpi specifici contro il coronavirus Sars2. Allora tutto risolto? Ci sono alcune criticità.
1) Il prelievo presuppone che ci siano i donatori cioè che ci siano persone che abbiano contratto e superato la malattia.
2) Per una singola infusione sono necessari almeno 2 donatori.
3) La donazione è gratuita ma gli accertamenti di laboratorio, la separazione delle varie frazioni del sangue (plasmaferesi) necessitano di personale altamente specializzato e di apparecchiature costose.
4) I candidati alla donazione non sono numerosi per vari motivi: a) la malattia è molto debilitante. b) la maggior parte dei malati sono molto anziani. c) Non possono donare il sangue i diabetici, gli ipertesi, coloro che assumono cronicamente farmaci ecc.
5) Malgrado gli esami più accurati, l’infusione di emoderivati non è esente dal rischio di trasmissione di malattie infettive specie epatite B/C ( finestra immunologica).
Ovviamente vale sempre la regola: a mali estremi estremi rimedi. Molto promettenti al riguardo sono gli studi condotti in Israele per produrre sinteticamente (clonazione) l’anticorpo specifico verso il covid19 in attesa del vaccino. Quale la differenza tra l’azione dell’anticorpo e quella del vaccino? Sinteticamente: l’anticorpo contrasta la malattia, il vaccino la previene: il primo cura il malato il secondo impedisce al sano di diventare malato.
Il plasma può fermare il Covid-19? La risposta degli esperti. Francesco Boezi su Inside Over l'8 maggio 2020. Il professor Pietro Chiurazzi è un genetista. Si occupa di Dna. E il Dna, in qualche modo, ha a che fare con questa storia del plasma dei guariti dal Covid-19. Vedremo bene perché. Chiurazzi è un professore associato della Università Cattolica, Facoltà Medicina e Chirurgia. All’interno del Policlinico Gemelli, è un dirigente medico dell’Unità operativa complessa di genetica medica. “C’è molta confusione in giro”, esordisce.
Una “confusione” che può però essere “giustificata” per via dello stato di emergenza, che certo non facilita una descrizione chiara del quadro. Chiurazzi ha anche comparato le sequenze del Dna del Sars-Cov2, contribuendo a dimostrare, con buone probabilità, la compatibilità del virus con un’evoluzione naturale. Il Covid-19 nulla dunque avrebbe a che fare con manipolazioni umane da laboratorio. In questo articolo, abbiamo già parlato di quello studio.
L’argomento del giorno, dal punto di vista medico-scientifico, è il plasma dei guariti…
«Un punto mi risulta chiaro: a rigor di logica, questo trattamento ha una sua utilità. In molti casi, specie in situazioni di emergenza, l’uso del plasma dei guariti può essere determinante. Sul lungo periodo, invece, il plasma non è certamente la soluzione migliore. La nostra speranza è che, avendo adesso una maggiore conoscenza della patologia e dell’infezione, non sia più necessario arrivare a rianimare un paziente. Bisogna fare testing a pioggia (tamponi per l’Rna virale ai sintomatici e ricerca degli anticorpi agli asintomatici ed ai guariti), più test possibili e più presto possibile, in modo tale da iniziare a fare prima ciò che deve essere fatto, a seconda del quadro clinico».
Più test possibili, ma il sistema immunitario sembra rispondere in modo diverso da paziente a paziente..
«Se ci sono delle difficoltà respiratorie, possono essere utilizzate coperture cortisoniche importanti. Infatti, apparentemente, una iper-reattività del sistema immunitario innato di alcuni pazienti rappresenta una concausa importante dei problemi respiratori. In alcuni casi, non è tanto il virus che uccide cellule e polmoni, ma è l’eccessiva reazione immunitaria a colpire. La risposta immunitaria, in alcuni soggetti, è esagerata. Questa iper-reattività potrebbe dipendere anche da fattori genetici: il Dna, in alcune circostanze, ordina di rispondere in quel modo. Quindi alcuni pazienti guariscono proprio grazie al sistema immunitario, mentre altri, invece, avendo una reazione esagerata, fanno sì che i polmoni si riempiano di liquido per la troppa infiammazione. Inoltre è importante prevenire una tromboembolia polmonare (e non solo) iniziando tempestivamente, ma sempre sotto controllo medico, una terapia anticoagulante con eparina».
E quindi il plasma dei pazienti guariti?
«Serve, ma è una scelta di emergenza. Bisogna avere un donatore compatibile con lo stesso gruppo sanguigno e poi le donne non possono donare. Infatti, donne in età fertile o che abbiano avuto delle gravidanze, sviluppano degli anticorpi anti-Hla che possono essere molto pericolosi per il ricevente. Infine esiste un rischio di reazione allergica (fino a shock anafilattico) per alcuni soggetti che reagiscono a proteine del plasma che differiscono naturalmente tra individuo e individuo o di cui, per motivi genetici, possono essere privi. E questo potrebbe avvenire nel corso di una seconda somministrazione».
Quindi ci sono dei rischi..
«Dei rischi ci sono. Quelli infettivi però sono bassissimi. In Italia c’è un alto grado di controllo sulle donazioni. Ad esempio il rischio di contrarre l’epatite B con l’uso di emoderivati è inferiore ad uno su un milione. Non possiamo escludere mai del tutto ogni rischio, ma in certi casi il gioco può valere la candela».
E i costi della trasfusione del plasma dei guariti?
«Di per sé i costi non sono enormi».
Ma il plasma è comunque sottoposto a molti attacchi…c’è un pregiudizio ideologico?
«Il costo – come detto – non è eccessivo, ma la preparazione e l’organizzazione dovrebbero essere molto accurate. Noi al Gemelli potremmo in teoria somministrare il plasma dei guariti. Però attenzione: non tutti gli anticorpi di coloro che sono guariti dal Covid-19 sono neutralizzanti, cioè in grado di bloccare la progressione della infezione. Significa che non tutto il plasma di tutti i guariti risulta davvero utile contro il virus. Per valutare il titolo degli anticorpi dei soggetti guariti servirebbe un laboratorio di microbiologia con livelli di sicurezza molto elevati perché bisogna poter maneggiare il virus. E perché è necessario dimostrare su colture cellulari che quegli anticorpi di quello specifico donatore sono capaci di bloccare l’infezione. Però, dagli studi su altri coronavirus, sappiamo che un certo quantitativo degli anticorpi sviluppati è comunque neutralizzante e praticamente tutti i pazienti finora analizzati producono anticorpi a partire da 20 giorni dopo l’inizio dei sintomi».
E quindi?
«Si può supporre che, al di sopra di un certo titolo anticorpale contro questo nuovo coronavirus, il plasma di un soggetto guarito sia neutralizzante. E’ possibile che in Lombardia, per via della assoluta emergenza, qualche verifica sia stata saltata, senza preoccuparsi insomma se c’erano titoli sufficienti di anticorpi effettivamente “neutralizzanti”. L’alternativa, del resto, era quella di non fare nulla, mentre gli studi dei colleghi cinesi hanno confermato una certa efficacia delle trasfusioni di plasma. Ora attendiamo la pubblicazione dei dati relativi ai trattamenti eseguiti dai colleghi del Nord del Belpaese».
Sembra nascere un derby tra sostenitori del vaccino e sostenitori del plasma…
«Penso che questo sia un contrasto sbagliato e controproducente. Possono servire entrambi gli strumenti in contesti epidemiologici diversi. Sulla linea del fonte, con la medicina di guerra, tutto può essere utile. Il plasma del donatore guarito può essere d’aiuto. Il vaccino, quando l’infezione è avanzata, non serve a niente. Tutti ci auguriamo che il vaccino arrivi ed è possibile che divenga presto realtà con i tanti laboratori impegnati nel suo sviluppo. Alcuni temono che il virus muti troppo rapidamente per ottenere un vaccino valido per tutti i “ceppi” circolanti, ma alcune proteine, come la Spike (le antenne del virus che ne consentono l’ingresso tramite il recettore ACE2) sembrerebbero essere più “costantei”, per cui la speranza di un vaccino è fondata. Certo dovrebbe essere disponibile a costi accessibili e ovviamente proposto su base volontaria ai soggetti più “fragili” ed agli operatori sanitari che sono professionalmente più esposti».
Coronavirus, il plasma umano? Poco "remunerabile", ecco perché nessuno dà retta al dottor De Donno. Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Tiene banco la questione del plasma iperimmune con anticorpi policlonali, quella che ad oggi sarebbe la cura più efficace contro il coronavirus. Tiene banco anche per la denuncia del dottor Giuseppe De Donno, direttore di Pneumologia e Terapia intensiva respiratoria del Carlo Poma: "Non abbiamo un decesso da un mese. I dati sono splendidi. La terapia funziona ma nessuno lo sa". De Donno, in buona sostanza, spiega che governi stranieri si sono rivolti a lui per la cura mentre, in Italia, nessuno gliene ha chiesto conto. Da qui, una teoria un pelo complottista: dato che è una cura su cui è quasi impossibile monetizzare, ovvero fare soldi, non interessa a nessuno. Ragione per la quale De Donno sarebbe sparito. Il punto è che la sieroterapia col plasma iperimmune ha il limite che nessuno può commercializzarla o brevettarla, almeno in Italia. Non è un farmaco perché trattasi di plasma donato dai pazienti ed è una cura antica che si usa da 100 anni.
"Governo e Iss disinteressati, forse perché è gratis". Virus, il dubbio di Salvini sulla cura al plasma: giocano sulla nostra pelle?
Lo spiega Affaritaliani.it, che ricorda come "è stata utilizzata ogni volta che non c'erano altre terapie utili o un vaccino, come contro le epidemie di Spagnola, l'Ebola, la Sars, la Mers. È sicura e controllata come può esserla una trasfusione moderna. Ma non sembra vada bene". Anche il governatore Luca Zaia aveva lanciato un appello a favore della sperimentazione. Ma sempre Affaritaliani.it ha interpellato i direttori del San Matteo e del Carlo Poma, che hanno spiegato che "il plasma iperimmune si basa sull’azione di anticorpi policlonali neutralizzanti per il Sars-Cov-2, prelevati da pazienti già guariti dal Covid. Gli anticorpi policlonali trasfusi nei malati, debellano il virus in tempi rapidi, dalle 2 alle 48 ore, bloccando il danno sugli organi. Le somministrazioni controllate possono avvenire a distanza di 48 ore l’una dall’altra, nel caso un'unica infusione non vada a segno".
"Facile e veloce, così i guariti possono salvare tante vite". Anche la 'iena' Politi dona il sangue per la cura al plasma.
Il sangue umano ancora non si può riprodurre artificialmente nella sua complessità. La sieroterapia funziona con il plasma, una parte del sangue. E l'efficacia della terapia realizzata con plasma artificiale, da realizzare in laboratorio e dunque commercializzabile, è ancora tutta da valutare. "In questo momento il plasma iperimmune che ci viene donato è il più sicuro al mondo", spiega ad Affaritaliani Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del policlinico San Matteo. E ancora, spiega che "la legislazione italiana ha delle regole stringenti che non ci sono in Europa e in nessun altro Paese al mondo, neanche negli Stati Uniti. Non solo abbiamo gli esami obbligatori di legge sul plasma per essere trasfuso, ma abbiamo degli esami aggiuntivi e il titolo neutralizzante degli anticorpi che è una cosa che facciamo solo noi al policlinico di Pavia. Neanche gli americani sono in grado di farlo in questo momento. Non ha eguali al mondo. Noi sappiamo la potenza, la capacità che ciascun plasma accumulato ha di uccidere il virus. Ogni plasma è fatto in modo diverso perché ogni paziente è diverso, ma noi siamo in grado di sapere quale usare per ogni caso specifico”. Resta un evidenza, però: la sieroterapia da Mantova e Pavia si sta diffondendo in tutto il mondo. Ma è un metodo vecchio, come detto poco remunerabile, si basa sulla solidarietà di chi è guarito. E se non c'è un complotto dietro al suo mancato utilizzo, per certo ci sono delle ragioni che ci devono spingere a fare qualche riflessione.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 10 maggio 2020. È una brutta storia quella del dottor De Donno. Una storia che parte in un modo e diventa altro, una storia luminosa di una sperimentazione col plasma che sembra suggerire risultati incoraggianti e che poi si trasforma in tifo, strumentalizzazioni, complottismo da bar. Con un epilogo – il video di oggi in cui De Donno legge un comunicato con l’aria rigida e innaturale del rapito dall’Isis – che non lascia presagire niente di buono. Partiamo dall’inizio. Giuseppe De Donno è primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova. In questa struttura e al Policlinico di Pavia, si sperimenta la plasmaterapia per guarire i pazienti Covid che non hanno più di 10 giorni di problemi respiratori pregressi. Oggi la tecnica comincia ad essere sperimentata in diversi ospedali d’Italia tra cui lo Spallanzani, ma in effetti gli ospedali di Pavia e Mantova in Italia sono stati i primi. Nel mondo, invece, la sperimentazione avviene già in numerosi paesi tra cui gli Stati Uniti. La sperimentazione, a Mantova, ha dato buoni risultati: dei 48 pazienti trattati con il plasma, non c’è stato alcun decesso e tutti i pazienti sembrano sulla strada della guarigione. La plasmaterapia, va ricordato, non è un’invenzione di De Donno ma è una tecnica antica che venne utilizzata già nei primi del Novecento per curare la difterite. La complicata storia di De Donno inizia quando il primario fino a quel momento sconosciuto nella costellazione degli esperti sul campo, racconta con enfasi il successo della sperimentazione. De Donno non ha modalità di comunicazione tecniche, non ha il phisique du role del trombone della medicina, non ha fatto il tour dei salotti buoni della tv e lavora in un ospedale di provincia. Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare l’idolo del popolo. Quando inizia a parlare del successo della plasmaterapia sui pazienti trattati, il suo nome e la sua faccia iniziano a circolare. De Donno si concede per interviste, scrive post carichi di entusiasmo sui suoi social, comincia ad essere citato su giornali nazionali e la sua sperimentazione diventa un tema appassionante, sebbene ancora poco mainstream. Il cambio di rotta avviene quando il virologo influencer Roberto Burioni interviene sul tema. È fine aprile e Burioni pubblica un video in cui sottolinea l’importanza della plasmaterapia, aggiungendo che però non è niente di nuovo, che ha le sue criticità relative alla sicurezza del sangue dei donatori e che si potrebbe produrre del plasma artificiale. De Donno ha una reazione molto accesa e in un post su Facebook scrive: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il Coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di Avis. Glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano. Condividete questo post, amici. Forse arriviamo al prof. E gli potrò chiedere un autografo! PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”. Il post, forse scritto con una foga eccessiva ma genuina e di certo senza calcoli sull’effetto che avrebbe potuto generare, conteneva in sé tutti gli elementi per diventare una miccia micidiale. Finalmente un medico delle “retrovie” mediatiche che si oppone alla prosopopea del potente Burioni. Quello che va ospite da Fabio Fazio, a Che tempo che fa. Quello che da vera star, in questa fase ha un contratto d’esclusiva con il programma di Fazio ed è rappresentato da un’agenzia bolognese, Elastica, assieme ad altri personaggi di diversi ambiti, da quello televisivo a quello letterario. Quello che è amico di Renzi e a lui Renzi aveva chiesto di candidarsi. Ed è così che De Donno diventa l’idolo delle masse. Di quelli che detestano la sinistra da salotto, di quelli che combattono i poteri forti coi meme e i gruppi Facebook, di quelli che “dobbiamo sconfiggere la lobby dei farmaci” e quindi di anti-vaccinisti e di una ciurma variegata di personaggi strambi. Oltre che di persone ragionevoli e dalla parte della sperimentazione seria, di persone che amano la discrezione del medico che lavora in corsia e meno le sicurezze di quello che pontifica in tv pur non occupandosi di terapie e pazienti. Insomma, di tutto un po’. Quel “Non siamo mammalucchi!” diventa un tormentone sul web, molti cittadini di Mantova lo ripetono tipo mantra in alcuni video. La situazione precipita dopo l’ultima puntata di Che tempo che fa, in cui si affronta il tema “plasmaterapia”. Roberto Burioni, ve detto, non critica affatto né la tecnica di cui ben conosce l’antica efficacia né la sperimentazione. Tra l’altro in collegamento c’è anche il virologo dell’ospedale di Pavia in cui avviene la stessa sperimentazione, Fausto Baldanti, che Burioni definisce “mio caro amico”, quindi non smonta affatto il suo lavoro. Ribadisce però che la plasmaterapia è molto costosa, che serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche e che probabilmente la strada è quella di produrre plasma artificiale. E questa è la svolta dell’intera vicenda. La storia che sembra bella diventa un circo triste di partigianeria e recriminazioni, di politica e potere. Il giorno dopo De Donno si lamenta ai microfoni di Radio Bruno: “Burioni ha detto parole inaccettabili. La plasmaterapia non è costosa e il sangue è sicuro. In Italia non mi chiama nessuno, quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto”. E poi, altrove, De Donno racconta che i Nas si sono messi a controllare il suo operato, che lui cerca di fare il bene della medicina e gli mettono il bastone tra le ruote. Gli elementi perché la politica se ne approfitti e cavalchi la tifoseria ci sono tutti. E così Salvini si attacca al carrozzone De Donno senza che De Donno gliel’abbia chiesto e scrive che la plasmaterapia funziona ma siccome le lobby farmaceutiche non ci possono speculare sopra, il Ministero della Salute si disinteressa. In pratica Salvini è meglio di Nature: lui decide che la cura funziona. Nascono gruppi Facebook con 40mila fan di De Donno , per esempio “Io sto con il dottor De Donno”. Anche il vecchio gruppo “Gli amici di Gesù” viene ribattezzato “#iostocondedonno”, come a dire che De Donno è il nuovo Messia. Chi osa esprimere anche un velato scetticismo sulla plasmaterapia come svolta definitiva per la cura del Covid viene bersagliato da una valanga di critiche e insulti su Twitter, come accaduto all’immunologa Antonella Viola che ieri, a Piazza Pulita, ha solo detto: “La terapia non sostituisce il vaccino, perché il plasma dei guariti può essere una cura ma non una prevenzione”. Che è una semplice verità, non un giudizio. Ma ormai De Donno è stato eletto, suo malgrado, icona della medicina pura e dura contro i poteri forti e il complottiamo è inarrestabile. Porta a Porta lo invita ma taglia una parte dell’intervista e “chissà cosa aveva detto di scomodo il dottor De Donno”. Spariscono, infine, tutti i profili social di De Donno e questa diventa la conferma definitiva che il coraggioso, piccolo medico di provincia (che poi è un fior di primario in un fior di ospedale) è caduto sotto la scure del Burionesimo. Salvini e i siti della Lega alimentano il sospetto con post insinuanti, circolano voci che De Donno sia stato invitato dalla Direzione sanitaria a stare zitto, sui siti che lo sostengono si respira aria di preoccupazione come se fosse legato e imbavagliato in una cantina sotto la terapia intensiva. Qual è la verità? Indagando sull’accaduto e ascoltando la voce di chi conosce lui e anche alcuni di quelli che non lo amano, l’impressione è che per vedere il fondo del lago si debba stare in quel punto a metà tra la riva e il centro del lago. Da una parte c’è un medico entusiasta, un appassionato che in questo momento si sente un soldato al fronte, per cui il camice è una divisa. Dall’altra, forse, c’è un mondo di rigidi professori disabituati ai post rissosi di un medico fuori da certi circoli di amici e grandi luminari. Nessuno oserebbe dire a Burioni di non dileggiare la Gismondo o di non fare il bullo sui social, di sicuro qualcuno – probabilmente la Direzione sanitaria, ma non mi stupirei se le lamentele fossero partite da più lontano – ha invitato De Donno e i responsabili della sperimentazione a tacere, a mantenere un atteggiamento sobrio. È però anche vero che De Donno non è stato ostacolato nel suo lavoro, che sebbene Burioni ma anche la Capua o Pierluigi Viale, direttore delle malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna, abbiano sottolineato alcune criticità nel metodo, nessuno ha mai detto che la sperimentazione non s’ha da fare. E se è vero che Burioni ha rilasciato affermazioni poco veritiere come quelle secondo le quali la plasmaterapia sarebbe una terapia costosa (De Donno ha obiettato che le sacche da 300 ml costano 82 euro), il “pasionario” della plasmaterapia ha avuto modo di controbattere in più sedi e con la foga desiderata. “La democrazia non è un optional”, è la frase fissata sul profilo di Whatsapp di De Donno. E qui sorge il sospetto che la verità sia nel mezzo: intorno a De Donno c’è un po’ di puzza sotto al naso e De Donno soffre (un po’) della sindrome del perseguitato. Con queste premesse non poteva che diventare un caso di quelli da arruffare i popoli e da smuovere la politica degli avvoltoi. “Si è ridotto tutto a un misero scontro politico. Se voti Pd dileggi De Donno, se voti Salvini De Donno è infallibile, se voti 5 stelle confondi la sperimentazione col vaccino, se ragioni nel merito vedi un’opportunità su cui andare a fondo. Nel mezzo sarebbe il miglior regalo vedere il virus sparire all’improvviso, dissolversi nel nulla e portare via con sé qualche leader politico che vorremmo dimenticare e i più fanatici dei loro fan”, afferma la giornalista Clarissa Martinelli, che De Donno l’ha intervistato nel momento di maggior esposizione. Il tutto si conclude con un epilogo mesto. Oggi, dopo la sparizione dai social, De Donno è apparso in un video di 5 minuti in cui sembra l’ombra di se stesso. L’aria del guerriero del popolo ha lasciato spazio a rigidità e mancanza di naturalezza del rapito dall’Isis. De Donno legge un comunicato scritto da chissà chi, impappinandosi, e con aria poco serena chiede a tutti di rasserenarsi. Dice con un filo di voce: “Il mio era solo spirito divulgativo in cerca di un sereno confronto tra colleghi, non voglio zuffe mediatiche. Non ci sono gare tra colleghi. Manterrò un profilo molto basso, i risultati non sono solo personali ma di tutta la comunità. Ringrazio Mattarella, il Papa, i vescovi, il mio vescovo che mi ha cambiato la vita, Don Cristian, Don Sandro, i Nas”. Insomma, fa pace con quelli che fino a ieri erano i colleghi sboroni, ringrazia le istituzioni e i Nas e tutti quelli che aveva attaccato impavido, e poi già che c’è ringrazia tutta la Chiesa, dalla parrocchia allo stato pontificio. Il che è un peccato, perché il primario eroe un po’ “suo malgrado” un po’ “sua intenzione” sarebbe potuto diventare un riferimento interessante se si fosse opposto con coraggio a strumentalizzazioni da una parte e a snobismi altezzosi dall’altra. E invece è finita così. “Ha esagerato e l’ha capito”, dirà qualcuno”. “Gli hanno messo il bavaglio”, dirà qualcun altro. Certo è che si è passati da De Donno a Padre Maronno, in soli due giorni. E non è la fine che avremmo voluto.
Da adnkronos.com il 16 giugno 2020. Un farmaco economico, costa circa 6 euro a paziente, e ampiamente disponibile da tempo - l'antinfiammatorio steroideo desametasone - potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E' quanto emerge da uno studio dell'Università di Oxford (Gb). Secondo i ricercatori il desametasone riduce di un terzo il rischio di decesso per i pazienti posti in ventilazione. Questo farmaco, ricorda la “Bbc”, fa parte del più grande studio al mondo che sta testando i trattamenti già esistenti che potrebbero avere una efficacia contro Covid-19. I ricercatori hanno stimato che, se il farmaco fosse stato disponibile nel Regno Unito dall'inizio della pandemia di coronavirus, si sarebbero potuti salvare fino a 5.000 pazienti. Nello studio, condotto da un team dell'Università di Oxford, a 2.000 soggetti ricoverati in ospedale è stato somministrato desametasone. Questi sono messi a confronto con oltre 4.000 che non hanno ricevuto il farmaco. Ebbene, fra quelli in ventilazione, il desametasone ha ridotto il rischio di decesso dal 40% al 28%, mentre nei pazienti trattati con ossigeno è stato in grado di salvare una vita ogni 20-25 persone circa trattate con il medicinale. Secondo Peter Horby, a capo del team, "questo è finora l'unico farmaco che ha dimostrato di ridurre la mortalità e la abbatte in modo significativo. È un grande passo avanti". Il trattamento "dura fino a 10 giorni, il farmaco costa circa 6 euro, in totale si spendono in media meno di 40 euro per salvare una vita", evidenzia Martin Landray, ricercatore dell'Università di Oxford. Il desametasone non sembra aiutare però le persone con Covid-19 con sintomi più lievi e che non hanno bisogno di aiuto per la respirazione.
L’antinfiammatorio da 6 euro che guarisce dal Covid. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Un farmaco economico e ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio steroideo desametazone, potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio dell’Università di Oxford. Un farmaco economico, costa circa 6 euro a paziente, e ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio steroideo desametazone, potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio dell’Università di Oxford (Gb). Secondo i ricercatori il desametazone riduce di un terzo il rischio di decesso per i pazienti posti in ventilazione. Questo farmaco – ricorda la ‘Bbc’ – fa parte del più grande studio al mondo che sta testando i trattamenti già esistenti che potrebbero avere una efficacia contro Covid-19. I ricercatori hanno stimato che, se il farmaco fosse stato disponibile nel Regno Unito dall’inizio della pandemia di coronavirus, si sarebbero potuti salvare fino a 5.000 pazienti. Nello studio, condotto da un team dell’Università di Oxford, a 2.000 soggetti ricoverati in ospedale è stato somministrato desametasone. Questi sono messi a confronto con oltre 4.000 che non hanno ricevuto il farmaco. Ebbene, fra quelli in ventilazione, il desametasone ha ridotto il rischio di decesso dal 40% al 28%, mentre nei pazienti trattati con ossigeno è stato in grado di salvare 1 vita ogni 20-25 persone circa trattate con il medicinale. Secondo Peter Horby, a capo del team, “questo è finora l’unico farmaco che ha dimostrato di ridurre la mortalità e la abbatte in modo significativo. È un grande passo avanti”. Il trattamento “dura fino a 10 giorni, il farmaco costa circa 6 euro, in totale si spendono in media meno di 40 euro per salvare una vita”, evidenzia Martin Landray, ricercatore dell’Università di Oxford. Il desametasone non sembra aiutare però le persone con Covid-19 con sintomi più lievi e che non hanno bisogno di aiuto per la respirazione.
La cura anti-Covid da 6 euro? Il ministero sapeva, ma non rispose all'appello. Lo studio sul farmaco steroideo desametasone fa sperare. Ma già ad aprile una lettera inviata a Speranza chiedeva di favorire le cure col cortisone. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. La prudenza dice di aspettare che lo studio annunciato a Londra, ma non ancora pubblicato, venga reso fruibile da tutti per poterne valutare numeri e validità scientifica. Tuttavia, la notizia sul farmaco-anti-Covid da 6 euro permette di sfogliare indietro alcune pagine del grande libro del virus in Italia per andare a spolverare dettagli importanti sulla lotta nazionale alla pandemia. Visto che qualcuno aveva già suggerito al ministero della Salute di puntare su questa terapia, senza però ottenere risposta.
Come forse saprete ieri l’Università di Oxford ha annunciato di aver realizzato una ricerca su 2mila pazienti gravemente malati dopo l’infezione da coronavirus e trattati con il desametasone, un antinfiammatorio steroideo cugino del cortisone e del cortisolo. Stando ai dati, pare che il farmaco abbia ridotto fino a un terzo il rischio di morte dei pazienti. Il tutto grazie ad una spesa di circa 6 euro a confezione. Una grossa speranza, molto economica.
"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. Ora, la “scoperta” londinese non è proprio un “eureka” di quelli da premio Nobel. Nel senso che molti avevano già intuito che il cortisone potesse essere estremamente utile. Nella forma più grave e spesso letale del Covid-19, infatti, un ruolo fondamentale lo gioca il processo infiammatorio e la sua esasperazione, la cosiddetta tempesta di citochine. In pratica il virus arriva, sedimenta qualche giorno, poi scatena nell’organismo una reazione infiammatoria tale da provocare polmoniti drammatiche e, a volte, la morte. Come aveva rivelato ilGiornale.it, qualcuno si era accorto della bontà del cortisone almeno due mesi fa. Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell'Ospedale Cisanello di Pisa, e Piero Sestili, professore ordinario di Farmacologia a Urbino, insieme ad altri 50 colleghi firmatari avevano addirittura inviato una lettera a Roberto Speranza per invitarlo a cambiare strategia nella lotta al virus. Invece di puntare alle terapie intensive, scrivevano, meglio affidarsi al “caro vecchio” cortisone. La cosa incredibile è che il loro "protocollo" prevedeva proprio l'uso del desametasone, ovvero il farmaco studiato a Londra. La lettera, spedita il 24 aprile, venne consegnata anche a due parlamentari di maggioranza e al viceministro Pierpaolo Sileri. Ma il ministero non rispose mai all’appello.
Quel farmaco da soli 6 euro che salva le vite da Covid-19. Va detto che anche l’Oms sul tema si è sempre mostrata scettica e nelle prime fasi il cortisone era addirittura sconsigliato. Il timore si annidava, e si annida, nell’effetto immunosoppressivo del farmaco: se il virus è attivo, somministrare un medicinale che riduce le difese immunitarie potrebbe apparire un controsenso. "Si tratta di un problema secondario, perché la terapia in questo caso va seguita solo per pochi giorni e non c'è quasi tempo per produrre una consistente immunosoppressione - ci spiegavano Sestili e Ricciardi - Il beneficio nel bloccare la risposta infiammatoria anomala, invece, arriva praticamente subito. E il gioco vale la candela". Il problema è che ad oggi i vertici della sanità nazionale non hanno ancora dato indicazioni precise in merito: “Per ora il cortisone non è vietato, ma nemmeno caldeggiato - diceva Sestili - Direi che è solo tollerato. Eppure molti medici lo stanno utilizzando con effetti positivi". Un esempio su tutti. Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, oggi lo dice chiaramente: “Ci eravamo accorti dell'importanza del cortisone e del remdesevir nelle fasi precoci della malattia. Ci avevamo visto lungo". Dopo le notizie arrivate da Londra, i firmatari del protocollo inviato a Speranza naturalmente festeggiano. : “Che soddisfazione! - ci scrive Ricciardi - È quello che dico a tutti da febbraio”. Solo che qualcuno non sembra aver ascoltato.
Coronavirus, Oms esulta: “Desametasone è svolta scientifica”. Notizie.it il 18/06/2020. L’Oms esulta per la nuova scoperta in merito al farmaco a base di steroidi, il desametasone, contro il Coronavirus: rappresenta a tutti gli effetti una svolta scientifica. Difatti, un farmaco steroideo ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio Desametasone – disponibile in farmacia al costo di soli 6 euro -, potrebbe essere un’efficace arma per salvare la vita a pazienti gravi affetti da Coronavirus. La scoperta è stata realizzata dall’Università di Oxford e convincerebbe anche l’Oms. Con questo farmaco si potrebbe ridurre il grado di mortalità del 35% in quei pazienti che hanno avuto bisogno di ventilazione. L’Organizzazione mondiale della Sanità, infatti, ha parlato di ‘svolta scientifica’ in merito al Desametasone, un farmaco a base di steroidi sviluppato da ricercatori britannici per la lotta al Coronavirus. “È il primo trattamento comprovato che riduce la mortalità nei pazienti affetti da Coronavirus con ossigeno o assistenza respiratoria”. Lo ha affermato il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. Nella nota diffusa dall’Oms in merito alla scoperta degli effetti benefici del farmaco a base di steroidi contro il Coronavirus si evidenza anche come questa sia: “Una buona notizia e mi congratulo con il governo britannico, l’Università di Oxford e i numerosi ospedali e pazienti nel Regno Unito che hanno contribuito a questa svolta scientifica salvavita”, ribadisce Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità.
"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. L'appello di 50 medici e farmacisti per usare il cortisone nelle prime fasi della malattia da coronavirus. La dottoressa: "Nessun mio paziente è morto". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 09/06/2020 su Il Giornale. "Ho settemila pazienti affetti da miastenia grave sparsi in tutta Italia ed alcuni si sono ammalati di Covid-19. Molti di loro erano già in terapia con cortisone e ho ritenuto utile trattarli precocemente anche con un incremento della terapia cortisonica. Quasi tutti hanno così sviluppato solo una forma modestissima di malattia, uno soltanto è stato ricoverato e nessuno è morto". Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell'Ospedale Cisanello di Pisa, la sua lotta contro il virus l'ha combattuta soprattutto con un "caro vecchio farmaco", guardato con un po' di diffidenza, ma che "sul campo" sembra aver avuto effetti positivi: "Il cortisone - racconta al Giornale.it - non costa niente, lo conosciamo benissimo ed è da sempre uno storico grande salvatore in numerose condizioni cliniche. Lo è stato probabilmente anche in questa situazione". L’approccio della dottoressa Ricciardi, così come altri in Italia, si basa anche sull'assunto che il coronavirus vada affrontato "subito". Prima cioè che si presentino le complicanze, prima di costringere il paziente al ricovero, prima di dover ricorrere, in ospedale, ad altri presidi terapeutici più complessi come il siero iperimmune. "Il primo effetto del Covid-19 - spiega - è un'iper infiammazione che poi a cascata può produrre tutti i problemi che conosciamo, come soprattutto la fibrosi polmonare, l'insufficienza respiratoria, la trombosi vasale fino alla coagulazione intravasale disseminata (CID)". Il cortisone, che è un potentissimo antinfiammatorio, se somministrato in tempo e a dosi adeguate medio-alte, permetterebbe quindi di "bloccare la malattia a monte", frenando la tanto temuta evoluzione dell'infiammazione. "Ho chiaramente sempre associato alla terapia cortisonica semplicemente una terapia antibiotica di copertura e un trattamento anticoagulante con Enoxaparina, per evitare le eventuali complicanze tromboemboliche possibili in questa condizione", spiega Ricciardi. E i risultati si sono visti. "Uno di miei pazienti aveva già subito un'operazione al torace per un tumore ed era molto grave anche per l’importante insufficienza respiratoria in atto. Quando l'hanno ricoverato, mi hanno subito detto che molto difficilmente si sarebbe potuto salvare. Ho potuto però collaborare con i colleghi locali suggerendo loro di somministrargli, per alcuni giorni, una dose piuttosto elevata di cortisone. Il paziente è subito migliorato ed ora è a casa, dove ha ripreso tranquillamente il suo lavoro".
Coronavirus, Il cardiologo Giampaolo Palma aveva capito tutto: "La polmonite non c'entra". Quello che hanno sempre nascosto. Renato Farina Libero Quotidiano il 05 giugno 2020. Preambolo. Qui non si danno ricette miracolose. Non si candida nessuno al Nobel. Si racconta la storia semplice in questi tempi complicati di Coronavirus. Semplice, e perciò molto istruttiva. Il protagonista, dottor Giampaolo Palma, è un medico che ha intuito e tracciato da pioniere una strada semplice e oggi universalmente accreditata per sfuggire alla presa mortale del Covid-19. C'è un problema. Ha agito senza chiedere il permesso alle lobby di scienziati in coda nei comitati governativi, né garantendosi appoggi mediatici. Mi ero segnato il suo nome il 3 maggio scorso. In un articolo sul Fatto, la professoressa Maria Rita Gismondo, direttore di microbiologia clinica e virologia del Sacco di Milano, scriveva: «Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale, oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro». Ed ecco la citazione di un medico ignoto al grande pubblico, mai visto in tivù: «Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici». Passano le settimane e accade quanto sappiamo. I reparti di terapia intensiva si svuotano. Applicando l'"ipotesi Palma", avversato dai luminari a cui si era fulminata la lampadina, ci sarebbero stati meno morti? Di certo, dopo sono stati molto meno. Mi aspettavo di trovarlo tra i 53 neo-cavalieri indicati dal Quirinale come eroi. Niente. Forse nella dimenticanza avrà pesato un articolo di Le Monde, dove Palma è dileggiato come il solito italiano ciarlatano, che incanta (a milioni) gli ignoranti del Web, ma per gli spiriti parigini è un abusivo da non invitare al ballo in mascherina. Be', il caso si è fatto interessante. Gli telefono. la notte Giampaolo Palma, mi spiega, è cardiologo per stirpe antica (lo era il padre), titolare e direttore di un centro clinico a Salerno accreditato, un'eccellenza campana nel ramo cuore e circolazione. È da 23 anni che esamina, ausculta, diagnostica, prescrive terapie e accompagna nelle difficoltà e negli spaventi quotidiani chi ha problemi cardiaci, vascolari, eccetera. È consapevole di essere diventato famoso, e nello stesso tempo sa di essere stato confinato nei quartieri del web oscurati da lorsignori. Non che sia particolarmente felice di questi strascichi di popolarità planetaria. Non ha strumenti per controllare l'uso del suo nome e del suo volto sul web. Le sue tesi sono state esaltate ma anche deformate. Qui precisa: «Non sono nemico del vaccino. Ma quando mai: magari lo si trovasse. Non ho mai teorizzato l'inutilità dei respiratori. Guai se non ci fossero stati». «Tutto nasce», racconta, «in una certa notte del mese di aprile, dopo ore passate a leggere e rileggere appunti e a non poter prendere sonno». Che gli accadde? Ebbe un'intuizione diagnostica. Uno dei primi Nobel per la medicina, Alexis Carrel, spiegò il fenomeno con parole che sono il sigillo di una scienza empirica qual è la medicina, ma forse anche succo di sapienza esistenziale: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Palma aveva molto osservato. Ed ecco la scoperta elementare. Il Covid-19 non è una polmonite interstiziale doppia. Questo virus non provoca la polmonite, ma coaguli dappertutto. Bisogna fare in modo che appena insorgono i sintomi, ci si curi a casa con anticoagulanti, antinfiammatori eccetera. Può essere che altri clinici abbiano coltivata questa tesi, ma prevedendo alterchi con virologi gelosi del territorio, si siano astenuti dalle controversie onde evitare frecce avvelenate. Nel dottor Palma prevalse la necessità interiore di comunicare. Non aveva il diritto di tacere. Andò al computer, e scrisse sulla sua pagina di Facebook un post. Ha avuto da quel momento milioni di accessi, rimbalzando con la sua faccia nei cinque continenti. Cosa vide quella notte davanti a sé?, gli chiedo alle due di notte, prima non poteva, mentre sta limando l'articolo scientifico che sarà pubblicato a giorni su una rivista di rango internazionale. Risponde: «Quello che vedevamo a fine marzo, nel culmine della tempesta virale, era l'assalto letale di una polmonite dalla carica virale fortissima: tra le prime difficoltà respiratorie in un'ora e mezza i pazienti erano trasferiti in terapia intensiva. Mai esistite polmoniti così. Mi chiedevo: e se fosse altro? Un pomeriggio di inizio aprile, mi sono collegato in conferenza con cardiologi e pneumologi intensivisti del Sacco di Milano e del Giovanni XXIII di Bergamo. Rimasi incantato dai referti anatomo-patologici delle prime autopsie: i tessuti polmonari ma anche quelli cardiaci; e poi il cervello, i reni, l'intestino tenue erano infarciti di coaguli. Ad essere attaccate erano le cellule endoteliali e i pericliti, che rivestono i vasi sanguigni del miocardio e del cervello oltre che quelli polmonari». la morale Da qui il lampo. «Non potevo dormire. Di notte scrissi la mia intuizione su Facebook. Proteggiamo l'apparato vascolare, proposi». Dopo di che? «Nel mondo si diffuse in un battibaleno tra i medici. Tra i soloni smorfie di disappunto. Finché Lancet confermò la giustezza della mia tesi, l'Aifa approvò gli anticoagulanti, la Società europea di cardiologia ha riconosciuto la mia terapia». Il Policlinico di Zurigo dopo aver accettato la tesi di Palma sulla ipercoagulazione ha potuto ridurre di molto gli accessi alla terapia intensiva. «Mi accusano di non aver dato forma rigorosa alla mia ipotesi. Non importa che essa funzioni. Ora, se mi lascia cortesemente lavorare, finisco l'articolo». Prima però gli chiedo l'elenco dei Paesi da cui gli hanno chiesto collaborazione e lo hanno ringraziato. «Vado a senso. In ordine di apparizione. Giappone, Perù, Argentina, Brasile, Belgio, Francia, Senegal». E ancora: che morale trarre? «Credo si debba anche da parte del governo prendere più in considerazione i clinici, che curano i pazienti tutti i giorni, che certi parrucconi sempre in tivù». Il virus è morto? «Non sarei così ottimista».
Lo scontro sui trattamenti covid. “Il plasma non costa nulla, ma Big Pharma ha interesse nel vaccino”. L’accusa di Tarro. Bruno Buonanno su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Non è amato dai colleghi. Anzi. Ma con la lucidità di sempre e l’esperienza maturata in 81 anni dedicati alla virologia, Giulio Tarro va avanti per la sua strada. “Abbiamo fatto la storia. E questo mi basta, perché tutto il resto sono chiacchiere e pettegolezzi provocati probabilmente da invidia nei miei confronti”. Era il 16 aprile quando Giulio Tarro – allievo del professore Sabin e virologo emerito del Cotugno – parlò della sieroterapia utilizzata anche a Wuhan con successo. “Sono stati pubblicati da tempo i dati scientifici delle terapie con plasma iperimmune utilizzate in Cina che confermano – spiegò lo scienziato – l’efficacia della terapia dei convalescenti. La vecchia tecnica della plasmaferesi può mettere fuori gioco il Coronavirus. L’abbiamo usata tanti anni fa intervenendo sulle gammaglobuline del tetano, è una cura antica che non richiede alcun intervento delle aziende farmaceutiche”. Un attimo di pausa. Poi, riprendendo la conversazione telefonica, il professore Tarro chiarì: “Non sono esperimenti, questa è una terapia. Voglio dire che non si guadagna”. Nel Cotugno, ma anche in altre strutture sanitarie italiane, continua a dare risultati positivi quella che in Italia viene individuata come “cura Ascierto”, sperimentazione autorizzata dall’Aifa e realizzata somministrando ai pazienti il tocilizumab, farmaco per il trattamento dell’artrite reumatoide. Aspettando che sulla plasmaferesi si pronunci il comitato etico dell’Azienda dei Colli, anche il Cotugno ritiene utile il ricorso alla sieroterapia che intanto alimenta polemiche fra addetti ai lavori. Dagli Stati Uniti Ilaria Capua e da Milano Roberto Burioni commentano con scetticismo i risultati ottenuti in quattro strutture sanitarie del Nord. Negli ospedali di Pavia, Padova, Bolzano e Mantova i decessi dei pazienti contagiati dal Coronavirus sono stati rallentati e bloccati con la sieroterapia, cioè con trasfusioni di sangue iperimmune donato da altri pazienti contagiati e guariti dal Covid-19. Ma perché l’azienda dei Colli si avvicina alla sieroterapia con un “ni”? Non è una sperimentazione ma una cura antica per la quale l’azienda ha dato un’ampia ma inutile delega al comitato etico che si dovrà pronunciare. Nel frattempo quattro ospedali del Nord hanno bloccato i decessi somministrando ai pazienti contagiati dal Coronavirus il plasma iperimmune. Roberto Burioni – dopo aver toppato ogni previsione sull’arrivo del Covid in Italia – si dimostra molto critico sulla sieroterapia. La considera costosa e “suggerisce” di usare siero artificiale (lavorato quindi da un’azienda farmaceutica) al posto del sangue iperimmune di pazienti contagiati e guariti. Ilaria Capua concorda con Burioni. Quella che quest’ultimo considera una “sperimentazione” col plasma viene smentita da un medico italiano che vive in Africa. “È una cura che i colleghi hanno appreso a Padova decine di anni fa nella clinica pneumologica – spiega Mauro Rango – Non tutti i guariti hanno nel proprio plasma la quantità di anticorpi necessaria a curare un malato: esiste per questo un protocollo di selezione del plasma che viene utilizzato molto bene anche in Italia”. La sieroterapia, dunque, è già utilizzata in diverse strutture del Nord e ora è caldeggiata per la Campania anche da Flora Beneduce, medico e componente della commissione regionale sanità, secondo la quale quella cura deve accompagnarsi con antinfiammatori, anticoagulanti e azitromicina per sei giorni. Si tratta di medicinali già esistenti da usare contro il Coronavirus che nel corpo umano presenta due aspetti: il primo simile alla polmonite interstiziale da microplasma, il secondo simile a una vasculite la cui natura è ancora da definire. Dopo la lunga quarantena, si spera che il ritorno a un’antica terapia sia oggettivamente efficace contro il Covid.
Burioni offende il virologo del colera: “Se lui candidato al Nobel, io a Miss Italia”. Redazione de Il Riformista il 19 Aprile 2020. Si è combattuto su Twitter il duello rusticano della domenica pomeriggio che ha messo uno di fronte all’altro due esperti virologi. Il casus belli è stato un post del deputato Gianfranco Rotondi che ha riportato alcune considerazioni del virologo Giulio Tarro sul coronavirus. Roberto Burioni, virologo dell’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, non si è però trovato per niente d’accordo e ha risposto senza badare troppo al politically correct. E mettendo piuttosto in discussione l’autorevolezza di Tarro, ex primario dell’Ospedale Cotugno di Napoli e già premiato dal Pnas Usa (Proceedings of the National Academy of Scienses) come miglior virologo dell’anno. Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia pubblica dunque un post su Twitter. “Il virologo Giulio Tarro, primario emerito del Cotugno (isolò il vibrione del colera), due volte candidato al Nobel, oggi scommette la sua reputazione dicendo che tra un mese il coronavirus ci abbandonerà come tutti i corona influenzali”, ha scritto Rotondi. Il virologo nato a Messina e napoletano d’adozione ha infatti dichiarato in diverse interviste – anche a Il Riformista – che con la stagione estiva, e l’aumento delle temperature, il virus potrebbe scomparire. “Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia”, ha replicato a quel punto Burioni, molto attivo sui social, con un tweet. Sulla risposta di Burioni si è imbastita così una vivace polemica social, che ha coinvolto tra gli altri Giampiero Mughini, intellettuale e scrittore, che ha osservato: “Credo che un po’ di rispetto sia più che dovuto … Non è il depositario della verità”. E il virologo ha risposto ancora: “No, ma siccome ho molto studiato questi argomenti riesco a individuare immediatamente le scemenze”. Rotondo a quel punto ha voluto chiarire la sua posizione: “Io non spalleggio né Tarro né altri. Riporto una tesi che alimenta speranza, punto. Dopodiché ricordo che Tarro da primario del Cotugno piegò il colera del 73, questi fin qui hanno fatto solo interviste”. Una questione di speranza, dunque, e di ottimismo, quella che evidenzia il deputato, che ha trovato d’accordo diversi utenti sul social. “Se lei è convinto allora tutto a posto, possiamo chiudere le terapie intensive e smettere di portare le mascherine”, ha replicato ancora Burioni a qualche utente. Prima che arrivasse la risposta di Tarro: “Su una cosa ha ragione (Burioni, ndr): lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca”.
Da adnkronos.com il 20 maggio 2020. Nuovo capitolo della querelle Tarro-Burioni. Il virologo napoletano Giulio Tarro ha infatti incaricato il suo legale, l'avvocato Carlo Taormina di presentare querela nei confronti del professor Roberto Burioni e di due giornalisti per "l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale". Nel dettaglio, "il professor Burioni - si legge in una nota del legale - è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire", mentre un giornalista ha divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali". Quanto a un altro giornalista - dettaglia l'avvocato Taormina - "si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici". "Il professor Tarro, rivolgendosi all’autorità giudiziaria romana si è riservato la costituzione di parte civile ponendosi a disposizione della Procura di Roma per essere immediatamente sentito", riferisce Taormina. Tarro, "docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite - annuncia ancora l'avvocato Taormina - diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse".
Da corrieredellosport.it il 21 maggio 2020. A Radio Marte è intervenuto il professor Giulio Tarro, virologo. "Nuovi contagi nelle regione del Nord? Io vorrei questi dati raffrontati al numero di tamponi che vengono fatti. Psicologicamente abbiamo fatto l'abitudine al virus. Inizialmente c'è stato un problema molto serio e non è dipeso da noi centro-meridionali ma dalla gestione sanitaria del Nord. Non avevano capito di cosa si trattasse. I buoni medici sanno cosa devono fare in pronto soccorso. Andava capito che il problema era legato ai coaguli del sangue invece di trattare il COVID-19 come una polmonite".
Tarro sul ritorno negli stadi e la querelle con Burioni. Tarro ha auspicato anche un ritorno immediato allo stadio e ai palazzetti dello sport: "Rispettando la distanza, si potrebbe fare già da domani". Poi sulla polemica con il collega Roberto Burioni spiega: "Se mi bastano le scuse? No. Non bastano. Siamo buone persone, sì, ma a tutto c'è un limite. Uno può porgere l'altra guancia ma non pure la terza perché una terza non ce l'abbiamo".
Tarro ottimista: "Il Coronavirus soffre il caldo". Si va incontro alla bella stagione e alla domanda se il virus sparirà con l'estate, Tarro risponde: "Dipende dalle famiglie virali. La famiglia Coronavirus soffre il caldo, la salsedine, persino la montagna. Non solo non ce lo troveremo tra i piedi ma abbiamo una popolazione così immunizzata che non sarà più un ospite utile per il virus. Mascherine? Vanno messe dal paziente e dagli operatori sanitari. Ma per il resto è anti-igienico e può portare anche a problemi respiratori. Crisi economica? Ho paura che moriremo di fame. In Svezia non se lo sono posti il problema, fanno una vita normale, non hanno nessun problema di mortalità, probabilmente è frutto di un'altra mentalità".
Il virologo Tarro querela Burioni per «opera di denigrazione continua». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Corriere.it. La querelle tra Giulio Tarro e Roberto Burioni iniziata sui social finisce in tribunale. Il virologo napoletano Giulio Tarro ha infatti incaricato il suo legale, l’avvocato Carlo Taormina, di presentare una querela nei confronti del professor Burioni e di due giornalisti per «l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale». Nel dettaglio, «il professor Burioni — si legge in una nota del legale Taormina — è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire», mentre un giornalista ha divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di «mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali». «Quanto a un altro giornalista — dettaglia l’avvocato Taormina — si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici». La discussione (accesa) tra i due esperti di virologia è iniziata su Twitter un mese fa. Il tutto è partito il 17 aprile da un tweet di Gianfranco Rotondi che riportava il pensiero Tarro, l’ex primario di virologia del Cotugno di Napoli, sul Coronavirus che diceva che come tutti i corona influenzali questo virus ci avrebbe abbandonato nel giro di un mese. Il tutto sottolineando come il medico napoletano sia stato candidato al Premio Nobel. La risposta di Burioni non si è fatta attendere: «Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia». La replica di Tarro a Burioni su Twitter è stata quasi immediata: «Su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca», animando così un botta e risposta tra i due non proprio lusinghiero. Da questo «carteggio» social ora si passa all’azione legale, come dice l’avvocato Taormina nella nota. «Il professor Tarro, rivolgendosi all’autorità giudiziaria romana si è riservato la costituzione di parte civile ponendosi a disposizione della Procura di Roma per essere immediatamente sentito». Tarro, «docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite — annuncia ancora l’avvocato Taormina — diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse».
Roberto Burioni querelato dal professor Giulio Tarro. L'avvocato Taormina: "Denigrazione per ragioni recondite". Libero Quotidiano il 20 maggio 2020. Il virologo-star Roberto Burioni trascinato in tribunale dal collega Giulio Tarro. Quella che sembrava una "normale" polemica social tra i due esperti, sull'onda dell'emergenza coronavirus, si trasforma dunque in caso giudiziario clamoroso anche grazie all'intervento del combattivo Carlo Taormina, principe del Foro e avvocato difensore del professor Tarro. Una querela per Burioni e due per altrettanti giornalisti, con l'accusa di aver messo in atto un'opera di "denigrazione continuamente perpetrata a danno del prestigio scientifico professionale e personale" di Tarro. "Il professor Burioni - spiega Taormina in una nota - è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire". Ci sarebbe poi tutto un corollario a danno dei due giornalisti querelati, accusati di aver divulgato notizie false sul curriculum universitario di Tarro e di aver scritto che fosse stato coinvolto in un "mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali". "Un altro giornalista - conclude Taormina - si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici". Una storiaccia, insomma. E dire che tutto era nato da un'affermazione di Tarro, ex primario di virologia del Cotugno di Napoli, secondo cui (non era il solo a sostenerlo, per la verità) il coronavirus si sarebbe "estinto" nel giro di un mese. Siccome Gianfranco Rotondi l'aveva rilanciato definendo Tarro "già candidato al Premio Nobel", era intervenuto con la baionetta proprio Burioni: "Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia". Si rideva, ora molto meno.
De Donno, pioniere della plasmaterapia: «Sono infuriato, siamo in mano a scienziati prezzolati». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale Oggi, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso».
A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta». Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a Oggi, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».
“SE TUTTO RESTA IN MANO A SCIENZIATI PREZZOLATI NON SI VA DA NESSUNA PARTE”. Anticipazione da “Oggi” il 20 maggio 2020. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale OGGI, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso». A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta». Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a OGGI, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».
Stefano Filippi per la Verità il 15 giugno 2020. Finché non è scoppiata l'epidemia di coronavirus, il dottor Giuseppe De Donno era semplicemente il direttore del reparto di pneumologia e di terapia intensiva dell'ospedale di Mantova. Improvvisamente è diventato uno degli uomini più famosi d'Italia, conteso dalle televisioni e messo in discussione dal mondo medico e dalla politica. Che aveva combinato De Donno? Soltanto quello che ogni clinico dovrebbe avere la libertà di fare: sperimentare una cura che aveva dato buoni risultati in casi che presentavano analogie con il Covid-19. È la terapia del plasma autoimmune: essa utilizza il plasma sanguigno dei pazienti guariti per fornire ai malati gli anticorpi utili a contrastare l'infezione. Da Mantova la sperimentazione si è estesa a Pavia, poi a Padova e altri ospedali e ora è allo studio in tutto il mondo. Ma su De Donno si è scatenata una bufera mediatica. In un momento in cui ogni successo positivo contro un nemico così oscuro andrebbe salutato con sollievo, lui è stato trattato alla stregua di uno stregone. È stato criticato perfino per essere stato per 4 anni vicesindaco di Curtatone, il paese mantovano in cui abita, località finora nota soprattutto per la battaglia del 1848 in cui il generale Radetzky fu fermato da uno scalcinato esercito di studenti volontari. Per De Donno parlano i fatti: oltre il 90% dei pazienti curati con questa metodica sono guariti.
Come sta andando la terapia con il plasma autoimmune?
«In questo momento la terapia con plasma convalescente sta dando risultati molto promettenti non solo a Mantova. Dalla nostra banca del plasma inviamo sacche in tutta Italia, dal Nord al Sud, arrivando anche sulle isole; tutti i pazienti trattati con plasma convalescente hanno un recupero fisico immediato. Due settimane fa è partito il progetto Rescue, curato da me e dal dottor Massimo Franchini, che è il direttore del servizio trasfusionale dell'ospedale di Mantova».
A chi è rivolto il progetto?
«Alla cura dei pazienti delle residenze sanitarie assistenziali. I risultati clinici preliminari, nonostante lo studio abbia, al momento, una scarsa potenza, sono incoraggianti».
Quante persone ha curato, quante sono guarite?
«Se per guarigione si intende la negativizzazione del tampone, il plasma del paziente convalescente, avendo un'importante capacità antivirale, riesce a negativizzare il tampone in oltre il 90% dei casi».
Quanti morti si sarebbero potuti evitare se la plasmaterapia fosse stata applicata in misura più ampia?
«L'analisi statistica del protocollo Mantova-Pavia evidenzia un incremento significativo della sopravvivenza; ogni 10 pazienti si riesce a salvare una vita».
Il tempo ha dato ragione alle sue intuizioni iniziali sulla terapia?
«Direi di sì e i pazienti guariti ne sono la dimostrazione. I centri che utilizzano il plasma sono sempre di più. È notizia di pochi giorni fa che il plasma è stato utilizzato per negativizzare un bambino Covid positivo, in seguito sottoposto a trapianto per una forma leucemica».
Ha dovuto «forzare la mano» per avviare queste cure?
«Ho dovuto espormi in prima persona per riuscire a sdoganare questa terapia rinunciando alla mia privacy a cui, tra l'altro, ho sempre tenuto molto. Ho dovuto concedere molte interviste radio e tv, ho aperto una pagina Facebook, sono stato invitato in commissione al Senato; tutto questo non per animare il mio ego, come qualcuno ha sostenuto e continua a sostenere, ma solo per il bene del paziente e per dare una speranza a questo Paese. Nel segno dell'onestà».
Come spiega l'ostilità verso la sua terapia, quando ogni successo contro il coronavirus dovrebbe essere salutato con favore?
«Eviterei di parlare di ostilità. A volte la paura, o peggio ancora l'ignoranza, nell'accezione di "condizione determinata dalla mancanza di istruzione o conoscenza", può portare a essere fuorviati dalla verità. In ogni ambito della vita, e a maggior ragione in quello medico-clinico, bisogna lasciare spazio ai fatti. Se ci si basasse sui fatti, vivremmo tutti meglio. Ecco quindi che le guarigioni dei miei pazienti, la gioia delle loro famiglie, la grande solidarietà della donazione, tutti questi fatti tangibili parlano da soli del successo di questa terapia. Crede ci sia riconoscimento migliore al mondo? Io credo di no».
Lei ha detto che vogliono zittirla, come mai? Chi ha volontà di nascondere queste cure?
«Non posso sapere di chi è la volontà di nascondere questa cura. Come ho detto più volte, il plasma iperimmune è quanto di più democratico ci possa essere al giorno d'oggi; è dato dal popolo e torna al popolo, è il più grande atto di solidarietà che un paziente guarito possa avere nei confronti di chi ancora sta lottando con la malattia. Cosa non meno importante, il plasma è gratuito. Quindi, come ha detto il grande Enrico Montesano, questa cura ha tre grossi problemi: costa poco, funziona benissimo, non rende miliardario nessuno».
Ci sono interessi della Big Pharma, cioè dei colossi farmaceutici, a screditare questa terapia per puntare sui vaccini, più redditizi?
«Questo non lo deve chiedere a me. Sono un medico di campagna, non un azionista di Big Pharma».
Che accoglienza ha avuto la terapia nel mondo accademico e scientifico?
«Il fatto che questa idea sia partita da un ospedale pubblico, anche se in collaborazione con l'ospedale di Pavia, ha suscitato parecchie diffidenze nel mondo accademico. A questo si aggiungano tutte le diffidenze che si avevano verso un emocomponente, nonostante la terapia del plasma convalescente non sia una novità. A volte il dottor Franchini e io, nei pochi minuti di pausa che abbiamo, ci chiediamo come mai non si sia partiti subito a organizzare una multicentrica che forse oggi qualche risultato definitivo lo avrebbe portato».
Al Senato ha detto che «uno scienziato pagato per divulgare conoscenze scientifiche non è credibile».
Conferma?
«Assolutamente sì. La scienza e la ricerca devono essere libere. La nostra vita deve avere la priorità su qualsiasi interesse politico o economico, altrimenti anche questa diventa merce di mercato data in mano a chi offre di più».
Uno studio cinese uscito nei giorni scorsi sostiene che la terapia al plasma ha un'efficacia limitata per i malati di Covid-19. Che ne pensa?
«Lo studio cinese ha numerosi bias (dati parziali, ndr) e inoltre è stato interrotto per carenza di casistica. Se però lo si analizza bene, nonostante la potenza di questo studio sia ancora più bassa rispetto al nostro, esso dimostra che i pazienti gravi ma non gravissimi si giovano notevolmente di questo trattamento: si riducono sia la mortalità, sia i tempi di ricovero, sia i tempi di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Inoltre, si conferma che la negativizzazione dei tamponi, come già detto prima, supera il 90% dei casi».
La politica ha commesso errori nella gestione dell'emergenza sanitaria?
«Posso dire che un errore che la politica deve evitare è non investire nella ricerca o consentire ad aderenze politiche di gestire, per interesse economico, la ricerca stessa. Nessuno poteva prevedere ciò che è accaduto. Il lockdown è stato uno strumento buono per ridurre la circolazione del virus, ma mi limito a questo perché sono un medico, non un politico. Gli errori della politica saranno evidenziati dalla storia».
Ora a chi state somministrando il plasma? Lo fornite anche ad altri ospedali? Anche all'estero?
«Il plasma è somministrato in quasi tutta la nostra penisola, e, come detto, la nostra banca del plasma lo fornisce anche alle altre strutture che lo richiedono. All'estero abbiamo collaborato, attraverso call conference, con molti Paesi tra cui Brasile, Perù, Cile, Uruguay, Kenya, ai quali abbiamo inviato il nostro protocollo operativo. Molti di questi Paesi sono partiti con la raccolta del plasma».
Lei è stato tanto apprezzato quanto contestato: che esperienza sono stati per lei questi mesi?
«Purtroppo non posso piacere a tutti. L'unico mio interesse era sdoganare la terapia al plasma convalescente e, con il mio espormi, ci sono riuscito. Certo, sono stato criticato, insultato e deriso, ma poco mi importa. La cosa importante è che tutto questo ha permesso di aiutare molti pazienti che, come noi medici, non vedevano la luce in fondo al tunnel».
Che cosa non dimenticherà?
«Nessuno mai potrà cancellare dalla mia mente gli sguardi di terrore di chi moriva senza aver vicino nessuno. Ma anche questo mi ha dato la forza di combattere per quella che era l'unica arma a nostra disposizione contro questa pandemia. In tutto questo sono stato supportato da colleghi meravigliosi con i quali si è instaurato un rapporto umano e professionale molto forte. Ne cito uno per tutti, il dottor Franchini, che è diventato per me come un fratello. Devo inoltre dire che le persone che mi hanno appoggiato, incoraggiato, sostenuto sono di gran lunga superiori a quei pochi che mi hanno criticato. Il nostro Paese non va sottovalutato».
"La Banda delle Quattro: ecco chi gode con la sanità privata". Fabio Pavesi su Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020. La ricetta è di una semplicità disarmante. Basta tenere sotto controllo i costi e i profitti, spesso plurimilionari, sono assicurati. Non si può sbagliare. Del resto la domanda è in crescita e i ricavi sono di fatto garantiti in buona parte dalla mano pubblica. È il business della sanità privata, dagli ospedali iper-tecnologici alle case di riposo per anziani fino alla diagnostica complessa, che ha visto decollare attori e numeri negli ultimi anni. Un business ricco e in cui la politica ha un ruolo determinante. Il segreto per gli operatori privati è accreditare le strutture al Servizio sanitario nazionale che così, a fronte delle prestazioni rese, paga a piè di lista garantendo gran parte degli introiti. In questo sistema, di cui il rapporto con la politica è una delle architravi, prosperano nomi importanti: si va dalla famiglia Rotelli, che col marchio Gruppo San Donato è di fatto il primo operatore per fatturato, alla famiglia dei potenti industriali Rocca, che affiancano il loro Humanitas al business dei tubi per l’industria petrolifera con Tenaris, per finire con gli Angelucci e i De Benedetti, che hanno fatto delle residenze per anziani il perno dei loro affari sanitari.
I Rotelli. Dei Rotelli e del loro brand sotto l’egida di Gruppo San Donato il grande pubblico sa ben poco. La notorietà la famiglia la raggiunse quando divenne azionista forte di Rcs. Abituati a lavorare lontano dai riflettori, il gruppo San Donato è gestito oggi dai figli, Paolo in particolare, dopo la scomparsa nel 2013 del fondatore Giuseppe Rotelli. La società conta oggi su 18 grandi ospedali, oltre 5mila posti letto accreditati col Servizio sanitario e quasi 3 milioni di pazienti che ogni anno usufruiscono delle sue cure.
Forte in Lombardia, dove conta da solo il 14% di tutti i posti letto accreditati dalla Regione. Il colpo da maestro è stata l’acquisizione del San Raffaele di Milano, il prestigioso ospedale, simbolo del “privato di qualità” che Don Verzè aveva portato sull’orlo del crac oberato da un miliardo di debiti. Il salvataggio del San Raffaele è stato gioco facile per i Rotelli che hanno accumulato liquidità impressionante negli anni. In cima alla catena societaria della famiglia c’è la Papiniano Spa che consolida tutte le attività: ha un attivo di bilancio di 2,1 miliardi; i ricavi consolidati sono di ben 1,65 miliardi, il patrimonio netto è di 426 milioni e il gruppo che raccoglie i 18 ospedali dei Rotelli ha cassa per ben 431 milioni. Un mare di liquidità figlia della gestione oculata del gruppo. Il solo Policlinico San Donato, l’ospedale alle porte di Milano che dà il nome all’impero dei Rotelli, ha fatturato nell’ultimo anno oltre 160 milioni con un utile netto di 26 milioni. Una profittabilità netta del 16% che la dice lunga sulla redditività dell’ospedale. L’ospedale che ha 780 dipendenti aveva cassa liquida nel 2018 per ben 97 milioni. Dai ricoveri pagati a piè di lista dalla Regione il San Donato incassa 102 milioni sui 162 di fatturato complessivo. E che la politica e le buone relazioni contino lo dice il fatto che la famiglia Rotelli ha da poco nominato presidente del gruppo Angelino Alfano, che di sanità sa ben poco, ma che i palazzi del potere li ha ben frequentati. Nel cda del gruppo e in quelli dei vari ospedali ecco comparire nomi di peso. C’è l’ex ad di UniCredit e oggi a capo di Rothschild Italia, Federico Ghizzoni, poi l’ex McKinsey Vittorio Terzi e Andrea Faragalli Zenobi ex presidente di Italo.
I Rocca. La sponda con la politica e il mondo che conta è vitale anche per Humanitas, il gruppo ospedaliero della famiglia Rocca. Nel Cda di Humanitas presieduto da Gianfelice Rocca figurano l’imprenditrice farmaceutica ed ex esponente di punta di Assolombarda, Diana Bracco ma anche Paolo Scaroni ex Eni; Rosario Bifulco, Massimo Capuano ex Borsa italiana. L’amministratore delegato l’uomo operativo dei Rocca è Ivan Colombo, esponente di punta di Cl, un lasciapassare essenziale in una Regione come la Lombardia. Humanitas è una macchina da soldi. Nel 2018 il fatturato consolidato del gruppo è arrivato a quota 920 milioni, raddoppiato in pochi anni. I margini industriali valgono 156 milioni di euro e l’utile nel 2018 è stato di 68 milioni. Più della metà dei ricavi arrivano dalle prestazioni rimborsate dal Ssn. La catena societaria dei Rocca vede in cima al gruppo Humanitas la spa Teur che ha il 93% delle quote. La catena però non si ferma in Italia: finisce (insieme ai dividendi) nella holding lussemburghese San Faustin della famiglia Rocca. Se i Rocca e i Rotelli gestiscono strutture ospedaliere complesse e sofisticate da un punto di vista tecnologico, sia i De Benedetti che gli Angelucci hanno preferito puntare le loro carte sulle residenze per anziani: più comodo e meno oneroso. Non ci sono grandi investimenti in capitale e tecnologie, il grosso dei costi è rappresentato dal personale e, soprattutto, il business delle case di riposo vede il pubblico fornire un supporto importante. Lo Stato contribuisce a coprire i costi sanitari delle degenze e così, a fronte di rette pagate dai pazienti per la quota “alberghiera” che viaggiano in media sui 90-120 euro al giorno, i gestori delle Rsa incassano altri 40-50 euro al giorno dal Ssn. Tanto per dare un’idea solo la Lombardia nel 2019 ha speso per le Rsa 872 milioni: soldi incassati dalle oltre 500 case di riposo convenzionate con la Regione.
I De Benedetti. La creatura della famiglia De Benedetti si chiama Kos, è nata nel lontano 2002 e opera con vari marchi tra cui il brand “Anni Azzurri” e “Santo Stefano”. Il Gruppo Kos è diventata una realtà tentacolare. Presente ormai in 13 regioni italiane e 3 stati esteri, per un totale di oltre 12.800 posti letto. Kos gestisce 92 strutture in Italia e 48 in Germania. In Italia sono quasi 8700 i posti letto gestiti in: 53 residenze per anziani; 16 centri di riabilitazione; 13 comunità terapeutiche psichiatriche e 7 cliniche psichiatriche; 2 ospedali. Kos è inoltre attivo con 25 centri ambulatoriali di riabilitazione e diagnostica e 29 sedi di service per diagnostica e terapia (di cui 12 in Italia, 14 in India e 3 in UK). Sono oltre 13.700 i collaboratori di cui circa 8.900 in Italia, 6.900 dei quali sono dipendenti del gruppo. Kos ogni anno macina fior di utili. Nel 2019 ha portato a casa ricavi totali per 595 milioni di euro. Dal 2016 al 2019 i ricavi sono cresciuti del 30%. Gestendo bene i costi del lavoro che non superano il 40% dei ricavi, il margine lordo di Kos supera ampiamente il 20% del fatturato. Gli utili netti sono stati nel 2019 di 31 milioni. E negli ultimi 4 anni il gruppo ha cumulato oltre 130 milioni di profitti netti. Un business florido tanto che ci ha messo gli occhi anche il Fondo italiano d’investimento. F2i che ha come soci le fondazioni bancarie, le casse di previdenza e dulcis in fundo la Cdp, ha acquisito il 40% del capitale di Kos. I De Benedetti comandano e Cdp con altri finisce per fare il socio di minoranza. Che ci faccia lo Stato, via Cdp, nella gestione delle cliniche per anziani non si comprende.
Gli Angelucci. Anche per loro, col capostipite Antonio parlamentare di Forza Italia, il business delle Rsa con il marchio San Raffaele, produce ricchezza. Nel 2018 le cliniche degli Angelucci hanno prodotto ricavi per 105 milioni con un utile netto di 11 milioni. Su quei 105 milioni di ricavi ben 81 milioni arrivano dal Servizio sanitario nazionale, in virtù dell’accreditamento. La San Raffaele Spa vanta anche crediti con le singole Asl per 143 milioni. Un business florido per la famiglia che possiede anche Libero e Il Tempo, che compensa ampiamente le perdite nell’editoria. Gli utili che gli Angelucci fanno con le cliniche prendono la via dell’estero. La San Raffaele Spa è posseduta al 98% da una società lussemburghese la Three Sa. Ma non finisce qui perché sopra la Three ci sono altre due scatole basate in Lussemburgo. La Lantigos e la Spa di Lantigos. Due casseforti della famiglia. La stessa Three sa ha distribuito alle controllanti ben 153 milioni di riserve. Un fiume di denaro che dalle cliniche private finisce tutto all'estero.
· Gli Sciacalli della Sanità.
Vaccini, chi ci guadagna (davvero)? «Una delle obiezioni avanzate da chi è ostile ai vaccini riguarda gli interessi delle case farmaceutiche, che però non sono necessariamente in conflitto con quelli dei cittadini, scrive Roberta Villa il 27 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera”.
È vero che Big Pharma guadagna sui vaccini? Assolutamente sì. Nessuno può pensare che le aziende farmaceutiche siano enti di beneficenza. L’industria guadagna sui vaccini proprio come su tutti gli altri farmaci, come d’altra parte fa chi vende computer o automobili. La pasticceria non regala la torta di compleanno, né il supermercato il pane o altri generi di prima necessità. Se non ci fosse alcun profitto sui vaccini, nessuno li produrrebbe più, proprio come è capitato negli ultimi decenni con l’abbandono del settore degli antibiotici e della ricerca in questo campo, un fenomeno che ha contribuito alla diffusione delle gravissime infezioni resistenti che attualmente preoccupano le autorità sanitarie.
Ma quanto guadagnano le industrie grazie ai vaccini? Sicuramente molto meno che con altre categorie di farmaci. Secondo il Rapporto nazionale OSMED 2014 dell’AIFA sull’uso dei farmaci in Italia, il costo complessivo di tutti i vaccini rappresenta l’1,4 per cento della spesa totale del Sistema Sanitario Nazionale, pari a 291 milioni di euro, contro più di un miliardo speso rispettivamente per proteggere lo stomaco o tenere bassa la pressione agli italiani. Meno della metà del fatturato della più famosa azienda produttrice di rimedi omeopatici, insomma. Un mercato poco redditizio, a livello di singolo prodotto, è compensato dall’enorme scala in cui viene distribuito. Il ritorno economico deve comunque essere sufficiente a sostenere il ramo vaccini delle pochissime multinazionali che continuano a dividersi la torta a livello globale. In questa logica, per poter vendere i classici tradizionali vaccini salvavita dell’infanzia, come l’antipolio, a meno di un euro a dose, la logica aziendale ricarica i costi sui prodotti più innovativi, spingendoli anche con sapienti e insistenti azioni di marketing.
I vaccini sono ancora necessari, con il miglioramento delle condizioni igieniche? Per questo ha suscitato polemiche il nuovo Piano Nazionale di Prevenzione vaccinale proposto dal Ministero della salute, che estende, raccomanda e offre gratuitamente ulteriori vaccinazioni oltre a quelle già esistenti. Questo sicuramente aumenterà la spesa e porterà maggiori introiti alle aziende. Ma il punto è: queste scelte sono a vantaggio o a discapito dei cittadini? La possibilità (non l’obbligo) che anche i meno abbienti possano usufruire di questi strumenti di prevenzione è un torto che si fa loro o un’opportunità che gli si offre? Si è parlato di pressioni da parte delle Società scientifiche, a loro volta sponsorizzate dalle aziende. Al momento non si può escludere che pressioni di questo tipo siano entrate in gioco in passato, o ancora oggi abbiano un ruolo, nelle scelte di sanità pubblica: questo va assolutamente evitato. È essenziale mettere in luce eventuali conflitti di interessi dei decisori, e, attraverso un sistema rigoroso e trasparente, far sì che non possano influire sulle decisioni prese a favore della collettività.
Per evitare di prendere fischi per fiaschi occorre tuttavia distinguere con attenzione due piani completamente diversi, che nel dibattito vengono invece continuamente confusi. Fermo restando l’interesse delle case farmaceutiche, che è innegabile ma lecito, gli altri due attori in gioco sono il pubblico e chi tiene i cordoni della borsa della sanità. Le valutazioni da fare sono quindi di duplice natura: uno è il rapporto tra il costo di ogni singolo vaccino e i benefici (economici e di salute) che ci si può aspettare di trarne; l’altro è il rapporto tra questi stessi benefici e il rischio di effetti indesiderati. Ai decisori spetta valutare bene, in tempi di vacche magre che impongono necessariamente degli aut aut, se valga la pena usare il denaro pubblico per offrire gratuitamente un vaccino a tutta la popolazione, o a un gruppo a rischio, oppure se non sia meglio privilegiare altri tipi di interventi sul territorio. Su questo si può discutere di caso in caso. Ma, anche quando non si condividessero le scelte di sanità pubblica, è importante ricordare che queste non incidono sull’altro piano, quello che più preoccupa i genitori: per quanto se ne possano amplificare i benefici, i rischi di effetti collaterali di qualunque vaccino sono molto inferiori a quelli del paracetamolo, dello sciroppo contro la tosse o di altri medicinali che diamo ogni giorno ai nostri figli. Rinunciare a proteggerli «perché le case farmaceutiche ci guadagnano» sarebbe come smettere di mangiare per non finanziare l’industria alimentare.
Mario Giordano: "Virus, salute e soldi. Gli sciacalli che hanno speculato sull'epidemia". Mario Giordano su Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Per gentile concessione dell'editore Mondadori pubblichiamo un capitolo del libro "Sciacalli" di Mario Giordano, in libreria da oggi.
Diverse società scientifiche nel mondo per calcolare la predisposizione al rischio di fratture ossee usano un algoritmo, che si chiama Frax. Tu inserisci i dati nella tabella e ti esce il responso: sei a rischio o non sei a rischio. Soltanto che, è stato calcolato, sulla base di quell' algoritmo andrebbe trattato con farmaci il 72 per cento delle persone oltre i 65 anni e il 93 per cento di quelle oltre i 75. Numeri esagerati, ovvio. Che hanno un unico obiettivo: allargare il mercato e vendere più farmaci. Ma più farmaci servono davvero a ridurre il rischio? Certo, dicono gli esperti pubblicando ricerche trionfanti: riducono il rischio del 50 per cento. Percentuale che fa impressione. E, numericamente, è pure vera: prendendo certi medicinali, infatti, il rischio di fratture al femore scende dal 2,1 all' 1,1 per cento. Si dimezza, per l' appunto. Ma in pratica che significa? Significa che se 100 anziani non prendono il farmaco, c' è la probabilità che si rompano il femore in due. Se tutti quei 100 anziani lo prendono, invece, c' è la probabilità che si rompa il femore uno solo. () Ci fa piacere per quella frattura evitata, si capisce. Ma conviene davvero? E a chi? E quella strombazzata riduzione delle fratture del 50 per cento, per quanto vera, non è un po' una fregatura? criteri diagnostici «La tendenza ad aumentare il mercato dei malati è irresistibile» sostiene Marco Bobbio, già primario di cardiologia a Cuneo e autore di Troppa medicina. E cita il caso di una contea norvegese, dove sulla base dei nuovi parametri di rischio per pressione e colesterolo, il 90 per cento delle persone oltre i 50 anni è risultato bisognoso di trattamento farmacologico. Il 90 per cento! «Del resto,» conclude Bobbio «si è osservato che su quattordici linee guida riguardanti malattie comuni, dieci propongono l' ampliamento dei criteri diagnostici (creazione della condizione di premalattia, riduzione del valore di soglia, ecc.). Inoltre «il 75 per cento degli estensori ha dichiarato legami economici con le industrie, con la media di sette industrie per estensore». () Questa irresistibile tendenza ad allargare il mercato dei malati non si manifesta soltanto nella modifica dei parametri di patologie esistenti. Macché. Si inventano anche patologie che non ci sono. O che non sono mai state considerate tali. Perché, come diceva un medico diventato famoso per le sue canzoni, Enzo Jannacci, «la medicina moderna ha fatto davvero un sacco di progressi. Per esempio, ha saputo inventare un sacco di malattie nuove». () Nei primi anni Cinquanta, per esempio, quando fu elaborato, il Dsm, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, cioè la bibbia della psichiatria, contava 80 disturbi. Oggi sono più di 300. Guarda caso è stato calcolato (nel 2006 da Lisa Cosgrove della University of Massachusetts di Boston) che il 56 per cento degli psichiatri che hanno lavorato all' estensione dell' ultimo manuale avevano interessi finanziari o rapporti stretti con l' industria farmaceutica.() Non a caso gli psicofarmaci sono i medicinali per cui gli italiani spendono di più di tasca loro: 357 milioni di euro nel 2018. Risultato? Per comprare le pillole, le tasche si svuotano. Le tasche vuote generano ansia. E l' ansia fa correre tutti in farmacia a comprare le pillole a costo di rimanere con le tasche vuote. Un circolo vizioso insomma. Che rende dura la vita a noi. E la lastrica d' oro per Xanax e Lexotan.
Al terzo posto (classifica Aifa) dei medicinali per cui spendiamo di più ci sono il Viagra e i suoi fratelli, cioè quelli contro la disfunzione erettile: 219 milioni di euro nel 2018. () In vent' anni la Pfizer ha incassato soltanto dalla vendita di Viagra oltre 30 miliardi di dollari, con il record di 2 miliardi nel 2012, quando fu calcolato che ogni 6 secondi c' era un uomo che ingoiava una di quelle pasticche. Un risultato insuperabile. Ma non solitario: le campagne pubblicitarie basate sui nostri disturbi sessuali sono uno dei punti di forza del mercato delle malattie. Forse qualcuno ricorderà una serie di spot, qualche anno fa, sull' eiaculazione precoce. Si vedeva un fiammifero che si incendiava troppo in fretta, il solito messaggio allarmistico: «Un italiano su 5 ne soffre», l' invito a rivolgersi a un medico. La campagna fu martellante, ben riuscita. Colpiva assai. Sulla parte bassa dello schermo, piccola piccola, la scritta «con il supporto di» e il marchio del gruppo farmaceutico Menarini. Il quale aveva appena lanciato sul mercato la pillola contro l' eiaculazione precoce Priligy. Pensa un po' la combinazione. Semplice no? Non puoi fare lo spot al farmaco, perché si tratta di un farmaco di fascia A (necessitano di prescrizione e vengono rimborsati, perciò la legge ne vieta la pubblicità). E allora fai lo spot direttamente alla malattia. Campagna pubblicitaria, spot, convegni. Ci sentiamo tutti malati di eiaculazione precoce, come ci sentivamo tutti malati di stitichezza, come ci sentiamo tutti malati di insonnia o di calvizie o di cellulite o di impotenza o di qualsiasi problema che immediatamente rimanda a una soluzione chimica. Siamo diventati così: talmente ansiosi di star bene che finiamo per star male. Per sentirci malati anche quando non lo siamo. E dunque torniamo a dove siamo partiti, a quel fiorire di giornate mondiali che sembrano non avere un senso, ma forse un senso ce l' hanno proprio. A questo punto dovrebbe essere chiaro, no? Anche dove non c' è il disturbo in primo piano, alla fine si cade sempre lì: la giornata del sonno? Serve a ricordare quanti italiani dormono male, un rimedio in farmacia ci sarà. La giornata della stanchezza? Serve a ricordare quante volte ci sentiamo un po' giù, un rimedio in farmacia ci sarà. E la giornata dell' orgasmo? Serve a ricordare che se la giornata dell' orgasmo viene una volta sola all' anno, può essere un problema. Bisogna provvedere. Ovviamente con la pillola. E se qualcuno, in questo modo, ci guadagna fino a 2 miliardi di euro l' anno, noi che ci possiamo fare?
MARIO GIORDANO: «GLI SCIACALLI DELLA NOSTRA SANITA'». Panorama.it mercoledì 6 maggio 2020. Gli sprechi in corsia e i guadagni stellari delle compagnie farmaceutiche, le attese infinite per le visite, i tagli ai servizi essenziali e il cinico business intorno ai pazienti. Il giornalista anticipa, in esclusiva a Panorama, il suo nuovo libro «Sciacalli». Ecco chi si arricchisce sulla nostra pelle. «Mi sono trovato un dossier sul tavolo, me lo aveva lasciato il ministro per chiedere un parere». Su cosa? «Dovevamo pagare 20 milioni di euro a due aziende farmaceutiche». Venti milioni? «Sì». Per avere che? «Il diritto di prelazione su un vaccino in caso di pandemia». Cioè per l'acquisto? «No, non per l'acquisto. Solo per il diritto di prelazione». Cioè 20 milioni per il diritto ad avere vaccini nell'eventualità di una pandemia? «Esatto». Senza sapere di che pandemia stessimo parlando? «Esatto». Dunque senza sapere di che vaccino stessimo parlando? «Esatto». Solo per avere, nell'eventualità, il diritto di comprare? «Capisco il suo stupore». Quando il dottor Armando Bartolazzi, medico assai quotato e ex sottosegretario alla Salute nel primo governo di Giuseppe Conte, mi ha raccontato questo episodio, era l'autunno 2019 e il coronavirus non sapevo nemmeno che cosa fosse. Però mi aveva colpito scoprire che c'erano rappresentanti di aziende farmaceutiche che andavano in giro a offrire, al modico prezzo di 20 milioni di euro, una specie di prelazione per comprare il vaccino in caso di pandemia. Sia chiaro: non penso che sapessero qualcosa in anticipo. Niente complottismi, per carità. Ma mi domando: è giusto chiedere 20 milioni al buio per una prelazione sui vaccini in caso di pandemia? E questo vuol dire che in giro per il mondo c'è qualcuno che ha già pagato quella cifra? E quindi costui, quando finalmente il vaccino sarà pronto, passerà davanti agli altri? In virtù della prelazione? Dei 20 milioni sborsati? E che prezzo avrà quel vaccino? Se lo potranno permettere tutti? Domande lecite, mi auguro. Anzi, domande che dovremmo farci con una certa urgenza. Il rapporto tra soldi e salute, infatti, sarà il vero nodo cruciale dei prossimi anni. E non solo per i virus. «Per ogni malato di cancro ai polmoni» mi disse in quell'occasione il dottor Bartolazzi «oggi spendiamo, con le terapie innovative, l'equivalente di due Ferrari. Ma tra un po' le Ferrari diventeranno quattro. Fino a quando potremo permettercele? Arriveremo al punto di cui si dirà: tu hai 40 anni, ti possiamo curare. Tu ne hai 41, troppo vecchio, non ti cureremo più». Pensavo, allora, che stesse esagerando. Abbiamo capito, nella ultime settimane, che non siamo troppo lontani da lì. La sanità ci salva la vita, ma poi chi salva la sanità dagli sciacalli? Per anni abbiamo trascurato questo tema. Sembrava irrilevante. Intanto lasciavamo che fossero dragati soldi al settore: non c'è stato Consiglio dei ministri degli ultimi decenni in cui non si discutesse di come risparmiare sulla salute dei cittadini. Ai medici (che oggi tutti chiamano eroi) sono stati tolti 37 miliardi di euro in dieci anni, altri denari sono stati sprecati in ospedali mai aperti e padiglioni fantasma. È noto. Ma c'è anche altro, di cui si parla meno. Per esempio: la sanità pubblica non potrebbe risparmiare sull'acquisto dei farmaci? Nel dicembre 2018 la Regione Piemonte è riuscita a comprare un medicinale contro il cancro (imatinib) con un risparmio del 99 per cento: è bastato passare dal principio originale al similare, organizzando regolare gara. Lo stesso ha fatto con un altro farmaco (trastuzumab) risparmiando il 71 per cento (da 565 a 163 euro). Benissimo, penserete voi. Lo faranno tutti. Macché: mesi dopo in Umbria quello stesso farmaco trastuzumab veniva pagato non 163 ma 762 euro. Cinque volte di più. E perché? Mistero della fede farmacologica. Infatti: forse pochi lo sanno ma il prezzo a cui lo Stato acquista le medicine è un segreto, più segreto del segreto di Fatima. Farmindustria parla di «riservatezza che serve a tutelare l'accordo raggiunto». Sarà, ma è un po' strano, no? È come se al mercato fossero tolti i cartellini alla frutta e alla verdura: il prezzo viene sussurrato dal venditore all'orecchio dell'acquirente. «Se non riveli la cifra a nessuno, ti faccio uno sconto speciale». Alla fine ognuno è convinto di avere spuntato il prezzo più basso. Ma è evidente che non è così. Luca Li Bassi, fino a ottobre direttore generale dell'Aifa, ci scherza su: «Quando ci troviamo alle riunioni dei vari enti nazionali, io italiano con quello tedesco, verrebbe naturale da chiedere: tu quanto l'hai pagato quel farmaco? E quell'altro? Ma non possiamo farlo per le clausole di riservatezza. C'è da ridere: a tutti noi è stato detto che abbiamo pagato il prezzo più basso e tutti sappiamo che non può essere vero…». Proprio come nel nostro ipotetico mercatino, tra pere, mere e figure da cachi.Il prezzo dei farmaci deve essere trasparente: lo prevede una direttiva europea del 1989, che però non è mai stata applicata. Peccato perché su questo punto si gioca una partita fondamentale, come ha dimostrato anche l'emergenza coronavirus. Viviamo infatti in uno strano paradosso: abbiamo a disposizione medicine sempre più sofisticate, poi mancano i respiratori all'ospedale di Bergamo. Produciamo farmaci da due milioni di dollari, ma non ci sono posti in terapia intensiva a Cremona. I medici non hanno camici a norma e il prezzo di una pillola contro il cancro aumenta del 1.540 per cento in un giorno, solo perché l'azienda ha cambiato proprietà. Quello dei farmaci è l'unico settore dove il progresso ha fatto aumentare i costi. Pensate ai trasporti: nel 1953 per andare da Roma a New York ci volevano 10 giorni in nave e 5.300 dollari. Oggi 9 ore di aereo e 225 dollari. Migliora la tecnologia, si riduce il prezzo. Al contrario di quello che succede con i farmaci. Qualcuno dice: sì, ma questi ultimi spesso sono l'unica chance per sopravvivere. Perfetto: ma allora quanto dovrebbe costare un salvagente? Anche la ricerca: oggi scopriamo quanto sia importante. Non sarebbe giusto che gli Stati ci investissero di più? Perché l'abbiamo lasciata per anni nelle mani dei privati? La Glaxo è stata condannata per aver nascosto i danni di un antidepressivo usato anche per i bambini. In Francia è in corso il processo alla Servier: avrebbe provocato duemila morti tacendo i rischi della pillola per i diabetici. Negli Stati Uniti ci sono 22 aziende farmaceutiche sotto accusa per aver spinto antidolorifici capaci di creare dipendenza e 400 mila morti in dieci anni. C'è da fidarsi? Fra l'altro soltanto il 40 per cento dei risultati degli studi farmaceutici oggi viene pubblicato. Ed è un danno incalcolabile perché la ricerca avrebbe bisogno di tutti i dati: dipendiamo dai dati, come si è visto anche in questi giorni. Perché nasconderli? Nel giugno 2019 il Washington Post ha rivelato che Pfizer aveva scoperto un farmaco capace di avere risultati nel 64 per cento dei casi sui malati di Alzheimer. Non ha ritenuto di pubblicarli. Suo legittimo diritto, si capisce. Ma è giusto? Questo bisogna chiedersi: è giusto il sistema che abbiamo costruito? Giovanni Battista Gaeta, infettivologo di fama e docente all'Università Luigi Vanvitelli, è stato incaricato di scrivere le linee guida della Regione Campania sull'uso dei farmaci. Abbiamo scoperto che lo stesso dottor Gaeta risulta aver ricevuto un contributo in denaro dalla multinazionale Merck. Sono pochi soldi, certo. Ma bastano per far venire il sospetto: non sarebbe meglio se chi dà indicazioni ufficiali sull'uso dei farmaci non prendesse soldi da chi i farmaci li produce? Glielo chiediamo. E lui risponde: «Il sistema è questo. Buono o cattivo che sia, nessuno ne ha trovato uno migliore». E poi aggiunge: «Se le linee guida dovesse scriverle chi non prende soldi dalle case farmaceutiche, le dovrebbe scrivere l'usciere». Con buona pace dell'usciere, dopo il ciclone coronavirus, forse possiamo chiederci se per caso non sia possibile trovare un sistema migliore. Perché forse non ci sarà niente di male, ma a noi non sembra normale che prendano soldi dalle multinazionali non solo i dottori, non solo le società mediche, non solo le associazioni dei malati, ma anche le istituzioni pubbliche, le Asl e persino l'Istituto Superiore di Sanità, che in tre anni ha incassato 323 mila euro dalla Glaxo. Non tanti, ma forse troppi per quello che dovrebbe essere l'arbitro supremo e imparziale, non vi pare? L'Agenzia europea per il farmaco, poi, sta messa peggio ancora: l'84 per cento del suo bilancio dipende delle aziende farmaceutiche. Gli esperti lamentano che, in generale, i servizi sanitari nazionali spendono troppo per i medicinali e sarebbe meglio usare quei denari altrimenti. Ma come stupirsi se ciò accade? L'impressione è che molti farmaci non servano per curare le persone. Servono per curare i bilanci. E, in quello, va detto, funzionano benissimo. «La metà dei farmaci è inutile» dice il più esperto e autorevole dei farmacologi, Silvio Garattini. E le ricerche confermano le sue parole. Nel luglio 2019, per esempio, una dottoressa dell'Istituto pubblico della sanità - Beate Wiesler - ha scoperto che su 216 farmaci nuovi messi sul mercato solo 54, cioè uno su quattro, ha portato reale beneficio. Ciò significa che tre su quattro sono stati sostanzialmente inutili. La rivista medica francese Prescrire ha pubblicato un elenco di 105 farmaci che provocano più danni che benefici. Tutto ciò fa tornare in mente quel presidente di azienda farmaceutica che diceva: «Il nostro obiettivo? Vendere medicine alle persone sane». Obiettivo centrato, si direbbe: basti pensare all'eccesso nell'uso di antibiotici (vera emergenza mondiale), allo spreco della vitamina D (320 milioni di euro buttati ogni anno in Italia), per non dire del proliferare di esami inutili (10 miliardi di euro buttati ogni anno in Italia) che per lo più servono a creare malati anche quando non ci sono. Perché pure in quello siamo stati bravissimi: nel creare malattie che non esistono, salvo poi non avere i mezzi per contenere quelle che ci distruggono davvero… Se vogliamo ricostruire la sanità bisogna tenere presente tutto questo. Bisogna metterci più soldi, certo: ma bisogna anche metterli bene. Capire dove vanno a finire. Negli ultimi dieci anni, per dire, in Italia i consulenti della Kpmg hanno incassato 100 milioni di euro per fare un lavoro che poteva fare tranquillamente lo Stato. Una delle Regioni dove gli esperti sono stati più presenti è stata la Calabria. I risultati? Debito esploso e ospedali fatiscenti. I dati, in ogni caso, sono impietosi: dal 2009 al 2017 la spesa pubblica sanitaria italiana è cresciuta meno che in qualsiasi Paese Ocse (esclusi Grecia, Portogallo e Lussemburgo). Il nostro Stato investe per la salute di ogni cittadino 2.545 dollari, cioè 500 in meno della media Ocse (3.038). In compenso i cittadini italiani spendono di tasca loro 791 dollari, cioè più della media Ocse (716).Un italiano su tre ormai paga le cure sanitarie essenziali di tasca sua, facendo così esplodere i guadagni della Salute Spa le aziende del settore hanno avuto negli ultimi anni crescite di fatturato fino al 40 per cento. Il motivo? Lo spiega uno studio Cergas Bocconi: «La domanda insoddisfatta del Servizio Sanitario Nazionale diviene area strategica». Perfetto, no? L'insoddisfazione dei malati è strategica per i bilanci aziendali. Vi siete mai chiesti perché in certi ospedali ci vogliano 550 giorni per una mammografia? E perché in generale i tempi di attesa per una visita si allunghino sempre di più? Ecco: è l'insoddisfazione che diventa strategica. E di strategia in strategia sulla sanità si stanno già avventando anche altri soggetti interessati al grande business del presente e del futuro, dalle assicurazioni, che s'inventano nuove formule sempre più aggressive, ai giganti del web, disposti a investire montagne di dollari anche per acquisire i dati dei malati. Tutto legittimo, per carità. Ma bisogna stare in guardia. Evitare abusi. E soprusi. «La salute è la cosa più importante» ci ripetiamo da sempre. Eppure per anni ci siamo dimenticati di investire, di controllare, di conoscere, e abbiamo lasciato via libera agli sciacalli, quelli che di fronte ai pazienti non pensano a curarli ma a farli rendere. Chissà se lo choc del coronavirus ci darà la forza per cambiare strada. Quando un libro contiene tanti numeri è spesso respingente Sciacalli. Virus, salute e soldi. Chi si arricchisce sulla nostra pelle di Mario Giordano (Mondadori, pp. 204, euro 19) ha l'effetto opposto. A ogni cifra che aggiunge fa crescere la rabbia e proseguire nella lettura. Inchiesta coraggiosa su sprechi pubblici, arbitri della classe medica, interessi di gruppi privati del settore, rivolta come un calzino i 114 miliardi che il bilancio statale destina, ogni anno, alla Sanità. Emergono così i costi abnormi (che dire dei circa 2 miliardi di euro di risparmi immediati se si facessero pagare lo stesso prezzo in tutta Italia siringhe e altri semplici dispositivi?). Soprattutto fanno arrabbiare i guadagni stellari delle case farmaceutiche su forniture ospedaliere (un prodotto contro l'ipertensione fatto pagare circa 2.200 euro e che dovrebbe costarne 27). Pagine che fanno ancor più riflettere mentre l'Italia combatte Il coronavirus, con spunti preziosi per immaginare una Sanità più giusta. Sempre che ci sia una classe politica capace di raccoglierli.
"Ammazza il virus", "È falso". Battaglia sull'arma anti-Covid. La cura del plasma iperimmune per i pazienti Covid divide gli esperti: "Non è una pozione magica" dice il virologo Burioni. Dal Cts nessun interessamento, Salvini: "Approfondite il lavoro di questi medici". Rosa Scognamiglio, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale. "Funziona", "Non è una pozione magica". La cura del plasma iperimmune per gli ammalati di Covid-19 diventa terreno di scontro tra gli esperti ingenerando una polemica senza precedenti. Se da un lato, infatti, c'è chi sostiene la validità della terapia saggiata all'ospedale San Matteo Pavia, dall'altro qualcuno ne mette indiscussione l'efficacia lamentando l'assenza di risultati inconfutabili.
La polemica. La pubblicazione scientifica relativa all'esito della "cura pavese", sperimentata anche al Carlo Poma di Mantova e all'Ospedale Cotugno di Napoli a partire da metà maggio, sarà disponibile nelle prossime settimane. Nell'attesa che i dati possano fugare ogni eventuale dubbio sull'adeguatezza del trattamento, il numero dei pazienti immunizzati raggiunge una quota a dir poco significativa: 48 guariti e neanche un decesso. Tuttavia, sono ancora molti i virologi che sostengono l'impraticabilità della terapia manifestando scetticismo e, talvolta, beffante disappunto. "La nuova pozione magica", commenta con tono vagamente irridente il virologo Roberto Burioni lanciando una frecciatina piccata al collega Giuseppe De Donno, primario presso il Reparto di Pneumologia dell'Ospedale Carlo Poma di Mantova e fautore della cura. Resta in silenzio, invece, il Comitato tecnico scientifico mentre il leader della Lega Matteo Salvini non fa mistero delle sue posizioni chiedendo l'intervento del Governo: "Nessuno ne parla. Approfondite quello che questi medici stanno facendo". A sedare gli animi ci pensa Cesare Perotti, dirigente di Immunoematologia del Policlinico San Matteo di Pavia, coautore dello studio insieme al collega del centro trasfusionale Massimo Franchini, l'infettivologo Salvatore Casari e lo pneumologo Giuseppe De Donno. "Il trattamento dà esiti incoraggianti, - afferma l'esperto - ma è necessario terminare l' analisi di tutti i parametri biologici e clinici relativi ai 50 pazienti trattati, analisi tuttora in corso, e superare il vaglio della comunità scientifica, prima di poter affermare se e quanto funziona". Secondo fonti del Fatto Quotidiano, il gruppo di studiosi avrebbe scritto fin da marzo al ministero della Salute per chiedere un coordinamento della raccolta del sangue dei guariti ma non avrebbe mai ricevuto alcuna risposta. E anche l'Istituto superiore di sanità (Iss) non avrebbe manifestato grande interesse. Insomma, si brancola nel buio o, meglio ancora, nel silenzio. Alla luce dei riscontri ottenuti, la cura sembrerebbe sortire risultati incoraggianti. Tuttavia, per poterne convalidare l'efficacia bisognerà attendere l'esito relativo parametro della viremia, cioè la quantità di virus presente nell'organismo dei pazienti prima e dopo l' infusione di anticorpi. Fatto sta che, se la sperimentazione fosse messa a protocollo nazionale, richiederebbe un investimento economico piuttosto contenuto - 90 euro per paziente a carico del Servizio sanitario nazionale - dettaglio non trascurabile in tempi di ristrettezze. "Il plasma non è commerciabile in Italia - spiega Casari -Al massimo si può cederlo a un' altra struttura sanitaria, con rimborso del costo vivo".
I risultati dello studio. Intanto, i risultati di ben tre ricerche condotte a Wuhan confermano la validità del trattamento anche nei pazienti con sintomatologia Covid acuta. Perotti e i suoi colleghi chiedono, pertanto, che la cura venga testata nell' ambito di studi più ampi e randomizzati, cioè dove sia previsto anche un gruppo di pazienti cosiddetti 'di controllo', che abbiano sintomi molto più lievi dei primi o siano trattati con un altro farmaco, per poter confrontare la reale superiorità, in termini di efficacia, della terapia. Indagine che finora nessuno ha ancora svolto. "Senza studi randomizzati, non si può essere sapere se i pazienti sono guariti a causa di una terapia sperimentale o nonostante essa", si legge il 7 aprile sulla rivista medica Jama in merito alla terapia del plasma iperimmune. Il protocollo di Pavia e Mantova è stato chiesto da molti altri Paesi nel mondo. Inclusi gli Usa. Lì ora sono già pronti 2.089 ospedali, 4.600 medici, 10 mila pazienti arruolati e 5 mila sono stati già trattati con il plasma iperimmune, pur essendo partiti ben dopo l' Italia. Il gruppo ha ceduto parte del plasma anche a molti altri ospedali italiani per trattare altri 50 malati gravi, fuori dal protocollo di sperimentazione. "Anche da lì stanno emergendo risultati interessanti, che presto verranno pubblicati", ha detto Perotti.
La testimonianza. "Sono un medico di famiglia, e capisco che cosa si prova a stare nei panni del malato, perché anch' io ho dovuto lottare con tutte le mie forze contro questo Coronavirus. Mi considero fortunato per essere stato preso in cura in Lombardia e trattato con il plasma ricco di anticorpi neutralizzanti ricavati dal sangue di donatori convalescenti". A raccontarlo è Mario Scali, medico di base residente a Parma, risultato positivo al Covid-19 lo scorso aprile. In una lunga intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, il dottore racconta la sua esperienza da paziente esprimendo riconoscenza incondizionata nei confronti dei colleghi che lo hanno trattato con la cura del plasma iperimmune. "Sono stato ricoverato 19 giorni all' Ospedale di Mantova, dove lavora anche mia moglie immunologa, nel reparto malattie infettive. - racconta - Mi era venuta la febbre, l' affanno, altri segni caratteristici, insomma ai primi sintomi ho capito che mi ero beccato l' infezione da Coronavirus. Ora sono guarito, finalmente posso dirlo. Lo hanno provato anche le analisi sierologiche e molecolari cui sono stato sottoposto, un doppio tampone negativo, le immunoglobuline G positive, e IgM negative, segno che ho affrontato una malattia impegnativa che mi toglieva le forze e che avrebbe potuto prendere una brutta piega se non avessi avuto la fortuna di essere sottoposto alla terapia con plasma iperimmune, ricco di anticorpi neutralizzanti contro il virus Sars-Cov-2". La terapia sperimentale sembra aver sortito ottimi risultati e il dottor Scali ne è la prova evidente. Cionostante, il Ministero continua a mostrare reticenza circa il protocollo sperimentato a Pavia e Mantova invitando alla prudenza. "L'invito alla prudenza è legato al fatto che questa è una malattia ancora poco conosciuta, ma la terapia con le immunoglobuline ha una lunga storia. - spiega - ho seguito i corsi di evidence based medicine della Fondazione Gimbe, concordo pienamente sul fatto che devono esserci delle prove di efficacia robuste perché una terapia possa entrare in un protocollo condiviso. Però sono meravigliato, e anche deluso da certe affermazioni che ho letto nella mia Regione". Tanto, forse troppo, lo scettismo da parte delle istituzioni che potrebbero, al contrario, favorire il trattamento sperimentale accellerando il processo di guarigione per molti pazienti Covid. "Non credo che il plasma possa essere una terapia da utilizzare subito e per tutti i pazienti. -continua il dottore - Ma ritengo che sia una terapia che merita di essere sperimentata e valutata, e che potrebbe aiutare qualche paziente. C' è chi l' ha definita un tormentone, avvicinandola alla terapia Di Bella e al siero Bonifacio". La vicenda appare piuttosto controversa e intricata, tale da alimentare una polemica senza precedenti: "Dico, anche la Fda americana ha preso in considerazione il plasma. In Italia si sta sperimentando a Mantova, Pavia, Pisa, Padova, mi resta oscuro il motivo per cui da altre parti si sollevano resistenze e perplessità", conclude Scali.
Angela Marino per "fanpage.it" il 6 maggio 2020. Era sul punto di fare "scoperte molto significative": un professore dell'Università di Pittsburgh impegnato nella ricerca medica contro il Covid-19 è stato ucciso a colpi di pistola in un apparente dinamica omicidio-suicidio. Il corpo di un secondo uomo – identificato martedì dall'ufficio del medico legale della Contea di Allegheny come Hao Gu, 46 anni – è stato trovato in un'auto parcheggiata vicino alla scena della prima morte. Bing Liu presentava ferite da arma da fuoco alla testa, al collo, al busto e agli arti. Gli investigatori credono che si stato ucciso dall'uomo trovato morto a pochi passa da casa, me le indagini sono ancora in corso. L'università ha rilasciato una dichiarazione affermando che "è profondamente rattristata dalla tragica morte di Bing Liu, un prolifico ricercatore e ammirato collega di Pitt. L'Università estende le nostre più sentite simpatie alla famiglia, agli amici e ai colleghi di Liu in questo momento difficile". Liu ha conseguito il dottorato presso l'Università di Singapore nel 2012. Si è trasferito negli Stati Uniti e ha lavorato come borsista presso la Carnegie Mellon University con il famoso scienziato informatico Edmund M. Clarke, vincitore del Turing Award 2007. "Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell'infezione da SARS-CoV-2", hanno detto i suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi dell'Università. I membri della School of Medicine dell'Università descrivono il loro ex collega come ricercatore e mentore eccezionale, e si sono impegnati a portare avanti il lavoro fatto da Liu "nel tentativo di rendere omaggio alla sua eccellenza scientifica".
Il giallo del ricercatore cinese assassinato in America. Davide Bartoccini su Inside Over il 6 maggio 2020. La ricerca sul Covid-19 e la sua cura si macchiano di sangue, e adesso è giallo sull’assassinio di un professore cinese dell’università americana di Pittsburgh che è stato freddato con un colpo di pistola alla testa. Era vicino a fare “scoperte molto significative” sul virus che ha scatenato la pandemia globale e rischia di cambiare per sempre le nostre vite. E sebbene gli inquirenti non possano collegare il movente dell’omicidio alle ricerche avanzate campo scientifico su un tema così delicato, un velo di mistero sta già avvolgendo il caso sotto indagine. A freddare Bing Liu, 37 anni, sarebbe stato un altro uomo, Hao Gu, 46 anni, anche lui di Pittsburgh, trovato morto lo stesso giorno, sabato 2 maggio, a poca distanza dal luogo del delitto. Dopo aver sparato diversi colpi di pistola sul ricercatore che si trovata nel patio della sua abitazione, quest’ultimo si sarebbe tolto la vita nella propria auto. Secondo gli inquirenti non si tratterebbe di un rapina, anzi, i due uomini si conoscevano, e l’assassino avrebbe agito mentre la moglie della vittima era fuori casa. Sarebbe da escludere, secondo la polizia di Pittsburgh, la “pista cinese“: ossia un omicidio legato alle origini asiatiche dell’uomo; ma non si può allo stesso tempo non considerare la possibile implicazione delle sue ricerche sul Sars-Cov-2. Fonti interne all’università statunitense dove la vittima lavorava da sei anni hanno dichiarato: “Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell’infezione da Sars-CoV-2 e le basi cellulari delle seguenti complicazioni”. I suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi della School of Medicine lo hanno descritto come “ricercatore e mentore eccezionale”, affermando che si impegneranno a “rendere omaggio alla sua eccellenza scientifica” completando le ricerche che stava portando avanti con dedizione. Bing Liu, originario della Cina, aveva conseguito la laurea e il dottorato di ricerca in informatica presso la National University di Singapore per poi stabilirsi negli Stati Uniti, e proseguire la sua carriera accademica prima nella prestigiosa Carnegie Mellon University, dove collabora con il professor Edmund Clarke, e poi all’University of Pittsburgh School of Medicine. La stessa dove Andrea Gambotto e Louis Falo sono attualmente impegnati nel coordinamento di un gruppo di ricercatori che lavora senza sosta alla creazione di un vaccino efficace per fermare il nuovo coronavirus Sars-Cov-2. Secondo quanto riportato dallo scienziato italiano, il vaccino – una sorta di un cerotto che viene applicato sulla cute delle cavie e che potrebbe essere il primo ad essere approvato dalla Food and Drug Administration – ha superato la fase di sperimentazione animale, producendo la quantità di anticorpi specifici sufficienti a neutralizzare il virus. Un obiettivo molto ambito in questo momento di competizione scientifica che vede una vera e propria corsa al vaccino che “salverà il mondo”. In ballo infatti non c’è solo la salvaguardia dell’umanità, ma anche interessi economici e politici. Per questo motivo, e per le “scoperte molto significative” ottenute dalla vittima riguardo il misterioso “virus cinese” – che gran parte dell’opinione pubblica ritiene essere, senza alcuna prova che possa suffragare la tesi, un’arma biologica creata in qualche laboratorio segreto per generare il caos e sovvertire gli assetti geopolitici – si sta cercando un collegamento tra la ricerca sul Covid-19 e questa brutale esecuzione. Per adesso ciò che è certo, è che un giovane e promettente ricercatore ha perso la vita. Lascia una moglie e i suoi genitori, che ancora vivono in Cina.
La verità dietro la morte di Bing Liu, il ricercatore che studiava il Covid-19 al centro delle teorie del complotto. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Stava studiando la “comprensione del meccanismo cellulare alla base dell’infezione da SARS-CoV-2”, e per questo il ritrovamento del suo cadavere ha dato il via ad una serie di teorie complottiste, secondo cui la vittima aveva scoperto che il Coronavirus era stato creato in laboratorio negli Stati Uniti. È il giallo dietro la morte di Bing Liu, 37 anni, medico cinese dell’Università di Pittsburgh in Pennsylvania (Stati Uniti), trovato privo di vita nella sua abitazione lo scorso sabato ucciso da alcuni colpi di arma da fuoco. Sui social, in particolare sul cinese Weibo, sono subito iniziate a circolare teorie sulle sue presunte scoperte di un ruolo americano dietro la diffusione del Covid-19. Ad amplificare la divulgazione di queste teorie anche le parole di alcuni colleghi del ricercatore 37enne: “Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell’infezione da SARS-CoV-2″, hanno dichiarato i suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi dell’Università. In realtà le autorità americane hanno chiarito i dettagli della vicenda delittuosa: ad uccidere il ricercatore cinese, laureato all’Università di Singapore dove aveva anche conseguito un Phd in scienze informatiche, è stato il 46enne Hao Gu. Quest’ultimo è stato trovato morto a sua volta nella sua auto, non molto distante dall’appartamento di Bing Liu: il movente sarebbe sentimentale, perché i due si sarebbero innamorati della stessa donna. Per questo sarebbe nato una violenta lite culminata nell’omicidio-suicidio perpetrato da Hao Gu.
· La Dittatura Sanitaria.
“Quanto guadagnano i 26 esperti di Speranza?”. Donzelli fa la domanda sul Cts che nessuno osava fare. Penelope Corrado martedì 17 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. La domanda circola negli ambienti della Sanità pubblica in maniera insistente. La pongono a mezza bocca molti addetti ai lavori. Oggi Giovanni Donzelli l’ha formulata in modo schietto. “Quanto guadagnano i membri del Cts (Comitato tecnico scientifico)?”. Formalmente, infatti, i saggi scelti dal ministro Speranza, lavorano gratis. L’ormai famoso Cts è infatti un organismo che non comporta alcun costo aggiuntivo per le casse dello Stato. Tuttavia, come osserva il deputato di Fratelli d’Italia, c’è un margine di ambiguità. «I virologi – dice Donzelli da Klaus Davi per il web talk KlausCondicio – con un atto di trasparenza dovrebbero rendere pubblici i dati sia delle consulenze che dei rimborsi spese. Perché se è vero che dicono di lavorare a titolo gratuito, in realtà sarebbe opportuno anche fare una verifica sui rimborsi spese perché da lì si potrebbe capire quanto guadagnano. Contestualmente andrebbero anche resi pubblici i dati del CTS, che vengono pubblicati solo dopo 75 giorni. Ma quale utilità potrebbero avere dopo 75 giorni quando nel frattempo negozi e aziende saranno chiusi?». «Per la partecipazione al Comitato non sono dovuti compensi, gettoni di presenza o altri emolumenti. Eventuali oneri di missione, derivanti dalla partecipazione alle riunioni del Comitato sono a totale carico dei partecipanti o delle Amministrazioni e strutture di appartenenza». Cosi recita l’articolo 3 dell’ordinanza n.663 del 18 aprile 2020. L’ordinanza porta la firma del capo dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli. Insomma, il fatto che gli “eventuali oneri di missione” siano a carico delle strutture di appartenenza, può creare un meccanismo di scatole cinesi. E qui, il termine “cinese” è più appropriato che mai. Insomma, rendere trasparenti anche gli eventuali rimborsi dei 26 consulenti di Speranza sarebbe cosa buona e giusta, come chiede appunto il deputato di FdI. Ma chi sono i componenti del Comitato tecnico scientifico? Ecco l’elenco aggiornato.
Il Comitato tecnico scientifico è composto da:
Agostino Miozzo, Coordinatore dell’Ufficio Promozione e integrazione del Servizio nazionale della protezione civile del Dipartimento della protezione civile – con funzioni di coordinatore del Comitato
Silvio Brusaferro, Presidente dell’lstituto superiore di sanità
Claudio D’Amario, Direttore Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute
Mauro Dionisio, Direttore dell’Ufficio di coordinamento degli Uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera del Ministero della salute
Achille Iachino, Direttore Generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del Ministero della salute
Sergio Iavicoli, Direttore Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’INAIL
Giuseppe Ippolito, Direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”
Franco Locatelli, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità del Ministero della salute
Nicola Magrini, Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco
Giuseppe Ruocco, Segretario Generale del Ministero della salute
Nicola Sebastiani, Ispettore Generale della sanità militare del Ministero della difesa
Andrea Urbani, Direttore Generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute
Alberto Zoli, rappresentante della Commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome.
Fanno parte del Comitato i seguenti esperti:
Massimo Antonelli, Direttore del Dipartimento emergenze, anestesiologia e rianimazione del Policlinico Universitario “A. Gemelli”
Roberto Bernabei, Direttore del Dipartimento Scienze dell’invecchiamento, neurologiche, ortopediche e della testa – collo del Policlinico Universitario “A. Gemelli”
Fabio Ciciliano, dirigente medico della Polizia di Stato, esperto di medicina delle catastrofi – con compiti di segreteria del Comitato
Ranieri Guerra, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
Francesco Maraglino, Direttore dell’Ufficio prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale del Ministero della salute
Luca Richeldi, Presidente della Società italiana di pneumologia
Alberto Villani, Presidente della Società italiana di pediatria.
Inoltre, ordinanza del Capo Dipartimento della Protezione civile n. 673 del 15 maggio 2020, il Comitato è integrato con i seguenti componenti:
Giovannella Baggio, Presidente del Centro studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere
Elisabetta Dejana, Membro del Consiglio Superiore di Sanità del Ministero della salute
Rosa Marina Melillo, Professore Patologia Generale presso l’Universita’ “Federico II” di Napoli
Nausicaa Orlandi, Presidente della Federazione Nazionale degli ordini dei chimici e dei fisici
Flavia Petrini, Professore Settore Scientifico Disciplinare – Anestesiologia – Dipartimento di Scienze Mediche Orali e Biotecnologiche dell’Università degli Studi G.d’Annunzio (Ud’A) di Chieti-Pescara
Kyriakoula Petropulacos, Direttore Generale Cura della Persona e Welfare della Regione Emilia-Romagna.
I tecnici che ci mancano. La pandemia è affare di virologi e medici, ma non solo. Al tavolo delle decisioni mancano i sociologi quantitativi. Pier Luigi Del Viscovo, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. La pandemia è affare di virologi e medici, ma non solo. Al tavolo delle decisioni mancano i sociologi quantitativi. Intendiamoci, per un Paese che ha portato nelle stanze dei bottoni degli ignoranti qualsiasi al grido di «questo lo dice lei», aver messo in cattedra persone che per tutta la vita hanno studiato virus e rianimato pazienti è già un bel passo avanti. Questi scienziati stanno dando un ottimo contributo, pur nelle posizioni a volte divergenti. Cosa comprensibile, essendo molto aiutati a divergere dai professionisti della notizia. La domanda è se basti oppure serva altro. No, non basta e sì, serve ben altro. Se il virus e la cura degli infetti competono ai medici, la circolazione dell'infezione no. Il Covid cammina sulle gambe della gente e la società è una bestia complessa, multiforme. Come sa bene chi per mestiere la studia da anni. I medici che siedono al tavolo leggono la realtà dalla sala rianimazione: se è sgombra potete muovervi, quando si riempie fermi tutti e state a casa. È la soluzione più efficace, ma pure la meno sostenibile nel medio termine. Purtroppo, ora siamo costretti a ricorrervi nuovamente, visto che quando abbiamo ripreso ad andare in giro e incontrarci l'abbiamo fatto nei modi sbagliati e poco sicuri. Fuori dagli ospedali c'è il virus e c'è una popolazione che con i suoi comportamenti determina la curva dei contagi. Capire cosa orienta tali comportamenti aiuta ad agevolare quelli virtuosi con provvedimenti e comunicazione. Questa analisi di merito è fondamentale, e ancora manca. Durante il lock-down, abbiamo imparato che per ottenere il distanziamento non bisognava chiudere i supermercati ma tenerli aperti h24. I sociologi lo sapevano già, visto che studiano le statistiche tutti i giorni. Ora si parla di ridurre l'occupazione degli autobus al 50%. Come si può, senza aumentare l'offerta? Davvero c'è chi crede che i passeggeri possano restare a terra? Non certo i sociologi. Monopattini e biciclette sarebbero una soluzione? Ma non scherziamo. Milano si sta facendo ridere dietro, perché riduce la viabilità quando ne serve di più, visto che più persone vogliono usare la macchina. La mobilità delle grandi masse è fenomeno di quantità e gli statistici della società devono essere interrogati e ascoltati. Da mesi ripetiamo che il goal non è chiudere la gente in casa, ma farla circolare e incontrare senza scambiarsi il virus. Per questo, non bastano i provvedimenti, nazionali o regionali che siano. In questa partita si vince o si perde in 60 milioni. Per sintonizzarci e fare squadra, in democrazia serve un'abile e sottile comunicazione. Quali tasti suonare è materia per chi nella vita studia la formazione delle opinioni, oggi soprattutto sui social media. Senza, noi chiuderemo adesso e i positivi scenderanno. Poi riapriremo a dicembre solo per scoprire, a metà gennaio, che i contagi staranno risalendo di nuovo. Tempo febbraio e si richiude tutto. Come sappiamo, è pura follia aspettarsi risultati diversi facendo e rifacendo la stessa cosa.
"Da Pechino solo bugie. Covid nato a settembre. Basta coi finti virologi". L'esperto: "Artificiale? Non lo escludo, è così umanizzato che non infetta più i pipistrelli". Felice Manti e Edoardo Montolli, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. Da quasi un anno combattiamo contro un virus, il Sars-Cov2, del quale non sappiamo ancora un granché. Né quando sia nato, né come sia nato: la mitologia dell'origine al mercato di animali vivi di Wuhan è ormai ampiamente superata (nel libro Wuhan - virus, esperimenti e traffici oscuri: nella città dei misteri già in allegato a Il Giornale, era stato raccontato come questo fosse impossibile). È d'accordo anche Giorgio Palù, professore emerito dell'Università di Padova e past-president della Società italiana ed europea di Virologia.
Lo scorso marzo la Società Italiana di Virologia, denunciò che nel Cts, l'organismo che affianca il governo, non sieda nemmeno un virologo. Lei conferma?
«Lo confermo. Certo che almeno un virologo avrebbe dovuto esserci fin dall'inizio, pur riconoscendo che va dato spazio anche a esperti di varie discipline della biomedicina rilevanti per una malattia di natura pandemica. Va segnalato che voi giornalisti avete definito virologi tutti gli esperti intervistati, anche professionisti che nulla hanno a che vedere con la virologia. Questa non è stata una corretta informazione per la popolazione che incolpa proprio questi virologi di idee contraddittorie e di battibecchi sui media che confondono e disorientano. La virologia è una scienza esatta, che studia la genetica e la riproduzione dei virus, l'interazione tra virus, ospite e sistema immunitario, i meccanismi di malattia, i bersagli di nuovi farmaci, il disegno di vaccini innovativi oltre che occuparsi di diagnosi e monitoraggio terapeutico. L'importanza della virologia è dimostrata dai numerosi premi Nobel per la fisiologia o la medicina assegnati ai virologi per scoperte fondamentali; vorrei ricordare tra questi anche gli Italiani Salvador Luria e Renato Dulbecco e i tre vincitori del Nobel di quest'anno».
Lei non esclude che il Sars-Cov2 sia un virus artificiale?
«Non si può dire che lo sia e non si può escludere che non lo sia. Se i cinesi collaborassero potremmo saperne di più, ma dai virologi di Wuhan non sono arrivate informazioni sui Coronavirus del pipistrello che in quel laboratorio erano da tempo studiati e tenuti in coltura. Certo è che questo virus, che discende da un virus del pipistrello per il 96% del suo genoma, ha acquisito delle sequenze affatto peculiari che lo hanno reso adatto ad infettare l'uomo che è ora diventato il suo ospite naturale. Tale acquisizione sembra essersi verificata in un unico evento, e le sequenze neo-acquisite non hanno subito modificazioni nonostante Sars-Cov2 abbia infettato milioni di persone al mondo. Il virus è oggi così umanizzato da non essere più in grado di infettare le cellule di pipistrello».
Uno studio del Mario Negri di metà ottobre ha rivelato come a Bergamo il 38,5% della popolazione abbia sviluppato gli anticorpi al virus, ovvero il doppio di quella di New York, e oltre il triplo di Madrid, seconda per letalità al mondo dopo Bergamo. Com'è possibile?
«È dipeso dall'elevata circolazione del virus nella bergamasca. Sars-Cov2 ha infettato e immunizzato un numero elevato di soggetti che hanno sviluppato anticorpi neutralizzanti, tanto che oggi quelle zone sono le meno colpite dal Covid-19. Il virus è circolato diffusamente in Lombardia, la prima regione interessata dall'epidemia, per varie ragioni: elevata densità abitativa, intasamento dei pronto soccorso, eccesso di ricoveri ospedalieri in mancanza di un filtro territoriale, conseguente diffusione nosocomiale del contagio anche per assenza di adeguati dispositivi di protezione e successiva esplosione in comunità. Più aumentava l'incidenza cumulativa dei nuovi casi più aumentavano i casi gravi e quelli letali, soprattutto perché in Lombardia era stata ampiamente superata la disponibilità di posti letto nelle rianimazioni».
Ma le mancate autopsie e gli intasamenti delle terapie intensive non bastano a spiegare cosa sia accaduto a Bergamo: migliaia di persone sono morte a casa, in tre giorni...
«Credo che quanto accaduto sia in larga misura conseguenza di come è stata gestita la pandemia, più come problema assistenziale in una competizione pubblico-privato che come emergenza di sanità pubblica. Il nostro sistema sanitario era impreparato, si trattava comunque di patologia causata da un nuovo virus, il primo Coronavirus pandemico, della cui insorgenza i cinesi avevano dato informazione molto tardiva. Sembra infatti dall'analisi del genoma, che come un orologio traccia il percorso evolutivo del virus, Sars-Cov2 circolasse da uomo a uomo sin da settembre 2019, ma l'Occidente lo ha saputo solo a gennaio 2020».
Qualcuno parla già di terza ondata, Lei sostiene che invece solitamente pandemie di questo tipo come in passato durino due anni al massimo...
«L'Italia non è mai uscita dalla prima ondata, come invece ha fatto la Cina, con una curva del contagio completamente azzerata ed un andamento perfettamente speculare della fase ascendente e discendente a tracciare una perfetta gaussiana. Anche se a un tasso ridotto, il virus in Italia ha continuato a circolare anche d'estate. E la popolazione del Sud, che era stata risparmiata dalla pandemia che invece aveva colpito di più il Nord, non ha ancora gli anticorpi per resistere al virus. Avremo quindi diffusioni non uniformi e asincrone del contagio non solo in Italia ma nel resto del globo».
E quanto durerà ancora?
«Trattandosi del primo Coronavirus pandemico è difficile fare delle previsioni e per lo meno fantasioso prospettare ondate in successione. È doveroso ammettere di non sapere. Nel prospettare la durata nel tempo di Covid-19 mi baso sull'esperienza di quanto avvenuto in passato con virus pandemici appartenenti ad altre famiglie, in particolare ai virus influenzali che sono accomunabili ai coronavirus per modalità di diffusione e per letalità».
Striscia la Notizia, attacco estremo a Roberto Speranza: le "figure di merda multiple" di un ministro da cacciare. Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. In un governo disastroso, in cui Giuseppe Conte è massima espressione del disastro, forse c'è anche chi riesce a fare peggio: Roberto Speranza. Gaffe e scivoloni l'uno dietro l'altro. Tanto che anche Striscia la Notizia cannoneggia contro l'improbabile ministro alla Salute. Lo fa con un tagliente servizio trasmesso nell'edizione del tg satirico in onda su Canale 5 lunedì 9 novembre, in cui vengono ripercorse le ultime due "prodezze", in rigoroso ordine cronologico, in cui è incappato Speranza. Spiega Striscia: "Tra il libro Perché guariremo, recentemente ritirato dal mercato, e lo scandalo del commissario della Sanità in Calabria Cotticelli, sostituito da un altrettanto discusso Zuccatelli, per il ministro della Salute Roberto Speranza non è certo un bel momento - premettono -. Anzi, come direbbe Emilio Fede, quelle accumulate dal ministro sarebbero delle figure di merda multiple", concludono da Striscia. Il messaggio è chiarissimo: Speranza farebbe meglio a farsi da parte.
Bruno Vespa a Quarta Repubblica: "Ho ripensato a Mussolini e a piazza Venezia piena". Il paragone col Covid: lo insultano in diretta. Libero Quotidiano il 10 novembre 2020. "Questo virus è un dittatore cruento", Bruno Vespa lascia per una sera Porta a porta e Raiuno per un "blitz" a Mediaset, ospite di Nicola Porro a Quarta repubblica. Si parla anche di coronavirus, seconda ondata, Dpcm e zone rosse, e Vespa espone una teoria suggestiva che sorprende i presenti in studio e molti telespettatori a casa: "Sono andato a Piazza Venezia alla fine del lockdown ed era deserta e ho ripensato a quando c'era il Duce e la piazza era gremita, quindi anche il virus è un dittatore, uno la riempie la piazza e l'altro la svuota". Un paragone spiazzante, quello tra Covid e Benito Mussolini, che trova anche qualche contestazione un po' troppo "vivace" sui social. E c'è come sempre chi passa direttamente agli insulti.
Gianluigi Paragone, i sospetti su Roberto Speranza: "Ranieri Guerra dal ministero alla direzione dell'Oms. Chi lo protegge?" Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. "I burocrati durano perché non si fanno vedere". Parola di Gianluigi Paragone che porta ai lettori un esempio non solo concreto, ma anche attuale. Il caso ormai noto è quello di Saverio Cotticelli, l'ex commissario per la Sanità della Calabria. L'uomo, con un lungo passato nell'Arma dei carabinieri, è stato beccato da Titolo V. La trasmissione di Rai 3 lo ha preso alla sprovvista e alla domanda sul perché mancasse un piano Covid, Cotticelli ha detto che non lo sapeva. O meglio, non sapeva che il compito spettasse a lui e l'ha scoperto davanti alle telecamere. "L'ex generale - verga al vetriolo sul Tempo il leader di Italexit - si dichiara vittima di un agguato mediatico. Ovviamente non ci sono stati agguati di nessun tipo, basta guardare quel servizio per accorgersi del degrado operativo in capo a questo signore messo li dal primo governo Conte e confermato sostanzialmente con il recente decreto Calabria di pochi giorni fa". Immediato il licenziamento dopo la trasmissione. Al suo posto è arrivato niente di meno di Giuseppe Zuccatelli o, come lo chiama Paragone, "un genio". Anche su di lui è piombata la polemica dopo alla diffusione di un video in cui diceva che per trasmettere il virus da positivi bisogna baciarsi per quindici minuti. Ma Cotticelli e Zuccatelli sono solo i primi di una lunga serie. "L'ultima puntata di Report - ricorda l'ex grillino -, per esempio, ha raccontato di un rapporto stilato da un gruppo di ricercatori Oms, visionato e vistato dai piani alti e poi fatto misteriosamente sparire perché inchiodava pesantemente il governo italiano e alcuni suoi ex alti dirigenti al ministero della salute. Come mai è sparito? Chi ne ha chiesto la rimozione nonostante la fondatezza delle tesi? Chi protegge Ranieri Guerra, ieri al ministero e oggi direttore aggiunto all'Oms?". La domanda sorge spontanea: "Perché tanta segretezza e tanti silenzi da parte del ministro nonché scrittore di libri ritirati, Roberto Speranza?", si chiede Paragone senza ricevere alcuna risposta.
Il Bianco e il Nero, Veneziani: "Conte parolaio del nulla". Fini: "Siamo alla dittatura sanitaria". L'ultimo Dpcm, le rivolte sociali, il Covid e le misure di contrasto. Ecco cosa ne pensano Massimo Fini e Marcello Veneziani. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Lunedì 26/10/2020 su Il Giornale. Le ultime misure varate dal governo Conte hanno fatto sorgere tensioni sociali in varie città e hanno gettato nel panico e nello sconforto intere categorie produttive. Le contraddizioni dell'ultimo Dpcm sono tante e la luce in fondo al tunnel sembra lontana. Ecco cosa ne pensano gli scrittori Massimo Fini e Marcello Veneziani per la rubrica Il Bianco e il Nero.
Cosa pensa dell'ultimo DPCM? Stiamo entrando in una "dittatura sanitaria"?
Fini: "Assolutamente sì, nel senso che nessun dittatore, nemmeno Mussolini, nemmeno Hitler, nemmeno Caucescu aveva sequestrato la gente in casa come invece oggi sta avvenendo. È una dittatura particolarmente fastidiosa perché viene sotto il nome di democrazia, se deve essere così, meglio un dittatore e la facciamo finita con questa ipocrisia".
Veneziani: "Siamo entrati in una dittatura sanitaria globale da marzo scorso e non ne siamo usciti. Una dittatura attenuata dall’incoerenza e dall’inefficienza. Il regime instaurato è la paurarchia, potere fondato sul terrore della malattia. Peraltro il modello cinese di riferimento inquieta".
Le proteste di Roma e di Napoli contro lockdown che valore hanno? Lei le condivide?
Fini: "Condivido e siccome ritengo questa una dittatura al dittatore si può rispondere in maniera violenta, è vero che in mezzo ci saranno mafiosi, camorristi etc etc, però credo che ci siano anche cittadini del tutto normali".
Veneziani: "Hanno valore di sintomi di un più vasto e comprensibile malessere. A parte le infiltrazioni violente, sono spie indicative del malessere popolare. Detto questo, nessuna ribellione di piazza, nessun masaniello produce cambiamenti che migliorano il quadro generale".
De Luca ha detto che in quella piazza c'erano pezzi di camorra, pezzi di centri sociali, pezzi di fascisti e pezzi di m... Non le pare un'analisi un po' riduttiva?
Fini: "È una lettura riduttiva perché sicuramente questi elementi ci sono ma ci sono anche persone esasperata, normali che non fanno parte né della camorra né della mafia e in quanto ai centri sociali mi pare che siano legittimi in quanto tali".
Veneziani: "De luca si è bevuto il cervello, ha fatto il guappo e’cartone quando il covid colpiva a nord, vantando la Salute Campana. Poi alla prova dei fatti ha mostrato che era tutta apparenza e guapparia".
Quali sono le colpe, le mancanze o le responsabilità del governo e delle Regioni?
Fini: "L'errore sta in partenza e cioè l'aver voluto contenere a tutti i costi il virus, è ovvio, io l'avevo previsto dall'inizio, che appena allenti un attimo la pressione, la molla ti scatta e ti porta verso dove eri prima, quindi c'è questo continuo stop and go, se vogliamo semplicemente pensare ai ristoratori, ma vale per tutti gli imprenditori, tu rimetti in sesto le cose perché ti dicono che riapriranno, poi effettivamente riaprono ma poco dopo richiudono, e quindi tutti i soldi che hai speso per metterti a norma te li puoi ficcare nel culo in sostanza".
Veneziani: "La colpa principale è aver generato allarme, facendo ricadere ogni responsabilità sulla condotta dei cittadini, senza aver attrezzato nulla a livello sanitario e strutturale in questi mesi. E continuano ad addossare tutto il contagio alle scelte private (movida, bar, ristoranti) non vedendo le più gravi carenze pubbliche (trasporti, scuola, infrastrutture, medicina territoriale). Stanno dando una lettura etica anziché una risposta pratica efficace".
Conte ha detto che se fosse dall'altra parte sarebbe arrabbiato pure lui, cos'è una presa in giro o una velata ammissione di colpevolezza?
Fini: "No, non è una presa in giro. Conte, avendo seguito questa linea di contenimento del Covid, va avanti di conseguenza solo che la risposta in generale è totalmente sproporzionata al pericolo perché i morti per Covid sono lo 0,15% della popolazione italiana, poniamo pure che se non avessi fatto il contenimento fossero stati il doppio. Le faccio il parallelo con i morti di tumore all'anno che sono 193mila. Bene, se tu non contenevi il Covid i morti sarebbero stati quintuplicati e sare100mila? Sempre al di sotto di quelli per tumore. Se ogni giorno pubblicassimo quelli morti per tumore avremmo lo stesso effetto devastante sulla psicologia delle persone. Vede, noi nel '57-60 abbiamo avuto l'asiatica che era aggressiva quanto il Covid eppure mon solo non abbiamo fatto il coprifuoco, ma nessuna delle misure messe in atto adesso. Secondo me c'è un impazzimento generale che non riguarda il governo Conte, ma il cambiamento di mentalità dei cittadini per cui la morte, anche ipotetica come questa, non viene accettata. Noi eravamo abituati all'idea che prima o poi si muore".
Veneziani: "Rientra nel suo piacionismo avvocatesco, demagogia ruffiana di un parolaio del nulla".
La superbia del regime sanitario. Corrado Ocone, 14 agosto 2020 su Nicolaporro.it. La scienza è potere. O meglio non è immune, in uscita come in entrata, da logiche che intaccano la sua presunta “neutralità”, oggettività, imparzialità. In uscita, perché gli scienziati spesso “prostituiscono”, o semplicemente adattano, le loro ricerche agli interessi del potere, anche in vista dei finanziamenti per i laboratori ove operano; in entrata, perché il potere spesso a loro chiede proprio questo e cioè un alibi “scientifico” e deresponsabilizzante per decisioni che sono state prese altrove. E come la monaca di Monza, gli sciagurati rispondono. Perché se la scienza è l’ultimo, e il più sofisticato, mito che ha accompagnato la storia umana, e noi generalmente la viviamo in modo sacrale e poco laico (altro che “mentalità antiscientifica”!), gli scienziati sono uomini come tutti noi, non immuni dai vizi e i difetti propri della nostra mala pianta: la vanità, l’arrivismo, il potere, il denaro, la ricerca della visibilità. L’epidemia di Covid-19 ci ha dato, e continua a darci, numerosi esempi di quanto andiamo argomentando. Basti solo pensare un attimo al teatrino di casa nostra con gli scienziati che adattano le loro previsioni, fra l’altro basate su elementi opinabilissimi non conoscendosi l’eziologia del virus, ai desiderata del governo o delle Regioni e che in tv si accusano reciprocamente di incompetenza e inettitudine. E che, pur non azzeccandone molte, hanno la tracotanza e la superbia di chi si sente messo su un piedistallo. Posizione che qualcuno, tipo l’epidemiologo Lo Palco, ha subito capitalizzato presentandosi come candidato per il Pd nelle elezioni regionali pugliesi (Ilaria Capua lo aveva già fatto in passato, ma, azzoppata per uno dei tanti scandali montati ad arte, memore forse di essere cugina di una ex miss italia, si è prontamente riciclata nel settore “fashion” della virologia come testimonia un servizio fotografico e la copertina di un recente numero dell’inserto settimanale del Corriere della sera). Come si fa allora ad inveire contro gli italiani accusati di fidarsi poco della scienza, dando addosso ai populisti che cavalcherebbero, secondo la vulgata mainstream, questo sentimento? Lo scambio è chiaro in Italia: visibilità e carriera in cambio di pezze d’appoggio politiche e sacrificio eventuale da capro espiatorio. Ma se nel nostro Paese ci si muove fra controllo biopolitico e deresponsabilizzazione di chi ci governa, altrettanto interessante è l’intreccio perverso fra scienza e potere che è dato verificare nella battaglia geopolitica globale. Non è dubbio che, dopo aver tenuto nascosto per motivi economici e di affidabilità politica il virus per più settimane, servendosi dell’Organizzazione mondiale per la sanità (che come altre agenzie sovranazionali è finita nelle mani di regimi non liberali), e in qualche modo alleato con la stampa politically correct antitrumpiana, il governo cinese, partendo per così dire avvantaggiato sui tempi, cerca ora di vincere con tutte le armi, dalla propaganda al ricatto economico, la battaglia del postepidemia. In questo contesto è da inserirsi lo studio farlocco pubblicato, e poi ritirato, da The lancet, e avallato dall’Oms, sulla dannosità della clorochina, un po’ improvvidamente indicata dal presidente americano come sicura cura per il male. La (un tempo) prestigiosa rivista scientifica lo aveva pubblicato in fretta e furia e senza verifiche, salvo poi scoprire che era stato confezionato, senza prove scientifiche, da una società composta da uno scrittore di fantascienza, un attrice porno e una hostess (sic!). In verità, l’ “ordigno nucleare” di cui le potenze mondiali sono alla ricerca per vincere non una battaglia, ma la guerra, è il vaccino. La cui successiva diffusione a livello globale sarà, per chi raggiungerà per primo il traguardo, un fattore di successo economico e di potere politico molto rilevante. Ecco allora che, fra i due pretendenti alla leadership mondiale, non poteva non inserirsi il terzo incomodo, la Russia di Putin, all’eterna ricerca di un suo spazio geopolitico e della passata potenza. L’annuncio solenne, fatto l’altro giorno dall’autoproclamatosi presidente a vita (o quasi) di averne registrato uno e di averlo fatto tastare direttamente dalla figlia, ha lasciato quanto meno perplessa la comunità scientifica seria e l’opinione pubblica mondiale. Cosi come l’annuncio del sanguinario leader filippino Duterte, alleato di Mosca, di volerlo sperimentare direttamente su di sé, in una sorta di populistica assunzione sul proprio corpo del benessere sanitario di tutta la comunità. Sembra che tutte le speculazioni filosofiche sul biopotere, e sul nuovo regime sanitario che per Foucault e i suoi allievi si preannunciava, siano di colpo diventate realtà cogente e quotidiana. Corrado Ocone, 14 agosto 2020
Sono sì consulenti, ma guai a non attenersi alle loro linee guida. Gli esperti scientifici e gli enti nazionali ed internazionali di Sanità hanno dimostrato la loro inaffidabilità. Eppure a sviare dalle loro voglie si paga dazio con la magistratura, la quale alla politica deviante affibbierà le colpe di un disastro.
Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
In che mani stiamo. Un Governo che non è stato votato dal Popolo, si impegna a non rappresentarlo. Questo Governo non decide, ma per pararsi il culo per le stragi, si tiene buoni scienziati, pubblici ministeri e giornalisti. A loro fa decidere sulla carcerazione domiciliare dei cittadini e sulla scarcerazione dei detenuti. Ed ai giornalisti ha dato l'incarico di vigilanza sulle fake news (sic).
LA STOCCATA - Quella mascherina a prova di Sgarbi. Angela Rizzica su Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. Forse alla radice di tutto, di tutti i nostri mali, c’è la convinzione geneticamente stampata nell’italiano medio di essere più furbo o più intelligente del prossimo. In effetti proprio questi sono stati i termini del rimprovero pervenuto a Vittorio Sgarbi dalla Vicepresidente alla Camera Mara Carfagna in occasione di una seduta nell’emiciclo più celebre d’Italia. Vittorio Sgarbi si era infatti rifiutato a più riprese di indossare la mascherina durante i lavori d’aula e solo l’ennesimo intervento della deputata di Forza Italia è riuscito a convincerlo. Non che il critico d’arte non avesse spiegato le motivazioni alla base della sua condotta: la mascherina gli faceva male e se Borrelli (capo della Protezione civile, n.d.r.) ha ammesso non indossarla quando si trova a distanza di sicurezza, Sgarbi non voleva essere da meno. Nulla di nuovo in effetti dal momento che Sgarbi è un convinto “controcorrentista” nella vita eppure, forse, qualcosa di rilevante c’è. Con il suo gesto ha, almeno in parte, spiegato anche la ratio di molte pagine nate su Facebook con il preciso intento di mettere in contatto genitori contrari all’uso della mascherina in classe. Le mamme e i papà, così raccolti, non ritengono giusto che i pargoli siano costretti a subire una tale limitazione in così tenera età; sono preoccupati per la salute mentale dei bambini, i quali non potranno più passarsi la merenda col compagno di banco; non dormono la notte pensando alla violenza psicologica che la carne della loro carne si troverà ad affrontare una volta indossato nuovamente il grembiule. In tanti cadono nell’errore sistematico di additare questi genitori come persone poco informate se non, addirittura, poco istruite. Ebbene, il gesto di Vittorio Sgarbi dimostra invece come, spesso, le spiegazioni che forniamo a determinati comportamenti sono, per comodità, finanche troppo semplicistiche: è certamente più semplice pensare che quel “qualcuno” non si sia informato abbastanza piuttosto che accettare si tratti di un “qualcuno” che ha deciso, con scienza e coscienza, di non curarsi dell’altro per dare priorità ai propri bisogni. Un “qualcuno” che, banalmente, si reputa più furbo degli altri, in qualche misura superiore, e che considera il benessere del prossimo un fattore del tutto trascurabile. La mamma che intende battersi perché il figlio possa passarsi tranquillamente la merenda col compagno di giochi non è una donna che ha saltato a piè pari tutte le dirette di Conte così come Vittorio Sgarbi non è di certo un uomo che non legge le indicazioni dell’OMS: entrambi scelgono consapevolmente di contravvenire a delle precise indicazioni per un proprio tornaconto personale, che sia preservare la vita sociale del figlio o evitare il (condivisibile e conosciuto a tutti) fastidio della mascherina. Quello che, però, a queste persone sfugge è che il benessere e l’integrità del prossimo è, indirettamente, anche la loro: evitare o almeno arginare il più possibile la diffusione di questo virus, pure a costo di adottare misure percepite come “draconiane”, sta permettendo a me che scrivo, a voi che leggete e anche a loro che sono “controcorrentisti” di tornare gradualmente a una parvenza di normalità dopo mesi di pura alienazione. Le piccole costrizioni che quotidianamente affrontiamo permettono a tutti noi, giorno dopo giorno, di tornare ad essere sempre più liberi. Ai furbi, insomma, sfugge un concetto che a noi “stupidi” non sfugge affatto, quello di male necessario.
LA LETTERA - Le bombe le sgancia chi esegue gli ordini. Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. LA LETTERA DI VITTORIO SGARBI AL QUOTIDIANO DEL SUD – L’ALTRAVOCE DELL’ITALIA DOPO L’ARTICOLO DI ANGELA RIZZICA. Gentile Angela Rizzica, le rispondo volentieri per la civiltà del suo tono, diversamente da quello della Onorevole Carfagna. La premessa è che io non credo, e mi pare che i fatti mi diano ragione , alle pretese verità scientifiche che vengono diffuse da medici e virologi, fino al Comitato tecnico-scientifico che, proprio nella mia prima ribellione all’imposizione delle mascherine, stavamo ascoltando in commissione parlamentare attraverso le parole del suo coordinatore Agostino Miozzi. Questi, a un piccolo gruppo di deputati distribuiti a distanza di ben più di un metro (ecco la prescrizione del capo della protezione civile Borrelli il 3 aprile: “io non porto la mascherina, rispetto le distanze”, molto eloquente), stava dicendo che il Comitato tecnico-scientifico non impone regole ma dà suggerimenti, offre consulenze. E io gli stavo rispondendo che ,a mia scienza ( penso in particolare al Ministro dei Beni Culturali) ,ogni decisione del governo era subordinata alle indicazioni del Cts. Ora ,è del tutto controversa, anche rispetto ai protocolli covid, la funzione delle mascherine, che , come le allego, nelle affissioni diffuse in sedi pubbliche, è sempre subordinata alla distanza inferiore a 1 metro. Non si ravvisava questa condizione né nella commissione parlamentare né nell’aula dove la Carfagna accarezzava i 629 intelligenti, in realtà poco più di 400, che indossavano la mascherina, secondo prescrizioni intervenute soltanto il 22 aprile. Ha letto bene: nel pieno della crisi, fino al 20 aprile, nessun deputato portava la mascherina, e i soli due che, alternatim, l’avevano indossata, fin dalla fine di Febbraio, erano stati guardati con sufficienza. Voglio ricordarle una considerazione molto eloquente dell’artista più sintonizzato con la sensibilità contemporanea, Banksy: «I più grandi crimini del mondo non sono commessi da persone che infrangono le regole, ma da persone che seguono le regole . Sono le persone che eseguono gli ordini che sganciano le bombe e massacrano i villaggi». Si potrebbe aggiungere : «sono i soldati che hanno deportato gli ebrei». È proprio perché sono un legislatore ,e non mi piacciono le finzioni e le maschere, credo che la funzione politica debba portare a valutare e interpretare i suggerimenti dei comitati tecnico-scientifici, anche con l’obiettivo di evitare, per la salute e per l’economia, guai peggiori del male. E, mentre nessuna fonte ci garantisce della utilità delle mascherine fuori degli ambienti sanitari e delle case di riposo, o, in difesa del medico, nei rapporti con i malati accertati, da molte fonti arrivano indicazioni sugli effetti negativi della mascherina rispetto alla diffusione dei batteri, in contrasto con l’ossigeno e l’aria libera. E intanto: coloro che le portano dovrebbero sapere che la mascherina andrebbe cambiata ogni 4 ore. Nessun parlamentare lo fa. Da innumerevoli fonti, a partire da Borrelli fino ad Alberto Zangrillo, in giudizio è unanime. Alcune mascherine sono un presidio medico chirurgico e possono essere considerate a tutti gli effetti un trattamento medico sanitario. Al di là della qualificazione della mascherina, c’è un’interferenza con le attività biologiche e fisiologiche più naturali, a partire dalla respirazione. Questa interferenza è conclamata dalle stesse fonti ufficiali governative. Non lo dicono in modo esplicito ma causa un limitato apporto di ossigeno e una maggiorazione di anidride carbonica che viene espulsa e poi reintrodotta. Perfino nelle linee guida inizialmente diffuse raccomandavano di non portare la mascherina, se non malati. Si può quindi affermare che è un trattamento sanitario poiché interferisce con la fisiologia e va a modificare e alterare un funzionamento normale. L’utilizzo della mascherina è sconsigliabile, o addirittura da evitare, con persone disabili, con alcune malattie, o in diverse fasce d’età. Si fa quindi un’altra ammissione implicitamente: usare la mascherina non è sicuro a priori, è necessaria una valutazione medica pregressa per determinare se il soggetto sia compatibile. Tutto questo è riassunto in un documento dell’avvocato Prisco e del dottor Mastrangelo: «smascheriamo le mascherine», che affermano opportunamente: «Quindi si va a sancire un obbligo, senza sapere se una persona è malata e senza sapere se quell’obbligo sia compatibile con una condizione che una persona può non sapere di avere. Questo è un trattamento sanitario in quanto passibile di inficiare la salute e persino la vita di una persona. Allora come TSO deve attenersi alle norme vigenti in materia di TSO: deve essere disposto dall’autorità locale, cioè il sindaco, su richiesta e proposta di un medico che deve visitare la persona. Se l’obbligo della mascherina è un TSO ,allora solo il sindaco può ordinare a un individuo, con un ordine di autorità, di usare la mascherina, sulla base di una valutazione di un medico che fa la proposta. In questo senso è pure illegale perché non rispetta la normativa vigente in tema di TSO”. Tutte queste considerazioni culminano nella battuta di Zangrillo: “Non c’è nessuna prova scientifica sulla distanza, sulle mascherine siamo al ridicolo”. E io devo prenderle sul serio ? Lo lascio fare alla Carfagna nel rito di ipocrisia cui il Parlamento si è voluto piegare. Ma un indizio inquietante sulle mascherine viene da quelle allegate ,in gran numero, al “Corriere”, il 30 Aprile. Nella confezione che le conteneva si leggeva, a riprova dell’universale incertezza sulla loro utilità ( e pensiamo a quanti tipi e varietà non comprovate ne sono circolate): «Ad uso esclusivo della collettività. Non adatta per uso sanitario o sui luoghi di lavoro. Non costituisce dispositivo medico e/o dispositivo di protezione individuale». E dunque ,in questo mare di dubbi e in queste difformi prescrizioni, dove stanno le non certificate ,e alluse da Angela Rizzica, indicazioni dell’OMS? Mi sembrano più importanti i tentativi di buon senso delle madri, che cercano di salvaguardare l’integrità fisica e psicologica dei loro bambini ,soprattutto dopo la certificazione medica che «l’uso prolungato della mascherina porta a respirare la stessa anidride carbonica emessa dai polmoni. Si chiama ipercapnia. La sintomatologia progredisce verso il disorientamento, panico, iperventilazione, convulsioni, perdita di coscienza e può portare fino alla morte». La fonte? L’Istituto Superiore di Sanità, nel raccomandare l’uso delle mascherine soltanto in ambito sanitario. Mi fido della ragione , non di un Parlamento lobotomizzato. Grazie.
Coronavirus, l'Istituto superiore di sanità in piena emergenza? Record di assenteismo: le cifre. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 27 maggio 2020. Un consiglio a tutti coloro (e sono tanti, tra i Cinque Stelle e a sinistra) che vogliono usare i morti in Lombardia come pretesto per togliere la sanità alle Regioni e portarla sotto il controllo del ministero, cioè nelle mani loro e dei loro amici: prima di parlare, guardate cosa succede a Roma, in casa vostra. Dentro all'Istituto superiore di Sanità, sottoposto alla vigilanza del dicastero guidato da Roberto Speranza. Nato nel 1934 come Istituto di sanità pubblica (una delle «cose giuste» fatte da Benito Mussolini, si presume), oggi si presenta come un posto nel quale «circa 2.500 persone», 1.997 in qualità di dipendenti, «lavorano quotidianamente con l'obiettivo di tutelare la salute dei cittadini». Si fregia di essere «il principale centro di ricerca, controllo e consulenza tecnico-scientifica in materia di sanità pubblica in Italia», nel quale hanno lavorato fior di premi Nobel, pure stranieri.
SOLDI PUBBLICI. Un gioiello della sanità di Stato, insomma. Anche per il prezzo: nel 2020 l'Istituto superiore di sanità prevede di costare 341.168.904 euro, soldi quasi tutti provenienti da finanziamenti pubblici. Una quota di questa somma, di regola, se ne va per i «premi collegati alla performance» che settanta dirigenti si dividono ogni anno: 145.064 euro complessivi nel 2018, ultimo dato disponibile. Tanta roba, ma si sa: per la salute, questo e altro. Domanda: che servizio ha reso all'Italia, durante l'epidemia, questo miracolo dell'efficienza statale? Certo, si è visto Silvio Brusaferro, il medico che per 130.000 euro lordi l'anno lo guida assieme al direttore generale Andrea Piccioli (177.000 euro per lui). Ambedue messi lì dal ministro pentastellato Giulia Grillo un anno fa. Brusaferro ha fama di bravo accademico, come deve essere il presidente dell'Iss secondo statuto: «Scelto tra personalità appartenenti alla comunità scientifica, dotato di alta e riconosciuta professionalità» eccetera. Guidare un ente simile avendo sul collo il fiato dei politici, però, è non è proprio come fare lo scienziato.
BRUTTE FIGURE. Brusaferro e i suoi colleghi si sono accorti in ritardo di ciò che stava avvenendo, e quando hanno fatto parlare di sé è stato soprattutto per le brutte figure rimediate e le indicazioni contraddittorie fornite. Tipo quelle date dallo stesso presidente il 1 febbraio: «L'uso delle mascherine in una persona sana non ha particolare utilità» (adesso, ovviamente, l'Iss raccomanda a tutti di usarle, «anche in ambienti aperti»). Era sempre lui, il 3 febbraio, che rassicurava gli italiani: «Qualsiasi tipo di sospetto viene immediatamente segnalato e controllato, così il rischio di trasmissione è da molto basso a moderato». L'Iss è l'ente che si è distinto per la lentezza nella certificazione delle mascherine protettive, ritardandone la distribuzione in Lombardia, e che ha contribuito alla confusione sugli indici di contagio e sui morti (secondo i suoi numeri, i deceduti per Covid nelle case di riposo del Veneto sarebbero stati più delle vittime complessive nell'intera regione). Ma il dato che più impressiona è quello delle assenze dei dipendenti dell'istituto, la cui pubblicazione è obbligatoria per le regole di «trasparenza» a cui devono sottostare gli enti pubblici introdotte anni fa da Renato Brunetta. Si scopre infatti che tra gennaio e marzo del 2020 il tasso medio di assenze dentro all'Iss è stato del 25 per cento: più che doppio rispetto a quello degli stessi tre mesi del 2019, quando fu pari al 10%. (Nelle imprese private, secondo Confindustria, di norma è assente il 6% dei dipendenti, ma quello è un altro mondo).
UNO SU DUE. La spiegazione è una sola: nel gioiello pubblico creato e finanziato per salvare la pelle degli italiani, scoppiata l'epidemia è iniziato il fuggi-fuggi. Impensabile, infatti, che professionisti simili siano stati messi in ferie forzate nel momento in cui più sarebbero stati utili. E siccome il morbo si è diffuso a metà del trimestre (l'Iss non fornisce dati mensili sulle assenze), questo significa che a marzo, nel periodo più nero dell'epidemia, in certi uffici dell'Iss si è visto al lavoro un dipendente su due, o anche meno. Chissà che ne pensa Roberto Speranza, "ministro vigilante" che pare vigilare assai poco.
Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2020. Se andate sul sito del ministero dell'Innovazione con un po' di fatica potete trovare le relazioni conclusive degli otto sottogruppi che compongono la task force di 74 componenti istituita dalla ministra dell' Innovazione Paola Pisano per l' utilizzo dei dati contro l' emergenza Covid-19. Non si tratta di opere monumentali, poche paginette nella maggior parte dei casi, ma i lavori messi nero su bianco sono una delle rare prove dell' esistenza in vita dell' esercito di esperti e consulenti arruolato dal governo per fronteggiare la pandemia. C' è chi parla di 18 comitati e oltre 500 incarichi, ma tenere il conto è impossibile. Anche perché, tranne pochissime eccezioni, nei luoghi deputati alla comunicazione istituzionale dei gruppi di lavoro e della loro attività non vi è alcuna traccia. Certo, abbiamo sentito tanto parlare dell' ex manager Vodafone Vittorio Colao e del suo Comitato di esperti per la Fase 2, un gruppo lievitato fino a 24 membri per rispettare le quote rosa. Abbiamo letto delle interviste e orecchiato i contenuti di qualche riunione, tutte rigorosamente in videoconferenza. Però sul sito del governo oltre ai nomi dei componenti null' altro è dato sapere. Non uno straccio di relazione, né un brogliaccio. Nessun calendario delle riunioni, niente argomenti trattati. Buio assoluto. Si vocifera, tuttavia, che la task force nata per consentire agli italiani di uscire dal lockdown abbia consegnato al premier Giuseppe Conte un documento di ben quattro pagine (una per ogni sei esperti). Stesso discorso per la creatura affidata al capo di Invitalia Domenico Arcuri. In questo caso, trattandosi del Commissario straordinario per l' emergenza Covid-19, sul web è possibile consultare una manciata di ordinanze, comprese quelle famose sul prezzo politico delle mascherine (che stiamo ancora aspettando). Niente però si sa sul lavoro della sua squadra di "supporto", a parte il fatto che è costituita da 40 componenti divisi in nove differenti uffici, di cui viene fornita anche una dettagliata, quanto inutile, infografica ad albero.
Bioeconomia. In fondo è già molto. Delle due task force create dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, una di 40 componenti per le carceri e una di 20 componenti sulla giustizia non si conoscono neanche i nomi dei partecipanti. Non ha lesinato informazioni sul suo comitato personale, invece, il ministro dell' Ambiente, Sergio Costa. Sforzo che, ahinoi, non è bastato a far capire di cosa si occupi il suo Gruppo di studio su economia e sviluppo sostenibile formato da 9 professori. La mission ufficiale è quella di supportare il Comitato per la bioeconomia e la fiscalità sostenibile. In particolare sui sistemi di rating e di valutazione della finanza verde, sull' economia comportamentale e sugli acquisti verdi per la Pa. Per chi ancora non avesse compreso, lo stesso ministro ha precisato che "lo scopo del gruppo è quello di implementare e dare maggiore efficacia alle norme e agli strumenti che già esistono, con uno spirito di condivisione e innovatività negli approcci".
Chiarissimo. Ben altre le dimensioni scelte dalla ministra Lucia Azzolina per farsi aiutare nel difficile compito di tenere chiusa la scuola. La sua task force per gestire l' emergenza nella Fase 1 è formata da 123 membri. La struttura, di cui si sa pochissimo, è nata sulle ceneri di un comitato preesistente al ministero dell' Istruzione e si è occupata prevalentemente di didattica a distanza. Discorso a parte la Fase 2. Non potendo pretendere più di tanto dai suoi 123 collaboratori, la Azzolina ha deciso di creare un altro gruppo, questa volta di soli 18 componenti, per organizzare la riapertura. Anche qui non ci sono documenti. Ma qualcosa è trapelato. Avete presente le notizie che hanno gettato nel panico le famiglie sulle classi divise a metà, sulle lezioni nel fine settimana o all' aperto, sul proseguimento dell' insegnamento via web? È opera loro.
Rinascimento. Non è stata da meno la ministra della Famiglia, Elena Bonetti. In piena pandemia l' idea è stata quella di creare una task force Donne per un nuovo rinascimento, con il compito, si legge nel decreto istitutivo, di sviluppare «analisi ed approfondimenti dei dati ed evidenze scientifiche relative all' impatto nei diversi settori provocato dall' epidemia».
Inutile cercare materiale. Il comitato, composto da dodici donne, ha una durata annuale. Al termine del periodo sarà realizzato «un documento programmatico». Mettiamoci comodi, insomma. Nel frattempo, però, la Bonetti ha fatto scendere in campo un' altra squadra di 20 componenti. L' obiettivo, questa volta, è di elaborare azioni, strategie e politiche a favore della tutela e della promozione dei diritti dell' infanzia e dell' adolescenza nel quadro del contrasto alle conseguenze dell' emergenza epidemiologica. Compito nobile che, però, è già affidato all' Osservatorio nazionale sull' infanzia e l' adolescenza, organismo istituzionale di 50 membri che il nuovo comitato dovrà affiancare. Bizzarro? Non più della task force di 11 componenti istituita dal Dipartimento per l' editoria per combattere le fake news o del gruppo di coordinamento di 35 componenti creato dal ministero dell' Economia per l' efficiente e rapido utilizzo delle misure di supporto alla liquidità. Avete avuto la sensazione che negli ultimi mesi non siamo stati sommersi da notizie completamente inventate o che le imprese abbiano ricevuto con solerzia e tempestività i quattrini promessi? Qualche sciocco, con l' esplodere della pandemia, aveva pensato che la task force del ministero della Salute, istituita il 22 gennaio, e il Comitato tecnico scientifico, nato il 5 febbraio, fossero più che sufficienti a fronteggiare l' emergenza. Poi ci siamo ritrovati con 18 gruppi di lavoro e 500 esperti. La verità è che l' occasione era troppo ghiotta: un evento catastrofico mai visto nella storia moderna unito all' impossibilità di presenziare fisicamente a qualsiasi tipo di riunione. A ministri, sottosegretari e commissari è bastato firmare un paio di scartoffie e organizzare qualche videoconferenza per trasformare centinaia di emeriti sconosciuti in superconsulenti del governo. Regalare un po' di visibilità, qualche riga di curriculum e una medaglietta da appuntare sul petto non è mai stato così facile.
Il caos dei dati: 1.390 morti “spariti” dal monitoraggio del governo. Gli errori sugli indici che decidono gli spostamenti. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Nel monitoraggio del ministero della Salute sull’epidemia da coronavirus sono stati conteggiati 1.390 deceduti in meno di quelli reali. Un’omissione clamorosa anche perché per scoprirla basta confrontare le tabelle allegate al report settimanale con quelle diramate dalla Protezione civile sulla base dei dati forniti dallo stesso ministero della Salute. Da due settimane il ministero dirama ogni venerdì il monitoraggio che sulla base di 21 punti elaborati da due algoritmi fotografa l’andamento del virus. I dati vengono trasmessi dalle Regioni e poi assemblati dai tecnici ministeriali. In questi giorni ci sono state numerose critiche e polemiche sulla raccolta dei numeri da parte delle Regioni, anche ritenendo che in alcuni casi ci possano essere omissioni rispetto ad alcuni punti. In particolare ogni Regione deve comunicare la tenuta delle strutture sanitarie, il numero dei tamponi effettuati, il numero di malati e di positivi asintomatici, il numero dei posti in terapia intensiva. Sulla base di questi parametri viene assegnata una valutazione di rischio e questo «giudizio» servirà a decidere nuove aperture, eventuali chiusure o «zone rosse», ma anche a stabilire come consentire lo spostamento da una Regione all’altra. Nella tabella del monitoraggio relativa ai decessi e aggiornata al 21 maggio il numero dei morti ( divisi per età) è: 31.096. Nella tabella diramata dalla protezione civile relativa al 21 maggio il numero dei morti è: 32.486. Come è possibile una simile differenza? Ci sono Regioni che hanno comunicato un numero inferiore? Quali uffici trasmettono i dati? E chi li elabora? A tutte queste domande bisogna trovare al più presto risposta perché è evidente che questa circostanza potrebbe essere sufficiente e dimostrare l’inattendibilità del monitoraggio. Le conseguenze potrebbero essere gravissime visto che proprio su questo il governo ha deciso di basare le sue prossime scelte.
Il caos del monitoraggio delle Regioni. Dati molto in ritardo e criteri diversi. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it. Una montagna di dati, forniti spesso con criteri diversi, talvolta in ritardo di due o tre settimane, senza un adeguato campionamento statistico. Su questa base, il monitoraggio settimanale fornito dalle Regioni secondo il decreto del 30 aprile, lavorano il ministero della Salute e l’Istituto superiore della Sanità per valutare la riapertura delle «frontiere» tra le Regioni e il progressivo, e ancora incerto, ritorno alla normalità. Negli ultimi giorni sono molte le segnalazioni di anomalie nei report delle Regioni, che mettono a rischio l’intero sistema. Come in un falso sillogismo, se le premesse sono sbagliate, errate saranno le conclusioni. Errori frutto di semplice inaccuratezza, incapacità strutturale del sistema oppure risultato di sviamenti programmatici? Per il professor Nino Caltabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che analizza sistematicamente le relazioni, «il fatto che la Regione sia titolare del monitoraggio espone a comportamenti di tipo opportunistico». Lo dice in termini ancora più netti il biologo Enrico Bucci: «È ovvio che se chiedi alle Regioni di fornirti dati decisivi su aperture o chiusure, saranno loro a determinare quali e come darteli seguendo logiche politiche interne». Al di là di eventuali mistificazioni, ci sono errori emersi platealmente negli ultimi giorni. La Fondazione Gimbe ha rilevato come nei report lombardi si comunichino i dimessi dagli ospedali, con una sovrastima dei guariti. Sempre in Lombardia, secondo il Fatto Quotidiano, dall’11 maggio sarebbero spariti dal grafico dei contagi di Milano i casi confermati e sintomatici. Il Trentino è improvvisamente passato da una media di rapporto contagi/tamponi superiore al 4% il 28 aprile, con gravi preoccupazioni, a quella ultra rassicurante dell’11 maggio, dello 0,14%. Non un miracolo, ma un calcolo di contagi più bassi per errore. Nelle Marche da un giorno all’altro si è cominciato a contare solo i casi sintomatici. Dalle Regioni arrivano foglietti excel, quando va bene, che dicono poco o niente per analisi serie. Il sottosegretario Pierpaolo Sileri chiede «più accuratezza». Ma è un deficit strutturale. Perché, per esempio, si sa il numero complessivo dei tamponi, ma non si sa fatti a chi e come, se è il primo o il secondo di conferma, se è fatto a sintomatici o no. Questo impedisce di stabilire priorità nelle politiche dei tamponi successivi. Il tracking dovrebbe basarsi anche sui test degli anticorpi. La Lombardia sconsiglia quelli rapidi, nonostante diversi studi scientifici nel frattempo ne abbiano stabilita l’attendibilità. Non è chiaro quanti ne siano stati fatti e a chi. Non sono noti, per asserite ragioni di privacy, i dati della mortalità dei singoli comuni. Nel conteggio complessivo finiscono solo i decessi negli ospedali, a conferma della prospettiva «ospedalocentrica» della Lombardia. Michele Usuelli, medico e consigliere regionale in corsa per diventare presidente della Commissione d’inchiesta, spiega: «Anche la strategia comunicativa della Regione Lombardia deve entrare in Fase 2. Mi piacerebbe un dibattito pubblico per decidere, sentendo il parere della Commissione sanità e del Consiglio regionale, quali siano i numeri che è utile fornire adesso». Sarebbe utile anche capire cosa succeda quando diminuisce la cifra dei ricoverati nelle terapie intensive: si tratta di decessi o di estubati? Non si sa. Quanto al famoso Rt, l’indice che misura la riproduzione del virus dopo le misure di contenimento, si basa su dati vecchi, a lockdown in vigore, e non parametrati: da qui il caso dell’Umbria che, per un aumento da 11 a soli 24 contagiati, ha subito un’impennata dell’alert, perché il dato non è proporzionato al numero complessivo dei casi. In Lazio le Asl e le aziende ospedaliere trasmettono i dati al Seresmi dello Spallanzani a cadenze diverse, ogni 24 ore oppure ogni settimana. Altro bug dei report: per stabilire correttamente l’Rt, le Regioni dovrebbero fornire la data di insorgenza dei sintomi. In media, perché i numeri siano attendibili, servirebbe almeno il 50 per cento dei dati. Ma in almeno nove Regioni quella cifra non si raggiunge. E così si è deciso di abbassare la soglia di attendibilità al 30%. Per Caltabellotta «secondo gli standard internazionali, bisognerebbe fare 200/250 tamponi al giorno per 100 mila abitanti. Ma pochissime Regioni hanno aumentato i tamponi diagnostici, solo Val d’Aosta e Trentino. Se la curva peggiora, verranno in superfice solo i casi di chi si aggraverà in maniera tale da dover andare in ospedale. E questo potrebbe accadere all’improvviso con tutte le gravi conseguenze che abbiamo già visto». Aggiunge Bucci: «Servirebbe anche un campionamento dei dati: a chi sono stati fatti i tamponi? E dove?». La sua conclusione è drastica: «Non abbiamo dati attendibili. E li usiamo con parametri sbagliati».
Coronavirus, anche un documento parla di “casi sovrastimati” in Italia. Rec News 21/05/2020. Articolo scritto l’11/03/20 e aggiornato il 21/05/20. Il caso emblematico di Vo: mentre il mainstream gridava alla tragedia, i dati (reali) parlavano di qualche decina di “contagi” e dieci ricoveri. A marzo c’è stato il caso di Treviso, quando i dati di Iss e Prociv avevano dato conto di “diciassette casi”, poi smentiti. A stretto giro sono arrivati i 60 medici di base di Cosenza “tutti in quarantena”, ennesima costruzione allarmistica per far passare – soprattutto all’estero – l’immagine di un’Italia piegata dal Coronavirus “profetizzato da Bill Gates. Per quale motivo Conte, Colao, Borrelli e gli altri si sono prestati a inscenare l’epidemia dimensionata dagli stessi dati dell’ISS? Abbiamo provato a spiegare quali sono le poste in gioco, settore per settore. A gettare ulteriore luce su quella che assume sempre più i contorni di una grossa costruzione mediatica per danneggiare il Belpaese e per lucrare sulla presunta emergenza, è arrivato il 5 marzo uno studio del NCBI che spiega come l’80,33% dei tamponi fatti a chi era entrato in contatto con malati di Covid-19 e che avevano rilevato il coronavirus, avessero in realtà generato dei “falsi positivi”. L’altra Vo: 84 casi e dieci ospedalizzati. Per restare in ambito nazionale, l’otto marzo del 2020 il presidente della Regione Veneto Luca Zaia scriveva al premier Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza per domandare “quali motivazioni scientifiche” fossero alla base dell’inserimento delle province di Venezia, Padova e Treviso nelle cosiddette “zone rosse”. Il governatore allegava la relazione del Comitato Tecnico Scientifico a supporto dell’Unità di Crisi della Regione Veneto, che in pratica per zone considerate ad alto rischio e repentinamente isolate come Vo, ha riscontrato appena 84 casi, 10 dei quali ospedalizzati. (Covid-19 Veneto prot. 109448)
Fiumi di tamponi. Nell’ambito dello stesso documento, a mettere i puntini sulle “i” arrivava inoltre l’Azienda Zero della Regione Veneto, che metteva a disposizione dati dettagliati sui tamponi effettuati. In pratica quello che la stampa commerciale ha definito il più grande studio collettivo (che ha riguardato quasi la totalità degli abitanti di Vo Euganeo) per acquisire dati sul coronavirus, è stato in realtà il più grande laboratorio d’Italia per generare falsi positivi. Un “modello” che a detta di personaggi come il virologo Andrea Crisanti, andrebbe esteso a tutta Italia. Il modesto costo di somministrare 60 milioni di tamponi circa lo spiega lo stesso Crisanti: 30 euro a tampone “appena” che come abbiamo visto generano più falsi positivi che tutto il resto. Quanti posti di terapia intensiva e strumentazioni per gli ospedali che possono servire anche passata la (presunta) emergenza italiana di coronavirus si acquisterebbero con gli stessi soldi?
Il nuovo business da trenta euro a testa. I tamponi sono poi davvero stati effettuati secondo necessità? Stando a quanto reso noto dall’ISS, dovevano essere destinati unicamente a chi mostrava sintomi, ma in realtà si è presto palesato l’esercito di impavidi vip che faceva la fila davanti ai nosocomi. E a Vo? Per accertare qualche decina di casi, sono stati fatti 2778 tamponi. Il 29 febbraio si è raggiunto il picco di 728 tamponi in un giorno, il 2 marzo (appena due giorni dopo) il numero di tamponi era uguale a zero (!!!). In Italia alla loro produzione tramite la tecnica della stampa 3D potrebbe provvedere nei prossimi mesi lo stabilimento novarese di Protolabs, azienda tedesca che ieri ha annunciato investimenti per 12 milioni, anche nel settore dei dispositivi medici.
Errore rosso? I calcoli del Comitato tecnico scientifico che hanno convinto Conte a farci restare a casa forse sono sbagliati. Linkiesta il 29 Aprile 2020. Secondo l’analisi statistico-matematica di Carisma, per raggiungere il picco di 150mila pazienti in terapia intensiva, come detto dagli esperti del governo, dovrebbero esserci 150 milioni di italiani con più di 20 anni. Ma siamo in tutto 60 milioni. Il documento allarmante del Comitato tecnico scientifico, quello che avrebbe frenato la fase 2 ipotizzando il rischio di 151mila pazienti in terapia intensiva nel caso una ripartenza totale, sarebbe sbagliato. O quantomeno conterrebbe un grave errore di calcolo. Tant’è che, date le ipotesi considerate, si arriverebbe a conteggiare una popolazione di 260 e non di 60 milioni di cittadini come quella italiana. A dirlo è un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli, secondo cui in 45 dei 46 scenari esaminati dal Comitato le previsioni di picco della terapia intensiva sarebbero invece ben inferiori alla capacità nazionale di circa 9mila posti. E quindi molto lontane dai 151mila del risultato finale. Il problema del documento, dicono, è di tipo statistico-matematico. Nel testo si ipotizza un tasso di letalità dei contagi (Ifr) pari allo 0,657%, arrivando poi a calcolare la probabilità per età che ogni infezione necessiti di terapia intensiva. Pertanto, calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva, il 3 aprile, si arriva 1.385.000 contagiati. Ora, poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia al momento del picco sono stati 1.381, si desume quindi che l’incidenza tra casi di terapia intensiva e infezione sarebbe mediamente dello 0,1%. Si presuppone quindi un’incidenza per fascia di età che, anche se stimata a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età. Nel grafico presentato subito dopo però, quello da cui deriva lo stop alla ripartenza, questa incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%) con un errore di almeno dieci volte. Anche ipotizzando che il fabbisogno di letti terapia intensiva in Lombardia sia stato 2.000 e non 1.381 l’errore resta superiore a 6 volte. Ecco che con lo scenario A, cioè quello di una totale apertura, nelle ipotesi del comitato tecnico scientifico si arriva a 151.231 casi di terapia intensiva l’8 giugno e oltre 440mila casi totali cumulati al 31 dicembre. Applicando l’incidenza della terapia intensiva calcolata sulla Lombardia, si arriverebbe quindi a sostenere che esisterebbero in Italia 150 milioni di cittadini con età superiore ai 20 anni, perché come noto sotto questa età l’incidenza della terapia intensiva è trascurabile. Ci sarebbero insomma oltre 100 milioni di connazionali circa in più di quelli reali. Calcolando poi il dato complessivo al 31 dicembre e stimando che le persone che sono state in terapia intensiva in Lombardia siano finora circa 3.500 in totale con una incidenza di 0,17% sul totale casi nella regione, si arriva a una stima di popolazione italiana di 260 milioni di abitanti. Anche in questo caso ci sarebbero 200 milioni di italiani ignoti. Qualcosa non torna. Nel modello sviluppato dal Comitato «apparentemente tutte gli scenari conseguenti sono coerenti con quello che dalla lettura attenta appare un errore di calcolo», scrivono da Carisma. Conclusione: «Anche accettando quelli che appaiono errori di calcolo – scrivono – notiamo che il modello in 45 dei 46 scenari esaminati conclude che le previsioni di picco della terapia intensiva sono significativamente inferiori alla capacità nazionale (circa 9.000 posti)». Salvo poi raccomandare uno scenario di apertura molto lento, come quello comunicato dal governo il 26 aprile.
Uno, nessuno e centocinquantunomila. La gran confusione intorno ai numeri dati dal comitato tecnico scientifico. Lidia Baratta e Pietro Mecarozzi su linkiesta.it il 30 Aprile 2020. L’Istituto Superiore di Sanità, nella conferenza stampa delle 12, oggi dovrebbe chiarire i dubbi statistici sul paper che ha portato il governo ad adottare una fase due rallentata. Il documento scritto dal Comitato tecnico scientifico, quello che avrebbe convinto Giuseppe Conte alla fase due “rallentata”, contiene errori di calcolo? Il paper di 21 pagine titolato “Valutazione di politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di esposizione professionale”, divide gli esperti di numeri e statistiche. Tra i grafici, diagrammi e tabelle che riempiono le pagine, il dato che più fa discutere è l’ipotesi del rischio di oltre 151mila pazienti in terapia intensiva nel caso di una ripartenza totale. Quello che più ha spaventato il governo. Nel testo si sostiene che con la riapertura di manifattura, edilizia, commercio, ristorazione e alberghi, con le scuole chiuse e senza telelavoro, si potrebbe arrivare l’8 giugno a 151.231 ricoverati in terapia intensiva, con un picco di 430.866 casi a fine anno. Dati che, secondo molti sarebbero più che sovrastimati. Considerando che dal 24 febbraio, quando sono iniziate le rilevazioni della Protezione civile, al 29 aprile, i casi di terapia intensiva sono stati in media poco più di 2.200, con il picco massimo di 4.068 casi del 3 aprile. Il dato del Comitato tecnico scientifico è oltre 37 volte di più. E infine c’è la contestualizzazione dei calcoli: nel documento non si spiega mai come si arriva alle stime finali, uniformando previsioni fatte per la Lombardia all’intero Paese e – commentano i più critici – tenendo inoltre poco in considerazione l’impatto delle attuali dotazioni di protezione individuali sull’evolversi del virus. A sollevare i primi dubbi è stata un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli pubblicata ieri da Linkiesta secondo cui, in 45 dei 46 scenari esaminati dal Comitato, le previsioni di picco della terapia intensiva sarebbero invece ben inferiori alla capacità nazionale di circa 9mila posti. E quindi molto lontane dai 151mila del risultato finale. Il problema del documento è di tipo statistico. Quello che sappiamo è che il Covid 19 ha un’incubazione media di circa 5-7 giorni e che dalla manifestazione dei sintomi all’ingresso in terapia intensiva passano in media dieci giorni. Nel testo del Comitato, si ipotizza un tasso di letalità dei contagi (Ifr) pari allo 0,657%, arrivando poi a calcolare la probabilità per età che ogni infezione necessiti di terapia intensiva. Quindi, calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva, il 3 aprile, si arriverebbe a 1.385.000 contagiati. Poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia al momento del picco sono stati 1.381, si desume quindi che l’incidenza tra casi di terapia intensiva e infezione sarebbe mediamente dello 0,1%. Si presuppone quindi un’incidenza per fascia di età che, anche se stimata a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età, scrivono gli analisti di Carisma. L’imprecisione emergerebbe però quando il testo del Comitato stima che questa incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%), con un errore di almeno dieci volte. Tramite il calcolo di queste incidenze sull’intero territorio, sottolinea la ricerca, si arriverebbe a una stima della popolazione italiana di 260 milioni di abitanti. Duecento milioni in più della reale popolazione italiana. Ma anche lo studio della holding di Giovanni Cagnoli ha ricevuto critiche da parte di matematici. Questi rilievi sono di due tipi: il peso statistico nei calcoli del flusso che si è verificato nelle terapie intensive degli ospedali (ovvero le persone guarite uscite e quelle decedute) e la stima del livello di criticità delle terapia intensive che il governo fa includendo anche tutti i morti da Covid, anche quando non sono in terapia intensiva. «Nel primo caso, anche con questi dati in più cambia molto poco, ce ne sarebbero state 3-4 mila in più in terapia intensiva, non certo il numero stimato dal Comitato», spiega a Linkiesta lo stesso Giovanni Cagnoli. «Mentre per la seconda considerazione si tratta di un ragionamento logico errato. Il Comitato che fa i calcoli di quanti letti ha a disposizione non può dire che anche tutti i decessi, anche quelli avvenuti tra le mura domestiche, vanno a saturare quei posti. Altrimenti il calcolo perde la sua funzionalità». Dove sarebbero quindi gli errori del Comitato tecnico scientifico? «Non essendo un testo scientifico, certamente nel documento del Comitato mancano dettagli rilevanti che andrebbero considerati, ma evidentemente ci sono assunzioni incompatibili», spiega Alessio Farcomeni, esperto di statistica epidemiologica e professore ordinario all’Università Tor Vergata di Roma. «I tassi di mancata diagnosi e i rischi di ricovero sono in contraddizione». Secondo il professore, il calcolo che ha portato il Comitato tecnico scientifico al rischio di 151mila pazienti nel caso di una riapertura totale potrebbe essere quindi frutto di un errore nella lettura delle percentuale del tasso di letalità dei contagi ipotizzata, pari allo 0,657%. Questo numero, inserito nel codice insieme alle altre variabili da considerare, a guardare il risultato potrebbe essere stato moltiplicato per dieci arrivando al 6,57% e alterando così il risultato finale. «Purtroppo errori materiali sono molto comuni, specie nel codice. È plausibile che in questo caso ci sia stata da qualche parte una svista di fattore dieci», spiega Farcomeni. «L’altra ipotesi è che, nelle microsimulazioni, potrebbero essere state considerate popolazioni infinite anziché finite senza un tetto massimo» che quindi farebbero crescere via via sempre di più il numero di potenziali pazienti di terapia intensiva andando avanti nel tempo. In ogni caso, aggiunge, «sarebbe utile avere maggiori dettagli sul modello stocastico utilizzato, che nella forma più semplice assume che due residenti a Milano abbiano la stessa probabilità di entrare in contatto di un residente di Milano e uno di Sassari». Ma, spiega il professore di Tor Vergata, «quello che mi lascia basito è che, nonostante il Comitato abbia a disposizione i dati individuali dei contagiati italiani registrati dall’Istituto superiore di sanità, faccia microsimulazioni basate sulla letteratura anziché stime dirette e più attendibili del numero di soggetti non diagnosticati, del network di contagio eccetera». Il Comitato sembra anche molto cauto sull’efficacia dell’uso diffuso delle mascherine: «Nel documento si scrive che se tutti portassimo le mascherine ci sarebbe una riduzione del contagio del 25%, mentre gli studi scientifici convergono su un’efficacia maggiore, almeno del 70%», spiega Farcomeni. «Uno studio pubblicato da poco su Nature dice addirittura che se l’80% della popolazione che si trova al chiuso con altre persone utilizza la mascherina, già questo è sufficiente a contenere l’epidemia con un’efficacia del 90%». Inoltre, «perché non considerare la possibilità, in aggiunta ai dispositivi di protezione e a fronte di un minor distanziamento sociale, di interventi caldeggiati come l’accesso ampio ai test diagnostici e il tracciamento dei contatti recenti di ciascun soggetto diagnosticato?», si chiede lo statistico. «Un articolo apparso su Science calcola che se entro 48 dalla diagnosi siamo in grado di tracciare tutti i contatti degli ultimi cinque giorni, da sola questa cosa può contenere l’epidemia». Queste ipotesi nel documento non si trovano. E non è un caso che neanche Conte ne abbia anche solo accennato nella conferenza stampa di annuncio della fase 2 “rallentata”. Le differenze nei numeri di contagi tra le regioni spingono poi alcuni economisti a chiedersi perché l’apertura differenziata su base regionale sia stata esclusa a priori. Nel testo del Comitato non compare nemmeno come oggetto di valutazione, mentre lo schema lombardo, cioè quello più grave, è uniformato sui vari territori. Le perplessità sono molte, e su questi temi l’Istituto Superiore di Sanità replicherà oggi, nella conferenza stampa delle 12.
Chi sbugiarda le previsioni allarmistiche del Cts sui ricoveri. Carlo Terzano su startmag.it l'1 maggio 2020. Il documento del Comitato tecnico-scientifico (Cts) difeso da Brusaferro dell’Iss e contestato da analisti ed esperti. C’è un documento, a cura del Comitato tecnico scientifico (di qui in poi Cts), che sta provocando dibattito. Quel documento, con ogni probabilità, è stato diffuso appena Palazzo Chigi ha iniziato a subire attacchi da ogni parte (dal mondo dell’industria, del commercio, dell’artigianato, persino dalla Cei e dalla stessa maggioranza), così da giustificare la scelta di misure tanto restrittive da rendere la ventura Fase 2 la copia in cartacarbone della Fase 1. Quel documento riporta un numero capace di far sobbalzare tutti: 150mila possibili pazienti in terapia intensiva laddove si optasse per il “liberi tutti”. Numero, però, che dopo un iniziale, comprensibile, sbigottimento, ha iniziato a sollevare più di una perplessità (di quelle di Gianfranco Polillo abbiamo già dato conto qua).
LO STRANO CASO DEL DOCUMENTO MAI ARRIVATO AL PARLAMENTO. Poco prima dell’informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla Camera del 30 aprile, l’ex ministro Maurizio Lupi ha notato: “La Fase 2 annunciata domenica sera si basa su un dossier riservatissimo e segretissimo con 92 scenari e 151mila possibili ricoveri in terapia intensiva: credo che il presidente della Camera dovrebbe chiedere al premier di depositarlo in Parlamento prima dell’inizio del dibattito per darci modo di studiarlo così da intervenire sul suo preciso contenuto e comprendere le scelte del Governo”. La richiesta non è pretestuosa: com’è possibile che le Camere, in una Repubblica parlamentare, non abbiano accesso ad atti tanto importanti?
IL CONTRO-STUDIO DI CARISMA (DI GIOVANNI CAGNOLI). Venendo invece ai numeri dati dal Cts, ha provato a confutarli un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli. Quello stesso Cagnoli che, poco più di un mese fa, era stato proposto da Carlo Calenda come possibile esperto cui affidare l’aspetto organizzativo e sanitario della ripartenza, senza però essere ascoltato dall’esecutivo di Conte il quale, come sappiamo, pur nel fiorire di task force, ha preferito altri nomi.
I TWEET DI CAGNOLI. Del resto, aprendo una breve parentesi, dal tenore dei tweet di Cagnoli sulla Fase 2 così come è stata disegnata dall’attuale Cts cui si è affidato Conte, si comprende che avrebbe avuto difficoltà a conformarsi alle attuali scelte dell’esecutivo:
In una serata che definirei simile a Caporetto ( o forse il 25 luglio sarebbe più consono… ) almeno un po’ di realismo e buon senso. Proclamano di salvarci e ci stanno condannando senza appello, senza Parlamento , senza coraggio, senza competenza. BASTA CAMBIAMO. SUBITO . — Giovanni Cagnoli (@GiovanniCagnol1) April 26, 2020
151k casi di terapia intensiva 8 giugno e 440k casi nell’anno presuppongono almeno 200 o 300 milioni di italiani. il documento del comitato tecnico scientifico…. è STRABILIANTE in tutti i sensi. spero tanto da cittadino italiano che non sia vero. che figura davanti al mondo.— Giovanni Cagnoli (@GiovanniCagnol1) April 28, 2020
COSA DICE CARISMA. Il contro-studio, ripreso anche da Linkiesta, parla apertamente di un errore di calcolo alla base del documento del Cts. Per la precisione, nell’estratto in sei punti (qui l’integrale di 22 pagine), si legge:
1. Si dice che si utilizza un ifr (uguale tasso di fatalità) su contagi pari 0,657% (Pagina 2): Pertanto calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva (3 Aprile – come noto inferiore ai dati Istat differenziali rispetto all’anno scorso e quindi stima chiaramente per difetto) si tratta di 1.385.000 contagiati.
2. Si dice (figura 1) che il tasso di incidenza di “caso critico” su infezioni (quindi i 1,3 milioni di casi in Lombardia) sia stato stimato partendo dal tasso di infezione e letalità di cui sopra. Pagina 2.
3.Poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia sono stati al picco 1.381 e attualmente circa 724, si desume che l’incidenza tra casi terapia intensiva e infezione (il grafico di figura 1) è mediamente 0,1% (divisione semplice fatta secondo i metodi del comitato tecnico scientifico). Il grafico presuppone un’incidenza per fascia di età, che anche stimando a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe per semplicità a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età. Nel grafico di Figura 1 (CHE È LA BASE DI TUTTO IL RAGIONAMENTO PRO CONTINUAZIONE LOCKDOWN E DEL MODELLO DEL COMITATO TECNICO SCIENTIFICO) tale incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%) con un errore di almeno 10 volte (10x)!!! Anche ipotizzando che il fabbisogno di letti terapia intensiva in Lombardia sia stato 2.000 e non 1.381 l’errore resta superiore a 6x. Analizzando la situazione del Veneto, dove non c’è stata scarsità di letti di terapia intensiva, l’errore resta di 6x.
4. Proseguendo nell’analisi, il caso di Scenario A (tab 2 – pag. 11), cioè tutto aperto sempre nelle ipotesi del comitato tecnico scientifico, si arriva a 150k casi di terapia intensiva l’8 giugno e 440k casi totali cumulati al 31 dicembre: –> applicando l’esperienza di incidenza della terapia intensiva in Lombardia di cui sopra, e utilizzando i parametri molto conservativi del cts, si arriva a sostenere che partendo dal dato consuntivo in Lombardia (0,1% al picco) esisterebbero in Italia 150 milioni di cittadini (151k/0,1%) ndr con età superiore a 20 anni perché come noto sotto tale età l’incidenza della terapia intensiva è trascurabile. Vorremmo conoscere subito i 100 milioni di connazionali a noi ignoti.
5. Calcolando il dato complessivo e stimando che le persone che sono stati in terapia intensiva in Lombardia siano finora a circa 3.500 in totale (dato non comunicato ma probabilmente sovrastimato) con una incidenza di 0,17% sul totale casi in Lombardia si arriva a una stima di popolazione italiana di di 260 milioni di abitanti (440k/0,17% – calcolato sempre con i parametri cts). Anche in questo caso vorremmo conoscere i 200 milioni di connazionali a noi ignoti.
6. Nel modello sviluppato dal cts apparentemente tutte gli scenari conseguenti sono coerenti con quello che dalla lettura attenta appare un errore di calcolo (sempre che nel documento non siano riportate assunzioni non comunicate). Non essendo scienziati e virologi e non lavorando per il governo ci siamo sicuramente sbagliati. Vorremmo però che qualcuno correggesse la nostra semplice matematica, basata su parametri di ifr (0,657%) che potrebbero essere anche inferiori sulla base esperienza internazionale (New York, Singapore, Diamond Princess, Qatar, Islanda) e su una serie di altre assunzioni del modello, in particolare quella relativa alla chiusura scuole. Anche accettando quelli che appaiono errori di calcolo, notiamo che il modello in 45 dei 46 scenari esaminati conclude che le previsioni di picco della terapia intensiva sono significativamente inferiori alla capacità nazionale (ca. 9.000 posti), salvo poi raccomandare uno scenario di apertura molto lento comunicato dal Governo in data domenica 26 aprile.
IL COMMENTO DEL PROFESSOR MARRUCCI. Pare rilevante, per tenere in considerazione anche le voci dissonanti, il commento di Lorenzo Marrucci, professore del dipartimento di Fisica “Ettore Pancini” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (citato anche dal debunker David Puente su Open), che in merito in pochi tweet spiega:
Apprezzo linkiesta, ma temo che in questo caso prendete una cantonata. La discrepanza di cui si parla è in realtà dovuta al fatto che il com. tecnico stima la prob. di criticità (fig.1) includendo anche tutti i morti da covid, anche quando non sono finiti in terapia intensiva. — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020
Vede, le funzioni con andamento esponenziale hanno questa caratteristica, crescono piuttosto rapidamente. La propagazione del virus ha un andamento esponenziale a condizioni costanti. Quindi, se R0>1, in pochi mesi si potrebbe arrivare a numeri incredibili di casi critici. — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020
Tuttavia il punto è che il rapporto discusso non usa SOLO le persone che sono state in TI per stimare la probabilità di essere critico, ma include anche tutti i morti che in TI non ci sono mai finiti. @GiovanniCagnol1 invece basa le sue analisi sui numeri effettivi di TI — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020
Questo è il motivo per cui sostiene che il rapporto commetta un errore di calcolo, che non c’è. Con questo non voglio affermare che la scelta del governo di riaprire così lentamente sia giusta (ho i miei dubbi al riguardo), ma solo chiarire questo specifico punto tecnico. — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020
LE CRITICHE DI REMUZZI. Particolarmente duro anche il professor Giuseppe Remuzzi direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri» che, intervistato dal Corriere della Sera del 30 aprile, dichiara: «Questo dossier prende in considerazione 92 scenari possibili. Ma tra 92 e zero, è uguale. Significa non avere idea di quello che succederà. Che è la pura verità, e andrebbe detta. Non lo sa nessuno». E alla domanda se rischiamo davvero 151.000 ricoveri in terapia intensiva, replica: «Se prevedi che tutto, ma proprio tutto vada male, si avrà un numero importante. Ma non quello, al quale si arriva solo sovrastimando in modo abnorme la popolazione anziana in Italia. Lo scenario peggiore non è impossibile, maanche a livello statistico è molto improbabile».
RENZI: NUMERO FOLLE. Tra i primi a criticare il documento segreto del Cts era stato Matteo Renzi, stampella ‘molleggiata’ di Conte, che pure è arrivato a Palazzo Chigi per volontà proprio del senatore di Rignano. E proprio in Senato è atteso quello che ambienti di Italia viva definiscono “l’ultimo appello” al premier affinché alleggerisca le misure in vista della Fase 2. Nel momento di massima emergenza l’Italia ha avuto 4MILA pazienti in terapia intensiva per COVID. Oggi sono 1.863. Dire che a giugno potrebbero esserci bisogno addirittura di 151MILA posti in terapia intensiva è FOLLE. C’è chi vuole seminare il panico. Noi manteniamo lucidità — Matteo Renzi (@matteorenzi) April 28, 2020
Renzi da diverse settimane sta provando a intercettare i favori di quel mondo produttivo, sempre più vasto (da Confindustria a Confcommercio, passando per Confesercenti fino ad arrivare alla Serie A e alla Figc per lo sport) che scalpita per ripartire il prima possibile e che fatica a trovare sponda politica persino nell’opposizione. Dietro la sua decisione di contestare il Cts, quindi, più che un ragionamento scientifico o matematico, c’è un mero calcolo politico. Nel caso di Renzi, però, sappiamo almeno l’operazione logica che giustifica le sue azioni. Nel caso di Conte e del documento del Cts, invece, no. E questo è preoccupante.
LA VERSIONE DI BRUSAFERRO. Il documento sugli scenari dell’evoluzione di Covid-19 in base alle diverse possibili misure allo studio per la fase 2 “non è stato secretato, ma era allegato ai verbali del Cts. Ed stato trasmesso al ministro della Salute”. Lo ha precisato il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, durante la conferenza stampa di approfondimento all’Iss. Brusaferro ha spiegato che le finalità del documento “sono abbastanza semplici intuitivamente. Sono quelle di mettere a disposizione, sulla base dei dati disponibili (evidenze scientifiche e stime, ndr) la simulazione dell’andamento di un’epidemia. In una logica in cui si vuole aprire il Paese”. Altro obiettivo, continua il presidente Iss, “è quello di categorizzare le variabili che determinano la circolazione del virus. Il lavoro è sicuramente una di queste variabili, la vita di comunità è un’altra, i trasporti un’altra ancora. Abbiamo cercato di capire qual è il peso di ognuna rispetto alla forza della circolazione del virus”. Lo studio, ha aggiunto Brusaferro, ha una sua organizzazione: nasce come studio nazionale quindi, successivamente, “dovrà essere declinato, articolato e modulato sulla base di dati regionali, considerando che gli Rt sono differenti, seppure fortunatamente tutti sotto l’1”. Lo studio, infine, “è finalizzato alla riapertura. Quindi parliamo di un dato di adesso. E’ evidente che,sulla base dei dati, questi modelli vanno aggiornati e vanno tarati sulla base dei risultati in evoluzione”. Brusaferro ha tenuto a precisare la genesi "pratica" del documento nato “dalla richiesta, nell’ambito dei lavori che vengono fatti quotidianamente all’interno della Cts, del ministero e di tutte le articolazioni dello Stato, di valutare come fare evolvere il sistema una volta che la curva della pandemia abbia raggiunto livelli come quelli che stiamo raggiungendo”. “Questo studio – ha ricordato – è stato realizzato dall’Iss insieme all’Inail dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento e dal ministero della Salute. I lavori sono stati poi al centro del confronto con il Cts presso la Protezione civile che lo ha analizzato, discusso, lo ha fatto proprio ed è diventato, così, un allegato del verbale”. Quindi nessuna segretezza.
Coronavirus, Pierpaolo Sileri contro il Comitato tecnico scientifico: «Mi nascondono i documenti». Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Lo strano caso di un sottosegretario alla Salute che non ha accesso ai verbali del Comitato tecnico scientifico, relazioni e dati sulle quali si sono costruiti, e si costruiscono, i piani politici di contenimento del contagio. Lo racconta Pierpaolo Sileri al quotidiano la Verità. Non uno sfogo estemporaneo, visto che il medico e politico indicato dai 5 Stelle ribadisce le sue accuse in televisione, a «Non è l’Arena». Che qualcosa non vada al ministero della Salute è chiaro. La forza della pandemia ha messo a dura prova le risorse e la struttura. Dietro lo sfogo di Sileri, spiegano alcune fonti all’interno del dicastero, ci sono anche ragioni personali, di potere. Il politico dei 5 Stelle non è formalmente viceministro, carica che deve venire assegnata ufficialmente da Palazzo Chigi. Come sottosegretario ha alcune deleghe, anche pesanti, alla Ricerca e alle Professioni sanitarie, ma sono competenze molto sulla carta, senza potere di firma. Nella sua denuncia, Silveri spiega che i verbali del Cts non erano secretati, ma non gli venivano comunicati. Nonostante le insistenze. In realtà i verbali, spiegano dal ministero, non vengono mai consegnati, ma si possono leggere. Sileri sostiene che «non si tratta di un problema personale ma operativo» e che le informazioni venivano negate anche al sottosegretari dem Sandra Zampa. Tanto che a un certo punto hanno dovuto insistere per poter inserire una persona di fiducia all’interno del Comitato, per assistere alle riunioni. Senza potere di voto. Una sorta di infiltrato che passava le informazioni scientifiche a chi, in teoria, sarebbe stato tra i primi a doverli avere. Non solo. Secondo Sileri c’è un problema più generale di comunicazione all’interno del ministero. Indubitabile che ci sia, se è vero quel che dice: «E’ accaduto che io scoprissi da circolari emanate dal ministero in via amministrativa che si decideva anche su temi di cui mi sto occupando». Un imbuto, così lo definisce il viceministro, che non è stato possibile rimuovere e che risente anche delle difficoltà dovute allo smart working e al periodo di isolamento che ha dovuto trascorrere il sottosegretario, dopo essere risultato positivo. Sileri punta il dito contro il segretario generale del suo ministero, Giuseppe Ruocco: «È sparito dal comitato scientifico. Lui doveva fare da trait d-unione. Sa come ho saputo dei due pazienti cinesi ricoverati a Roma? Dal telegiornale. Sono tornato a casa e mia moglie me l’ha detto. Lei mi ha detto: ci sono due infetti e non mi dici nulla? Ma io non sapevo nulla. Le informazioni sulla mia scrivania non arrivano. Le devo inseguire. Il plasma e quant’altro. Non è una cosa normale». Alla Verità dice altro, parlando di autopsie: «Se io da medico leggo quel testo sulle autopsie, non capisco nulla. Il 7 maggio a Bergamo hanno fatto le analisi contro il parere del ministero. Da medico, mi sento di dire che abbiamo commesso un reato». Nessun accenno a un’interlocuzione con il diretto superiore, ovvero il ministro della Salute Roberto Speranza.
La guerra tra il viceministro e il comitato: ecco le mail del duro scontro tra Sileri e tecnici. Documenti mai inviati, lettere senza risposta, persone escluse dalle riunioni: L'Espresso pubblica la corrispondenza tra il viceministro della Salute Pierpalo Sileri e il Comitato tecnico-scientifico che, a suo dire, lo avrebbe tenuto all'oscuro di ogni decisione. «Sono basito dal comportamento dei funzionari dello Stato». Floriana Bulfon l'08 giugno 2020 su L'Espresso. «Questa grave omissione nei verbali, rivelatrice di scarsa trasparenza nel processo decisionale, certamente non aiuta in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo». Di cosa si è discusso durante le riunioni del Comitato tecnico-scientifico che consigliava le scelte del governo durante l'epidemia? Quali informazioni erano realmente a disposizione sull'evoluzione del virus e come sono state gestite? Non dovrebbero essere documenti segreti. Eppure persino il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri non riesce a ottenere l'accesso a quei resoconti. Scrive di rimanere «basito del comportamento dei funzionari dello Stato». E denuncia che la sua collaboratrice è stata esclusa dal tavolo del Comitato con motivazioni discutibili: «Il 24 febbraio una componente del mio ufficio, la cui presenza (unica donna) era stata da me chiesta per avere informazioni in tempo reale fu allontanata dopo dichiarazioni del tipo: “ci sono troppe donne qui”». La tensione tra Sileri e il Comitato è sempre più alta: la corrispondenza che l'Espresso pubblica in esclusiva mostra un vero braccio di ferro per potere esaminare i carteggi del pool che ha guidato le scelte chiave della pandemia. Il chirurgo romano, eletto al Senato con il M5S e nominato vice di Roberto Speranza nel governo Conte Bis, sostiene che quei documenti gli siano negati. Il coordinatore del Comitato Agostino Miozzo replica invece “con viva sorpresa”. «È stata celermente assicurata la presenza di un suo rappresentante che prende regolarmente visione dei verbali». Non solo: «Di fronte a una sua specifica richiesta – non intervenuta nel caso di specie - sarà mia cura fornirle un'informativa quanto più possibile completa, pur tenendo conto che i verbali costituiscono informazioni “non classificate controllate”». Ossia il livello più blando di riservatezza, senza una formale secretazione. Ma Sileri non ci sta e risponde con un lungo elenco di negligenze: «Dall'inizio dell'emergenza ho rappresentato in più occasioni l'urgenza di acquisire la documentazione in quanto ritengo mio preciso dovere conoscere tempestivamente i pareri espressi dall'organo tecnico… Ho più volte lamentato la mancanza di un collegamento tra il Comitato e il mio ufficio, che per la parte ministeriale, avrebbe dovuto essere garantito dal Segretario generale del ministero della Salute, che ha invece ampiamente disertato le sedute… Non è vero che la presenza di un rappresentante è stata celermente assicurata».
Fino all'11 aprile non gli è stato trasmesso alcun documento né i verbali delle riunioni. Allega anche una mail spedita il 21 marzo, mentre si trovava isolato per avere contratto il virus: «Vorrei, quanto meno, poter rispondere alle tantissime richieste che mi giungono come membro del governo oltre che come medico. È mio dovere partecipare all'individuazione dell'indirizzo politico dell'esecutivo per il quale ho giurato. Non riesco ad aver riscontro, non mi è concesso leggere, nonostante svariate richieste, i verbali». In particolare, evidenzia come gli siano stati negati i documenti sulle riunioni di marzo. Sono le settimane cruciali, quando il virus dilaga e vengono prese le decisioni più difficili: come la mancata zona rossa di Nembro, mai decretata nonostante le indicazioni dell'Istituto Superiore di Sanità. Omissioni che sembrano far calare un velo di mistero sulle discussioni del Comitato.
Dossier svizzero demolisce il lockdown: “Misura medievale, ha salvato poche vite”. Laura Ferrari lunedì 18 maggio 2020 sul Il Secolo d'Italia. Che cosa sarebbe successo senza il lockdown? Se l’Italia avesse adottato il modello svedese quanti morti in più avremmo avuto? A questa domanda ha risposto il Politecnico federale di Zurigo (ETHZ). Ecco i calcoli, riportati dal sito Swissinfo.
Lo studio del team di ricercatori di Zurigo. “Il lockdown – o quarantena – dei Paesi europei ha prodotto un risultato che siamo stati in grado di quantificare. Calcoliamo una riduzione dei decessi nell’ordine di cinquanta persone per milione di abitanti”. Secondo i calcoli del team guidato dal professore Didier Sornette, esperto di rischi presso il Politecnico federale di Zurigo (ETHZ), il confinamento ha avuto effetti relativamente bassi sulla mortalità della popolazione. In Italia, secondo questo studio, avremmo avuto circa tremila morti in più. Per avere un raffronto obiettivo, dovremmo capire quanti morti in più abbiamo invece avuto per le conseguenze del lockdown. Mancate diagnosi, cure non effettuate su malati gravi, femminicidi, suicidi. Questo, al momento, non è dato saperlo.
“Il lockdown? Misura brutale e inefficace”. Nell’articolo pubblicato sul sito svizzero, lo scienziato francese demolisce il modello del confinamento: “Uno strumento brutale, medievale, a cui far capo in ultimo ricorso quando si è disarmati o in uno stato di massima incertezza”. Inoltre, sapendo che forse la Covid-19 era già presente in Svizzera all’inizio dell’anno, il confinamento tardivo – sostiene Sornette – avrebbe avuto un effetto molto limitato”.
Gestione incompetente dell’emergenza. Il professor Sornette è inoltre convinto che il processo sia stato già mal gestito in termini di prevenzione. Usa inoltre una metafora automobilistica. “Ci siamo addormentati al volante. Così abbiamo dapprima assistito a una negazione dell’importanza di questa pandemia che si stava sviluppando in Cina, poi a una critica della Cina che confinava in modo eccessivo”. Per lo scienziato dell’università di Zurigo, “in alcuni Paesi europei (il riferimento è all’Italia?) c’è stato il panico e molti hanno cominciato ad imitare la Cina, ma meno bene. Non si sarebbero dovute attuare misure di confinamento così brutali, bensì focalizzarsi sulle zone calde e gli epicentri”. Una sonora bocciatura per Conte e i suoi “esperti”.
Giancarlo Dotto per Dagospia il 18 maggio 2020. Sconfitte utili. La sconfitta è tale solo quando non genera una lezione. La sconfitta dei giorni nostri è quella della scienza che si sostituisce alla politica con la debolezza arrogante del suo sapere parziale. Un peccato che Giuseppe Conte non abbia avuto come consulente un Johann Wolfgang Goethe di oggi. Ospite da Fazio, avrebbe citato il suo “Faust” come una gentile ma inesorabile scimitarra: “capire e descrivere una realtà vivente a partire dalla somma dei suoi frammenti inerti, significa mancare il nesso stesso della vita”. Detto altrimenti e attualizzato: se un malato di virus lo tratti solo per quello che capita o può capitare nei suoi polmoni ti ritrovi alla fine un malato globale e un disadattato potenziale. Il professor Francesco Le Foche, clinico, immuno-infettivologo, ha cercato dall’inizio un approccio globale al tema coronavirus. Proviamo a tracciare con lui un punto, che sia anche l’occasione di sezionare il fenomeno in tutti i suoi aspetti. Qualunque fase sia questa (conviene immaginarla come una fase zero), serve una combinazione goethiana di lucidità e di lirismo. “Bisogna intanto distinguere tra scienza e scientismo. La scienza deve fornire dati, trarre deduzioni, porre dubbi, indicare proposte. Lo scientismo è quando la scienza si sostituisce alla politica, come si è visto in certi regimi dove, in nome del diktat della scienza, si sono avallate cose orrende”.
Dal punto di vista della scienza: come si affronta una pandemia?
“Va affrontata su quattro livelli, scientifico, politico, etico individuale ed etico di società”.
Aspettando l’eventuale vaccino, come e quando termina una pandemia?
“La pandemia termina quando la coscienza sociale delle persone si ribella e inizia la fase della convivenza con il virus”.
È quanto sta accadendo da noi oggi?
“Esattamente. Di là delle formule dettate dalla politica e dalla scienza la convivenza con il virus è un processo di rivolta sociale che parte da una collettività esausta, segnata dalle restrizioni subite, dal discomfort fisico, economico e psichico. Un tam tam collettivo che si trasmette per vie misteriose”.
Detto così, somiglia a una storia di liberazione.
“Il piccolo dittatore, seicento volte più piccolo del diametro di un capello, viene messo all’angolo da una società che raccoglie la sfida e decide di conviverci”.
Più che un esercito di ribelli, sembriamo animali scappati da un recinto protetto. Smarriti e confusi. Andiamo in mille direzioni, non sappiamo bene dove.
“Devono essere date delle linee guida. Primo punto, l’educazione civica, il rispetto del prossimo e della comunità. Linee guida che sono il vettore illuminante dell’umanità, prescindendo da regionalismi e nazionalismi”.
Andando nel dettaglio?
“Decidere se gli ombrelloni devono stare a due metri o a cinque non è alla base di una rinascita sociale. La pandemia è quasi sempre la conseguenza di un abbrutimento sociale, di una deregulation spacciata per normalità”.
E invece cos’era?
“Un malsano delirio di onnipotenza. Ci ritenevamo i padroni dell’universo, è bastato un nemico invisibile, infinitamente più piccolo di una pulce a metterci al muro. Abbiamo scoperto di colpo la nostra vulnerabilità assoluta”.
Con questo nemico dobbiamo misurarci, nudi e fragili, senza più nemmeno l’armatura del crederci padroni.
“Il sistema immunitario è la nostra armatura. Siamo ancora lontani dal conoscerlo bene ma, se attivato in modo congruo, ha le risorse intrinseche per difenderci da tutto. Un esercito straordinario, altamente specializzato”.
Cosa ci manca ancora?
“Non abbiamo il joystick, la possibilità di gestire il sistema. Il segreto cui dobbiamo attingere non è solo il vaccino. Siamo ancora nella fase primitiva della scoperta del sistema immunitario, che è particolarmente complesso, ma ha in sé tutti i possibili fattori di difesa utili al nostro organismo”.
Possiamo farcela anche senza vaccino?
“Il vaccino equivale a una forma d’immunità attiva che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi. Al di là del vaccino, nel prossimo futuro potremmo arrivare allo stesso risultato attivando il nostro sistema immunitario con modalità diverse.”
Il sistema immunitario, dunque, è il cuore della nostra difesa.
“Pensate che l’organizzazione del sistema immunitario ha ispirato il concetto dello scudo spaziale, che fu alla base della guerra fredda. Bloccare qualunque aggressione dall’esterno con una barriera di anticorpi. Mancano ancora i canoni scientifici che ci consentano di sfruttarlo al massimo”.
Questo spiega, ad esempio, perché si muore ancora di cancro?
“Se riuscissimo ad attivare il sistema adeguatamente, potremmo pensare di sconfiggere anche il cancro. Purtroppo siamo ancora così fragili che basta un organello come questo coronavirus per affondarci”.
Come si rafforza il sistema immunitario?
“Non solo con la ricerca scientifica. Dobbiamo ricreare condizioni che ci favoriscano biologicamente. Rinunciare a considerare il pianeta come una nostra risorsa illimitata da saccheggiare. L’onnipotenza è un nemico da combattere”.
C’è anche una ribellione della natura?
“Gli ecosistemi sono le nicchie biologiche che mantengono virus e batteri inoffensivi. Se li distruggi, scatta una ribellione della natura, scatenando avversità. Da dittatori del pianeta, non abbiamo un futuro. Basta guardare la storia delle dittature”.
A proposito del “piccolo dittatore”, perché dovrebbe arretrare invece di fare un sol boccone del nemico?
“Le attenzioni giuste, i comportamenti responsabili, la distanza fisica, ma non sociale, renderanno la convivenza innocua”.
Che significa distanza fisica, ma non sociale?
“Significa coesione sociale ma distanza individuale. Come gli spartani reagiremo con un’aggregazione a testuggine. Questa ribellione sarà la fine della pandemia”.
Cosa vuol dire nello specifico convivere con il virus? Diamo una bussola a quest’umanità smarrita.
“Significa accettare mentalmente un minimo di rischio. Lo stesso che accade quando affrontiamo il quotidiano, quando andiamo in macchina, attraversiamo una strada pericolosa o andiamo di notte in un quartiere a rischio”.
Quali sono le strisce pedonali contro il virus?
“Vale la pena ripeterlo: la distanza giusta all’aperto e la protezione con mascherina in ambienti chiusi particolarmente frequentati, forte tasso d’umidità e pochi scambi d’aria”.
Esempi?
“I mercati rionali chiusi, i supermercati, i teatri, i cinema, ristoranti al chiuso, ecc. Il più alto indice di contagio al mondo c’è stato nelle macellerie del Texas, dove il rumore degli attrezzi che segano le ossa degli animali induce le persone ad alzare la voce, facendo partire milioni di particelle virali”.
Se cammino sulle rive del Tevere, del Po o dell’Arno, posso fare a meno delle mascherine?
“Niente mascherine nei luoghi aperti dove è possibile mantenere la distanza di sicurezza. Fondamentale, insisto, è il rispetto per gli altri”.
Vengono a trovarci parenti e amici. Come so che, da asintomatici, non mi portano in casa il virus?
“Quando c’è un dubbio vale la regola del distanziamento. Siamo appena usciti da una fase pandemica, dobbiamo pensare che le case e i luoghi di lavoro sono quelle più a rischio di contagio”.
Comunicazione angosciante. Come faccio a saperlo se il contagiato mi contagia, viaggiando il tutto su una traccia asintomatica?
“Se è asintomatico o pre-sintomatico e rispetta i canoni di attenzione, è molto improbabile che possa contagiare”.
In assenza di sintomi?
“In linea di massima dopo trenta o quaranta giorni avviene l’epurazione del virus. Tuttavia, possiamo sempre contare sui tamponi o sui test sierologici sempre più affidabili cui sottoporre le persone venute in contatto”.
Nessun allarme dunque?
“Oggi sappiamo che possiamo affrontare prevenzione e l’eventuale terapia con grande efficacia, intervenendo nella prima settimana. Se si interviene tempestivamente, le persone tendono alla guarigione evitando, a volte, l’ospedalizzazione”.
Non erano dignitosi gli affollamenti sconsiderati d’un tempo, ma è dignitoso cenare in un ristorante con il partner o un amico divisi da una barriera di plexiglas?
“È una sconfitta. Ritengo sia sufficiente la distanza di un metro. Ogni tavolo deve avere un metro quadro di sana privacy, che vuol dire salute pubblica ma anche discrezione personale”.
Si può immaginare dunque una nuova normalità?
“Dobbiamo farlo. Andrebbe ipotizzato un rimodellamento architettonico degli spazi urbani, al fine di evitare situazioni di promiscuità eccessiva”.
Addio per sempre alle ammucchiate euforiche? Addio alle folle negli stadi e nei concerti?
“Temo di sì. Ci sono tifoserie già culturalmente inclini a farlo, penso ai tifosi del Chelsea. Dobbiamo abituarci a una condivisione della fede sportiva che tenga conto della salute pubblica”.
Diventa difficile immaginarlo e accettarlo.
“È la nuova normalità. Dobbiamo immaginare stadi con una capacità ridotta della metà. Trentamila tifosi in stadi che oggi ne prevedono sessantamila. Una sanificazione puntuale e almeno un metro di distanza tra una persona e l’altra. Vale anche per i concerti e per le file agli ingressi”.
Dovremo assistere a uno show di Springsteen come fosse un concerto da camera?
“Soprattutto al chiuso, questo sarà inevitabile. In generale, dobbiamo ripensare tutta l’architettura delle città che tenda a un’urbanizzazione da esterno. Saranno favoriti gli attici e i ristoranti terrazzati o con giardino”.
Anche questo farà parte della nuova normalità?
Una normalità che riveda gli eccessi di quello che sembrava il giusto ma non lo era. Gli indigeni dell’Amazzonia contestavano i grandi assembramenti delle città. Quello che per noi era progresso, per loro era regresso”.
Si torna al concetto di rapporto equilibrato con l’ambiente.
“Dobbiamo uscire dalla caosressia sociale”.
Neologismo?
“Parola che invento qui per definire contesti in cui i contatti sociali non tengono conto della misura”.
L’aria condizionata aiuta o è nociva?
“I nuovi impianti di condizionamento d’aria prevedono flussi di aria pulita dall’esterno verso l’interno e viceversa. Tale virtuoso ricambio comporta la netta riduzione della carica virale in un ambiente.”.
Accettare un minimo rischio, convivere con il virus. Vale anche per lo sport professionistico dove i parametri di sicurezza sono altissimi?
“Assolutamente sì. Il nuovo concetto di ritorno alla normalità non può non prevedere lo sport professionistico”.
Se l’è spiegata alla fine l’anomalia Lombardia?
“Decisiva la concentrazione di quattro fattori: l’alto coefficiente demografico, il livello d’industrializzazione, la condizione aero-ambientale e le abitudini sociali.
Che differenza tra clinico, virologo ed epidemiologo?
“Il clinico osserva il fenomeno attraverso il paziente, il virologo studia il virus, l’epidemiologo studia la rilevanza della malattia nella popolazione. E’ il lavoro d’insieme che porta al risultato: “la sconfitta della pandemia”.
Giordano Bruno Guerri per ''il Giornale'' il 20 maggio 2020. Di solito capita nel mondo dello spettacolo. D'improvviso c'è il cantante, o l'attore, che da totale sconosciuto ha immenso successo con una canzone o un film: tutti lo conoscono, molti lo amano, qualcuno lo detesta, comunque sembra che non debba mai più uscire da sotto i riflettori e dalle nostre vite. Invece, per motivi imponderabili, da un giorno all' altro ha sempre meno successo, fino a scomparire rapidamente, dimenticato. Senza voler mancare loro di rispetto ci mancherebbe è quanto sta accadendo e accadrà a epidemiologi e virologi. Quasi nessuno conosceva la loro esistenza, e quei pochi soltanto per sentito dire. In fondo, capita più spesso di avere bisogno di un dentista che di uno studioso dei microbi, e di un commercialista più che di uno studioso della diffusione delle malattie. Finché, un giorno, bum, eccoti un virus nuovo di zecca che dalla lontana Cina in quattro e quattr'otto stabilisce il suo impero mondiale, detto Pandemia. Li ricordiamo, i primi epidemio/virologi, in febbraio, faticosamente rintracciati attraverso affannose ricerche nelle redazioni di giornali, radio, televisioni: scoperti, stanati e intervistati, spesso erano timidi, impacciati come capita a chi d' improvviso si trova alla ribalta. Poi hanno preso il potere, senza neanche volerlo né chiederlo, sui media e nei comitati. Di epidemie e pandemie, anche recenti e ben più gravi di questa, è piena la storia. Ma stavolta è accaduto qualcosa mai accaduto prima: in nome del diritto alla salute (un concetto finora più teorico che reale), gli Stati invece di lasciar morire qualche decina o centinaia di milioni di persone, hanno interrotto i capisaldi della loro vita, che sono l' economia, il lavoro, la ricchezza, i diritti, gli scambi, le comunicazioni. E ci sono riusciti proprio per i suggerimenti di quegli studiosi fino a ieri ignorati, il cui potere è diventato di colpo immane. Non si limitavano a dettare l' agenda politica e il da farsi. Come potentissimi opinionisti - con un potere che mai nessun opinionista ha avuto influenzavano umori e sentimenti, originavano schieramenti, dividevano e univano. Anche indossando la mascherina, venivano riconosciuti per strada e festeggiati dai pochi e sfuggenti che non si sarebbero accostati a altri che a loro. Poi, d' improvviso, il declino imminente, dopo neanche tre mesi di regno. Fosse per loro, si capisce, continuerebbero a tenere tutto chiuso, non per vanità o libidine di potere, ma per prudenza e sicurezza. La politica però non li ascolta più, né a destra, né a sinistra, né al centro. La politica sa (per fortuna) che incombe l' altro virus, ancora più micidiale del Covid-19, che rischia di far cadere tutto il castello costruito in 75 anni di pace e lavoro e invenzioni e scoperte. La politica ha deciso che adesso è il momento di rischiare, di ascoltare gli scienziati con un orecchio solo. E loro, i bravi saggi, scuotono più o meno lievemente la testa in televisione e in tutti i comitati. Ma il loro momento è passato, e se dovesse tornare sarebbe il disastro, moriremmo per l' altro virus. Sono sicuro che, da uomini di scienza, anche loro non vedono l'ora di tornare al silenzio dei loro studi. Intanto, grazie, davvero.
Dagospia il 18 maggio 2020. GLI ESIMI VIROLOGI SPERNACCHIATI DALLA SCIENZA: LE MASCHERINE RIDUCONO I CONTAGI DI OLTRE IL 50%. QUANTE MORTI CI SAREMMO EVITATI SE NON AVESSIMO ASCOLTATO I VARI PREGLIASCO, LOPALCO, ARLOTTI, PER NON PARLARE DEI CAPOCCIONI DELL'OMS, CHE DICEVANO ''NON USATELA, SERVE SOLO AI MALATI, CREA UNA FALSA SENSAZIONE DI SICUREZZA''. NO, CREAVA UNA VERA SICUREZZA E VOI DOVRESTE ANDARE A NASCONDERVI.
ECCO COSA DICEVANO NEI PRIMI MESI DELL'EPIDEMIA MOLTI VIROLOGI:
CORONAVIRUS, L'IMMUNOLOGO ARLOTTI: «LA MASCHERINA? EFFETTO CARNEVALE, SERVE SOLO PER I MALATI». 1 febbraio su ilmessaggero.it.
PREGLIASCO: NON SERVE USARE LE MASCHERINE. 22 Febbraio 2020 su scienze.fanpage.it. "Ad oggi non è cambiato ancora nulla, non c'è necessità di utilizzare le mascherine" ha spiegato a Fanpage.it il professor Fabrizio Pregliasco, virologo presso il Dipartimento Scienze biomediche per la salute dell’Università degli Studi di Milano. "Per ora le indicazioni sono solo quelle relative al territorio coinvolto, ma non esagererei a dire tutti con le mascherine. Comunque anche nelle aree colpite [dalla recente diffusione] non ce n'è bisogno, è una precauzione ma la diffusione al momento non è così devastante".
CORONAVIRUS, IL VIROLOGO FABRIZIO PREGLIASCO: "LA MASCHERINA È UN ECCESSO DI PRUDENZA". 3 marzo 2020 su la7.it/tagada.
LOPALCO: LE MASCHERINE CHIRURGICHE? CHI LE INDOSSA E NON HA SINTOMI POI SI SENTE TROPPO TRANQUILLO. QUINDI NON LE CONSIGLIO. 8 Marzo 2020.
DAGOSPIA 7 aprile 2020: LE MASCHERINE SERVONO, A TUTTI, PIU' SI USANO E MEGLIO E' (INTERVISTA A GARBAGNATI)
Non è l'Arena Alessandro Cecchi Paone inchioda i virologi: "Il vostro errore è stato non dire mai non lo so". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Alessandro Cecchi Paone, ospite di Massimo Giletti a Non è l'arena su La7, inchioda gli scienziati sul coronavirus davanti alle loro contraddizioni: "A febbraio le indicazioni venivano dall'Oms che diceva che non era pericoloso. Secondo me l'errore che voi avete fatto è stato non dire mai non lo so. Un grande scienziato deve ammettere di non essere sicuro". Quindi il giornalista e divulgatore scientifico dà loro un consiglio: "Imparate a dire almeno non lo sappiamo ancora. E non accettate che la scienza diventi una opinione, una materia di scontro" come purtroppo è diventata durante i talk show, conclude Cecchi Paone.
Che cosa significa «non so»? Il solo vero errore degli scienziati sul coronavirus. Il coefficiente per stimare la propagazione del contagio andrebbe aggiornato e servirebbero dati più «puliti». Intanto in Germania è di nuovo a 1,1, sopra la soglia. Paolo Giordano l'11 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. La scienza non sa: e non sa «costitutivamente». Insegna a vivere il dubbio. Il coefficiente per stimare la propagazione del contagio andrebbe aggiornato e servirebbero dati più «puliti». Intanto in Germania è di nuovo a 1,1, sopra la soglia.
Dopo essere stati per settimane in rispettoso ascolto degli esperti, dopo le abbuffate di virologia e immunologia ed epidemiologia, il nostro atteggiamento inizia a cambiare. Mentre noi andiamo avanti, gli scienziati restano indietro e continuano a ripeterci le stesse cose. Continuano, in sostanza, a dirci no no no. Così la scienza si rivela una volta in più per quel che è: un’interdizione al nostro godimento. L’insofferenza che ci suscita si traduce in una svalutazione sommaria: «e poi, parliamoci chiaro, neppure gli scienziati ci hanno capito granché».
È vero, gli scienziati non sanno. I fisici, esperti della materia, ammettono candidamente di non sapere di cosa è fatto il 95% dell’universo. I biotecnologi, esperti di Dna, non sanno a cosa serve più della metà del nostro genoma, o addirittura se serve. E i virologi, ora così in auge, sono messi ancora peggio, perché non sanno nemmeno la percentuale di quello che non conoscono: hanno censito qualche migliaio di virus, ma i virus sul pianeta potrebbero essere miliardi. Non solo è enorme ciò che non sappiamo: è enorme ciò che non sappiamo di non sapere. Ma quell’enormità è proprio la sorgente di vertigine che porta i giovani scienziati alla loro vocazione, e quella vocazione a non estinguersi.
Da quando la pandemia ci ha investito, l’umanità intera vive in un limbo della conoscenza, dove gli indizi non sono prove, dove le cure sono «promettenti» ma non adeguatamente sperimentate, dove gli articoli sul Covid sono pre-print ancora in attesa di validazione. È una condizione esistenziale tipica per gli scienziati, ma alla quale noi non siamo abituati. E non ci piace nemmeno un po’. Così come non ci piace che quegli scienziati farciscano tutte le loro risposte di prudenza: «è ancora presto per», «dobbiamo aspettare che», «ci vorrà tempo prima di», «non sappiamo, non sappiamo, non sappiamo».
Eppure, con un po’ di lucidità in più e un po’ di paura in meno, sapremmo riconoscere le loro schermaglie come l’elemento politico più nuovo e dirompente di questa crisi. In un’epoca dominata dall’assertività gli scienziati hanno riportato il dubbio al centro del discorso, hanno cercato di rispondere alle domande senza ricorrere a slogan, piuttosto con altre domande, e hanno riscoperto per noi la categoria proibita del non-sapere. Si parla tanto dei cambiamenti che saremo in grado o no di fare nel mondo post-Covid che verrà. Bene, eccone uno particolarmente importante: mantenere viva questa tensione verso ciò che non conosciamo. Esiste un modo di educare al non-sapere? D’insegnarlo già ai bambini, sovvertendo il principio dominante che la conoscenza sia un corpo statico di nozioni di cui appropriarsi pezzo a pezzo? Non ne ho idea, ma varrebbe la pena di rifletterci, anche in vista del rientro a scuola.
Se di qualcosa vanno rimproverati gli scienziati non è certo di non-sapere o di trovarsi in disaccordo, semmai del contrario: di non essere stati abbastanza inflessibili, a volte, nel difendere il confine tra sapere e non-sapere. Di essersi lasciati in parte infettare dal bisogno mediatico di «dare speranza». Stremati dalle richieste di rassicurazione, in molti hanno finito per dire quel che la gente voleva sentirsi dire: «sì, arriverà di sicuro il vaccino»; «sì, quella cura funziona alla grande»; «sì, il virus è più debole dell’inizio»; «sì, il caldo ci aiuterà». Sì, andrà tutto bene.
La compiacenza è la deriva peggiore della politica contemporanea, ma ognuno di noi comprende come sia, in una certa misura, ineliminabile dalla politica stessa. Per uno scienziato la compiacenza è invece un peccato capitale. Come lo è ostentare certezze di cui manca ancora la prova, per quanto si tratti di certezze «oneste», corroborate da osservazioni personali ed esperienza e istinto. Il governo viene ora accusato da più parti di un atteggiamento paternalistico nei nostri confronti. Non saprei dirlo. Ma è indubbio che il paternalismo ha caratterizzato la comunicazione scientifica fin dall’inizio della pandemia. Il fatto stesso che l’esposizione dei dati sia stata affidata a un organo non scientifico come la Protezione civile dice molto. Così come dice molto l’impalpabilità del Comitato Tecnico Scientifico, mai portato a spiegare in maniera esaustiva e diretta ai cittadini la solidità delle ragioni dietro questa o quella norma, anche quando le norme — distanziare di tot i tavoli dei ristoranti, non aprire le scuole fino a settembre, sanificare i vestiti nei camerini — hanno ripercussioni gravissime sulle nostre vite.
Altri articoli di Paolo Giordano sul virus.
Nei giorni peggiori ci veniva detto: «aumentano i ricoveri e i decessi, ma aumentano anche i guariti». Come se i guariti, per qualche strana inversione del principio di causalità, potessero anche diminuire. Come se il loro numero potesse smorzare la gravità degli altri dati. Non aveva senso, ma se faceva stare più tranquilla la gente, meglio dirlo. Oppure il famigerato R0, il coefficiente che si è piantato di traverso fra noi e i nostri progetti. Ne parlano tutti. Ma nessuno si è preso la briga, per esempio, di spiegare che parlare di R0 non è più così corretto, che R0 descrive la propagazione del contagio in una popolazione inconsapevole, che non adotta misure, com’eravamo noi a metà febbraio, mentre adesso dovremmo parlare di Rt, di tasso di riproduzione «effettivo», o semplicemente di R. Perché non chiarirlo? E perché non chiarire che per calcolare decentemente R servono flussi di dati costanti e «puliti», cioè corretti dal punto di vista temporale, diversi da quelli della Protezione civile? Perché non spiegare che R è associato a un’incertezza tanto più grande quanti meno sono i casi? Ma no, quelli sono misteri per iniziati. Potrai spostarti di regione quando R sarà inferiore a 0,2. Tanto deve bastarti. (E intanto, ieri in Germania, R veniva stimato di nuovo sopra soglia, a 1,1). La reticenza è stata una costante del nostro rapporto con gli organi decisionali nel corso dell’epidemia. E le mascherine sono state la foglia di fico per nascondere tutto quello che non veniva detto. Peggio: sono state il tessuto non tessuto per coprire tutto quello che non veniva fatto, o comunque non in tempo. Se consideriamo la frase sibillina che compare nel documento del Comitato Tecnico Scientifico che regola la fase 2: «ci sono però delle incertezze sul valore dell’efficacia dell’uso di mascherine per la popolazione generale dovute a una limitata evidenza scientifica, sebbene le stesse siano ampiamente consigliate»; se mettiamo questa frase in relazione alla quantità di parole spese proprio sulle mascherine, abbiamo forse la stima di quanto gran parte del dibattito sia stato divertito, se non sull’irrilevante, almeno sul non-proprio-rilevante. Le «comprovate necessità» per affrontare la riapertura erano altre, ma hanno avuto molta meno attenzione: un esercito di tracciatori in carne e ossa, in grado di ricostruire i contatti dei nuovi positivi, nonché di garantire il follow-up dei soggetti in quarantena, la possibilità di isolare i casi in luoghi separati dal nucleo famigliare e di testare tempestivamente qualunque nuovo sospetto. Se n’è parlato, certo, se ne parla ancora, ma mai come delle mascherine. Delle mascherine parliamo molto più volentieri, perché sono più facili. E loro, gli organi decisionali, lasciano che ne parliamo, perché così diventa più facile anche per loro. «No, aspetti ancora un momento, ascolti ancora solo questa preghiera: dovunque Lei vada, sia sempre consapevole di una cosa, e cioè che qui Lei è nell’ignoranza più totale, e sia prudente». È ciò che l’ostessa dice all’agrimensore K. nel Castello di Kafka, l’agrimensore K. che non capisce nulla di quel che deve fare o lo circonda, perché tutto quel che riguarda il Castello è concepito affinché lui non lo capisca. Sembra l’invito che viene fatto a tutti noi nella fase 2. Separa i tavoli, aspetta che R si abbassi, qualunque cosa sia, per il resto lascia fare a noi. Quando sarai grande capirai. Ah, e se esci, non dimenticarti la mascherina.
COVID-19: LA STRANA EPIDEMIA E LA DITTATURA SANITARIA. Diego Tomassone su nexusedizioni.it. Pubblicato il: 07/05/2020. “Prova a prendermi” è un film del 2002 interpretato da Leonardo Di Caprio con la regia di Steven Spielberg, dove il sedicenne protagonista riesce in poco tempo a truffare in tutti gli Stati Uniti d’America per milioni di dollari. Quel film è nulla in confronto a quanto stiamo vivendo oggi, perché riuscire a mettere in ginocchio una nazione come l’Italia con un virus del raffreddore (e nemmeno il primo, perché i Coronavirus sono solo i secondi virus che causano il raffreddore, dopo i Rinovirus!)), denota sicuramente grande maestria, intelligenza, organizzazione e ottimo uso della comunicazione! Sì perché non è tanto la gravità della “epidemia” o della “pandemia” (tra l’altro mai ufficialmente dichiarata dall’OMS), quanto ciò che di essa viene percepito. “La paura fa 90” ha ormai lasciato il posto a “la paura fa COVID-19”, perché da febbraio a questa parte, pare che non esista più nulla se non questa malattia, che è tutto meno che il “Capitan Trips” che vogliono farci credere: infatti, seppur si parli sempre di virus influenzale anche nel romanzo datato 1978 di Stephen King L’ombra dello scorpione, e seppur il virus pare essere ingegnerizzato, la contagiosità non è del 99% e la letalità non è del 100%, ma siamo a livelli esattamente inversi e opposti, infatti gli ammalati in Italia si attestano sullo 0,26%, con picchi, tra gli ammalati, di una mortalità che non raggiunge il 15%! Quindi è chiaro che realmente non c’è assolutamente nulla di quanto paventato, i numeri lo confermano, e non potrebbe essere altrimenti, perché se davvero fossimo stati di fronte a virus come quello dell’Ebola, che ricordo avere una letalità che tocca il 90%, ci sarebbe stato poco da fare con gli attuali mezzi a disposizione. La strategia però è proprio questa, creare panico e allarmismo su qualcosa di innocuo, fare credere che un petardo sia una bomba atomica, ed il gioco è fatto, perché toccando “trigger points” ancestrali come la paura del contagio, dei virus e di tutto ciò che ci gira intorno, diventa poi facilissimo far accettare misure drastiche come quelle che stiamo vivendo. Quale altro modo sarebbe stato altrettanto efficace per obbligare tutti a rimanere tappati in casa, addirittura spingendo le persone ad “appostarsi” su balconi e finestre, per additare come pericolosi “untori” i passanti, tacciandoli del “reato” di “contagio aggravato”? Curioso come nessuno ricordi un attimo la storia, e non si sia preso la briga, a maggior ragione avendo tanto tempo libero dato dal “io resto a casa”, di studiare un pochino le epidemie del passato, perché si sarebbe scoperto che MAI nella storia si solo isolati i sani, ma SEMPRE si isolavano i malati ed i soggetti considerati a rischio; e nel passato più remoto ricordo esistevano le “città-stato” con tanto di mura, le quali avevano una densità di popolazione molto alta.
Quindi perché il “lockdown” totale? Il tutto è partito dalla città cinese di Wuhan, dove la popolazione di 11 milioni supera quella di Bielorussia e della Svezia, dove la densità di popolazione è altissima, quindi considerare tutti potenzialmente a rischio poteva anche avere un senso, soprattutto in una fase iniziale quando il virus era ancora sconosciuto. Parlando dell’ Italia però, il lockdown totale non aveva assolutamente senso, perché oltre a non avere la stessa densità di popolazione che osserviamo in Cina, avevamo già maggiori informazioni sul virus, e sapevamo benissimo che lo stesso non è arrivato a febbraio, ma circolava già liberamente da dicembre se non da novembre 2019 (esperienza personale e confermata da tanti colleghi è proprio quella che i maggiori casi di “polmoniti strane” sono proprio avvenute tra novembre e gennaio), quindi se il virus circola e contagia da dicembre se non addirittura da novembre, e noi chiudiamo tutto a marzo, se la matematica non è un opinione, la quarantena non solo è passata ma è raddoppiata se non triplicata, e se non è successo un disastro significa primo che il virus non è “Capitan Trips”, e secondo che probabilmente si è addirittura raggiunta la immunità di gregge del 60%, con i bambini come primissimi individui immuni!
Quindi cosa facciamo? Chiudiamo la stalla quando orami i buoi sono scappati, e togliamo diritti umani fondamentali costituzionalmente garantiti per quale motivo? Impedire la libera circolazione è un atto gravissimo, perché lede le libertà personali che sono inviolabili. Non mi risulta che nelle regioni della Terra colpite dall’Ebola come da altri virus altrettanto letali, si effettuino lockdown totali ad ogni ondata, eppure le epidemie rimangono confinate e non accade nulla di catastrofico. Come nulla di catastrofico è successo in Bielorussia o in Svezia, due Stati che non hanno seguito la politica del lockdown, e ci ritroviamo a una percentuale di ammalati intorno allo 0,1%.
In casi di emergenza (vera o presunta), ci si mette a sperimentare oppure si usano strategie ben collaudate? Perché non si sono isolati i malati come si è sempre fatto, ma si è scelta la politica sanitaria di isolare tutti, esperimento epidemiologico mai eseguito prima nella storia?
Diego Tomassone su nexusedizioni.it. Pubblicato il: 08/05/2020. Il lockdown totale, a quanto risulta da una analisi storica, non è mai stato effettuato prima d’ora, e infatti “l’esperimento” non solo è miseramente fallito (come era prevedibile), ma risulta anche pesantemente dannoso viste le gravi ripercussioni economiche che ha creato (non tutti possono contare su un vitalizio mensile, e le piccole imprese già in difficoltà da prima, rischiano di chiudere). La salute prima di tutto, su questo non si discute, ma davvero è stata messa la salute al primo posto? Analizzando ancora una volta i dati e ragionando con il buonsenso, parrebbe di no. Innanzitutto il conteggio dei contagiati e dei malati è stato effettuato con l’esecuzione di un testcRT-PCR, il cosiddetto “tampone” rino-faringeo, non idoneo per effettuare diagnosi (2), ma semmai utile solo in ambito di ricerca, e per lo stesso non risultano precise indicazioni della sua sensibilità, della sua specificità, e della relativa curva ROC, fatto gravissimo perché così facendo non è possibile ricavare dati attendibili, ma anzi si può “giocare” sui dati a proprio piacimento. La salute si preserva, soprattutto se si parla di malattie infettive, con adeguate profilassi perlomeno di rinforzo del sistema immunitario, invece su questo fronte non solo non è stato consigliato assolutamente nulla, ma addirittura si sono ridicolizzate scelte come quelle di India e Cuba di usare come profilassi le medicine tradizionali, Omeopatia inclusa (io stesso ho consigliato una profilassi omeopatica e nutriterapica con grande successo!), o ridicolizzato l’uso di integrare la vitamina D, scelta che invece si è poi rivelata di successo e anzi la vitamina D è un parametro di severità e del rischio di ammalarsi. (Unica “profilassi” consigliata (e meno male!), sono stati il lavaggio delle mani e starnutire nel gomito. Sul lavaggio delle mani, così importante come norma igienica, non si può non ricordare il medico ungherese Semmelweis, non tanto per la sua intuizione geniale che permise si salvare migliaia di vite (prevenendo soprattutto la febbre puerperale), quanto per gli atti persecutori che subì, semplicemente perché consigliò di lavarsi le mani passando dalla sala settoria delle autopsie, alla sala operatoria dedicata ai parti! Siamo nel 1840, e il medico ungherese viene addirittura rinchiuso in manicomio come pazzo, e morì prematuramente a soli 47 anni grazie alle persecuzioni subite ed al rifiuto dei colleghi. La sua teoria verrà riconosciuta, assieme al suo scopritore, solo postuma, intorno al 1880. Questa piccola breve parentesi fa ben capire quanto i “dogmi” siano ben radicati in campo medico-scientifico (e non solo), e la ridicolizzazione, la diffamazione e la persecuzione, siano i mezzi da sempre usati per screditare e per demolire psicologicamente e socialmente i “dissidenti”. Ridicolizzazione anche delle cure di volta in volta presentate, non comprendendo che invece più cure potevano lo stesso funzionare su pazienti diversi, ed era impensabile credere ci potesse essere una unica cura valevole per tutti. La salute non è ulteriormente stata messa al primo posto, perché “grazie” al SARS-CoV-2, ed al relativo lockdown totale, sono state chiuse strutture importanti come i centri riabilitativi per le persone diversamente abili, e soprattutto i poveri bambini, oltre a vedersi negato il sacrosanto e costituzionalmente garantito diritto allo studio, si sono anche viste negate tutte le attività ludiche e sportive, e le varie attività riabilitative, con grande danno sia dal punto di vista della socialità, che come abilità riacquisite e obiettivi raggiunti. Stesso e sovrapponibile discorso vale anche per le persone più fragili come gli anziani, che non solo sono stati i maggiormente colpiti dalla “epidemia”, ma sono anche coloro che hanno avuto le minori attenzioni da una medicina del territorio, o delle stesse strutture per anziani, spesso assenti e inadeguate (molte persone per paura del contagio non hanno chiamato l’ambulanza del 118, e senza intervento tempestivo sono morte di infarto miocardico acuto, o di stroke!) Infatti il grosso problema emerso da questa “epidemia”, è stato proprio l’inadeguatezza di un Sistema Sanitario troppo depotenziato, di una medicina del territorio non efficiente, e di una formazione spesso incompleta del personale ospedaliero, ormai sistematicamente in sotto numero, senza linee guide univoche e precise, non in grado così di gestire gravi emergenze e troppi casi tutti insieme (come già successe per le “epidemie” di polmonite degli anni scorsi, sempre concentrate soprattutto in Lombardia). È necessario quindi non solo “denunciare” che cosa non va, non funziona ed è da cambiare o migliorare, ma rendersi conto che è necessario un vero cambiamento di “approccio epistemologico”.
Diego Tomassone su nexusedizioni.it. Pubblicato il: 10/05/2020.La “pandemia” COVID-19 ha messo in luce tutte le “magagne” della scienza odierna, con i suoi dogmi ormai obsoleti e inadeguati, senza contare il suo approccio comunicativo spesso autoreferenziale, maleducato, poco rispettoso, poco empatico, e che cerca solo consenso mediatico tramite “like” social, consenso che però, come fatto notare anche dal recente articolo di Nature datato febbraio 2020, va sempre più diminuendo, perché le persone si fidano sempre meno sia della scienza(h) che dei suoi “alfieri”. La vera “epidemia” infatti non è tanto dovuta al virus o ai microbi in genere (ricordo che il nostro organismo ospita abitualmente circa 50 mila miliardi di microbi, tra batteri, virus e funghi!), quanto ai “virologi mainstream” i quali hanno “contagiato” la popolazione con la loro ipocondria, il loro narcisismo e dipendenza dalla visibilità mediatica, e dalla loro non sempre pronta conoscenza della medicina clinica (è successo più volte che si contraddicessero da soli!), rifacendosi troppo spesso a una medicina di laboratorio, ai modelli ed alle simulazioni, toccando troppo poco con mano la situazione reale, e purtroppo quasi “sincronizzando” la popolazione su una “frequenza psicotica” pericolosa e sicuramente non curativa. Purtroppo i medici veramente competenti e che non si sono lasciati prendere dal panico ingiustificato, ma anzi hanno cercato di smorzarlo in tutti i modi, sono stati derisi, diffamati, ed è stato messo in dubbio il loro curriculum, quando non sono stati addirittura denunciati. Tutto questo è pericoloso ma fa da “cornice” all’"esperimento anti-democratico” cui stiamo assistendo, dove si arriva addirittura a vietare le passeggiate o il jogging solo per “provare” fin dove ci si può spingere nel limitare i diritti delle persone. Spesso chi ha fatto notare fin dalle prime battute che non c’era nessuna “vera epidemia”, è stato tacciato di “negazionismo”, di minimizzare la situazione, negando che ci fossero le terapie intensive intasate di pazienti COVID (come abbiamo visto già nel 2018 successe in certe zone d'Italia la stessa cosa, ma senza riflettori puntati nessuno se lo ricorda proprio perchè la situazione non ebbe grande ribalta mediatica). Niente di più errato, anzi! Coloro i quali hanno parlato così, hanno semplicemente sempre avuto il polso della situazione, intuendo cosa sarebbe di li a poco successo ed arrivato. In primis una ulteriore vaccinazione di massa estesa, e come abbiamo visto qualche governatore di regione ha già promulgato ordinanze (a quanto pare) illegittime su fantomatici obblighi per la vaccinazione antinfluenzale per le persone over 65 e per il personale sanitario, probabilmente mal consigliato o con qualche lettura in meno all’attivo, perché la letteratura medica scientifica ricorda non solo che non esistono vaccini né per la SARS-1 identificata dal dott. Carlo Urbani nel 2003, né per l’HIV scoperto dal prof. Luc Montagnier, ma ricorda pure che i primi tentativi di vaccino per il SARS-2 sono risultati fallimentari, con addirittura gravi effetti dannosi sulle cavie da laboratorio, come ricorda che il vaccino antinfluenzale aumenta del 36% il rischio di ammalarsi di COVID-19, senza contare quanto già sappiamo sul confronto tra vaccinati e non vaccinati. Curioso quindi come si possa “giocare” sulla credulità popolare, negando che il virus sia stato ingegnerizzato, quindi potenziato nelle sue caratteristiche patogeniche, quando invece tutte le prove portano a questa conclusione, e invece facendo credere che il vaccino sia di qui a poco disponibile (se così fosse perché per SARS-1 non c’è dopo 17 anni?!?), senza peraltro sapere se la malattia dà immunità permanente, ma anzi già sapendo che anche se fosse possibile ottenerlo, probabilmente non servirebbe a nulla. Per un articolo più approfondito e più tecnico sulla questione vaccino, rimando all’articolo scritto con altri amici e liberi pensatori. Epidemia ed emergenza con lockdown totale, corsa al vaccino, manca la questione più importante: il 5G! Sì perché a quanto pare il mantra “tutti a casa” non è valso per le compagnie telefoniche, che oltre a fondersi tra loro in pieno focolaio epidemico, hanno installato antenne a più non posso per il famigerato “internet delle cose”, che fra poco verrà identificato come “il risolutore” dell’epidemia. Da più parti si sente dire che il 5G sarebbe innocuo, che non causerebbe nulla e anzi sarebbe meno dannoso dei precedenti “G”. Diversi studiosi e professionisti però non la pensano così, e oltre 170 scienziati hanno firmato una petizione internazionale per fermare quella che è, in definitiva, una ennesima “sperimentazione”, spesso non autorizzata, perché ricordo che in Italia le antenne vengono installate senza la Valutazione ambientale strategica presentata e approvata, e senza i pareri degli organi competenti, quali ISS, Ministero della Salute. Ministero dello sviluppo economico o dell’ INAIL.
Come finirà quindi questa storia? Andrà veramente “tutte bene”? Sicuramente finirà non prima della primavera del 2021, con pesanti limitazioni dei diritti umani che si manterranno (mascherine e distanza di sicurezza aiutano solo a renderci più schiavi ed a consentire una identificazione tramite scanner termici e da anti-terrorismo), e con sempre maggior “iperconnessione”, dove le “cose” di questo nuovo internet, purtroppo saremo “noi”. Opportuno quindi una nuova presa di coscienza e iniziare ad aprire la mente, perché come diceva il Premio Nobel per la fisica Albert Einstein, “la mente è come un paradute, se non la si apre non funziona”, ed ora più che mai, aggiungo umilmente io, schiantarsi è un attimo!
L'autore: Il Dottor Diego Tomassone è medico chirurgo, nutrizionista clinico, specialista in Omeopatia hahnemanniana; master in malattie pediatriche complesse, master in PNEI, studente laureando in fisica e bioingegneria.
Michele Arnese per startmag.it il 7 maggio 2020. “Se gli italiani continuano così, il contagio non risale”. Questo il titolo del Fatto Quotidiano all’intervista che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha concesso al giornale diretto da Marco Travaglio. Il concetto è stato espresso ancor più chiaramente dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese: “Se continuiamo a rispettare le regole in maniera ordinata possiamo immaginare di riacquistare gradualmente nuovi spazi di movimento”, ha detto il titolare del Viminale al quotidiano La Stampa. Dunque se ci sarà la fase 3 dipende da come e quanto gli italiani rispetteranno regole e indicazioni nella fase 2 (come hanno fatto con diligenza nella fase 1). È così? Vediamo. Walter Ricciardi, massimo consulente del ministro della Salute, Roberto Speranza, due giorni fa ha detto che la fase 2 parte solo “per motivi economici e psicologici”. Come dire: noi esperti eravamo contrari. Cosa manca dunque?, ha chiesto Repubblica. Ha risposto il super consulente del governo: “Ad esempio la app non è pronta e non sono stati ancora rafforzati i dipartimenti di prevenzione. Si tratta dei due strumenti necessari per fare il tracing, cioè per individuare i malati e soprattutto i loro contatti a rischio. E poi non c’è ancora l’uso esteso e mirato dei test. È vero, si fanno più tamponi ma non in tutte le Regioni, in questa attività bisogna crescere (Ricciardi era critico con il Veneto che faceva molti tamponi, ndr). Sui Covid hospital richiesti dal ministro invece mi sembra che le Regioni siano avanti”. Non tutti, quindi, hanno fatto i compiti a casa. Infatti il Sole 24 Ore si è chiesto: l’Italia è attrezzata per tenere a bada il Covid? La risposta di Marzio Bartoloni, uno dei pochi giornalisti in Italia che segue il settore sanità da anni, è stata questa: “Sono quattro le armi messe in campo per sorvegliare il virus, ma alcune sono spuntate perché usate troppo poco o male — come i test sierologici o i tamponi a singhiozzo a seconda delle Regioni — altre invece proprio non ci sono, come la app per tracciare i positivi che si vedrà solo a fine maggio in piena Fase 2”. Entriamo nei dettagli.
Partiamo dai tamponi. Dalla Protezione civile ne sono stati distribuiti 3,637 milioni alle Regioni che ne hanno fatti però 2,1 milioni (solo l’Asl può utilizzarli): quindi ci sono 1,5 milioni di tamponi nei magazzini. Nelle ultimissime settimane molte Regioni hanno aumentato la loro potenza di fuoco, ma non è stato sempre così come ricordano le tante denunce di ritardo nelle diagnosi, con differenze macroscopiche tra regioni, ha scritto il Sole 24 Ore. (Qui l’appello di tre prof. per tamponi di massa pubblicato sul Corriere della Sera).
Passiamo ai test sierologici: “Potevano essere uno strumento prezioso per la Fase 2, ma non sarà così. Se da una parte il governo da ieri ha iniziato l’indagine epidemiologica per 150mila test con l’obiettivo di capire quanto si è diffuso il virus nel Paese, da giorni si è scatenata una corsa a questi test rapidi senza però indicazioni univoche”. (Qui l’approfondimento sul caos dei test in un approfondimento di Start).
La medicina territoriale va meglio? “Si procede a macchia di leopardo anche sul fronte delle cure a casa — ha scritto Huffington Post Italia in un approfondimento — Le “Usca”, Unità speciali istituite col decreto legge 14 del 9 marzo, dovevano essere attivate entro 10 giorni da tutte le Regioni per gestire la sorveglianza dei malati di Covid-19 in isolamento domiciliare. Tredici — Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Toscana, Veneto e Lazio — le Regioni che le hanno attivate “anche se — spiega Massimo Maggi, della segreteria nazionale della Federazione dei Medici di medicina generale — tra quelle che le hanno già messe in campo si registrano molte differenze sulle modalità di gestione e sulle loro funzioni”. In Lazio, per esempio, sono state create delle unità mobili che vanno in giro a effettuare i controlli”. Andrà tutto ok sui Covid hospital, almeno, come ha detto Ricciardi. “Anche su questo fronte il piano è ancora incompiuto”, secondo l’inchiesta di Huffington Post Italia.
Conclusione: se qualcuno dei parametri (3 composti da sottoinsiemi, in tutto 21 parametri, come ha specificato ieri sera in tv il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri) sballerà nei prossimi giorni, la colpa non potrà essere dei cittadini indisciplinati e refrattari alle regole. E il prof. Luca Ricolfi ha scritto papale papale: “Caro Conte, non sarà colpa dei cittadini se l’epidemia rialzerà la testa”.
L'intervento. Un diritto sapere cosa hanno fatto i comitati. Enzo Palumbo, Andrea Pruiti Ciarello, Rocco Mauro Todero su Il Riformista il 7 Maggio 2020. La fase 1 dell’emergenza Covid-19 è terminata e con la fase 2 dovremmo andare lentamente verso la normalizzazione della vita. Ma il rischio di un nuovo lockdown incombe sempre: se il numero dei contagi dovesse tornare a salire, “chiuderemo il rubinetto delle riaperture”, ha tuonato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel corso della sua ultima diretta televisiva. È un fatto ormai assodato che il popolo italiano ha affrontato con grande compostezza e senso di responsabilità la fase 1, ha sopportato straordinarie limitazioni ai suoi diritti costituzionali, mai verificatesi prima nella storia repubblicana. Le misure emergenziali messe in campo dal Governo hanno limitato: il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16 Cost.), di riunione (art. 17), di esercitare in pubblico il culto religioso (art. 19), di prestazione personale (art. 23), d’insegnamento (art. 33) e di studio (art. 34), d’iniziativa economica (art. 41 Cost.). Tutti questi diritti, che possono essere incisi, a seconda dei casi, solo per legge o per atto dell’Autorità Giudiziaria, sono stati invece compressi con meri atti amministrativi, per ciò stesso sottratti all’esame del Presidente della Repubblica e del Parlamento, nel dichiarato intento di tutelare un altro diritto parimenti costituzionale come quello alla salute (art. 32 Cost.), e tuttavia dimenticando che, proprio ai sensi di tale norma, nessun trattamento sanitario può essere imposto se non per legge. Superata la fase 1, ci chiediamo se sia giusto che rimangano avvolte nel mistero valutazioni dei vari comitati tecnico-scientifici che hanno indotto il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Governo ad adottare queste misure. Perché di mistero si tratta, non di segreto di Stato! Queste motivazioni, contenute in appositi verbali, non sono state vincolate col segreto di Stato, e quindi dovrebbero essere liberamente accessibili dai cittadini, in virtù del principio di trasparenza, criterio fondamentale per il corretto esercizio della funzione amministrativa, a garanzia del principio di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, contenuto nell’articolo 97 della Costituzione. Trovando inconcepibile che, in una matura democrazia occidentale come la nostra, ancorché nella fase emergenziale che stiamo ancora vivendo, possano rimanere oscure le motivazioni tecnico-scientifiche di atti governativi che tanto hanno inciso sulle nostre vite, il 16 aprile 2020, abbiamo quindi formulato, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del D. Lgs. 33-2013, una richiesta di acceso agli atti, indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per ottenere copia dei verbali dei comitati tecnico-scientifici. A questa richiesta, il Capo della Protezione Civile, dott. Angelo Borrelli, ha opposto un espresso diniego appellandosi all’art.5-bis del D. Lgs n. 33/2013, che consente di vietare l’accesso nei casi previsti dall’art. 24, comma 1, lettera c), della Legge n. 241/1990, quando cioè si tratti di “attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”. Una motivazione, questa, che non convince, e quindi ricorreremo al Tar Lazio avverso il provvedimento di diniego, e a tal fine abbiamo promosso la formazione di un comitato che sosterrà tutte le necessarie azioni giudiziarie utili a fare luce sull’operato del Presidente del Consiglio e sul Governo, trovando subito l’adesione del prof. avv. Federico Tedeschini, dell’avv. Ezechia Paolo Reale e dell’avv. Nicola Galati, coi quali formeremo il relativo collegio difensivo. Il fatto si è che quella norma è stata formulata in quei termini per il semplice motivo, evidentemente ignorato dal dott. Borrelli, che in tali casi l’Ordinamento già prevede altre forme di pubblicità ancora più pregnanti e garantiste sul fronte della trasparenza, che si sostanziano nella pubblicazione obbligatoria di quegli atti su albi pretori, bollettini e Gazzetta Ufficiale. Nella lettera del dott. Borrelli c’è poi una chicca finale, quando conclude riservando alla sua Amministrazione di “valutare l’ostensibilità, qualora ritenuto opportuno, di tali verbali al termine dello stato di emergenza”, con ciò implicitamente riconoscendo che non esiste alcuna ragione di segretezza, e per ciò stesso di stare agendo senza rispettare il principio di trasparenza, che è tale solo se si accompagna, in tempo reale, ai provvedimenti che siano stati emessi. Al di là della legittimità dei Dpcm, su cui ci riserviamo di tornare in seguito, siamo convinti che i cittadini hanno il diritto di conoscere subito, e non soltanto a emergenza conclusa, quali siano state le motivazioni che hanno giustificato le forti limitazioni di molti dei loro diritti costituzionali, così potendo valutare se la compressione subita sia stata proporzionata al rischio sanitario, sia per quanto riguarda la natura e l’ampiezza delle misure adottate, sia per quanto riguarda la loro durata; non senza considerare che la conoscenza delle motivazioni consentirebbe una maggiore consapevolezza del rischio sanitario e propizierebbe una più attenta osservanza delle restrizioni imposte, in un’ottica di crescente responsabilizzazione. E sin d’ora vogliamo esprimere tutta la nostra preoccupazione per la scelta del dott. Borrelli, ma sostanzialmente del Governo, in un Paese democratico come ancora è il nostro, di oscurare le motivazioni tecnico-scientifiche delle sue decisioni, coprendo gli atti pregressi con un velo di segretezza surrettizia, perché nemmeno dichiarata nelle forme di legge. La nostra Democrazia non consente a nessuno, nemmeno al Presidente del Consiglio dei Ministri, di sottrarsi al giudizio dell’opinione pubblica man mano che va operando nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali.
Come funzionano le task force anti Covid-19 nel resto d’Europa. Federico Giuliani su Inside Over il 3 maggio 2020. In particolari momenti di emergenza i governi si affidano al parere di esperti scientifici. Nel caso della pandemia provocata dal Covid-19, praticamente ogni Stato ha allestito apposite task force, o gabinetti di crisi ristretti e mirati, formate da epidemiologi, virologi, immunologi, ma anche sociologi e psicologi. Il loro obiettivo? Mettere le loro conoscenze tecniche al servizio della classe politica, per aiutare i rappresentanti a prendere le migliori scelte possibili in un momento delicatissimo. Misure di distanziamento sociale, lockdown, chiusura dei negozi e chi più ne ha, più ne metta: praticamente ogni provvedimento sfornato negli ultimi due mesi è nato in seguito a un confronto tra il mondo politico e quello degli esperti. In Italia, ha scritto Il Sole 24 Ore, sono 450 gli esperti che consigliano il governo sul da farsi. In tutto ci sono 15 task force a livello centrale (più una ”informale”). La prima in assoluto, creata il 22 gennaio scorso, è stata quella del ministero della Salute. A queste si aggiungono almeno altri 30 gruppi di lavoro attivi a livello locale. Tra dirigenti, politici, tecnici ed esperti, siamo intorno alle 800 persone complessive. Praticamente un esercito. Un confronto con gli altri Paesi europei. Dal team per la fase due guidato da Vittorio Colao al Comitato tecnico-scientifico, fino alla task force contro le fake news, l’Italia è uno dei Paesi europei con più gruppi di lavoro (e non sempre coordinati tra loro). In Spagna, ad esempio, per uscire dal lockdown, il governo Pedro Sanchez ha dato vita a un gruppo formato da 16 personalità, tutte essenzialmente politiche. A presiedere i lavori, lo stesso premier. Le ultime misure attuate da Madrid sono state stilate da questa task force, definita Comitato tecnico per il de-confinamento. In questa fase, infatti, la neo task force ha preso il posto al vecchio Comitato tecnico di gestione del coronavirus presieduto da Teresa Ribera. In realtà il gruppo spagnolo ha ben poco di ”tecnico”, visto che tra le sua fila trova spazio una sola figura tecnica: Fernando Simòn, responsabile del Centro spagnolo per il coordinamento delle emergenze sanitarie. Gli altri slot sono ricoperti dai 4 ministri principali (Salute, Difesa, Trasporti e Interno), dai 4 vicepresidenti, dal ministro delle Finanze, da quello del Lavoro. E ancora: il capo gabinetto di Sanchez, il segretario generale della presidenza, il segretario di Stato alla comunicazione e il capo gabinetto Julio Rodriguez. Completano il quadro il premier e l’unico esperto, il citato Simòn. La Spagna si è quindi affidata a una task force ”di coalizione” coadiuvata dal premier. Diversa la situazione nel Regno Unito, dove il governo di Boris Johnson può contare sul supporto dello Stage (Scientific Advisory Group for Emergencies). Si tratta di un pool di esperti scientifici, i cui nomi (quasi tutti) sono ancora in gran parte segreti. Pochi giorni fa il governo ha tuttavia lanciato una richiesta alle università per allargare il gruppo: mercoledì i ricercatori degli atenei britannici hanno ricevuto una richiesta di collaborazione e sono stati invitati a manifestare un eventuale interesse. Capitolo Francia: Emmanuel Macron ha puntato su competenze scientifiche e diverse figure esperte. Dall’11 marzo sono stati costituiti due comitati scientifici e si sono insediati un Controllore e un Signor Deconfinamento, due incarichi istituiti ad hoc. Il capo dell’Eliseo ha subito ribadito di voler ”ascoltare quelli che sanno”. Il primo comitato scientifico è stato creato proprio l’11 marzo: è formato da 11 specialisti, medici in infettivologia e immunologia, un sociologo e un’antropologa. Il comitato viene consultato dall’esecutivo francese per aiutarlo a chiarire alcune situazioni e a prendere i necessari provvedimenti. Il governo non è obbligato a seguire le sue raccomandazioni, anche se Macron, fin qui, lo ha sempre fatto. Il 24 marzo il presidente francese ha creato un secondo comitato di scienziati, il Comitato di analisi, ricerca ed expertise (Care): 12 medici e ricercatori che hanno come missione di consigliare il governo su test, cure e innovazioni. Insomma, volendo fare un confronto tra il funzionamento delle task force italiane e i gruppi di lavoro dei principali Paesi Europei, notiamo che ben pochi governi esteri sono costretti a fare i conti con un labirinto come quello presente in Italia.
Antonio Socci e il dubbio sul coronavirus: "Qualcosa non torna, perché non si parla delle cure che stanno diventando sempre più promettenti?" Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. "C'è qualcosa che non mi torna". Antonio Socci nutre qualche dubbio su quanto gira attorno al coronavirus. L'editorialista di Libero, in un cinguettio, si interroga: "Perché non si parla delle cure che stanno diventando sempre più promettenti (per esempio questa) e stanno davvero sconfiggendo il Covid_19 ? Perché si vuole creare un'attesa messianica attorno al vaccino? Chiedo per capire". Socci fa riferimento alla cura trovata a Pavia: il plasma. Quest'ultimo, proveniente dagli infetti, farebbe sparire il Covid-19 in 48 ore. Un risultato clamoroso che, come scrive Socci, "sfida il silenzio e gli interessi", ma che nessuno ai piani alti, fino ad ora, ha citato.
Non è l'arena, Massimo Giletti contro Roberto Burioni: "Coronavirus, come faceva a parlare di rischio zero?" Libero Quotidiano il 4 maggio 2020. Una cannonata, quella di Massimo Giletti contro Roberto Burioni. Cannonata sganciata durante l'ultima puntata di Non è l'arena, in onda su La7 domenica 3 maggio. Il conduttore, infatti, a poche ore dal via alla Fase 2, ha rievocato alcune parole del virologo, una previsione sbagliata, ovvero quando a Che tempo che fa lo scorso 2 febbraio disse che il coronavirus in Italia non circolava. "Il rischio in Italia è pari a zero", disse Burioni, anche se erano già noti i due turisti positivi a Roma. Quando Fazio inoltre gli fece notare che in Lombardia già molte persone indossavano la mascherina, Burioni replicava: "Sarà per l'inquinamento". Dunque, l'affondo di Giletti di poche ore fa: "Io sono rimasto stupito quando lo ascoltai perché già sapevamo dei due cinesi ammalati. Come poteva non circolare il virus? Come fa a dire che non c'è rischio?". Un duro attacco che ha diviso i social. Ora, si attendono eventuali repliche firmate Burioni.
Dopo il Tocilizumab via libera al Cotugno alle terapie col plasma. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. “A seguito della riunione del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli e dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, presieduto dal professore Liberato Berrino, è stato dato il via libera alla sperimentazione, presso l’Ospedale Cotugno, per il trattamento delle polmoniti da Covid 19 con il plasma iperimmune”. A darne notizia Maurizio di Mauro, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera dei Colli (Monaldi – Cotugno – CTO) di Napoli. “Grazie a questo importante atto approvato oggi dal Comitato etico, che ringrazio per la solerzia e la celerità con la quale ha operato – aggiunge di Mauro – siamo pronti a partire anche noi con questo nuovo trattamento sperimentale”. La sperimentazione, guidata da Roberto Parrella, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie infettive ad indirizzo respiratorio dell’ospedale Cotugno, si avvarrà anche della collaborazione del centro trasfusionale dell’Ospedale Monaldi, diretto da Bruno Zuccarelli. La prima fase coinvolgerà tutte le Unità operative complesse del dipartimento di Malattie infettive del Cotugno, guidato da Rodolfo Punzi, e consisterà nel reclutamento dei donatori, ossia di soggetti guariti che presentino un’elevata carica anticorpale disposti a donare il plasma che, una volta trattato, sarà poi utilizzato per il trattamento dei pazienti. “Era per noi estremamente importante intraprendere anche questa strada per offrire agli ammalati colpiti da questo virus tutti i piani terapeutici possibili e per avere un’altra arma importante, che già altrove sembra dare risultati molto confortanti, in questa battaglia che stiamo combattendo quotidianamente ormai da diversi mesi”, conclude di Mauro.
"Ho 400 vaccini umani ma non possono donare il plasma per colpa della Regione Lombardia". Lo dice il sindaco di Robbio, primo comune lombardo a eseguire i test non autorizzati dall'amministrazione. Manuela D'Alessandro si Agi il 5 maggio 2020. Mentre la regione Lombardia apre ai test sierologici nei laboratori privati, Roberto Francese, sindaco di Robbio, piccolo comune in provincia di Pavia e primo nella regione a effettuare questo tipo di esami ai suoi residenti, fa sapere di avere “400 vaccini umani” pronti a salvare vite attraverso la donazione del loro plasma ma che non possono farlo a causa della burocrazia. Le sue parole sono sassi. “Vogliono uccidere 400 persone perché il protocollo prevede che vadano bene solo i test fatti dalla Diasorin, unica accreditata dalla Regione. Dai nostri test non validati ma con marchio CE, alcuni già autorizzati dall'Emilia Romagna - spiega all’AGI il primo cittadino - risultano 400 cittadini con valori altissimi di anticorpi IgG, cioé quelli che indicano un’infezione che si è verificata molto tempo prima. Hanno tutti espresso la volontà di donare il loro plasma al Policlinico San Matteo di Pavia, dove questa cura sta ottenendo eccellenti risultati, ma non possono. Ho scritto all’assessore Gallera chiedendogli perché non approfittiamo di questa opportunità di salvare delle vite. Se poi gli anticorpi diminuiranno di chi sarà la colpa dei morti?. Possiamo salvare delle vite insieme ma bisogna partire subito per rispettare i protocolli”. Francese aggiunge di avere “chiamato personalmente” la Diasorin, la società che produce i test accreditati dalla Regione “ma dicono che non me li vendono, sebbene mi sia offerto di pagarli di tasca mia per avere la conferma dei nostri test. La ragione non la conosco. Vogliono uccidere vite umane per un principio”. “Ora - considera Francese - la Regione dice che farà eseguire i test ai privati, mi fa piacere. Sono stati persi due mesi per fare esattamente quello che noi abbiamo fatto due mesi fa, spero che almeno chieda scusa”.
Nei giorni scorsi, Ats, l’azienda territoriale sanitaria, ha scritto ai sindaci lombardi ribelli, che hanno eseguito di loro iniziativa i test, ribadendo che i loro esami “non risultano al momento validati dalle autorità competenti in materia” e “non sono coerenti con le indicazioni regionali”. Tuttavia, si legge nel documento, “a scopo precauzionale si raccomanda ai sindaci, ai medici competenti e alle aziende che vengano a conoscenza di un esito positivo a uno di tali test di porre in isolamento fiduciario la persona e i relativi contatti".
Tarro: “Il vaccino c’è già, è il plasma dei guariti”. Gioia Locati il 5 maggio su Il Giornale. “Non ci troviamo di fronte a una terapia sperimentale da dover studiare o da concedere in "via compassionevole". È una pratica conosciuta da secoli, utilizzata anche da Pasteur nell’Ottocento: si sono sempre prelevate le gammaglobuline dai guariti per curare i malati”. Così Giulio Tarro, professore e virologo, allievo di Sabin (ha ricevuto nel 2018 il premio americano di miglior virologo dell’anno) noto per aver isolato il vibrione del colera negli anni Settanta oltre che approfondito e curato la polmonite sinciziale nei neonati, interviene sulle infusioni salva vita praticate con successo in alcuni ospedali, a Mantova, Pavia, Lodi e Cremona. Il plasma dei convalescenti è stato usato in passato per trattare i malati di Sars, Mers ed Ebola. Nei mesi scorsi in Cina sui malati di Covid 19 e, recentemente, a Mantova, ha favorito la guarigione in una donna incinta di 28 anni.
Niente di nuovo, dunque?
“Assolutamente. Pratica antica, rodata ed efficace, meno complessa di una trasfusione perché non occorre cercare il gruppo sanguigno affine. Si inietta solo la parte liquida che contiene gli anticorpi e non i globuli rossi”.
Lei ha detto che il virus sparirà con il caldo.
“Ne sono ancora convinto. I virus respiratori e influenzali d’estate si stemperano. A certe latitudini, penso all’Africa, si sono presentati solo piccoli focolai. Verosimilmente potrebbe accadere o che sparisca come la Sars o che ricompaia come la Mers ma in maniera localizzata o, cosa più probabile, che diventi un virus stagionale”.
Se l’aria aperta, il vento e il sole non favoriscono i contagi perché dobbiamo girare con le mascherine?
“Le mascherine andrebbero indossate quando si hanno incontri ravvicinati o ci si ritrova in un luogo frequentato. Non quando si cammina (o si corre) da soli”.
Qualcuno afferma che il virus Sars-Cov-2 non sia stato isolato (come da procedura protocollata) ma solo sequenziato in alcune parti.
“Mi risulta che in Australia lo abbiano coltivato su colture cellulari e poi, come da protocollo, fotografato al microscopio elettronico”.
Come mai di altri coronavirus e di virus a RNA non si riesce a trovare il vaccino? Non si è trovato per la Sars, né per la Mers. E neppure per l’Aids e l’epatite C.
“Come scrisse Sabin nel 1993, editoriale su Nature del 17 marzo, il virus HIV dell’Aids si nasconde all’interno delle cellule e, sfuggendo agli anticorpi, non si trova. Quello dell’epatite C ha diversi ceppi…”
Anche l’influenza ha tanti ceppi.
“Esatto. Solo l’influenza A ha diversi sottotipi, la Spagnola, l’N1H1, l’Aviaria, la Hong Kong, sono tutte di tipo A…Poi ci sono le influenze B e quelle di tipo C. È importante ricordare che quando la popolazione raggiunge una quota di immunità naturale questi virus smettono di circolare. L’Asiatica del 1957 colpì i giovani e non gli anziani, i quali erano già protetti dallo stesso virus che imperversò nel 1890”.
Tornando a Sars e Mers, come mai di questi coronavirus non si è trovato un vaccino in 18 anni e ora si dice che per il Sars-Cov-2 ce ne siano almeno un paio quasi pronti oltre a diverse decine allo studio?
“Un vaccino non si fabbrica in pochi mesi. Vi sono delle tappe necessarie da percorrere altrimenti si rischia di spendere energie e denaro per un prodotto inutile. Recita il proverbio che la gattina frettolosa fa i gattini ciechi. Sono fondamentali le prove di sicurezza e quelle di efficacia, su campioni ampi e rappresentativi. E poi, come ho detto, abbiamo già un vaccino che è anche curativo, le infusioni di plasma da convalescenti. Si incentivino le donazioni e si promuova questa pratica in tutti gli ospedali”.
Luc Montagnier ha dichiarato che nel virus Sars-Cov-2 vi è una sequenza del virus dell’Aids. Secondo il premio Nobel siamo di fronte a un esperimento di laboratorio ma ci dice anche che con il tempo la presenza del tratto artificiale è destinato a scomparire…
“Parecchi ricercatori hanno cercato questa sequenza senza trovarla. Montagnier ha specificato di averla individuata attraverso un’ipotesi matematica; si tratta di uno studio a tavolino non di una ricerca in laboratorio”.
Cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Trump? Il presidente è convinto che il virus sia uscito dal laboratorio cinese di Whuan. Il problema degli esperimenti sui virus pandemici e di una possibile fuga è reale, e segnalato da tempo con preoccupazione da parte del mondo scientifico. Cliccate qui.
“D’altro canto vi sono numerosi studi che attestano la provenienza del Sars-Cov 2 dal pipistrello. Al momento per noi questo è un non problema. Dobbiamo affrontare le conseguenze del virus e gestirle. E, ripeto, perché ancora l’Italia lo ignora: vi è una terapia soddisfacente e a portata di mano, il sangue dei guariti”.
È stato detto che il Covid 19 si può manifestare anche nei bambini con la sindrome di Kawasaki.
“Non si sa ancora nulla di questa malattia, rara, che si presenta come una forma autoimmune ed era presente anche prima del Covid 19. Spero che si faccia chiarezza”.
Cosa pensa della malattia Covid 19? In alcune persone si è manifestata con sorprendente virulenza.
“Sì. Ormai sappiamo che le persone anziane e chi è affetto da co-morbilità rischia di avere gravi complicazioni a livello polmonare e circolatorio. I medici che purtroppo hanno perso la vita a contatto con i malati erano sprovvisti di protezioni, alcuni di loro avevano patologie pregresse. La mortalità da Covid 19 è assai bassa e la diffusione del virus nella popolazione è ben più ampia di quella che appare dai tamponi eseguiti”.
Le messe sono ancora vietate. Se la decisione di proibirle non è stata presa da Conte, arriva dal comitato scientifico?
“Non esiste alcuno studio sulla pericolosità delle celebrazioni rispetto ai ritrovi concessi sui posti di lavoro o sui mezzi pubblici. È stato un provvedimento stupido, creato dal nulla e senza alcuna motivazione. Perché nelle Chiese non dovrebbe essere rispettato il metro di distanza?
Cosa pensa della raccomandazione di sanificare gli ambienti con diversi disinfettanti? Nel periodo gennaio-marzo i centri anti veleni hanno ricevuto più di 45.000 chiamate a seguito delle esposizioni a sostanze disinfettanti. Un aumento del 20% rispetto alla media.
“Le sanificazioni vanno studiate e circostanziate. Il virus è trasmesso per via aerea, ci si contagia attraverso contatti ravvicinati a differenza dei virus influenzali che si trasmettono anche con una distanza di diversi metri. Non è necessario impiegare sostanze tossiche, per sanificare un ambiente si possono utilizzare i raggi ultravioletti, già usati nei laboratori”.
Coronavirus, i dubbi di Mario Giordano sull'Agenzia del farmaco europea: "Chi la finanzia", conflitto di interessi? Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. L'emergenza coronavirus dà parecchio da pensare a Mario Giordano. Il conduttore di Fuori dal Coro, nel suo nuovo libro, mette in luce il dietro le quinte dell'epidemia: "C’è da fidarsi dell’OMS? - si interroga su Twitter in merito al vero ruolo dell'Organizzazione mondiale della sanità - E c’è da fidarsi dell’agenzia europea del farmaco che viene finanziata per l’84 per cento dalle aziende farmaceutiche che dovrebbe controllare?". Proprio così, Giordano, visto il notevole aumento dei prezzi dei farmaci, non esclude che qualcuno stia speculando sulla nostra salute. "Gli ultimi rapporti - si legge nella descrizione della sua nuova opera - ci dicono che la spesa medica si trasferisce sempre più sulle spalle delle famiglie. Il Servizio Sanitario Nazionale è alle corde ma nessuno ne parla. Ecco l'elenco, nome per nome, di chi ci sta rubando la vita per riempirsi le tasche: aziende farmaceutiche, assicurazioni, imprenditori senza scrupoli e altri affaristi".
Il Metodo Alessandria. Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Quando è passata dall' altra parte, da medico a malato, Paola Varese non si è persa d' animo. Con i suoi colleghi della Asl di Alessandria, la provincia più colpita del Piemonte, ha varato un progetto chiaro fin dal nome, «Covi a casa». Come prendere in cura a domicilio le persone con sintomi da coronavirus grazie a un protocollo che si basa soprattutto sulla somministrazione di idrossiclorochina, ovvero il Plaquenil, un farmaco prescritto soprattutto per combattere l' artrite reumatoide. Lei, primario di oncologia a Ovada, aveva scoperto di essere positiva al virus lo scorso 5 marzo. «Avevo un quadro respiratorio importante, stavo male. Ma ho deciso di non ricoverarmi e di iniziare subito la terapia su me stessa». Le cose sono andate meglio, con l' attenuazione della febbre. «Covi a casa» è partito il 18 marzo, e finora può contare 156 pazienti in assistenza domiciliare, dei quali solo tre hanno poi avuto bisogno del ricovero. «Con la sua funzione antinfiammatoria e antivirale, il Plaquenil può bloccare il virus agli inizi, aiutandoci a tenere la gente lontano dagli ospedali». Ci credono in tanti, alle virtù terapeutiche del Plaquenil, che lo scorso 17 marzo ha ricevuto il via libera dell' Aifa, l' Agenzia italiana del farmaco, per l' utilizzo in modalità off label , con condizioni diverse da quelle per cui è stato autorizzato. Qualcuno si era già portato avanti. La primogenitura se la contendono il direttore del reparto di ematologia dell' ospedale di Piacenza Luigi Cavanna, che dalla fine di febbraio a oggi ha curato così 218 pazienti, con la riduzione del 30 per cento dei ricoveri nei giorni di picco dell' epidemia, e il suo collega Pietro Garavelli, che dopo essere diventato nel 1998 il più giovane primario italiano con i suoi 38 anni di allora, non si è mai più mosso dall' infettivologia dell' Ospedale maggiore di Novara. «Non inventiamo nulla» sostiene Garavelli. «Quando abbiamo avuto i primi casi di positività, tutte persone che erano state a contatto con Codogno, una mia collaboratrice che aveva lavorato con i ricercatori italiani che tra il 2002 e il 2003 avevano usato l' idrossiclorochina contro la Sars, ha avuto l' idea. E ha funzionato. Prima in ospedale, poi fuori». Garavelli è diventato un portabandiera del Plaquenil. «Un farmaco prezioso, perché impedisce la replicazione del virus e il suo attacco alle vie respiratorie, infatti è usato anche come anti-malarico, e poi risponde bene all' infiammazione che ne deriva». Il Piemonte orientale è la capitale non dichiarata di questo trattamento, con sconfinamenti anche nella provincia di Varese. A oggi, sono cinque le Asl e quattro gli ospedali che hanno adottato protocolli basati sul Plaquenil, dalle Marche alla Puglia, per un totale di quasi duemila pazienti, un dato che pone l' Italia appena dietro la Francia, capofila del Plaquenil per via dell' auto nominato inventore della cura, Didier Raoult che afferma di aver finora curato nel suo ospedale 3.200 persone positive al Covid-19. Proprio la visita del presidente francese Emmanuel Macron al professore di Marsiglia, avvenuta lo scorso 9 aprile, ha dato una accelerazione alle sperimentazioni in corso ovunque per verificare l' efficacia del Plaquenil. Al momento se ne contano 86, una cifra enorme. I primi tre a essere stati pubblicati all' inizio di maggio sul Journal of American Medical Association , sono stati seguiti da un gruppo di medici di Lione, San Paolo e Boston, pongono seri dubbi sull' efficacia del Plaquenil contro il coronavirus, almeno quando è in fase conclamata, e sottolineano il rischio di «aritmie ventricolari ed eventi cardiovascolari» nelle persone ospedalizzate o in terapia intensiva. I trials fin qui pubblicati non hanno trovato differenze tra i pazienti curati con il placebo e quelli trattati esclusivamente con idrossiclorochina. «Non è stato possibile riscontrare un differenziale terapeutico apprezzabile» conclude ad esempio la sperimentazione americana. Gli studi pubblicati non consentono di valutare l' efficacia del Plaquenil all' inizio della positività. Bassa numerosità dei test, dimensioni del campione di pazienti non adeguato per una casistica ufficiale. A farla breve, la comunità scientifica internazionale non è ancora in grado di dire se la febbre e i sintomi peggiori passano grazie al contributo esclusivo dell' idrossiclorochina, o con l' aiuto di madre natura. L' unica cosa certa è la nocività per i pazienti con patologie cardiache. I medici italiani sostenitori del suo utilizzo hanno in qualche modo preso atto delle controindicazioni, spostando all' indietro tempi e modi di somministrazione. E anche l' orizzonte. Non è più una terapia vera e propria, ma una profilassi, una procedura medica di prevenzione. Garavelli riconosce che il fattore tempo è prezioso. «Prima si inizia la cura, meglio è. Gli effetti collaterali ci sono, certo, ma il farmaco va dato sotto stretto controllo medico». All' Istituto Scientifico Romagnolo per la cura e lo studio dei tumori di Meldola è stato avviato il primo studio europeo (coordinato dagli infettivologi Giovanni Martinelli e Pierluigi Viale) su 2.500 pazienti non colpiti dal virus, ma in contatto passato o presente con persone positive al Covid-19. «L' obiettivo è capire se l' idrossiclorochina può essere una copertura per evitare l' insorgere della patologia oppure per ridurne subito gli effetti» dice Mattia Altini, direttore sanitario dell' Irst. Una ipotesi di partenza diversa da quella degli studi eseguiti finora a livello mondiale. «Infatti le nostre dosi sono quelle classiche da profilassi prima di una vacanza in Kenya». Anche Paola Varese fissa i paletti del suo Covi a casa. «I risultati si hanno nei primi tre giorni dall' inizio del virus o dei suoi sintomi. Se usata tardi, l' idrossiclorochina non può essere efficace». La dottoressa di Ovada è ancora convalescente dopo due mesi di malattia. Mercoledì scorso ha avuto finalmente il primo tampone negativo. Ma il secondo si fa attendere. In provincia di Alessandria hanno finito i reagenti.
Il Metodo Piacenza. Coronavirus, il metodo che evita la strage: "Nessun paziente è morto". Piacenza inondata di contagi. I primi morti. Poi l'idea del dottor Luigi Cavanna: la cura casa per casa. "Così i pazienti guariscono". Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale. "Ricordo un tardo pomeriggio al pronto soccorso. Parlavo con i miei colleghi. Avevamo le maschere, i caschi, il sibilo dell'ossigeno che arrivava all'orecchio. Sembrava di vedere una cortina di fumo. Faceva paura". Piacenza, febbraio 2020. Se chiudiamo gli occhi e torniamo a quei giorni, i ricordi possono farsi confusi. È tutto così frenetico: i primi contagi, l'allarme coronavirus, la chiusura, le riaperture, gli ospedali pieni, le bare. La morte. Nel marasma della provincia emiliana al confine con la Lombardia, la più colpita in Italia in proporzione agli abitanti, gli operatori sanitari combattono una battaglia ad armi impari. I reparti vengono trasformati in zone Covid, le sale operatorie in terapie intensive. I nosocomi nelle aree periferiche devono essere riconvertiti. I ricoveri si contano a centinaia. Mentre le vittime cadono una dietro l'altra, un medico piacentino ha un’illuminazione: perché continuiamo ad ammassare i pazienti in ospedale, perché li facciamo arrivare in pronto soccorso quando ormai gli manca l’aria, invece di aggredire prima la malattia? Luigi Cavanna, primario di Oncologia, oggi è conosciuto come il padre del "metodo Piacenza". Voce pacata, eloquio ordinato. Riesce a rendere chiaro anche quello che a molti appare oscuro. "All’inizio si pensava fosse una infezione virale, forse più brutta dell’influenza, ma nulla di così rilevante. Poi ci siamo resi conto che invece è una malattia drammaticamente seria". In poche parole il suo rivoluzionario approccio al coronavirus può essere riassunto così: "Il paziente deve essere trattato tempestivamente e questo vuol dire che va curato a casa". Semplice, eppure piuttosto complesso. Soprattutto se devi inventarlo quando, nei primi istanti dell’epidemia, la scienza medica si sta dirigendo in massa nella direzione opposta. "Se torniamo indietro nel tempo, ricorderete che tutte le televisioni, nazionali o locali, facevano questa raccomandazione agli italiani: state a casa e non andate al Pronto soccorso. Il problema è che diverse persone hanno seguito il consiglio assumendo solo tachipirina e alla fine non riuscivano più a respirare, chiamavano il 118 e arrivavano di corsa in ospedale". A quel punto i medici si trovavano di fronte ad un malato ormai quasi irrecuperabile. "Il virus - spiega Cavanna - all'inizio si moltiplica, poi innesca una risposta immunitaria dell'organismo che determina una infiammazione che distrugge gli alveoli dei polmoni". In poco tempo gli organi si lacerano per sempre. "Quando il danno è fatto, è difficilmente recuperabile. È per questo che poi tante persone non ce l’hanno fatta". Di necrologi le pagine dei quotidiani piacentine sono piene. Soprattutto nelle prime due settimane. "Lavoro in oncologia ed ematologia, reparti abituati a confrontarsi con la sofferenza e la morte - racconta Cavanna - Ma in quei giorni ho avuto l'impressione ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima. Faceva paura, talmente tanti erano i malati in quei lettini di fortuna. Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri pazienti, io mi guardavo intorno, incrociavo gli occhi dei colleghi. Avevamo la percezione di non farcela". È in quello stato di impotenza che sboccia l'idea di cambiare approccio. "Nelle riunioni cercavamo sempre di aumentare i posti nelle emergenze e nelle rianimazioni, ma poi abbiamo capito che questa è una infezione virale che ti lascia del tempo per intervenire. Non è un ictus, un infarto o un arresto cardiaco che colpiscono in pochi minuti o in pochi secondi: ti lascia una settimana o anche 10-15 giorni". C’è quindi spazio per agire prima che il quadro clinico si aggravi. Il ragionamento è logico: se il paziente in ospedale viene sottoposto a un trattamento basato su un antivirale e sull'idrossiclorochina (un antimalarico), tutti farmaci che si assumono per via orale, cosa ci impedisce di iniziare la cura all'insorgere di primi sintomi? "Ci siamo detti: cerchiamo di andare nelle case, non solo per la semplice visita ai malati, ma con tutto l’occorrente per curare la malattia tempestivamente". Così il 1° marzo Cavanna e un infermiere iniziano il loro tour a domicilio. Sono spedizioni diverse da quelle realizzate da altre Unità speciali (Usca) in Italia. Non vanno solo a visitare il paziente a casa o a fare il tampone, sono lì per curarlo come se fossero in ospedale. Con loro portano i Dpi, un termometro, i palmari per realizzare l’ecografia sul posto, un saturimetro, il tampone e un kit di farmaci già pronti all'uso. Compresa l’idrossiclorochina, già usata contro Sars e malaria. "Se l'ecografia toracica è dubbia e mostra polmoniti interstiziali - racconta l'oncologo - dopo aver chiesto il consenso del paziente, consegniamo i farmaci e gli diciamo: 'Lei inizi la terapia, anche in attesa del risultato del tampone'. Alle persone che presentano polmoniti severe lasciamo anche l'ossigeno. Poi ogni giorno i pazienti ci comunicano i dati della propria saturazione, in modo da poterli monitorare dall'ospedale". I primi esperimenti Cavanna li porta avanti (quasi) da solo. Poi dal 15 marzo l'Ausl piacentina si organizza e mette in pieni alcune Usca dedicate allo scopo. "La prima fu una paziente oncologica, una signora che vive da sola", ricorda Cavanna. "Era entrata al pronto soccorso con la febbre, la tac aveva evidenziato una polmonite interstiziale, ma lei aveva atteso lì per dieci ore. Poi aveva firmato la cartella, chiamato un taxi e si era fatta portare indietro. Il giorno dopo mi ha chiamato dicendomi: 'Io sono a qui, da sola, sto male. O mi venite a visitare a casa o io muoio'. Lei cosa avrebbe fatto?". Domanda retorica. "Il dramma di questa infezione è che ha abituato gli italiani a morire da soli. Veder arrivare due sanitari a portare dei farmaci, che lasciano un numero di telefono da chiamare, un saturimetro e ti spiegano cosa fare, per loro era già una mezza salvezza. A me questo ha messo in crisi, perché i malati in un Paese evoluto non dovrebbero mai avere la percezione di sentirsi abbandonati". In Italia, purtroppo, è andata così. La cura "precoce" e "a domicilio" si rivela da subito molto efficace. "Le persone non peggiorano, guariscono prima e soprattutto non muoiono". Presto i risultati degli studi sul "metodo Piacenza" saranno pubblicati su una rivista per dare informazioni alla comunità scientifica. Ma le analisi che a fine aprile Cavanna anticipa al Giornale.it sono straordinarie: "Su 250 pazienti curati a domicilio, le posso dire che nessuno di loro è morto. Né a casa né in ospedale. Di questi, è stato ricoverato meno del 5% e tutti sono tornati a casa, di cui la metà entro pochi giorni". Si tratta di dati "veri", "rilevanti" e "rincuoranti", su cui occorrerà fare delle riflessioni. "Per tanto tempo si è discusso di aumentare i posti in terapia intensiva, una strategia criticabile - dice Cavanna - Ma quando un malato va in rianimazione lo dobbiamo vedere come il fallimento della cura. Dovrebbe essere l'ultima spiaggia: la malattia virale va aggredita precocemente". Solo così si può sconfiggere il Sars-Cov-2, "ridurre gli accessi al pronto soccorso" e "bloccare la storia naturale" del morbo. Evitando un fiume di vittime.
Vittorio Sgarbi, bordata ai 5 Stelle sul vaccino: «Ora sono favorevoli, ricordo che il signor Grillo chiamava Veronesi: "cancronesi"». Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. Per Vittorio Sgarbi, alla guida del Paese c'è un gruppo di falsari. “Ricordo che il signor Grillo chiamava Veronesi ‘cancronesi’ per offenderlo. E oggi - ai tempi del coronavirus - abbiamo un gruppo di maggioranza che è totalmente favorevole all’attesa del vaccino, quando sono stati preminentemente no-vax". Ma il critico d'arte a Radio Radio non le manda di certo a dire, soprattutto al Movimento 5 Stelle. "La mia posizione rispetto ai 5 Stelle non è cambiata, è quella di una totale mancanza di considerazione. Non poggiano su niente. Sono la dimostrazione della illegittimità della democrazia rispetto al voto popolare. Nessuno dei grillini è stato eletto direttamente, sono tutti voti andati a Grillo che non era candidato. Come non è stato eletto Conte". Insomma, la considerazione di Sgarbi non può che essere negativa. Sono contro il Mes, oggi sono contro il vaccino… possono cambiare da un momento all’altro. Non hanno principi che li ispirino su cui puoi contare, non conti su nulla. Conti sul capriccio che prende pur di rimanere al Governo il gruppo dirigente”.
«Numeri sbagliati hanno creato terrore»: Sgarbi dice ciò che ormai è chiaro. Pietro Di Martino 28 Aprile 2020 su Oltre.tv. Nel suo ultimo video il critico d’arte Vittorio Sgarbi, parla di “numeri sbagliati che hanno creato terrore”. “Una quantità di studiosi, persone illustri che si occupano di Costituzione, hanno osservato delle contraddizioni rispetto al fatto che non siamo in guerra. È un’emergenza, che non può avere mesi e mesi di sospensione di alcuni diritti fondamentali, come quello di camminare per strada o andare in un bosco“. Cose che Sgarbi sostiene di aver detto più volte. “Abbiamo accettato questi ordini in modo irrazionale come così giusti e così importanti per la salvaguardia della salute per cui fare una passeggiata, camminare nel bosco o in spiaggia, non era possibile”. Poi elenca quelle che considera una serie di contraddizioni del Governo tra cui la data di riapertura per parrucchieri e barbieri, “lanciati verso il primo giugno”. “I numeri sbagliati hanno creato terrore”. Una data evidentemente sbagliata, perché capita di lunedì e il giorno dopo è festivo. Quella giusta infatti è il tre giugno: “Confusione mentale, non sono neanche capaci di guardare il calendario. E poi perché aprire il 3 giungo e non il 20 maggio? Che senso ha?” Per Sgarbi “sono numeri dati a caso” e a proposito del presidente Conte dice che “per paura di sbagliare, ascolta quello che gli dice il Comitato Tecnico Scientifico o l’ISS, i quali non hanno assoluta certezza ma, nell’incertezza, dicono meglio essere prudenti”. La conseguenza – secondo Vittorio – sarebbe quella di dare al potere “una prudenza che si manifesta in ordini. Quella che è una preoccupazione diventa una limitazione, un’azione poliziesca per impedire di vivere”. Il critico invita alla riapertura con prudenza ma con coraggio: “Alla fine anche i più pessimisti non ci hanno detto che il coronavirus è mortale ma che non sanno bene come curarlo”. Conclude: “Quando si attacca a una persona avanti negli anni come me, può peggiorare una malattia preesistente. Il 60% sono persone che hanno più di una patologia grave e poi muoiono ma non di coronavirus, non abbiamo questa certezza. I numeri sbagliati hanno creato terrore, un terrore che continua e il primo terrorizzato è Conte”.
Sgarbi: «Conte ha una task force di “capre” che gli scrive le regole. E noi non siamo dei polli». Liliana Giobbi su secoloditalia.it martedì 28 aprile 2020. Vittorio Sgarbi di nuovo all’attacco di Conte, della sua accozzaglia politica e della farsa chiamata fase 2. «Nella gente», dice, «finalmente prende corpo una reazione razionale sopra l’insensatezza di molte di misure. Perché è evidente che tante si possono ridurre a “raccomandazioni”. Abbiamo preparato una lettera al presidente della Repubblica Mattarella che porterà la firma mia e di altri personaggi come Giorgio Agamben. Fi rifà a quello che ha detto Vargas Llosa e cioè che c’è qualcosa che non funziona!». Il critico d’arte va giù duro. «Il metodo adottato da Conte non cambia perché si basa su una sorta di pressione psicologica data dalla task force di “capre” del Comitato Tecnico Scientifico che decide 0per il Governo. La posizione labile sia dei medici che degli scienziati viene trasmessa al Governo che, non sapendo che fare, preferisce tenere tutti a casa. Manca una testa che metta su alcuni punti fondamentali per far ripartire il Paese». «La popolazione all’inizio ovviamente ha dato il suo consenso perché era una questione di salvezza nazionale. Oggi usa di più la mente», prosegue Sgarbi. «Siamo all’inizio di una caduta del Governo, almeno nei consensi. Credo che se si mettono insieme le misure (per la ‘Fase 2’, ndr) per molti discutibili e il problema dell’economia non risolto, il consenso per il Governo inizierà a vacillare. Quando si renderanno conto che il consenso sta vacillando forse cambieranno atteggiamento.
Coronavirus: Sgarbi, "i morti non sono 25mila, si vuole terrore e dittatura consenso". (Adnkronos - affaritaliani.it 24 aprile 2020) - "Almeno qui diciamo la verità contro l'ipocrisia e le menzogne, contro i falsi numeri che vengono dati per terrorizzare gli italiani. I venticinquemila morti sono morti di infarto, di cancro, non usiamoli per umiliare l'Italia, per dare ai cittadini false notizie. Sono morte in Italia venticinquemila persone di Coronavirus: non è vero, è un modo per terrorizzare gli italiani e imporre una dittatura del consenso. I dati dell'Istituto superiore di sanità dicono che il 96,3 per cento sono morti per altre patologie". Lo ha affermato Vittorio Sgarbi, intervenendo alla Camera prima del voto finale sul decreto legge "Cura Italia".
Basta stato di polizia e paternalismo di Governo. La ribellione è un imperativo. Cristiano Puglisi il 28 aprile 2020 su Il Giornale. Bisogna chiarire subito una cosa: chi qui scrive non ha mai avuto una grande passione per l’ex sindaco di Firenze ed ex premier Matteo Renzi. Però, in questa assurda fase della politica nazionale, gli va riconosciuto il merito di dire le cose più sensate, in seno alla maggioranza. Come la seguente frase: “Non decide lo Stato chi possiamo incontrare”, a commento del pasticciaccio dei “congiunti”, che l’ultimo DPCM varato dall’inquilino di Palazzo Chigi, Giuseppe Conte, ha indicato come le uniche persone che, dal 4 maggio, sarà possibile visitare. Con autocertificazione al seguito, naturalmente. Così, la Fase 2 dell’emergenza Coronavirus, in Italia, finisce per assomigliare tremendamente alla Fase 1. Rimane cioè il desolante scenario di un’intera nazione trasformata in un carcere orwelliano, dove il Governo si permette di decidere chi si può incontrare e, quel che è peggio, chi può lavorare per sfamare i propri figli e le proprie famiglie. Cioè non commercianti, ristoratori, parrucchieri, titolari di centri estetici. Che, per decisione del comitato scientifico che tiene in ostaggio l’esecutivo Conte, potranno tornare a guadagnare solo dal 1 giugno. E quando anche apriranno dovranno comunque fare i conti con la campagna di terrore che il comitato “di salute pubblica” ha scatenato contro di loro e contro le loro attività in questi mesi. Nel frattempo dovranno accontentarsi di una mancia pidocchiosa, quel famoso bonus da poche centinaia di euro che, con il secondo decreto di aprile (anzi no, maggio.. anzi no… boh) potrebbe essere “generosamente” concesso una seconda volta. Nel frattempo, di fronte allo strapotere di virologi e infettivologi di Governo, scompare il ruolo del comitato per le riaperture presieduto dall’ex manager Vodafone Vittorio Colao. Non pervenuto.
IL COMITATO “DI SALUTE PUBBLICA” GIOCA CON LA VITA DEGLI ITALIANI. Nel mentre gli onesti lavoratori italiani continuano a morire di fame, i bambini continuano a essere segregati in casa (loro non possono guidare per andare a trovare “congiunti”), le madri continuano a essere incatenate come schiave alla cura dei figli nella cella domestica. Il tutto condito dall’insopportabile paternalismo di un premier, di ministri ed esperti che seguitano a considerare gli italiani come un branco di bestie incapaci di intendere e di volere, bestie che bisogna trattare come pecore nel recinto, con il bastone e i cani da guardia e che, se liberate, potrebbero fuggire e combinare solo danni. Pazienza, dirà qualcuno. Lo dice la scienza. E invece no, perché la scienza, su questo virus, non è mai stata così divisa. E anche i numeri sembrano molto poco chiari. Già in un precedente articolo su questo blog si notava come, da dati ISTAT interpretati dal professor Paolo Becchi, i decessi per il primo quadrimestre 2020 fossero in linea con gli anni precedenti. Non solo, sempre più sono i sanitari e gli specialisti che sostengono che il Covid-19 sarà combattuto dalla bella stagione. Come tutti i virus influenzali, del resto. “Non ci resta che sperare che il caldo uccida il virus“, dice per esempio, sulla scia di quanto affermato pochi giorni fa dal professor Giulio Tarro, il virologo Andrea Crisanti dell’Università di Padova, per il quale il modo in cui è stata impostata la Fase 2 è “senza criterio scientifico“. “Non vedo il razionale – ha spiegato all’Adnkronos Salute -. Basti pensare a un dato: abbiamo chiuso l’Italia con 1.797 casi al giorno e la riapriamo tutta quanta insieme con 2.200. E’ una cosa senza metrica“. Secondo Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive al Policlinico San Martino di Genova e componente della task force della Regione Liguria, il Governo Conte ha instaurato uno “stato di polizia”, aggiungendo, relativamente agli spazi aperti, “alla dittatura della mascherina non ci sto”. D’altro canto chi ha mai visto un’epidemia influenzale a fine primavera. O a inizio estate. Quando la gente, anziché starsene chiusa in casa o nei locali a scambiarsi germi e batteri trascorre più tempo all’aria aperta. Nessuno. Eppure in Italia circolano assurdi rendering di spiagge con mura di plexiglas…Un orrore cui gli italiani hanno ora il dovere morale di ribellarsi. Perché non si può consentire impunemente che le libertà fondamentali di milioni di cittadini vengano calpestate da un Governo inetto e incapace di reagire al terrorismo diffuso da un manipolo di consulenti, “guidato” da un confuso tiranno con la pochette. Lo stato di polizia (che peraltro riguarda solo i cittadini onesti, molto meno spacciatori, delinquenti et similia) deve finire, ora e subito. Se non finirà vi dovrà essere un unico imperativo categorico: la ribellione.
Silvana De Mari 29 aprile 2020:
Autobus di 40 mq: possono entrare 16 persone.
Negozio di 40 mq: 1 alla volta.
Chiesa di minimo 150 mq: 1 morto e 15 vivi, ma non 15 vivi e basta, ci vuole sempre il morto.
A questo capolavoro di logica hanno lavorato 450 esperti
Daniele Sforza per termometropolitico.it l'1 maggio 2020. È una delle professioni più citate del momento, quella del virologo. In tempi di Coronavirus non poteva essere altrimenti, anche se la figura del virologo è risalita alla ribalta ai tempi delle campagne social del noto Roberto Burioni contro i no-vax, oggi più che mai quella del virologo è una figura molto richiesta nei talk show televisivi. Il loro compito è quello di fornire informazioni vere, senza seminare panico tra la folla e appellarsi ai principi della scienza per dare le giuste indicazioni da seguire. Ma quanto guadagna un virologo? È questa la domanda che alcuni utenti pongono ai motori di ricerca. Proviamo a dare una risposta.
Quanto guadagna un virologo? Ecco il suo stipendio. Come per tutte le professioni, non esiste uno stipendio universale per il virologo. Innanzitutto bisogna capire dove lavora (ospedale, laboratorio), poi bisogna valutare le sue mansioni e la sua esperienza, ovvero gli anni di servizio accumulati alle spalle e la posizione che occupa. Inoltre è opportuno fare anche un’altra distinzione: il virologo può anche essere un medico che non ha frequentato i 6 anni di medicina, ma proviene invece da studi di biologia o biotecnologie. Per capire meglio l’importanza di queste distinzioni possiamo partire da Francesca Colavita, la ricercatrice che ha contribuito a isolare il virus all’ospedale Spallanzani: infatti, ha fatto molto rumore il fatto che la ricercatrice fosse (in quel momento) precaria e guadagnasse molto poco (circa 1.500 euro al mese). Poi possiamo arrivare agli stipendi di figure dirigenziali, che invece arrivano a guadagnare anche oltre 80 mila euro lordi all’anno.
Due percorsi formativi. Resta comunque importante conoscere e approfondire l’intero settore, che rispetto ad altre discipline mediche e scientifiche, è molto ristretto e può avere diverse ramificazioni. Per arrivare a svolgere questa professione, infatti, sono necessari anni di studio a cui segue in buona parte dei casi un periodo di precariato. Ci sono dunque i consueti 6 anni di medicina seguiti da 4 anni di specializzazione in microbiologia e virologia, mentre un’altra strada, come anticipato, può essere anche quella della laurea in biologia e biotecnologia, seguita da una scuola di specializzazione in microbiologia e virologia (il percorso non-medico).
Scienziati italiani bocciati: “Crisi in mano ai più scarsi del mondo”. Redazione de Il Riformista il 3 Maggio 2020. La coincidenza curiosa è che tra quelli meno quotati ci siano diversi virologi tra i più presenti in televisione. Il database di ricerca scientifica Scopus, fondato nel 2004 dalla casa editrice Elsevier di Amsterdam, ha valutato attraverso il punteggio denominato H-Index il prestigio e l’autorevolezza degli scienziati coinvolti nell’emergenza coronavirus. Una valutazione che tiene conto dei titoli, delle pubblicazioni, del numero di citazioni che queste pubblicazioni hanno ottenuto nel tempo, come scrive Franco Bechis su Il Tempo. E per quello che riguarda gli esperti italiani spiccano due aspetti: i professori più presenti nei media raramente hanno un punteggio alto; quelli più in alto nella classifica non sono consulenti del governo e sono poco presenti in televisione. Scopus è costantemente aggiornato e offre oltre 25.000 articoli provenienti da più di 5.000 editori internazionali e oltre 400 milioni di pagine web a carattere scientifico. Il suo sistema di valutazione contempla una mediocrità che si assesta sui 50 punti e un’autorevolezza solida sopra gli 80. I primi italiani sono: Alberto Mantovani dell’Humanitas con 167 punti, Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri a quota 158, Luciano Gattinoni dell’Università di Gottingen a 84. Tutti e tre compaiono poco (o comunque molto meno di altri) in televisione e non sono consulenti del governo. Mantovani arriva a sfiorare l’eccellenza assoluta, che nella lista è rappresentata da Anthony Fauci, 174 punti. Lo scienziato italo-americano è il consulente della Casa Bianca. Fauci si è spesso scontrato con il presidente Donald Trump che ha spesso sottovalutato la pandemia fino ad affermare la probabile utilità di iniezioni di disinfettante per sconfiggere il virus. A seguire, tra gli italiani, l’oncologo dell’Istituto Pascale di Napoli Paolo Ascierto (63 punti) che con la sua equipe ha sperimentato il farmaco anti-artrite tocilizumab ed è stato nominato coordinatore del gruppo di ricerca della Regione Campania. E poi il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito (61), Giovanni Rezza (59) dell’Iss e Massimo Galli (51) primario infettivologo del Sacco di Milano. Sfiorano la sufficienza Andrea Crisanti (49) virologo consulente della Regione Veneto e Ilaria Capua (48) direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida. Molto al di sotto della sufficienza i vari Walter Ricciardi (39) consulente del ministero della Salute; Pier Luigi Lopalco (33) ordinario di Igiene all’Università di Pisa e coordinatore delle emergenze epidemiologiche della Regione Puglia; Roberto Burioni (26) virologo del San Raffaele di Milano e ospite fisso della trasmissione di Fabio Fazio Che Tempo Che Fa; Maria Rita Gismondo (22) virologa del Sacco di Milano. Ancora più in basso nella classifica il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e membro del Comitato Scientifico Silvio Brusaferro (21) e Fabrizio Pregliasco (14) virologo dell’Università degli Studi di Milano. In fondo alla lista Giulio Tarro (10), ex primario del Cotugno di Napoli, secondo molti suoi sostenitori candidato al Nobel, che ha ingaggiato recentemente un duello sull’autorevolezza a colpi di tweet con Burioni. Una sfida da bassa classifica, secondo Scopus.
Bocciati gli esperti virologi che sono sempre in tv. Ricercatori e tecnici riuniti in task force della nostra vita. Ma chi sono e quanto sono competenti i medici che si sostituiscono alla politica. Alessio Buzzelli su iltempo.it l'1 maggio 2020. Con l’epidemia da Covid-19 stiamo assistendo inermi a stravolgimenti della società impensabili, tra i quali quello per cui a governare i destini dell’umanità non sembra essere più la politica ma la scienza. Tra task-force e comitati tecnico-scientifici che spuntano ovunque, dall’inizio dell’emergenza sanitaria le scelte cruciali – e spesso squisitamente politiche – sono state demandate sempre di più a gruppi di esperti, scienziati e tecnici: i così detti «competenti». Ma quanto sono competenti questi «competenti»? Una domanda nient’affatto banale, visto e considerato che i cittadini di tutto il mondo – e quelli italiani soprattutto - in questi giorni stanno rinunciando a grandi porzioni dei propri diritti costituzionali proprio in virtù delle raccomandazioni di questi esperti, brattando alcune libertà fondamentali con la salvaguardia della salute. Di più: è la politica stessa ad essersi privata di pezzi della sua assoluta sovranità decisionale in cambio dei preziosi consigli della scienza, trasformando – si spera in modo provvisorio - la democrazia in una sorta di «scientocrazia». Ora, stabilire il valore e l’autorevolezza di uno scienziato non è affatto cosa semplice. Esiste però un parametro abbastanza affidabile, cui convenzionalmente ricorre la comunità scientifica per stabilire una gerarchia di merito: si chiama «h-index», un indicatore bibliometrico ottenuto facendo la media tra il numero di pubblicazioni scientifiche e il numero delle citazioni ricevute da un dato ricercatore. L’«h-index» è oggi il criterio in assoluto più utilizzato per questo tipo di valutazioni – sebbene non l’unico -, essendo un buon compromesso tra la quantità (pubblicazioni) e la qualità (citazioni) del lavoro di uno scienziato. Una specie di pedigree costruito in base alla carriera di un ricercatore, certamente perfettibile ma comunque affidabile. Nonostante, è il caso di ribadirlo, l’h-index non sia ovviamente l’unico criterio adottabile per stabilire il valore assoluto di uno scienziato. Ebbene, passando in rassegna gli h-index (presenti nel database di Scopus) degli esperti che hanno ricevuto più visibilità durante questa pandemia, ci siamo accorti che in Italia, in alcuni casi, questo parametro non sia esattamente di livello internazionale. Prendiamo come riferimento due tra gli indici più alti in assoluto, quello di Anthony Fauci, virologo della task force di Donald Trump, e quello di Didier Raoult, luminare francese della medicina e direttore dell’Istituto Malattie Infettive dell’Università di Marsiglia. I loro h-index sono rispettivamente 174 e 175. Nel comitato tecnico scientifico del Governo italiano, per fare un paragone, l’h-index di Giuseppe Ippolito, direttore dell’INMI dello Spallanzani, è 61 (abbastanza alto, sebbene non paragonabile a quelli appena citati); mentre quello del presidente dell’ISS Silvio Brusaferro, anche lui membro del CTS, è sensibilmente più basso, fermo a 21. Parliamo di esperti molto vicini al premier Conte e dunque in grado di influenzarne pesantemente le decisioni, come pare sia accaduto durante la preparazione della contestatissima «fase 2» dell’emergenza, plasmata sulla scorta del report stilato proprio dal CTS nominato dal Governo. Rimanendo nei paraggi di coloro che hanno rapporti diretti con Capi di Stato, l’immunologo francese Jean-François Delfraissy, guida del Comité d'Analyse Recherche Expertise e di casa all’Eliseo, può fregiarsi, per esempio, di un h-index di 73. Anche i tedeschi, naturalmente, hanno il proprio virologo di fiducia: si chiama Christian Drosten, ha un h-index di 73 e, anche se non ha ricevuto incarichi ufficiali dal governo di Berlino, è attualmente uno degli esperti più popolari e più ascoltati in Germania. E a proposito di popolarità, nessuno oggi in Italia è più popolare dei medici: alcuni di loro sono diventati dei veri e propri divi del piccolo schermo, dal quale dispensano ammonimenti urbi et orbi ad ogni ora del giorno, collezionando ospitate in ogni tipo di programma, persino in quelli sportivi. Niente di male, sia chiaro - ché un parere specialistico di questi tempi è sempre ben accetto -, ma vedendo gli h-index di alcuni di loro qualche dubbio in più potrebbe sorgere. Walter Ricciardi, super consulente dell’OMS, ha, per dire, un indice di 39; Ilaria Capua, virologa dell’Università della Florida con un passato in politica (nella fu Scelta Civica), ha un h-index di 48; Roberto Burioni, virologo e principale star del nuovo divismo scientifico, ha un h-index di 26; Maria Rita Gismondo (ultimamente molto pessimista) ha, infine, un h-index di 22. Numeri non esattamente altissimi, soprattutto se paragonati a quelli di altri esperti italiani molto meno popolari, come Alberto Mantovani (h-index 167, altissimo), Giuseppe Remuzzi (158) e Luciano Gattinoni (84), solo per citarne qualcuno. Insomma, la scienza non si può certo ridurre a una gara a chi ha il curriculum più lungo, ma se questi indici esistono, dovranno pur significare qualcosa. E gli italiani, il cui destino è oggi nelle mani di medici e scienziati molto più che in quelle dei propri rappresentanti politici, hanno il diritto di saperlo.
LE PAGELLE DELLA SCIENZA. Burioni, Pregliasco e Brusaferro. Gli esperti più scarsi del mondo. Franco Bechis su iltempo.it l'1 maggio 2020. Sono ultimi in classifica mondiale per la bibbia della scienza- Scopus- i virologi che hanno imposto la chiusura dell'Italia al governo. La sorpresa certo non felice viuene dalla classifica di valutazion e degli esperti che in tutto il mondo stanno affiancando le autorità politiche nella guerra al coronavirus. Scopus valuta con un punteggio- l' H-Index- il prestigio e l'attendibilità di tutti gli scienziati, tenendo conto dei titoli accademici di ciascuno, delle pubblicazioni scientifiche e del numero di citazioni dei loro lavori nel tempo da parte di altre pubblicazioni scientifiche. Il punteggio più alto al mondo in questa classifica della guerra al coronavirus ce l'ha un professore italo-americano, Anthony Fauci (174), che dovrebbe essere il virologo di riferimento del presidente Usa Donald Trump, che pure spesso lo critica e fa di testa sua. In quel sistema di valutazione una suffiuciente mediocrità si raggiunge sopra i 50 punti, una certa autorevolezza al di sopra degli 80, e così salendo fino alla eccellenza. In Italia ne abbiamo solo tre di cui possiamo essere in qualche modo orgoglioso, ma non sono consulenti del governo e anche in tv si fa ricorso a loro raramente. Si tratta di Alberto Mantovani dell'Humanitas (167), Giuseppe Remuzzi dell'Istituto Mario Negri (158), e Luciano Gattinoni (84) che lavora però in Germania, all'università di Gottingen. Discreto prestigio hanno anche Paolo Ascierto (63) dell'Istituto nazionale dei tumori, Giuseppe Ippolito (61) direttore scientifico dello Spallanzani, Giovanni Rezza (59) dell'Iss e Massimo Galli (51) del Sacco di Milano. Vicini alla sufficienza il virologo di fiducia della Regione Veneto, Andrea Crisanti (49) e Ilaria Capua (48) che lavora in Florida. In ogni caso ad anni luce di distanza da un Fauci, da un Mantovani e da un Remuzzi. Tutti gli altri giudicati ampiamente insufficienti dalla comunità degli scienziati. Voti bassini o bassissimi proprio per quelli che vanno per la maggiore nelle trasmissioni televisive come "esperti". Come Walter Ricciardi (39) preso come consulente dal ministero della Salute. O Pier Luigi Lopalco (33) che pure è ospite fisso dei talk show. Bassissimo il giudizio su Roberto Burioni (26), virologo che andò per la maggiore quando si imposero i vaccini a tutti gli italiani e oggi arruolato come ospite fisso da Fabio Fazio nel suo Che tempo fa. In fondo alla classifica Maria Rita Gismondo (22) la virologa che derise le preoccupazioni sul coronavirus ritenendo l'epidemia assai meno distruttiva di una influenza e che non a caso è stata assoldata come "esperta" di riferimento dal Fatto Quotidiano dove scrive Andrea Scanzi che a fine febbraio disse assai di peggio insultando chi aveva paura del virus "che non farà morti" in un video che passerà alla storia come il più clamoroso infortuniuo giornalistico del dopoguerra. Ad avere voti più bassi di Burioni e della Gismondo ci sono però il presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro (21) cui il governo ha di fatto affidato la guida delle decisioni sul coronavirus, Fabrizio Pregliasco (14) e Giulio Tarro (10), disprezzato dalla comunità scientifica, ma non privo di fans, visto che qualcuno di loro ancora insiste per candidarlo al premio Nobel.
DAGONOTA il 4 maggio 2020. In queste settimane si è molto parlato del virologo campano Giulio Tarro, già in prima linea contro varie epidemie all'ospedale Cotugno di Napoli, un'eccellenza nel settore, riconosciuta da tutti. Per farla breve, un articolo scritto dall'associazione ''Biologi per la Scienza'' sostiene che alcuni dei suoi titoli sono discutibili, che il suo riconoscimento presso la comunità scientifica internazionale è scarso perché ha pubblicato poco e su riviste altrettanto discutibili. Sorvolando il fatto che si sta parlando di uno scienziato del Novecento al quale vengono applicati i criteri odierni di valutazione (il tremendo sistema del peer review che può distorcere parecchio la realtà), o che tutti i medici ricevono targhe e riconoscimenti di ogni tipo, anche discutibile, si è verificato un simpatico fenomeno. Ovvero che Franco Bechis sul ''Tempo'' ha dedicato lo stesso trattamento ai virologi-star che occupano le nostre tv in questo periodo, scatenando una difesa d'ufficio (giustissima!) dei colleghi, che in questo caso hanno sottolineato come gli indici e le classifiche internazionali non corrispondono sempre al reale talento, preparazione o professionalità del singolo medico. Anzi! Spesso chi più scrive, meno lavora nel mondo reale.
Questa risposta all'articolo di Bechis è illuminante, e veritiera: Chiara Lestuzzi. Marco Honesty Io invece sono un medico, e faccio sia clinica che ricerca. E so benissimo come funziona il mondo delle pubblicazioni in medicina. C'è chi sta chiuso in un laboratorio e lavora solo per produrre articoli, chi lavora sul campo e non ha tanto tempo per scrivere. C'è anche chi lavora molto a procurarsi amici che gli mettono il nome in tutto quello che pubblicano, chi quando è revisore di un lavoro "suggerisce" all'autore di citare i suoi articoli (che magari non c'entrano con l'argomento), chi riesce a dare la scalata a qualche società scientifica e poi infila il suo nome in tutte le linee-guida e "position papers" della società (articoli che ricevono per anni moltissime citazioni)...
Insieme a questa: Daniele Bertolini. Che schifezza di articolo. L'H-index da un idea della rilevanza nel campo, non un fantomatico "giudizio" degli altri scienziati. Ma soprattutto non e' che avere un alto H-index ti rende titolato a suggerire migliori strategie ad un governo. Per esempio, una persona che ha lasciato l'accademia e non pubblica, ma ha speso 20 anni a gestire epidemie in giro per il mondo, mi sembra titolato a consigliare un governo. Ma perche' favorite queste visione semplicistica buoni vs cattivi su tutto? Che delusione. Morale? Il mondo delle pubblicazioni spesso è una mafietta, i grandi scienziati le opere le fanno scrivere ai collaboratori perché non hanno tempo da perdere e chi lavora in ospedale spesso esce dal mondo dei convegni e delle riviste scientifiche perché preferisce operare sul campo. Ma questo ricordatevelo sempre, non solo quando dovete smerdare il povero Tarro (che infatti, sui suoi 50 anni da medico sul campo, non ha ricevuto mezza critica neanche dai famigerati ''Biologi per la scienza''…)
Gli esperti più scarsi del mondo: Burioni, Pregliasco e Brusaferro. Il Corriere del Giorno il 2 Maggio 2020. In fondo alla classifica con appena 22 punti Maria Rita Gismondo la virologa che derise le preoccupazioni sul coronavirus ritenendo l’epidemia assai meno distruttiva di una influenza e che non a caso è stata assoldata come “esperta” di riferimento de il Fatto Quotidiano dove scriveva Andrea Scanzi il quale a fine febbraio disse assai di peggio insultando chi aveva paura del virus “che non farà morti” in un video che passerà alla storia come il più clamoroso infortunio giornalistico del dopoguerra. Secondo Scopus, considerata la bibbia della scienza, i virologi che hanno imposto la chiusura dell’Italia al Governo Conte sono ultimi nella classifica mondiale. La poco piacevole sorpresa, certamente non felice arriva dalla classifica di valutazione degli esperti che in tutto il mondo stanno affiancando le autorità politiche nella guerra al coronavirus. Scopus è aggiornato periodicamente e offre circa 25.000 articoli provenienti da più di 5.000 editori internazionali che includono: 16.500 giornali sottoposti a processo di peer reviewing in ambito scientifico, tecnico, medico e sociale; 600 pubblicazioni commerciali; 350 edizioni di libri; una copertura estesa delle conferenze mondiali con 3 milioni e mezzo di conference papers. In Scopus sono presenti 435 milioni di pagine web a carattere scientifico; 23 milioni di brevetti depositati nei cinque principali uffici brevetti del mondo (US Patent Office, European Patent Office, World Intellectual Property Organization, Japan Patent Office e UK Intellectual Property Office); oltre 80 fonti selezionate da varie istituzioni che comprendono archivi digitali e collezioni relative a specifici argomenti. Scopus valuta con un punteggio– l’ H–Index– il prestigio e l’attendibilità di tutti gli scienziati, basandosi sui titoli accademici di ognuno, delle pubblicazioni scientifiche e del numero di citazioni dei loro lavori nel tempo da parte di altre pubblicazioni scientifiche. Il punteggio più alto al mondo in questa classifica della guerra al coronavirus ce l’ha un professore italo-americano, Anthony Fauci (174), che è al momento il virologo di riferimento del Presidente Usa Donald Trump, che nonostante lo critica e fa di testa sua, riconosce la sua competenza e la rispetta. In questo sistema di valutazione predisposto da Scopus una sufficiente mediocrità si raggiunge sopra i 50 punti, una certa autorevolezza al di sopra degli 80, e così salendo fino alla eccellenza. In Italia ne abbiamo solo tre di cui possiamo essere in qualche modo orgogliosi, ma non sono consulenti del governo e anche in tv si fa ricorso a loro raramente. Si tratta di Alberto Mantovani dell’Humanitas (167), Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri (158), e Luciano Gattinoni (84) che però lavora in Germania, all’Università di Gottingen. Discreto prestigio hanno anche Paolo Ascierto (63) dell’Istituto Nazionale dei Tumori, Giuseppe Ippolito (61) direttore scientifico dell’ Ospedale Spallanzani di Roma, Giovanni Rezza (59) dell’Istituto Superiore di Sanità e Massimo Galli (51) dell’ Ospedale Sacco di Milano. Vicini alla sufficienza il virologo di fiducia della Regione Veneto, Andrea Crisanti (49) e Ilaria Capua (48) la quale lavora in Florida, virologa diventata celebre ai tempi dell’influenza aviaria per aver isolato il virus e sollecitato il pubblico accesso ai dati a livello internazionale, la quale non ha potuto realizzare in Italia. Nel 2014 la virologa, eletta alla Camera nelle liste di Scelta Civica era stata iscritta nel registro degli indagati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso di ufficio e traffico illecito di virus. Nel luglio 2016 è stata pienamente prosciolta. “E’ stata una decisione sofferta e ponderata, che ho maturato nel tempo e che si è articolata intorno alla parola ‘rispetto'”, aveva detto nel suo messaggio con il quale rassegnava le proprie dimissioni. La Camera le accettò con 238 “sì” e 179 “no“. L’ Aula si è infiammata contro il giustizialismo e la gogna montata soprattutto online in presenza di un semplice avviso di garanzia; sul “banco degli imputati” il M5S, che ha annunciato il sì alle dimissioni “in coerenza con i precedenti“. In ogni caso ad anni luce di distanza da un Fauci, da un Mantovani e da un Remuzzi. Tutti gli altri giudicati ampiamente insufficienti dalla comunità degli scienziati. Voti bassissimi proprio per quelli che vanno per la maggiore nelle trasmissioni televisive come “esperti“. Come Walter Ricciardi (39) preso come consulente dal Ministero della Salute. O Pier Luigi Lopalco (33) che pure è ospite fisso dei talk show. Bassissimo il giudizio su Roberto Burioni (26), virologo che andò per la maggiore quando si imposero i vaccini a tutti gli italiani e oggi arruolato come ospite fisso da Fabio Fazio nel suo “Che tempo fa“. In fondo alla classifica con appena 22 punti Maria Rita Gismondo la virologa che derise le preoccupazioni sul coronavirus ritenendo l’epidemia assai meno distruttiva di una influenza e che non a caso è stata assoldata come “esperta” di riferimento de il Fatto Quotidiano dove scriveva Andrea Scanzi il quale a fine febbraio disse assai di peggio insultando chi aveva paura del virus “che non farà morti” in un video che passerà alla storia come il più clamoroso infortunio giornalistico del dopoguerra. Ad avere voti più bassi di Burioni e della Gismondo ci sono però il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro (21) cui il Governo Conte ha di fatto affidato la guida delle decisioni sul Coronavirus, Fabrizio Pregliasco (14) e Giulio Tarro (10), disprezzato dalla comunità scientifica, ma non privo di sostenitori, visto che qualcuno di loro ancora insiste per candidarlo al premio Nobel
Da affaritaliani.it il 4 maggio 2020. Mentre l'Italia si avvia verso la "fase 2", il Coronavirus continua a tenere sotto scacco l'intero Paese, l'emergenza non è finita. Ma su quello che ci attende il professor Giuseppe Remuzzi direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, sembra essersi fatto un'idea, bacchettando i suoi colleghi dell'Iss. "Il loro dossier - spiega al Corriere della Sera - prende in considerazione 92 scenari possibili. Ma tra 92 e zero, è uguale. Significa non avere idea di quello che succederà. Che è la pura verità, e andrebbe detta. Non lo sa nessuno. Se prevedi che tutto, ma proprio tutto vada male, si avrà un numero importante di ricoveri in terapia intensiva. Ma non quello (150 mila), al quale si arriva solo sovrastimando in modo abnorme la popolazione anziana in Italia. Lo scenario peggiore non è impossibile, ma anche a livello statistico è molto improbabile". "Per la fase due - prosegue Remuzzi al Corriere - occorre innanzitutto dire la verità. Gli italiani devono avere ben chiaro che riaprire significa avere quasi automaticamente un certo numero di nuovi malati. E non stiamo parlando di poche decine. A giugno è possibile che ci sia una ricaduta, potrebbe succedere. Ma non con lo scenario peggiore. Dovremo gestirla con la capacità di adattare la risposta, soprattutto isolando subito le persone contagiate. Adesso sappiamo come si fa". "Sbagliato tenere chiuse le scuole - conclude Remuzzi - i bambini non si infettano. I loro genitori, più o meno giovani, difficilmente sviluppano malattie importanti. Invece noi lasciamo le nuove generazioni a casa dai nonni. Un altro modo di mescolare. A mio avviso, un grave errore".
Silvio Brusaferro, "fino ad oggi": così ci spiega (involontariamente) la differenza tra scienza e politica. Andrea Tempestini su Libero Quotidiano il 1 maggio 2020. Andrea Tempestini. Milanese convinto, classe 1986, a "Libero" dal 2010, caporedattore e digital editor di Liberoquotidiano.it. Il mio sogno frustrato è l'Nba. Adoro Vespe, gatti, negroni e mr. Panofsky. Scienza vs politica. A Giuseppe Conte rimproverano la prevalenza del virologo: ovvero, la politica non decide e si affida in toto agli esperti (comitati, task-force, consulenti, che-faccio-lascio). Senza volersi avventurare nella polemica, probabilmente una delle meno peregrine tra le molteplici che hanno colpito il premier nelle ultime settimane, il rimprovero relativo alla "prevalenza del virologo" ha solide fondamenta. Quanto accade in altri Paesi - Francia e Germania su tutti - dimostra come sia possibile, in questa fase della pandemia, tentare una conciliazione tra istanza scientifica e istanza politico-economica. Chi sostiene che la conciliazione, stando alla conferenza stampa di domenica scorsa, in Italia non sia stata neppure tentata credo non abbia torto. E che c'entrano le parole di Brusaferro? C'entrano perché arrivano in risposta a una domanda circostanziata, relativa alle regioni con meno contagi: perché non possono ripartire? Già, perché tenere ferme regioni come il Molise (ieri 1 positivo), Basilicata (1 positivo), Sardegna (5 positivi), ma anche le Marche (37 positivi) e forse anche il Lazio (71 positivi)? Insomma, perché tenere fermi tutti e non solo, per dire, Lombardia (598 positivi il 30 aprile), Piemonte (428) ed Emilia Romagna (259)? Sinceramente me lo chiedo anche io, ma non per questo ho la supponenza di pensare di avere una risposta sensata (né in un senso, né nell'altro). Però le parole di Brusaferro ci suggeriscono qualcosa: le teniamo chiuse perché "i buoni risultati raggiunti fino ad oggi li abbiamo ottenuti con misure uguali per tutti" (inoltre, il presidente dell'Iss arricchisce la risposta insistendo sul ruolo della "mobilità tra le regioni molto limitata". Ed è sicuramente vero). Insomma, le parole di Brusaferro - medico, accademico, "scienziato" - fanno riferimento all'immutabilità del metodo-modello scientifico. Già, la scienza è per definizione esatta. Non contestabile. Figurarsi se ci mettiamo a contestarla proprio qui. Eppure, considerato che di coronavirus e pandemie ne sappiamo davvero poco, nella supposta Fase 2 la prevalenza del virologo sul politico dovrebbe affievolirsi: un modello che ha funzionato nella Fase 1 (contenimento del contagio, dunque scienza) non è necessariamente un buon modello per la Fase 2 (tentativi di ripartenza economica e sociale, dunque politica). Non è "colpa" di Brusaferro: lui è scienza. Ma sul quel "fino ad oggi" probabilmente casca l'asino: "fino ad oggi" è ieri e, tecnicamente, staremmo provando ad entrare in un domani in cui l'immutabilità del precedente modello scientifico non decade, ma è fuori contesto. Perché ora tocca alla politica, arte del possibile e non del modello scientifico.
Da liberoquotidiano.it il 4 maggio 2020. Più donne nel comitato tecnico scientifico e nella task force che si occupa della fase 2 dell’emergenza coronavirus. È la decisione di Giuseppe Conte in risposta all’appello sulle quote rosa rivolto da un gruppo di senatrici. Uno studio di Openpolis ha rivelato che sono oltre mille le persone coinvolte nella gestione della crisi sanitaria, l’80% di sesso maschile: addirittura nel comitato tecnico scientifico ci sono esclusivamente uomini. “Oggi stesso chiamerò Vittorio Colao - ha annunciato il premier - per comunicargli l’intenzione di integrare il comitato di esperti che dirige attraverso il coinvolgimento di donne le cui professionalità, sono certo, saranno di decisivo aiuto al Paese”. Inoltre nelle prossime ore Conte sentirà anche Angelo Borelli, capo della Protezione civile, per chiedergli di “integrare il comitato tecnico scientifico con un’adeguata presenza femminile. Analogo invito - ha concluso il premier - rinvolgo anche a tutti i ministri affinché tengano conto dell’equilibrio di genere nella formazione delle rispettive task force e gruppi di lavoro”.
Covid 19, oltre mille al comando tra task force, comitati, istituzioni. Ma non ci sono le donne. Angelo Borrelli, Roberto Speranza e Giuseppe Conte. L'80% degli esperti coinvolti nella complessa catena di gestione della battaglia contro la pandemia sono maschi. Nel comitato tecnico-scientifico sono tutti uomini. Uno studio di Openpolis. Raffaella Menichini il 30 aprile 2020 su La Repubblica. Nel labirinto delle task force governative, regionali, ripartite per fasi e obiettivi, è stato difficile in questi giorni individuare un filo conduttore comune. Eppure ne esiste uno piuttosto evidente: non ci sono donne. Salta all'occhio osservando la composizione del comitato tecnico scientifico che sta coadiuvando il governo da due mesi: 20 su 20, tutti uomini (come si può facilmente evincere anche dalla presenza al tavolo della conferenza stampa delle 18 che fino a un paio di settimane fa ha scandito le giornate degli italiani). Ma ad un esame più approfondito, compiuto dai ricercatori di Openpolis, risulta evidente che il problema è generalizzato: solo il 20% dei ruoli della catena di comando nella battaglia al Covid 19 è ricoperto da donne. Uno sbilanciamento che ha molto a che fare con la mappa generale del potere in Italia: incarichi istituzionali, presidenze di comitati, commissioni, istituti sono ruoli ricoperti in larghissima maggioranza da uomini. Lo sapevamo già, ma la crisi del Covid 19 sta portando alla luce il fenomeno in modo dirompente anche nelle sue modalità di ripercussione sulle scelte politiche, sulle dinamiche comunicative e sulla percezione di quanto la classe dirigente di questa fase sia realmente lo specchio del Paese. Secondo l'analisi di Openpolis - che aveva già compiuto un grosso lavoro di ricerca sulla giungla delle task force anti-Covid ricostruendone dati e ruoli in una mappa del potere definita "atipica" per il coinvolgimento e l'interconnessione di strutture politiche, amministrative, specialistiche, ad hoc, sia nazionali che regionali - sui 1400 incarichi individuati la forbice tra donne e uomini cresce man mano che ci si avvicina al vertice della catena di comando. Vengono prese in considerazione le prefetture (categoria in cui la percentuale di donne è la più alta: 39,05% sono guidate da donne); gli assessorati regionali alla sanità e alla protezione civile; le strutture regionali ad hoc (unità di crisi, task force, soggetti attuatori, comitati); le strutture nazionali chiamate a un ruolo centrale nell'emergenza come l'agenzia per il farmaco (Aifa) e le task force create in queste settimane a coadiuvare il lavoro della Protezione civile e del governo. Ed emerge un dato sconfortante: se nelle istituzioni regionali la presenza femminile ai vertici è bassa (ad esempio 29% di assessori regionali alla sanità e alla protezione civile) i numeri scendono man mano che ci si avvicina al cuore del potere. Fino ad arrivare agli incarichi a livello nazionale dove troviamo una donna su 6 poltrone. E a volte neanche quella. Il già citato Comitato tecnico-scientifico è composto al 100% di maschi, e se si va a osservare uno ad uno i 20 incarichi si capisce che si è scelto giustamente il top degli esperti, messi alla guida di altrettante istituzioni. Dunque il problema è a monte: è che alla guida di Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di Sanità, Protezione civile, Dipartimenti del Ministero della Salute, società di medicina specialistica, Aifa, dipartimenti delle grandi strutture sanitarie specialistiche, insomma alla testa delle massime istituzioni coinvolte siedono solo uomini. Anche nella task force per la "fase 2" (quella diretta da Vittorio Colao), su 19 membri solo 4 sono donne, tutte accademiche. E nel comitato di Protezione civile a supporto dell'operato di Angelo Borrelli ne contiamo 5, su 18. Due settimane fa, una lettera aperta diretta al premier Giuseppe Conte e allo stesso Colao da gruppi e associazioni di donne della società civile affinché aumenti il numero di donne coinvolte nella task force della "fase 2" ha raccolto oltre 50mila firme. Il 28 aprile la deputata Pd Laura Boldrini ha depositato un'interrogazione al governo, firmata da altre 42 deputate, per chiedere "di rispettare la parità di genere in task force e prossime nomine - ha detto l'ex presidente della Camera dei deputati - Quando toccherà farle in Parlamento se non sarà una significativa presenza femminile non le voterò. E non sarò l'unica". Il 10 aprile, nel centenario della nascita di Nilde Iotti, la ministra per le pari opportunità Elena Bonetti ha lanciato "Donne per un nuovo Rinascimento", task force tutta al femminile "per far ripartire l'Italia" dopo la crisi coronavirus. L'incarico, si legge nel decreto, è mirato alla stesura di un documento programmatico, ma in che modo e fino a che punto il lavoro di queste 12 esperte (tra cui scienziate come Fabiola Gianotti, imprenditrici, giornaliste, accademiche) intercetterà la catena di comando anti Covid19 non è ancora chiaro. Il gruppo di leadership resta saldamente in mani maschili: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza, il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, il commissario straordinario Domenico Arcuri, il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, il capo della task force per la fase 2 Vittorio Colao, il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. Nomi e volti che in gran parte sono diventati familiari a tutti gli italiani, scandendo con le loro comunicazioni, consigli, valutazioni la difficile navigazione di questi mesi di lockdown. Ci fossero stati anche volti e voci di donne - che pure sono in prima linea tra gli operatori sanitari nella battaglia quotidiana al virus - è molto probabile che percezione e sostanza della strategia di attacco sarebbero state diverse. Ma è anche vero che non lo sapremo mai.
Cinque donne per Colao, quote rosa da task force. Comitato nel caos ma Conte pensa al politicamente corretto: le esperte arrivano dopo le proteste. Francesco Cramer, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Allora siamo a posto. Arriva una nuova infornata di esperte (che siccome finisce con la «e» e non con la «i» sono più brave, belle ed efficienti) al già corposo esercito di cervelloni che dovrebbero risolvere tutti i problemi. Nella task force guidata da Vittorio Colao entrano cinque nuove donne, che si affiancano alle quattro già nel team di venti esperti totali. Nel Comitato tecnico-scientifico, finora composto di 20 uomini su 20, ne arrivano invece sei. Totale: 11 in più. Nell'equipe di Colao debuttano Enrica Amaturo, professoressa di sociologia; Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica che si occupa di contrasto alla violenza domestica; Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat; Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia; Maurizia Iachino, dirigente di azienda. Fantastico: già 450 cervelloni non stanno aiutando molto a far partorire uno straccio di decreto che infatti rimane impelagato nei torbidi corridoi di palazzo Chigi. Aggiungiamone una dozzina che male non fa. Anzi, siccome portano la gonna, Conte forse pensa che nel giro di poche ore il Dl Rilancio decollerà come un caccia da guerra. Forse pensa che basti la manciata di consulenti in più - purché sia «rosa» - che la burocrazia si scioglierà come neve al sole; e che i dispettucci tra i partiti della sua raffazzonata maggioranza finiranno domani mattina. Illusioni dettate dall'ideologia o dal più bieco boldrinismo. Non che le donne non siano in gamba per questione di genere, per carità. È che il sesso, qui, non c'entra un fico secco. Qui c'è un Paese da aiutare subito; ci sono commercianti e artigiani che non sanno se apriranno; ci sono famiglie che vedono i loro risparmi andare in fumo. E chissenefrega se l'ennesimo inutile carrozzone è più grande e più rosa.
Francesco Cramer per ilgiornale.it il 13 maggio 2020. Allora siamo a posto. Arriva una nuova infornata di esperte (che siccome finisce con la «e» e non con la «i» sono più brave, belle ed efficienti) al già corposo esercito di cervelloni che dovrebbero risolvere tutti i problemi. Nella task force guidata da Vittorio Colao entrano cinque nuove donne, che si affiancano alle quattro già nel team di venti esperti totali. Nel Comitato tecnico-scientifico, finora composto di 20 uomini su 20, ne arrivano invece sei. Totale: 11 in più. Nell'equipe di Colao debuttano Enrica Amaturo, professoressa di sociologia; Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica che si occupa di contrasto alla violenza domestica; Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat; Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia; Maurizia Iachino, dirigente di azienda. Fantastico: già 450 cervelloni non stanno aiutando molto a far partorire uno straccio di decreto che infatti rimane impelagato nei torbidi corridoi di palazzo Chigi. Aggiungiamone una dozzina che male non fa. Anzi, siccome portano la gonna, Conte forse pensa che nel giro di poche ore il Dl Rilancio decollerà come un caccia da guerra. Forse pensa che basti la manciata di consulenti in più - purché sia «rosa» - che la burocrazia si scioglierà come neve al sole; e che i dispettucci tra i partiti della sua raffazzonata maggioranza finiranno domani mattina. Illusioni dettate dall'ideologia o dal più bieco boldrinismo. Non che le donne non siano in gamba per questione di genere, per carità. È che il sesso, qui, non c'entra un fico secco. Qui c'è un Paese da aiutare subito; ci sono commercianti e artigiani che non sanno se apriranno; ci sono famiglie che vedono i loro risparmi andare in fumo. E chissenefrega se l'ennesimo inutile carrozzone è più grande e più rosa.
Estratto dall'articolo di Stefano Folli per ''la Repubblica'' il 12 maggio 2020. (…) C'è poi il caso di Vittorio Colao, il più noto dei manager chiamati a offrire il loro contributo d'esperienza per definire tempi e modi della "ripartenza". Ieri il suo nome è tornato a circolare perché il presidente del Consiglio, incalzato da Laura Boldrini ed Emma Bonino, ha deciso di arricchire con cinque donne i componenti del comitato guidato dall'ex amministratore della Vodafone. È una mossa a effetto che poteva essere decisa prima e che cambia poco nella sostanza. Infatti la vera domanda è: a cosa serve quel comitato, il più importante dei 15 o 16 che sono stati messi in piedi? Nessuno sa esattamente quali siano i suoi compiti o a che punto sia nell'attuazione del suo programma, se ne esiste uno. Sembra quasi che Conte, dopo averlo insediato, abbia preferito lasciarlo nell'ombra. Forse, nel caso, lo userà come capro espiatorio. Certo, a distanza di qualche settimana risulta ancora più evidente che Colao, per sopravvivere e avere un ruolo, avrebbe dovuto chiedere un profilo politico: ministro senza portafoglio o anche sottosegretario a Palazzo Chigi. Sarebbe stato impossibile per chiunque spingerlo nelle nebbie.
Il Cts decide il destino del Paese, ma tra i 20 esperti nessun virologo. Tra i 20 esperti del Comitato tecnico-scientico, l'unico con una laurea specialistica in Malattie infettive è Giuseppe Ippolito. Ecco chi sono gli altri membri del team che consiglia le azioni del governo. Francesca Bernasconi, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. L'Italia, oggi, è nelle loro mani. Sono i 20 componenti esperti del Comitato tecnico-scientifico che consiglia il Governo sulle misure da prendere nel corso delle diverse fasi della pandemia da Covid-19.
Il Comitato tecnico-scientifico. Il Comitato è nato lo scorso 5 febbraio, quando il nuovo coronavirus sembrava ancora lontano dall'Italia, ed è stato ridefinito nella sua composizione, integrandola con "esperti in relazione a specifiche esigenze". L'ultima ridefinizione del team risale al 18 aprile, quando un'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile ha stabilito la necessità di rafforzare il Comitato, inserendo ulteriori esperti, "anche in vista della fase di ripresa graduale delle attività sociali, economiche e produttive". Così, il team è arrivato a 20 membri, tutti elencati nel documento di Angelo Borrelli. Ma tra loro non compare nemmeno uno dei virologi noti: da Roberto Burioni a Maria Rita Gismondo, da Fabrizio Pregliasco a Pier Luigi Lopalco, sono tutti assenti dal team che consiglia il premier Giuseppe Conte sugli accorgimenti da prendere per avviare la fase due.
I "nuovi" esperti. A guidare il Comitato tecnico-scientifico c'è Agostino Miozzo, coordinatore dell'Ufficio promozione e integrazione del Servizio nazionale della protezione civile, laureato in Medicina. Lo scorso 18 aprile, nel gruppo sono stati inseriti anche Massimo Antonelli, medico specializzato in Anestesia e rianimazione e direttore del Dipartimento emergenze, anestesiologia e rianimazione del Policlinico Gemelli di Roma, e Roberto Bernabei, Direttore del Dipartimento Scienze dell’invecchiamento, neurologiche, ortopediche e della testa–collo del Policlinico Gemelli. Secondo quanto riporta il Tempo, tra le sue competenze risulta anche quella sui "servizi di assistenza per l'anziano fragile mediante la creazione di modelli che dimostrano il costi-beneficio di un servizio di assistenza domiciliare integrata". Tra gli esperti risultano anche Fabio Ciciliano, dirigente medico della Polizia di Stato, esperto di medicina delle catastrofi, Ranieri Guerra, laureato in Medicina con specializzazione Igiene e sanità pubblica e rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e Francesco Maraglino, Direttore dell’Ufficio prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale del Ministero della salute. Infine, dal 18 aprile fanno parte del Comitato anche Luca Richeldi, Presidente della Società italiana di pneumologia e Alberto Villani, Presidente della Società italiana di pediatria.
Gli altri membri. Oltre al coordinatore del Comitato, Miozzo, fanno parte del team anche Silvio Brusaferro, presidente dell’lstituto superiore di sanità, Claudio D’Amario, direttore Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute, Mario Dionisio, direttore dell’Ufficio di coordinamento degli Uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera del Ministero della salute, Achille Iachino, direttore Generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del Ministero della salute e Sergio Iavicoli, direttore Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’Inail. Nella lista della protezione civile compare anche il nome di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, l'unico con una laurea di specializzazione in Malattie infettive. Inoltre, nel Comitato troviamo anche Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità del Ministero della salute, Nicola Magrini, direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Giuseppe Ruocco, segretario generale del Ministero della salute, Nicola Sebastiani, ispettore generale della sanità militare del Ministero della difesa, Andrea Urbani, direttore generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute e Alberto Zoli, rappresentante della Commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome.
Vittorio Feltri sul fallimento firmato Giuseppe Conte: "Migliaia di morti per colpa degli asini. Il caos-mascherine lo dimostra". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 29 aprile 2020. La vicenda delle mascherine, paradigmatica della disorganizzazione italiana, è quanto di più grottesco accada da quando il virus ha sconvolto le nostre vite. Da oltre due mesi è in atto una lotta che definirei fratricida fra cittadini allo scopo di procurarsi la mitica protezione per il naso e la bocca. Essa è considerata salvifica. Chi la possiede e la usa pensa di sfuggire al contagio e fa il diavolo a quattro per racimolarne altre. La gente va capita. Ascolta virologi e specialisti vari, ritenendo che si tratti di scienziati infallibili, e si attiene ai loro consigli, spesso contraddittori su tutto, dalla durata dell' infezione ai metodi per contrastarla, e ubbidisce all' ultimo di essi che ha parlato. Le norme fissate dagli scienziati sono note e probabilmente poco efficaci, però in mancanza di certezze la maggioranza le accetta e le adotta. Non potrebbe fare diversamente. Ma torniamo alle benedette o maledette mascherine. C'è chi le trova e chi non le trova. Chi per acquistarne una spende cento euro e chi 5. Il popolo ignaro di certe problematiche non sa più a che santo votarsi per comprare l' oggetto miracoloso che gli garantisca l'immunità. La caccia al quale è diventata una delle principali attività dei compatrioti. Se non ne sei dotato non puoi uscire di casa, guai ad attraversare la strada; il supermercato, l'edicola e il tabaccaio sono inaccessibili. Forse ingenuamente mi domando: se tali mascherine sono tanto importanti, come mai dall' inizio della pandemia è tanto difficile averle a un prezzo ragionevole? Vero che mai nessuno da queste parti, fino a febbraio, aveva sentito l'esigenza di usarle, ma è altrettanto vero che per cucirne alcuni milioni non ci vogliono dei geni della tecnologia, sono sufficienti alcune fabbriche tessili che in una settimana possono sfornarne in quantità tale da sommergerci. Invece siamo qui ancora a tribolare come drogati in crisi di astinenza per impossessarci di questa stupidissima fascetta di tessuto. Il governo si dà tante arie però non è capace di risolvere un problema così semplice, quasi sciocco. Ora non si può che concludere: se le cosiddette autorità centrali e periferiche non sono in grado di munirci di una striscetta di squallida pezza che ci eviti la malattia, come si può sperare che siano in grado di eliminare la minaccia del Covid? Inoltre, durante questa fase drammatica, sono morti di Corona oltre 150 medici, senza contare gli infermieri, poiché sprovvisti di indumenti idonei a salvaguardarli dal contagio. Ho specificato "medici", ossia individui che al virus danno del tu. E sottolineo: se non siamo all'altezza di difendere i dottori nell' esercizio della loro delicata professione, come reputiamo di potere salvare da morte certa muratori e idraulici colpiti dal micidiale morbo? La risposta all' inquietante quesito è scontata: sono andati all' altro mondo migliaia di uomini e donne. Non per caso, bensì per asineria di qualcuno che doveva fare e non ha fatto.
Alessandro Rico per “la Verità” il 27 aprile 2020. Pierluigi Battista, storica firma del Corriere della Sera, si considera un «liberale preoccupato»: «La politica ha ceduto la sovranità a un' oligarchia tecnosanitaria e noi ci stiamo pericolosamente abituando all' illibertà».
Quindici task force, 450 esperti.
Le è chiara la catena di comando?
«C' era una volta l' utopia della Repubblica di Platone, con il re filosofo: non aveva nulla di democratico, ma almeno era un sapiente».
E adesso?
«Questi dell' oligarchia tecnosanitaria non sanno niente».
La democrazia però è salva.
«È sempre più indebolita».
Vede rischi di autoritarismo?
«Almeno nei regimi autoritari si creano sistemi di decisione rapidi ed efficaci, sul presupposto che chi comanda conosca cose che il popolo ignora. La nostra oligarchia tecnosanitaria è incredibilmente popolosa e tutta la sua presunta scienza si condensa in due raccomandazioni».
Quali?
«State a casa e lavatevi le mani».
Che poi, gli esperti, di cantonate ne hanno prese parecchie. C' è chi sostiene che l' errore della Lombardia sia stato di fidarsi dei protocolli nazionali sui tamponi, mentre il Veneto, che ha fatto test a tappeto infischiandosene delle direttive, ha quasi debellato il virus.
«È vero. E non si sono limitati a dire che bisognava limitare i tamponi. Walter Ricciardi, il burocrate delle linee guida dell' Oms, ha attaccato duramente il Veneto per qualcosa su cui era lui ad avere torto».
Come rimediare?
«Bisognava ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa. Invece loro fanno finta di niente».
Un' emergenza di questa portata era imprevedibile.
«Quando dicono di essere stati travolti da un' ondata inattesa, mentono. Andrea Crisanti ha cominciato da gennaio a procurarsi i reagenti per fare i tamponi in Veneto. Adesso parlano di piano segreto, ma se c' è un virologo che aveva previsto tutto, significa che gli altri sono come minimo degli imprevidenti».
Pure i politici hanno sbagliato.
«Loro, però, avevano lo spettro delle chiusure, della crisi, il problema del consenso. Certo, con "Milano non si ferma", Beppe Sala ha sbagliato. Giorgio Gori ha sbagliato quando diceva di essere contrario alle zone rosse nella Bergamasca».
Dopo ha rinfacciato ad Attilio Fontana di non averle istituite.
«Anche Fontana ha sbagliato tante cose. Matteo Salvini voleva riaprire tutto subito. Giorgia Meloni s' era fatta un video in inglese per invitare i turisti a venire in Italia, perché era tutto sotto controllo. E Roberto Speranza».
Il ministro della Sanità.
«Andava in tv a dire: "I tamponi sono una fotografia istantanea. Uno risulta negativo e poi magari s' infetta il giorno dopo". Può darsi: ma intanto, per un caso del genere, scoprivi altri nove positivi».
I politici non li condanna?
«Ripeto: hanno ceduto sovranità a un' oligarchia tecnosanitaria - il comitato tecnico-scientifico, le task force - che ha dimostrato di non avere alcuna competenza».
Trincerarsi dietro l' oligarchia degli esperti non è servito?
«Il paradosso è che abbiamo rinunciato a un pezzo di democrazia, ma senza ottenere l' efficienza dei regimi autoritari».
Il primo atto della task force di Vittorio Colao è stato cercare di procurarsi lo scudo penale.
«Assurdo. Se è un organo solo consultivo, che senso ha? Però da un lato è comprensibile questa paura degli interventi della magistratura. Prenda le banche».
A che allude?
«Non erogano i prestiti, vogliono lo scudo penale».
Il problema non è la burocrazia?
«Se devi snellirla e limiti i controlli, poi rischi di prestare soldi a un' impresa in odore di mafia. Dopodiché, come ti difendi?».
Anche la scienza ha dei limiti. Forse il problema vero è che ci avevano convinti che avesse tutte le risposte bell' e pronte.
«Sì, ma questi presunti esperti sono sempre perentori. Nessuno, umilmente, ammette di non saperne un cacchio. Stanno lì a pontificare nei talk show e al massimo si schermiscono dietro il: "Nessuno lo può escludere, non è detto". Ma se non è detto, allora non dirlo!».
Perché si comportano così?
«Perché pur non capendoci nulla, quella di imporre le chiusure è la manifestazione di un potere».
Perciò insistono per prolungare il lockdown?
«No, non sono un complottista. Dico solo che quando finirà tutto, rimarranno senza più una tribuna. Non li vorremo più vedere. Nella clausura generalizzata, invece, loro sono il potere».
Diversi giuristi, intanto, contestano la condotta di Giuseppe Conte: limitare le libertà fondamentali via Dpcm, esautorando il Parlamento e pure il capo dello Stato.
Che ne pensa?
«Non essendo un giurista, non so se questi decreti siano incostituzionali. A occhio, mi pare di sì. Il punto però non è questo».
Qual è?
«L' abitudine all' illibertà. All' emergenza permanente».
Cioè?
«Da due mesi stiamo vivendo un esperimento sociale disumano».
Addirittura?
«Non abbiamo più vita sociale, di lavoro, un contatto con il mondo esterno. Siamo chiusi dentro quelle che a volte sono capsule, perché la stragrande maggioranza della gente non vive in delle regge».
Con quali conseguenze?
«Molta gente comincia a pensare: "Che fortuna che arrivino le forze dell' ordine sul quad a beccare uno che sta prendendo il sole in spiaggia!". "Ah, maledetti runner!". "Ah, maledetti bambini!"."Ah, maledetti cani!"».
Inquietante.
«E sento intellettuali sostenere che da tutto questo dobbiamo imparare una lezione. Ma quale lezione? Stiamo vivendo una condizione disumana».
Lei ha contestato l' idea di segregare gli anziani fino a dicembre.
«Una misura iniqua, inutile, vessatoria, odiosa, discriminatoria, insensata. Questi stessi over 60, che non dovrebbero mettere piede fuori di casa, secondo la legge Fornero, che peraltro io condivido, devono continuare a lavorare. Possono lavorare, ma per il resto sono una specie protetta?».
Un paradosso.
«Dire a queste persone che devono stare chiuse in casa fino a Natale induce alla depressione. Significa trattarle come strumenti».
Anche se è per il loro bene?
«Pure i lager, i gulag, i roghi dell' Inquisizione erano per il bene del popolo. Badi, non voglio fare paragoni del genere. È il principio a restare uguale: ti salvo da te stesso. È questa visione che mi terrorizza».
E l' incertezza sulla durata del cosiddetto distanziamento sociale la turba? Conte dice: «Fino al vaccino». Ma per alcuni il vaccino arriverà verso fine anno, altri parlano addirittura di due o tre anni...
«Infatti: non puoi dire alle persone "forse fino a settembre", "forse fino a Natale" Forse che? Il sessantacinquenne al quale mancano due anni per la pensione, che fa? Lo licenziano? E come campa? Ma con questo torniamo al discorso sulla cessione di sovranità».
Che intende?
«La democrazia presuppone che si decida tenendo conto della complessità della società. Ma se affidi le decisioni a gente che vede solo un pezzetto di realtà, ti ritrovi così».
Così come?
«Con un governo e una maggioranza parlamentare che non corrispondono alla maggioranza degli elettori. Con un' Europa che decide la politica economica a prescindere dalla volontà popolare: il Parlamento europeo, d' altronde, ha eletto la presidente della Commissione senza tener conto degli esiti del voto, visto che sono stati determinanti i consensi dei grillini. E con un' oligarchia che ti impedisce di muoverti da casa».
Alla luce di ciò, viene da chiedersi: la campagna mediatica imbastita sugli elicotteri che sgominavano le arrostate di Pasquetta, allora, serviva a distrarci dagli errori di governo ed esperti?
«Ma certo. Il meccanismo del capro espiatorio: chiunque viola il principio dello "state a casa" è un nemico del popolo. Se le cose vanno male, è colpa di chi va a correre, di chi porta a pisciare il cane, di chi tira fuori un bambino per fargli prendere aria. Pura vessazione. Un' ondata delatoria».
Addirittura?
«Non voglio apparire lassista, ma perché chiudere i parchi? Basta qualche agente che controlla se si creano assembramenti e che, eventualmente, li separa. Invece guardiamo a quei poliziotti come se stessero beccando un delinquente.Tanti posti di blocco con i mitra non si videro nemmeno ai tempi del rapimento di Aldo Moro».
In effetti, ci si potrebbe domandare: perché questi mezzi non si dispiegano nella lotta al crimine?
«Questo però è un discorso che non mi piace. Non mi piace il drone che presidia la città. Non voglio sacrificare la libertà nel nome della sicurezza».
Lo stesso vale per l' app che traccia i contagi?
«Io l' app la scaricherei. Mi sembra una misura ragionevole. Ma a due condizioni».
Quali?
«Che si facciano i test a tappeto. Altrimenti non servirà a nulla».
E poi?
«Il mio timore è che questa roba resti anche a emergenza finita».
Ovvero?
«Lo Stato moderno deve avere poteri limitati. Chi mi dice che tutto questo non sarà usato contro di me? Lo Stato non deve sapere tutto di me. Già sa troppo».
Sa troppo?
«Controlla i conti bancari, gli acquisti effettuati con le carte, con il Telepass può vedere dove sei andato, con le tessere dei supermercati magari può scoprire pure quello che mangi. Gli manca solo questa roba qua: seguirti con il drone e con l' app».
Tanto i dati già ce li sottraggono i big del Web.
«Sono soggetti privati che li usano per la pubblicità. Qui si tratta di potere politico».
Ci garantiscono che il sistema rispetta le norme sulla privacy.
«E ci fidiamo? Nel Paese del trojan?».
Il (non) coraggio della politica. Martino Bertocci su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Il nostro Paese è ancora nell’emergenza Corona Virus. Ci troviamo in un momento di estrema difficoltà per tutti. Anche i nostri governanti devono prendere decisioni non facili, dopo vari ragionamenti e interlocuzioni con tutte le task-force e gli esperti. Nessuno di noi, credo, vorrebbe trovarsi attualmente a ricoprire la carica di primo ministro, che tiene in mano le sorti della nazione. Di tutto quello che avverrà dopo la crisi e di come l’Italia, si spera, riuscirà a riprendersi ha la responsabilità un solo uomo: il premier Giuseppe Conte. Ed è proprio lo stesso premier che ha sottolineato più volte questa sua responsabilità, dopo che gli era stata criticata l’istituzione di varie task-force, come se lui, la responsabilità di scegliere, non se la volesse prendere. La sera del 26 aprile è andata in scena l’ennesima conferenza stampa. Dopo i consueti dieci minuti di ritardo il premier si è presentato per spiegarci l’articolazione della “fase 2”. Mentre molti italiani erano in trepida attesa di sapere che cosa contenesse il decreto, il primo ministro ci ha intrattenuti con un lungo giro di parole per poi arrivare, solo in fondo, alla sostanza del nuovo DPCM. Il decreto è stato poi prontamente pubblicato e, rispetto a quelli passati, sembra essere più curato e dettagliato. Conte, come è giusto che fosse, ha ribadito più volte che questa nuova fase non va presa come un “libera tutti”, ma si dovrà continuare a mettere in pratica le misure di precauzione come nella fase 1. Il problema è uno soltanto: è davvero iniziata una nuova fase? Infatti rispetto alla fase uno si è aggiunta l’apertura di alcuni settori manifatturieri e di quello edile, e la possibilità di andare a trovare dei parenti che abitano nella stessa regione. Sicuramente è un primo passo avanti: molto importante la riapertura, almeno promessa a parole, dei cantieri nelle scuole. Investiamo in sicurezza visto che le aule sono vuote. Ma il resto? Il commercio al dettaglio rimane chiuso fino al 18 maggio, bar e ristoranti fino a giugno. La ripresa deve essere graduale e in sicurezza,ma non di questa lentezza. In Spagna e Francia alcuni settori non hanno mai chiuso e hanno continuato a lavorare in sicurezza. Lo stesso poteva essere fatto in Italia. Il governo deve vigilare sulla situazione, ma, al contempo, non si scordi di governare. Quello che sopratutto mi chiedo è il perché non ripartire regione per regione, a seconda del numero di contagi. La ripresa deve essere più decisa, dando in questo caso, più autonomia alle regioni. Sarebbe utile che le regioni coadiuvassero il governo centrale fornendo un programma per la ripartenza per il proprio territorio: così poi il governo, vagliate le proposte, potrebbe costruire un programma dettagliato e diviso regione per regione. Questo perché, ad esempio, la situazione della Toscana e ben diversa rispetto a quella lombarda. E forse sarebbe necessario spendere le risorse stanziate non per molti sussidi ma per mettere nella condizione di lavorare in sicurezza le molte aziende e i tanti negozi, che costituiscono la spina dorsale di questo paese. Il rischio più grave con la scelta di tardare le riaperture è che parte della classe media si ritrovi in quella più povera. Il punto critico è poi quello delle celebrazioni liturgiche. Si permette dal 18 maggio la ripresa degli allenamenti in gruppo e al contempo si ribadisce il divieto di celebrare una funzione religiosa. Come era logico che fosse, è arrivato un comunicato della CEI, intitolato “il disaccordo dei vescovi”. In questo documento viene espressa da parte della chiesa la perplessità di fronte alla decisione del governo, ricordando le parole della ministra Lamorgese che aveva ribadito che il governo era al lavoro per consentire la ripresa delle celebrazioni. Ed è giusto, a mio avviso, sostenere che sia stata violata la libertà religiosa. Si permette di fare sport e di non fare una funzione rispettando le normative di sicurezza? E poi in conferenza stampa si è fatto solamente un minimo accenno alle tematiche della famiglia e della scuola, che dovrebbero essere, come la tutela della salute e del lavoro, priorità per qualsiasi governo. Ribadisco che sia un momento difficile anche per il governo che deve fare delle scelte complicate, ma ieri sembrava, da quanto annunciato, l’inizio di una nuova era. Invece le aspettative di molti sono state deluse. Poca attenzione e chiarezza sul tema dei test seriologici e tamponi. Poi se allora decidono di non far riaprire alcuni settori, che arrivino i soldi direttamente dalle banche alle aziende. l’osservazione migliore è stata fatta dal sindaco di Firenze Nardella, che certo non può essere tacciato di far populismo, come alcuni urlatori seriali. Il Sindaco del capoluogo toscano ha elencato, dopo aver esposto il suo disappunto nei confronti del decreto governativo, i 20 punti che devono seguire imprenditori e lavoratori in piena emergenza covid per ottenere un prestito. Da ciò si deduce che le persone sono state lasciate in balia della burocrazia inestricabile e lenta, e quindi senza soldi. Infine posso dire che serviva più coraggio e visione per impostare la nuova fase. C’è in ballo la tenuta del sistema produttivo e il rischio che interi settori dell’economia perdano quote di mercato a vantaggio di aziende di altri paesi. Senza un piano strutturato, l’Italia non riparte ma rischia una crisi economica, occupazionale e sociale. Non siamo davanti alla fase due, ma alla uno e mezzo scarsa. Quello che è mancato è il coraggio per impostare una nuova fase, quella che ci deve portare ad un nuovo rinascimento.
Fabio Savelli per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2020. Un documento di 22 pagine che calcola fino a 100 scenari diversi partendo dalla data del 4 maggio. La relazione del Comitato tecnico-scientifico - di cui fanno parte Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità e Ranieri Guerra, rappresentante dell' Organizzazione mondiale della Sanità - finisce sul tavolo del premier Giuseppe Conte alcuni giorni fa ed è un bagno di realtà per chiunque a Palazzo Chigi pensava di allentare in maniera più decisa le misure restrittive. In 46 scenari il fattore R0, che indica il tasso di replicabilità del virus, resta ampiamente sopra l' 1, il parametro di riferimento per tenere a bada la curva epidemica. La tabella decisiva è la 2, che calcola le infinite variabili prese in considerazione per classi di età prendendo in esame «una trasmissibilità ridotta del 15%-25% rispetto a quanto osservato a inizio epidemia» per effetto del maggior uso di mascherine e per una popolazione più attenta al distanziamento sociale. Lo scenario A, quello della riapertura totale che riporterebbe le lancette a febbraio, è solo un caso-scuola. I numeri fanno rabbrividire. Se aprissimo tutto dal 4 maggio avremmo fino a 151 mila persone in terapia intensiva contemporaneamente con il picco previsto per l' 8 giugno. Entro fine anno i pazienti da intubare in insufficienza respiratoria sarebbero oltre 430 mila. Anche solo chiudendo le scuole lasciando gli altri settori aperti e non ragionando sulla mobilità e sul telelavoro oltre 109 mila persone finirebbero in terapia intensiva il prossimo 8 agosto. Un' ecatombe per qualunque sistema sanitario. I risultati elaborati dal Comitato spiegano in maniera inequivocabile le scelte dell' esecutivo. «Riaprire le scuole innescherebbe una nuova e rapida crescita epidemica di Covid-19» portando «allo sforamento del numero di posti letto in terapia intensiva attualmente disponibili». Per il commercio e la ristorazione «un aumento di contatti è da considerarsi un' inevitabile conseguenza dell' apertura di tali settori al pubblico e può potenzialmente innescare nuove epidemie». Così si comprende la scelta di far ripartire soltanto alcune attività: «Gli scenari compatibili con l' R0 sotto la soglia di 1 sono quelli che considerano la riapertura dei settori legati a edilizia e manifattura». Il Comitato mette nero su bianco anche alcuni elementi di incertezza che lasciano spazio a un margine di errore. Come il «valore dell' efficacia dell' uso di mascherine per la popolazione generale dovuto a una limitata evidenza scientifica» oppure variabili non misurabili come il «comportamento delle persone dopo la riapertura in termini di adesione alle norme sul distanziamento e all' efficacia delle disposizioni per ridurre la trasmissione sul trasporto pubblico». Elementi che «suggeriscono di adottare un approccio a passi progressivi» per un arco di tempo «di almeno 14 giorni accompagnata al monitoraggio dell' impatto del rilascio del lockdown sulla trasmissibilità di Sars-CoV-2». Non a caso la durata dell' ultimo dpcm, la cui scadenza è il 17 maggio. Aggiustamenti progressivi, quindi, ogni due settimane.
Fase 2, cosa dice il documento che ha frenato il governo sulla riapertura? Laura Pellegrini il 28/04/2020 su Notizie.it. Il governo ha pianificato la fase 2 sulla base del documento di riapertura presentato dal comitato scientifico: da cosa è stato frenato? Nella conferenza stampa del premier Conte di domenica 26 aprile molti italiani si aspettavano un passo decisivo e fermo del governo di fronte alla possibile riapertura. In troppi, però, sono rimasti delusi dal fatto che nulla o poco sia cambiato rispetto alla fase 1 e – se parrucchieri, estetisti e ristoratori hanno dato il via a una protesta – i cittadini non sono stati da meno. A partire dalla possibilità di incontrare i congiunti, il giorno seguente l’annuncio dell’inizio della fase 2, l’Italia è entrata nel caos. Ma il governo ha pianificato la riapertura basandosi su un documento elaborato dal comitato tecnico scientifico: che cosa potrebbe averlo spinto alla cautela?
Fase 2, il documento sulla riapertura. “Analizzando i dati sull’andamento del contagio appare evidente che lo spazio di manovra sulle riaperture non è molto“. Questa è la premessa che il comitato tecnico scientifico ha posto in calce al documento sulla riapertura in vista della fase 2. Una ripresa – quella dal 4 maggio – che, secondo la task foce guidata da Silvio Brusaferro, deve mantenere “un approccio di massima cautela“. Una relazione di 22 pagine che “presenta la valutazione dei rischi di diffusione epidemica per la malattia Covid-19 associata a diversi scenari di rilascio del lockdown introdotto l’11 marzo sul territorio nazionale”. Potrebbe essere stato questo documento a frenare il premier di fronte alla ripresa. La riapertura porterebbe con sé un inevitabile aumento dei contagi e vi sono in particolare alcuni settori dove la diffusione sarebbe molto semplice. Mentre per il settore edile e manifatturiero – scrivono gli esperti – questo scenario può considerarsi realistico, per il settore commerciale e di ristorazione un aumento di contatti in comunità è da considerarsi un’inevitabile conseguenza dell’apertura di tali settori al pubblico, e può potenzialmente innescare nuove epidemie. Sulla base di grafici e studi epidemiologici, il comitato arriva a definire alcuni punti sui quali prestare particolare attenzione.
I dati da considerare. Esistono, come detto, alcuni particolare settori di produzione e di aggregazione che potrebbero far scoppiare focolai incontrollabili e sui quali occorre prestare attenzione. La riapertura delle scuole – ad esempio – aumenterebbe in modo significativo il rischio di ottenere una nuova grande ondata epidemica in quanto muoverebbe masse di studenti che dai mezzi pubblici si ritroverebbero negli istituti scolastici. Ma un simile discorso, secondo gli esperti, vale per tutti gli scenari di riapertura in cui si prevede un aumento dei contatti in comunità. Un successivo punto riguarda invece la riapertura dei soli settori professionali (mantenendo le scuole chiuse), che provocherebbe un numero di contagi superiore al numero di terapie intensive disponibili a livello nazionale (circa 9000). Altre due ipotesi riguardano invece l’adozione delle protezioni. Nell’ipotesi in cui l’adozione diffusa di dispositivi di protezione individuale riducesse la trasmissibilità del 15%, “gli scenari di ripresa del settore commerciale potrebbe permettere un contenimento sotto la soglia epidemica solo riuscendo a limitare la trasmissione in comunità negli over 60 anni”. Se, invece, l’adozione diffusa di dispositivi di protezione individuale riducesse la trasmissibilità del 25%, “gli scenari di riapertura del settore commerciale e di quello della ristorazione potrebbe permettere un contenimento sotto la soglia solo riuscendo a limitare la trasmissione in comunità negli over 65 anni”. Questo significa che “l’utilizzo diffuso di misure di precauzione, il rafforzamento delle attività di tracciamento del contatto e l’ulteriore aumento di consapevolezza dei rischi epidemici nella popolazione, potrebbero congiuntamente ridurre in modo sufficiente i rischi di trasmissione per la maggior parte degli scenari sin qui considerati”.
Conclusioni. Infine, gli scienziati traggono alcune conclusioni. La prima riguarda un particolare dubbio sull’efficacia dei dispositivi di protezione. “Ci sono delle incertezze sul valore dell’efficacia dell’uso di mascherine per la popolazione generale dovute a una limitata evidenza scientifica oppure variabili non misurabili”. Queste incertezze, quindi, “suggeriscono di adottare un approccio a passi progressivi. Per questa ragione – proseguono – appare raccomandabile la sperimentazione delle misure (magari considerando una riapertura parziale delle attività lavorative) per un arco di tempo di almeno 14 giorni accompagnata al monitoraggio dell’impatto del rilascio del lockdown sulla trasmissibilità di SARS-CoV-2″. Ed è proprio quello che il governo ha deciso di fare: un graduale allentamento delle misure per alcune attività con l’istituzione delle cosiddette soglie sentinella.
Mauro Evangelisti per ilmessaggero.it il 30 aprile 2020. I positivi noti vanno moltiplicati per 10 o 20 per avere una stima reale di quanti in Italia sono in grado di trasmettere il virus. Così il professor Stefano Merler, della Fondazione Kessler, ha spiegato perché nello studio utilizzato dal Governo per decidere cosa fare dal 4 maggio si prevede che, senza misure di contenimento, a giugno vi sarebbero 150mila pazienti in terapia intensiva. Merler ne ha parlato alla conferenza stampa dell’Istituto superiore di sanità in cui, tra l’altro, è stata data risposta a chi aveva criticato la validità di quello studio. Inoltre, secondo Merler sono attendibili le stime dell’Imperial College secondo cui gli infettati sono almeno il 3-5 per cento della popolazione. «Il nostro sistema di sorveglianza - dice Merler che ha svolto lo studio per l’Iss e per il Comitato tecnico scientifico del governo su Covid - ha visto circa il 5-10 per cento dei casi totali». Se questo è vero significa che i positivi in Italia sono (o sono stati) circa 2 milioni. Le persone asintomatiche in Italia potrebbero essere fra il 4% e il 7% della popolazione, ha detto il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss), Silvio Brusaferro. Tuttavia il 10% delle trasmissioni, ha aggiunto Gianni Rezza dell'Iss, «si stima da persone che non hanno sintomi. Ciò va a favore dell'uso dei test sierologici». Sotto 60% popolazione colpita non c'è immunità di gregge e in Italia siamo molto lontani da questa soglia, ha sottolineato Brusaferro che ha anche illustrato i dati aggiornati sull’R0, la rapidità di diffusione, regione per regione: nel Lazio la stima media è a 0,62, il dati più basso in Umbria, 0,19, quello più alto in Molise, 0,84 (ma su pochissimi casi).
Rissa sul dossier anti-aperture: "Errori? Non sanno fare i conti". La Fondazione Kessler attacca: le divisioni si imparano in quinta elementare, livello umiliante. L'Iss difende lo studio. Redazione, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. «Ci accusano di aver fatto male i conti. Non è così: i nostri conti sono esatti. Noi facciamo scienza. Ho imparato a fare le divisioni in 5 elementare non posso tornare indietro: scendere a certi livelli è umiliante». È davvero seccato Stefano Merler che con la Fondazione Kessler offre i suoi modelli matematici sull'andamento dell'epidemia all'Istituto Superiore di Sanità. Modelli che però hanno suscitato critiche e perplessità. Sono stati sottoposti ad «autopsia» da parte di centri studi indipendenti che avrebbero individuato grossolani errori di calcolo nelle stime. Ma anche chi non mette in dubbio l'esattezza dei calcoli si chiede quale sia l'utilità di fare ipotesi sullo scenario peggiore per la peggiore delle casistiche quando poi ci sono altre variabili. Molti si chiedono se non sarebbe meglio fare ipotesi sulla gestione della situazione attuale. Medici ed esperti sottolineano come in queste settimane si sia imparato molto sul virus e dunque si dovrebbe essere più in grado di fronteggiarlo avendo fatto tesoro dell'esperienza. I calcoli possono essere giusti ma il mondo del lavoro ha bisogno di ripartire e la ripresa non può essere condizionata da modelli matematici. In particolare è stata criticata l'ipotesi del worst scenario, il peggiore, che prevede 150mila pazienti in terapia intensiva nel giro di poche settimane nel caso in cui non si ponessero misure di contenimento. Merler ha ribattuto punto per punto le contestazioni. Alla base delle critiche, dice lo studioso, un assunto sballato: ovvero quello fare i calcoli di un'eventuale crescita dei casi basandosi soltanto sul numero dei casi emersi mentre è certo che il numero delle persone positive ma asintomatiche in circolazione reale è superiore, forse dieci volte di più. Merler ha tenuto conto di due fattori: quante persone possono essere contagiate da un singolo infetto, l'oramai famigerato Rzero, e in quanto tempo si manifestano i sintomi. Ovvero l'intervallo durante il quale si è infetti senza saperlo. «Quelli che oggi sono in grado di trasmettere Sars Cov 2 non sono i mille-duemila che ci dà giornalmente la Protezione civile. - puntualizza Merler- Ma sono anche quelli che si sono ammalati ieri, l'altro ieri, nei giorni scorsi, e non sono ancora guariti sono molti di più. E sono solo quelli che siamo in grado di testare, la punta dell'iceberg». La stima sulla nostra popolazione, prosegue Merler, indica che dal 3 al 5 per cento della popolazione è potenzialmente infetto, circa 4 milioni di persone. «Noi, quindi, vediamo il 5 forse il 10 per cento del totale. E questo significa quindi che i positivi in grado di trasmettere l'infezione sono quel numero moltiplicato per 10 o per 20». In uno scenario «liberi tutti» privo di qualsiasi misura di contenimento, con una riapertura di tutte le attività comprese quelle con indice di rischio potenzialmente più alto l'indice di contagio schizzerebbe in alto a 2,25, con un tempo di generazione di contagio calcolato in 6,6 giorni circa ecco che ci si potrebbe ritrovare nello scenario da incubo insostenibile definito dal modello. Ma appunto è uno scenario che prevede non si prenda nessuna misura di contenimento mentre la popolazione oramai sembra aver assimilato tutti i comportamenti legati alla prevenzione: le mascherine, l' igiene e il distanziamento. Infine l'ultimo appunto da parte dell'Iss per quelli che hanno bocciato lo studio: nei loro calcoli hanno dimenticato i morti.
TUTTI I DUBBI SULLE (FARLOCCHE?) STIME ALLARMISTICHE DEL CTS PER LA RIAPERTURA. Gianfranco Polillo per startmag.it il 29 aprile 2020. C’è un documento (“Valutazione di politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di esposizione professionale”) che, a quanto pare, ha guidato le più recenti decisioni governative sulla fase 2. Il paper, composto da una ventina di cartelle, pieno zeppo di grafici, diagrammi e tabelle, è stato redatto dal Comitato tecnico scientifico e sottoposto al vaglio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, prima del varo del nuovo decreto, che ha stabilito le nuove regole. Criteri che hanno sollevato più di un vespaio e fatto insorgere uomini di chiesa e semplici cittadini. Per non parlare di tutti coloro – imprenditori, commercianti, professionisti e via dicendo – che, non avendo altri redditi se non quelli prodotti dal proprio lavoro, temono giustamente per il proprio futuro. La pubblicazione di quel documento è stato, al tempo stesso, una cosa positiva. Trasparente avrebbe chiosato il presidente del Consiglio. Ma anche, per molti versi, imbarazzante. Presenta una struttura, infatti, scarsamente intellegibile anche per coloro che hanno dimestichezza con i numeri e le statistiche. Si presta quindi alle più varie interpretazioni. Ha riportato ad esempio, la Repubblica che “se tutti i comparti avessero subito via libera, senza telelavoro e con le scuole aperte, la prospettiva sarebbe la necessità di 151 mila posti di terapia intensiva già a giugno e un numero di ricoveri, a fine anno, pari a 430.866”. Cifre terrificanti. In effetti questi dati sono riportati in una specifica tabella, tralasciandone una ancor più raccapricciante che mette nel conto le diverse probabilità di contagio per classi d’età. I picchi previsti, nel caso di apertura del manifatturiero, edilizia, commercio ed alloggi, sono pari a 151.231 casi di terapia intensiva, nella giornata dell’8 giugno, nel caso in cui vi sia riapertura delle scuole e nessun telelavoro. A 109.970 casi (picco 8 agosto) lasciando le scuole aperte, ma senza telelavoro. A 85.079 (un po’ più della metà) nel caso in cui le scuole rimanessero chiuse, ma con presenza di telelavoro, nel qual caso il picco avverrebbe il 31 agosto. Nelle tre ipotesi le terapie intensive a fine anno sarebbero pari rispettivamente a 430.866 casi, 397.472 e 365.198. Tutte queste ipotesi inoltre scontano limitazioni per gli over 65. “Sono queste le raccomandazioni – commenta Repubblica – che hanno spinto Conte a prolungare nei fatti il lockdown. Ma il premier non ha seguito tutte le indicazioni del comitato, che consigliava di mantenere il divieto di fare attività motoria solo vicino alle proprie abitazioni. L’ultimo Dpcm, invece, prevede la riapertura dei parchi. E nessuna limitazione è stato imposta, al momento, alla circolazione degli anziani”. Circostanza, quest’ultima, che riempie di gioia. Riconoscendo pienamente i nostri limiti, confessiamo di non essere in grado di validare né le cifre indicate, né le sottostanti metodologie. Operazione del resto difficile, vista la carenza di informazioni fornite. Un dato tuttavia non può non far riflettere e generare allarme. Dal 24 febbraio, data in cui sono iniziate le rilevazioni da parte della Protezione civile, a ieri, i casi di terapia intensiva sono stati, in media, 2.272. Con la punta massima di 4.068 casi del 3 aprile. Un numero che non è commensurabile con quello indicato dal rapporto del Cts, che ipotizza un salto pari a circa 30 volte. Che naturalmente vi può anche essere, ma che andrebbe, comunque, analizzato e soprattutto spiegato. Anche perché se quello dell’8 giugno fosse il dato effettivo, immaginando i rapporti che già hanno caratterizzato il decorso della pandemia, fino ad oggi, dovremmo avere, già in quella data, un numero di ospedalizzati pari a più di 1,3 milioni di malati e oltre 3,8 milioni di contagiati. Che, a fine anno, diverrebbero più di 11 milioni. Quasi il 17 per cento dell’intera popolazione. Il disastro che porterebbe alla chiusura dell’intero Paese. Quindi attenzione. E’ stato un errore prevedere di affrontare la fase 2 con il semplice ricorso a un Dpcm. Altri – da Sabino Cassese a Antonio Baldassarre e Gustavo Zagrebelsky – hanno avanzato dubbi di costituzionalità. La stessa Marta Cartabia, in qualità di presidente, nella sua relazione annuale sul funzionamento della Corte Costituzionale, ha avuto parole inequivocabili, “sollecitando la collaborazione e il coordinamento fra le varie istituzioni, dal Parlamento al Governo, dalle Regioni alla magistratura”. Se si fosse scelto la strada di un decreto legge, anziché di un Dpcm, la validazione delle cifre contenute in quel documento sarebbe avvenuto in contraddittorio, secondo le formule previste dai Regolamenti parlamentari. Forse la stesura finale non sarebbe cambiata. Ma almeno avremmo avuto qualche certezza in più circa la natura dei pericoli verso i quali il Paese sta correndo.
ALCUNE CONSIDERAZIONI MATEMATICO STATISTICHE SUL DOCUMENTO RIAPERTURE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO. Da holdingcarisma.it il 29 aprile 2020. Di seguito proponiamo a mero titolo di dibattito statistico matematico una analisi del documento che secondo fonti pubbliche (articolo di Repubblica del 28.04) avrebbe portato il governo a prendere le decisioni in merito al programma di riapertura.
1. Si dice che si utilizza un ifr (uguale tasso di fatalità) su contagi pari 0,657% (Pagina 2): Pertanto calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva (3 Aprile - come noto inferiore ai dati Istat differenziali rispetto all’anno scorso e quindi stima chiaramente per difetto) si tratta di 1.385.000 contagiati.
2. Si dice (figura 1) che il tasso di incidenza di “caso critico” su infezioni (quindi i 1,3 milioni di casi in Lombardia) sia stato stimato partendo dal tasso di infezione e letalità di cui sopra. Pagina 2.
3. Poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia sono stati al picco 1.381 e attualmente circa 724, si desume che l’incidenza tra casi terapia intensiva e infezione (il grafico di figura 1) è mediamente 0,1% (divisione semplice fatta secondo i metodi del comitato tecnico scientifico). Il grafico presuppone un’incidenza per fascia di età, che anche stimando a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe per semplicità a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età. Nel grafico di Figura 1 (CHE È LA BASE DI TUTTO IL RAGIONAMENTO PRO CONTINUAZIONE LOCKDOWN E DEL MODELLO DEL COMITATO TECNICO SCIENTIFICO) tale incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%) con un errore di almeno 10 volte (10x)!!! Anche ipotizzando che il fabbisogno di letti terapia intensiva in Lombardia sia stato 2.000 e non 1.381 l’errore resta superiore a 6x. Analizzando la situazione del Veneto, dove non c’è stata scarsità di letti di terapia intensiva, l’errore resta di 6x.
4. Proseguendo nell’analisi, il caso di Scenario A (tab 2 - pag. 11), cioè tutto aperto sempre nelle ipotesi del comitato tecnico scientifico, si arriva a 150k casi di terapia intensiva l’8 giugno e 440k casi totali cumulati al 31 dicembre: applicando l’esperienza di incidenza della terapia intensiva in Lombardia di cui sopra, e utilizzando i parametri molto conservativi del cts, si arriva a sostenere che partendo dal dato consuntivo in Lombardia (0,1% al picco) esisterebbero in Italia 150 milioni di cittadini (151k/0,1%) ndr con età superiore a 20 anni perché come noto sotto tale età l’incidenza della terapia intensiva è trascurabile. Vorremmo conoscere subito i 100 milioni di connazionali a noi ignoti.
5. Calcolando il dato complessivo e stimando che le persone che sono stati in terapia intensiva in Lombardia siano finora a circa 3.500 in totale (dato non comunicato ma probabilmente sovrastimato) con una incidenza di 0,17% sul totale casi in Lombardia si arriva a una stima di popolazione italiana di di 260 milioni di abitanti (440k/0,17% - calcolato sempre con i parametri cts). Anche in questo caso vorremmo conoscere i 200 milioni di connazionali a noi ignoti.
6. Nel modello sviluppato dal cts apparentemente tutte gli scenari conseguenti sono coerenti con quello che dalla lettura attenta appare un errore di calcolo (sempre che nel documento non siano riportate assunzioni non comunicate). Non essendo scienziati e virologi e non lavorando per il governo ci siamo sicuramente sbagliati. Vorremmo però che qualcuno correggesse la nostra semplice matematica, basata su parametri di ifr (0,657%) che potrebbero essere anche inferiori sulla base esperienza internazionale (New York, Singapore, Diamond Princess, Qatar, Islanda) e su una serie di altre assunzioni del modello, in particolare quella relativa alla chiusura scuole. Anche accettando quelli che appaiono errori di calcolo, notiamo che il modello in 45 dei 46 scenari esaminati conclude che le previsioni di picco della terapia intensiva sono significativamente inferiori alla capacità nazionale (ca. 9.000 posti), salvo poi raccomandare uno scenario di apertura molto lento comunicato dal Governo in data domenica 26 aprile.
Annalisa Chirico a Non è l'arena sulla Fase 2: "Il governo Conte è troppo debole, i virologi decidono per la politica". Libero Quotidiano il 27 aprile 2020. “Il governo è troppo debole per decidere, Giuseppe Conte non si assume la responsabilità neanche di esporre le sue idee, non l’ho sentito parlare di una strategia chiara”. Annalisa Chirico è molto critica dopo l’annuncio del premier sulla fase 2, che è stata praticamente delegata al comitato tecnico scientifico. “Per i virologi - ha dichiarato a Non è l’arena su La7 - probabilmente sarà possibile tornare liberi solo quando i contagi saranno pari a 0 o quasi. Questo è un punto di vista che comprendo, però la politica è una cosa diversa, deve assumersi responsabilità e fare scelte, altrimenti eleggeremmo i virologi in Parlamento”. Inoltre la Chirico ritiene che il governo stia commettendo un grosso errore sulla Chiesa: “In tutta Italia le persone non possono andare a messa, credo che sia una violazione di un diritto costituzionale”.
“Magistrati e virologi hanno preso il potere”. Parola di Giovanni Minoli su Il Dubbio il 20 aprile 2020. Secondo lo storico giornalista ci sono molte similitudini tra l’epoca di Mani pulite e la caccia al colpevole del Pio Albergo Trivulzio. E se il Coronavirus fosse il riciclo di Mani Pulite e gli infettivologi colmassero un vuoto? Una tesi bizzarra? “Tutt’altro: lo scontro fra virologi che si contraddicono reciprocamente, specie in tv, è importante. Nel vuoto di potere creato dal contagio sono loro e gli epidemiologi che hanno preso il potere; e, di fatto, guidano il governo centrale e regionale. Sono divisi tra loro: c’è chi vorrebbe tener chiuso il Paese per sempre e chi vuole aprirlo gradualmente. Nei loro scontri, negli onnipotenti comitati scientifici, si è spesso evocato l’intervento alla magistratura. Che poi, infatti, è arrivata. Per certi versi anche fortunatamente. Ed ecco la strage dei vecchietti che movimenta la folla dei parenti delle vittime in cerca legittimamente di giustizia, ma soprattutto i magistrati in cerca del colpevole”. Parola di Giovanni Minoli, un giornalista che la stagione di Mani pulite e quella del grande protagonismo delle procure l’ha vissuta in prima linea. Nella commissione d’inchiesta sul Trivulzio, il sindaco di Milano Sala si affida a Gherardo Colombo, già componente del pool Mani Pulite che accese Tangentopoli proprio da lì: il 17 febbraio 1992 venne arrestato Mario Chiesa. Inquietante coincidenza? “Non è un caso che sia stato richiamato Colombo dalla pensione, a garantire la trasparenza ed il buon esito delle indagini proprio partendo dal Trivulzio. Una specie di rinnovato emblema di caccia al male. La speranza è che, nella furia delle indagini, qui, non si arrivi a sconfinare nella caccia ai veri eroi di questa stagione buia, ai medici; se ne contano, per ora, 180 che hanno perso la vita nella trincea del contagio. Non mi sembrerebbe il caso…”, spiega Minoli, “Il punto di partenza è una strana coincidenza tra l’epoca del Coronavirus e quella di Mani Pulite. Pensaci. La nuova inchiesta nasce dal luogo-simbolo del ’92, da Pio Albergo Trivulzio; e da lì che la magistratura da un po’ di tempo sopita, ora torna in campo. Ci stiamo avviando ad una stagione di accuse, rivendicazioni, class action. Il Trivulzio è come fosse un marchio d’infamia, un crocevia simbolico tra bene e male”, chiude Minoli.
Quelli che bloccano la riapertura. Nicola Porro, Il Giornale 19 aprile 2020. Ve lo ricordate il Procuratore generale Francesco Saverio Borrelli quando, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, disse: «Resistere, resistere, resistere»? Ce l’aveva con le ipotesi di riforma della giustizia, con la proposta di separare le carriere. Il ministro di allora, Castelli, giustamente ribatté: «L’indipendenza della magistratura non è in discussione, ma non lo è neanche quella del governo». Mi viene in mente questa scena di quasi vent’anni fa, perché ora siamo pronti alla medesima invasione di campo. Con un bell’appello televisivo a Burioni, Rezza e Ricciardi: resistere, resistere e resistere agli arresti domiciliari. Gli illustri scienziati oggi sono intoccabili come i magistrati ieri. Con una differenza drammatica: il governo attuale è loro docile vittima. Sono i teorici, di fatto, del rischio zero, e gli spacciatori delle prossime paure. Attenzione alla seconda ondata, ammoniscono. Poco importa che solo fino a gennaio avessero sottovalutato la prima. Poco importa che i loro istituti non avessero piani pronti all’uso non dico per affrontare la pandemia, ma almeno una direzione unica sull’uso delle mascherine. Poco importa che nel loro campo specifico, la ricerca di soluzioni mediche, brancolino nel buio. Poco importa che molti loro colleghi, molto meno televisivi, dicano che la prossima ondata è tutta da dimostrare. Poco importa che i loro stipendi, così come le loro strutture, siano pagati da quelle fabbriche, da quegli artigiani, da quei commercianti, da quei professionisti che oggi (e per loro anche domani) devono rimanere a fatturato zero. Loro sono là, con il loro resistere, resistere, resistere. E se ieri chi era contro l’operato di una piccola ma esibita parte della magistratura era di fatto un corrotto, oggi chi si oppone alla trimurti, alla trinità indù dei santoni del virus, è uno sciacallo e adoratore del «Dio Denaro» (il ministro Boccia dixit). Come se poi quel denaro non servisse a tenere in piedi, per dirne una, ospedali e assistenza. La scienza, come ci ha insegnato Popper e non Paperino, «si muove per congetture e confutazioni», eppure per i nuovi eroi del virus, essa appare infusa, acquisita per dono di Dio. Quella stagione di iper-giustizialismo ha compromesso la nostra competitività. Abbiamo talmente incasinato le regole amministrative, commerciali e fiscali da rendere complicatissimo fare affari in questo Paese: abbiamo legiferato sulla patologia della possibile ed eventuale corruzione, non ragionando sulla sua fisiologica presenza. Per il ladrocinio di pochi corrotti abbiamo messo le catene a tutti. Oggi rischiamo altrettanto con il giustizialismo sanitario. Per arrivare a rischio zero, una follia, metteremo un’ulteriore bardatura alla nostra attività privata. È già scritto. Non si piegano le evidenze scientifiche, finché rimangono tali, alle incompetenze della politica. Non ha senso, per essere pratici, contestare i vaccini su basi fantascientifiche. Ma possiamo bene chiedere alla nostra trimurti di tornare nei propri laboratori, senza atteggiarsi più a santoni del virus. Ci hanno capito poco, e quel poco lo dicono con troppa arroganza.
Massimiliano Lenzi per “il Tempo” il 17 aprile 2020. Giorgio Agamben, filosofo, assieme a Vittorio Sgarbi è una delle poche voci della cultura italiana critiche verso gli arresti domiciliari degli italiani, causa coronavirus, e verso la sospensione delle loro libertà per decreto. Noi de "Il Tempo" lo abbiamo intervistato.
L' Italia ormai è un paese governato dai virologi, la politica ha delegato ogni responsabilità alla scienza, causa coronavirus. Le pare normale?
«La scienza è diventata la religione del nostro tempo, de) in cui gli uomini credono di credere e, come avviene in ogni religione, il confine che la separa dalla superstizione è molto sottile. Se ho detto credono di credere è perché ciò che la gente comune riceve dalla scienza è ancora più vago e approssimativo di quello che i bambini ricevevano dal catechismo. Chiunque abbia qualche nozione di epistemologia non può, ad esempio, non essere sorpreso dal modo in cui vengono fornite le cifre dei decessi, non soltanto senza metterle in rapporto con la mortalità annua nello stesso periodo, ma senza nemmeno precisare le cause effettive della morte. In ogni caso affidare decisioni che in ultima analisi sono politiche a dei medici e a degli scienziati estremamente pericoloso. Gli scienziati perseguono i loro fini, giusti o sbagliati che siano, e non sono disposti a fermarsi per considerazioni di ordine etico, giuridico o politico. Devo ricordare che scienziati considerati all' epoca assolutamente seri hanno approfittato dei lager nazisti per poter eseguire esperimenti letali che non era possibile eseguire altrimenti su esseri umani e che essi ritenevano di dover fare nell' interesse della scienza? Come spiegare altrimenti che un virologo che ha delle gravi responsabilità nella situazione che si è creata in Italia abbia potuto proporre che tutti gli individui sani positivi al covid-19 siano sequestrati dalle loro abitazioni e chiusi in qualcosa che non si può definire altrimenti che in celle di isolamento? Possibile che non si renda conto di stare violando in questo modo non soltanto tutti i principi della nostra Costituzione e del nostro ordinamento giuridico, ma anche la semplice umanità? E come è possibile che non vi sia nessun giurista e nessun giudice che abbia levato la sua voce per ricordarglielo».
Come è potuto accadere quello che stiamo vivendo, la sospensione delle libertà ed il vivere nella paura? Solo per il terrore di morire?
«In verità noi siamo abituati da decenni a vivere in un perpetuo stato di emergenza. Come lei sa, i decreti di urgenza, di cui si è servito il governo, sono nel nostro paese il sistema normale di legislazione, attraverso il quale il potere esecutivo si è sostituito al potere legislativo, abolendo di fatto quella divisione dei poteri che definisce la democrazia. In questo caso, il terrore irresponsabilmente sparso dai media è stato uno dei fattori determinanti. L' altro è la trasformazione della rappresentazione del nostro corpo per effetto della medicalizzazione crescente. La scienza ci ha abituati da tempo a scindere l' unità della nostra esperienza vitale, che è sempre insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva, culturale e sociale dall' altra. Si tratta di un' astrazione, ma di un' astrazione che la scienza moderna ha realizzato attraverso i dispositivi di rianimazione, che, come lei sa, possono mantenere anche allungo un corpo in uno stato di pura vita vegetativa. Quello che sta avvenendo oggi che questa condizione, che ha senso solo se rimane nei limiti spaziali e temporali che le sono propri, è uscita dalla camera di rianimazione per imporsi come una sorta di principio di organizzazione sociale. Più in generale, credo che quello che la situazione che stiamo vivendo ci fa toccare con mano è che la nostra società era malata non in senso medico, ma umanamente e politicamente e che da qualche parte, senza rendersene conto, lo sapeva. Solo questo può spiegare che milioni di uomini abbiano accettato di sentirsi appestati. Evidentemente, in un altro senso, lo erano veramente».
Il filosofo francese Michel Foucault aveva messo in guardia, nei suoi scritti, sul potere della scienza: non crediamo più in Dio e crediamo nei virologi?
«La Chiesa, trasformandosi in una ancella della scienza, ha tradito i suoi principi essenziali. Ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi, che visitare gli ammalati è una delle opere della misericordia, che lasciar morire degli uomini senza i funerali è inumano, che i sacramenti si possono conferire solo in presenza».
Il fatto che non ci sia una fine a questa emergenza, perlomeno una fine indicata dalla politica che per decreto ha sospeso le nostre libertà, non mette a rischio la democrazia?
«La democrazia non è a rischio, si è già da tempo trasformata in qualcosa che i politologi americani chiamano Security state, in cui ogni esistenza politica diventa di fatto impossibile e, attraverso l' onnipervasiva dizione per ragioni di sicurezza, siamo stati gradatamente abituati a rinunciare alle nostre libertà. Una situazione come questa che stiamo ora vivendo non fa che spingere all' estremo dispositivi di controllo che erano già presenti e che ci faranno apparire come innocenti i dispositivi degli stati totalitari, che del resto, com'è avvenuto per la Cina, vengono additati a modello. Occorre che la gente si renda conto che misure di controllo come esistono oggi non sono esistite sotto il fascismo. Ed è chiaro che non si tratta di un' emergenza temporanea, dal momento che le stesse autorità che ora ci impediscono di uscire di casa, non si stancano di ricordarci che anche quando l' emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il distanziamento sociale, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. Quella che si sta preparando è non una società, ma una massa disgregata i cui membri dovranno tenersi a distanza per evitare il contagio, ma di fatto per rendere impossibile non solo l' amicizia, l' amore e le altre relazioni umane, ma soprattutto quella che un tempo si chiamava la vita politica. Ma non si vede con quali dispositivi giuridici queste misure potranno essere imposte in modo stabile. Con uno stato di eccezione permanente?».
Il critico d’arte, ospite a Quarta Repubblica di Nicola Porro. Alberto Giorgi, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Spieghiamo. Ospite del salotto televisivo di Quarta Repubblica, il programma di approfondimento politico condotto da Nicola Porro nella prima serata del lunedì di Rete 4, il critico d’arte ha commentato e ha criticato aspramente. Il deputato e sindaco di Sutri, infatti, Sgarbi se l’è presa anche con il noto virologo Roberto Burioni, parlando di una sorta di "dittatura degli esperti e della scienza": "Burioni? È un mio amico, ma ha deciso di sostituirsi anche al Papa dicendo che si può pregare anche a casa. Scopriremo che siamo sotto una dittatura della scienza che ha una posizione, ma non una soluzione ad oggi. Dio quindi è fuori tema, Dio. è morto".
"Dagli scienziati pretendiamo chiarezza". Da huffingtonpost.it il 14/04/2020. Il ministro Boccia: "Non ci possono essere tre o quattro opzioni su ogni tema. La politica per decidere deve avere certezze inconfutabili dalla scienza". Agli amministratori che riaprono? "Se ne assumono la responsabilità". “Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema. Chi ha già avuto il virus, lo può riprendere? Non c’è risposta. Lo stesso vale per i test sierologici. Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza. Noi politici ci prendiamo la responsabilità di decidere, ma gli scienziati devono metterci in condizione di farlo. Non possiamo stare fermi finché non arriva il vaccino”. La chiosa di una intervista che il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia ha dato al Corriere della sera. Che fa emergere un problema che c’è, strisciante tra la scienza che deve dare indicazioni e la politica che deve scegliere, presto e bene, verso la fase 2 di cui ancora non si vedono i contorni. Ma il ministro mette anche in guardia coloro tra i governatori di Regione che intendono prendere libere iniziative nelle pieghe dell’ultimo dpcm. “I presidenti che vogliono riaprire se ne assumono la responsabilità”, dice Boccia, che aggiunge: “Parlare di normalità vuol dire illudere la gente, perché se fai un errore distruggi settimane di sacrifici di tutti. A chi non ha colto l’insegnamento di questi 45 giorni perché annebbiato dal dio denaro, ricordo che l’Italia conta 160 mila casi e 20 mila morti. Chi pensa che il futuro sarà come il passato pre coronavirus, non ha capito in che fase del mondo siamo entrati”
La pedanteria sanitaria. Per i medici tutto fa male. Pedante. Nell’uso moderno, e per lo più in senso spregevole, e chi, nell’insegnamento e nello studio e nella cura, si richiama continuamente alle regole, osservandole e facendole osservare con scrupolo meticoloso e scarsa intelligenza; per estensione, di chi pone una cura eccessivamente minuziosa, meticolosa, pignola in qualsiasi cosa faccia: Finalmente i medici sono riusciti a renderti la tua vita sana, ma vissuta in un inferno.
Coronavirus, non uscire di casa, non fare sesso, non mangiare le patate fritte. Arrigo D'Armiento il 10 Aprile 2020 su romadailynews.it. La sapete quella delle patate fritte? Un uomo va dal dottore per un controllo. Dopo la visita, il dottore gli dice: “Le condizioni generali sono buone, tuttavia io le raccomando vivamente di smettere di fumare”. Il paziente: “Veramente io non fumo, non ho mai fumato”.
Il medico: “Bene, ma mi raccomando, smetta di bere alcolici, al massimo mezzo bicchiere di vino ai pasti”. Il paziente: “Veramente io non bevo alcolici, sono totalmente astemio”.
Il medico: “Bene, bene. Però, non esageri con le donne, col sesso, ha una certa età, deve trattenersi”. Il paziente: “Dottore, io sono assolutamente casto, vado in chiesa tutte le mattine, ho sposato soltanto Cristo e la Madonna”.
A questo punto il medico spazientito sbotta: “Ma c’è una cosa, almeno una, che le piace?”. Il paziente: “Bè, veramente, io ho una certa predilezione per le patate fritte, le mangio spesso”. Il medico non trattiene un urlo: “Basta! Da oggi non mangi più le patate fritte!”.
Quanta saggezza nelle barzellette! Perché il medico ha proibito al malcapitato paziente di mangiare le patate fritte? Semplice, perché proibendo al paziente una cosa, qualsiasi cosa, il medico lo spinge a fare mea culpa. Se ti ammali, se hai problemi di salute, la colpa è tua, non mia che non so curarti.
È la stessa ricetta che la chiesa ci propina da millenni, vietandoci un sacco di cose a cui non sappiamo né possiamo rinunciare. La trovata più perfida e più utile, utile ai preti, è di proibirci di fare sesso se non alle condizioni stabilite da loro.
Agli adolescenti è proibito masturbarsi, ai ventenni di fornicare con le ragazze, ai mariti e alle mogli di ricorrere alle corna per rendere meno noioso il matrimonio. E hanno la faccia tosta di vietare tutte queste naturali tendenze con la trovata che sono contro natura. Contro natura le tendenze naturali? Contro natura la cosa più naturale del mondo, conseguente all’istinto di conservazione della specie?
Loro, i preti, lo sanno benissimo che contro la natura non c’è proibizione che tenga. Proprio per questo ricorrono a quei divieti, così chi non obbedisce, e non obbedisce nessuno, si sente in colpa, poi più recita il mea culpa e più si sottomette al potere dei preti.
Perché vi ho raccontato queste cose? È per ricordarvi che le autorità sanitarie e politiche ragionano alla stessa maniera: vietano al gregge di stare all’aperto, pur sapendo che il contagio di covid-19 è molto meno facile all’aperto che al chiuso. Facendo jogging o passeggiate, rimanendo a più di un metro di distanza dagli altri, non ci si infetta. Affollandoci al supermercato o sui mezzi pubblici, ci si infetta facilissimamente.
Così, se ti infetti, è colpa tua che sei uscito di casa, non colpa delle autorità che non ti hanno dato la mascherina e che hanno tagliato i fondi alla sanità non avendo l’abitudine di guardare al passato per prevenire i danni nel futuro.
DAGOREPORT l'8 aprile 2020. Scontro tra Giuseppe Conte e il comitato scientifico che lo affianca a Palazzo Chigi. “Non posso fare quello che voi dite, l’economia deve ripartire o il paese rischia il fallimento. Dobbiamo essere competitivi con i mercati internazionali”. Ancora: “Non possiamo obbligare troppo a lungo la gente in casa. Ci sono problemi psicologici di cui bisogna tener conto. Non siamo in Cina. Quello è un regime. Un altro modo di pensare. In base al declino dell’emergenza sanitaria, dal 18 aprile ci sarà una ripresa graduale. ” Dal Pd, però, arrivano alcune critiche. Ma sulla comunicazione. “Non possono esserci troppe voci: Arcuri, Borrelli, Ricciardi. Occorre che sia una sola persona che parli alla popolazione”.
Alberto Gentili per “il Messaggero” il 5 marzo 2020. E' un comitato di otto uomini a dettare lo stile di vita degli italiani ai tempi del coronavirus. Si riunisce ogni giorno nella sede della Protezione civile in via Vitorchiano, al Flaminio. E ogni giorno elabora indicazioni per il premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e per il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Oltre a collaborare con Walter Ricciardi, consulente di Speranza e delegato dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). E' da questo comitato tecnico scientifico - diventato operativo con l'ordinanza del 3 febbraio, varata due giorni dopo la dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria nazionale - che è arrivata l'indicazione di istituire le zone rosse in Lombardia e Veneto e poi sono partiti i comandamenti anti-virus per l'Italia intera: il metro di distanza, il divieto di baci, strette di mano e abbracci, le partite a porte chiuse, oltre all'invito agli over 65 di restare a casa, esattamente come a chi ha appena due linee di febbre. E, per tutti, il suggerimento a evitare luoghi affollati. Ma proprio ieri c'è stata la prima frattura tra governo e comitato, con il parere contrario degli esperti alla chiusura delle scuole. Il confronto, a volte, inevitabilmente diventa aspro. L'incarico di coordinatore è affidato ad Agostino Miozzo, della Protezione civile. Il braccio destro di Borrelli ha 67, è veneto, e ha una lunga esperienza cominciata con una laurea in Medicina all'Università di Milano, cui è seguito un corso di perfezionamento in chirurgia ostetricia presso l'università di Harare. Miozzo è soprattutto un uomo macchina, un regista delle misure per fronteggiare le emergenze: da quella dei migranti, alla siccità, ora l'epidemia da Covid-19. Non a caso è stato direttore della Protezione civile europea.
La vera mente scientifica, il membro del Comitato che dice l'ultima parola su contagi e profilassi, è Giuseppe Ippolito, dal 1998 direttore dell'Istituto nazionale delle malattie infettive Spallanzani. Il pane di Ippolito, salernitano, 65 anni, sono da sempre i virus. A cominciare da quello dell'Aids. Con una lunga esperienza nelle istituzioni internazionali, inclusa la lotta contro Ebola. «Quando Ippolito parla, premier e ministro pendono dalle sue labbra», raccontano alla Protezione civile.
Lo stesso vale per Ricciardi, 61 anni, napoletano, rappresentante per l'Italia nell'executive board dell'Oms, consulente personale di Speranza. E per Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore della Sanità, friulano, 59 anni, specializzato in igiene e medicina della sanità pubblica. E co-fondatore e coordinatore dal 2011 del network europeo per la prevenzione delle infezioni.
C'è però chi dice che il più ascoltato, assieme a Ippolito, sia Claudio D'Amario, direttore generale della prevenzione sanitaria presso il ministero della Salute. Nato a Francavilla (Chieti) 61 anni fa, D'Amario è un internista con specializzazione in medicina preventiva. Aveva già accettato l'incarico di capo dipartimento della Salute della Regione Abruzzo, ed era atteso a L'Aquila, quando è stato chiamato a far parte del Comitato. E Marco Marsilio, il governatore abruzzese, ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Il ministro Speranza e Borrelli ci hanno pregato di lasciarlo con loro per altri due mesi. Per noi è un sacrificio, ma siamo orgogliosi di lui».
Altro pezzo da novanta della task force anti-virus è Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute. Di lui, nato ad Amalfi 62 anni fa, dicono che ha una grande esperienza nella «gestione delle emergenze» e che «è uno che sa farsi rispettare».
C'è poi Mauro Dionisio, direttore dell'ufficio di coordinamento della sanità marittima, aerea e di frontiera. Napoletano, 58 anni, medico specializzato in igiene e medicina preventiva, è l'esperto da cui sono arrivate nei primi giorni dell'emergenza le indicazioni per il contenimento dell'epidemia proveniente dall'estero con i presidi in porti e aeroporti.
Settori per i quali il Comitato si avvalso anche dell'esperienza e dei suggerimenti di Francesco Maraglino, direttore della Direzione generale del ministero della Salute per la prevenzione sanitaria delle malattie trasmissibili e la profilassi internazionale. Pugliese, 57 anni, Maraglino sovrintende anche al potenziamento dell'organizzazione ospedaliera.
Nel comitato tecnico scientifico di Conte e Speranza è presente infine Alberto Zoli, direttore generale dell'Azienda regionale lombarda per l'emergenza e l'urgenza, pure lui specializzato in medicina preventiva. E' stato designato dalla Conferenza delle Regioni per svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione tra governo e presidenti regionali. Ruolo non proprio semplicissimo, visti i rapporti tesi tra palazzo Chigi e i governatori leghisti.
Michele Di Lollo per ilgiornale.it il 22 marzo 2020. Gli scienziati sono divisi. Medici, ricercatori si trovano spesso in disaccordo su come affrontare l’epidemia da coronavirus. E questo è uno di quei casi. L’associazione Patto trasversale per la scienza (Pts) ha inviato una diffida legale a Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano. La misura è stata messa in campo "per le gravi affermazioni ed esternazioni pubbliche sul coronavirus, volte a minimizzare la gravità della situazione e non basate su evidenze scientifiche". Pts chiede a Gismondo di rettificare alcune sue affermazioni che possono indurre la popolazione a violare i precetti governativi con ricadute in termini di salute pubblica, soprattutto perché provenienti da un medico con responsabilità istituzionali nella regione più colpita d’Italia. Gli scienziati contestano alla microbiologa affermazioni come: "È una follia questa emergenza, si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale (del 23 febbraio). Non voglio sminuire il coronavirus, ma la sua problematica rimane appena superiore all’influenza stagionale (1 marzo). Tra poco il 60-70% della popolazione è positivo, ma non dobbiamo preoccuparci (13 marzo). L’epidemia potrebbe esser mutata, sta succedendo qualcosa di strano (21 marzo)". Parole che secondo il Pts rischiano di turbare l’ordine pubblico, come previsto dall’articolo 656 del codice penale (Pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico), se non supportate da evidenze scientifiche. Gli scienziati chiedono a Gismondo di rettificare immediatamente le sue argomentazioni che potrebbero aver indotto a una minimizzazione del problema coronavirus, nonostante le robuste evidenze della drammaticità della situazione. E la invitano ad astenersi dal diffondere notizie se non supportate da evidenze scientifiche. L’associazione Patto trasversale per la scienza (Pts) riunisce ricercatori, scienziati, clinici, divulgatori, giornalisti e avvocati. E ha come principale obiettivo difendere i cittadini e la loro salute dalla pseudoscienza, dalle fake news medico-scientifiche, dai ciarlatani e da chiunque attenti alla salute pubblica. Nomi come: Guido Silvestri, virologo dell’Emory University. Andrea Cossarizza, patologo generale dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Massimo Clementi, microbiologo, Università Vita e Salute San Raffaele. Andrea Antinori, infettivologo dell’Irccs Spallanzani. Antonella D’Arminio Monforte, infettivologa dell’UniMi. Luciano Butti dell’Università di Padova. Andrea Grignolio dell’Università Vita e Salute San Raffaele. Enrico Bucci, Temple University. Guido Poli, virologo dell'Università Vita e Salute San Raffaele. Vincenzo Trischitta, endocrinologo, Università Sapienza. Francesco Maria Galassi, paleopatologo della Flinders University. Marco Tamietto, neuroscienziato, Università di Torino. La missione del Patto per la scienza è chiara: difendere la popolazione dalla diffusione di atteggiamenti anti-scientifici e difendere l’onorabilità e la credibilità della comunità scientifica. Cosa che probabilmente, Maria Rita Gismondo, non ha fatto.
Gismondo: "Mia frase? Altri virologi hanno detto la stessa cosa". La virologa si è detta amareggiata e disorientata dalla diffida a lei rivolta dal Pts. Ha poi sostenuto che altri virologi avevano detto la stessa cosa. Valentina Dardari, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. Maria Rita Gismondo ha replicato alla lettera di diffida legale inviatale dal Patto trasversale per la scienza, Pts. La direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano, ha sottolineato di avere la coscienza a posto e che chi l’ha attaccata è pietoso. Inoltre ha detto: “Non torno indietro sulle mie dichiarazioni. Invece di perdere tempo in queste cose, perché non si uniscono al mio appello a lavorare tutti insieme? Diamo spazio alla scienza". La misura nei suoi confronti era stata presa a seguito delle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Gismondo che sono state volte a minimizzare la gravità della situazione e comunque non sono basate su evidenze scientifiche. Pts aveva quindi chiesto alla virologa di tornare sui suoi passi e rettificare alcune sue esternazioni che potevano creare problemi alla salute pubblica. Molti italiani, dopo averla ascoltata, avrebbero potuto violare le ordinanze governative sottovalutando la reale emergenza in atto. Diversi gli scontri avvenuti tra Gismondo e Burioni nel corso delle ultime settimane.
Anche altri avevano detto le stesse cose. “Se chiedono a me di fare un passo indietro sulle mie dichiarazioni, devono farlo anche per quelle del virologo Pregliasco, di Ilaria Capua e del direttore dell'Oms. Non devo dimostrare nulla perché quello che ho detto è pubblicato ovunque. La Capua, ad esempio, ha detto che questo virus diventerà come un raffreddore”. La direttrice ha inoltre precisato di non essere mai stata a un tavolo governativo e quindi di non aver potuto in nessun modo aver influenzato nelle decisioni prese. La Gismondo ha detto di aver solo espresso un proprio parere, spiegando che Covid-19 è un virus ancora sconosciuto che potrebbe rivelarsi positivo o negativo. Ma questo ancora non si sa, dipenderà dalla sua evoluzione.
La Gismondo si è detta amareggiata. "Sono piuttosto amareggiata e disorientata dalla diffida, se ne stanno interessando i miei legali" ha concluso la virologa. Gli altri scienziati avevano contestato alla direttrice alcune affermazioni come quella del 23 febbraio dove aveva detto che l’emergenza era una follia e che un’infezione appena più seria di un’influenza era stata scambiata per una pandemia letale. O ancora: “Non voglio sminuire il coronavirus, ma la sua problematica rimane appena superiore all’influenza stagionale (1 marzo). Tra poco il 60-70% della popolazione sarà positivo, ma non dobbiamo preoccuparci (13 marzo). L’epidemia potrebbe esser mutata, sta succedendo qualcosa di strano (21 marzo)". Frasi che possono far minimizzare la situazione o anche creare il panico nella popolazione. La Gismondo, proprio in seguito a queste dichiarazioni pubbliche, era stata invitata a evitare di diffondere notizie senza che queste fossero supportate da evidenze scientifiche. La virologa ha infine dichiarato di non aver "nessuna voglia, né intenzione di replicare al mittente. Solo tristezza per la perdita di tempo e per l'immagine di divisione che si dà alla gente che oggi vorrebbe vedere i ricercatori uniti a cercare di risolvere l'emergenza che stiamo vivendo”.
Maria Rita Gismondo, Capo laboratorio di virologia ospedale Sacco Milano, per “il Giornale” il 20 aprile 2020. Egregio direttore, mi è giunto, come un fulmine a ciel sereno, il suo articolo del 16 aprile. Mi farebbe piacere, avere la possibilità di fare chiarezza al fine di correggere alcune sue affermazioni e deduzioni. Mi descrive «La prima firma scientifica del Fatto Quotidiano», nonché la sua Musa, lasciando intendere di aver indossato una maglietta politica. Sono e rimarrò sempre una voce libera e non indosserò mai nessun distintivo o maglietta. Nel suo articolo, in un' unica frase, lei unisce due mie dichiarazioni che sono state fatte in contesti e tempi diversi. La prima: «Succede che noi stiamo facendo uno screening a tappeto, è logico perciò che andiamo a intercettare numerose positività, ma la maggior parte di queste persone ha banali sintomi influenzali». La seconda: «Si è scambiata un' infezione appena più seria di un' influenza per una pandemia letale», ripresa dalla diffida inviata ai media e mai a me (da qui un palese scopo diffamatorio) dal Patto Trasversale per la Scienza. Tali concetti erano stati preceduti dalle affermazioni di Burioni a Che Tempo che fa («Pericolo zero per l' Italia») e con termini ancora più rassicuranti da Lopalco (firmatario della diffida) a La7 il 27 febbraio: «L' 85% sono casi lievi, come un' influenza classica». Concetto confermato da altri colleghi (Pregliasco, Galli, Capua). Per maggiore chiarezza la prima frase incriminata è un mio post privato su Facebook: «È una follia questa emergenza, si è scambiata un' infezione appena più seria di un' influenza per una pandemia letale» (23.2.2020). Lo scopo era spegnere il panico crescente mentre, ricordo, in Italia si registravano solo i primi casi autoctoni circoscritti a Codogno. Ecco cosa affermavano altre accreditate fonti. Il 25 febbraio 2020 il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana dichiarava: «Cerchiamo di sdrammatizzare: questa è una situazione senza dubbio difficile ma non così tanto pericolosa. Il virus è aggressivo e particolarmente rapido nella diffusione, ma nelle conseguenze molto meno, è poco più di una normale influenza». Il Consiglio Nazionale delle Ricerche sottolineava: «Per evitare eccessivo allarmismo è bene ricordare innanzitutto che 19 casi su una popolazione di 60 milioni di abitanti rendono comunque il rischio di infezione molto basso». Il virologo Fabrizio Pregliasco precisava il 23 febbraio: «È una malattia che rientra nelle cosiddette infezioni respiratorie acute che fanno da corollario all' influenza in ogni inverno». E il 24 febbraio Ilaria Capua rassicurava: «Il Coronavirus circolerà per mesi, ma niente allarmismo ingiustificato, bisogna chiamarla sindrome similinfluenzale da Coronavirus. Questo è l' unico modo in cui possiamo liberarci dal panico» (dal sito Il Bo Live). Poi c' è la seconda frase: «Non voglio sminuire il coronavirus, ma la sua problematica rimane appena superiore al l' influenza stagionale». Frase estrapolata dalla disamina dei dati pubblicati dall' Istituto Superiore della Sanità sulle influenze, da cui deducevo che «non deve preoccuparci la letalità, ma la velocità di diffusione» e precisavo: «L' emergenza potrebbe avere pesanti ripercussioni sul sistema sanitario». Spero che quanto riportato sia sufficiente a far sì che non mi reputi, per il ruolo che rivesto, un pericolo pubblico, come ha scritto, ma mi consideri una virologa che in questo momento si sta impegnando per la salute di tutti, ultimamente con sforzi immensi, anche sacrificando la vanità, irresistibile per alcuni colleghi, della visibilità mediatica.
Coronavirus, scienziati diffidano Gismondo: "Affermazioni pericolose". L'associazione Patto trasversale per la scienza: "Cautela da chi indossa un camice e gode anche di una ribalta pubblica". La replica: "Chi mi attacca è pietoso". La Repubblica il 22 Marzo 2020. L'associazione Patto trasversale per la scienza (Pts) ha inviato una diffida legale a Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano, "per le gravi affermazioni ed esternazioni pubbliche sul coronavirus, volte a minimizzare la gravità della situazione e non basate su evidenze scientifiche". Pts chiede a Gismondo di "rettificare alcune sue affermazioni che possono indurre la popolazione a violare i precetti governativi, con nefaste ricadute in termini di salute pubblica, soprattutto perché provenienti da un medico con responsabilità istituzionali nella regione più colpita d'Italia". Gli scienziati contestano alla microbiologa "affermazioni quali:
"è una follia questa emergenza, si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale" (del 23 febbraio);
"non voglio sminuire il coronavirus ma la sua problematica rimane appena superiore all'influenza stagionale" (1 marzo);
"tra poco il 60-70% della popolazione è positivo ma non dobbiamo preoccuparci" (13 marzo);
"l'epidemia potrebbe esser mutata, sta succedendo qualcosa di strano" (21 marzo)".
Per questo chiedono a Gismondo di "rettificare immediatamente le sue argomentazioni che potrebbero aver indotto ad una minimizzazione del problema coronavirus, nonostante le robuste evidenze della drammaticità della situazione", e la invitano ad "astenersi dal diffondere notizie se non supportate da evidenze scientifiche". Un attacco al quale replica poco dopo Gismondo. "Ho la coscienza a posto e chi mi attacca è pietoso. Non torno indietro sulle mie dichiarazioni. Invece di perdere tempo in queste cose, perché non si uniscono al mio appello a lavorare tutti insieme? Diamo spazio alla scienza", attacca Gismondo. "Se chiedono a me di fare un passo indietro sulle mie dichiarazioni, devono farlo anche per quelle del virologo Pregliasco, di Ilaria Capua e del direttore dell'Oms - aggiunge Gismondo - Non devo dimostrare nulla perché quello che ho detto è pubblicato ovunque. La Capua, ad esempio, ha detto che questo virus "diventerà come un raffreddore". Inoltre non sono mai stata in un tavolo governativo e non posso aver influenzato nessun decisione - prosegue la Gismondo - Ho espresso un mio parere e ho sempre detto quello che si sa sul coronavirus, ovvero che è un virus sconosciuto e potrebbe rivelarsi positivo o negativo a seconda del cammino che farà".
Coronavirus, lo sfogo duro della Gismondo "Il test Event a cosa è servito?" La virologa chiede perché non siano state seguite le indicazioni riportate nei documenti stilati dopo le esercitazioni per le emergenze come quella del 2019 che simulava una pandemia da coronavirus. Gabriele Laganà, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. La direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale "Sacco" di Milano, Maria Rita Gismondo, sembra non avere più dubbi. Dopo le prime affermazioni sul coronavirus, che considerava essere una infezione poco più forte di una influenza, ora pare aver cambiato posizione. Già nei giorni scorsi, a seguito della lettera di diffida legale inviatale dal Patto trasversale per la scienza per le due dichiarazioni in merito alla malattia, la virologa aveva provato a difendersi affermando che anche altri colleghi avevano sostenuto una tesi simile. "Se chiedono a me di fare un passo indietro sulle mie dichiarazioni, devono farlo anche per quelle del virologo Pregliasco, di Ilaria Capua e del direttore dell'Oms. Non devo dimostrare nulla perché quello che ho detto è pubblicato ovunque. La Capua, ad esempio, ha detto che questo virus diventerà come un raffreddore". La stessa Gismondo aveva anche affermato di aver espresso un proprio parere, spiegando che Covid-19 è un virus ancora sconosciuto che potrebbe rivelarsi positivo o negativo. Ora, in una lettera al Fatto Quotidiano, invita tutti a far tesoro di quanto sta accadendo in questo drammatico periodo. Questa terribile esperienza, per la virologa, deve servire per prepararsi a quanto potrebbe accadere in un prossimo futuro."Passata la pandemia Covid-19 comincerà il countdown verso la prossima pandemia. Se tutto andrà bene avremo otto, dieci anni di tregua: impieghiamoli al meglio. Non è stato così dall’ultima pandemia (la suina del 2009)", ha scritto la Gismondo. La virologa ha anche spiegato che, proprio per prepararsi a scenari di emergenza sanitaria, in passato ci sono state diversi "addestramenti": "Event 201 è l’ultima di quattro esercitazioni relative a uno scenario di pandemia. La prima, Dark Winter, si era svolta nel giugno 2001 (dopo l’allerta antrace); Atlantic Storm nel 2005 (dopo la Sars); e Clede X nel maggio 2018. Event 201 si è tenuta il 18 ottobre 2019 a New York (sic!) con una pandemia da coronavirus simulata". Tralasciando la casualità tra l’ultima esercitazione e la pandemia appena iniziata, la Gismondo si dice stupita che nei documenti redatti dopo il lavoro siano state sempre comprese alcune raccomandazioni da tener presenti per prepararsi ad una emergenza sanitaria. Fra queste vi è l’invito rivolto a tutte le nazioni di mantenere un adeguato stock pile, o scorta essenziale, che include i Ppi, le protezioni individuali come guanti, mascherine e camici monouso e i farmaci tra cui antidoti, antibiotici e vaccini. Inoltre, nello stesso documento si invitano i Paesi ad avere un piano di riconversione sanitaria che permette un rapido utilizzo dei posti letto in base all’emergenza. "Se queste esercitazioni non fossero rimaste documenti sulle scrivanie dei burocrati del mondo, non saremmo qui a elemosinare materiale necessario tra uno Stato e l’altro. Non avremmo decine di tavoli tecnici che si inventano (adesso) come organizzare l’emergenza sanitaria", ha scritto la virologa che, infine, ha aggiunto come l'emergenza sanitaria legata al coronavirus "che stiamo vivendo, fra le possibili pandemie ipotizzate, non è certo la più grave. Impareremo la lezione? Dobbiamo!".
La virologa Gismondo: "Ecco cosa accade in rianimazione". La responsabile del laboratorio del Sacco: "Questa è un'infezione che fa ammalare il 10% degli infettati". Ma precisa: "Non voglio sminuirne la gravità". Francesca Bernasconi, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. "Non c'è solo il Covid-19". È questo il titolo che introduce i pensieri della virologa, responsabile del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo, che riflette sulla pandemia da coronavirus, con un articolo apparso sulle colonne del Fatto Quotidiano. Lo scorso 20 febbraio, l'Italia è piombata nell'incubo coronavirus: quella sera, il pazente 1, è risultato positivo al Covid-19. E, da quel momento, scrive Gismondo "è come se, approfittando del sonno di Ulisse, avessimo aperto l' otre regalatagli da Eolo. Giorno dopo giorno è scomparso tutto: la fame nel mondo, i bambini siriani, attentati, infarti, ictus, femminicidi". Tutto, secondo la virologa sarebbe stato trasformato nella malattia causata dal Covd-19. "Se hai il mal di testa, pensi al tampone. Se incontri qualcuno, pensi che ti stia contagiando", scrive. Poi, la Gismondo riferisce di un incontro con un rianimatore, "di quelli che si sporcano le mani giorno e notte infilando tubi in pazienti rantolanti", che le avrebbe confermato la numerosa presenza di pazienti in arrivo nelle sale di rianimazione: "E ne muoiono", ha detto alla virologa, specificando che si tratta soprattutto di persone anziane, con altre patologie più gravi. Gli altri, invece, solitamente guariscono. "Il vero problema di queste polmoniti rispetto a quelle causate da altre complicanze- avrebbe sottolineato il rianimatore- è che i pazienti restano in rianimazione per settimane". Ma allora, riflette la virologa del Sacco, "la vera crisi è quella del sistema sanitario". E riferisce: "Prese le dovute cautele per contenere il contagio, questa è un'infezione che fa ammalare il 10% degli infettati e provoca la morte soprattutto come fattore “opportunista”, non come causa primaria". Una conclusione cui l'esperta è arrivata tramite l'osservazione di numeri e condizioni: "Nessun tentativo di sminuirne la gravità", quindi.
La resa di Vittorio Sgarbi. A La Zanzara su Radio 24 ammette: “Non ero preparato a parlare di un argomento come il Coronavirus”. “Recito il mea culpa, dobbiamo essere responsabili. Ma sono stato depistato da esperti che consideravo capaci”. “Avigan? Lo testerei su di me, senza problemi”.
Dagospia il 26 marzo 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Dovremmo essere tutti responsabili. Io non ero sufficientemente preparato ad affrontare un tema come questo, che mi sembrava più piccolo di quanto non sia nelle proporzioni”. Dopo un mese di polemiche e battibecchi in radio e tv, a La Zanzara su Radio 24 Vittorio Sgarbi ammette: “Non avevo titolo a parlare, posso solo fare valutazioni sui dati. E dico che nel mondo potrebbero esserci il settanta per cento di contagiati. Dunque le considerazioni polemiche che io ho fatto sono in realtà difficili da sostenere oggi perché siamo in guerra contro un mostro sconosciuto. Non abbiamo delle armi per affrontarlo. E’ come l’urlo di Munch e non si capisce perché, non è che gli sparano. Non si sa cosa ha. Non sapere è molto più pesante che sapere. Dunque mea culpa, mea grandissima culpa. Ma sono stato depistato da persone che consideravo rassicuranti e capaci”.
Matteo Sacchi per “il Giornale” il 30 marzo 2020. Non è facile gestire la comunicazione durante le emergenze men che meno durante questa del Coronavirus. Tanto che Vittorio Sgarbi, uno che difficilmente si scusa, si è scusato ripetutamente per alcune sue affermazioni che sono state viste come minimizzanti il pericolo, soprattutto da chi non è abituato al modo di comunicare «espressionista» -lui stesso lo definisce così- del noto critico d' Arte. Ci abbiamo fatto due chiacchiere al telefono.
Sgarbi lei raramente si scusa. Questa volta sì perché?
«Mi scuso raramente perché raramente sbaglio, generalmente ho ragione... In questo caso io ho ascoltato svariati virologi che hanno, almeno sino al 9 marzo, stimato il pericolo del covid-19 come relativo... Poi la situazione è stata valutata diversamente. E io mi sono trovato nel mezzo di una tempesta polemica in cui non avrei dovuto trovarmi. È stato da irresponsabile perché non dovevo far circolare informazioni rassicuranti che esulano dalla mia competenza. Però è anche vero che io sono irresponsabile di quelle informazioni la cui responsabilità ricade sui competenti che le davano. E che non mi pare si scusino. Guarda ho i link, te li giro».
E mentre parliamo e anche adesso che trascrivo ogni secondo il telefono fa blink ed è un altro documento o video che manda Sgarbi col virologo di turno che diceva la sua minimizzando il rischio (o così facilmente può sembrare al profano).
Hanno fatto impressione alcune sue affermazioni sull' andare a Codogno. Erano incitazione a violare le zone rosse?
«Non volevo incitare nessuno a violare nessuna normativa. Ho parlato con persone della zona e anche di Piacenza. Si sentivano trattate come appestati. Io volevo veicolare un messaggio di carità cristiana, ai malati si sta vicini. Ovviamente senza violare quarantene e andando quando la zona veniva indicata come bonificata. Non volevo fare nessuna provocazione o violazione. Volevo trasmettere ottimismo e che questa malattia non è come la peste. Ma di nuovo sono stato frainteso e quindi mi scuso. Lo ridico: mai incitato nessuno a violare decreti. Anzi temo che le chiusure e il tutti a casa siano stati fatti anche con ritardo. Ma di tutto questo si discuterà quando avremo i dati finali. Lo ridico: sono stato irresponsabile a fidarmi di informazioni che credevo scientifiche e certe, ma non lo erano. Adesso leggo poesie su facebook e parlo di arte cose su cui sono competente io e mi appartengono».
Qualcosa però avrebbero anche potuto non travisarla?
»Sì quando ho insultato il virus dicendo che il Covid è come il buco del culo stavo solo dicendo che il virus fa schifo, che è una merda. In quel caso sono proprio stato frainteso al di là di quello che stavo chiaramente dicendo».
Alla fine suona molto come: ho sbagliato ma volevo stare dalla parte delle persone...
«C'era gente che si sentiva spaventata e mi scriveva: vogliamo tornare a vivere. Io volevo trasmettere speranza e ribadisco un messaggio cristiano. Volevo essere propositivo contro la paura. Non certo far violare leggi o decreti. Mi scuso se ho comunicato in modo troppo spregiudicato...Io mi batto in parlamento perché anche i carcerati possano mantenere le distanze di sicurezza per il virus previste per legge, pensate anche a chi è in custodia cautelare... Il carcere non può trasformarsi in una condanna ad ammalarsi o morire».
Coronavirus, Vittorio Sgarbi denunciato dagli scienziati: «Ho solo raccomandato precetti cristiani». Il Mattino Domenica 15 Marzo 2020. Dopo i video e i messaggi sul Coronavirus, Vittorio Sgarbi è stato denunciato dall'associazione Patto Trasversale per la Scienza (Pts). Attraverso i suoi canali social il critico d'arte aveva più volte minimizzato l'emergenza Covid-19. A Chi l'ha Visto? il suo atteggiamento era stato equiparato a un reato, ma lui ci tiene a chiarire di non aver istigato nessuno. Durante la trasmissione si faceva riferimento al suo invito ad andare in giro e persino a Codogno. Su Facebook la replica all'esposto penale dell'associazione fondata da Roberto Burioni e Guido Silvestri. «Le mie posizioni sono quelle di molti scienziati. Dal Governo strategia della tensione per coprire le inefficienze del sistema sanitario. Ogni mia dichiarazione è ispirata alla posizione di uomini di scienza che hanno indicato i limiti del virus rispetto alla mortalità». «Nessuna mia affermazione - scrive il critico d'arte - prescinde dalle posizioni di virologi ed epidemiologi quali Gismondo, Bassetti e Tarro, ai quali mi sono ispirato. Non ho istigato nessuno - sottolinea - ma ho raccomandato i precetti cristiani della visita agli infermi nel momento in cui si è dichiarato che a Codogno il virus era stato debellato». «Tra le opere di misericordia - continua Sgarbi - c’è l’obbligo di visitare gli infermi. Denuncio quindi la prepotenza, l’aggressione, la presunzione di verità di chi, in nome della scienza, nega i dati oggettivi sulla malattia, virale ma non mortale, per coprire le insufficienze dello Stato nella sanità, procurando allarme e confondendo le cause di morte per attribuirle indebitamente al Coronavirus». E ancora: «Per questa strategia della tensione si inventano associazioni inesistenti e farlocche, che approfittano della paura e della intimidazione, come il sedicente “Patto trasversale per la scienza”, che non ha niente a che fare con la scienza e che è espressione di una prepotenza che approfitta della paura dei cittadini e la propaga». Poi l'annuncio: «Ho dato mandato all’avvocato Cicconi di procedere contro chi si investe della scienza senza averla, diffondendo ignoranza. Vi chiedo - conclude - di condividere questo messaggio».
Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 20 marzo 2020. «Impiego dell’esercito per effettuare i controlli nelle città: si moltiplicano le richieste di governatori e sindaci inviate al Viminale e per questo la ministra Luciana Lamorgese ha ribadito che dovranno essere i prefetti a valutare le istanze nell’ambito dei comitati provinciali dove sono presenti i rappresentanti delle forze dell’ordine e le autorità locali. Le riunioni sono previste in queste ore e intanto anche il titolare della Difesa Lorenzo Guerini sta pianificando eventuali rinforzi per chi è già impegnato nell’operazione “strade sicure”.
Il confine. Cento soldati si stanno schierando al confine con la Slovenia così come chiesto dalla provincia di trieste tari dell’Esercito italiano assegnati alla provincia di Trieste e impiegati al valico di Fernetti per fermare le autovetture in transito, effettuare i controlli dei documenti e richiedere le autocertificazioni degli occupanti comprovanti la necessità dello spostamento in base alle misure per il contenimento del contagio da Coronavrius. Si tratta di un’attività di cosiddetto “retrovalico” (non effettuata cioè sulla linea di confine italo-sloveno) che andrebbe a interessare non solo i valichi principali della provincia triestina, ma anche quelli secondari e le zone boschive prossime al confine di Stato con la Slovenia: quelle maggiormente percorse cioè dai migranti in arrivo sulla Rotta balcanica.
La Sicilia. «Controllo preventivo e una più intensa attività sanzionatoria nei centri abitati, con particolare riguardo ai capoluoghi di provincia e agli approdi dello Stretto» sono stati chiesti dal presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, vista «la perdurante diffusa inosservanza delle norme di prevenzione della diffusione del Covid-19» e per questo ha chiesto a Lamorgese di «potenziare il numero delle pattuglie delle Forze dell’Ordine, «ricorrendo, ove ritenuto necessario, anche ai militari dell’Esercito impegnati in Sicilia nell’operazione Strade sicure». I soldati, potrebbero arrivare sull’isola già venerdì come concordato tra il presidente e la ministra.
La Campania. Altri 100 soldati sono invece già in arrivo in Campania. La comunicazione della ministra dell’Interno è arrivata al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca e «per definire nei dettagli l’organizzazione della missione, si riunisce oggi il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica con i prefetti della Campania interessati».
Le città. Le istanze arrivano dai governatori, ma anche dai sindaci. Il primo cittadino di Verona, Federico Sboarina, ha chiesto al prefetto scaligero il supporto dell’Esercito per presidiare il territorio: «È una settimana sempre più critica, da quando è iniziata l’emergenza stiamo vivendo il momento più difficile. Tra ieri sera e oggi a Verona si sono registrati altri 5 decessi, 7 nell’intera provincia. Finora non abbiamo mai avuto numeri simili negli ultimi due giorni ci sono stati ben 100 nuovi casi ogni 24 ore e i ricoveri in terapia intensiva da domenica sono triplicati». In linea il sindaco di Civitavecchia Ernesto Tedesco che ha scritto al Prefetto di Roma, Gerarda Pantalone, per chiedere «se ritiene opportuno sostenere gli sforzi di quanti lavorano sul territorio attraverso la disponibilità ed il coinvolgimento dell’Esercito. La presenza di militari rappresenterebbe anche un concreto deterrente psicologico per quanti continuano a non comprendere la serietà del problema ed escono di casa senza alcuna valida motivazione. Nella nostra città saremmo tra l’altro avvantaggiati dalla presenza di caserme operative, una delle quali con specifiche e insostituibili specializzazioni rispetto alla problematica che stiamo affrontando».
Conte e i prefetti. Ieri il premier Giuseppe Conte ha chiamato il prefetto di Piacenza per «manifestargli vicinanza per le comunità colpite e apprezzamento per il lavoro svolto da tutti i prefetti» e per questo il segretario dell’Anfaci Laura Lega ha ribadito «la necessità in questo momento, come non mai, la necessità di assicurare una presenza dello Stato autorevole». «Noi ci siamo in ogni momento» aggiunge il prefetto Lega, accanto a sindaci, categorie produttive e a quanti assicurano i servizi pubblici essenziali: «Con un dialogo senza sosta con tutti gli attori del territorio operiamo per dare risposte rapide e concrete alle comunità così gravemente colpite dall’epidemia». Lega rivolge infine un ringraziamento «a tutti e in particolare al personale sanitario che sta mostrando un grandissimo spirito di sacrificio, un esempio per tutti noi, e alle forze di polizia e ai militari impegnati in un’operazione inedita di controllo del territorio e che stanno mostrando professionalità e umanità».
Il tweet. «Rispettare le regole significa salvare vite umane. Per questo andrebbero aumentati i controlli, anche impiegando l’Esercito. Sarebbe utile affiancare le Forze Armate alle Forze dell’ Ordine nella lotta al coronavirus». Scrive su Twitter Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia.
Esercito nelle strade e parlamento vuoto: un brivido cileno…Davide Varì su Il Dubbio 20 marzo 2020. Non ci spaventa il “reato di passeggiata”, ci spaventa il parlamento vuoto. Cari parlamentari, prendete esempio dai medici e tornate a bordo. Dunque arriva l’esercito nelle strade. Il premier lo annuncerà stasera o al massimo domani. A dire il vero i nostri soldati – eredità dell’11 settembre – stazionano da anni di fronte ai “punti sensibili” delle città: piazze, istituzioni, cinema. Eppure, il solo evocarne il nome (esercito!), fa correre un “brivido cileno” lungo la schiena. Palazzo Chigi fa sapere che non c’è da preoccuparsi: gli uomini in mimetica e fucile al collo saranno in strada per convincere vecchine e runner a evitare passeggiate e corsette mattutine in nome della salute pubblica: giusto così. I trasgressori – fa sapere Conte – saranno puniti con pene severe ed esemplari. Certo, poi qualcuno dovrà indicare il punto esatto in cui il nostro codice penale parla di “reato di passeggiata”. Il quale reato, non essendo previsto dalla nostra legge, ha convinto molti magistrati ad archiviare le migliaia di denunce a carico di chi si ostina a prendersi l’ora d’aria da questi strani ma indispensabili “arresti domiciliari”. Si vedrà. Ma una cosa è certa: il presidente del consiglio, oltre a invocare l’esercito, avrebbe dovuto chiamare uno a uno i parlamentari delle Repubblica e “invitarli” a tornare sui propri scranni. Perché un paese con l’esercito nelle strade e il parlamento vuoto, quello sì ha un che di sinistro. Il fatto è che se il parlamento non torna a funzionare, la nostra democrazia inizia a incepparsi e in questo momento non possiamo assolutamente permettercelo. I nostri onorevoli prendano a esempio dai medici che rischiano la pelle nelle corsie degli ospedali colmi di persone contagiate. Facciano il loro lavoro e tornino a bordo, perché, al pari di quello dei medici, è un lavoro vitale per tutti noi.
I parlamentari non sono impiegati: non possono mettersi in quarantena il giuramento di adempiere l’incarico con «disciplina e onore» previsto dall’art.54 della Costituzione, per un parlamentare vale doppio, perché egli «rappresenta la Nazione» (art. 67 ) ed è un potere dello Stato. Renato Luparini su Il Dubbio il 20 marzo 2020. Le prigionie sono sempre causa di grandi letture e di ritrovamenti in libreria di testi dimenticati. A me è capitato di imbattermi nella “Storia Costituzionale d’Italia” di Carlo Ghisalberti (editore Laterza) , uno dei primi libri a carattere giuridico che ho avuto in mano e di rileggerlo d’un fiato , a tanti anni di distanza. Poi come spesso avviene sono andato a verificare le notizie sull’autore, mancato pochi mesi orsono, poche settimane prima di questa tempesta.Ghisalberti è stato un autore atipico ; fuori dalle scuole accademiche , si formò come storico del diritto alla scuola fiorentina di Francesco Calasso, ma rimase sempre fuori dall’ambito delle facoltà giuridiche e sociali, nonostante la sua esperienza di funzionario parlamentare. Il suo libro però è di grandissima attualità e contiene un monito profetico . A proposito della legislazione in periodi eccezionali è utile citare un passo relativo alla situazione del 1917 che sembra scritta stamattina: «L’assunzione da parte dell’esecutivo,per un così lungo periodo della funzione legislativa diffondeva nella nazione la sensazione che lo Stato potesse confondersi con l’Esecutivo, abituando così il Paese a sottovalutare istituti e strumenti giuridici posti a garanzia della libertà». Con lucida analisi della produzione normativa durante la Prima Guerra Mondiale Ghisalberti prefigura nello svuotamento (in ogni senso , anche all’epoca ) del Parlamento il sintomo più evidente della fine dello Stato Liberale , che avrebbe portato di lì a pochi anni alla dittatura. Con ogni dovuta cautela ed evitando richiami troppo scolastici alla teoria di Vico , è evidente che il ricordo dell’ultima emergenza nazionale avvenuta in regime democratico in Italia può essere molto utile. In tempi di guerra c’è la necessità che le Istituzioni democratiche siano presenti ed efficienti . Le Camere dovrebbero essere aperte e convocate permanentemente , altro che vacanze o sedute contingentate. Chi assume una funzione pubblica tanto importante come quella di rappresentante della Nazione non può mettersi in quarantena come un impiegato; il giuramento di adempiere l’incarico con «disciplina e onore» previsto dall’art.54 della Costituzione, per un parlamentare vale doppio, perché egli «rappresenta la Nazione» (art. 67 ) ed è un potere dello Stato. Poiché la scelta di farsi eleggere è libera e ambita e non prescritta da alcun medico , è evidente che le cautele e i timori che sono giustificati in un comune cittadino e anche in un impiegato pubblico, debbono cedere di fronte alla coscienza del proprio ruolo da parte del membro delle Camere .Ciò anche perché un Governo che si regge su una maggioranza risicata almeno al Senato non può legiferare su diritti costituzionali fondamentali , come la libertà di circolazione e quella di impresa , senza un accurato vaglio e verifica delle sue scelta da parte del potere legislativo. A maggior ragione poi quando , queste normativa (del tutto assimilabili alle Grida di manzoniana memoria per concitata e continua produzione) incide sul codice penale e introduce reati per comportamenti in tempi normali del tutto lecito, come andare a trovare la fidanzata. Il Parlamento non può limitarsi ad essere un “passaggio “ quasi burocratico delle scelte del Governo ed è gravissimo che da parte di taluno si invochi l’assenza di dibattito “perché non ce lo possiamo permettere “.La democrazia parlamentare è come la cultura . Non è un lusso da sfaticati , ma è una necessità fondamentale per la verifica e la validazione di scelte legislative che, per l’emergenza del momento, rischiano di essere prese da pochissime persone sulla base di una situazione che è invece in continua evoluzione.Ogni ipotesi scientifica è valida in quanto è falsificabile e verificabile , ha insegnato Popper. Lo stesso vale per la democrazia.A proposito : “La società aperta” di Popper è uno dei tanti capolavori frutto di una quarantena ; il libro scritto nell’allora remotissima Nuova Zelanda da un ebreo in fuga dal virus della persecuzione. Un bel modo di passare il tempo.
Da corriere.it il 21 marzo 2020. «Per mandare in onda Porta a Porta e tutti gli altri telegiornali e trasmissioni di approfondimento della Rai e delle televisioni commerciali, centinaia di giornalisti, di produttori, di tecnici, di registi e quant’altro, lavorano giorno e notte con la mascherina, i guanti, rispettando le distanze di sicurezza, ma vanno avanti. E questo succede in centinaia di migliaia di uffici e di fabbriche in tutta Italia. Perché allora il Parlamento deve lavorare soltanto una volta alla settimana?». Se lo domanda il giornalista Bruno Vespa, in un video postato su Facebook. «Il Parlamento è l’ospedale dell’Italia. L’Italia - prosegue Vespa - già stava malissimo prima del coronavirus, adesso è in terapia intensiva e quindi i suoi medici non possono andare a visitarla soltanto una volta alla settimana. Perché i casi sono due: o il Parlamento non serve, e questo sarebbe terribile, o il Parlamento serve e non va a lavorare. E questo è ancora più grave».
Salvini e Meloni vogliono “Camere aperte”, ma sono gli stessi che in Parlamento non ci vanno mai. Redazione de Il Riformista il 19 Marzo 2020. Il tandem sovranista alla riscossa. Matteo Salvini e Giorgia Meloni nelle ultime ore sono attivissimi nel chiedere la convocazione del Parlamento per discutere delle tematiche inerenti l’emergenza Coronavirus. “Deputati e senatori come tanti altri lavoratori italiani che sono al lavoro in queste difficili anche i parlamentari devono andare al lavoro in queste ore difficili”, diceva soltanto ieri il leader della Lega ed ex ministro delll’Interno. Salvini infatti chiede di riunire le due Camere per migliorare e votare il ‘Cura Italia’, anche se il Parlamento ha 60 giorni per convertirlo in decreto. “Se il decreto ‘Cura Italia’ migliora e serve veramente a migliorare il Paese – è la posizione di Salvini – c’è l’ok della Lega. Se rimane a scatola chiusa e scontenta l’Italia che produce, se ci dicono ‘O è così o buonanotte’, noi non firmiamo deleghe in bianco. Se cambia, abbiamo tutta la volontà di collaborare, e presenteremo le nostra proposte. Se tirano dritti, la Lega non è disponibile a votare deleghe in bianco”. Peccato che lo stesso Salvini che ha riscoperto la grande voglia di andare in Parlamento sia lo stesso che lo ha disertato in più e più occasioni. L’ex ministro ha solo il 10% di presente a Montecitorio (579 su 5788 sedute), raggiungendo l’incredibile 89,03% in missioni. Lo stesso Salvini capace di far esplodere una incredibile crisi di governo dalla spiaggia del Papeete di Milano Marittima, costata carissimo al Capitano, o di non riferire mai al Senato sul caso Savoini e suoi fondi russi alla Lega. A ruota è arrivata anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. “In un momento di emergenza nazionale i primi a dover lavorare devono essere i Parlamentari. Noi vogliamo lavorare, fatecelo fare”, spiegava la Meloni ieri. Anche qui i dati dicono il contrario: il capo di FdI secondo quanto riportato da OpenPolis detenne l’impressionante 70% di assenze in Aula, contro il 29% delle presenze alle sedute. Stessa cosa anche a Roma, dove Giorgia è eletta in Consiglio comunale. Nel 2019 sono 11 le riunione alle quali ha partecipato su 92.
Il pericolo di una dittatura sanitaria. Marcello Veneziani su La Verità 15 marzo 2020. Dopo l’esperienza del virus, sappiamo che l’eventuale minaccia totalitaria che si annida nel futuro potrà essere una dittatura sanitaria. Dittatura globale e/o nazionale, giustificata da norme anticontagio. Vi invito a un viaggio letterario e forse un po’ profetico nel futuro globale, partendo dai nostri giorni. Stiamo sperimentando sulla nostra pelle che nel nome della salute è possibile revocare la libertà, sospendere i diritti elementari e la democrazia, imporre senza se e senza ma norme restrittive, fino al coprifuoco. È possibile mettere un paese agli arresti domiciliari, isolare gli individui, impedire ogni possibile riunione di persone, decomporre la società in molecole, e tenerla insieme solo con le istruzioni a distanza del potere sanitario. Più magari un vago patriottismo ricreativo e consolatorio, da finestra o da balcone… Nessuno mette in discussione la profilassi e la prevenzione adottate, si può dissentire su singoli provvedimenti, su tempi, modi e aree di applicazione; ma nessuno vuol farsi obiettore di coscienza, renitente, se non ribelle, agli imperativi sanitari vigenti. E comunque tutti li accettiamo col sottinteso che si tratta di un periodo breve, transitorio, uno stato provvisorio d’eccezione. Ma se il rischio dovesse protrarsi, si potrebbe protrarre anche la quarantena e dunque la carcerazione preventiva di un popolo. Disperso, atomizzato, in tante cellule che devono osservare l’obbligo di restare separate (ecco come sterilizzare il populismo). Del resto, anche un’esperienza breve ma traumatica lascia segni destinati a durare e modificare il nostro rapporto col potere, con la vita e con gli altri. Il tema di fondo è antico quanto l’uomo e la politica. Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire. A volte si affronta e si addomestica quel timore attraverso due grandi rielaborazioni mitiche e sacrali: la visione eroica della vita o la visione religiosa ultraterrena. Se il modo in cui spendi la vita vale più della vita stessa, se l’aspettativa dell’Aldilà supera la difesa della pelle qui e ora, ad ogni costo, allora magari puoi scommettere fino in fondo. Se sei disposto a rischiare anche la vita hai una libertà che nessuno può toglierti. Ma se tutto è qui e non ci aspetta altro, né la gloria né l’eternità, allora la vita è l’assoluto e per lei siamo disposti a tutto, in balia di chiunque possa minacciarla o proteggerla. La libertà dalla paura ha anche una variante disperata: se vivi nella schiavitù e nella miseria più nera, se non hai nulla da perdere se non il tuo inferno quotidiano, allora forse sei disposto a mettere a repentaglio la tua incolumità e perfino la tua sopravvivenza. Ma se tutto sommato hai la tua casa e i tuoi minimi agi, la tua vita passabile, se non serena, allora no, la salvaguardia della salute è imperativo assoluto, e giustifica ogni rinuncia. E la nostra è una società salutista e in fondo benestante, che ha un solo, umanissimo e unanime imperativo, vivere più a lungo possibile e possibilmente bene. Di conseguenza davanti al terrore di contaminarsi e al rischio di morire, non c’è diritto, libertà, voto, opinione che tenga. Prima di tutto la salute. La voglia di sicurezza, fino a ieri esecrata, diventa una priorità assoluta. È la biopolitica. Se riscrivessimo oggi 1984 o La Fattoria degli animali di George Orwell, Il mondo nuovo di Aldous Huxley o Il Padrone del Mondo di Robert Hugh Benson, se immaginassimo una distopia, cioè un’utopia negativa nel futuro, figureremmo un potere totalitario che usa la sanità, il contagio e la protezione dal contagio come la sua arma di dominazione assoluta. Magari non limitandosi a fronteggiare i casi di contagio ma procurandoli perfino, per esercitare poi il suo potere totalitario sulla società o su paesi che resistono alla sottomissione. Stiamo parlando di letteratura e non di realtà storica, sappiamo distinguere tra i fatti e l’immaginazione, non ci lasciamo prendere da nessuna sindrome del complotto diabolico. Però la letteratura a volte enfatizza, figura, esprime alcune latenti ma reali preoccupazioni della gente e a volte – pur nella sua narrazione fantasiosa – coglie alcune inquietanti tendenze e costeggia perfino alcune profezie. Pensiamoci, pur mantenendo lo scarto tra la realtà e l’immaginazione. Qualche giorno fa sottolineavo gli aspetti positivi della tremenda situazione che stiamo vivendo, la riscoperta di alcuni principi fino a ieri condannati: l’ordine e la disciplina, l’orgoglio nazionale e il senso della casa, solo per dirne alcuni. Ora sto sottolineando invece le controindicazioni inverse, gli effetti collaterali possibili di un terrore sanitario collettivo. Perché ogni scenario che si apre ha almeno due principali possibilità di sviluppo, oltreché di lettura, più un’infinità di varianti, gradi e sfumature. Nel frattempo patisco come voi queste interminate giornate di prove tecniche di fine umanità, con le metropoli ridotte, come aveva scritto Eugenio Montale riferendosi a Milano, a “enorme conglomerato di eremiti”. Una sera ho passeggiato da solo a Roma tra le rovine della contemporaneità, ben più spettrali e desolanti delle rovine antiche. E mi ha fatto così male che non ci riproverei più, anche se avessi una dispensa speciale per farlo. Non puoi vivere se il mondo intorno è morto. Ma restiamo in attesa di resurrezione. MV, La Verità 15 marzo 2020
I sette uomini più potenti d'Italia: oggi comandano (solo) gli scienziati. Quando riaprire le fabbriche. Come allentare il lockdown. Quali settori economici rilanciare prima e quali dopo. Nell'era del coronavirus la politica nazionale è subordinata ai consigli dei tecnici. Che influiscono sul nostro presente e sul futuro del Paese. Da Ricciardi a Vineis, ecco chi sono gli esperti che contano davvero. Emiliano Fittipaldi il 10 aprile 2020 su L'Espresso. Nell'Italia dell'ante Covid, quella dei no vax al potere e dell'incompetenza diventata virtù da sfoggiare in campagna elettorale, lo tsunami del coronavirus ha ribaltato tutto in poche settimane. Ministri impreparati e populisti senza laurea non contano nulla, o quasi. Costretti a delegare in un amen la gestione della crisi sanitaria (e, conseguentemente, dei riflessi economici e sociali) a un manipolo di scienziati. Da un mese o poco più, in Italia comandano loro. Un pugno di esperti che vengono dal Comitato-tecnico scientifico (organo istituito con un decreto del capo della Protezione civile Angelo Borrelli il 5 febbraio). Dall'Istituto superiore di Sanità, e indipendenti che non siedono in organismi istituzionali ma che godono di peso politico sul governo. Al netto dei virologi e infettivologi che divulgano nei talk show, i tecnici che decidono del nostro presente e del futuro del Paese sono poco più di una mezza dozzina.
Partiamo dal colui che fa da raccordo tra comitato, governo e Oms. Walter Ricciardi, ex presidente dell'Istituto superiore di Sanità e principale consulente sull'epidemia del ministro della Salute Roberto Speranza, è ad oggi lo scienziato più ascoltato a Palazzo Chigi. Napoletano, un passato da attore nei film di Mario Merola (ne «L'ultimo guappo» interpretava il figlio ucciso del cantante), Ricciardi è diventato uno dei più bravi specialisti di Igiene e Medicina di Sanità pubblica del Paese. Carriera brillante, è contemporaneamente ordinario alla Cattolica, responsabile del “Missione Board of Cancer” della Commissione europea e membro dell'Esecutivo dell'Oms. Ricciardi fino a dicembre 2018 sedeva pure sulla poltrona di presidente dell'Istituto superiore di sanità, ma si dimise in aperta polemica con il governo Conte I: «Le mie dimissioni? In quel governo prevalevano tesi ascientifiche e antiscientifiche. Mi riferisco ad alcuni esponenti del Movimento Cinque Stelle e a Matteo Salvini, con le sue posizioni su vaccini e migranti». Con il dramma Covid 19, Ricciardi è stato richiamato a Roma in tutta fretta. Non da Conte, con cui ha comunque un buon rapporto, ma da Speranza e dall'intera comunità scientifica, che - pure divisa tra gelosie e contrapposizioni ataviche - ne riconosce capacità ed esperienza. Spesso in tv a spiegare i motivi del lockdown, carattere moderato e fautore di una cautela assoluta nella riapertura invocata da troppi, qualcuno gli imputa di muoversi e parlare «sempre e solo» sotto l'ombrello dell'Oms. I rapporti con i massimi dirigenti dell'Organizzazione mondiale della Sanità, di certo, sono ottimi. Così, qualcuno oggi ricorda alcune generose dichiarazioni sulla Cina («rispetto alla Sars le autorità cinesi sono state più tempestive e sincere nel comunicare l'allarme»; «il blocco dei voli con la Cina? Non facciamola sentire abbandonata»). O quelle del 25 febbraio, quando Ricciardi disse che era «necessario ridimensionare questo grande allarme: solo il 5 per cento muore, tutte persone che avevano già delle condizioni gravi di salute». Errori di valutazione che forse, qualche giorno e molti morti dopo, hanno trasformato il medico napoletano in un ferreo difensore del lockdown.
Altro tecnico con peso politico notevole è Franco Locatelli, componente del Comitato Tecnico scientifico ed eletto un anno fa numero uno del Consiglio superiore di Sanità. Bergamasco e tifoso atalantino, specializzato in oncologia pediatria e pezzo grosso dell'ospedale vaticano Bambin Gesù, è colui che ripete da settimane a Palazzo Chigi che una riapertura affrettata rischierebbe di causare una devastante seconda ondata di contagi, che potrebbe essere peggiore della prima. «Senza tutela della salute, la ripresa economica è impossibile», chiosa come un mantra. Voce ormai famosa delle conferenze stampa delle 18, ha Locatelli ha indotto Speranza, Conte, Franceschini e gli altri ministri di peso a non ascoltare le sirene di Confindustria, e a posticipare qualsiasi ipotesi di Fase 2 a dopo il week end del Primo Maggio. «Noi membri del Comitato scientifico forniamo orientamenti, il decisore politico ha di fatto l'onere delle scelte politiche. Ripeto ancora che questo rapporto dialogico con chiara distinzione dei ruoli l'ho sempre trovato molto netto», ha detto qualche giorno fa. In realtà Locatelli sa che la sua parola conta moltissimo. Anche perché, come spiega un'autorevole esponente del governo, «Palazzo Chigi non può andare contro il parere del Comitato. Sarebbe irresponsabile non seguire la scienza». Quello che la politica non ha la forza di ammettere, però, è che nessuno dei ministri e delle forze politiche della maggioranza avrebbe ora il coraggio di prendersi responsabilità di questo tipo. Perché allentare il lockdown senza il “permesso” degli scienziati potrebbe essere esiziale: se qualcosa va male, significherebbe mettere a rischio non solo l'Italia, ma il futuro politico del governo e delle forze che lo sostengono.
Sia Ricciardi che Locatelli non sono però esperti in materia di pandemie. Nemmeno l'attuale presidente dell'Iss Silvio Brusaferro (che ha un ruolo soprattutto istituzionale, e legato alla comunicazione dei dati alle 18) è un tecnico di curve, o conoscitore del misterioso fattore R0. Nessuno di loro é un infettivologo, un virologo né, soprattutto, un epidemiologo. Dunque, nelle decisioni del Comitato, i tecnici più “politici” si affidano soprattutto a chi conosce la materia. Il più ascoltato scienziato italiano è Paolo Vineis, vice di Locatelli al Css e professore ordinario di epidemiologia all'Imperial College di Londra. La mente che analizza curve, andamenti e picchi dell'infezione è lui. «Siamo in buone mani, è uno degli esperti più capaci del pianeta», chiosano i medici che lo stimano. Vineis è convinto che la pandemia durerà a lungo, che la convivenza con il virus non sarà affatto semplice e che è necessario – per riaprire in sicurezza – avere test accurati e test anticorporali. «Parla poco, ma sulla crisi da coronavirus è molto ascoltato», spiegano dal ministero della Sanità.
Oltre a Vineis, gli altri due scienziati di peso sono il romano Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, e il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito, anche lui nel comitato tecnico-scientifico. «Nell'organismo ci sono anche vari dirigenti ministeriali, alcuni bravi funzionari, un geriatra celebre come Roberto Bernabei (qualcuno lo segnala tra gli “aperturisti”, ndr), ma alla fine sono gli esperti in epidemie a decidere la linea d'azione da proporre al governo», spiegano ancora gli uomini di Speranza.
Che segnalano come ruolo fondamentale ce l'abbia anche Ranieri Guerra. Veronese, curriculum di venti pagine, ed ex addetto scientifico presso l'Ambasciata italiana negli Usa, è uno dei massimi dirigenti della sanità nazionale, oggi anche direttore generale aggiunto all'Oms. È tra coloro che si è speso di più per evitare riaperture azzardate. «Solo pensare di aprire in questa fase è difficile», ha detto, aggiungendo che gli asintomatici in circolazione potrebbero rilanciare l'epidemia.
Insieme ai membri del Comitato, ha ipotizzato una Fase 2 basata su una divisione per tipi di lavoro ed età. Ma non prima che le curve dei morti, dei contagiati e dei ricoverati mostrino una discesa più evidente. «Non credo che il governo italiano voglia procedere alla riapertura senza pensare a questo rischio», ha ripetuto più volte. Conte sembra averlo ascoltato. Prima del 4 maggio il lockdown resterà attivo.
Presto gli scienziati dovranno confrontarsi però con una nuova task force. Un nuovo comitato guidato dal manager Vittorio Colao, ex ad di Vodafone, che dovrà elaborare un modello economico e sociale per la fase successiva all'emergenza. Nel gruppo di lavoro ci saranno medici, psicologi, economisti, esperti aziendali e professionisti assortiti, che avranno il compito di impostare le regole della “Fase 2”. Quella della “convivenza” forzata con il virus, a cui saremo costretti fino all'arrivo del vaccino. Colao e la sua squadra avranno un mandato ampio, e proveranno a organizzare in tempi rapidi nuove norme sociali basate sul distanziamento fisico e sociale. Scrivendo e proponendo al governo regole chiare per un uso sicuro dei mezzi di trasporti, per l'accesso a luoghi pubblici, ai ristoranti, agli uffici e le fabbriche. Ma anche Colao dovrà ascoltare il parere e i consigli del Comitato tecnico scientifico e degli esperti preferiti di Palazzo Chigi. Perché fino alla fine dell'emergenza, saranno gli scienziati a dettare la linea.
Federico Capurso per “la Stampa” il 14 aprile 2020. La necessità quasi compulsiva del governo di creare delle task-force per fronteggiare il coronavirus ha già prodotto, in poche settimane, 5 squadre con centinaia di esperti al servizio di Giuseppe Conte. Alcune più "leggere", altre delle dimensioni di un reggimento. L' ultima, quella che dovrebbe preparare il terreno economico per il lancio della fase 2 dell' emergenza, diretta dal manager Vittorio Colao, sta mettendo però in agitazione chi finora ha oliato a fatica gli ingranaggi del meccanismo provando a portare tutti nella stessa direzione. La task force di Colao, infatti, lavorerà in parallelo con il Comitato operativo della Protezione civile, all' interno del quale è confluita la task force del ministero della Salute, ma dovrà fare i conti con i pareri del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile e, se sarà il caso, con le task force del ministero dell' Istruzione e quello per l' Innovazione. Ognuna con un peso diverso nelle decisioni di palazzo Chigi e «se Conte non avrà polso - sibilano dalla maggioranza, sponda Italia Viva -, questa babele di commissioni creerà confusione e produrrà ritardi dolorosi per il Paese». Dalla Protezione civile scommettono che i pareri di medici e virologi «saranno sempre responsabilmente messe al primo posto, perché al primo posto c' è la salute dei cittadini». Eppure, un dubbio si insinua, anche in quegli ambienti: quando nell' opinione pubblica si sarà affievolita la percezione di una forte minaccia sanitaria - e se anche ci fosse il rischio di un' ondata di ritorno dei contagi -, le pressioni economiche su palazzo Chigi potrebbero spostare gli equilibri verso la squadra di Colao. E le possibili divergenze di vedute tra i vari comitati genererebbero una pericolosa confusione. Ecco perché Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute, che ha coordinato sin dalla prima ora le operazioni della task force ministeriale, avverte: «Sarà importante lasciare alla squadra di Colao alcuni giorni per impostare il lavoro. Poi capiremo come interagire, perché qui, dopo l' assestamento, si è ormai creata una rete di relazioni stabili. Siamo tutti persone di buon senso e c' è una comunione di intenti - prosegue Ruocco -, ma nella pratica si vedrà. Sarà il governo a doverci coordinare». Complicato, anche perché gli obiettivi di alcune squadre sembrano sovrapporsi, come nel caso della task force di impronta socio-economica di Colao e della squadra formata dal ministro dell'Innovazione, Paola Pisano, dove un gruppo di lavoro dovrà redigere un'analisi economica dell'emergenza, entrambe con un forte accento sulle nuove tecnologie. Quanti siano poi gli esperti a disposizione del governo è difficile a dirsi. La squadra di Colao conta 17 membri, contro i 74 di Pisano e circa un centinaio, tra dirigenti e coordinatori, al servizio della ministra dell' Istruzione Lucia Azzolina. C' è poi il comitato tecnico scientifico della Protezione civile che è cresciuto negli ultimi giorni passando da 7 a 12, ma ci sono uomini che fanno parte di più commissioni, consulenti in prestito e task force nate in modo informale, senza un decreto che ne indicasse i componenti, come accaduto al ministero della Salute per la commissione poi confluita all' interno del comitato operativo della Protezione civile. Al governo, il compito - o il miracolo - di fare sintesi.
Gustavo Bialetti per “la Verità” il 29 maggio 2020. Vittorio Colao batte un colpo e ci ricorda che esistono anche lui e la sua task force. Che prima doveva presentare le linee guida per la ripartenza, mentre ora dovrà proporre al governo un' agenda per il rilancio dell' Italia «da qui al 2022». È quello che si chiama «ottimismo della volontà»: Giuseppe Conte, che finora è riuscito benissimo a neutralizzare ogni potenziale insidia alla sua leadership da parte di Colao, non se l' è mai filato. Figuriamoci che fine farà fare all' agenda per il 2022. La quale, d' altra parte, è sì fitta, ma di fuffa. In un' intervista che Repubblica ha steso su due pagine, Colao riesce ad infilare una serie impressionante di luoghi comuni: al Paese servono investimenti, ammodernamento, Internet veloce, semplificazione della burocrazia, infrastrutture. «Cento progetti», centomila quintali di fumo. Al che uno si chiede: per capire che la burocrazia è un male, serviva un supermanager, o bastava pescare il primo oratore da bar? Le poche cose su cui Colao non annoia, invece, spaventano. Tipo l' apologia del «Big State», che fa incetta di dati sanitari e abolisce il contante. Qualcuno teme la morte della libertà? Preoccupazioni superate: «Non rinuncerei a uno Stato più efficiente», chiosa Colao, «per queste motivazioni». Ma nonostante sia proiettato al prossimo biennio, sul futuro il top manager ammette di non avere risposte. Non ha idea di «dove sarà la domanda dei consumatori» dopo la pandemia, «quale sarà la propensione al risparmio», «quale mobilità riterremo sicura, come e dove sarà l' ufficio». Buio totale. Intanto, tiriamo a campare, limitandoci ad «accompagnare chi non ce la fa». A partire da Colao. Beppe Sala ha detto che serve un governo di competenti. Se i competenti sono questi qua...
Vittorio Colao: chi è il capo della task force per la fase due. Debora Faravelli il 10/04/2020 su Notizie.it. Chi è Vittorio Colao, l'ex ad di Vodafone nominato dal premier Conte a presiedere la task force che gestirà la fase due dell'emergenza coronavirus. La scelta del suo profilo alla presidenza della task force per la ricostruzione dell’Italia post emergenza coronavirus è stata ufficializzata nel corso della conferenza stampa del premier Conte del 10 aprile. Il governo ha infatti pensato di istituire un team di economisti, scienziati e giuristi che lo possano aiutare nella fase due dell’epidemia. Ma chi è Vittorio Colao, l’uomo che guiderà la ripresa italiana alla crisi dovuta all’emergenza coronavirus. Ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao è nato a Brescia nel 1961 e si è laureato in Economia e Commercio all’Università Bocconi, per poi ottenere un MBA all’Università di Harvard. La sua carriera lavorativa ha inizio a Londra presso Morgan Stanley ed è continuata a Milano alla Mckinsey & Company. Nel 1996 ha poi ricoperto l’incarico di direttore generale di Omnitel Pronto Italia (oggi Vodafone Italia) e dal 2001 è stato anche CEO regionale di Vodafone per l’Europa meridionale prima di entrare nel consiglio di amministrazione dell’azienda.
Dal 2004 a 2006 è stato amministratore delegato di Rcs MediaGroup per poi tornare a Vodafone e avere lo stesso ruolo dal 2008 per i successivi dieci anni. Sarebbe proprio la sua esperienza in campo internazionale ad aver fatto ricadere su di lui la scelta del Presidente del Consiglio che ha anche consultato, oltre ai partiti di maggioranza, anche il Quirinale.
L’annuncio della nomina di Colao a capo della task force è arrivato nel corso della conferenza stampa di Giuseppe Conte di venerdì 10 aprile, nella quale il premier lo ha presentato assieme agli altri membri del direttivo: “Il gruppo di esperti dialogherà con comitato tecnico scientifico è sarà presieduto da Vittorio Colao, uno dei nostri manager più stimati anche all’estero“. La task force che Vittorio Colao presiederà farà riferimento a Palazzo Chigi, ma avrà anche competenze che spettano ad alcuni ministeri. Caratteristiche che trovano un analogo precedente nel Comitato interministeriale per la ricostruzione, istituito nel 1945 per coordinare la ripresa economica e sociale del Paese dopo il secondo conflitto mondiale.
Chi è Vittorio Colao, il manager che guiderà la "Fase 2" per la ricostruzione. Redazione de Il Riformista il 11 Aprile 2020. Chi è Vittorio Colao, il manager al quale il premier Giuseppe Conte ha consegnato l’ingombrante e pesantissimo pacchetto della Fase 2? Bresciano, 59 anni, laurea alla Bocconi e master in Business Administration ad Harvard, Colao è stato per per dieci anni, dal 2008 al 2018, amministratore delegato di Vodafone. Una esperienza, in realtà, cominciata nel 1996 quando ricoprì l’incarico di direttore generale di Omitel , poi divenuta Vodafone. Nella sua carriera, cominciata a Londra in Morgan Stanley. anche il ruolo di amministratore delegato di Rcs Media Group. Per qualche settimana il suo nome è circolato per il ruolo di capo delle Olimpiadi di Milano e Cortina del 2026. Ipotesi smentite con il trasloco a General Atlantic, fondo statunitense di Private equity particolarmente attento al lancio di nuove società. Colao ha dedicato particolare attenzione alla sicurezza sul lavoro e nel 2014 è stato nominato Cavaliere del lavoro dal presidente Giorgio Napolitano. Nel discorso di ieri sera Conte ha annunciato che “il lavoro per la fase 2 è già partito, non possiamo aspettare che il virus scompaia del tutto dal nostro territorio”. La ripartenza, ha spiegato Conte, si baserà principalmente su “due pilastri”: l’istituzione di un gruppo di lavoro di esperti e il protocollo di sicurezza sui luoghi di lavoro. Come già annunciato, la Task force per la fase 2 sarà presieduto da Vittorio Colao, “un manager tra i più stimati anche all’estero, e conterà personalità come sociologi e psicologi, residenti in Italia o all’estero”.
LA TASK FORCE – Ecco come da chi è composta la task force per la Fase 2 dell’emergenza coronavirus presieduta da Vittorio Colao. Elisabetta Camussi – Professoressa di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano “Bicocca”; Roberto Cingolani – Responsabile Innovazione tecnologica di Leonardo, già Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT); Vittorio Colao – Dirigente d’azienda; Riccardo Cristadoro – Consigliere economico del Presidente del Consiglio – Senior Director del Dipartimento economia e statistica, Banca d’Italia; Giuseppe Falco – Amministratore Delegato per il Sistema Italia-Grecia-Turchia e Senior Partner & Managing Director di The Boston Consulting Group (BCG); Franco Focareta – Ricercatore di Diritto del lavoro, Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”; Enrico Giovannini – Professore di Statistica economica, Università di Roma “Tor Vergata”; Giovanni Gorno Tempini – Presidente di Cassa Depositi e Prestiti; Giampiero Griffo – Coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità; Filomena Maggino – Consigliera del Presidente del Consiglio per il benessere equo e sostenibile e la statistica – Professoressa di Statistica sociale, Università di Roma “La Sapienza”; Mariana Mazzucato – Consigliera economica del Presidente del Consiglio – Director and Founder, Institute for Innovation and Public Purpose, University College London; Enrico Moretti – Professor of Economics at the University of California, Berkeley; Riccardo Ranalli – Dottore commercialista e revisore contabile; Marino Regini – Professore emerito di Sociologia economica, Università Statale di Milano; Raffaella Sadun – Professor of Business Administration, Harvard Business School; Stefano Simontacchi – Avvocato, Presidente Fondazione Buzzi; Fabrizio Starace – Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Ausl di Modena – Presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (Siep).
Ecco chi scriverà la roadmap della fase 2. Nei prossimi giorni saranno indicate le attività industriali che potranno riprendere la produzione. Il Dubbio il 13 aprile 2020. Il presidente Conte si affida alla super task force di esperti. Ieri si è collegato in video conferenza con il comitato di esperti in materia economica e sociale, istituito qualche giorno fa, e ha chiesto al comitato di individuare, in stretto raccordo con il comitato tecnico-scientifico, le modalità più efficaci e innovative per uscire gradualmente dal lockdown, favorendo la ripresa delle attività produttive, anche attraverso l’elaborazione di modelli organizzativi che consentano la riapertura di fabbriche e aziende nelle condizioni di massima sicurezza per i lavoratori. Nei prossimi giorni saranno indicate le attività industriali che potranno riprendere la produzione. La notizia filtra da Palazzo Chigi, segno che il premier sta tentando di allentare la tensione su di se, dopo lo scivolone comunicativo dell’attacco alle opposizioni. Ora, ragiona Conte, è il momento di dare al Paese ciò che il Paese chiede: sa settimane ormai gli italiani si fidano solo delle parole dei tecnici. Dunque, «Il Presidente ha quindi chiesto al comitato di elaborare proposte da offrire al Governo per il progressivo e graduale ritorno alla normalità con riguardo alle più generali relazioni di comunità. Occorrerà valutare, al riguardo, tutti i molteplici profili coinvolti, sociali, economici, psicologici, culturali», filtra da ambienti vicini alla presidenza del Consiglio. E traspare anche massima fiducia nei confronti di Vittorio Colao: «Il presidente Colao e i membri intervenuti hanno mostrato la massima disponibilità a perseguire gli obiettivi indicati. Colao ha assicurato che sarà dato massimo impulso all’attività del comitato, in coerenza con l’esigenza, manifestata dal presidente Conte, di individuare soluzioni urgenti e efficaci».
Chi c’è nella task force. L’ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao è il supermanager che dovrà “immaginare” la ricostruzione dell’Italia dopo il coronavirus. Cavaliere del Lavoro nel 2014, Colao nasce a Brescia nel 1961, si laurea in economia e commercio all’università Bocconi e consegue un master in business administration alla Harvard University. Inizia il suo percorso lavorativo a Londra, presso la banca d’affari Morgan Stanley e prosegue a Milano alla multinazionale di consulenze McKinsey & company. Nel 1996 diventa direttore generale di Omnitel pronto Italia e, quando nel 1996 Vodafone acquisisce l’operatore di telefonia mobile, diventa amministratore delegato della divisione italiana. Nel 2001 diventa ceo della Vodafone per l’Europa meridionale; l’anno successivo entra nel consiglio di amministrazione e nel 2003 estende il suo incarico anche al Medio Oriente e all’Africa. Nel 2004 lascia il colosso della telefonia per passare a Rcs mediagroup, sempre con l’incarico di amministratore delegato. Dopo due anni, nel 2006, torna da Vodafone per assumere la posizione di vice amministratore delegato a capo della divisione Europa. Dal 2008 al 2018 è amministratore delegato di Vodafone.
La task force è presieduta da Vittorio Colao ed è composta da: Elisabetta Camussi, professoressa di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca; Roberto Cingolani, responsabile Innovazione tecnologica di Leonardo, già direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit); Riccardo Cristadoro, consigliere economico del presidente del Consiglio, senior director del Dipartimento economia e statistica, Banca d’Italia; Giuseppe Falco, amministratore delegato per il Sistema Italia-Grecia-Turchia e senior partner & Managing director di The Boston Consulting Group (Bcg); Franco Focareta, ricercatore di Diritto del lavoro, Università di Bologna Alma Mater Studiorum; Enrico Giovannini, professore di Statistica economica, Università di Roma Tor Vergata, Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa depositi e prestiti; Giampiero Griffo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità; Filomena Maggino, consigliera del presidente del Consiglio per il benessere equo e sostenibile e la statistica e professoressa di Statistica sociale, Università di Roma La Sapienza; Mariana Mazzucato, consigliera economica del presidente del Consiglio e Director and founder, Institute for Innovation and Public Purpose, University College London; Enrico Moretti, professor of Economics at the University of California, Berkeley; Riccardo Ranalli, dottore commercialista e revisore contabile; Marino Regini, professore emerito di Sociologia economica, Università Statale di Milano; Raffaella Sadun, professor of Business administration, Harvard Business School; Stefano Simontacchi, avvocato e presidente Fondazione Buzzi; Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società italiana di Epidemiologia psichiatrica.
Coronavirus, chi sono i 17 esperti della task force per la Fase 2. Gli esperti scelti dal governo avranno il compito di studiare le ricette per uscire dalla crisi dettata dall'emergenza coronavirus. VIRGILIO NOTIZIE l'11 aprile 2020 su notizie.virgilio.it. In occasione del suo intervento in video per confermare la proroga del lockdown in Italia fino al 3 maggio, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato anche di aver firmato il decreto per la nascita di un comitato di esperti che affiancherà il comitato tecnico scientifico nella fase di ripartenza dell’Italia. I 17 esperti della task force avranno il compito di studiare le ricette per uscire dalla crisi determinata dall’emergenza coronavirus.
A presiedere il task force per la ripartenza dell’Italia sarà Vittorio Colao, dirigente d’azienda, ex amministratore delegato di Vodafone.
Il comitato di esperti in materia economica e sociale include poi:
Elisabetta Camussi, professoressa di psicologia sociale all’Università degli Studi di Milano “Bicocca”.
Roberto Cingolani, responsabile innovazione tecnica di Leonardo, già Direttore Scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).
Riccardo Cristadoro, consigliere economico del Presidente del Consiglio e Senior Director del Dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia.
Giuseppe Falco, amministratore delegato per il Sistema Italia-Grecia-Turchia e Senior Partner & Managing Director di The Boston Consulting Group (BCG).
Franco Focareta, ricercatore di Diritto del Lavoro all’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”.
Enrico Giovannini, professore di Statistica economica all’Università di Roma “Tor Vergata”.
Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti.
Giampiero Griffo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità.
Filomena Maggino, consigliera del Presidente del Consiglio per il benessere equo e sostenibile e la statistica e professoressa di Statistica sociale all’Università di Roma “La Sapienza”.
Mariana Mazzucato, consigliera economica del Presidente del Consiglio, Director & Founder dell’Institute for Innovation and Public Purpose all’University College London.
Enrico Moretti, professor of Economics all’University of California Berkeley.
Riccardo Ranalli, dottore commercialista e revisore contabile.
Marino Regini, professore emerito di Sociologia economica all’Università “Statale” di Milano.
Raffaella Sadun, professor of Business Administration alla “Harvard Business School”.
Stefano Simontacchi, avvocato e presidente della Fondazione Buzzi.
Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società Italiana di Epidemiologia (SIEP).
Federico Novella per panorama.it il 29 aprile 2020. Stamattina abbiamo scoperto che l'Italia è il primo paese al mondo guidato da remoto. In pratica, siamo governati in smartworking. Il capo della taskforce per la ripartenza, Vittorio Colao, ha ammesso al Corriere della Sera di non essersi mai mosso Londra. Proprio così: l'esperto che deve far ripartire l'Italia, non si trova in Italia. E non ha nemmeno intenzione di venirci. Motivo? Colao dice che se tornasse in patria, dovrebbe stare due settimane in quarantena: "Perderei tempo". In pratica non vuole chiudersi in casa a Roma, e dunque si chiude in casa a Londra. Spiegateci la differenza. Poi per carità, siamo tutti a favore del lavoro a distanza: ma dovevamo cominciare proprio da Colao? Noi poveri illusi eravamo convinti che il manager fosse già tra noi: a contare le mascherine, ad incontrare la protezione civile, a sentire il polso degli imprenditori e dei commercianti, ammesso che ci sia ancora battito. Invece no. Siamo una repubblica fondata sul tele-lavoro: di Colao. Se la tanto strombazzata fase due è il tele-risultato di cotanto tele-sforzo, consentiteci perlomeno di alzare il tele-sopracciglio. Ce lo vedete, il superconsulente di Macron che gestisce tutto da Dubai? O il superesperto della Merkel smanettare col pc da Buenos Aires? Ma a noi italiani piace distinguerci. Colao dice che quando era amministratore di Vodafone, faceva tutto benissimo in teleconferenza: perché cambiare? Ormai per gestire un Paese non serve lo scatto morale: basta lo scatto alla risposta. Siccome siamo il paese con il più alto numero di telefonini pro-capite, tanto vale convertire il regime democratico in un regime telefonico. Solo una domanda, rivolta al premier Conte: per essere gestiti da un operatore collocato all'interno dell'Unione Europea, dobbiamo premere il tasto uno?
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2020.
Vittorio Colao, gli italiani si aspettavano dalla fase 2 più libertà. Personali ed economiche. Che cosa risponde?
«Dal 4 maggio rimettiamo al lavoro quattro milioni e mezzo di italiani, tra costruzioni, manifattura, servizi collegati, ovviamente nel rispetto dei protocolli. Molti sono già partiti lunedì, anche se questo nella comunicazione si è un po' perso. Ne rimangono due milioni e 700 mila, più la pubblica amministrazione. È una base per poter fare una riapertura progressiva e completa. Sarà un test importante. Dipenderà dai buoni comportamenti. Un' apertura a ondate permette di verificare la robustezza del sistema».
C' è anche chi dice invece che stiamo riaprendo troppo presto. In Germania i casi aumentano, la Francia rinvia l' apertura delle scuole. L' Italia ripartirà in sicurezza?
«Abbiamo raccomandato tre precondizioni che vanno monitorate. La prima: il controllo giornaliero dell' andamento dell' epidemia. La seconda: la tenuta del sistema ospedaliero, non solo le terapie intensive, anche i posti-letto Covid. La terza: la disponibilità di mascherine, gel e altri materiali di protezione. A queste condizioni si può riaprire».
E se l' epidemia riparte?
«L' approccio non dovrà essere nazionale e neppure regionale, ma microgeografico: occorre intervenire il più in fretta possibile, nella zona più piccola possibile. Abbiamo indicato al governo un processo. L' importante è che le misure siano tempestive; nella speranza che non siano necessarie».
Appunto: perché trattare allo stesso modo l' Umbria, che ha meno di dieci casi al giorno, e la Lombardia, che ne ha quasi mille? Non è meglio differenziare le regole a seconda delle Regioni?
«Io ho mezza famiglia a Catanzaro e mezza a Brescia. I numeri dell' epidemia sono molto distanti; nel lungo termine non li si può gestire allo stesso modo. Dovremo rispondere diversamente, per non penalizzare le zone che hanno meno casi. L' importante è che l' Italia si doti di un sistema per condividere le informazioni. La trasparenza sarà fondamentale. Se tanti lombardi e piemontesi vanno in Liguria, ogni Regione guarderà i suoi numeri, ma il ministero della Sanità dovrà guardare alle interrelazioni, per capire se il movimento crea focolai. Lo stesso vale per il corridoio di trasporto tra Lazio e Toscana. I numeri ci diranno quando potremo proseguire con le riaperture, minimizzando il danno economico e massimizzando la sicurezza».
Molte aziende sono aperte. Ma non ci sono regole chiare sui test.
«Gli italiani devono abituarsi a convivere con il problema. Molte imprese si stanno attrezzando per inserire i test nelle loro procedure di sicurezza interne; il Comitato tecnico-scientifico individuerà quello più affidabile. A livello individuale abbiamo l' App, a livello di grandi numeri lo screening».
L' App servirà davvero?
«Potrà servire se arriva in fretta, e se la scarica la grande maggioranza degli italiani. È importante lanciarla entro la fine di maggio; se quest' estate l' avremo tutti o quasi, bene; altrimenti servirà a poco».
Se la sente di garantire che non sarà una violazione della privacy da parte dello Stato?
«Non è così. Non è stato scelto il sistema centralizzato, che manteneva l' identità di tutti i contatti. E' stata scelta l' altra soluzione, quella Apple-Google. I contatti stanno solo sui telefonini delle persone. Quando scopro di essere contagiato, sono io che metto dentro un codice, che rilascia una serie di codici alle persone con cui sono entrato in contatto. Tutto avviene in modo anonimo: l' individuo viene informato dal sistema, ma il sistema non sa chi sono i due; la privacy dei due individui è mantenuta. Nessuno conosce l' altro. Il sistema sanitario locale - se vorrà - potrà disegnare l' App in modo da contattare i cittadini, ma in trasparenza».
Pensa davvero che gli italiani la scaricheranno?
«Se gli verrà spiegato bene, lo faranno. Se vivessi in un piccolo paese e fossi contagiato, avviserei chi mi è stato vicino di stare attento. L' App lo fa in automatico e anonimamente: mi avviserebbe che sono stato in contatto con un contagiato, e devo chiamare il servizio sanitario. Non vedo perché gli italiani dovrebbero rinunciare a informazioni che non limitano ma rafforzano la loro libertà».
Come faranno i negozianti ad attendere il 18 maggio? E i bar e ristoranti a resistere fino a giugno?
«Le riaperture di negozi e bar, e tantomeno delle chiese, non sono di competenza del nostro Comitato; sono decise dal governo sulla base di input sanitari. Noi siamo advisor: ci è stato chiesto di dare consigli su come far ripartire costruzioni e manifattura. La riapertura progressiva ti fa capire meglio a quale velocità devi andare. È una malattia che non ha una mortalità altissima, ma può mettere in ginocchio il sistema sanitario; è un dovere morale evitarlo. Sento parlare di distanziamento sociale; dovremmo parlare di distanziamento fisico. La società deve essere più unita e coesa di prima. È il momento di collaborare, tutti: andando in ufficio in bicicletta, spalmando gli orari di ingresso, continuando con lo smart-working».
Si dice che siate troppi. State funzionando? E quanto costate?
«Troppi? La presidenza del Consiglio ha creato tre strutture: il commissario Covid che garantisce che arrivino mascherine e altro materiale; il Comitato tecnico-scientifico, che esiste in tutti i Paesi; e noi, che siamo chiamati ora a fare proposte per il rilancio, per il 2020 e il 2021. Noi del Comitato economico-sociale siamo tutti volontari. Nessuno guadagna nulla, come è giusto che sia».
Lei è qui per prendere il posto di Conte?
«Non ho nessuna intenzione di fare politica. Mi è stato chiesto di aiutare a gestire una fase complicata, con un gruppo di persone esperte di diverse materie».
Chi gliel' ha chiesto? Conte o Mattarella?
«Il presidente Conte. Stavo passeggiando in giardino, qui a Londra si può. Ho chiesto due ore per avvisare la General Atlantic, cui dedicavo metà del mio tempo, e le altre società cui collaboravo. Mi hanno risposto: of course, naturalmente puoi e devi fare qualcosa per il tuo Paese. Alla fine tornerò al mio lavoro. Molti manager l' hanno fatto, in molti Paesi; solo in Italia si pensa che vogliano fare politica. Sono state scritte anche altre inesattezze».
Quali?
«Non abbiamo mai proposto di chiudere in casa i sessantenni. L' hanno creduto in tanti, anche Fiorello. Abbiamo solo posto il tema dei muratori nei piccoli cantieri e dei lavoratori nelle manifatture minori».
Quali misure proporrà per il rilancio?
«Siamo all' inizio: abbiamo appena ascoltato il presidente della conferenza dei rettori, nei prossimi giorni sentiremo tutte le categorie. Siamo divisi in sei gruppi di lavoro, che coprono tutte le parti produttive e sociali: aziende, istruzione, turismo, cultura, famiglie, pubblica amministrazione Abbiamo l' opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi».
È l' occasione per ricostruire la macchina dello Stato?
«Non solo: è l' occasione per rilanciare tutto il sistema Italia. Il Paese ha imparato a usare le nuove tecnologie, i nuovi strumenti per comunicare. Dobbiamo ammodernare i modelli commerciali delle nostre imprese. Aumentare la partecipazione femminile al lavoro, sostenendo al contempo la natalità, aiutando le madri che lavorano».
Le scuole chiuse non aiutano.
«Abbiamo raccomandato congedi parentali retribuiti e bonus per baby-sitter; ovviamente occorrerà prendere misure strutturali. Dovremo massimizzare l' utilizzo dei beni culturali, artistici, ambientali. Riaprire corridoi turistici, appena possibile. Ed estendere le stagioni».
Si andrà in vacanza quest' estate?
«Spero di sì. Andremo più vicini, avremo un turismo più locale. Il nostro grado di libertà dipende da come ci comportiamo da qui a luglio. Sta a noi rispettare la distanza fisica e non vanificare gli sforzi fatti finora».
La sua città, Brescia, è tra le più colpite. Molte aziende chiuderanno al Nord? O l' economia ripartirà?
«Direi di sì, che ripartirà. Non è un sì senza condizioni. Bisogna aiutare le imprese sul fronte della liquidità. Ammodernarne le strutture produttive e distributive. Farle lavorare con meno gravami amministrativi, meno complicazioni: tutti lo dicono ma nessuno lo fa, perché è difficile farlo; ma il momento è adesso. Servirà un intervento dello Stato, spero temporaneo, senza sussidi a lungo termine: la Cassa depositi e prestiti può essere lo strumento giusto. Tra 12-18 mesi potremo aver superato la tempesta».
Quanti soldi servono, e dove?
«C' è un ministro dell' Economia che decide dove mettere i soldi. Noi possiamo indicare le iniziative che danno il miglior ritorno».
Ci attende una recessione, o c' è il rischio di una depressione globale?
«Il rischio c' è. Dipende da due cose che nessuno conosce: la scoperta di una terapia e di un vaccino; e la governance mondiale. Serve un coordinamento internazionale. Se ognuno guarda il suo orticello e non coordina le proprie misure con gli altri le conseguenze saranno pesanti. L' Europa è chiamata a dare risposte comuni su trasporto merci, circolazione delle persone, protocolli per la sicurezza. Se la Francia o la Germania decidono una cosa diversa dall' Italia, una parte delle risorse si sposterà. Evitiamo di danneggiarci a vicenda».
Cosa pensa degli aiuti russi e cinesi? Filantropia? O geopolitica?
«È una domanda da fare al ministro degli Esteri. Dico solo questo: è importante che ci sia il dialogo. Dobbiamo mantenere una visione multilaterale. Ce l' ha insegnato il virus, che non guarda alle nostre divisioni».
Lei continua a lavorare da Londra?
«Sì. Se fossi tornato avrei dovuto fare due settimane di quarantena, avrei perso tempo. Dobbiamo tutti imparare a lavorare in modo diverso. Ho guidato una multinazionale come Vodafone via video, dall' India al Sudafrica. In certi casi gli spostamenti sono controproducenti. Abbiamo iniziato a lavorare la mattina di Pasqua e neanche ci conoscevamo; dopo dieci giorni abbiamo consegnato le prime raccomandazioni. Se ci fossimo visti di persona, probabilmente non ce l' avremmo fatta».
L'"Innovazione" M5s: assumere consulenti. Il ministro Pisano recluta un altro esperto da 800 euro al giorno. Pasquale Napolitano, Lunedì 27/04/2020 su Il Giornale. C'è un settore, quello delle consulenze, che sembra non risentire della crisi economica del coronavirus. Anzi, a giudicare dall'ultimo esperto arruolato dal ministro per l'Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione Paola Pisano, sembra fare affari d'oro in questo periodo. Il ministro grillino (imposto al governo da Davide Casaleggio) paga mille euro al giorno (800 più Iva) un consulente esterno per sollecitare aziende, università, enti pubblici e centri di ricerca a fornire contributi nell'individuazione di dispositivi di protezione dal coronavirus. Per carità, l'attività è lodevole. Ma sorge il dubbio che anche senza l'impulso del ministro aziende ed enti siano già al lavoro per individuare dispositivi di contenimento del coronavirus. Il 10 aprile scorso il capo dipartimento per la trasformazione digitale formalizza il contratto di consulenza. Il «fortunato» (individuato tramite la procedura Consip) è Achille Montanaro: un manager torinese come il ministro Pisano. Il compenso giornaliero è di 800 euro. Ma non è specificato nell'atto se il pagamento dell'Iva sia a parte o no. Le giornate di lavoro saranno 48 per un importo complessivo di 38.016,00. La consulenza si concluderà il 30 settembre 2020. Oltre all'attività di pungolo per enti e centri di ricerca a individuare dispositivi di protezione per il coronavirus, il ministro Pisano affida al suo consulente di fiducia due progetti: Cross Tech Hub e Borghi del Futuro. Sono i due pilastri su cui si poggia il documento strategico per l'innovazione tecnologica e digitale del Paese presentato nel mese di dicembre. Un piano che ha scatenato polemiche e accuse su un presunto conflitto d'interessi: tra gli esperti ringraziati nelle pagine iniziali del documento spuntava anche il nome di Davide Casaleggio. C'è un altro giallo che avvolge la consulenza: il ministro e il manager torinese si conoscono? Sicuramente si sono visti almeno una volta: nel maggio del 2016. Il ministro Pisano (all'epoca prof dell'Università di Torino) alla presentazione del corso di laurea in Innovazione sociale, comunicazione, nuove tecnologie inserì tra i relatori proprio Montanaro. Che quattro anni dopo sarebbe diventato il suo consulente al ministero. La nomina (l'ultima) arricchisce il cerchio di consulenti ed esperti di cui si è circondato il ministro. Il 19 aprile scorso Il Giornale ha ricostruito la rete di task force e agenzie costruita dal ministro Pisano. Un carrozzone che pesa circa 1 milione di euro l'anno sulle casse dello Stato.
Se l'amicizia con Di Maio fa curriculum. Avete problemi di lavoro? Non sapete come affrontare la Fase 2? Vi diamo un consiglio da inserire nel vostro curriculum vitae, un apriti sesamo che vi spalancherà le porte di ogni posto di lavoro. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Avete problemi di lavoro? Non sapete come affrontare la Fase 2? Vi diamo un consiglio da inserire nel vostro curriculum vitae, un apriti sesamo che vi spalancherà le porte di ogni posto di lavoro: «Compagno di liceo di Luigi Di Maio». Ma potete anche scrivere «amico», «conoscente» o «compagno di calcetto», basta che abbiate conosciuto il ministro degli Esteri e, possibilmente, veniate da Pomigliano d'Arco, città premiata nel corso degli anni da un particolarissimo reddito di cittadinanza. È proprio da questo paesone di 40mila abitanti che Luigino ha pescato più di uno dei suoi collaboratori. Dobbiamo ammetterlo: il Ministro degli Esteri non si dimentica mai degli amici. L'ultimo beneficiario di questo trattamento speciale è Carmine America, appena paracadutato nel consiglio di amministrazione di Leonardo, ex Finmeccanica. Innanzitutto la nomina di America risulta inopportuna per un motivo: il conflitto d'interessi. Suo suocero, Angelo Fornaro, è amministratore unico della Ar.Ter., azienda che opera «nell'ambito della meccanica generale e di precisione al servizio del settore aeronautico». Toh, proprio il settore di cui si occupa il colosso Leonardo. Non solo l'impresa di Fornaro è già fornitrice di due aziende che fanno parte della galassia ex Finmeccanica. Ma torniamo ad America. Nel suo ampio curriculum, curato da una prestigiosissima agenzia di comunicazione, tra le prime voci, ne troviamo una chiarissima, disarmante per la sua sincerità: «Ha conseguito il diploma di maturità nel 2004, nello stesso anno e istituto di Luigi Di Maio». Ed è lo specchio del Paese e della politica che il Movimento 5 Stelle, dopo aver costantemente criticato, ha poi minuziosamente attuato: la logica della spartizione, parentale o amicale. La tanto sbandierata trasparenza grillina adesso assurge a sfacciataggine, aver frequentato la stessa scuola di un noto politico non è più un particolare della propria vita privata, ma un dettaglio da inserire tra le proprie esperienze curriculari. Alla fine i Cinque Stelle, dopo mille giravolte, hanno fatto propria un antico adagio: in Italia non è importante cosa si conosce, ma chi si conosce.
Auguri Colao, ma ricordi il "Corriere". Il governo si è auto-commissariato chiamando al capezzale dell'Italia un bravo medico, il manager di lungo corso Vittorio Colao. Alessandro Sallusti, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Il governo si è auto-commissariato chiamando al capezzale dell'Italia un bravo medico, il manager di lungo corso Vittorio Colao, che insieme a una squadra di esperti super titolati proverà a fare ripartire il Paese. Auguri sinceri a Colao, ma gli consiglierei di non farsi soverchie illusioni. La politica è una brutta bestia e la burocrazia statale una palude, per credere chiedere a grandi imprenditori ed esperti di successo, che si sono cimentati nella pratica, da Silvio Berlusconi a Carlo Cottarelli. Il primo ha resistito eroicamente per vent'anni e l'ha pagata cara, il secondo - che avrebbe dovuto risolvere il problema del debito pubblico e ne sono certo ne aveva le capacità - ha gettato la spugna un attimo prima di essere massacrato. Non sono nessuno per dare un consiglio a Colao, uno che è uscito a pieni voti prima dalla Bocconi e poi da Harvard, che ha scalato posizioni dentro giganti della finanza tipo Morgan Stanley e McKinsey e che ha diretto il traffico di Vodafone in Europa. Ma se mi è permesso, Colao dimentichi questi titoli e si concentri sull'unico neo della sua brillante carriera. Per carità, un piccolo neo quale è stata la sua breve e non entusiasmante esperienza al Corriere della Sera, meno di due anni, dal 2004 al 2006. Il Corriere di allora lo si può tranquillamente paragonare alla politica: una piovra che ti avvolge e ti stritola. Ci sono i giornalisti che pensano di essere degli dei intoccabili, i manager che da decenni fanno le stesse cose sbagliate e non sanno fare altro, i sindacati che spadroneggiano, i privilegi intoccabili, le posizioni di rendita, le serpi in seno e i veleni sparsi a piene mani. Un mix che costrinse alla resa anche Colao, arrivato in via Solferino con le migliori intenzioni (e capacità). Lei è una persona troppo a modo per certi ambienti. Glielo dico, egregio dottor Colao, perché in quegli anni avevo frequentato il Corriere e oggi, mio malgrado, frequento la politica: la aspetta una cosa uguale nelle dinamiche ma moltiplicata per mille negli effetti. Lei rischia davvero, da ieri sta sulle palle a tre quarti della politica e al 90% dei grandi burocrati che hanno le leve del comando, senza contare che i giornalisti la aspettano al varco con il pugnale in mano. Dimentichi Harvard e tenga in considerazione la massima di Rino Formica: «La politica è sangue e merda». Quindi, oltre a illustri cattedratici - altro consiglio non richiesto - si metta in squadra un paio di picchiatori e figli di buona donna in grado di farle da guardaspalle, altrimenti non ne uscirà vivo. Comunque, dottor Colao, auguri di buona Pasqua e soprattutto di buon dopo Pasqua (e auguri a tutti voi, cari lettori).
· La Santa Inquisizione in camice bianco.
La paura genera potere: Il Potere alimenta la paura.
Codacons chiede T.S.O. per chi rifiuta di sottoporsi a tampone. Fonte: Soveratoweb.com 5 maggio 2020. I primi arrivi in Calabria registrano incredibili rifiuti da parte di chi rientra a sottoporsi al tampone. Ha dell’ incredibile il rifiuto che oggi alcuni passeggeri in arrivo alla stazione di Lamezia Terme, avrebbero opposto alla richiesta di essere sottoposti al test che, ricordiamo, è gratuito ed è rapidissimo. Il Codacons chiede che intervengano i Sindaci, costringendo i passeggeri attraverso il ricorso ad un TSO – sostiene Francesco Di Lieto. Com’ è noto, per Trattamento Sanitario Obbligatorio si intendono una serie di interventi sanitari che possono essere adottati, in caso di motivata necessità ed urgenza, e qualora sussista il rifiuto da parte del soggetto che deve ricevere assistenza. Il TSO è disposto, appunto, con provvedimento del Sindaco, quale massima autorità sanitaria del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova temporaneamente. In un periodo in cui si chiedono sacrifici a tutti, comportamenti sprezzanti come quelli verificatisi oggi sono da condannare nella maniera più netta, perché in gioco c’ è la salute di tutti. L’ appello – conclude la nota del Codacons – è rivolto principalmente ai Sindaci di Lamezia Terme, Paola e Reggio Calabria affinché mettano una pezza ad una chiusura dei confini utile solo per le telecamere.
Non vuole fare il tampone, il sindaco firma un tso. Sarà fatto stamani ad un aretino che stava male ma ieri si era rifiutato di sottoporsi all'accertamento. La Nazione 16 marzo 2020 - Stamani gli verrà effettuato il tampone per verificare la sua positività al corna virus o meno. Gli verrà fatto con la sua collaborazione o in maniera coercitiva. Si tratta di un aretino che aveva rifiutato appunto ieri di fare il tampone per il Coronavirus e il sindaco così è stato costretto ad emettere un'ordinanza di Tso per sottoporlo all'accertamento. "Stava male infatti l'aretino ma ha lo stesso detto di no al tampone, per questo ho emesso un'ordinanza per eseguire un trattamento sanitario obbligatorio", a raccontare l'episodio avvenuto proprio ieri in città lo stesso sindaco Alessandro Ghinelli nel corso ieri della sua conferenza stampa per fare il punto sull'epidemia di Coronavirus. Una conferenza stampa che ormai è diventata un appuntamento fisso e quotidiano non soltanto con i media ma anche con tutti i cittadini che possono seguirla in diretta sul canale facebook del comune di Arezzo. Il primo cittadino ha spiegato che ieri l'uomo si è rifiutato, di fronte ai sanitari di sottoporsi all'accertamento. "Non si gioca con la salute e quest'uomo con il suo comportamento ha rischiato di mettere a repentaglio la salute di tante persone. Quindi domani mattina (oggi ndr) la polizia municipale, insieme ai sanitari, si recheranno a casa dell'uomo ed eseguiranno il tampone. Fortunatamente durante questa lunga giornata, l'uomo è stato convinto a comportarsi responsabilmente e ci ha informati che domattina si sottoporrà al test senza problemi".
“La pandemia non esiste”: la strana storia del Tso a Dario Musso. Le Iene News il 26 maggio 2020. Il 2 maggio Dario Musso subisce un Tso dopo esser andato in giro in auto gridando con un megafono che non esiste nessuna pandemia. Le immagini del momento in cui viene fermato hanno fatto il giro dell’Italia: la nostra Nina Palmieri è andata a parlare con lui per capire cosa è successo davvero. “Sono chiuso nelle mani e nelle braccia. Non mi posso muovere, la situazione è indescrivibile”. Queste sono le parole di un ragazzo di 33 anni, Dario Musso, rinchiuso in un reparto di psichiatria dopo aver subito un Trattamento sanitario obbligatorio il 2 maggio. Le immagini di quel Tso sono diventate virali in rete e le potete rivedere nel servizio qui sopra. Di quella storia si è discusso molto nei giorni seguenti e in tanti guardando quelle immagini si sono chiesti: è davvero necessario fare un Tso in quel modo? La dignità di Dario è stata rispettata? “I Tso sono delle ratio estreme”, ci spiega lo psichiatra Piero Cipriano. “Da riservare a pochissime persone che stanno in condizioni davvero singolari. Il povero Dario subisce una cattura, una caccia all’uomo: atterrato con la faccia sull’asfalto. Una spettacolarizzazione indecente”. Per capire di più la nostra Nina Palmieri è andata a Ravanusa (Agrigento) a parlare proprio con Dario pochi giorni dopo aver subìto il Tso. “Sono un brutto anatroccolo, non voluto”, ci dice. Lui è un ragazzo particolare e controverso, così come alcuni dei video quantomeno discutibili che pubblica in Rete e che potete vedere qui sopra. Il 2 maggio la mamma di Dario è a casa quando le squilla il telefono: “Era la dottoressa di famiglia, mi ha detto che le avevano telefonato i carabinieri e il sindaco per mio figlio”. A quel punto lei dà al medico il numero di Dario. Però, quando la dottoressa lo chiama, sembra si sia qualificata come ‘la dottoressa di Canicattì dei servizi sociali’. “Mi ha detto: mi raccomando Dario, ci hanno contattato i carabinieri, la devi smettere di andare in giro dicendo che non c’è nessuna pandemia. Se non la smetti e non ti curi dobbiamo prendere precauzioni’”, racconta proprio Dario. Lui però si accorge che al telefono c’è la sua dottoressa di famiglia. Dario esce di casa arrabbiato e con un megafono, girando per le strade di Ravanusa dicendo che non c’è nessuna pandemia. A Nina Palmieri dice che era consapevole di poter essere denunciato per reati comuni. Nel frattempo però parte la richiesta di Tso. “La mia dottoressa non mi aveva visitato”, racconta. E se fosse vero, sarebbe strano perché prima di un Trattamento sanitario obbligatorio sarebbe opportuno aver almeno prima incontrato la persona in questione. “Non si può risolvere con una proposta telefonica, proponendo cure, e, se il soggetto rifiuta quel no, diventa l’innesco del Tso”, ci dice il dottor Cipriano. Quella mattina comunque Dario viene fermato dalle forze dell’ordine e subisce il Trattamento sanitario obbligatorio. Il Tso, per essere lecito, deve essere convalidato da un secondo medico dopo la proposta del primo. Dario nega che ci sia stata una visita, ma a sentire il vigile “la dottoressa c’ha parlato con lui all’interno della macchina”, chiedendogli di uscire dal mezzo. È una prassi normale convalidare un Tso dopo aver parlato con qualcuno attraverso il finestrino di una macchina? “No, è come il parlare attraverso il telefono”, ci spiega Cipriano. La diagnosi, formulata dalla due dottoresse, è “scompenso psichico con agitazione psico motoria”. “Una non diagnosi di una vaghezza straordinaria”, dice Cipriano. Ma come si è arrivati a questa diagnosi, se il primo medico si è limitato a una telefonata e il secondo forse gli ha parlato attraverso il vetro di una macchina? “Il Tso era programmato dalla mattina”, dice uno dei vigili. “Il ragazzo purtroppo non è stato sedato in quel momento perché stava protestando… per i giorni prima, con i video che ha fatto. Quello del cacciavite…”. Se fosse vero, possibile che la diagnosi sia stata basata sui video postati sui social? “Non puoi tu, solo sulla base di questi, decidere che lui ha un disturbo psichico, non basta”, ci dice Cipriano. Per capire se la diagnosi sia davvero stata basata su quei video, Nina Palmieri ha cercato le due dottoresse in questione che però non hanno voluto commentare. Avremmo voluto parlarne anche con il sindaco, che è colui che emette l’ordinanza per il Tso. Il sindaco però non ci ha risposto al telefono. Tornando a Dario, dopo aver subito il Tso viene portato in ospedale. Viene ricoverato in psichiatria e i suoi familiari nel frattempo raccontano che “non sapevamo cosa era successo”, ci dice il fratello. “Lo abbiamo saputo da Facebook”, aggiunge la madre. I genitori così vanno in ospedale, ma “non me lo facevano vedere né sentire”, ci dice. Al terzo giorno di ricovero anche il fratello va al nosocomio, ma una dottoressa gli dice che a causa del coronavirus le visite sono sospese. Il fratello prova allora a contattarlo telefonicamente, ma come potete sentire dalle telefonate nel servizio sembra che non sia possibile parlargli. Dario dice di essere rimasto legato al letto per cinque giorni. La madre racconta di essere tornata in ospedale ma questa volta riesce ad avvicinarsi al reparto: “C’era una finestra, sentivo lui che diceva "mamma", mi straziava il cuore non poterlo né vedere né aiutare”. Dopo quattro giorni di ricovero, finalmente riescono a parlare con Dario. Dopo sette giorni, esce dall’ospedale nelle condizioni che potete vedere nel servizio: “I miei scopi nella vita sono stati annullati in un attimo”. Intanto, sono partite delle indagini che speriamo facciano presto luce su quanto realmente accaduto. Anche la famiglia si è mossa con una denuncia per “sequestro di persona e anche tortura”, ci dice il fratello.
Il controllo del potere al tempo del coronavirus. Maurizio Ballistreri il 2 marzo 2020 su avantionline.it. Il dramma della diffusione del coronavirus ha evidenziato tutta l’improvvisazione e l’inadeguatezza del nostro apparato pubblico. Non si tratta soltanto della tradizionale rappresentazione di un Paese paralizzato da un’iperinflazione di leggi e regolamenti, da una cultura burocratica invasiva e beota, da una pubblica amministrazione pletorica, costosa inefficiente e spesso corrotta, vessato da un sistema fiscale oppressivo e dal peso di corporazioni intoccabili, che costituiscono una sorta di “Stato canaglia” per il cittadino comune. No, nel clima di allarmismo e di incapacità a gestire un’emergenza si è evidenziata, ancora una volta, tutta l’estemporaneità della classe politica della ormai “Terza Repubblica”, il cui paradigma sono la mascherina del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, con la quale si “concesso” ai social, e le dichiarazioni alla stampa del premier Giuseppe Conte, che hanno creato un deleterio clima di terrore. Un clima che ha messo a nudo i limiti della nostra identità collettiva e il riproporsi dell’immagine dell’italiano individualista, senza Stato né Nazione. E alla generale condizione di allarmismo relativo al coronavirus non sono certamente estranei i mass-media, giornali, tv, social, anzi sono in aperta compartecipazione, dimostrando così, come avesse ragione il grande filosofo della scienza Karl Popper, allorquando poco prima della sua scomparsa, ammoniva sull’obbligo di avere una patente per la gestione delle televisioni, che andrebbe esteso ai giorni nostri a tutti i mezzi di informazione. Però, “a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, diceva uno dei politici-simbolo della Prima Repubblica, Giulio Andreotti, e, quindi, c’è da chiedersi se il terrore, in larga parte non giustificato, diffuso in primo luogo dal governo nazionale sul coronavirus dipinto come peste manzoniana, non sia in realtà una cortina fumogena dell’attuale precaria maggioranza di governo, che sopravvive a sé stessa, su alcuni provvedimenti di legge che cambieranno radicalmente in peggio la vita degli italiani, sul terreno dei diritti e della democrazia. La riforma della prescrizione, con la creazione di una sorta di mostruoso istituto dell’”ergastolo processuale” strumento di una nuova santa inquisizione, in primo luogo, nei cui confronti si sono levate contro, innanzitutto, le voci delle migliore scienza giuridica italiana, erede della tradizione di Cesare Beccaria e Giuseppe Zanardelli; il nuovo sistema delle intercettazioni poi, anch’esso gravemente lesivo delle garanzie del cittadino nei confronti dell’invasività ingiustificata della magistratura inquirente nella sfera dei diritti e che evoca alla memoria le tragedie dei sistemi totalitari: dal controllo dei telefoni e della corrispondenza dell’Ovra fascista, sino al dramma di intere popolazioni sistematicamente “ascoltate”, come nei regimi comunisti dell’Europa dell’Est, e dei quali una bellissima quanto drammatica rappresentazione è stata compiuta nel film “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar 2006 per il miglior film straniero, che descrive i controlli nella ex Germania Orientale da parte della Stasi, il servizio segreto. Riforme del sistema giuspenalistico contro le quali già sono state annunziate iniziative referendarie di abrogazione. E last but not least il taglio dei parlamentari, che, nei fatti, costituisce una lesione della democrazia e della partecipazione, prodromica della democrazia del click (attraverso piattaforme digitali di società “amiche”!) e in prospettiva della democratura, modello ad un tempo di finta democrazia e di dittatura silente che si va diffondendo anche nella nostra Europa, già afflitta dalla compressione dei diritti sociali creati e diffusi dalle socialdemocrazie nel dopoguerra, a causa della visione mercatistica dell’Unione monetaria; un modello segnato dal filo rosso filosofico che passa da Platone al Leviatano di Hobbes, a Hegel, al “Terrore” di Robespierre, all’interpretazione leninista di Marx, al modello gentiliano di Stato di Mussolini, a Stalin e Pol Pot. Contro questa deriva i sinceri democratici hanno il dovere di mobilitarsi per reagire, per difendere il liberalismo come dottrina del controllo dei limiti del potere, a partire dal votare No nel referendum sulla diminuzione di deputati e senatori del prossimo 29 marzo. Maurizio Ballistreri
Dottor Speciani: «Devono mantenere il panico fino all’arrivo del vaccino». Denise Baldi il 15 Maggio 2020 su Oltre.tv. Il dottor Luca Speciani è il presidente di Ampas, un’associazione di oltre 800 medici che in questo periodo di lockdown si è più volte fatta sentire. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente. Alcuni dicono che il coronavirus sia in Italia da ottobre, altri da gennaio. Il periodo di incubazione dura al massimo 14 giorni e in media una settimana. Quindi il virus avrebbe avuto mesi per girare indisturbato e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Poi il 10 marzo chiudono 60milioni di italiani dentro casa e il 21 marzo abbiamo il picco dei positivi. È un andamento coerente con le informazioni che abbiamo? Io non sono un virologo ma una considerazione posso farla. Troppe cose sono state date per vere e non lo erano, come troppe cose sono state spacciate per fake e sono risultate vere. C’è stata un’azione violenta da parte dell’informazione, con martellanti pubblicità televisive, per determinare quali notizie seguire. In democrazia non dovrebbe esistere. Per quanto riguarda i decessi abbiamo un dato nazionale del tutto paragonabile a quello degli anni passati, salvo in alcune province della Lombardia. In totale 30.000 morti di cui 14.000 in Lombardia e di questi 7.000 deceduti in RSA. Il caso della Lombardia è il riflesso di una serie di errori drammatici, forse fatti in buona fede per le poche informazioni sul virus. Le persone uscivano dalla terapia intensiva e venivano mandate in RSA a fare la convalescenza, ancora infette. Questa situazione ha generato una strage. In tutte le altre regioni d’Italia abbiamo invece dati del tutto equiparabili a quelli degli anni passati. Dice Lustig: “Il virus non distingue chi infetta ma distingue benissimo chi uccide”. I decessi riguardano infatti per lo più anziani con età media di 78 anni, 3,3 patologie concomitanti, 75% maschi e 75% obesi. Una categoria molto specifica a cui la Covid-19 dà una risposta violenta generando una coagulazione intravascolare disseminata che porta alla morte. Nelle RSA c’erano proprio questo tipo di persone.
Morti “per” o “con” Codiv-19. Ancora oggi, sul sito della Protezione Civile, sotto al numero dei decessi (arrivato quasi a 30.000) è scritto: «In attesa di conferma ISS». Quando arriverà questa conferma? E come, dato che hanno cremato i cadaveri e quindi non possono effettuare autopsie? È normale che, a distanza di due mesi e mezzo, ancora non si riesca a scorporare il numero dei deceduti in attesa di conferma dal numero di deceduti confermati o non confermati?
Leggono la cartella clinica, quindi basta che il medico abbia scritto Covid-19. Mi pare strano che l’ISS possa non convalidare la scheda.
Ma uno è morto “per Covid-19” o “con Covid-19”? È un’altra valutazione da fare. Un esempio: un signore ha avuto un infarto qualche anno fa, prende farmaci ed è obeso, quindi è molto sensibile al Sars-Cov-2, prende il virus e muore. Magari sarebbe morto ugualmente tra sei mesi o un anno ma io questa morte la considero per Covid-19. Anche se è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso questo signore avrebbe potuto vivere sei mesi o un anno in più. Quando invece arriva una persona in ospedale, muore di infarto e poi risulta il tampone positivo e assegnano la morte alla Covid-19 ritengo che non sia corretto. So che sono girate disposizioni ministeriali che indicano di riportare come morte per Covid-19 tutti quei decessi associati a sintomi riconducibili al coronavirus. Vogliamo farci del male da soli e mantenere un clima di terrore, una dittatura sanitaria. Quest’anno infatti sono improvvisamente scomparse dal computo dei morti le polmoniti e sono sparite completamente le mortalità da influenza e altre patologie virali. Tutti Covid-19.
Dottor Speciani su contagiati, asintomatici e guariti. Hanno falsificato tutto il falsificabile. E i giornalisti hanno mantenuto alto il tiro per aumentare il panico. Il numero di morti dovrebbe essere un dato più preciso ma in realtà non sappiamo quanti sono.
Anche i numeri di contagiati sono opinabili perché non si può considerare contagiata una persona che ha il tampone positivo ma è asintomatica. Questa è una “persona che ha incontrato il virus”, definizione che fa molto meno paura. Inoltre hanno fatto pochissimi tamponi, rispetto alla popolazione totale, quindi quanti sono davvero i contagiati? Su quel numero reale (che comprende tamponati e non tamponati) andrebbe calcolata la letalità. In Italia si arriva al 16% di decessi ma i contagiati sono molti di più di quelli dichiarati. Se questo virus è davvero un po’ più infettivo rispetto a una normale influenza vuol dire che a oggi ci saranno almeno 6-7 milioni di contagiati e che la letalità è bassissima. Chi è al potere dovrebbe far fare il test sierologico che ha un costo irrisorio e permette di avere un numero davvero preciso, vista anche la poca affidabilità dei tamponi. Il valore reale di letalità è quindi irrisorio e colpisce una categoria di persone a rischio perfettamente identificabile. Sarebbe inoltre corretto, durante gli annunci della Protezione Civile, oltre a indicare i decessi giornalieri, comunicare anche il numero di coloro che sono guariti senza nemmeno aver bisogno di terapie mirate, che è un dato importante e molto rassicurante.
Correlazione coi vaccini e la novità del plasma iperimmune. Il virologo Giulio Tarro e il medico Mariano Amici hanno parlato di una possibile associazione tra le vaccinazioni antinfluenzali e l’aumento del rischio di contrarre il coronavirus e di avere complicanze. Secondo lei andrebbe indagata questa possibile associazione? Le risulta che qualcuno lo stia facendo? Ippocrate ha insegnato: “prima di tutto non nuocere”. Il principio di precauzione andrebbe usato sempre nel dubbio. Ma sappiamo, anche grazie a uno studio dell’esercito americano sulle vaccinazioni e il coronavirus, che esiste un fenomeno chiamato interferenza virale. Nel bergamasco e nel bresciano c’è stata una campagna vaccinale importante, a causa dei focolai di meningite, che potrebbe aver influito. Questa è un’ipotesi plausibile anche se non ancora verificata.
Dottor Speciani, ci può dire cosa pensa, da un punto di vista scientifico, economico e politico, di tutta la questione plasma iperimmune? È assolutamente un rimedio da utilizzare per chi è in terapia intensiva o sta soffrendo in modo grave. Nell’Ospedale Carlo Poma di Mantova, dove lavora il dottor De Donno, da un mese non c’è più un decesso. Le nostre autorità sanitarie stanno sbagliando criticando De Donno. Il primario ha preso un po’ di visibilità per far conoscere anche agli altri il metodo, per utilizzarlo. Negli Stati Uniti hanno infatti chiesto in 4000 cliniche di conoscere il sistema del plasma iperimmune e cosa succede? Mandano i NAS all’Ospedale di Mantova. Anche nella sua intervista in Rai, De Donno è stato praticamente zittito. Poi ha chiuso i suoi due profili Facebook. Perché questa cosa fa paura? Fa paura perché se trattiamo la categoria a rischio (anziani, con più patologie, obesi e di sesso maschile) col plasma, il numero di decessi può tranquillamente scendere verso lo zero.
Dottor Speciani: «Si è seguito la via del terrore». Sembrerebbe che in altri Paesi del mondo le restrizioni siano state più leggere rispetto all’Italia. Non solo: in Italia hanno chiuso prima e stanno riaprendo dopo (qui, qui e qui un po’ di testimonianze). Eppure, negli altri Paesi, il numero di positivi e di morti non è inferiore ai numeri che avevamo a inizio marzo in Italia, quando è iniziato il lockdown totale di due mesi. La domanda è: perché negli altri Paesi non si sta avendo quell’aumento impressionante di casi e di decessi che in Italia sarebbe stato scongiurato dal lockdown? Cosa c’è di diverso in Italia rispetto all’estero? C’è di diverso che, invece del buon senso, si è seguito la via del panico e del terrore. In Svezia sono stati più ragionevoli. È chiaro a tutti che la diffusione del virus ha avuto il picco in un momento in cui non avevamo molte informazioni. Poteva quindi essere condivisibile dire di stare a casa. Dopo però bisogna ricominciare a riaprire tutto. Negli altri paesi hanno chiuso cinema, teatri e altri luoghi dove si riunivano molte persone ma hanno lasciato la possibilità di andare al mare, stare al sole e all’aria aperta. Questi tipi di restrizioni minimali sono quelle che hanno avuto più successo. Il lockdown dovrebbe deciderlo il presidente del Consiglio e discuterlo in parlamento, invece tutto questo viene bypassato. Decide la task force, che chiede l’immunità, e questa è un’assurdità. Loro dovrebbero studiare il problema e portare le relazioni al politico che poi prenderà le sue decisioni.
Già se fermassero il lockdown oggi si conterebbero (hanno stimato alcuni economisti) sette milioni di persone senza lavoro per le chiusure delle rispettive aziende. Borrelli che dice che va prolungata l’emergenza sanitaria di altri sei mesi. Lui forse resta padrone della scena ma il resto d’Italia va a picco. Sarà un disastro economico.
La totale indifferenza dei mass media per AMPAS. A proposito di trasparenza e pluralità dell’informazione: AMPAS è un’associazione di oltre 800 medici. Avete pubblicato un comunicato che, se dovesse leggerlo il telespettatore medio di Fabio Fazio, resterebbe basito. In tv si vedono sempre le stesse facce che dicono le stesse cose. Qualche trasmissione televisiva vi ha mai contattato? Possibile che autori e giornalisti non si rendano conto che con voi farebbero uno scoop? Com’è possibile che un’associazione di 700 medici pubblichi certi comunicati e venga totalmente ignorata dai mass media tradizionali? Senza un confronto le persone non possono capire l’importanza di un’opinione indipendente. Non hanno mai chiamato uno di noi a parlare nelle grandi TV mainstream perché questa storia ha una regia e devono continuare a mantenere il panico fino all’arrivo del vaccino. Quando vedevamo il teatrino giornaliero di Borrelli, alla sua destra c’erano talvolta figure impresentabili. Alcune di queste hanno conflitti di interesse mostruosi che dovrebbero essere dichiarati a chi guarda la diretta. Le persone devono sapere perché parlano sempre i soliti personaggi e che molti di questi individui hanno ricevuto ingenti somme da case farmaceutiche. Un semplice avviso, come avviene nei congressi e nei lavori scientifici, sarebbe utile e farebbe capire a molti che non tutti (anche se lo dicono) parlano in nome della Scienza. Denise Baldi
La “scienza” moderna come la Santa Inquisizione: silenzia violentemente chi non è allineato. Diego Fusaro il 30 Marzo 2020 su radioradio.it. La scienza ha indubbiamente un suo legittimo campo di applicazione e di ricerca. Esso chiede di essere riconosciuto e rispettato nella sua specifica operatività. La scienza si occupa di porzioni delimitate della realtà e opera secondo una ragione calcolante: insomma, nel suo campo specifico la scienza è insostituibile. Tuttavia proprio in nome del rispetto che occorre tributare alla scienza, bisogna distinguerla accuratamente da pratiche che nulla hanno a che vedere con essa. Vorrei a tal riguardo svolgere due considerazioni: La scienza non può degenerare, come diceva Karl Jaspers, nella superstizione scientifica di chi pensa che il metodo scientifico possa valere in universale, come se tra tutti i saperi la scienza fosse il solo valido. Vi sono infatti campi in cui la scienza non ha assolutamente nulla da dire: penso all’etica, alla politica, all’estetica o alla teologia. “La scienza non ha a che fare con la verità, bensì con la certezza”, diceva Hegel. Può dimostrare la certezza del punto dell’ebollizione dell’acqua, ma non può discernere sul senso del mondo o su Dio. Una scienza che pretende di essere il solo sapere valido, cesserebbe proprio per questo di essere scienza e scadrebbe nella superstizione scientifica. “La scienza dovrebbe procedere per congetture e confutazioni“, direbbe Popper, non certo con i dogmatismi che si impongono secondo la forma dell'”ipse dixit”. Emblematiche restano le polemiche di Galileo contro Simplicio e i dogmatici di ogni tempo. Rispettare la scienza quando si mantiene nel suo campo, dubitarne invece quando pretende di essere il solo sapere valido e non proceda criticamente, ma dogmaticamente. Come sta accadendo ora, addirittura alcuni scienziati vengono silenziati per legge con il bavaglio e le sanzioni perché portatori di tesi scientifiche differenti da quelle dominanti. Stiamo paradossalmente assistendo molto spesso al trionfo di una scienza che procede violentemente, occupa il posto vacante della religione e si trasfigura essa stessa in una nuova religione, con i suoi sacerdoti, i suoi riti e la sua inquisizione. Questa non è più scienza: la scienza procede alla maniera di Galileo, ovvero dialogando, e non punendo il falso, bensì confutandolo scientificamente. La scienza vera vuole che guardiamo dal cannocchiale per fare esperienza delle cose certe, quella dogmatica si rifiuta di guardare nel cannocchiale e preferisce silenziare le voci non allineate, preferisce la sanzione al dialogo e diviene una religione dell’intolleranza che nulla ha invero a che vedere con la nobile scienza di Galileo e di Newton.
La Santa Inquisizione in camice bianco colpisce ancora! Marcello Pamio il 27 Maggio 2020 su disinformazione.it. Hanno gentilmente atteso la fine della prima quarantena e poi, al segnale convenuto, hanno scatenato l'inferno. Mi riferisco alle armate della Santissima Inquisizione moderna, le medesime che dal XV secolo hanno “punito, incarcerato e corretto” tutte le persone affette da “perversione eretica”. Hanno preso il “diavolo” come scusante ma lo scopo era redimere tutti quelli che uscivano dalla “normalità”, dal pensiero unico, dal paradigma dell'epoca...Sono passati molti secoli da allora e le strategie adottate si sono ovviamente aggiornate e adattate camaleonticamente al periodo. Innanzitutto gli spietati inquisitori hanno abbandonato il nero per il più consono camice bianco, e le torture sono state soppiantate dal rogo mediatico e professionale. Oggi infatti, nella società dell'immagine, preferiscono screditare, sputtanare, ridicolizzare, e se riguarda un medico sospendere e/o radiare. A proposito di medici, l'ultimo a finire sotto il Malleus Maleficarum (Martello delle Streghe) è stato il dottor Ennio Caggiano, un bravo e simpaticissimo medico di famiglia della provincia di Venezia. Ecco cosa riporta la lettera giunta per Pec a Caggiano in data 25 maggio 2020. “Perviene a questa Azienda una segnalazione, sottoscritta da alcuni medici di medicina generale, con la quale si denunciano comportamenti deontologicamente poco accettabili, posti da Lei in essere, nel suo profilo Facebook”. Le accuse dei delatori con lo stetoscopio al collo sono pesantissime: il dottor Caggiano ha avuto la pessima idea di scrivere qualche post su Facebook, ma vi rendete conto? Veniamo a conoscenza quindi che un medico non può godere dell'articolo 21 della Costituzione, quello della “libertà di espressione”. Ma la chicca arriva dopo poche righe: “Le ricordo che Lei opera come Medico di Medicina Generale, e che la Medicina Generale è il primo punto di contatto fra il cittadino/paziente il SSN e come tale è il comportamento del medico curante, a cui il paziente si riferisce con fiducia, può ingenerare allarme, in particolar modo in settori delicati come il campo vaccinazioni in cui l'investimento della sanità pubblica è preponderante, fino ad indurre il paziente alla perdita della fiducia e credibilità nei servizi sanitari”. Finalmente si arriva al tema del contendere: i vaccini sono un dogma! Punto. Non si possono toccare pena la segnalazione/richiamo/radiazione da parte dell'ordine. Capito? Eresia da estirpare con ogni mezzo. I vaccini, lo dicono loro, sono l'investimento della sanità pubblica preponderante, quindi anche per questo motivo non si possono mettere in discussione. La parte finale però fa comprendere qual è la vera paura per questi ciarlatani: la perdita di fiducia e credibilità nei servizi sanitari, cioè nelle loro cure chimiche deleterie e nei loro sistemi pseusopreventivi chiamati screening. La colpa è del dottor Caggiano o del dottor Roberto Gava o del dottor Paolo Rossaro (questi ultimi medici radiati dagli ordini) se le persone si stanno allontanando sempre più da una medicina protocollare/difensiva, una medicina rigida e impagliata, totalmente fagocitata dalle industrie della chimica e farmaceutica? La colpa è del dottor Caggiano se oggi le persone, nonostante la medicina basata sulle evidenze, continuano ad ammalarsi e a morire più di prima? Ricordo solo che in Italia oltre 500 persone muoiono ogni giorno per cancro (o per le terapie!). Questo ennesimo caso mostra sempre di più la vera natura dell'ordine dei medici, che da organizzazione di tutela della categoria dalle aggressioni esterne (malpractice) è diventata un vero e proprio organismo di inquisizione con il compito di punire il pensiero non allineato. E' arrivato il momento di una legittima, sacrosanta e forte reazione da parte di tutta la classe medica perché qui di mezzo non c'è il dottor Caggiano, ma l'autonomia e la libertà in Scienza e Coscienza di un medico! Si dovrebbero tirare fuori le palle e far sentire il proprio pensiero in modo coeso, anche perché non potranno mica radiarli tutti quanti? Si deve prendere atto che sta cambiando il paradigma su certe terapie e trattamenti, per cui non è più possibile avere un unico pensiero allineato e unanime. Basta con l'Inquisizione!
Alberto Dandolo per Dagospia il 28 maggio 2020. Come riportato da questo disgraziato sito, il primo a prevedere quanto sarebbe accaduto nel mondo col diffondersi del coronavirus è stato in tempi non sospetti il mitologico Avvocato Alfonso Luigi Marra. Un precursore della lotta allo strapotere delle banche e a quello che è tutt'ora un "crimine" impunito noto come "sognoraggio bancario". Il tenace avvocato è intatti noto per essere riuscito a far conoscere a tutti gli strati sociali gli illeciti, i furti e i "reati" commessi dagli istituti di credito grazie all'utilizzo di testimonial iper pop. Indimenticabili i pubblici smutandamenti a favore di bancomat di Sara Tommasi, gli spot surreali di Manuelona Arcuri e, non per ultime, la conturbante Aida Yespica e l'indimenticata Ruby Rubacuori. Marra il 22 febbraio scorso, prima della scoperta del caso "zero" a Codogno, sui suoi social scrisse profeticamente: "In pochi giorni emergerà che le autorità, mentendo come sempre, hanno sminuito quella che sarà tra pochissimo una grave pandemia. L’insufficienza respiratoria in una percentuale di casi richiede trattamenti (macchine per la respirazione) che la sanità è in grado di fornire solo a pochi. sicché, ora che il numero dei malati aumenterà, non sarà possibile curarli''. E se tanto ci da tanto, una lettura ai suoi post delle ultime settimane sarebbe cosa buona e giusta. Qualche giorno fa ha scritto testualmente: "Continuare ora ad imporre mascherine e distanze è illecito perché è ormai notorio che il covid non provoca più affezioni polmonari sicché lo stanno facendo – consci di aggravare ulteriormente la situazione economica – solo per reprimere ancora per un po’ l’ira dei rovinati dalle misure e per cercare di far sfuggire che esse non hanno influito in nulla sulla diffusione. Perché nelle fasi più virulente (diciamo dal 20 febbraio, ma forse da ben prima, agli inizi di marzo) non c’era praticamente alcuna misura e se, più di tanto, il covid non ha colpito è per fattori diversi da quelli che narra questa pletora di furfanti e/o di cretini, siano essi sedicenti politici o sedicenti scienziati. Furfanti, i politici, che stanno ora per principiare la speculazione dei grandi prestiti a carico pubblico dalla NON restituzione garantita". Per l'avvocato il vero problema resta la catastrofe climatica. Secondo lui" la crisi in atto è poca cosa e il virus men che nulla. "E sulla divisione dei 55 miliardi: "55 miliardi - che sono il 5% degli almeno 1.000, senza signoraggio, che ci vorrebbero solo per cominciare - rimarranno, come è sempre stato in Italia, parte attaccati alle mani degli innumerevoli e delle innumerevoli entità preposte alla loro erogazione, parte smarriti nei soliti mille rivoli oscuri di cui nessuno saprà mai nulla, parte in un modo o l’altro rubati dalle banche, e parte infine andranno, però in ritardo e tra mille problemi e traversie, agli aventi diritto. Fermo restando che invece l’intera cifra sarà addebitata alla collettività. Nessuno (o molto pochi) vuol capirlo (Conte ha il 70% di gradimento), ma, se non cambia tutto, non cambia niente". E continua: "Per classe impiegatizia intendo tutti coloro che vivono di stipendio, tra i quali anche i politici, i magistrati, i sindacalisti, i giornalisti e tutti i tipi di dipendenti dei media pubblici e privati, i finanzieri, i cosiddetti ‘scienziati’, le polizie, gli alti burocrati, gli impiegati pubblici e quelli privati con lavori stabili, e via dicendo. Una classe che garantisce il grosso del supporto elettorale e del consenso a questo sempre più inqualificabile apparato. Persone che vivono di stipendio tra cui anche von der Leyen, Lagarde, Michel, Sassoli, tutti i componenti della Commissione e del Consiglio e quant’altri. Decine di milioni di persone che hanno il controllo di tutto, che stanno continuando a prendere gli stipendi, che - salvo particolari settori - stanno lavorando meno o per niente, e che non hanno certo patito i danni di coloro che hanno dovuto chiudere le attività e si sono ritrovati con le stesse spese di prima e nessun incasso.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 27 maggio 2020. "Abbiamo chiuso un intero Paese in casa, ma abbiamo al contempo anche aperto una porta sul vuoto. Diventeremo immuni al virus, ma abbiamo infettato la nostra democrazia". E' la tesi definitiva, quasi un epitaffio, di “DEMOCRAZIA IN QUARANTENA. Come un virus ha travolto il Paese“, l’ultimo libro di Paolo Becchi e Giuseppe Palma. E' un libro-denuncia spietato, ma non è un libro per i complottisti perché la realtà che delinea è sufficiente a spaventare più di qualsiasi scenario surreale. Naturalmente sotto accusa spietata degli autori ci sono le gravi responsabilità del governo Conte 2 nella gestione dell’emergenza causata dal virus cinese. Le illustrano con una cronaca politica della situazione, da gennaio a metà aprile, sottolineando l'irritualità giuridica e l'abuso dei decreti-legge e dei Dpcm emanati dal governo, dei quali svelano evidenziandoli i gravi profili di incostituzionalità. Peraltro è una incostituzionalità che esperti e studiosi di qualunque tendenza politica hanno denunciato, ma le denunce sono rimaste inascoltate nel vuoto di democrazia costruito sulla paura. Di fatto sembriamo esserci abituati a tutto, anche che a dettare i limiti della libertà personale sia stato un comitato di esperti virologi edepidemiologi in realtà non al servizio de cittadini italiani e della tutela della loro salute, ma intenti a costruire la rete di protezione dell' l'uomo solo al comando. Italiani brava gente? Per Becchi e Palma soprattutto italiani passivi, spaventati, in realtà non consapevoli dei propri diritti fondamentali. Le responsabilità principali dell'abuso di potere dell'imbroglio ricadono naturalmente sul governo di Giuseppe Conte e soprattutto sul Premier e sui suoi diciamo così più stretti collaboratori, ammesso che siano più di uno. Ma parole durissime sono riservate a una inconsistente Unione Europea, che la pandemia come in un gigantesco momento della verità, ha rivelato in tutta la sua pochezza politica, in egoismi che sono ben al di sotto di qualunque degno istinto sovranista. Sarà alla fine un disastro positivo? Alla fine meglio così, visto che si abbattono ad uno ad uno tutti i residui di retorica europeista sotto il peso dell'evidente tentativo di sfruttare nell'occasione le nazioni più deboli per rimpinguare le casse di quelli più forti, al solito la Germania e la Francia, ma anche generosi paradisi-fiscali come l'Olanda, rigorista sempre col culo degli altri? Vedremo, di certo assieme all'ideale farlocco dell'Unione Europea è venuta fuori fino in fondo la crisi della globalizzazione, con gli Stati nazionali costretti a fronteggiare da soli l’emergenza attraverso le strutture di sanità pubblica che proprio l'austerità imposta dai diktat europei aveva tagliato senza pietà negli anni scorsi. Nella cronaca la ricostruzione di Becchi e Palma è impeccabile nel mettere in fila le responsabilità che da Roma Palazzo Chigi tentano con fake news da mesi di respingere. "Il 3 febbraio i governatori del Nord chiedevano la quarantena per chiunque arrivasse dalla Cina, mentre il governo – nelle persone di Conte e Speranza – ridimensionava il tutto avanzando l’idea che si trattasse di governatori leghisti che volevano approfittare della situazione per discriminare i cinesi. Si arriva persino ad organizzare un flash mob a sostegno delle attività commerciali cinesi, come se qualcuno volesse discriminarle. Il punto di ipocrisia più alto lo raggiunge il 2 febbraio il sindaco di Firenze Nardella lanciando l’hashtag #abbracciauncinese. Zingaretti non è da meno, tant’è che a fine febbraio si reca a Milano a bere un aperitivo coi giovani democratici, aderendo alla campagna del sindaco Sala «Milano non si ferma». Ancora una volta il “politicamente corretto” ha avuto la meglio sul buon senso […].". Eppure il governo sapeva benissimo come stessero le cose visto che è venuta fuori una delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio con la quale il governo aveva dichiarato lo stato di emergenza per la durata di 6 mesi. "Da detta delibera, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il primo febbraio, emerge chiaramente che l’esecutivo era stato informato – quantomeno sin da gennaio – della gravità della situazione. Si legge infatti che «considerata l’attuale situazione di diffusa crisi internazionale determinata dalla insorgenza di rischi per la pubblica e privata incolumità connessi ad agenti virali trasmissibili, che stanno interessando anche l’Italia », il governo «impone l’assunzione immediata di iniziative di carattere straordinario ed urgente, per fronteggiare adeguatamente possibili situazioni di pregiudizio per la collettività presente sul territorio nazionale». Se le cose erano di tale gravità, perché dal 31 gennaio al 21 febbraio il presidente del Consiglio e il ministro della Salute hanno continuato a dire che era tutto sotto controllo? Perché hanno tacciato di razzismo chi, già il 3 febbraio, aveva richiesto la quarantena per chiunque arrivasse dalla Cina? Perché, dopo che il governo ha adottato il decreto-legge del 23 febbraio, il primo sull’emergenza epidemiologica, il segretario del PD chiedeva a fine febbraio di non fare allarmismo a tal punto da bersi un aperitivo a Milano coi giovani del suo partito? Ma poi soprattutto, perché il governo non ha fatto nulla in questo periodo? Tre settimane di ritardo nell’agire configurano, a nostro avviso, l’ipotesi del reato di «delitti colposi contro la salute pubblica» (art. 452 c.p.). La magistratura dovrebbe pertanto indagare sulla negligenza del premier e del ministro della Salute". Quanto agli errori dei virologi diventati eroi da Talk Show TV, uno per tutti tra quelli citati nel libro. "Complici i gravi errori di valutazione di alcuni virologi, tra i quali spicca Roberto Burioni che il 2 febbraio, quindi addirittura dopo la dichiarazione dello «stato di emergenza» del governo, nel rispondere ad una domanda di Fabio Fazio diceva: «Io ritengo che in questo momento in Italia il rischio di contrarre questo virus è zero perché il virus non circola» […].". Con la stessa faccia tosta dopo qualche giorno hanno deciso di rinchiuderci. Dove chi scrive non è d'accordo è invece sulle conclusioni alle quali arriva amaramente il libro e arrivano i suoi autori. "Cosa succederà politicamente nei prossimi mesi? Non appena la situazione migliorerà, Conte – il nostro venerato Xi Jinping – si prenderà tutti i meriti per i suoi provvedimenti eccezionali che hanno salvato il Paese e il suo governo potrà tirare a campare. Non conta se abbia agito “rispettando le regole”, perché siamo in «stato di emergenza» e nell’eccezione conta solo il successo o il fallimento. E il successo contro il virus è garantito. […]. Niente però sarà più come prima. Resterà l’idea che in Italia da un giorno all’altro si può sospendere qualsiasi diritto: è sufficiente gettare nel panico un’intera popolazione per controllarla come si vuole. Se i nostri diritti fondamentali sono limitabili in massimo grado con il consenso di tutti per un problema di sanità pubblica, perché questo non dovrebbe valere anche in altri casi?" Quel successo secondo me non ci sarà, già non c'è più, Conte non ha nessun merito da prendersi e la gente ha ben chiaro in quale incubo sia stata spinta, prima costretta ad arresti domiciliari, ora intrappolata in una situazione economica tragica, il cui prezzo è il nostro sviluppo, la nostra condizione di vita, la nostra dignità di nazione tra le più ricche del mondo. Non ci sarà un virus cinese 2 come non ci sarà un Conte 3. Anche se chi ne prenderà il posto perché è letto avrà un compito da far tremare i polsi. Scommettiamo?
· Gli esperti con le stellette.
I farmacisti militari che creano le medicine salvavita per chi ha una malattia rara. A Firenze c'è un centro chimico della Difesa che ha quasi due secoli ma produce medicine attualissime, dalla marijuana alle pillole contro il coronavirus. E soprattutto i farmaci "orfani" considerati dalle aziende più remunerativi. Floriana Bulfon il 18 giugno 2020 su L'Espresso. La concertina di filo spinato corre per centinaia di metri in mezzo alla periferia nord di Firenze. Sembra un residuato bellico, invece custodisce armi indispensabili: i farmaci. Noi le avevamo dimenticate, riscoprendole solo con l'epidemia. In questo baluardo della collettività invece non hanno mai smesso di occuparsene. Dai camici bianchi spuntano mostrine colorate, nell'unica officina farmaceutica di Stato c'è un'osmosi di competenze. Graduati di truppa e ufficiali, operai e laureati miscelano, combinano e distillano senza sosta per far fronte alla pandemia. Nei corridoi dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare si respira la storia: “Tavolette compresse” di chinina cloridrato, scatole ingiallite di canfora, alambicchi e distillatori per droghe in rame e ottone. La nascita risale al Regio Viglietto di Re Carlo Alberto del 1832 ma la vocazione militare diventa presto civile. A inizio del secolo scorso vede la luce il Chinino dello Stato per combattere la malaria nell'Italia unita e oggi un'ala del pian terreno è colma di taniche da cinque litri di soluzione idroalcolica: disinfettante per le mani che viene mandato negli ospedali. «Abbiamo iniziato con 800 litri, poi mille, ora siamo a oltre 2 mila al giorno», spiega Simone Taccetti, per tutti “l'ultimo dei Mohicani”. È entrato come allievo operaio nel 1986 a 16 anni quando c'era ancora la scuola interna di formazione. Travasa e impacchetta insieme a Giuseppe Mirra, un parà della Folgore rientrato da una missione in Afghanistan. Sotto al camice la mimetica e una certezza: «Veniamo da esperienze diverse, ma ci unisce l'essere al servizio della comunità». Velocità e flessibilità, come per le forze d'assalto. Cosa serve? Il gel? Produciamolo! Tremila flaconi al giorno. Alcuni lotti li hanno confezionati con una partita di merce di contrabbando: 4.700 litri di alcool etilico sequestrati dalla Guardia di finanza a Monopoli. Oggi c'è la necessità di tracciare i nuovi positivi al Covid 19, di fare i tamponi rapidamente e su larga scala. Mancano i reagenti? Stanno organizzando «in collaborazione con l'università di Firenze e l'azienda ospedaliera di Careggi una produzione pubblica e a basso costo», spiega il colonnello Antonio Medica, il direttore dello Stabilimento. Ha 55 anni, è arrivato qui come soldato per la leva e c'è rimasto per l'intera carriera dopo il concorso da ufficiale chimico-farmacista. Alle emergenze sono abituati. In seguito all'incidente di Chernobyl sono stati gli unici in Europa a creare in tempo record un milione di pillole di ioduro di potassio e da allora ogni due anni preparano la scorta strategica. Antidoti che finiscono in trenta magazzini d'Italia pronti in caso di attacchi bioterroristici e calamità nucleari. Nel 2009 invece hanno preparato più di 30 milioni di capsule di un antivirale per fronteggiare una possibile epidemia di influenza aviaria. Ma c'è un'emergenza che non si ferma mai: distribuiscono quotidianamente “farmaci orfani” e non hanno smesso di farlo per il lockdown. Sono quelli che le aziende private smettono di fabbricare perché “non più convenienti”, anche se sono fondamentali per la vita di tremila persone. Curano malattie rare che spesso colpiscono i bambini, destinati a passare la loro esistenza combattendo una doppia battaglia, contro la malattia e contro l'indifferenza di un mondo che non si accorge neppure della loro sofferenza. Bambini che hanno i muscoli incapaci di sorreggerli, costretti a vivere con malattie a cui si può dare solo un nome e non una terapia. Per loro i soldati di Firenze sono angeli custodi, che fanno arrivare le medicine direttamente agli ospedali. «Dipendiamo dall'Agenzia Industria e Difesa e sopperiamo alle carenze che si possono verificare. Il prezzo di vendita ha lo scopo esclusivo di permettere il sostentamento della struttura. Noi non dobbiamo fare profitti, ma garantire il pareggio di bilancio, perciò reinvestiamo tutti gli utili», chiarisce il colonnello Medica. Cifre simboliche per coprire le spese e dare speranza. Beatrice ha un nemico: la bilirubina all'interno del globulo rosso. Per sopravvivere trascorre metà della sua giornata dentro una macchina ingombrante. «Quando è arrivato un medicinale in grado di catturare la bilirubina, con le dovute ore di esposizione alla fototerapia e gli opportuni dosaggi riuscivo a concedermi qualche ora di libertà sui prati estivi a guardare le stelle, qualche gita romantica, le emozioni che vivono tutti», racconta. Poi piombano di nuovo le ombre, la ditta che produce quel medicinale per lei indispensabile decide che non conviene più continuare. Beatrice oggi è la prima bimba italiana con la sindrome di Crigler Najjar a diventare donna e mamma e ricorda ancora l'incontro con lo Stabilimento: «Il volto illuminato di mio padre come una stanza in una mattina d'estate. La sua voce tremante a fatica è riuscita a dire: “Lo faranno anche se siamo pochi, anche se siamo soli e lo riprodurranno ogni volta che ne avremo bisogno”». Scatole di principio attivo che possono permettere una rinascita. La cura trova l'essenza nelle persone che la producono. Tanti ex voto laici, racchiusi nelle lettere appese alla parete. Quella di Stefania riporta la data del 2 giugno. «Ho avuto la fortuna di conoscere lei, maresciallo, persona che è difficile descrivere con un solo “grazie” ma un uomo che ha messo a disposizione il suo tempo di festa per mettere nelle nostre mani quattro flaconi». Il marito Sergio è affetto da aritmie maligne e grazie alla mexiletina la sua qualità della vita è migliorata. Carmine Borzacchiello, infermiere dell'aeronautica, è un compagno di viaggio di pazienti, familiari e medici. Il suo telefono squilla continuamente. Dall'altro capo l'ansia di nonna Lucia che teme «di perdere il marito per colpa dell'egoismo», il farmacista Mauro di Cantù che cerca di aiutare un suo cliente appena dimesso dall'ospedale San Raffaele di Milano, Cristiano di Monza che vuole ringraziare «questi eroi sconosciuti». La pandemia non li ha fermati. Il caporale maggiore Ivo Rizza durante gli ultimi due mesi ha percorso 5 mila chilometri e si commuove pensando al primo maggio: «Io e il luogotenente Borzacchiello abbiamo fatto una corsa fino all'ospedale Santo Spirito di Pescara. Un bambino aveva ingerito un solvente a base di rame trovato in cantina ed era in fin di vita». A salvarlo è stata la D-Penicillamina che creano qui. «Nel posto giusto», come lo definisce Paolo Giannotta. Dopo la laurea in farmacia ha mandato un curriculum, l'hanno preso per il tirocinio e poi ha vinto il concorso: «Lavoro per quello che ho studiato, sento di fare qualcosa che non è legato alle sole dinamiche di profitto». Il suo mondo è oltre una stanza di sovra-pressione. Cuffia, tuta, calzari, guanti e una mascherina simile alle FFp3 a cui ormai siamo abituati. Con lui altri coetanei. Trentenni tecnici biologici e periti chimici, tutti civili. «Produciamo anche per 25 pazienti, ma con regole farmaceutiche. Sento di dare un senso alla cura», racconta Ilaria Fusi mentre consegna le medicine alla caporale maggiore Deianira Mele: «La nostra è una staffetta al servizio delle famiglie». Lavora allo Stabilimento dal 2016, viene dal reggimento Genio guastatori, in prima fila nei soccorsi durante terremoti e alluvioni. Dietro di loro una foto ritrae le donne al lavoro negli anni Quaranta. «Allora come oggi siamo la maggioranza», sorridono con orgoglio. In questo laboratorio da pochi giorni hanno prodotto anche il primo lotto di idrossiclorochina, il farmaco prima bocciato dall'Oms e poi riammesso ai test tra le polemiche, comunque prescritto da molti medici per i malati di Covid e considerato quasi una panacea dal famoso infettivologo francese Didier Raoult. Il ministero della Salute ha chiesto di studiare la formulazione di quello già in commercio per una sperimentazione e qui si sono dati da fare per ricrearlo. «Ogni volta che ci arriva la richiesta per un farmaco è una sfida, dobbiamo capire come adattare i processi produttivi, valutare le difficoltà e allo stesso tempo essere pronti ed efficienti», spiega il colonnello Stefano Mannucci, a capo della produzione. Dall'autunno del 2014, dopo l'accordo tra i ministeri della Difesa e della Salute, hanno anche il monopolio della produzione di cannabis per uso medico: 150 chili l'anno di inflorescenze essiccate, ma l'obiettivo è arrivare almeno al doppio perché sono tanti i pazienti costretti a rivolgersi al mercato estero, soprattutto olandese. Un'ala è in costruzione e stanno realizzando nuovi estratti oleosi, più pratici per le cure. Le serre sono camere bianche. Dentro l'odore intenso e dolciastro stordisce. Per entrare porte blindate, videosorveglianza. Tutto è sterile e computerizzato con una rete chiusa per timore di incursioni. Le lampade blu e rosse illuminano le talee ad orari stabiliti, simulando il ciclo del giorno. Il sistema di irrigazione è collegato ai monitor, la terra artificiale per non avere alcune contaminazione. «Quando arrivano al tempo balsamico, il punto di maturazione, le piante sono tagliate e appese a testa in giù per far andare tutto il principio attivo verso i fiori», spiegano Giorgia Brunetti, rientrata dopo un'esperienza in un laboratorio americano, e il biologo Giorgio Fagiana. Una volta seccati li triturano e pesano. Alla fine del ciclo escono barattolini tondi di plastica con cinque grammi di cannabis. «Dobbiamo arrivare a un prodotto farmaceutico standard, con una determinata quantità di principio attivo per grammo. Va inviato nelle case di malati, deve essere sicuro», chiarisce il colonnello Mannucci. Il numero delle persone in trattamento è in crescita: nel 2013, primo anno in cui la cannabis è entrata timidamente nei sistemi sanitari regionali, il consumo era appena di 35 chili. Ora la richiesta è di 700 chili. «Oggi l'organico è di 85 persone, quando sono entrato nel 1990 eravamo in 270», racconta il direttore Medica. «Eppure la difesa della salute pubblica e la tutela del malato sono due missioni nelle quali è possibile esprimere al meglio i valori di eticità e di servizio per il Paese». Questa struttura un tempo era una cittadella autosufficiente. Le torri con la riserva dell'acqua, la centrale termoelettrica, le officine meccaniche. Si scorge ancora la scritta sbiadita della falegnameria. L'edera ha coperto i binari. Accanto corre l'alta velocità all'altezza della Stazione Rifredi, ma fino agli anni Novanta i treni entravano fino ai laboratori. Era uno snodo logistico per far partire immediatamente in farmaci. «Abbiamo toccato con mano l'importanza di poter disporre di una produzione nazionale di mascherine, reagenti, disinfettanti», ragiona Medica. Per il ministro della Difesa Lorenzo Guerini occorre riflettere: «La capacità operativa delle nostre forze armate non può essere data per scontata. Serve avviare un dibattito pubblico scevro da ipocrisie evitando il rischio che una volta passata l'emergenza da coronavirus nella percezione collettiva le spese per la Difesa vengano giudicate superflue o non necessarie. Condizionando in questo senso anche le decisioni di parte della politica. Sarebbe un errore gravissimo, che non ci possiamo permettere». Per la sanità militare si spende lo 0,32 per cento del budget del Servizio sanitario nazionale: ma la pandemia ha fatto capire a tutti come gli ospedali da campo, gli aerei con le barelle isolate per i contagiati, i sanificatori per le residenze anziani, i medici e infermieri con le stellette siano un'arma strategica. Su cui conviene investire, per la salute di tutti.
· Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.
Tutto Travaglio. Il Piccolo Premier di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano il 21 aprile 2020. In tempi di clausura, ci si diverte come si può, anche con vecchi e nuovi giochi di società. Nel nostro ambiente è molto in voga il Piccolo Premier, ultimo della serie Piccolo Chimico, Dolce Forno ecc., ma meno pericoloso. Funziona così: ogni giorno si inventa che il governo cade, o è già morto ma ce lo tengono nascosto, e se ne fabbrica uno nuovo col pongo, il Das, il Lego o il Meccano. E tutti giù a ridere. Il Conte-2 doveva cadere ancor prima di nascere. Sul Def, l’Ilva, l’Alitalia, la prescrizione, l’Emilia, la tosse della pulce Innominabile. “Conte è il premier colibrì che batte le ali 70 volte al secondo solo per restare fermo. Ma la strategia dell’immobilismo rischia di portare alla crisi” (Damilano, l’Espresso, 2.2). “Dalla prescrizione all’Ilva, il mese orribile di Conte” (Stampa, 4.2). Del resto il governo è “senz’anima”, “senza idee”, “orfano” (Repubblica), “senza identità” (Repubblica-Espresso). “Conte come Schettino”, “Capolinea Conte”, anzi “Conte mira al Colle” (Giornale, 13, 14 e 16.2). “Conte faccia le valigie: ormai è finito” (Feltri, Libero, 12.2). Ma niente, non cadeva. Poi arriva il Covid e “Conte fa più paura del virus” (Belpietro, Verità, 10.2), anzi “Il virus è Conte” (Giornale, 25.2). Ci vuole un bel governo di larghe intese, lo dicono anche i due cazzari Matteo. E qui il gioco passa alla fase2: rovesciato in premier, se ne fa un altro. Anzi, spunta. “Spunta l’ipotesi Cottarelli” (Giornale, 11.3). “Spunta la carta Bertolaso” (Corriere, 9.3), che ben meritò sul G8 e sul terremoto, oltrechè nei centri massaggi e nei tribunali. Oggi “supercommissario”, domani chissà. Piace ai due cazzari Matteo, a B., ma soprattutto a Farina-Betulla (Libero, 10.3): “Serve un capo con poteri eccezionali: l’ideale è Bertolaso”. A Capezzone: “Pronto il commissario per Giuseppi” (Verità, 10.3). A Paolo Guzzanti (Verità, 10.3): “È il nostro Cincinnato: salvaci tu!”. E a Marcello Sorgi, su La Stampa (10.3): “Bertolaso o Gianni De Gennaro, personaggi forti, abili, sperimentati” (De Gennaro soprattutto al G8 di Genova). Meraviglioso il Sole 24 ore: “Supercommissario, Conte frena ma apre” (11.3). Dunque “Conte ha il timer: debellato il virus dovrà sloggiare” (Mario Giordano, Verità, 3.3). “Il governo non dà garanzie di solidità e piena consapevolezza… inadeguato… confuso… impacciato”, ergo urge “un proconsole anti-virus, un commissario con pieni poteri, un ‘uomo forte’” purchessia (Stefano Folli, Repubblica, 10.3). Poi Bertolaso arriva, ma solo alla corte di Fontana&Gallera. E, a parte contagiarsi e mandare in quarantena collaboratori e passanti, fa poco o nulla (il mega-ospedale in Fiera per ben 10 pazienti). Però il gioco continua. “Giorgetti: dopo ci vuole Draghi” (Foglio, 6.3), quello che fino all’altroieri la Lega trattava da usuraio. “I due Matteo al lavoro: un governo a guida Draghi per la ricostruzione” (Messaggero, 27.3). Nell’attesa, “I giallorotti fingono di andare d’accordo, ma Franceschini continua a logorarli” (Giornale, 6.3). Minzolingua spiega sul Giornale (7.4): “il blitz del 2011 di Napolitano insegna: si può fare un governo in due giorni”, che ci vuole. “Conte in affanno, ora anche Mattarella chiude l’ombrello” (il Giornale, 17.4). E quando chiude l’ombrello Mattarella è finita. Di premier su piazza ce n’è da scialare: Cottarelli, Draghi e Franceschini, ma non solo. Libero (17.4): “Colao verso Palazzo Chigi con la benedizione di Trump” (l’ha confidato personalmente The Donald a Feltri dopo una cert’ora). Il Dubbio (17.4): “I dem pensano a Colao”. Ecco, Colao. Non vi piace? Basta chiedere: “Quel tam tam su Panetta. Il Pd si porta avanti con l’alter ego di Draghi” (il Giornale, 17.4). E al governo Panetta non aveva pensato nessuno, anche perché nessuno sa chi sia Panetta. Però “a maggio ci sarà la resa dei Conti. I due scenari: Conte senza Renzi oppure Draghi con Berlusconi” (il Giornale, 14.4.), ma non si esclude Panzironi con Gegia. Intanto però c’è il “mistero di Conte, che sbaglia ma non crolla” (Libero, 20.4). E come si fa? Sorgi garantisce, in base a “una serie di fattori, nessuno dei quali davvero decisivo” (fondi di caffè, viscere di animali, cose così), che “spira un venticello di crisi” (Stampa, 17.4). Il prestigioso Verderami, sul Corriere (15.4), annuncia “la bufera” è dietro l’angolo e poi il “governo Draghi”, visto che nel Pd “Conte viene ormai vissuto come il "moderno rappresentante del cadornismo” (qualunque cosa voglia dire). Il manager Andrea Guerra, sincero democratico, ha un’ideuzza mica male (Linkiesta, 18.4): “Commissariare il Paese per 24 mesi e riconsegnarlo ai giochi normali della politica dopo due anni”, con un bel governo Draghi “di poche persone brave e competenti”. Il “giurista” Paolo Armaroli ha già la lista (Il Dubbio, 14.4): “Di qui a poco Mattarella potrebbe convocare un terzetto di portenti formato da Amato, Cassese e Draghi e scegliere, dopo l’uscita di scena dei tanti dilettanti allo sbaraglio, il meglio del meglio ai posti di comando. Con un Cassese multiuso, jolly qual è, presidente del Consiglio, ministro dell’Università, dell’Interno, del Tesoro et similia”. Già, perché Cassese non è solo un portento, ma pure un millennial di 85 anni e potrebbe fare tutto lui. Inutile scomodare “poche persone”, quando ne basta una sola.
Coronavirus, Angelo Borrelli è l'uomo dei fraintendimenti: "Mascherine, cosa intendevo davvero. Sto con la Lombardia". Libero Quotidiano il 5 aprile 2020. "Sono stato frainteso". È la frase che forse è anche un po' il cavallo di battaglia di Angelo Borrelli. Quando apre bocca, il capo della Protezione Civile rischia di fare danni. E successo due volte soltanto nel corso del fine settimana: prima le dichiarazioni sulla fase due che hanno contrariato il premier Giuseppe Conte e costretto Borrelli alla rettifica, poi l'uscita sulla mascherina ("Io non la porto") che aveva fatto infuriare la Lombardia. Quest'ultima ha infatti varato un'ordinanza che rende obbligatorio indossare la mascherina o qualsiasi tipo di protezione per la bocca quando si esce di casa. A ruota anche la Toscana ha adottato lo stesso provvedimento e allora il commissario straordinario per l'emergenza è stato costretto al dietrofront. O meglio, al chiarimento per l'ennesimo fraintendimento: "Ho detto che non indosso la mascherina perché negli ambienti in cui mi trovo posso rispettare le misure di distanziamento sociale". Borrelli si giustifica così e poi si schiera con la Lombardia: "L'ordinanza va rispettata, è importantissimo l'uso della mascherina negli ambienti in cui non si riesce a rispettare la distanza in modo rigoroso, nella metropolitana o nei supermercati. Le mascherine evitano la diffusione del contagio, io sono qui dentro tutto il giorno e non porto la mascherina perché non posso trovarmi esposto al rischio con più persone nello stesso ambiente".
Borrelli, la storia surreale del perfetto capro espiatorio. Silenzioso, restio a polemizzare, vacilla alla guida della Protezione civile. Dove resta "l'autista di Bertolaso". Carmelo Caruso, Domenica 05/04/2020 su Il Giornale. All'interno della Protezione Civile è conosciuto come il «matematico di Bertolaso», ma anche come «l'autista di Bertolaso». E però, non si creda che per Angelo Borrelli, l'uomo a cui la malasorte e il governo, hanno scaricato la crisi e la sciagura, questi siano insulti. Anzi: «È la verità. Ho imparato tutto da lui, ma non posso essere lui». E infatti, quando i giornalisti hanno provato a fare litigare il vecchio con il nuovo, («Davvero non si sente commissariato dal suo arrivo?») il capo riluttante ha risposto con le parole belle dell'amico ritrovato: «Sono felice di lavorare insieme. Spero che Guido possa essere di questa partita». Chi non ha fatto parte della squadra di Bertolaso, dice che difficilmente riuscirebbe a capire i vincoli e gli affetti che sono nati dopo il terremoto del 2009 a L'Aquila: «Eravamo colleghi, ma da allora diventammo qualcosa di più». E qui, forse, occorre sfatare la prima cattiveria che è stata gettata su Borrelli, pugile a cui adesso tutti le suonano: «Non è altro che un uomo che è rimasto sempre dietro la scrivania». Per oltre sei mesi, da vice capo dipartimento dell'area tecnica, Borrelli lasciò il suo ufficio di Roma e si trasferì nell'epicentro del sisma dove ancora qualcuno ricorda: «Dormiva in caserma, mangiava insieme ai volontari. Non ha mai alzato la voce con nessuno». Ciociaro, è nato vicino Latina, nel paese di Santi Cosma e Damiano, cinquantasei anni fa, la sua formazione è quella del contabile, revisore dei conti, e la carriera, è tutta pubblica. Prima di passare alla Protezione Civile, si è formato nella Ragioneria Generale dello Stato, in pratica in mezzo a quei tecnici che devono bilanciare le fantasie dei governi senza sfasciare i bilanci. Tra le sue angosce c'è quella di non ricevere un avviso di garanzia che si sa, in Italia, è danno collaterale per chi fa il suo mestiere. Per questa ragione, Borrelli controlla atti, documenti: si affida alle cifre come i naufraghi allo scoglio. Taciturno come gli uomini di Luigi Pirandello, ha solamente nella tavola e nella campagna, la sua, i piaceri segreti: «Si ritrova e si ricarica nei fine settimana. Sta bene quando è in sella al suo trattore» rivela un amico. Non ha figli e per la Capitale non si muove con auto di servizio, ma con il suo motorino che non fa tanto comandante in capo. Il motivo per cui a distanza di mesi non si è mai provato a stendere un suo profilo è proprio questo: «Non c'è ragione per parlarne male ed è troppo buono», dicono i funzionari della Protezione Civile. «Ad Haiti, Bertolaso fece polemica anche con Barack Obama. Borrelli non riesce neppure a polemizzare con il ministro della Sanità, Roberto Speranza», sussurra un altro. Ma allora come spiegare la gaffe dell'intervista, quella dell'annuncio: «In Italia i contagiati possono essere seicento mila»? E come spiegare l'uscita improvvida, in radio: «Le misure potrebbero essere prorogate fino al 16 maggio»? Chi lo conosce è certo che se Borrelli l'ha pronunciata è perché il governo voleva che la notizia uscisse. Del resto è sempre il governo che lo ha voluto su quella sedia. Amico di Paolo Gentiloni (conosciuto durante la preparazione del Giubileo) è proprio lui che lo ha nominato capo nel 2011. Con il governo gialloverde si è avvicinato a Luigi Di Maio. Borrelli arriva alla guida secondo una successione rigidissima. Dopo Bertolaso viene nominato Franco Gabrielli che era stato prefetto a L'Aquila, poi il suo il vice, Fabrizio Curcio. Poi il vice di Curcio, vale a dire Borrelli. Oggi il vice di Borrelli è Agostino Miozzo, il viso che lo ha sostituito durante la febbre che si temeva di Coronavirus, ma per fortuna non lo era. «Ha singhiozzato al telefono. Ha pianto. Si è sentito solo» confessa chi gli è stato vicino. Si sa del resto che vuole andarsene, non appena conclusa l'emergenza, e che Conte gli abbia in passato rimproverato le casette di Amatrice dove entra acqua da tutte le parti. «Noi dobbiamo parlare, caro Borrelli» si era lasciato scappare dopo una visita. Ma Borrelli non aveva colpe. Le casette sono state fornite da Consip così come oggi non è Borrelli a dover gestire il pasticcio mascherine, ma un commissario che è Domenico Arcuri. Sempre disponibile con la stampa, accetta perfino la parodia che ne ha fatto di lui il governatore Vincenzo De Luca («Ci hanno mandato le mascherine di Bunny il coniglietto») uno che, si racconta, non gli vuole più parlare al telefono. Rischia di finire, immeritatamente, come capro espiatorio. Comandante senza comandi.
Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. Un giorno ci chiederemo quale sia stata la stella polare, la guida ferma, la figura di riferimento in questo periodo storico di paura ed emergenza, e di sicuro non ci verrà in mente il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Per carità, brava persona, come si dice in questi casi, però diciamo che il suo maglioncino blu col colletto dai bordi tricolore non è esattamente la corazza smaltata del guerriero. Borrelli è il dopo Bertolaso come Monti è stato il dopo Berlusconi, come Gentiloni e Zingaretti sono stati il dopo Renzi, come la triglia boccheggiante sul bagnasciuga è il dopo tsunami. Borrelli è la quiete durante la tempesta. Io lo guardo arrivare con la sua aria bonaria nella sala dove si svolge la conferenza stampa della Protezione civile (a tutti gli effetti l' ultimo programma tv ad avere ancora il pubblico in studio) e quando aprono i microfoni ai giornalisti per le domande vorrei sempre che qualcuno gli domandasse "Tutto bene? A casa come va? Le serve qualcosa dal supermercato accanto?". Ecco, mi verrebbe da domandare a Borrelli come stia lui, non come sta il Paese. Borrelli è anche quello che quando Bertolaso si è preso il Covid, s' è ammalato pure lui, per empatia. Aveva solo la febbre, tipo quei mariti che ingrassano insieme alle mogli durante la gravidanza. Anche perché Borrelli nasce contabile, Borrelli ha lavorato nella Ragioneria di Stato, Borrelli è uno che di numeri dovrebbe intendersi e invece il suo appuntamento con i numeri è un capolavoro di approssimazione in cui lui stesso sa che i morti sono di più, i contagiati sono di più, i guariti sono anche i dimessi non guariti quindi sono di meno, i tamponati sono anche i tamponati la seconda e terza volta quindi sono boh, quelli in terapia intensiva forse sono gli unici numeri veri, sempre che Borrelli non legga la riga sbagliata. Verrebbe anche da ridere se non fosse triste vederlo quotidianamente sbugiardato da politici, scienziati, giornalisti e perfino da se stesso, che in un moto di onestà è perfino riuscito a darsi torto da solo riconoscendo: "Il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti è credibile". E quando gli è stato fatto notare che nel bollettino allora sarebbe meglio dare i numeri da giocare al Superenalotto, ha risposto che magari sono numeri imperfetti ma comunque ha promesso a se stesso di dire sempre la verità. Dunque da domani posso dire "Io sono Sophia Loren" e sostenere che non sia una boiata, ma una dichiarazione imperfetta. Poi uno si stupisce se gli hanno rifilato le mascherine fatte con la carta igienica a un velo dell' Eurospin. Però è una brava persona, dicevamo all' inizio. E questo sicuramente lo tiene al riparo dalle critiche più feroci, perché a mettere in fila le sue risposte scialbe, evasive, grossolane, viene da chiedersi come mai, dai media, sia stato crocifisso in sala mensa o in sala stampa meno di altri. Come dimenticare quando per spiegare la quantità spaventosa dei morti, in Italia, non ha trovato di meglio che dire "ne abbiamo più della Cina perché è a causa della nostra longevità". O quando quel 3 marzo lesse il numero dei morti aggiungendo "Però voglio precisare che si tratta di ultra-ottantenni e di un ultra settantasettenne". I famosi ultrasettantasettenni. Memorabile anche la sua risposta a chi gli ha domandato come mai non si sia chiusa la zona di Alzano: "Non si è chiusa solo la zona di Alzano, ma di tutta la Lombardia! Non c' è stata nessuna difficoltà nel gestire la vicenda bergamasca!". Che è come dire: "Nel momento in cui stava per uscire l' acqua dalla vasca noi non abbiamo chiuso l' acqua, abbiamo impermeabilizzato i muri di casa! Ma c' è di meglio. O forse di peggio. È di fronte a un' altra domanda precisa che Borrelli rivela la sua impalpabilità. La giornalista, qualche giorno fa, gli dice che ha letto quello che era il piano anti-pandemia del governo per la Sars. Domanda a Borrelli che fine abbia fatto quel piano e perché dal 30 gennaio, quando è stata dichiarata l' emergenza, sia stato ignorato. Lui: "Per quello che ne so io era un piano per le pandemie influenzali, quando è venuto fuori che era un' epidemia da Coronavirus il ministero della Salute ha istituito una task force per capire come fronteggiare il virus. Quindi poi si è arrivati al piano di contrasto con l' incremento della terapia intensiva. Poi io i dettagli non li conosco". La giornalista non molla. "Ma scusi era un piano per le pandemie tipo Sars. Cosa è stato fatto il mese che ha preceduto lo scoppio dell' epidemia?". Lui: "È un virus nuovo, come si può immaginare di mettere in piedi un piano per un virus che non si conosce? Sono dettagli che non sono nelle mie competenze, come non lo è la pianificazione di contrasto". Illuminante. Il capo della Protezione civile che dice, nell' ordine:
A) la Protezione civile non ha alcun coinvolgimento nell' organizzazione di un piano di prevenzione per proteggere i civili. Dunque si chiama "protezione civile" ma potrebbe chiamarsi anche "Comodino" o "Johnny Depp"; B) l' aumento dei posti letto in terapia intensiva è IL piano di prevenzione;
C) quelli per la Sars erano piani per le pandemie influenzali, quindi non sa che Sars fa parte della famiglia dei Coronavirus; D) i piani di prevenzione esistono solo per malattie già conosciute, quindi secondo Borrelli prima ci facciamo infettare tutti, poi vediamo che si può fare per prevenire. Insomma, una brava persona Borrelli. Una di quelle persone che però se hai bisogno di aiuto, ecco, magari chiami qualcun altro.
Alberto Gentili e Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 17 marzo 2020. La parola d'ordine è distensione, ma la nomina a commissario straordinario per l'emergenza coronavirus del manager Domenico Arcuri, è stata vissuta nel quartier generale della Protezione civile decisamente come un'ingiustizia. Quantomeno perché nel decreto per gli stanziamenti economici, firmato ieri da Palazzo Chigi, all'articolo 119, comma 6, si tracciano i reali poteri conferiti all'amministratore delegato di Invitalia. Poteri che sono amplissimi: dall'emergenza sanitaria, «con l'organizzazione, l'acquisizione e la produzione di ogni genere di bene strumentale utile a contenere e contrastare l'emergenza stessa, al reperimento delle risorse umane». Borrelli che dirige il Dipartimento e che, in realtà, la nomina a commissario la ha avuta dal premier Conte solo verbalmente, ha anche pensato di rassegnare le dimissioni. Da settimane il lavoro è senza tregua, 24 ore su 24. Così, durante l'ultima riunione che si è svolta con lo stesso Arcuri e con il ministro Boccia, avrebbe detto che se il decreto non veniva rimodulato avrebbe lasciato. E che comunque, per evitare di farlo in un momento cosí difficile per il paese, avrebbe eventualmente rinviato la decisione alla fine dell'emergenza. La questione sembra essere rientrata perché il lavoro di Arcuri, secondo l'ultima versione del Dpcm, si svolgerà «in raccordo con il capo del Dipartimento della Protezione civile, avvalendosi delle sue componenti e delle strutture operative del Servizio nazionale, nonché del Comitato tecnico scientifico costituito presso detto Dipartimento». E, dunque, il ruolo di Borrelli sarà sempre rilevante e di grande importanza, ma non è escluso che l'abbandono dell'incarico sia solo rinviato a momenti più tranquilli. Ieri, poi, dall'entourage del neo commissario, di tensioni non volevano neanche sentirne parlare. «La decisione di nominare un'altra persona - viene spiegato - è stata presa unicamente perché Borrelli da solo non poteva farcela. Si era già deciso di portare la centrale degli acquisti, attraverso la Consip, a Palazzo Chigi. Il capo della Protezione civile non ha mai parlato di dimissioni. Anche perché più si è, meglio è». Uno dei ministri che ha partecipato alla stesura del decreto, però, definisce meglio la questione: «È evidente che Borrelli non sia rimasto contento per la nuova nomina - conferma - ma ha accettato perché è stata trovata una soluzione ragionevole». E ancora: «Certamente nei primi giorni bisognerà trovare una quadra, ma si lavorerà fianco a fianco. C'è talmente tanto da fare che di certo il lavoro non mancherà». Nel frattempo, proiettando lo sguardo molto avanti, c'è chi immagina anche il dopo emergenza, con l'Italia in grandissima necessità di ripresa in tutti i settori, dalla sanità alla scuola. E piuttosto che pensare a un super provveditore con deleghe in mille campi, a Palazzo Chigi starebbero già immaginando di creare un nuovo ministero, quello per la Ricostruzione. Qualcosa che esisteva nel periodo post bellico, durante il governo di Alcide de Gasperi. Nessuno nega, infatti, che quanto sta accadendo, ha gli stessi effetti di una guerra, e le conseguenze potrebbero essere di uguale entità, almeno se l'epidemia non si fermerà in tempi relativamente brevi. Nel 45 a rivestire quell'incarico vennero chiamati Ugo La Malfa e, come sottosegretario, Rosario Vassallo. Parlare di candidati possibili per gli anni recenti è decisamente troppo presto, anche se l'Italia, territorio dalle mille emergenze, ha a disposizione un discreto elenco di super tecnici ai quali affidare gli sforzi per la rinascita del paese.
Monica Guerzoni per il ''Corriere della Sera'' il 16 marzo 2020.
Presidente Conte, c’è un’Italia che rispetta le regole, canta dai balconi e, al 62%, condivide le scelte di Palazzo Chigi. E poi c’è l’Italia dei furbi.
«Bisogna evitare in tutti i modi gli spostamenti non assolutamente necessari. È il momento dei sacrifici, delle scelte responsabili. Fin dall’inizio ho lavorato con spirito di unità, mettendo la salute al centro, il che credo spieghi quel 62% di consenso. Stiamo affrontando un’emergenza mai conosciuta dal Dopoguerra a oggi. La stragrande maggioranza degli italiani è consapevole che le regole servono a proteggere i nostri cari. Sono orgoglioso di guidare questa grandiosa comunità, che nel momento di massima difficoltà si ferma a cantare l’inno nazionale e a rivolgere un commosso applauso ai medici e agli infermieri che lavorano stremati in corsia».
Più di 1.800 morti. L’Italia riuscirà a fermare l’epidemia, o larga parte della popolazione sarà contagiata?
«Se continueremo a rimanere a casa evitando contatti a rischio, saremo più efficaci nel contenere il virus. Gli scienziati ci dicono che non abbiamo ancora raggiunto il picco, queste sono le settimane più rischiose e ci vuole la massima precauzione. Non possiamo abbassare la guardia. È la sfida più importante degli ultimi decenni, per vincerla serve il contributo responsabile di 60 milioni di italiani».
In Lombardia mancano letti e mascherine, Fontana sente il governo distante e chiama in soccorso Bertolaso. Come risponde alla sfida?
«Alimentare polemiche non è sterile, è folle. L’organizzazione della sanità è in mano alle Regioni. Non potendo, né volendo stravolgere il nostro assetto costituzionale, dobbiamo collaborare tutti insieme per rendere la risposta del sistema sanitario quanto più efficiente possibile. Bertolaso non lo conosco di persona, ma giudico positivo che la Regione sia affiancata da una persona che conosce la macchina organizzativa della Protezione civile. Ne uscirà agevolato il dialogo con la centrale che opera a Roma, sotto la direzione di Borrelli e Arcuri».
Fino a notte i ministri si sono divisi sui poteri della Protezione civile. Borrelli ha minacciato le dimissioni perché «commissariato» da Arcuri?
«Nessuna divisione sul ruolo della Protezione civile, che è essenziale per coordinare il supporto alle Regioni. Borrelli non lo conoscete bene, è una persona di grande competenza e dal cuore generoso. Sta già lavorando con Arcuri in modo proficuo, entrambi consapevoli di essere chiamati ad affrontare una sfida di enorme portata».
La letalità così alta dell’Italia non suggerisce di cambiare strategia, magari facendo tamponi a tappeto come in Corea?
«Dobbiamo attendere qualche settimana per verificare i risultati delle nostre decisioni, ispirate alle indicazioni del comitato tecnico-scientifico. Per il resto non servono nuovi divieti, ora è importante rispettare scrupolosamente quelli che ci sono. Le attività motorie sono consentite, ma andare a correre tutti insieme è vietato. Bene hanno fatto i sindaci a chiudere i parchi e bene fanno i vigili a contrastare gli assembramenti. Questo purtroppo vale anche per le chiese. So che sto chiedendo tanto. Ma dobbiamo predisporci ad affrontare il picco del contagio ed è bene restare tutti a casa».
Le strutture sanitarie del Sud reggeranno, o si rischia il collasso?
«Anche gli scienziati più qualificati hanno difficoltà a fare previsioni troppo specifiche. Il nostro obiettivo è contenere o quantomeno rallentare la velocità di diffusione del virus, in modo da avere la possibilità di gestire l’emergenza in un tempo più dilatato, distribuendo una reazione efficace su tutto il territorio nazionale. Certamente non possiamo più permetterci errori comportamentali. Vanno assolutamente evitati gli spostamenti di chi, ad esempio, nei weekend lascia Milano per raggiungere la famiglia o la propria residenza al Sud».
Dopo il blocco dei treni notturni dobbiamo aspettarci altre chiusure, dalle farmacie agli alimentari?
«I servizi essenziali vanno garantiti. Se i supermercati, le farmacie, gli ospedali continuano a essere riforniti è perché alle spalle c’è una filiera industriale che lavora, con grande senso di responsabilità, affinché il Paese non si fermi. L’Italia ha potenzialità inesplorate, si è mossa con coraggio e altri Paesi, come Spagna e Francia, stanno seguendo il nostro modello».
Tanti industriali e commercianti hanno paura di non riaprire mai più. Aver lasciato la scelta tra restare aperti e fermare la produzione non rischia di innescare la concorrenza sleale?
«Il mondo delle imprese è chiamato a una sfida molto dura. Molti hanno chiuso e chi è aperto deve garantire ai lavoratori un adeguato livello di protezione. Questo decreto non sarà sufficiente. I danni saranno seri e diffusi, occorrerà varare un vero e proprio piano di “ricostruzione”. La Guardia di finanza interverrà duramente contro i comportamenti speculativi di chi impone prezzi fuori mercato, o lucra condizioni di vantaggio nelle produzioni dei beni di prima necessità. Dopo il coronavirus nulla sarà più come prima. Dovremo sederci e riformulare le regole del commercio e del libero mercato».
Per Salvini non tutti i lavoratori sono al sicuro...
«Non è il tempo delle polemiche, ma dell’impegno e delle soluzioni. Il governo ha dedicato 18 ore per chiudere l’accordo fra associazioni di categoria e sindacati al fine di garantire i massimi standard di sicurezza ai lavoratori. I lavoratori hanno fatto bene a far sentire la loro voce, sono in trincea, in prima linea per l’Italia. Ogni sacrificio è un atto di amore per il Paese, siamo al loro fianco».
Seguirà un periodo di lacrime e sangue?
«Stiamo rispondendo con un pacchetto di norme che consentiranno alla nostra economia di sostenere i costi imposti dall’emergenza. Siamo pronti, se sarà necessario, a intervenire di nuovo per il rilancio del Paese. Faremo il possibile affinché, anche nella stesura della legge di bilancio, l’Italia possa tornare a correre grazie agli investimenti, al taglio delle tasse, alla semplificazione e all’innovazione. Aiuteremo l’Italia a rialzarsi e sono convinto che ce la faremo».
La Lega sprona il governo a seguire la via tedesca, che ha messo sul tavolo 550 miliardi per i crediti alle imprese.
«Le garanzie previste nel nuovo decreto legge attivano flussi di finanziamenti che, in rapporto al Pil, sono analoghi a quelli della Germania».
L’Europa ai tempi del coronavirus è quella di Lagarde, o quella di von der Leyen?
«È quella capace di fare tutto ciò che è necessario per rispondere a un’emergenza che non è italiana, ma europea. Già nella videoconferenza di qualche giorno fa, la presidente von der Leyen mi ha chiarito la sua idea di impiegare tutti gli strumenti necessari a sostenere l’Italia. Le prime misure annunciate dalla Commissione per il sostegno medico ed economico mi appaiono efficaci e concrete, così come la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione nel mercato interno di beni sanitari».
Cosa chiederà oggi in videoconferenza agli altri leader del G7?
«È necessario un coordinamento europeo delle misure di ordine sanitario ed economico. È il momento delle scelte coraggiose e l’Italia può offrire un contributo significativo, come Paese che per primo in Europa ha conosciuto una così ampia diffusione del virus».
Due membri del governo, Ascani e Sileri, sono positivi. Quali contromisure avete preso?
«Un affettuoso saluto a Pierpaolo e Anna, con l’augurio che possano guarire presto insieme alle migliaia di italiani che ad oggi devono i fare i conti con questo virus. Da giorni ormai rispettiamo la distanza di un metro, svolgiamo le riunioni in videoconferenza e prediligiamo quanto più possibile lo smart working».
Che effetto le fa sentire Renzi spronare i Paesi europei perché non facciano «gli errori dell’Italia»?
«Gli italiani gridano dai balconi il loro orgoglio, testimoniano al mondo intero cosa significa appartenere a una medesima “comunità” e rimanere uniti. Mi chiamano tanti capi di Stato e di governo, che ammirano il nostro coraggio nell’adottare misure così restrittive e la dignitosa compostezza dei cittadini nel rispettarle. Sono sorpreso di cogliere un ex premier, che ha rappresentato l’Italia nel mondo, parlar male del governo italiano all’estero, nelle tv e nei giornali americani e tedeschi. Ma io non commento. Lascio che giudichino gli italiani».
Marcello Sorgi per “la Stampa” l'11 marzo 2020. Presa all' unanimità da tutte le forze politiche di maggioranza e opposizione, in circostanze eccezionali, la decisione di allargare a tutta l' Italia la zona rossa è stata annunciata da Conte in diretta tv. I divieti di spostamento, di assembramento anche all' aperto, di qualsiasi spettacolo o attività sportiva, e il prolungamento della chiusura di scuole e università fino al 3 aprile, segnano l' estremo passo avanti della strategia governativa, motivato dall' aumento dei contagi e dei morti, oltre che dal rischio di collasso degli ospedali. Resta però da decidere - e su questo l' unanimità appena ritrovata non c' è - chi si troverà a gestire in prima linea questa fase assai complicata dell' emergenza: lo stesso Conte, coadiuvato dalla Protezione civile, o un supercommissario dotato di pieni poteri, per porre fine all' anarchia dei diversi poteri territoriali e all' innata leggerezza degli italiani. L' elenco delle disobbedienze che ha reso impossibile il lavoro del premier, pur blindato a Palazzo Chigi dalla mattina a notte fonda, parte dai governatori, in prima linea quelli di Lombardia e Veneto Fontana e Zaia, che vanno ognuno per conto proprio. Poi ci sono i sindaci alla Sala, che passano dalle magliette "milanononsiferma" a implorare i propri cittadini di non mettere il naso fuori di casa. E così via, fino ai capiufficio che esitano a svuotare per quanto possibile i luoghi di lavoro, ai capicondominio desiderosi di normare l' uso dell' ascensore, ignari che, per chi può, le scale di questi tempi sono più igieniche. Si dirà che la situazione è tale da rendere impossibile un' ordinata azione di contrasto. Mettici anche la proverbiale superficialità degli italiani, che interpretano la raccomandazione dell' autoisolamento come un invito alle scampagnate all' aria aperta. Così che, solo per fare un esempio, si sono registrati casi di positività al tampone antivirus di milanesi di ritorno dalle piste di sci di St. Moritz, affollate di concittadini in fuga dalla capitale della zona rossa. Furbescamente, c' è poi chi riapre le case al mare, convinto che la brezza marina sia un valido rimedio al contagio. Illusioni e superficialità, purtroppo diffuse, di coloro che mettono a rischio se stessi e gli altri. Di qui l' idea del commissario. Avanzata da Renzi, condivisa da Zingaretti, tra l' altro vittima del Covid 19, e contrastata invece da Conte e dai Cinque Stelle, in un' ennesima quanto improvvida divisione della maggioranza giallo-rossa, alla vigilia dell' estensione del massimo livello d' allarme a tutto il territorio italiano. Perché il premier e, da ieri sera, anche il reggente del Movimento, Crimi, siano contrari alla scelta del commissario, che ripercorre tutte le precedenti esperienze di emergenza, a partire dai terremoti, è presto detto. Il timore pentastellato è che, a causa della performance generosa, al limite dell' abnegazione, ma non sempre brillante del governo, in un contesto di gravità inaudita come quello attuale, Conte, nominando un commissario, si ritrovi commissariato. Preoccupazione rafforzata dai nomi dei possibili candidati all' incarico: l' ex-capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, o l' ex-capo della Polizia e dei servizi segreti, attuale presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro. Personaggi forti, abili, sperimentati, capaci di usare i poteri eventualmente affidati loro senza guardare in faccia a nessuno. È esattamente ciò che Conte teme e per cui preferirebbe la più rassicurante, per lui, nomina di un sottosegretario, sottomesso per definizione al capo del governo. Ma così facendo, secondo i suoi critici, il premier starebbe dando prova della sua pignoleria avvocatesca, che lo fa perdere nei dettagli e rallenta le decisioni più urgenti. Giudizi ingenerosi verso un leader impegnato fino allo stremo nell' emergenza, che senza esagerare paragona "a una guerra". E tuttavia è vero fin dall' inizio che Conte ha effettivamente assunto su di sé in prima persona troppe, anche se non proprio tutte le responsabilità, motivando la sua decisione, in una recente intervista a "Repubblica", con l' opportunità di seguire l' esempio di Churchill. A parte il fatto che, come si sa, il celebre primo ministro inglese vinse la guerra ma perse il posto, si potrebbe ricordare a Conte anche l' esperienza del presidente del Consiglio francese, Georges Clemenceau. Il quale sosteneva che "la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali", ma dovette a un certo punto rassegnarsi al fatto che, senza di loro, è impossibile farla.
Marco Antonellis per Dagospia il 10 marzo 2020. E zona rossa fu. Come Dagoanticipato sin dal primo pomeriggio di ieri (quando nelle stanze di Palazzo Chigi si cominciava a parlare concretamente dell'ipotesi abbandonando i timori in merito) l'Italia vede da stamattina 60 milioni di persone in "quarantena". Dal Pd, intanto, sorridono sull'attivismo politico di Matteo Renzi anche durante l'emergenza Coronavirus. "Ha bisogno di visibilità, visto che sta al 3%. Con Bertolaso c'è chi punta a commissariare Conte. Ma c'è un governo ed il governo resta quello. Se poi si vuole discutere di un commissario tecnico che faccio acquisti più veloci non c'è problema. Ma di supercommissari che si sostituiscano al governo non se ne parla proprio", dicono dal Nazareno. Insomma, il partito di Zinga non ne vuol sapere di creare un super commissario ad hoc. Più probabile un sottosegretario che si occupi delle spese e degli acquisti. Per questo Giuseppi spera in un tecnico alla De Gennaro (riservato e poco avvezzo alle telecamere) anziché in un medico come Bertolaso (abituato a stare sotto i riflettori). Ma c'è chi fa il nome anche dell'attuale capo della Polizia Gabrielli. Il problema di Conte però è un'altro: per "Giuseppi" un nome troppo ingombrante potrebbe oscurarne il ruolo e magari diventare prodromico, se il contrasto al coronavirus dovesse andar male, per un governo di salute pubblica.
Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” - Estratto il 10 marzo 2020. Poi c' è l'Innominabile (Renzi, ndr) che, quando si tratta di dire una fesseria, non si tira mai indietro. Non sapendo più come farsi notare, fallito anche l' astuto tentativo di sbancare gli ascolti in un programma di gossip (0,36% di share), aveva pensato di tornare in prima pagina spacciandosi per contagiato, ma anche lì l' han fregato Zingaretti, Cirio e persino Porro. Così, aguzzando l' ingegno, ha avuto un' idea geniale, peraltro copiata dal suo spirito guida B. che la tirava fuori a ogni emergenza nazionale, internazionale e rionale: richiamare in servizio Guido Bertolaso, una vecchia gloria (si fa per dire) talmente bollita che già quattro anni fa era stata scartata persino dal centrodestra come candidato sindaco di Roma. L' ideona è subito piaciuta a Belpietro ("Ci vuole un decisore come Bertolaso") e a Farina-Betulla ("Ridateci Bertolaso. L' uomo delle emergenze è quello che ci vuole. Ma esige carta bianca". Cioè: detta pure le condizioni). Il Corriere svela che il suo nome è stato fatto a Mattarella da Renzi, Salvini e Gianni Letta, per dire la serietà della proposta. In fondo è "il medico che ha diretto la Protezione civile e gestito le grandi emergenze del Paese, dai rifiuti ai terremoti". Già, ma qualcuno s' è dimenticato come: essendo stato assolto nei processi, è passata la fake news che abbia fatto tutto a regola d' arte. Come se bastasse non commettere reati, o non farsi scoprire, per essere un fenomeno.
Chi era il commissario straordinario ai rifiuti in Campania quando la munnezza superava il Maschio Angioino, nominato da Prodi, poi fuggito per palese fallimento e richiamato da B. con una maleodorante scia di scandali e arresti? Bertolaso.
Chi era il commissario straordinario al G8 del 2009 che buttò 400 milioni in inutili grandi opere alla Maddalena, per poi traslocare l' evento in extremis a L' Aquila appena terremotata, lasciando nell' isola cattedrali nel deserto in preda alle sterpaglie e buchi stratosferici nelle casse dello Stato? Bertolaso.
Chi nominò "soggetti attuatori" di quegli appalti senza gara i famigerati Angelo Balducci e Fabio De Santis, che si rivolsero alla solita cricca di compari imprenditori e furono condannati in Cassazione a 3 anni e 8 mesi a testa per corruzione? Bertolaso.
Chi era pappa e ciccia con l'imprenditore Diego Anemone, asso pigliatutto degli appalti, che gli riservava in esclusiva il Salaria Sport Village per indimenticabili "massaggi" da "vedere le stelle" a opera di un'apposita brasiliana? Bertolaso.
Chi era il capo della Protezione civile che rassicurò gli aquilani ("non c' è nessun allarme in corso") dopo quattro mesi di sciame sismico, portando pure la Commissione Grandi Rischi a fare passerella, come confessò lui stesso al telefono con una funzionaria ("Vengono i luminari, è più un' operazione mediatica, loro diranno: è una situazione normale, non ci sarà mai la scossa che fa male") e inducendo molti a tornare a casa proprio alla vigilia della scossa letale del 6 aprile 2009 che fece 309 morti? Bertolaso.
Chi promise l'immediata ricostruzione dell' Aquila, che 11 anni dopo è ancora quasi tutta a terra? Bertolaso.
Chi dichiarò chiusa l' emergenza terremoto in Abruzzo il 24 luglio 2010, quando ancora 30 mila abruzzesi erano sfollati negli alberghi? Bertolaso.
Chi, nello stesso anno, sulle ali di cotanti successi, si aviotrasportò ad Haiti per fare l' umarell nell' isola caraibica devastata dal sisma e insegnare agli americani come si gestiscono le emergenze, attaccando Barack Obama e Hillary Clinton per l'"organizzazione patetica dei soccorsi e i troppi show in tv" (lui, così schivo) e finendo sbertucciato in mondovisione dalla Clinton come "uno che il lunedì fa polemiche al bar sulle partite di football", prima del rimpatrio col foglio di via? Bertolaso.
Ora voi capite bene l' urgenza di affidare il coronavirus a uno così. Piuttosto che Disguido Bertolaso, meglio la massaggiatrice.
Massacrato dai Pm, è Guido Bertolaso l’uomo che ci può salvare dal Covid-19. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 10 Marzo 2020. Chi era? Cincinnato, ci sembra, quell’austero antico romano richiamato in servizio dalla Repubblica ormai ottuagenario, per prendere in mano le redini dello Stato che andava a catafascio. Certo, ci fu il caso – totalmente politico – del generale Charles De Gaulle che se ne stava in campagna a Colombay Les-Deux-Eglises. E poi il caso di “Riusciranno i nostri eroi a riportare l’amico disperso in Africa” in cui Alberto Sordi va a recuperare nel continente nero Nino Manfredi (Ninì) malgrado lo strazio della tribù di cui era diventato il divo e lo sciamano, che scandiva Ninì-nun-ce-lassà. Tutto questo per dire che qualcuno pensa di richiamare in patria il nostro Cincinnato-Ninì che è Guido Bertolaso, il numero uno assoluto della Protezione Civile. Ieri l’ho cercato sul cellulare e lui mi ha risposto per sms: «Sono in Africa, ti richiamo appena posso». Infatti Bertolaso vive in Africa dove salva vite, costruisce ospedali, organizza la sanità: è un grande organizzatore ed è un medico. Oggi l’Italia è in condizioni peggiori – fatte le proporzioni – di quelle cinesi, quanto a virus: considerato che la Cina è circa 30 volte più popolosa dell’Italia, i nostri quattrocento morti per Coronavirus equivarrebbero a 12.000 morti cinesi. Però la Cina non ne ha avuto dodicimila, ma soltanto tremila. Capito quanto siamo avanti? “Better call Bertolaso”, hanno detto gli appassionati della serie Better call Saul: proviamo a chiamare Guido, magari torna. Noi non vogliamo risolvere la questione dell’epidemia con mano militare (come ha fatto la Cina) ma con le mani di una persona con esperienza e competenza che sappia fare le cose senza belare né abbaiare. Sembra che il primo ad uscire allo scoperto sia stato Matteo Renzi, ma il nome di Bertolaso gira da parecchio da quando il governo si è reso conto non solo di aver fallito, ma anche di avere ministri terrorizzati dalla propria ombra, il ministro della Salute Speranza si è messo al fianco uno scienziato come Walter Riccardi proprio per cominciare a chiudere qualche falla, ma tutti sanno che se si vuole affrontare e vincere una guerra ci vuole un generale. E che se vuoi vincere ci vuole un medico che sia anche uno stratega. Non sappiamo se davvero lo chiameranno, non sappiamo se il Presidente della Repubblica come qualcuno dice ha chiesto di convocarlo, ma sappiamo che Bertolaso se ne sta in Africa come il Cincinnato e come Ninì-Nun-Ce-Lassà di Manfredi. Sapendo – e non credo sperando – che prima o poi gli avrebbero chiesto di tornare. E questo soltanto perché Bertolaso ha un curriculum unico, è stato massacrato da un’aggressione giudiziaria da cui è suscito vincitore. Fra le altre sue imprese, aveva fronteggiato un disastro che avrebbe potuto diventare come quello attuale del Covid19, ma non lo diventò grazie a lui. Fu quello della Sars, acronimo inglese che significa “grave crisi respiratoria” di origine virale. La Sars non è una malattia, ma una condizione patologica e chi muore di Covid19, muore in realtà di Sars, cioè di polmonite interstiziale bilaterale. Bertolaso è stato segato, perseguitato, messo alla gogna mediatica e ridotto al silenzio, come sempre accade in Italia dove è il governo-ombra è sempre guidato dal Partito Invidia e Manette Italiano. per quale colpa? Ma è semplicissimo: benché non fosse stato scelto da Silvio Berlusconi che lo trovò già al suo posto, il fondatore di Forza Italia si prese per questo manager con una competenza pari alla sua leadership, una vera cotta. Gli avrebbe perfino dato il suo partito per metterlo in rianimazione, se Bertolaso avesse accettato. Fu capace di risolvere la mostruosa faccenda della monnezza a Napoli e del terremoto dell’Aquila e fu prontamente accusato di ogni possibile crimine amministrativo, del tutto campato in aria, ma sufficiente per stroncarlo, avvilirlo e metterlo fuori gioco. È stato direttore della Protezione Civile per nove anni, dal 2001 al 2010 e per due fu Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per affrontare l’emergenza rifiuti. La sua biografia è su Internet, ma ci piace ricordare che questo medico d’avventura e di organizzazione è stato finora l’unica persona capace di mostrare l’anello di congiunzione fra competenza e politica, cosa non soltanto rarissima, ma interdetta. La Protezione civile è oggi nelle mani di personale amministrativo la cui unica capacità è quella di emettere comunicati pompieristici, nascondendo oltre il decente lo stato delle cose, e anzi la verità. Non avendo alcuna fiducia nell’attuale classe di governo, dubito di veder tornare l’uomo giusto al posto giusto quando ce n’è bisogno. Più probabilmente il partito dell’invidia e delle manette non smetterà di emettere le sue flatulenze avvelenate come ha sempre fatto. Guido Bertolaso è stato assolto da tutte le accuse che lo hanno messo fuori gioco per sette anni dalla pubblica amministrazione, al solo scopo di colpire Berlusconi quando il Cavaliere era il bersaglio grosso. Nient’altro. E bisogna anche ricordare che Bertolaso, pur avendo avuto l’opportunità di avvalersi della prescrizione e liberarsi dei suoi processi, la rifiutò per avere il piacere di veder riconosciuta la sua innocenza. La sua colpa maggiore è stata quella di aver fatto fare al governo Berlusconi una magnifica figura ai tempi del terremoto dell’Aquila, permettendo al presidente del Consiglio di dare le chiavi di casa a cinquantamila persone in sei mesi, più, una bottiglia di prosecco. Anni dopo Forza Italia giocò malissimo la possibile candidatura di Bertolaso come sindaco di Roma, una città ormai in preda alle convulsioni, alle voragini, ai gabbiani, alla frustrazione e all’odio. peccato. Fu così che Bertolaso decise di tornare alla sua Africa, ai suoi ospedali, ai bambini malati, ai pozzi di acqua potabile, agli ospedali chiavi in mano. Ieri era ancora lì: «Sono in Africa, ti richiamo». Non mi ha richiamato, dunque c’è anche il caso che non abbia potuto perché sta volando verso la patria ingrata.
Sicilia, la consulenza col giallo di Bertolaso: "Mi occuperò di coronavirus e turismo". Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da Claudio Reale su La Repubblica.it "Mi occuperò di come far venire i turisti in sicurezza", afferma l'ex capo della Protezione Civile, arrivato in barca nell'Isola non rispettando le regole della quarantena. Musumeci aveva detto di averlo incontrato a titolo personale, Razza aveva dovuto correggerlo. E ora spunta una lettera d'invito. Alla fine spunta una nota, una lettera d'invito con la data del 20 maggio. C'è la firma del presidente della Regione Nello Musumeci e un numero di protocollo, 12087. È giallo però sulla presenza in Sicilia dell'ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso e su una consulenza che gli sarebbe stata affidata dalla Regione: Bertolaso è stato avvistato a Palermo il 27 maggio, ha mangiato in un'osteria del centro storico di Palermo con una tavolata della quale facevano parte anche il presidente della Regione Nello Musumeci e l'assessore regionale alle Attività produttive Girolamo Turano. "Prenderà il posto di Antonio Candela", ha ricostruito il giorno dopo il Giornale di Sicilia. "No, non è vero", ha detto giovedì in conferenza stampa lo stesso Musumeci. "Si trovava in Sicilia per ragioni di lavoro", ha corretto ieri pomeriggio l'assessore alla Salute Ruggero Razza. La versione ufficiale, suffragata adesso dalla lettera del 20 maggio, è che Bertolaso sia stato invitato da Musumeci in Sicilia per "partecipare ad una riunione inerente l'emergenza Covid-19". Nella lettera c'è anche un passaggio esplicito sulla possibilità di aggirare la quarantena, imposta invece a chiunque venga nell'Isola per motivi turistici: e non è un dettaglio, perché giovedì in conferenza stampa il governatore aveva evocato apertamente la natura turistica della presenza di Bertolaso nel Trapanese. "Sapevo che Bertolaso andava a Trapani dove ormeggia la sua barca - ha detto il governatore all'agenzia Agi - così ci siamo incontrati e abbiamo mangiato assieme qualcosa. Abbiamo affrontato tanti temi, ma mai parlato di affidargli il posto di Candela". Così, ieri mattina, il quotidiano La Sicilia si era chiesto perché a Bertolaso fosse concessa la possibilità di venire in Sicilia per motivi turistici mentre a tutti gli altri, residenti di ritorno inclusi, è imposto l'auto-isolamento per 14 giorni. "Giolitti - attaccava così il presidente dell'Antimafia Claudio Fava - diceva che 'per gli amici le leggi si interpretano' e oggi lo dicono anche Musumeci e Razza. Costretto, quest'ultimo, a smentire il suo stesso presidente pur di salvare la faccia. Infatti, se per uno Bertolaso era qui 'per motivi personalì e, quindi, avrebbe dovuto osservare la quarantena, per l'altro era qui per lavoro, pur di non ammettere l'evidenza". Così, alla fine, a scacciare le polemiche ci ha provato lo stesso Bertolaso."In Italia - ha detto - se non si polemizza, non si riesce a dormire la notte". L'ex capo della Protezione civile sostiene di essere stato chiamato nell'Isola per "studiare il modo migliore per consentire ai turisti di venire qui tranquilli e sicuri e ai siciliani di evitare di essere contaminati. Quindi sto dando una piccola mano a gestire questa situazione e ho rifiutato vitto e alloggio preferendo starmene sulla mia barchetta (ormeggiata a Trapani) facendo anche risparmiare qualche euro al contribuente siciliano". Per una riunione che evidentemente alla Regione sarà stato giudicato impossibile organizzare in video-conferenza.
Giovanna Vitale per “la Repubblica” l'11 marzo 2020. Si accende intorno alla nomina di un supercommissario per l' emergenza l' ultimo focolaio di tensione in seno al governo, che non riesce a restare unito neanche di fronte all' escalation di vittime e contagi. Invocato sia da Renzi sia dalle opposizioni di centrodestra come antidoto alla incerta gestione di Palazzo Chigi, questa nuova figura dovrebbe assumere "pieni poteri", il comando di tutte le operazioni e le redini della macchina organizzativa. Una sorta di Mr Wolf capace di risolvere ogni problema, anche comunicativo, che però rischia di esautorare il capo della protezione civile, Angelo Borrelli, e oscurare lo stesso premier Conte, schierato in prima linea sul fronte della guerra al coronavirus. Da giorni il Pd gli consiglia di tenere un profilo più basso, di far parlare gli esperti, senza caricarsi tutto il peso sulle spalle. Da altrettanti Berlusconi, con l' aggiunta più recente di Salvini e Meloni, chiede che Guido Bertolaso venga richiamato in servizio per fare ciò che sa: affrontare l' epidemia (essendo peraltro un medico) e ricostruire sulle macerie. Ma Conte, e con lui il M5S, non ne vuol sentire. «Non è un' ipotesi in campo e non la ritengo neppure motivata» ha chiuso in mattinata il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. «C' è una linea di comando chiara: c' è il presidente del Consiglio che gestisce in prima persona la crisi, c' è il capo della protezione civile Borrelli e c' è il ministro dell' Interno. Mi pare una struttura più che sufficiente per gestire le criticità». Sono tutti convinti che si tratti di un tranello. La porta per arrivare a un governo di salute pubblica sostenuto dalle stesse forze che oggi pretendono il supercommissario: Fi e Italia Viva in testa. Tant'è che anche fra i democratici, inizialmente favorevoli all' idea, comincia serpeggiare qualche perplessità. Sebbene ci sia ancora chi, specie Franceschini, continui a insistere sulla necessità di coinvolgere una personalità di alto profilo - Gianni De Gennaro su tutti - in grado di far dimenticare le incertezze del governo. Una morsa. Da cui Conte sta pensando di uscire con una soluzione di mediazione. Preannunciata l' altro ieri sera in conferenza stampa, quando ha parlato di «un ruolo che potrebbe affiancare la Protezione civile per coordinare l' approvvigionamento di macchinari e attrezzature sanitarie». E confermata, pur senza fornire dettagli, durante l' incontro con i leader di opposizione. La sua intenzione sarebbe quella di nominare un team per il dopo emergenza, la cui guida verrebbe affidata a un sottosegretario presso la presidenza del consiglio, che dunque dipenderebbe direttamente da lui. Un ruolo tecnico, non politico, e soprattutto per una fase successiva. Non a caso nella rosa dei papabili è entrato nelle ultime ore il capo di Invitalia Domenico Arcuri: l' uomo che gli acquisti delle forniture sanitarie in deroga li sta già facendo.
Da lettera43.it il 20 marzo 2020. C’è un risvolto futuro tutto da scoprire dietro la nomina di Domenico Arcuri quale commissario straordinario per l’emergenza coronavirus. Quando il premier Giuseppe Conte glielo ha proposto, confidando anche e soprattutto sul rapporto di amicizia che esiste tra i due, l’attuale amministratore delegato di Invitalia gli ha subito risposto che avrebbe accettato molto volentieri, ma ponendo però una condizione: avere assicurata una nuova posizione una volta terminato quell’incarico. Non fosse altro perché il manager è al vertice dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa dal 2007, e pur avendo da pochi mesi ottenuto il rinnovo di un mandato triennale, è da tempo che avrebbe voglia di fare altro. Non è un mistero, tra l’altro, che abbia posato gli occhi sulla poltrona di amministratore delegato di Leonardo, oggi occupata da Alessandro Profumo e che in tal senso abbia avuto contatti con diversi interlocutori politici e istituzionali, a cominciare proprio da Conte. Per questo tutti hanno pensato che nel curriculum di Arcuri sarebbe entrata quella carica dopo l’impegno come commissario straordinario. Ma il tempo gli gioca contro: per quanto ci sia un rinvio lungo dell’assemblea degli azionisti dell’ex Finmeccanica (luglio) con deposito 25 giorni prima (giugno), il suo delicato incarico non potrà certo terminare prima o, peggio, essere interrotto. Per questo la richiesta di Arcuri a Conte è stata un’altra: Cdp. Tra un anno scadrà il mandato di Fabrizio Palermo e per quel momento avere l’impegno del premier – che sicuramente l’emergenza inchioderà alla poltrona di palazzo Chigi – di assicurargli la posizione di amministratore delegato della Cassa, è una garanzia. I due si sono stretti la mano: affare fatto. Anche se in un contesto stravolto dall’epidemia, e dal quale il sistema economico e industriale del Paese uscirà completamente ridisegnato, quella del premier rischia di essere una promessa scritta sull’acqua.
Ludovica Bullan per ''il Giornale'' il 25 giugno 2020. «Dopo aver messo online a disposizione di tutti i dati sulle forniture sanitarie alle Regioni, presto metteremo anche tutti i dati sui nostri acquisti, con fornitori, quantità, sconti e modalità di ingaggio dei fornitori. Prepariamo un software, presto accadrà». Era il 7 aprile e il commissario all'emergenza Domenico Arcuri annunciava così una maxi operazione trasparenza su ogni atto e su ogni euro speso per fronteggiare il Covid19. Sono trascorsi due mesi e mezzo ma la sua struttura non è ancora diventata la promessa casa di vetro dove si gestiscono le risorse pubbliche per la pandemia. Dovevano arrivare dati sugli acquisiti, i contratti, le cifre. Niente. Sul sito del commissario straordinario sono state caricate appena due procedure: una è la gara per l'acquisto dei 150mila kit per i test sierologici, e l'altra è una richiesta di offerta per i test molecolari. Stop. Eppure le gare che sono state bandite dalla struttura commissariale di Arcuri tra marzo e aprile sono almeno 19 per un ammontare di oltre un miliardo di euro, almeno contando sulla banca dati contratti pubblici dell'Autorità anticorruzione (Anac), come rivela il sito Openpolis, che si occupa di monitoraggio di dati. Gli unici due bandi pubblicati da Arcuri peraltro non compaiono nemmeno tra i 19 registrati sul sito dell'Anac. Le uniche convenzioni rese pubbliche dal commissario sono quelle per la gestione dell'applicazione di tracciamento Immuni e i protocolli di intesa con farmacisti e tabaccai per la vendita di mascherine a cinquanta centesimi. E così ancora oggi non si conoscono ancora gli importi di aggiudicazione e gli aggiudicatari delle gare. L'unica accessibile è la piattaforma Consip, che ha pubblicato tutte le procedure e le relative aggiudicazioni che ha gestito come piattaforma acquisti per conto della struttura commissariale, ma se ne contano otto. Delle altre 11 non ci sono informazioni nemmeno sul sito della Presidenza del consiglio. Openpolis, che aveva chiesto al governo di pubblicare tutti gli atti del commissario oggi certifica che «le dichiarazioni inizialmente così promettenti sono state disattese». D'altronde, scrive, «il rischio era che tutto si risolvesse con un'enfasi più sulla comunicazione e gli strumenti per realizzarla, che sull'accesso a dati reali». E così è stato. Sul sito di Palazzo Chigi compare solo una procedura di Consip collegata al commissario straordinario ma si tratta solo di una «fornitura di buste e stampati vari» per 547,30 euro. Il sito di informazione e approfondimento, quindi, lancia l'allarme per la trasparenza e per il (mancato) controllo sulle risorse pubbliche: «Durante eventi eccezionali e drammatici, è giusto che anche i provvedimenti siano adeguati alla situazione di emergenza, per velocizzare i procedimenti. Ma proprio per questo la trasparenza è ancora più necessaria, perché consente di monitorare le scelte politiche e l'attività amministrativa. Se viene meno anche questo, non si sta facendo buona amministrazione. Si sta ridimensionando l'unico strumento che abbiamo per verificare se la gestione delle risorse pubbliche sia stata davvero efficiente».
'Ndrangheta, Gratteri a Roma per il processo Rinascita Scott: «Per anni si è ignorato tutto». L'11 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Questa indagine è una pietra angolare nella conoscenza della ‘ndrangheta e di questa nuova frontiera» del crimine di matrice calabrese che si serve dei “colletti bianchi” per gestire il potere. Lo ha detto il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, questa mattina arrivando nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, dove si tiene la prima udienza preliminare dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, con 456 imputati, fra i principali esponenti dei clan di Vibo Valentia e di altre “locali” della Calabria. Ma il procuratore si è anche soffermato sul modo in cui è stata affrontata la lotta alla ‘ndrangheta: «La colpa è di tutti noi uomini delle istituzioni che non abbiamo preso con la dovuta serietà e rigore quello che è accaduto sotto i nostri occhi per decenni». Il calendario delle udienze prevede almeno 10 appuntamenti nell’aula bunker del penitenziario romano in attesa che venga ultimata una struttura simile a Lamezia Terme, nell’ex area industriale. Il procuratore capo di Catanzaro, parlando con la stampa, ha sottolineato come «in questo processo c’è un’altissima percentuale di colletti bianchi e di quella che si definisce “zona grigia”, fatta di molti professionisti e uomini dello Stato infedeli che hanno consentito a questa mafia di pastori, caproni e gente rozza, con la forza della violenza e dei soldi della droga, di entrare mani e piedi nella pubblica amministrazione e nella gestione della cosa pubblica». Per numeri e imputati, e per la sua valenza, l’indagine, Rinascita-Scott è stata associata al primo maxi-processo della storia delle inchieste di mafia, celebrato all’Ucciardone di Palermo: «Non mi accosto a quei grandi uomini che sono stati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ha affermato Gratteri – ma questo è uno step di un disegno nato il 16 maggio del 2016, quando mi sono insediato alla procura di Catanzaro. Da quel giorno, insieme ai miei collaboratori, abbiamo pensato di costruire questa tipologia di indagine, non con pochi indagati, ma che abbia l’intento di spiegare il disegno unitario di questa ‘ndrangheta asfissiante, che davvero toglie il respiro e il battito cardiaco alla gente». Gratteri ha anche fatto riferimento all’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Salerno nei confronti dell’ex presidente della Corte di assise di Catanzaro, Marco Petrini, magistrato sott’inchiesta per corruzione in atti giudiziari: «Ho visto quello che fa la procura di Salerno: è un segnale che si innesta col processo di oggi e con gli altri già celebrati», ha sottolineato Gratteri, visto che Rinascita-Scott è il processo di ‘ndrangheta con «la più alta percentuale di colletti bianchi e uomini dello Stato infedeli». Il procuratore di Catanzaro ha anche rigettato le accuse di “manettaro” che qualcuno gli ha fatto: «E’ perfettamente chiara questa campagna di delegittimazione nei confronti della procura di Catanzaro, perché hanno capito perfettamente che io sono solo la punta avanzata di una grande squadra che ha spalle larghe e nervi d’acciaio e che sicuramente non farà falli di reazione».
Flop al via per il maxi processo di Gratteri, il reuccio di Calabria che sogna di diventare più famoso di Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Settembre 2020. Protestano i difensori e anche gli avvocati di parte civile, a partire dal Presidente dell’Ordine di Vibo Valentia, e sono centinaia. Chiedono la sospensione dell’udienza per motivi sanitari. Brandiscono, più che il codice, un’ordinanza della Regione Lazio in materia della prevenzione anti-Covid. Il procuratore Nicola Gratteri fa lo spiritoso. E quando l’avvocato Armando Veneto protesta perché non ha neppure la possibilità di bere un goccio d’acqua, proprio lui, che evidentemente è più rifornito, si alza e gliene porta un bicchiere. Benvenuti al maxiprocesso della ‘ndrangheta. La prima puntata della scenografia non pare proprio riuscita. Appuntamento delle grandi occasioni, sirene, lampeggianti, tanta gente e soprattutto tante telecamere. Ecco a noi il reuccio di Calabria, il procuratore Nicola Gratteri: «In questo processo c’è un’altissima percentuale di quella che convenzionalmente viene definita zona grigia, colletti bianchi. Ci sono molti professionisti, molti uomini dello Stato infedeli che hanno consentito anche a questa mafia di pastori, con la forza della violenza e con i soldi della droga, di essere oggi mani e piedi nella pubblica amministrazione e nella gestione della cosa pubblica». Dovrebbe essere il giorno del suo trionfo, anzi il primo di tanti giorni. Invece no. Perché l’aula bunker del carcere romano di Rebibbia scelta per la prima di dieci udienze davanti a un giudice che dovrà decidere se accogliere le richieste di rinvio a giudizio per 452 indagati (altri quattro, tra cui l’avvocato Pittelli, hanno scelto il rito immediato), non consente che siano rispettate le norme anti-Covid. Aria che non circola a causa della rottura dei condizionatori e impossibilità di mantenere il distanziamento tra le centinaia di avvocati presenti. Inoltre viene contestato, come era prevedibile, il fatto di celebrare la prima udienza preliminare, davanti al gup di Catanzaro Claudio Paris, nella città di Roma, lontano dal luogo del giudice naturale, cioè la Calabria, dove si attende la costruzione di un’aula bunker costruita apposta per Gratteri. Si può dire che oggi si celebra il fallimento dei maxiprocessi. Per il procuratore Gratteri contano molto i numeri. Forse ha letto Marx (o ne ha sentito parlare) e pensa che la quantità a un certo punto diventerà qualità. Cioè, che se lui riesce a farne arrestare tanti, o quanto meno a portarne tanti a giudizio, il suo processo sarà più importante. Per questo, dopo che il suo Rinascita-Scott con 334 ordini di cattura richiesti dopo il blitz del 19 dicembre 2019, era stato decimato dal gip, poi dal tribunale del riesame e infine dalla Cassazione, fino a vedersene sottratti 203, lui aveva provveduto con una seconda operazione. Il nuovo nome è ”Imponimento”, con nuovi 158 indagati, di cui 75 messi subito in manette. Ma i numeri vengono giocati anche sulla risonanza. Già il fatto che ieri mattina ci siano volute circa tre ore solo per dare lettura ai nomi degli indagati, che siano stati individuati dall’accusa 224 possibili soggetti offesi, cittadini che avrebbero subito estorsioni o minacce, e poi Comuni del Vibonese, la stessa Regione Calabria e addirittura il Ministero di giustizia, tutto pare convergere su un solo concetto, maxi. Cioè concretizzare il sogno di Nicola Gratteri: uguagliare, o forse superare, il maxiprocesso di Palermo, e poi diventare il Falcone di Calabria. Cosa non facile, visto che gli imputati di Falcone si chiamavano Riina e Provenzano, che erano, tra l’altro, quasi tutti ancora latitanti. Ed erano tempi delle guerre di mafia, con decine e decine di morti uccisi sul selciato. Il blitz di Rinascita-Scott invece è andato a colpire una serie di famiglie di narcotrafficanti del Vibonese. Persone note, ma non di altissimo calibro. Ecco perché il procuratore di Catanzaro insiste tanto sulla presenza dei “colletti bianchi” e di qualche politico nell’inchiesta. “La pietra angolare nella conoscenza della ‘ndrangheta e di questa nuova frontiera del crimine di matrice calabrese che si serve dei colletti bianchi per gestire il potere” ha esordito ieri entrando nell’aula. Ma con i politici finora gli è andata maluccio. La scorsa estate la Cassazione ha infatti scarcerato dopo otto mesi l’ex sindaco di Pizzo e presidente di Anci in Calabria, Gianluca Callipo. E dopo che l’inchiesta del procuratore aveva ricevuto un vero schiaffo, sempre dalla Cassazione, che aveva bollato le sue indagini nei confronti dell’ex presidente della Regione e importante esponente del Pd Mario Oliverio come sospette di “mancanza di gravità indiziaria” e con “grave pregiudizio accusatorio”. Modesto poi il tentativo, con l’inchiesta “Imponimento” , di coinvolgere un senatore, nominato ma non indagato, e un altro personaggio, fuori dal mondo politico da sette anni, per vecchie campagne elettorali. Non resta dunque che riuscire a mettere un po’ di piombo sulle ali di qualche avvocato, come Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo.
Caso Stilo e Pittelli. I giudici che sbagliano pagheranno mai? Astolfo Di Amato su Il Riformista il 5 Settembre 2020. Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo, tutti e due avvocati, sono in carcere da oltre otto mesi. Ristretti in luoghi molto lontani da dove risiedono le loro famiglie, da dove si svolge il procedimento che li riguarda, che è anche il luogo ove di regola si trovano i difensori. Perciò non solo in carcere, ma anche posti in una drammatica difficoltà di ricevere anche un minimo di sostegno affettivo e di poter avere un ruolo nel preparare la propria difesa. Come si giustifica tutto questo? Semplicemente con il fatto che pende la fumosa accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Esistono le esigenze cautelari e, cioè, le condizioni di concreto pericolo di alterazione delle prove o di reiterazione del fatto, che secondo la legge giustificano la custodia cautelare in carcere? A leggere i provvedimenti giudiziari sinora emessi consistono nel fatto che chi è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa è, per ciò stesso, pericoloso. Di fatto, non esistono. Diventa, allora, inevitabile chiedersi se la carcerazione preventiva non sia funzionale, in realtà, ad impedire un pieno esercizio del diritto di difesa. Di fronte ad una così discutibile applicazione della legge occorre domandarsi se anche questa volta non ci si trovi di fronte al frutto avvelenato della mancata soluzione di due nodi fondamentali della giustizia: la responsabilità dei giudici e la separazione delle carriere. Per quello che concerne il primo aspetto, vale la pena ricordare che chi ha incontrato Giancarlo Pittelli in carcere ha incontrato un uomo distrutto, nello spirito e nel fisico. E la distruzione di un uomo è anche la distruzione della sua famiglia e del suo mondo professionale. E se è innocente, come oggi bisogna presumere a tenore di dettato costituzionale, chi risponderà mai del male fatto? Il potere di distruggere una persona e il piccolo mondo che intorno ad essa ruota può essere disgiunto da qualsiasi forma di responsabilità? Non è così per i medici, non è così per gli avvocati, non è così per qualsiasi persona. Può essere così solo per i magistrati? Si dirà che, in questo caso, è intervenuto il vaglio di più magistrati, sino a quello della Suprema Corte. Ma qui interviene il carico di problemi che porta con sé il secondo dei nodi irrisolti, quello della separazione delle carriere. Vi è una recente sentenza della Cassazione che meglio di ogni altro argomento esprime l’atmosfera determinata dalla mancata separazione delle carriere: tra il consulente della difesa e quello dell’accusa, quest’ultimo è per principio più credibile (cass. 16458/2020). Una palese assurdità, che, siccome detta dal supremo organo di giustizia, certifica quanto sia urgente intervenire su questo punto. Da ultimo, non si deve tacere la brutta sensazione che Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo subiscano questo trattamento perché avvocati. Se fosse così, il significato sarebbe “attenti a chi difendete”! E quelli che sono con la bocca sempre piena della parola antifascismo perché stanno zitti?
BRUNO PALERMO per il Messaggero l'8 novembre 2020. Tra incompetenze, infiltrazioni della ndrangheta, clientelismi e sprechi la sanità calabrese fa acqua da tutte le parti, e non da ora. Cinque aziende sanitarie provinciali: Catanzaro, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Poi ci sono le aziende ospedaliere di Reggio Calabria; Pugliese-Ciaccio e il Policlinico Mater Domini di Catanzaro; l'Annunziata di Cosenza. Una sanità tanto fragile da costringere il presidente, Giuseppe Conte, a dichiarare la Calabria zona rossa Covid, nonostante i numeri siano relativamente piccoli. Il rischio concreto è che il sistema sanitario calabrese possa collassare da un momento all'altro.
LA STORIA. Ma se da una parte a rischiare di collassare il sistema sanitario, dall'altra fino a poche ore fa era ben solido il sistema Calabria che ruota attorno alla sanità. Un sistema rodato, collaudato e che affonda le radici negli anni passati. Un sistema che ha portato la sanità calabrese non solo ad essere talmente fragile da non garantire ai calabresi di curarsi, ma di produrre un deficit che dai 55 milioni del 2006 è arrivato agli oltre 200 milioni di euro, motivo per cui la sanità calabrese è commissariata da un decennio. Per capire cosa la sanità rappresenti in termini di potere ed economia in Calabria, occorre tenere in considerazione i legami tra questo comparto, il malaffare, la politica e la ndrangheta. Legami che hanno una data che segna un punto di non ritorno: 16 ottobre 2005. A Locri, davanti al seggio per le primarie de L'Unione, viene ucciso Domenico Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria. Per quell'omicidio vengono condannati all'ergastolo 4 persone, tra cui Alessandro Marcianò, caposala dell'ospedale di Locri. Secondo i giudici Marcianò (legato alla cosca dei Cordì) si sarebbe speso per un altro candidato, con la speranza che questi, una volta eletto, diventasse assessore alla sanità, ma l'exploit di Fortugno mandò ogni progetto all'aria scrivono i magistrati nella sentenza. L'emergenza Covid non ha fatto altro che far esplodere tutti insieme problemi e carenze che da anni erano emerse. Il 4 novembre scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato il nuovo decreto Calabria che conferma il commissariamento della sanità regionale con un rafforzamento della struttura. Tra Commissari e facenti funzioni la sanità calabrese non ha manager titolari. Una vera e propria girandola. Nel dicembre 2019 l'ormai ex commissario regionale, Severio Cotticelli, nomina i commissari di alcune Asp tra le quali quella di Cosenza. Nel gennaio del 2020 prende servizio Daniela Saitta che il 19 febbraio rassegna le dimissioni dopo le polemiche seguite all'affidamento di un incarico alla figlia, sia pur gratuito. Il ruolo viene affidato, sempre da Cotticelli, a Giuseppe Zuccatelli, già commissario straordinario dell'Azienda ospedaliera Pugliese-Ciaccio e del policlinico universitario Mater Domini di Catanzaro. Dopo tre mesi Zuccatelli rassegna le dimissioni da commissario Asp di Cosenza. L'11 giugno 2020 Cotticelli nomina Cinzia Bettelini che è tutt' ora in carica. A Crotone l'ex ministro Giulia Grillo nomina commissario dell'Asp Gilberto Gentili che dopo un anno si dimette per prendere servizio come commissario alla Usl Umbria 1. L'Asp di Crotone viene affidata ad un facente funzioni e Cotticelli, insieme alla Regione Calabria, avrebbero dovuto individuare il nuovo dg entro 60 giorni. Di giorni ne sono passati 131. Giuseppe Giuliano commissario dell'Asp di Vibo Valentia è, invece, in carica. Poi ci sono le Asp sciolte per infiltrazioni mafiose. Il 12 settembre del 2019 il Consiglio dei Ministri delibera scioglie l'Asp di Catanzaro per accertati condizionamenti da parte delle locali organizzazioni criminali. Lo scioglimento arriva dopo l'operazione Quinta bolgia della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro. A marzo 2019 è stata sciolta l'Asp di Reggio Calabria per infiltrazioni della ndrangheta. E poi i posti di terapia intensiva mai realizzati: ora sono 152, ma erano 146 prima del Covid. Se ne sarebbero dovuti realizzare 280 con un finanziamento già stanziato di 51 milioni di euro.
SPIRLÌ: “GOVERNO CI TRATTA COME INCAPACI DI METTERCI UNA SUPPOSTA”. D strill.it il 5 novembre 2020. Il Presidente facente funzioni Nino Spirlì (Lega) dopo le restrizioni imposte dall’ultimo DPCM è intervenuto questa mattina a Coffee break su La7. “Il Governo è stato sordo a qualsiasi sollecitazione da parte nostra. Ho tentato in tutti i modi per evitare la zona rossa che ammazzerà la Calabria, soprattutto la piccola impresa. La gente morirà di fame. Il Governo se la deve prendere con se stesso perchè ha commissariato la Calabria, in 18 mesi di commissariamento in Calabria non si è fatta una benemerita mazza da parte del Governo.Tutto quello che era di competenza regionale è stato completamente portato a termine. Il Governo ricommissaria la sanità in Calabria lasciando al posto di comando il commissario che il Governo stesso dice che non aver fatto bene il suo lavoro. E’ un Governo schizzofrenico. Invece di fare le decisioni semaforiche avrebbe dovuto prendere una decisione con i contro maroni e stabilire che tutta l’Italia deve avere lo stesso atteggiamento. Il virus più scostumato è quello delle regioni di centrodestra, stranamente. Il Governo ha deciso di fare la Calabria zona rossa, ha deciso di ricommissariare la sanità come per dire non siete nemmeno in grado di mettervi una supposta”.
Calabresi, fate la rivoluzione contro gli azzeccagarbugli che vi governano. Notizie.it l'8/11/2020. Siete scesi in piazza contro il DPMC del governo Conte che vi metteva in zona rossa, perché non scendete in piazza con lo stesso impeto per chiedere finalmente una sanità che funzioni? Succede che un incredibile reportage della trasmissione televisiva “Titolo V” su Raitre, a firma di Walter Molino, faccia scoprire ai telespettatori, e al diretto interessato, in questo caso il commissario ad acta per la sanità della Calabria, Saverio Cotticelli, che non solo la Calabria non ha un piano Covid, ma che chi doveva predisporlo, ovvero il commissario, non l’ha predisposto e non sapeva che fosse lui a doverlo predisporre. Questo editoriale potrebbe anche finire qui, con un hashtag del tipo #vergogna. Ma voglio farmi del male e proseguire. Perché dopo la figuraccia televisiva del commissario Cotticelli lo stesso Presidente del consiglio Conte lo ha destituito – proprio lui che lo aveva nominato, ma tant’è – e ne ha scelto uno nuovo. E allora sentite insieme a me cosa pensa del contagio, del Covid, di come ci si può infettare, il nuovo commissario Giuseppe Zuccatelli, scelto dal governo Conte per sostituire l’improbabile Cotticelli e dare finalmente alla Calabria un governo della sanità che sia efficiente. “Le mascherine non servono a un cazzo, te lo dico in inglese stretto, ok? Se io fossi positivo tu sai cosa devi fare per beccarti il virus? Devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca. Altrimenti non te lo becchi il virus”. Insomma per il nuovo capo della sanità calabrese il virus te lo becchi solo se limoni per minimo un quarto d’ora. Anche in questo caso potrei fermarmi qui e questa volta l’hashtag sarebbe #poveracalabria. Invece voglio ancora farmi del male e fare un ragionamento, sempre partendo dalle evidenze. Il presidente del consiglio regionale della Calabria, Domenico Tinelli, nei giorni scorsi ha affermato: “La Calabria è stata la regione che meglio ha saputo affrontare l’emergenza Covid“. Ecco, mi verrebbe da chiedergli di pensare per lo meno a un seminario, a un workshop, a una giornata di studi per spiegare, a noi bifolchi delle nebbie lombarde tirati su a verze e lockdown, come si fa a essere la regione che meglio ha affrontato l’emergenza Covid in assenza di un piano Covid.
Secondo punto. La sanità calabrese è commissariata da quasi undici anni. Il disavanzo è di 160 milioni di euro. Com’è possibile che in tutto questo tempo questo gap non sia stato colmato? Come è possibile che negli anni non si sia sostituita, alla procedura commissariale, una assunzione di responsabilità politica nella gestione della sanità in una delle regioni più povere del Paese? Il terzo punto su cui è doveroso soffermarsi è sui cittadini calabresi. A loro si deve solidarietà, perché non deve essere facile pagare con soldi pubblici una serie tale di incompetenti e perdigiorno e nello stesso tempo subire ritardi su ritardi, specie sui tamponi, che a Locri, per esempio, vengono spediti a Reggio Calabria per essere analizzati, perché è lì che si trova l’unico laboratorio per tutta la provincia. Ricordo ancora un reportage che realizzai per Ballarò all’ospedale dell’Annunziata, a Cosenza. Lo sforzo dei medici era improbo, perché in quel pronto soccorso mancava di tutto, dai posti letto ai sostegni per le flebo. E così i malati stazionavano nei corridoi anche per settimane, con un via vai di familiari ad assisterli. E grazie a Dio che c’erano loro, altrimenti con la carenza di personale infermieristico non so come avrebbero fatto. Insomma ai miei amici calabresi voglio dire questo. Siete scesi in piazza contro il DPMC del governo Conte che vi metteva in zona rossa. Vi ho sentito far casino a colpi di slogan come “qua si muore di fame”. E allora: perché non scendete in piazza con lo stesso impeto per chiedere finalmente, dopo 11 anni di commissariamento, una sanità che funzioni, un’assunzione di responsabilità da parte dei politici che avete da poco votato, un miglioramento dei servizi? Vi voglio vedere incazzati come quando ritenevate ingiusto il lockdown nonostante un Rt, l’indice di contagio, a 1,84 e una previsione di occupazione dei posti letto in terapia intensiva superiore al 50 per cento, come ha detto Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di prevenzione del ministero della Salute. Fate la rivoluzione contro gli azzeccagarbugli che vi governano. Perché di questo passo prima di morire di fame rischiate davvero di morire di Covid.
Il mondo della politica nazionale e il caso Cotticelli. Da calabrianews.it il 7 Novembre 2020. Le dimissioni del generale Cotticelli da commissario straordinario della Sanità calabrese hanno infuocato il dibattito politico italiano. La trasmissione Titolo V è stata così clamorosa nella sua tragicità che i leader nazionali dei vari schieramenti l’hanno messo al centro delle loro dichiarazioni. Si registra subito un botta e risposta fra Salvini e Frattoianni. “La scandalosa inadeguatezza del commissario Cotticelli dimostra la scandalosa inadeguatezza di tutto il governo, che l’aveva appena confermato alla guida della Sanità calabrese. I cittadini non meritano uomini come Arcuri e Cotticelli, ora sia la Calabria a riprendersi in mano la sua dignità e la sua Sanità”. Lo affrerma il leader della Lega Matteo Salvini.
“Matteo Salvini sembra il Trump di queste ore. Come un pugile suonato che si perde così tanto nel suo sciocchezzaio quotidiano da scordare che Cotticelli fu nominato commissario per la Calabria dal governo in cui lui era vicepremier, il 7 dicembre 2018…”. Lo scrive su Twitter il portavoce nazionale di Sinistra Italiana ed esponente di Leu Nicola Fratoianni in risposta al leader della Lega. “Sul commissario governativo alla Sanità della Calabria Cotticelli sta andando in scena uno spettacolo indecoroso e un ignobile scaricabarile. Oggi il presidente del Consiglio Conte si scandalizza per una nomina che lui stesso ha fatto nel dicembre 2018, insieme all’allora ministro M5S della Salute Grillo, e che ha confermato solo pochi giorni fa. Il M5S, partito della Grillo, prende le distanze, ringrazia Conte e dice che servono ‘persone all’altezza’ per gestire l’emergenza Covid. I grillini dimenticano però che la responsabilità è anche loro e che è stato un loro ministro a sottoscrivere la nomina di Cotticelli”. Lo afferma Giorgia Meloni di Fdi. “Stiamo assistendo ad una scandalosa sceneggiata sulla pelle di due milioni di cittadini calabresi e della Calabria, che oggi per colpa del M5S e della sinistra non ha un piano Covid per affrontare la seconda ondata dell’epidemia. Questo disastro è l’ennesima conferma dell’inadeguatezza di questo Governo, che dall’inizio dell’emergenza naviga a vista e non ha la benché minima idea di come affrontarla. Conte e il suo governo chiedano scusa e si dimettano”, conclude. “Presidente Conte, questo è un tweet furbo ma poco serio. Il commissario l’ha nominato lei. Verificarne il lavoro spettava al suo governo. Fare finta di nulla equivale al tentativo di prendere in giro gli italiani. Purtroppo questo suo tratto caratteriale sta sempre più emergendo”. Così su Twitter il leader di Azione, Carlo Calenda, risponde al presidente del Consiglio sulla vicenda di Cotticelli, commissario alla sanità in Calabria. La vicenda Cotticelli “è la fotografia della sconfitta di un Paese, dello Stato e del Governo”. Lo dichiara Matteo Richetti, senatore di Azione. “La sanità calabrese – prosegue – è commissariata da 11 anni e nonostante i tagli a personale e posti letto esiste ancora un buco di 160 milioni di euro. Ancora nessuno è riuscito a completare il piano di rientro. Il Governo, piuttosto che potenziare e rafforzare le terapie intensive calabresi, si affida ad un commissario che non ha nemmeno stilato il Piano- Covid (non sapeva nemmeno di esserne il responsabile). La risposta del Governo a questo scempio? Inserire la Calabria tra le zone rosse e, dopo 11 anni, mandare l’ennesimo commissario. Chiudere una regione a causa della debolezza del sistema sanitario (commissariato dal Governo) è la prova lampante della sconfitta dello Stato e del Governo stesso”. “Conte e il M5S che oggi si mostrano indignati per il caso Cotticelli sono semplicemente ridicoli. Lo hanno voluto e nominato loro commissario quando al ministero della Salute sedeva un ministro grillino, di nome e di fatto. Cotticelli non è l’unico a doversi dimettere”. Lo scrive su Twitter Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato. “L’annuncio da parte di Giuseppe Conte della rimozione e sostituzione del commissario alla sanità calabrese Saverio Cotticelli è un atto assolutamente insufficiente per porre rimedio alla vergogna e al danno provocati a questa terra”. Lo sostiene, in una nota, l’europarlamentare della Lega, Vincenzo Sofo. “Il ministro Roberto Speranza – prosegue Sofo – deve assumersi la responsabilità dell’operato del suo rappresentante nel territorio calabrese e rimettere il proprio incarico da ministro. E il Presidente del Consiglio deve prendere atto della comprovata inutilità di questo decennio di gestione commissariale, annullare il Decreto Calabria e indire al più presto nuove elezioni regionali per ridare, dopo la morte della Presidente Jole Santelli, a questa regione un’amministrazione nel pieno delle funzioni alla quale riconsegnare la gestione del sistema sanitario”. “Attenzione che di Cotticelli non ce n’è solo uno. Il governo nazionale ce ne sta per rifilare degli altri che ci dovremo tenere per almeno 3 anni. Ma la misura è ormai colma, la Calabria è stanca, e non accetterà più gestioni incompetenti. Inutile che oggi qualche improbabile difensore Dem in consiglio regionale, evidentemente in cerca di un posto al sole, attribuisca ad altri colpe che lui e i suoi compari hanno avuto per decenni”. Lo afferma, in una nota, il deputato della Lega Domenico Furgiuele. “La Calabria è stufa – prosegue Furgiuele – di commissari che falliscono in tutti gli ambiti dove operino con il pieno sostegno di certe forze politiche. L’Italia tutta sta però capendo che il disastro sanitario in cui è precipitata la nostra terra in piena pandemia è figlio dell’esecutivo nazionale. Alla luce di tutto questo, la maggioranza che sostiene Conte e Speranza, invece di restituire ai calabresi dignità e diritto alla salute si appresta a varare un nuovo decreto Calabria con una nuova struttura commissariale che già si annuncia inadeguata al pari di quelle che l’hanno preceduta. Perché in una situazione del genere, non c’è bisogno di soloni o peggio di uomini soli al comando, ma di scelte politiche discusse, condivise, calibrate sulla conoscenza territoriale che che i prossimi ‘scienziati’ governativi non potranno avere prima di diverso tempo”. “Questo governo – conclude il deputato della Lega – scherza con la salute dei calabresi, le forze politiche responsabili anche quelle che non si ritrovano necessariamente nell’area moderata di centro-destra a fare fronte comune per evitare nuovi Cotticelli”. “Con un tweet da salvatore della Patria il presidente Conte scarica il commissario Cotticelli, sostenendo che i calabresi meritano di meglio. Peccato che non abbia mostrato lo stesso scrupolo quando i suoi governi lo hanno voluto come commissario alla sanità in Calabria, nominandolo con il ministro Giulia Grillo e confermandolo con il ministro Speranza. Forse Conte vuol far credere di essere stato all’oscuro delle decisioni dei suoi ministri, tanto che oggi sembra commissariare anche lo stesso ministro Speranza assumendosi la responsabilità, o il merito, della sostituzione di Cotticelli”. E’ quanto afferma il deputato di Fratelli d’Italia Wanda Ferro. “Il generale Cotticelli si scopre oggi figlio di nessuno – prosegue Ferro – un abusivo arrivato in Calabria chissà da dove e voluto chissà da chi. Attaccato dai parlamentari cinque stelle che lo hanno fortemente voluto e che oggi tentano di rigirare la frittata, rinnegato dallo stesso governo che gli ha dato i pieni poteri sulla sanità calabrese. I cittadini non sono stupidi e non hanno la memoria così corta, e sono chiare ed evidenti a tutti le responsabilità sui ritardi della sanità calabrese, che hanno messo a rischio la salute dei cittadini e comportato un nuovo lockdown della regione. Con la defenestrazione di Cotticelli il governo boccia se stesso”. “Ci aspettiamo ora – sostiene la parlamentare di FdI – anche la rimozione di tutti gli organismi commissariali che hanno avuto un ruolo nella gestione dell’emergenza covid in Calabria, dai commissari delle aziende ospedaliere al commissario Arcuri. E un minuto dopo aver ritirato il nuovo Decreto Calabria a dimettersi sia il presidente Conte, il vero responsabile di questo scempio ai danni dei calabresi”. “Le dichiarazioni di Conte di oggi sono in notevole ritardo rispetto alle richieste di rimuovere Cotticelli pervenute da più parti in queste settimane. La Calabria paga il ritardo del Governo e la sua incapacità di prendere decisioni”. Lo ha dichiarato Fulvio Martusciello europarlamentare di Forza Italia. “Sono rimasta anche io senza parole nel guardare ieri sera l’intervista televisiva del commissario Cotticelli, che ha mostrato una inaccettabile approssimazione relativamente al ruolo che gli è stato attribuito”. Lo afferma il sottosegretario di Stato ai Beni e alle attività culturali Anna Laura Orrico. “Di fronte a tutto questo – prosegue Orrico – è necessario intervenire con risolutezza. Pertanto, mi sono da subito mossa con gli altri colleghi portavoce calabresi del M5s, in linea con il nostro capo politico Crimi, per chiedere la nomina di un nuovo commissario, che ponga in essere una reale discontinuità verso le fallimentari gestioni ordinarie e commissariali pregresse della Sanità calabrese. La volontà del Presidente del Consiglio Conte e del governo di provvedere rapidamente a quel cambio che abbiamo auspicato è fondamentale. Lo dobbiamo ai calabresi -conclude il sottosegretario Orrico – dato che in ballo ci sono diritti costituzionali, come la salute e la sicurezza”. “Amico e difensore dell’Arma dei Carabinieri, come tutti ho visto con sconcerto il video del generale Cotticelli. La verità è che non è vero che uno vale uno e ognuno deve fare il suo mestiere”. Lo afferma, in una dichiarazione, il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. “Si può essere ottimi ufficiali – prosegue Gasparri – ma non altrettanto capaci nel gestire la sanità e peggio ancora la comunicazione. Ma il peggiore di questa vicenda si chiama Giuseppe Conte, un incapace irresponsabile. È lui con il suo governo e i suoi ministri che avevano fatto quella nomina. È inutile che adesso si erga a moralista. Lo scandalo d’Italia non sono soltanto persone non adeguate che vanno rimosse come in questo caso, ma quelli che scelgono gli incapaci. Conte non può fare il moralista, si dovrebbe chiudere in uno sgabuzzino e battersi il petto. Bisogna cacciare Conte, non soltanto quelli che lui ha lottizzato. Bisogna cacciare i grillini, che hanno fatto all’Italia più danni di qualsiasi altra cosa. Conte è il loro capo ed è il re degli ipocriti e degli inadeguati. Gli incapaci li ha imposti lui”.
Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2020. “Sulla sanità calabrese Giuseppe Conte ha fatto la più grande figura di merda della storia politica italiana”. Franco Bechis non usa mezzi termini per commentare quanto accaduto in Calabria nelle ultime ore, con il commissario Saverio Cotticelli che ha scoperto in televisione di doversi occupare del piano anti-Covid: il premier lo aveva nominato e confermato, poi lo ha scaricato con un tweet e sostituito immediatamente con Giuseppe Zuccatelli. Il quale però non è meno controverso: famosa la sua frase “le mascherine non servono a un cazzo”, inoltre è pure positivo e in quarantena. “Conte prima di indigna con chi ha nominato il vecchio commissario (era lui) - ha aggiunto Bechis - poi fa una nomina di svolta: un negazionista rosso per la sanità calabrese”. Infatti Zuccatelli è stato descritto come un personaggio da sempre organico alla sinistra, fin dai tempi del Pci, e appartenente a Leu del ministro Roberto Speranza. Insomma, questa ha tutta l’aria di una nomina “fatta in casa”.
Carlo Macrì per corriere.it il 7 novembre 2020. Venerdì sera Peppino De Filippo, si è materializzato all’ottavo piano della Cittadella regionale, assumendo le sembianze del generale Saverio Cotticelli, Commissario ad acta alla Sanità in Calabria, fresco di rinnovo per altri due anni. Intervistato dal giornalista della trasmissione «Titolo Quinto», andata in onda venerdì sera su Raitre, il generale Cotticelli come nel film i fratelli Capone (Totò e De Filippo), è stato protagonista di una scenetta così comica e esilarante che alla fine ha fatto arrossire anche se stesso. Intervistato sui temi relativi al Covid e alla zona rossa in Calabria, il generale Cotticelli è apparso sbigottito, perso, in alcuni momenti imbarazzatissimo sulla materia. Tant’è che quando l’intervistatore gli ha chiesto perché non è stato fatto il Piano Covid in Calabria, l’ammissione scellerata del Commissario è stata: «Era compito della Regione Calabria, tanto che ho anche chiesto al Ministero della Salute di risolvere il quesito su chi avesse il titolo per farlo», dice, addirittura, schernendosi. Salvo poi ricredersi quando l’intervistatore l’ha messo dinnanzi alle sue responsabilità chiedendogli di sapere cosa ha risposto il Ministero. «Oh! avrei dovuto farlo io, già a giugno scorso?», dice mentre si toglie gli occhiali appannati dal sudore che gli gronda dalla fronte. Poi, svegliandosi dal letargo istituzionale che l’ha addormentato in questi due anni, in maniera savia ha sbottato: «Domani mattina mi cacceranno per questo». Lo sketch di Cotticelli continua legittimando la sua incapacità e difficoltà nella gestione della Sanità calabrese allorquando, incalzato dalle domande del cronista, non ha saputo fornire neanche il dato sul numero dei posti letto in terapia intensiva in Calabria. Ma in questo, però, è stato bacchettato anche dalla sua vice, Maria Crocco, nominata a suo tempo dalla ministra Grillo. «La prossima volta studia, presentati preparato, comu te l’aggia a dì». Cotticelli, però non arretra e mette in campo tutto il suo appeal militaresco, addirittura nel domandare all’usciere: «Quanto posti abbiamo in terapia intensiva?». Il povero dipendente si blocca sull’uscio dell’ufficio del generale disorientato da cotanta gratitudine per quella importanza datagli davanti alle telecamere. E risponde, cinicamente, impettito: «Io faccio l’usciere». Dopo l’imbarazzante intervista pubblica il Capo del Governo Giuseppe Conte ha detto: «Il generale Saverio Cotticelli va sostituito con effetto immediato». Aggiungendo: «Voglio firmare il decreto già nelle prossime ore: i calabresi meritano subito un nuovo commissario pienamente capace di affrontare la complessa e impegnativa sfida della sanità». In tarda mattinata Cotticelli ha presentato le sue dimissioni: fonti del ministero della Salute precisano che «già nelle prossime ore è prevista la nomina del nuovo Commissario per la Calabria».
Il Commissario Cotticelli scopre in tv di essere il responsabile del piano covid: «Domani mattina sarò cacciato da qui». Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 7 novembre 2020. La Calabria non ha ancora un piano operativo covid. La Calabria è diventata da oggi zona rossa per i rischi derivanti dal contagio da coronavirus covid-19. La Calabria è commissariata, per quanto riguarda la gestione della sanità, da quasi 11 anni e a capo della struttura commissariale c’è oggi Saverio Cotticelli nominato dal Primo Governo Conte un paio di anni fa. Durante la trasmissione Titolo Quinto V su Rai Tre, andata in onda venerdì 6 novembre, il Commissario Cotticelli è stato intervistato da Walter Molino rivelando la propria posizione sull’inserimento della regione tra le aree rosse e, quindi, ad altissimo rischio covid ma, soprattutto, ha “scoperto”, proprio durante il servizio, che il responsabile della redazione del piano operativo covid (ancora non redatto per la Regione Calabria) è proprio la struttura commissariale, in parole povere e ultima analisi: Saverio Cotticelli. La cosa sorprendente è che poco prima nella stessa intervista il commissario Cotticelli ha testualmente dichiarato: «Io non sono il responsabile, Si sono dimenticati (presumibilmente il governo ndr) che ci sono due regioni commissariate, la Calabria e il Molise, e hanno dato l’incarico (del piano covid ndr) ai presidenti della Giunta». Quindi, secondo il Commissario Cotticelli, il Governo avrebbe dimenticato di avvertire la struttura commissariale di realizzare il piano operativo covid, in questa Italia spesso strabica può anche accadere. Nel dubbio, quindi, giustamente nel giugno di quest’anno lo stesso Cotticelli ha voluto vederci chiaro ed ha interpellato il ministero per ottenere una indicazione incontestabile su chi avrebbe dovuto redigere quel piano. E lo scorso 27 ottobre il ministero ha risposto. “E vediamo questa risposta” incalza il giornalista di Titolo Quinto. Cotticelli lo accontenta, si procura il parere del ministero, lo legge, gira un paio di volte le pagine, e alla domanda “chi doveva fare il piano covid?” la risposta è sconcertante: «Io, il piano devo farlo io» e poi legge il parere del ministero: «Nelle regioni sottoposte a piano di rientro e commissariate il potere/dovere di predisporre il piano operativo covid compete esclusivamente alla struttura commissariale». Imbarazzo. Tentativo di rassicurare («il piano lo sto realizzando io (?) e la settimana prossima è pronto»). Resa incondizionata: «Domani mattina io sarò cacciato da qui». Sfumato… Sipario… Titoli di coda.
Il Commissario Sanità calabrese: “Il piano Covid dovevo farlo io? Non lo sapevo”. E Conte lo rimuove. Redazione su Il Riformista il 7 Novembre 2020. “Il commissario per la sanità in Calabria Saverio Cotticelli va sostituito con effetto immediato”. Giuseppe Conte non ha perso un attimo dopo aver sentito le parole del commissario ad acta della sanità regionale calabrese durante il programma Titolo V di Rai3 e lo ha subito deposto. A irritare il premier sono state le parole del commissario che ha ammesso davanti alle telecamere di non sapere che sarebbe spettato a lui il compito di predisporre un piano Covid in Calabria. “Anche se il processo di nomina del nuovo commissario prevede un percorso molto articolato, voglio firmare il decreto già nelle prossime ore – ha scritto Conte sui social – i calabresi meritano subito un nuovo commissario pienamente capace di affrontare la complessa e impegnativa sfida della sanità”. E già nelle prossime ore sarebbe prevista la nomina del nuovo Commissario per la Calabria. Lo ha appreso l’Ansa da fonti del ministero della Salute sottolineando che “il commissario ad Acta per la Sanità della Calabria, Saverio Cotticelli, sta presentando le sue dimissioni al ministro della Salute, Roberto Speranza, e al ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri“. Durante la trasmissione di Rai 3, al giornalista che domandava perché la Calabria fosse diventata zona rossa, Cotticelli ha risposto: “Non lo so, i numeri non dicono questo. L’emergenza sanitaria è dappertutto, in tutta Italia”. L’inviato di Titolo V ricorda poi al commissario che “la Calabria oggi non ha un piano Covid”, aggiungendo: “Lei è il responsabile del piano Covid”. All’inizio Cotticelli nega: “Non è così, le spiego subito. Io non sono il responsabile. Hanno sbagliato a fare… Si sono dimenticati che c’erano due regioni commissariate, la Calabria e il Molise, per cui si son dimenticati e hanno dato l’incarico al presidente della Giunta”. Durante la trasmissione il giornalista aveva domandato: “Lei a giugno si accorge che non c’era il piano Covid e cosa fa?”. La risposta del commissario: “Pongo un quesito al Ministero e dico ‘chi è che deve fare il piano operativo Covid?’”. Dall’altra stanza di sente la voce del vice Maria Crocco, la sua vice che si rivolge al commissario dicendo: “La devi finire! Quando fai queste cose devi andare preparato”. Cotticelli scopre così nel corso del programma che il compito del piano spettava a lui: recupera il carteggio, poi torna dal giornalista e ammette “Sono io il responsabile” e dichiara quindi di essere sul punto di realizzarlo: “La settimana prossima è pronto”. Poi realizza l’accaduto e davanti all’inviato ammette: “Cosa vuole che le dica? Tanto io domani mattina sarò cacciato”. E così è stato. Il piano operativo per la gestione sanitaria dell’emergenza Covid era stato richiesto dal Governo con l’entrata in vigore del decreto legge Cura Italia, a marzo. Il Consiglio dei Ministri in quell’occasione varava una serie di risorse per il potenziamento del servizio sanitario nazionale. Tuttavia Cotticelli è stato nominato dal governo gialloverde e poi riconfermato. Lo stesso che poi lo ha deposto. “Non ci sono alternative all’immediata sostituzione del commissario Cotticelli, alle quali andrebbe allegato un messaggio di scuse ai calabresi da parte del Movimento 5 Stelle e della Lega che lo hanno nominato”. Ha dichiarato il commissario regionale del Partito Democratico della Calabria Stefano Graziano. “Oggi la priorità è recuperare il tempo aumentando posti letto e terapie intensive – aggiunge l’esponente dem – ma questo vuoto che si è creato tra regione e struttura commissariale è un’offesa a tutti i calabresi, che adesso si ritrovano in zona rossa, rischiando di dover pagare un prezzo altissimo in termini economici, a causa di scelte non prese e una battaglia pregiudiziale alle misure prese dall’attuale governo sia a marzo che oggi”. La polemiche sono scattate anche da Forza Italia e Fratelli d’Italia. “Sul commissario governativo alla Sanità della Calabria Cotticelli sta andando in scena uno spettacolo indecoroso e un ignobile scaricabarile. Oggi il presidente del Consiglio Conte si scandalizza per una nomina che lui stesso ha fatto nel dicembre 2018, insieme all’allora ministro M5S della Salute Grillo, e che ha confermato solo pochi giorni fa. Il M5S, partito della Grillo, prende le distanze, ringrazia Conte e dice che servono “persone all’altezza” per gestire l’emergenza Covid. I grillini dimenticano però che la responsabilità è anche loro e che è stato un loro ministro a sottoscrivere la nomina di Cotticelli – ha detto la leader di Fdi, Giorgia Meloni, in una nota – “Stiamo assistendo ad una scandalosa sceneggiata sulla pelle di due milioni di cittadini calabresi e della Calabria, che oggi per colpa del M5S e della sinistra non ha un piano Covid per affrontare la seconda ondata dell’epidemia. Questo disastro è l’ennesima conferma dell’inadeguatezza di questo Governo, che dall’inizio dell’emergenza naviga a vista e non ha la benché minima idea di come affrontarla. Conte e il suo governo chiedano scusa e si dimettano”, conclude Meloni. “Amico e difensore dell’Arma dei Carabinieri, come tutti ho visto con sconcerto il video del generale Cotticelli. La verità è che non è vero che uno vale uno e ognuno deve fare il suo mestiere. Si può essere ottimi ufficiali, ma non altrettanto capaci nel gestire la sanità e peggio ancora la comunicazione. Ma il peggiore di questa vicenda si chiama Giuseppe Conte, un incapace irresponsabile. È lui con il suo governo e i suoi ministri che avevano fatto quella nomina. È inutile che adesso si erga a moralista. Lo scandalo d’Italia non sono soltanto persone non adeguate che vanno rimosse come in questo caso, ma quelli che scelgono gli incapaci. Conte non può fare il moralista, si dovrebbe chiudere in uno sgabuzzino e battersi il petto. Bisogna cacciate Conte, non soltanto quelli che lui ha lottizzato. Bisogna cacciare i grillini, che hanno fatto all’Italia più danni di qualsiasi altra cosa. Conte è il loro capo ed è il re degli ipocriti e degli inadeguati. Gli incapaci li ha imposti lui”. Lo dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri.
Da ansa.it il 7 novembre 2020. "Il commissario per la sanità in Calabria Saverio Cotticelli va sostituito con effetto immediato. Anche se il processo di nomina del nuovo commissario prevede un percorso molto articolato, voglio firmare il decreto già nelle prossime ore: i calabresi meritano subito un nuovo commissario pienamente capace di affrontare la complessa e impegnativa sfida della sanità", lo afferma in una nota il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. "Dalle analisi effettuate è emerso che, in alcune Aziende ospedaliere, nei primi giorni di novembre si era verificato un aumento considerevole, e non in linea con i mesi precedenti, dei ricoveri in terapia intensiva. Grazie a una interlocuzione con i responsabili delle unità operative, è stato verificato che, a causa della temporanea carenza di posti letto nei reparti di degenza ordinaria e di terapia sub-intensiva, alcuni pazienti, che non avevano bisogno di ventilazione meccanica assistita, perché non presentavano gravi criticità, erano stati ricoverati in Rianimazione". Così il delegato per l'emergenza Covid della Regione Calabria, Antonio Belcastro, in merito alla situazione inerente alla copertura dei posti letto per il Covid. "L'aggiornamento del Bollettino regionale è stato necessario per permettere una più corretta classificazione dei casi", ha spiegato Belcastro, che definisce "una speculazione priva di fondamento" le ipotesi sulle manipolazioni delle cifre. "Il trasferimento dei pazienti dalle Terapie intensive ai reparti di Malattie infettive e Pneumologia - ha proseguito Belcastro - ha fatto aumentare il tasso di saturazione (16%) dei posti letto di area medica, mentre il tasso di occupazione dei posti letto di terapia intensiva (6%) è ancora lontano dalla soglia di allerta, fissata al 30%".
Cotticelli emblema del fallimento. Così Lollobrigida umilia Conte. Il Tempo il 07 novembre 2020. Cotticelli da cacciare. E Lollobrigida umilia Conte. Il fallimento del commissario per la sanità calabrese è l'emblema dell'inesorabile fallimento di entrambi i governi Conte visto che è stato nominato dal ministro Grillo e confermato da Speranza. «Conte, come al solito, scarica su altri le sue responsabilità. Sostituisce il disastroso commissario per la Sanità in Calabria, Saverio Cotticelli. Si sappia, però, che è stato lo stesso presidente del Consiglio a valutarlo, sceglierlo, nominarlo e rinnovarlo per più di 2 anni. Nominato dal ministro Grillo (5stelle) nel primo esecutivo Conte e confermato dal ministro Speranza, Cotticelli è un altro dei fallimenti che accomuna i disastrosi Governi 1 e 2». Lo dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida.
Cotticelli, la sinistra punta il dito. Ma fu nominato dai grillini. Rimpallo di responsabilità su Saverio Cotticelli, commissario straordinario alla sanità in Calabria. I giallorossi attaccano Salvini per la nomina, avvenuta nel 2018, ma è il Conte-bis che lo ha riconfermato con maggiori poteri. Francesco Curridori, Sabato 07/11/2020 su Il Giornale. “Con i valori della competenza, onestà e trasparenza sono sicura che porterà buoni risultati”. L’allora ministro della Salute, la grillina Giulia Grillo, il 7 dicembre 2018, non aveva dubbi sulla nomina del generale dei carabinieri Saverio Cotticelli come commissario straordinario alla sanità in Calabria. Il premier Conte ha annunciato la rimozione di Cotticelli dopo la messa in onda dell’intervista rilasciata alla trasmissione Titolo V in cui il generale ammette con un notevole imbarazzo di non sapere che spettasse a lui il compito di preparare il piano Covid per la Calabria. "La scandalosa inadeguatezza del commissario Cotticelli dimostra la scandalosa inadeguatezza di tutto il governo, che l'aveva appena confermato alla guida della Sanità calabrese. I cittadini non meritano uomini come Arcuri e Cotticelli, ora sia la Calabria a riprendersi in mano la sua dignità e la sua Sanità", ha subito attaccato il leader della Lega Matteo Salvini. Ma le risposte dei giallorossi non si sono fatte attendere. Nicola Fratoianni di LeU attacca: “Matteo Salvini sembra il Trump di queste ore. Come un pugile suonato che si perde così tanto nel suo sciocchezzario quotidiano da scordare che Cotticelli fu nominato commissario per la Calabria dal governo in cui lui era vicepremier, il 7 dicembre 2018...". Peccato, però, che la nomina sia stata fatta dalla Grillo, esponente di quel M5S che ora governa col Pd. È lei che affida a Cotticelli il mandato di realizzare il Piano di rientro della sanità calabrese. Tra gli interventi prioritari c’è “il completamento e attuazione del piano di riorganizzazione della rete ospedaliera e della rete di emergenza-urgenza”. Il neo commissario, ricorda Open, subentrava a Massimo Scura, una personalità che era invisa sia all’allora presidente regionale Mario Oliviero, ma soprattutto al M5S che per quel ruolo pretendeva “legalità” e “onestà”. “Spesso dove c’è inefficienza, c’è illegalità”, erano state le parole di Cotticelli il giorno del suo insediamento. Ma quel che non torna in questa vicenda è lo scaricabarile di responsabilità che la sinistra ha subito portato avanti nei confronti di Salvini. "Salvini ha cacciato dal suo partito i dirigenti della Lega che hanno organizzato quella pseudo manifestazione sotto casa del sindaco di Bergamo Gori? Se non lo fa diventa corresponsabile di quell'atto ignobile", ha scritto su Twitter Alessia Morani (Pd), sottosegretaria al Ministero dello Sviluppo economico. Peccato che sia stato proprio il governo giallorosso di cui la Morani fa parte ad aver confermato Cotticelli neanche tre giorni fa. Ma non solo. Il governo Conte-bis ha persino potenziato la figura del commissario ad acta rendendolo responsabile “ove delegato” del Programma operativo di potenziamento delle terapie intensive e semi-intensive. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ospite a Stasera Italia, rispondendo alle polemiche su Cotticelli, ha spiegato: "Questo commissario era stato nominato dal governo precedente e non era stato rinominato, come invece erroneamente ho sentito dire in queste ore, dal nostro governo". E ha concluso: "Mercoledì, molto prima che scoppiasse questa polemica, abbiamo approvato in consiglio dei ministri un decreto legge sulla sanità in Calabria che crea finalmente le condizioni per la ripartenza perché mette più risorse, dà più poteri a chi deve governare quella sanità, mette in campo competenze più significative e secondo me crea le condizioni finalmente per una ripartenza".
Cotticelli si difende: «Non ero io quello lì e il piano Covid c’è». Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. Surreale. Non ci sono altre parole per commentare la “difesa” del generale Cotticelli dopo la magrissima figura rimediata in tv. Forse l’Arena di Massimo Giletti non era il palcoscenico più adatto per arrivare ad una chiarezza che alla fine non c’è stata anche perchè a Cotticelli raramente veniva concesso di finire un concetto. L’impressione è stata quella di un uomo in confusione, come ha ammesso lui stesso, che ha esordito dicendo di non essersi riconosciuto in quelle immagini «Sembrava la mia controfigura, la mia famiglia, io stesso non mi sono riconosciuto. Mi deve credere dottor Giletti non so cosa mi sia successo al punto che con un medico sto indagando». Se fossimo familiari del Generale gli consiglieremmo analisi approfondite perchè confuso lo è apparso sul serio. La triste e amara verità che è venuta fuori, però, è che i calabresi devono sorbirsi la zona rossa per colpe che non sono loro.
I POSTI LETTO. Il punto centrale dell’intervista è stata infatti la questione dei posti letto di terapia intensiva. Per il Ministero in Calabria sono necessari circa 300 posti per fronteggiare la seconda ondata della pandemia. Al momento i posti letto disponibili sono 146. I rimanenti sono solo sulla carta. Il piano Covid (che c’è come si è finalmente ricordato Cotticelli) prevede la realizzazione degli altri 134, ma tutto si è arenato nella burocrazia italiana. Il commissario straordinario per l’emergenza Covid, Arcuri, ha stanziato le somme solo qualche mese fa. Ha poi deciso che i soggetti attuatori (cioè quelli che operativamente debbono appaltare le gare) siano le aziende sanitarie e ospedaliere calabresi. Nè il commissario nè la Regione. Le aziende calabresi si stanno muovendo solo oggi con la solita celerità per cui nessuno sa dire con certezza quando saranno pronti. Nel frattempo, come ha ammesso la stessa maggioranza di centrodestra che governa la Regione, i ventilatori polmonari inviati dallo Stato restano imballati in qualche stanza della Protezione Civile regionale e i calabresi sono costretti al lockdown.
IL PIANO COVID. Cotticelli sul punto recupera la memoria e dice che in giugno aveva redatto il piano di potenziamento sia ospedaliero sia territoriale. Il problema è che poi di questo piano si è quasi dimenticato. Non si capiva bene chi doveva poi renderlo operativo. Ad un certo punto il commissario è assalito da un dubbio e chiede un parere al Ministero della Salute su chi fosse il responsabile della realizzazione del piano. Il Ministero risponde solo il 27 ottobre, ma nessuno si prende la briga di leggere la risposta nè nei quattro mesi precedenti di sollecitarla. Cotticelli ammette di aver letto la risposta solo in occasione dell’intervista che gli è costata il posto cioè il 5 novembre. Possibile? Cotticelli dice di sì perchè il suo ufficio era ridotto all’osso e non era nemmeno dotato di segreteria. Secondo il suo racconto era composto solo da lui e dal sub commissario, la ormai arcinota Maria (Crocco).
IL COMPLOTTO. Su questo punto Cotticelli si è scatenato lasciando adombrare un complotto ai suoi danni per farlo fuori e prenderne il posto. Utilizza la metafora di Giovanni Falcone parlando di «menti raffinatissime» che avrebbero agito contro di lui. Ma in che modo? In primis non dotando l’ufficio di un organico vero. Cotticelli lo ribadisce facendo riferimento al nuovo Decreto Calabria che nella bozza che dovrebbe essere convertita in legge prevede non solo la nomina di due sub commissari, ma anche la creazione di uno staff di supporto di ben 25 persone per un costo vicino ai 3,5 milioni di euro. Non solo. Ma nel nuovo decreto sono previsti poteri più stringenti nei confronti del Dipartimento Salute della Calabria. Come dire: io ho dovuto combattere a mani nude, al mio successore fanno ponti d’oro. Ma la lamentela di Cotticelli non finisce qui. Ha anche detto che ad un certo punto era riuscito ad abbattere il debito per circa 90 milioni. All’improvviso però Giuseppe Zuccatelli ha tirato fuori un debito di circa 100 milioni delle aziende ospedaliere di Catanzaro che gestisce. Il debito risale al 2014 ed è legato al fallimento della Fondazione Campanella. In studio si insinua subito un complotto ad opera dello stesso Zuccatelli che non ha mai nascosto, fin da quando ha messo piede in Calabria, di voler fare il commissario. In realtà il debito viene fuori come conseguenza di alcune sentenze della Cassazione che hanno considerato inesigibili alcuni crediti della Fondazione. Il che ha fatto aumentare il debito. Ancora. Cotticelli ha denunciato di aver riscontrato problemi nel calcolo dei Lea (livelli essenziali di assistenza). Questi vengono calcolati sulla base di dati che il Dipartimento Salute della Regione invia al Ministero. Cotticelli sostiene di aver scoperto che nonostante le aziende del territorio hanno inviato i loro dati alla Regione questa non ha poi trasmesso i flussi al Ministero. Da qui la pessima valutazione dei Lea che è un altro elemento che ci ha portati alla zona rossa. Cotticelli stava anche spiegando il difficile rapporto con la sanità privata e la vicenda della rete oncologica in particolare delle Breast Unit che fu motivo di scontro con la Santelli come testimonia la lettera che la presidente scrisse a Conte. In studio però non gli hanno fatto finire il racconto. Questo quindi il punto della situazione della sanità in Calabria e la dimostrazione plastica del fallimento del commissariamento che non ha fatto altro che moltiplicare la burocrazia e agevolare le “non decisioni”, ovviamente sulla pelle dei calabresi. Cotticelli ha chiuso con grande dignità il suo intervento chiedendo scusa ai calabresi per tutta questa vicenda ma sottolineando di avere le tasche pulite e di aver messo tutto se stesso nella difficile sfida di rendere normale la sanità calabrese. Purtroppo per tutti non è bastato.
Carlo Cotticelli a Non è l'Arena: "Io drogato? So solo che ero in uno stato confusionale, sto indagando". Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. Un'uscita che gli è costata carissima. Saverio Cotticelli, dopo la messa in onda del programma Titolo V di Rai 3, ha detto addio al suo posto da commissario della Sanità in Calabria. A Cotticelli il giornalista di viale Mazzini ha chiesto informazioni sulla mancanza del piano anti-Covid e la risposta ha sollevato lo scandalo. L'uomo ha infatti scoperto di fronte alle telecamere che doveva essere lui a redigerlo: "Non lo sapevo", ha detto. Immediato il licenziamento, ma Cotticelli ha comunque voluto dire la sua a Non è l'Arena durante la puntata di domenica 8 novembre. Di fronte a Massimo Giletti Cotticelli ha spiegato quanto successo: "Ero in uno stato confusionale su cui sto indagando. Dopo l'intervista ho vomitato e ho passato una notte terribile. Non ero lucido e non stavo bene". E alla domanda di un'altra ospite, la conduttrice di La7 Myrta Merlino: "Ma l'hanno drogata?", Cotticelli ha replicato: "Non lo so dottoressa, sto indagando. Dico solo che non sono stato bene, non ero lucido". Intanto anche il suo successore, Giuseppe Zuccatelli è finito nel mirino della polemica. Alla sua nomina è comparso un vecchio video che lo ritrae mentre dice chiaro e tondo: "La mascherina non serve a un cazzo". Insomma, di male in peggio.
La strana difesa di Cotticelli: "Mi hanno drogato? Non so...". Il commissario alla Sanità calabrese Saverio Cotticelli ha provato a difendersi: "Il piano Covid l'ho fatto io. Non mi riconosco in quell'intervista. Forse ho avuto un malore". Federico Giuliani, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. "Non mi riconosco in quell'intervista. Non so cosa mi sia successo. Sto cercando di capire, magari con l'aiuto di un medico, se è stato un malore o altre cose". Questo il commento dell'ex commissario alla sanità calabrese Saverio Cotticelli nel corso della trasmissione Non è l'Arena, su La7, in merito all'intervista che ha portato alla sua sostituzione.
La versione di Cotticelli. Cotticelli ha affermato di non riconoscersi in quelle immagini. "Mi hanno drogato? Non lo so. Dico solo che non sono stato bene. Non ho sospetti su nessuno, ma non ero lucido e non stavo bene. Non ero io, ero una controfigura", ha spiegato. Il commissario non ci sta e insiste: "Tutti quelli che mi conoscono si sono chiesti chi era quello dell'intervista. Il piano covid l'ho fatto io a giugno. La fase attuativa viene demandata ad Arcuri che a fine ottobre delega ASP e AO come soggetti attuatori". Infine, alla domanda se qualcuno gli ha voluto addebitare un buco di cento milioni di euro nel 2014, l'ex commissario ha dimostrato di non avere dubbi: "Assolutamente sì. Mi volevano addebitare un buco del bilancio 2014".
Da Cotticelli a Zuccatelli. Facciamo un piccolo passo indietro per riassumere che cosa è accaduto nei giorni scorsi. La Calabria è finita al centro di molte polemiche a causa dell'istituzione della zona rossa. La Regione non ritiene adeguate le misure di sicurezza imposte dal governo e sostiene di essere in grado di gestire l'emergenza. A capo della macchina sanitaria calabrese c'era proprio Saverio Cotticelli, commissario alla Sanità in Calabria. Quando durante la trasmissione Titolo Quinto gli è stato chiesto del piano anti Covid, Cotticelli è sembrato cadere dalle nuvole: "Avrei dovuto farlo io, già a giugno scorso?", ha dichiarato il commissario. In seguito a questa uscita, Giuseppe Conte aveva dichiarato di voler destituire l'ex carabiniere dalla sua carica. Al posto di Cotticelli, il governo ha inviato in fretta furia Giuseppe Zuccatelli. Che non è partito con il piede giusto, a giudicare da un'intervista in cui ha commentato l'ultimo Dpcm di Conte. "La mascherina non serve a un cazzo, ve lo devo dire in inglese stretto?", ha dichiarato ai suoi interlocutori, aggiungendo altre parole emblematiche. "Sapete cosa serve? La distanza! Per beccarti il virus, se io fossi positivo, sai cosa devi fare? Devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus!", ha concluso.
Cotticelli si difende: "Sull'emergenza covid non ho mai avuto alcuna responsabilità". Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. L’ormai ex commissario alla Sanità calabrese, Saverio Cotticelli risponde alle critiche. Al sito di Repubblica ha fornito la sua versione dei fatti, spiegando che la presidente compianta presidente della giunta regionale Jole Santelli avesse scelto come responsabile dell’emergenza Covid Antonio Belcastro. “Io sono stato inserito nella task force, ma ero tagliato fuori da tutte le scelte – ha detto Cotticelli – io sull’emergenza Covid non ho mai avuto alcuna responsabilità”. Cosa è stato realizzato? “La fase esecutiva è in capo al commissario Arcuri – ha detto ancora Cotticelli nell’intervista – ma anche lui ha scavalcato la struttura commissariale delegando direttamente le Aziende ospedaliere e sanitarie provinciali. Non è mai stata chiarita la catena di comando. Per me, il soggetto attuatore per l’emergenza Covid è il presidente della Regione, insieme al suo delegato”.
Luca Telese per tpi.it il 9 novembre 2020.
«Non ero io. Non ero io quello che ha parlato nell’intervista a “Titolo Quinto”!»
Cosa significa, scusi, Generale Cotticelli?
«Che non mi riconosco in quell’uomo. Non ero io».
Era lei.
«Sì, ma stavo male. Era come se fossi un altro».
Ma lei pensa davvero quello che ha detto ieri da Giletti?
«Sì, sto indagando su me stesso. Su cosa mi è accaduto».
Perché non si riconosce nel se stesso che ha visto nella sua intervista?
«Esatto. Nemmeno la mia famiglia mi ha riconosciuto. Sono ancora sconvolto».
Questo lo ha detto ieri sera all’Arena. Ma cosa significa esattamente?
«Sto valutandolo con il mio medico, sto ricostruendo quello che è accaduto il giorno dell’intervista. È tutto molto strano. Gli orari, la modalità… non torna nulla».
Cosa è strano?
«La mia sostituzione era già decisa. Da sei mesi».
Come come?
«Sì, diciamo come stanno davvero le cose. Il ministro Speranza aveva già deciso di nominare Zuccatelli. Ormai è chiaro, carte scoperte».
Quindi lei?
«Io dovevo essere rimosso. È semplice».
Sta scherzando?
«Affatto. La mia intervista è solo stato un pretesto».
Tuttavia l’ha fatta.
«Certo, glielo ho già detto, non lo nego».
E quindi? Sospetta davvero di essere stato drogato? Vittima di un complotto?
«Questo non lo so. Ripeto, sto indagando: io so che dopo quell’intervista ho vomitato tutta la notte. Sono stato malissimo».
Generale, ma si rende conto di quello che sta ipotizzando?
«Certo».
Lei sta sostenendo che qualcuno avrebbe operato per farle del male, per spingerla alle dimissioni.
«Ah, c’è di peggio».
Ma perché, scusi?
«Senta, la Calabria ha una terra di mezzo. Da un lato la povera gente, dall’altro il potere, in mezzo ci sono loro».
Loro chi?
«La massoneria. Con i suoi riferimenti a Roma.
E cosa significa questo? Lei non ricordava chi dovesse fare il piano Covid e il numero delle terapie intensive attivate.
«Ma come potevo non ricordarlo, scusi? Quel piano esiste davvero, e l’ho predisposto io.
Capisce che questa domanda non può farla a me. Dovrei farla io a lei.
«Ha capito cosa le ho detto? In Calabria tutto è deciso da questo mondo di mezzo: e io a questa massoneria non ho dato tregua».
E quindi…
«Se vuole glielo spiego. È notte. Il generale Saverio Cotticelli ha appena finito di rilasciare una clamorosa intervista a Massimo Giletti, durante la puntata di Non è l’Arena. Ha detto tante cose, ha ricostruito la giornata che ha prodotto le sue dimissioni, ha lanciato accuse pesanti ma il tempo non gli è bastato. E così – dietro le quinte – mi spiega, prima di andarsene, il suo sospetto. E la sua risoluzione: “Andrò in procura”».
Scusi generale, ci pensi per un attimo: come si può credere ad un uomo che dice “Non riconosco me stesso”.
«Capisco la sua ironia. Ma io mi sono dimesso. Ho abbandonato il mio incarico. Questo è sempre un gesto nobile».
Ma non necessariamente prova quello che lei sta dicendo.
«Ma ha capito che potrei scrivere un libro? Ha idea di quello che ho trovato nella sanità calabrese?»
No, me lo dica lei.
«C’erano fatture ai privati, nella sanità calabrese, che venivano pagate tre volte. C’erano posto di lavoro, appalti oscuri, il potere reale mercanteggiava su tutto».
Che tipo di mercato?
«Il più classico. Io ti do i fondi, tu mi dai il lavoro».
Ma questo cosa c’entra con il Covid, scusi?
«Io potrò avete tanti difetti, ma a questi signori ho tolto il concime dal vaso. Gli ho cancellato 500 milioni di euro di appalti. Gli ho revocato gli affidamenti impropri».
Sì, ma questo cosa c’entra con l’intervista in cui non riconosce se stesso?
«Guardi che questi, se potevano mettermi sotto una macchina, l’avrebbero già fatto».
Si rende conto della gravità di quello che sta dicendo?
«Non si dimentichi che sono un carabiniere. Un incidente avrebbe risolto: però io sapevo come proteggermi, mi creda».
Ma cosa c’entra il mondo di mezzo calabrese con chi doveva fare il piano anti-Covid?
«Se non potevano mettermi sotto una macchina, allora restava solo la possibilità di screditarmi. Noto che questo alla fine è accaduto».
Ma chi sono questi nemici così spietati e potenti?
«Nell’intervista a Giletti le ho definite “menti raffinatissime”. È la citazione di una celebre frase Giovanni Falcone. Insomma le sto parlando di una forza che in Calabria ha un potere enorme: la masso-mafia».
Ma scusi, chi sapeva nel suo Entourage che lei avrebbe fatto quell’intervista?
«Quel pomeriggio? Solo io e la mia vice commissaria, che era lì con me».
Non starà mica sostenendo che i giornalisti di “Titolo quinto” hanno partecipato ad un piano. È senza senso!
«E chi lo ha detto? I poteri di cui parlo non hanno difficoltà di intelligence. E poi…»
Cosa?
«Quel giorno è stato tutto strano: prima dovevano venire alle 15.00, poi sono venuti alle 18.00, avevano un tono inquisitivo che nemmeno delle Iene».
Iene?
«Iene, iene. Quelle del programma di Mediaset».
Generale lei non può prendersela con altri per quello che è accaduto a lei.
«Avevano quel documento, che mi è stato spedito il 27 ottobre, e che io ho ricevuto quel giorno. Proprio quel giorno!»
Insomma, un complotto per sostituirla con Zuccatelli.
«Ma ha sentito quello che ho detto a Giletti? Io ho lavorato due anni senza nessun supporto: senza una segreteria, senza nemmeno una dattilografa. Da so-lo!»
E adesso?
«Adesso a Zuccatelli danno una struttura con 27 persone! Che costa tre milioni di euro».
Se lei non si fosse dovuto dimettere a capo di quella struttura ci sarebbe lei, non Zuccatelli.
(Sorriso). «Ma davvero può crederlo? Le ho detto che Zuccatelli lo volevano mettere da prima! È di LeU, lo stesso partito di Speranza, è amico di Bersani, se ne andava in giro per la Calabria a dire che sarebbe stato nominato commissario da mesi, e come vede lo anche è diventato.
Ed è bravo?
«Non scherzi: ha litigato con tutti, è in guerra con il mondo, è positivo al Covid, e dice quelle cose sul contagio. Perfetto».
Quindi?
(Sorriso). «Quindi nulla».
Nulla?
(Altro sorriso). «Glielo ho detto: su questa storia dovrei scrivere un libro».
Chi è Cotticelli, il commissario della sanità in Calabria che non sapeva che il Piano Covid l’avrebbe dovuto redigere lui. Il premier Conte: «Va sostituito con effetto immediato. Anche se il processo di nomina del nuovo commissario prevede un percorso molto articolato, voglio firmare il decreto già nelle prossime ore». Di An.C. su ilsole24ore.com il 7 novembre 2020. Alla fine l’oramai ex commissario ad acta della sanità calabrese Saverio Cotticelli si appresta a rassegnare le dimissioni nelle mani del ministro della Salute Roberto Speranza e del responsabile dell’Economia Roberto Gualtieri. Troppo impetuoso l’impatto mediatico prodotto dall’intervista da lui rilasciata alla trasmissione di Raitre “Titolo V”. Il video, nel quale ammette di non sapere che la responsabilità di redigere il piano Covid per la Calabria da poco entrata nella zona rossa era proprio sua, è rimbalzato nei social, provocando un tam tam mediatico rilanciato da migliaia di condivisioni. Contro di lui in queste ore si sono espressi tutti gli schieramenti politici.
Conte: via subito. Ma il passo indietro avviene in un contesto che è già segnato. «Il commissario per la sanità in Calabria Saverio Cotticelli va sostituito con effetto immediato. Anche se il processo di nomina del nuovo commissario prevede un percorso molto articolato, voglio firmare il decreto già nelle prossime ore: i calabresi meritano subito un nuovo commissario pienamente capace di affrontare la complessa e impegnativa sfida della sanità», ha detto il premier Giuseppe Conte dopo l’intervista andate in onda ieri sera, venerdì 6 novembre. «Già nelle prossime ore è prevista la nomina del nuovo Commissario per la Calabria», chiariscono fonti del ministero della Salute.
«Il piano Covid dovevo farlo io? Non lo sapevo, ora mi cacciano». Intervistato sul tema d’attualità, ovvero la Calabria in zona rossa a causa dell’emergenza Coronavirus, a un certo punto gli viene chiesto come mai non fosse stato fatto un Piano Covid per la regione. «Era compito della Regione Calabria - risponde Cotticelli -, tanto che ho anche chiesto al Ministero della Salute di risolvere il quesito su chi avesse il titolo per farlo». E quando gli viene chiesto cosa avesse risposto il Ministero lui, non con un certo imbarazzo, ammette: «Oh! avrei dovuto farlo io, già a giugno scorso? Domani mattina mi cacceranno per questo».
Non sa quanti sono i posti di terapia intensiva in Calabria. Non solo. Nell’intervista l’oramai ex commissario ad acta della sanità calabrese si gioca l’ultima carta: assicura che «la settimana prossima il piano anti Covid è pronto», salvo poi peggiorare ulteriormente la sua situazione mostrandosi impreparato anche sul numero delle terapie intensive in Calabria, e ricevendo il rimprovero “fuori campo” del suo sub commissario, Maria Crocco.
Generale dei Carabinieri in pensione. Campano, originario di Castellammare di Stabia, 69 anni, generale di corpo d’armata dei Carabinieri in pensione, è arrivato in Calabria agli inizi di gennaio 2019. È stato nominato dal Conte uno il 7 dicembre 2018, ad opera dell'allora ministro dell'Economia Tria, di concerto con la ministra della Salute Grillo e sentita la ministra degli Affari Regionali Stefani. La nomina è stata confermata da Conte due il 19 luglio 2019. Conticelli ha alle spalle una lunga carriera nell’Arma, che lo ha visto ricoprire anche incarichi di rilievo: comandante Carabinieri della Regione Piemonte e Valle d'Aosta, è stato alla guida dei N.A.S. ( Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell'Arma dei Carabinieri, posti alle dipendenze funzionali del Ministero della salute), comandante della regione Carabinieri Lazio. Dieci anni fa gli è stata conferita l'onorificenza di Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana; nel 2012 assume la Presidenza del Cocer interforze.
Terapie intensive e ricoveri, le regioni in cui la seconda ondata è già peggiore della prima. Poi la chiamata in Calabria come commissario ad acta per il piano di rientro della Sanità calabrese. Un incarico che ha assunto, evidentemente, ignorando che quel Piano l’avrebbe dovuto redigere proprio lui. «A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto», ha scritto il poeta polacco Stanisław Jerzy Lec.
Cotticelli, una figuraccia anche prima che andasse in televisione. Valerio Panettieri su Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. Ci sono voluti otto mesi per capire chi era il soggetto attuatore del piano covid in Calabria. Otto mesi per aspettare i bandi di Arcuri sulle terapie intensive, nonostante il documento firmato dal commissario Cotticelli, lo stesso che in una imbarazzante intervista scopre che il 27 ottobre scorso Speranza gli aveva detto che era lui il soggetto che doveva attuare il piano, e otto mesi di scontri istituzionali e perdite di tempo che sono costati una zona rossa alla Calabria. Ma alla fine Saverio Cotticelli è stato mandato a casa in diretta tv? Neanche per sogno. Il commissario al piano di rientro dal debito sanitario della Regione Calabria si era già dimesso il 10 ottobre scorso. Si aspettava solo l’ufficialità e il cambio di passo dopo il rinnovo del decreto Calabria. Il teatrino visto in televisione due giorni fa che ha messo in mostra tutta l’inadeguatezza dell’ex generale dei carabinieri alle prese con la sanità calabrese è a tratti inspiegabile. Perché ha detto che il piano Covid doveva farlo lui se in Calabria di piani ce ne sono due e uno è stato firmato a giugno? Il primo annunciato dalla presidente Jole Santelli il 10 marzo scorso in un tripudio di collaborazione con Cotticelli, il secondo licenziato con decreto del commissario ad acta, il numero 91: “piano di riorganizzazione della rete ospedaliera”. È il famoso disegno dei 124 posti letto aggiuntivi per la terapia intensiva e 128 per la subintensiva che il commissario Arcuri ha messo a bando, delegando direttamente Asp e ospedali come soggetti attuatori, ad ottobre. Ma per il ministero, invece, era il commissario Cotticelli a doverne dare attuazione. Quello che si è visto in diretta televisiva due giorni fa e il conseguente tweet di Giuseppe Conte che ha cancellato in un attimo il ruolo di Cotticelli da commissario sa di resa dei conti a reti unificate. In realtà era tutto già scritto. Il ministro Speranza aveva chiamato Cotticelli diverse settimane fa all’indomani di una riunione di verifica del piano di rientro dal debito, schizzato nuovamente sui 200 milioni, durata due giorni. Insomma, si aspettava solo un cambio di guardia ufficiale, mentre l’ex generale in pensione è rimasto arroccato negli uffici della Cittadella regionale in attesa. Tutto quello che è davanti agli occhi è frutto di una responsabilità collettiva, non solo decennale, politica e burocratica. Dalle scelte dei governi all’innocenza presunta della Regione, passando ovviamente per il sacrificato commissario ad acta.
PRIMA DEL COVID. Saverio Cotticelli è stato nominato nel 2018 alla guida della struttura commissariale calabrese. Fu una decisione dell’allora governo a trazione leghista e pentastellata. All’epoca al Governo c’erano Giuseppe Conte, Giulia Grillo alla Salute, Matteo Salvini agli Interni e Giovanni Tria all’Economia. La storia di Cotticelli è costellata più da fallimenti che successi: l’unico atto degno di nota è stato autorizzare poco più di 400 assunzioni in un sistema sanitario che richiederebbe almeno 3mila 700 persone in più. In fondo al commissario sono richieste due cose: pareggiare il debito sanitario e raggiungere dati accettabili sui Livelli essenziali di assistenza. E invece le continue e ripetute riunioni semestrali di verifica hanno prodotto l’esatto contrario. Ad agosto 2019 il disavanzo certificato e non coperto era di 105 milioni di euro mentre la stima sul punteggio Lea era di 139 su un minimo di 160, ad ottobre 2020 è sui 200 milioni mentre il punteggio Lea sfiora finalmente l’idoneità arrivando a 162. In mezzo ci sono i debiti verso i fornitori fermi a circa un miliardo di euro. E poi il caos gestionale: due Asp (Reggio Calabria e Catanzaro) sciolte per mafia. Dopo lo scioglimento di Reggio, ad aprile 2019, la reazione del governo pentaleghista fu il decreto Calabria che tra le altre cose ha strappato le nomine alla politica per i vertici delle aziende. Ma anche lì è un caos. Le aziende sono rimaste in mano a reggenti per mesi lunghissimi. Subito dopo inizia una lottizzazione in salsa nazionale. In questo caos Cotticelli non ha brillato: ci ha messo nove mesi dall’approvazione del decreto a stipulare una convenzione con l’Anac e oltre un anno per mettere in piedi l’obbligatorio piano di rientro triennale. Poi è arrivata la resa dei conti nell’ultimo incontro interministeriale: due giorni di riunioni sul perché il debito fosse aumentato a dismisura (obbligando per la terza volta lo Stato ad aumentare le aliquote Irpef e Irap per tentare di ripianare il debito) e infine le dimissioni, il 10 ottobre scorso. Cotticelli da quel giorno è rimasto in attesa di un incontro con Speranza.
L’EMERGENZA. Nel frattempo che si consumava l’ordinario è arrivato il coronavirus. A marzo scorso il ministero ha delegato direttamente la Regione nella gestione della pandemia, che a sua volta ha nominato una task force di esperti e un soggetto delegato all’emergenza. In quei giorni in molti si erano chiesti che fine avesse fato il commissario che, laconico, rispose di non avere “poteri” sul caso essendo la Regione nominata alla gestione. Ed è arrivato il primo piano: 400 posti letto, individuazione della rete e possibilità di utilizzare i beni confiscati per riconvertirli in centro Covid. Tutto questo è rimasto sulla carta. Poi a maggio il governo modifica la rotta, assegnando le responsabilità dell’emergenza al commissario. La struttura a giugno licenzia un piano monstre: ampliamento dei posti letto in terapia intensiva e sub intensiva, ristrutturazione dei pronto soccorso, creazione dei percorsi covid e strutture modulari montabili all’occasione in caso di emergenza assoluta. E poi le assunzioni, almeno 500 tra medici, operatori e infermieri per gestire l’emergenza. Per la Santelli si tratta di un piano “inattuabile” accusando Speranza e Conte di avere per l’ennesima volta esautorato la Regione dalla gestione. Ma in fondo anche questo in buona parte è rimasto carta straccia. Delle terapie intensive in più ne sono arrivate molto poche, nessuna di quelle previste dal piano. La Regione in tutto questo prima ha accusato le dirigenze ospedaliere, poi direttamente il commissario non spiegando mai chiaramente invece come ha speso gli 87 milioni destinati all’emergenza. Ad un certo punto la giunta ha deciso anche di rimodulare il Por Calabria per aprire nuove terapie intensive. Intanto in queste ore si è subito dimenticata delle figuracce: l’ultima due giorni prima della dichiarazione di zona rossa della Calabria. Nel ricalcolo del bollettino regionale sono “sparite” ben 16 persone ricoverate in terapia intensiva: “non erano intubati” diranno. La colpa è solo di Cotticelli?
L'ex commissario nella bufera. Storia della carriera del generale Saverio Cotticelli, quasi capo dei Carabinieri ma "bruciato" da Del Sette. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Novembre 2020. Il generale Saverio Cotticelli, l’ex commissario della Sanità della regione Calabria che dopo le recenti interviste sta indagando sul proprio “stato confusionale”, era destinato a diventare il numero uno della Benemerita. La notizia è stata confermata al Riformista direttamente dai piani alti del Comando generale dell’Arma. Questi i fatti. Siamo alla fine del 2014 e a viale Romania la poltrona più importante è occupata dal 2009 dal generale Leonardo Gallitelli. L’incarico di Gallitelli doveva terminare ad aprile del 2013 ma il governo Monti, il 27 marzo precedente, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima delle sue dimissioni, aveva deciso di prorogarlo fino al 31 dicembre dell’anno successivo. Il motivo? Nel 2014 si sarebbe celebrato il bicentenario di fondazione dell’Arma e la presenza di Gallitelli era indispensabile per sovrintendere in maniera adeguata la macchina organizzativa dei festeggiamenti. Cotticelli è in quel momento il potentissimo comandante del comando unità mobili e speciali “Palidoro”, il reparto da cui dipendono tutti i reparti speciali dell’Arma, dal Nas, al Noe, al Tpc, al Ros, e, appunto i contingenti destinati a garantire l’ordine pubblico in Italia e nelle missioni all’estero. Ma non solo. Cotticelli è anche il capo del Cocer, prima della sentenza della Consulta che sdoganerà l’associazionismo con le stellette, il sindacato unico dell’Arma. Cotticelli è, infine, in ottimi rapporti con lo stesso Gallitelli. Divenuto a ottobre del 2008 comandante della Legione Lazio, Cotticelli non viene neppure lontanamente sfiorato da quello che accade nelle caserme a poche centinaia di metri dal suo ufficio. Durante il suo periodo di comando si verificano due episodi che segneranno per sempre la storia dell’Arma. La morte di Stefano Cucchi e il porno ricatto al presidente della regione Lazio Piero Marrazzo. Le vicende, a opera dei suoi dipendenti, non intaccano minimamente l’inarrestabile ascesa del generale la cui carriera prosegue spedita. Cotticelli continua, dunque, ad aggiungere stellette sulle spalline dell’uniforme. Per i recenti fatti di Piacenza, tanto per fare un confronto, il comandante generale Giovanni Nistri rimuoverà l’intera scala gerarchica della città emiliana, stroncando ogni residua aspettativa di progressione in ruolo. La strada di Cotticelli verso il comando generale sembra essere, allora, tutta in discesa: nessuno dei candidati al posto di Gallitelli ha un curriculum come il suo. I piani del generale vanno in fumo, però, nel Consiglio dei ministri della vigilia di Natale del 2014. Sotto l’albero Cotticelli trova un’amara sorpresa: l’allora ministra della Difesa e ora presidente della commissione Difesa del Senato, Roberta Pinotti, ha deciso di puntare sul proprio capo di gabinetto, il generale Tullio Del Sette. La decisione della ministra dem ha l’avallo del premier Matteo Renzi che aveva conosciuto Del Sette quando il generale era comandante dei carabinieri della Toscana e lui sindaco di Firenze. La scelta di Del Sette sorprende tutti in quanto era diventato capo di gabinetto del ministro Pinotti solo cinque mesi prima. Oltre a non esserci precedenti, la nomina di Del Sette è vista come un fatto “irrituale”. Era la prima volta che un ufficiale dell’Arma che ricopriva un incarico prettamente politico diventava, senza soluzione di continuità, comandante generale. Del Sette è ora sotto processo a Roma con l’accusa di rivelazione del segreto e favoreggiamento in uno dei filoni dell’inchiesta Consip. In particolare avrebbe comunicato al presidente di Consip che i carabinieri del Noe per ordine della Procura di Napoli stavano facendo indagini su alcuni appalti assegnati dalla centrale acquisti della Pa. Il “tradimento” da parte dei vertici del Pd è inaspettato per Cotticelli. Il generale era stato fra i più stretti collaboratori della ministra della Salute Livia Turco, dalemiana di stretta osservanza, durante il governo Prodi. La ministra dem aveva anche conferito a Cotticelli la medaglia d’oro per la sanità pubblica. Cotticelli, bocciato la notte di Natale, non si perde d’animo. Arrivato al massimo della carriera, diventerà il presidente di tutti i Cocer: oltre a quello dei carabinieri, anche quelli dell’esercito, della marina, dell’aereonautica e della guardia di finanza. Qualche mese fa, a giugno, l’ultima soddisfazione. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd), su proposta del comandante generale Nistri, lo ha insignito della più alta onorificenza: la croce d’oro al merito dell’Arma dei carabinieri. A dir poco sorprendente la motivazione alla luce delle sue recenti performance televisive: “Ufficiale generale di preclare qualità umane e professionali ha sempre costituito limpido esempio e sprone per il personale dipendente, assicurando costantemente soluzioni organizzative brillanti e di rara efficacia”. E poi: “Con la sua infaticabile e preziosa opera di comando e di pensiero ha contributo al progresso dell’istituzione, esaltandone spiccatamente il lustro e il decoro nell’ambito delle Forze armate e della Nazione”.
L'accusa dell'ex generale. Cotticelli va da Gratteri e ne spara un’altra: “I clan hanno fermato il piano anti-Covid”. Paolo Comi su Il Riformista il 11 Novembre 2020. È tutta colpa del “mondo di mezzo”. L’ormai mitologica teoria criminale by Massimo Carminati ha, dunque, fatto scuola e proseliti. Dopo essere stata sdoganata nel 2014 dalla Procura di Roma, con l’insostituibile collaborazione delle cimici del Ros dei carabinieri e della penna del vice direttore di Repubblica Carlo Bonini, la teoria del mondo di mezzo è tornata agli onori delle cronache questa settimana grazie al generale Saverio Cotticelli. L’alto ufficiale dell’Arma, rimosso dal premier Giuseppe Conte dall’incarico di commissario alla Sanità della regione Calabria dopo una surreale intervista in cui affermava di non sapere di dover redigere il Piano covid territoriale, aveva evocato, nel tentativo di giustificarsi, complotti assortiti nei propri confronti. Dalla tribuna “ripatrice” di Non è l’Arena di Massimo Giletti, inizialmente aveva lasciato intendere di essere stato drogato prima di parlare con i giornalisti e di dover pertanto indagare sul proprio “stato confusionale”, poi, davanti al taccuino di Luca Telese aveva rispolverato il celebre teorema di Carminati che ha dato il nome all’indagine su (ex) “Mafia capitale”. Se a Roma, però, il luogo oscuro dove gli interessi della politica e dell’imprenditoria si incontravano con gli interessi della criminalità organizzata era popolato al massimo da vecchi picchiatori fascisti dediti all’usura e allo spaccio di stupefacenti, con Cotticelli avviene un non indifferente salto di qualità delinquenziale. Il mondo di mezzo calabrese, che tutto controlla e domina, è composto infatti da masso-mafiosi. Questo cocktail micidiale, formato quindi da esponenti della massoneria e da ‘ndranghetisti, avrebbe impedito a Cotticelli di svolgere con efficacia il ruolo di commissario straordinario. L’ufficiale, che nel 2014 ha rischiato di diventare il numero uno dell’Arma se l’allora ministro della Difesa Roberta Pinotti (Pd) non avesse puntato sul suo capo di gabinetto, il generale Tullio Del Sette, ha anche affermato di aver temuto per la propria incolumità fisica. Sempre facendo un salto nel tempo, oltre al mondo di mezzo, Cotticelli ha evocato pure un altro teorema criminale, quello delle “menti raffinatissime”. Il teorema, questa volta, non è di Carminati da Sacrofano ma di Giovanni Falcone. Cotticelli ha dichiarato che andrà ora dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri per denunciare quanto ha visto in questi due anni in Calabria. Per il generale sarà un ritorno negli uffici giudiziari di Catanzaro dal momento che aveva fatto visita a Gratteri il primo giorno del suo insediamento come commissario in Calabria a dicembre del 2018. Speriamo solo che non ci siano sorprese per Cotticelli. In Italia, infatti, trovarsi iscritti sul modello 21 delle Procure, per chi ricopre ruoli nella Pa, è facile come prendere il Covid se non si indossa la mascherina. È il destino che è capitato a due ufficiali dei carabinieri che, prima di Cotticelli, avevano svolto il medesimo incarico di commissario. Non in Calabria ma in Campania. Si tratta del generale Maurizio Scoppa e del colonnello Maurizio Bortoletti, entrambi nominati nel 2011 dall’allora governatore Stefano Caldoro, il primo all’Asl di Napoli, il secondo a quella di Salerno. Scoppa è finito in una indagine condotta dal sostituto procuratore partenopeo Valter Brunetti. Secondo i finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria che hanno condotto l’inchiesta, Scoppa avrebbe effettuato affidamenti diretti senza gara. Per Bortoletti, invece, l’accusa è di abuso d’ufficio per aver chiuso alcune strutture sanitarie. In attesa che Cotticelli termini di indagare su stesso, merita di essere riportato su questa vicenda il commento del colonnello dei carabinieri in congedo Salvino Paternò. «Genera’, ma goditela la lussuosa pensione, perché fuori dagli ovattati e pomposi palazzi dei vertici dell’arma c’è il rischio che la mancanza di meritocrazia si noti in tutta la sua squallida evidenza… e la figura da peracottaro incombe», scrive Paternò dal proprio profilo social. Ogni commento è superfluo.
L'incarico al Dis a partire dal 2015. Il retroscena: dopo la bocciatura a capo dei carabinieri Cotticelli è diventato un agente segreto. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Saverio Cotticelli, prima di essere nominato a dicembre del 2018 commissario straordinario della Sanità in Calabria, sarebbe stato per diverso tempo un “super” agente segreto. Dopo aver visto sfumare la nomina a comandante generale dell’Arma, come riportato questa settimana in esclusiva dal Riformista, Cotticelli avrebbe dunque intrapreso la carriera da 007, venendo destinato all’Ufficio centrale ispettivo del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Il Riformista ha cercato ieri di avere conferma della notizia dal diretto interessato. Cotticelli, però, dopo aver dichiarato durante la trasmissione televisiva Non è l’arena condotta da Massimo Giletti di dover indagare sul proprio “stato confusionale” emerso durante una precedente intervista, è al momento irreperibile. L’incarico di ispettore al Dis sarebbe scattato dal mese di giugno del 2015. Il generale Tullio Del Sette, suo compagno di corso all’Accademia militare di Modena, era diventato comandante generale dell’Arma sei mesi prima. Cotticelli, sulla carta più titolato di Del Sette, era stato per mesi il comandante “in pectore” della Benemerita, l’ufficiale destinato a sostituire Leonardo Gallitelli, con cui aveva ottimi rapporti, a viale Romania. La scelta, invece, cadde proprio su Del Sette, in quel momento capo di gabinetto della ministra della Difesa Roberta Pinotti (Pd). Pare che a Cotticelli, dopo l’inaspettata bocciatura, fosse stato offerto di diventare il braccio destro di Del Sette. Un altro incarico di natura politica, essendo la nomina del vice comandante dei carabinieri di competenza del governo. Cotticelli, però, rifiutò. Anche dal Dis sul punto bocche cucite. Inutile tentare di avere informazioni in merito al ruolo e ai compiti svolti da Cotticelli presso il Dipartimento. Ogni notizia sugli appartenenti ai Servizi e alle loro varie articolazioni è coperta dal segreto di Stato. Una conferma dell’incarico “extra Arma” di Cotticelli è venuta dall’appuntato scelto dei carabinieri Vincenzo Romeo. L’appuntato è stato uno dei collaboratori strettissimi di Cotticelli quando quest’ultimo era presidente del Cocer, il “sindacato” militare. Romeo raccontò ai colleghi, che a giugno del 2015 gli chiedevano notizie sul futuro professionale di Cotticelli, che il generale era stato destinato ad un incarico di “governo”. Un incarico che lo costringeva ad abbandonare prima del tempo l’attività alla rappresentanza militare. I vertici del Servizi sono, come noto, tutti “dipendenti” da Palazzo Chigi. Il Dis è ora diretto dal generale della guardia di finanza Gennaro Vecchione. L’alto ufficiale delle Fiamme gialle è molto ascoltato dal premier Giuseppe Conte. Il Dipartimento è il centro nevralgico dei Servizi segreti, il luogo dove si elaborano i dati e si coordinano le azioni di intelligence. Il Dis vigila sull’attività di Aise e Aisi e sulla corretta applicazione delle disposizioni emanate dal presidente del Consiglio dei ministri, nonché in materia di tutela amministrativa del segreto. Il Dis cura, infine, anche le attività di promozione e diffusione della cultura della sicurezza e la comunicazione istituzionale e impartisce gli indirizzi per la gestione unitaria del personale delle varie strutture. Compiti di assoluta importanza per la sicurezza del Paese. Qualche report riservato, comunque, deve essere sfuggito a Cotticelli. Ad esempio quello sulla “masso-mafia”, l’entità criminale composta da massoni e ‘ndranghetisti che ha impedito al generale di redigere il piano Covid per la regione Calabria, e di cui Cotticelli ha avuto contezza solo al momento del suo arrivo a Catanzaro. Una svista fatale che è costata all’agente segreto Cotticelli il posto di commissario straordinario.
L'ex commissario nella bufera. Storia della carriera del generale Saverio Cotticelli, quasi capo dei Carabinieri ma "bruciato" da Del Sette. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Novembre 2020. Il generale Saverio Cotticelli, l’ex commissario della Sanità della regione Calabria che dopo le recenti interviste sta indagando sul proprio “stato confusionale”, era destinato a diventare il numero uno della Benemerita. La notizia è stata confermata al Riformista direttamente dai piani alti del Comando generale dell’Arma. Questi i fatti. Siamo alla fine del 2014 e a viale Romania la poltrona più importante è occupata dal 2009 dal generale Leonardo Gallitelli. L’incarico di Gallitelli doveva terminare ad aprile del 2013 ma il governo Monti, il 27 marzo precedente, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima delle sue dimissioni, aveva deciso di prorogarlo fino al 31 dicembre dell’anno successivo. Il motivo? Nel 2014 si sarebbe celebrato il bicentenario di fondazione dell’Arma e la presenza di Gallitelli era indispensabile per sovrintendere in maniera adeguata la macchina organizzativa dei festeggiamenti. Cotticelli è in quel momento il potentissimo comandante del comando unità mobili e speciali “Palidoro”, il reparto da cui dipendono tutti i reparti speciali dell’Arma, dal Nas, al Noe, al Tpc, al Ros, e, appunto i contingenti destinati a garantire l’ordine pubblico in Italia e nelle missioni all’estero. Ma non solo. Cotticelli è anche il capo del Cocer, prima della sentenza della Consulta che sdoganerà l’associazionismo con le stellette, il sindacato unico dell’Arma. Cotticelli è, infine, in ottimi rapporti con lo stesso Gallitelli. Divenuto a ottobre del 2008 comandante della Legione Lazio, Cotticelli non viene neppure lontanamente sfiorato da quello che accade nelle caserme a poche centinaia di metri dal suo ufficio. Durante il suo periodo di comando si verificano due episodi che segneranno per sempre la storia dell’Arma. La morte di Stefano Cucchi e il porno ricatto al presidente della regione Lazio Piero Marrazzo. Le vicende, a opera dei suoi dipendenti, non intaccano minimamente l’inarrestabile ascesa del generale la cui carriera prosegue spedita. Cotticelli continua, dunque, ad aggiungere stellette sulle spalline dell’uniforme. Per i recenti fatti di Piacenza, tanto per fare un confronto, il comandante generale Giovanni Nistri rimuoverà l’intera scala gerarchica della città emiliana, stroncando ogni residua aspettativa di progressione in ruolo. La strada di Cotticelli verso il comando generale sembra essere, allora, tutta in discesa: nessuno dei candidati al posto di Gallitelli ha un curriculum come il suo. I piani del generale vanno in fumo, però, nel Consiglio dei ministri della vigilia di Natale del 2014. Sotto l’albero Cotticelli trova un’amara sorpresa: l’allora ministra della Difesa e ora presidente della commissione Difesa del Senato, Roberta Pinotti, ha deciso di puntare sul proprio capo di gabinetto, il generale Tullio Del Sette. La decisione della ministra dem ha l’avallo del premier Matteo Renzi che aveva conosciuto Del Sette quando il generale era comandante dei carabinieri della Toscana e lui sindaco di Firenze. La scelta di Del Sette sorprende tutti in quanto era diventato capo di gabinetto del ministro Pinotti solo cinque mesi prima. Oltre a non esserci precedenti, la nomina di Del Sette è vista come un fatto “irrituale”. Era la prima volta che un ufficiale dell’Arma che ricopriva un incarico prettamente politico diventava, senza soluzione di continuità, comandante generale. Del Sette è ora sotto processo a Roma con l’accusa di rivelazione del segreto e favoreggiamento in uno dei filoni dell’inchiesta Consip. In particolare avrebbe comunicato al presidente di Consip che i carabinieri del Noe per ordine della Procura di Napoli stavano facendo indagini su alcuni appalti assegnati dalla centrale acquisti della Pa. Il “tradimento” da parte dei vertici del Pd è inaspettato per Cotticelli. Il generale era stato fra i più stretti collaboratori della ministra della Salute Livia Turco, dalemiana di stretta osservanza, durante il governo Prodi. La ministra dem aveva anche conferito a Cotticelli la medaglia d’oro per la sanità pubblica. Cotticelli, bocciato la notte di Natale, non si perde d’animo. Arrivato al massimo della carriera, diventerà il presidente di tutti i Cocer: oltre a quello dei carabinieri, anche quelli dell’esercito, della marina, dell’aereonautica e della guardia di finanza. Qualche mese fa, a giugno, l’ultima soddisfazione. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd), su proposta del comandante generale Nistri, lo ha insignito della più alta onorificenza: la croce d’oro al merito dell’Arma dei carabinieri. A dir poco sorprendente la motivazione alla luce delle sue recenti performance televisive: “Ufficiale generale di preclare qualità umane e professionali ha sempre costituito limpido esempio e sprone per il personale dipendente, assicurando costantemente soluzioni organizzative brillanti e di rara efficacia”. E poi: “Con la sua infaticabile e preziosa opera di comando e di pensiero ha contributo al progresso dell’istituzione, esaltandone spiccatamente il lustro e il decoro nell’ambito delle Forze armate e della Nazione”.
Le inchieste dell'ex generale. Inchiesta "Camici sporchi", il grande flop di Saverio Cotticelli. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Novembre 2020. Nel prestigioso cv del generale dei carabinieri Saverio Cotticelli non compare uno dei flop investigativi più clamorosi della recente storia repubblicana. Si tratta dell’inchiesta “Camici sporchi” condotta nel 2012 dal Nas (Nucleo antisofisticazioni e sanità) di Parma e dal pm Procura di Modena. In quell’anno Cotticelli, dopo aver svolto l’incarico di comandante di tutti i Nas d’Italia ed essere stato insignito per i brillanti risultati ottenuti della medaglia d’oro per la sanità pubblica, era il capo dei reparti speciali dell’Arma. Quindi non solo il Nas, ma anche il Noe (Nucleo operativo ecologico), il Tpc (Tutela patrimonio artistico) e tanti altri meno noti ma comunque importanti. Gli investigatori di Cotticelli hanno nel mirino la cardiologia del policlinico di Modena. Nel reparto, diretto dalla professoressa Maria Grazia Modena, secondo i carabinieri avverrebbero sperimentazioni cliniche senza autorizzazione, installazione di apparecchiature mediche, alcune difettose, su pazienti ignari, taroccamento di cartelle cliniche, truffe a carico del Ssn, creazione di Onlus fittizie su cui far confluire somme di denaro per incentivare queste sperimentazioni non autorizzate. Accuse pesantissime dal momento che la cardiologia del Policlinico di Modena è considerata un’eccellenza a livello internazionale e ha in cura migliaia di pazienti provenienti da tutte le regioni d’Italia. All’alba del 9 novembre di otto anni fa scatta la maxi retata. Vengono arrestati, oltre alla professoressa Modena, tutti i cardiologi del policlinico e il professor Massimo Giuseppe Sangiorgi, il capo di emodinamica del nosocomio. Insieme a loro ci sono poi settanta indagati e dodici aziende che producono attrezzature cardiologiche a cui viene disposto il divieto di contrattare con la Pa. Sei di queste aziende sono straniere. Tutti i beni dei dottori sono sequestrati. Per portare a compimento la maxi retata sono impiegati centocinquanta carabinieri, due elicotteri, e il “troy”, un antesignano del celebre virus spia “trojan”, che viene installato nel pc della professoressa Modena per copiare in tempo reale sui server degli investigatori tutte le sue mail. «È l’inchiesta più importante mai fatta», dicono soddisfatti dalla Procura di Modena, diretta dal procuratore Vito Zincani, aggiungendo che si tratta di «un’indagine sperimentale ed unica che farà scuola». Convinti della bontà del loro operato, gli inquirenti arrivano ad affermare che questa indagine «è stata esportata all’estero ed è oggetto di studio in altri ordinamenti ed in altri Stati». I carabinieri vengono poi premiati dalla scala gerarchica e i giornali dedicano pagine e pagine all’inchiesta. Anche la trasmissione Report di Rai tre si occupa dell’inchiesta. In primo grado vengono tutti condannati. Le sorprese iniziano in appello. La prima ad andare davanti ai giudici di Bologna è proprio la professoressa Modena che aveva scelto di essere processata con rito abbreviato. Nel 2018 la Corte d’Appello di Bologna smonta quasi completamente la condanna in primo grado: da quattro anni si passa a otto mesi, per l’unica accusa di falso. Archiviazione per associazione a delinquere e corruzione. Nelle motivazioni si parla di “assenza totale di prove” e possibile “inattendibilità” delle dichiarazioni del principale accusatore della cardiologa, un volontario di una associazione emiliana “Amici del cuore” che con le sue dichiarazioni ai carabinieri aveva dato il via all’inchiesta. La Corte di Cassazione, l’anno dopo, assolve definitivamente la professoressa “perché il fatto non sussiste”, respingendo i ricorsi delle parti civili: regione Emilia-Romagna, Policlinico, Procura generale di Bologna e l’associazione ‘Amici del cuore’. Questa settimana la Corte d’Appello ha definito la posizione degli ex coimputati della professoressa Modena, assolvendoli tutti. Le motivazioni fra novanta giorni. L’ex procuratrice di Modena Lucia Musti, di cui si ricorda un estenuante contenzioso con il Csm con il collega Paolo Giovagnoli per essere nominata a capo della Procura della città emiliana, aveva sempre sottolineato “la bontà del lavoro fatto”. «Tutte le indagini che fanno da apripista- aveva dichiarato – uno scotto comunque lo pagano. La Procura non si rimangia il proprio lavoro: non siamo contro nessuno e facciamo il nostro lavoro in buona fede e con professionalità». «Non voglio vendetta. Voglio i miei pazienti. Sono felice, ma la sconfitta morale rimane. Mi erano serviti anni per creare uno staff che potesse fare diventare un’eccellenza internazionale il reparto di cardiologia di una piccola cittadina. Ora tutto questo non c’è più». Il commento, invece, della professoressa Modena. E Cotticelli? Dopo le dimissioni da commissario straordinario della sanità della regione Calabria e l’annuncio di aver iniziato ad “indagare su se stesso” per capire come abbia potuto dire ai giornalisti di non sapere che doveva redigere il Piano covid regionale, ha fatto perdere le proprie tracce.
Sei mesi di parole inutili: Calabria ultima per le terapie intensive. Rocco Valenti su Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. Quando si spegnerà l’eco dell’imbarazzante intervista televisiva dell’ormai ex commissario per la sanità calabrese Cotticelli, i riflettori torneranno a concentrarsi soprattutto sulla classificazione della regione zona rossa e sulla rabbia popolare che questa decisione ha suscitato. Rabbia comprensibile e di facile interpretazione perché a legger da soli i numeri dei contagi da Covid in Calabria la misura può apparire spropositata. Rabbia legittima per chi è stato costretto a chiudere la propria attività economica (in attesa di un ristoro che in molti casi non sarà sufficiente a ristorare un bel niente, perché sarebbe come voler curare un malato che già era grave con un’aspirina). Se i rossi di rabbia, verosimilmente, rimarranno tali, c’è da chiedersi se quelli rossi di vergogna torneranno – ammesso che rossore abbia provocato questa certificazione del fallimento della politica a ogni livello, a partire dal Governo ma senza risparmiare chi oggi sembra caduto dal pero – ad un colorito normale. Senza soffermarsi più di tanto qui sul caso Cotticelli, del quale il Quotidiano scrive oggi in maniera diffusa in tutte le sue edizioni, non si può non notare che se ad un commissario il Ministero che l’ha nominato e comunque mantenuto in carica assegna un adempimento, non si capisce perché in caso di inadempimento nessuno intervenga per tempo (si legga ministro della Salute, potenti direttori generali del Ministero e giù a catena). Considerato, in particolare, che si sta parlando di compiti legati ad una emergenza sanitaria da pandemia. Insomma, non è propriamente come quando uno studente non fa un tema. Commissario per la sanità calabrese, commissario per l’emergenza nazionale, Ministeri, Governo, Regione (per la parte eventuale di competenza), insomma il solito girone dantesco (dell’Inferno) all’italiana a cui sono ascrivibili inefficienze totali, come nel caso del numero dei posti letto di terapia intensiva. Questa volta non sono chiacchiere, non sono annunci, non sono dirette Facebook né riunioni per programmare interventi delicati sine die. Cento, duecento, trecento, diecimila… No, solo qualche numero di facile lettura e di semplicissima interpretazione, salvo mettere in dubbio i dati dei report dell’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Il report aggiornato a ieri che pubblichiamo qui sopra la dice lunga sul vergognoso fallimento delle strategie anti-Covid (alle terapie intensive vanno poi aggiunti il sistema di tracciamento saltato, i tamponi che addirittura da qualche parte scarseggiano, le Unità territoriali partite a metà e tutto ciò, insomma, che gli scienziati considerano tra l’altro nelle loro previsioni sulla diffusione del contagio). La Calabria non solo è la regione ultima per numero totale di posti letto attivi di terapia intensiva (6.3 ogni centomila abitanti), ma è anche quella che ha avuto il più basso incremento dallo scoppiare dell’emergenza Covid (0.8 posti per centomila abitanti, cioè, una quindicina in tutto). Ma la Calabria è sottoposta a piano di rientro, si dirà. Certo, ma lo sono anche altre regioni. Ma la Calabria, si obietterà, è anche commissariata per risanare i conti… Certo, esattamente come il Molise, dove di posti in terapia intensiva per il Covid ne sono stati attivati 1.3 ogni centomila abitanti e soprattutto, sommati a quelli di cui già quella regione disponeva prima della pandemia, fanno 11.2, quasi il doppio di quelli calabresi. Sei mesi, in Calabria, per attrezzare 15 posti letto. Per arrivare alla seconda ondata con meno della metà dei letti in terapia intensiva considerati come soglia minima di sicurezza (14 ogni centomila abitanti). La rabbia e la vergogna. Quantomeno per decenza, chiunque abbia un ruolo in questa porcheria non osi strumentalizzare la rabbia legittima di chi vede nero nel suo orizzonte lavorativo, di chi ha fatto di tutto per mettersi in regola con le norme di prevenzione del contagio nelle proprie attività, siano essere ristoranti o negozi di scarpe. Non si faccia contagiare da quel rosso comprensibile, e pensi, piuttosto a quell’altro, di rosso, quello della vergogna. Per il resto, le proteste contro il Governo siano piuttosto rivolte, se il destinatario è giusto, per quei 15 posti in più e per quel 6.3 che, vergogna a parte, fa rabbrividire. Altro che ricorsi e slogan di partito dei quali, anche se si voterà speriamo prima possibile per le regionali, ai calabresi non interessano affatto.
CALABRIA SENZA SPERANZA. Emergenza Covid, siamo al punto di massimo tradimento delle istituzioni. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 7 novembre 2020. Possiamo tollerare che il 27 ottobre, sette mesi dopo la prima ondata, il ministro della Salute si ricordi di nominare il generale Cotticelli commissario attuatore per il piano Covid in Calabria e che il medesimo generale non ritenga di dovere neppure leggere la comunicazione che lo riguarda? Non sa che è commissario per la sanità in Calabria e ritiene che il ministero debba fare il lavoro suo. Non sa che è stato nominato commissario attuatore per il piano Covid. Non sa che tocca a lui fare il piano B. Non conosce il numero dei posti letto in terapia intensiva della Regione a lui affidata e chiede assistenza tecnica all’usciere del suo piano. Non sa probabilmente neppure come si chiama. Non abbiamo la minima idea di chi possa avergli dato le stellette di generale. Riteniamo un’offesa al decoro delle istituzioni avere nominato una persona così incompetente alla guida della sanità calabrese. Si chiama Saverio Cotticelli. Non può rimanere nemmeno un secondo di più seduto su quella poltrona perché la sua sola presenza può rappresentare un oltraggio alle donne e agli uomini della Calabria. Rimuoverlo da quella poltrona è obbligatorio ma resta una decisione tardiva che nulla toglie alle responsabilità di chi lo ha nominato e di chi lo ha fino ad oggi mantenuto in questo incarico. Siamo molto oltre la barzelletta di un generale chiamato da uno Stato patrigno a fare un mestiere che non conosce. Siamo al punto massimo di tradimento delle istituzioni quando si decide che alle ruberie della politica locale regionale, ai falsi in bilancio e alle corruttele delle aziende sanitarie, si deve aggiungere un altro stipendio pagato da tutti noi per non fare nulla. Anzi peggio. Per non leggersi neanche le carte che lo riguardano. Per cumulare debiti su debiti. Per aggravare ciò che nessuno riteneva possibile aggravare ancora di più. Possiamo tollerare che il 27 ottobre, sette mesi dopo la prima ondata, il ministero della Salute si ricordi di nominare il generale Cotticelli commissario attuatore per il piano Covid e che il medesimo generale non ritenga di dovere neppure leggere la comunicazione che lo riguarda? Ministro Speranza, erano spariti tutti i manager di settore al momento della nomina di Cotticelli, c’erano disponili solo uomini dell’arma? E, soprattutto, che cosa ha fatto Lei da marzo a ottobre, forse era più urgente leggere le bozze del suo libro che occuparsi dell’emergenza sanitaria calabrese? Commissario Arcuri, possiamo ricordarLe che la Calabria fa parte dell’Italia e che doveva essere la prima delle sue preoccupazioni? Che cosa Le fa ritenere che dobbiamo sopportare ancora il peso della Sua tanto manifesta quanto presuntuosa incapacità? Per quanto vi possa apparire paradossale ci tocca addirittura assistere ad un Presidente facente funzioni della Regione, tale Nino Spirlì, che scopre che la sua Regione è finita in codice rosso, occupa le tv da mattina a sera ma non sa niente di quello che è avvenuto prima di lui e non trova mai un minuto per informarsi che l’attuazione del piano Covid non doveva farlo la Regione ma il commissario Cotticelli. Anche qui siamo alla farsa di una tragedia vera. La tragedia vera è che a ogni cittadino calabrese vanno 15,9 euro per investimenti fissi in sanità e a ogni cittadino emiliano-romagnolo ne vanno 84,4. La tragedia vera è che tutto ciò avviene da undici anni in un luogo nascosto della democrazia italiana che si chiama Conferenza Stato-Regioni dove, con il trucco della spesa storica, esistono cittadini di seria A e cittadini di serie B grazie a una solida alleanza tra la Sinistra Padronale tosco-emiliana e la Destra lombardo-veneta a trazione leghista. Siamo alla tragedia di un misfatto che si ripete nel silenzio complice di tutti senza che un solo presidente della Regione Calabria o di una qualunque delle Regioni del Mezzogiorno abbia ritenuto di sollevare il problema in quella sede o, meglio ancora, davanti alla Corte Costituzionale. Siamo nel caso della Calabria alla tragedia supplementare di uno Stato che subentra alla Regione nella gestione della sanità da oltre dieci anni per una serie di scandali che hanno riguardato le aziende sanitarie locali, ma riesce a fare peggio di chi li ha preceduti. Siamo allo Stato patrigno che non vede, non sente, non parla, e fa male. Molto male. Non ha consapevolezza o non vuole avere consapevolezza che con un finanziamento così ingiustificatamente ridotto non è possibile fare alcuna azione di risanamento e, tanto meno, di riorganizzazione e di sviluppo delle attività sanitarie. Lo Stato è fuori. Non ha la cassa. I soldi sono stati trasferiti alle Regioni e, come questo giornale documenta in assoluta solitudine da mesi e mesi, la ripartizione delle risorse di fatto non appartiene più alla potestà nazionale, ma all’arbitrio negoziale tra i Capetti delle Regioni che si sono autonominati “Capi di stato” e che hanno in mente loro una precisa gerarchia. Per cui gli “Stati” del Centro-Nord lombardo-veneto e dei “granducati” toscano e emiliano-romagnolo, quello piemontese di origine sabauda e la consorella Liguria che contribuiscono insieme al primo e al secondo posto alla realizzazione del deficit sanitario nazionale, sono tutti Stati di serie A, lo staterello calabrese può giocare al massimo la sua partita nei campionati minori. Il finale di questo circolo perverso di un Paese che è diventato terra di nessuno, dove non si sa più chi comanda, dove non si sa chi decide, dove tutto è opinabile, è che una regione come la Calabria dove il tasso di contagio non è per fortuna esploso, deve subire la beffa di finire in codice rosso come regioni infinitamente più foraggiate dallo Stato (Lombardia e Piemonte) che hanno tassi di contagio infinitamente superiori, per la semplice ed esclusiva ragione che non è stata messa nelle condizioni di assicurarsi un livello di protezione ospedaliera adeguato. Il finale di questa maledetta storia italiana che ne fotografa le ragioni profonde della sua crisi strutturale è che un’economia già in ginocchio come quella calabrese viene rasa al suolo non perché c’è una pandemia globale, ma per colpe che non appartengono a questa comunità. Che cosa hanno fatto, mi chiedo, le donne e gli uomini della Calabria per meritarsi un tale trattamento di “riguardo”? Ma vi rendete conto a quali abissi di irresponsabilità ci ha condotto il federalismo incompiuto all’italiana che mette insieme il miope egoismo del Nord e la rassegnazione al degrado del Sud? Lo ripetiamo come un disco incantato ogni giorno, ma se non si mette mano con urgenza immediata alla riforma dello Stato e della sua macchina amministrativa, non abbiamo speranze. Se non si restituisce allo Stato ciò che è dello Stato, se non la smettono i Capetti delle Regioni di muoversi come Capi di Stato ombra, non solo non supereremo la crisi terribile del Covid ma faremo lentamente precipitare il Sud intero nella povertà e il Nord intero in un regime di sudditanza coloniale tedesca e francese come subfornitori di industria e di finanza. Nel frattempo c’è una sola realtà che riguarda i cittadini calabresi. Che hanno visto aumentare, di addizionale in addizionale, le loro tasse per coprire i buchi della sanità. Cioè per non avere nulla. Come dire: “stracornuti e stramazziati”. Questa realtà fa paura.
Caso Calabria, il governo prova a metterci una pezza: ecco il nuovo commissario (positivo al Covid). Il Tempo il 7 novembre 2020. Il governo prova a metterci una pezza sull'incredibile pasticcio della sanità calabra. "In CdM abbiamo appena nominato il nuovo commissario alla sanità in Calabria. È il dott Giuseppe Zuccatelli, persona di grande competenza e capacità operativa. Avrà tutto il sostegno per l’emergenza e oltre, dando pari dignità ai cittadini, recuperando ritardi e diritti perduti", annuncia il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, su Twitter.
Bufera in Calabria, Conte caccia il commissario alla sanità. La nomina segue le dimissioni del commissario Saverio Cotticelli dopo le dichiarazioni rilasciate nel corso di un’intervista tv sulle misure adottate nella Regione per contrastare la seconda ondata di Covid. Durante "Titolo V" su Rai3 il commissario per il rientro del debito sanitario della Calabria ha sostenuto di non essere lui l'incaricato di redigere il piano anti Covidm e di averlo scoperto solo qualche giorno fa dopo una richiesta fatta un paio di mesi prima al ministero.
Cotticelli emblema del fallimento. Così Lollobrigida umilia Conte. Il nuovo commissario ad acta della sanità calabrese, Giuseppe Zuccatelli, vanta una lunga esperienza nel campo del management sanitario. Zuccatelli, 76 anni di Cesena, è stato anche presidente dell’Agenas e ha avuto anche incarichi manageriali in Campania e Abruzzo: è arrivato in Calabria nel dicembre 2019, dopo la nomina del governo alla luce del primo "Decreto Calabria", per guidare l’azienda ospedaliera "Pugliese Ciaccio" e l’azienda ospedaliera universitaria "Mater Domini" di Catanzaro, inoltre per un breve periodo è stato anche commissario straordinario dell’Asp di Cosenza. Adesso, con la nomina odierna in sostituzione del dimissionario Cotticelli, Zuccatelli, ritenuto vicino al ministro Roberto Speranza, guiderà la sanità calabrese con il supporto dei poteri assegnatigli dal nuovo "Decreto Calabria", approvato nei giorni scorsi dal governo Conte, provvedimento che ha ulteriormente rafforzato la figura del commissario della sanità regionale: Zuccatelli infatti potrà indicare i nomi dei commissari straordinari delle aziende sanitarie e ospedaliere, dare direttive al dipartimento Tutela della Salute della Regione, occuparsi degli appalti sopra la soglia comunitaria e redigere il piano Covid. La scorsa settimana Zuccatelli ha reso noto di essere risultato positivo al coronavirus, spiegando all’Agi di "essere assolutamente asintomatico e di stare bene".
Giuseppe Zuccatelli, nuovo commissario anti-Covid in Calabria: "Le mascherine non servono a un cazzo". Conte l'ha appena nominato. Libero Quotidiano l'8 novembre 2020. Un "negazionista rosso" come commissario alla Salute in Calabria. Giuseppe Zuccatelli, nominato da poche ore dal governo al posto di Saverio Cotticelli per gestire l'emergenza coronavirus nella regione, è già nella bufera. Il fatto che da fine ottobre sia in quarantena perché positivo è di fatto un viatico pessimo, ma tutto sommato sfortunato. Il vero guaio sono le sue frasi circolate in rete, in cui rivendicava con orgoglio la propria posizione: "Le mascherine non servono a un cazzo. Conta solo la distanza", assicurava agli interlocutori un po' spiazzati. Per prendere questo cazzo di virus sai cosa devi fare? Devi stare con me, se sono positivo, e baciarmi 15 minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi. Si becca se tu hai una frequentazione in cui le gocce di saliva ti arrivano per 15 o 20 minuti addosso". Una teoria tristemente smentita dai fatti. E la Calabria, che aveva un commissario ignaro del fatto di dover preparare lui un piano anti-Covid, passa dalla padella alla brace.
Un negazionista rosso per la sanità calabrese. Cosa diceva Zuccatelli del Covid: il video clamoroso. Il Tempo l'8 novembre 2020. Un negazionista rosso per la sanità calabrese. Ecco il fenomenale nuovo commissario della sanità calabrese, scelto dal governo Conte su proposta dei ministri Speranza e Gualtieri. È lui, in questo video, Giuseppe Zuccatelli. La mascherina? Non serve a niente, dice, e se lo afferma uno che deve prendere il posto di chi, come Saverio Cotticelli, aveva detto di non sapere di dover fare il piano anti-Covid, stiamo a posto. Nei giorni scorsi aveva anche fatto sapere di essere positivo al test sul coronavirus. Negazionismo di sinistra...
Giorgia Meloni contro Giuseppe Conte: "Zuccatelli commissario in Calabria? Da sempre organico alla sinistra". Libero Quotidiano l'08 novembre 2020. “Tra i suoi grandi meriti quello di essere da sempre organico alla sinistra, fin dai tempi del Pci, e di essere candidato di Leu. Ecco con quali criteri il governo Pd-M5s sceglie a chi affidare la salute dei cittadini”. Giorgia Meloni mette in imbarazzo Giuseppe Conte per la nomina di Giuseppe Zuccatelli in qualità di nuovo commissario alla salute della Regione Calabria. Zuccatelli sostituisce Saverio Cotticelli, che nemmeno sapeva di essere responsabile del piano di emergenza Covid: l’assurda vicenda è emersa solo grazie ad un’inchiesta di RaiTre, l’ormai ex commissario era stato confermato da poco dal governo. La toppa però è stata quasi peggio del buco, dato che Zuccatelli non solo è positivo al Covid ed è in quarantena, ma è pure un personaggio controverso per quel “le mascherine non servono a un cazzo” pronunciato qualche tempo fa in un video. Per la Meloni si tratta di una nomina grave, che dimostra la totale incapacità dell’esecutivo presieduto da Giuseppe Conte.
Speranza difende Zuccatelli: "Un video sbagliato e rubato non cancella un curriculum di trent'anni". su Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. Un video “del tutto inappropriato”, quello del neo commissario calabrese Giuseppe Zuccatelli. Così il ministro della Salute Roberto Speranza intervistato da Lucia Annunziata a Mezz’ora in più su Rai3, che aggiunge: “Ma trent’anni di curriculum non si cancellano per un video sbagliato e rubato”. Speranza sottolinea come Zuccatelli si sia già scusato, spiegando che il video “risale alla prima fase dell’epidemia, quando anche l’Oms affermava che la mascherina fosse necessaria solo per malati e operatori”. «Credo che il messaggio di fondo sia far ripartire la sanità calabrese», sottolinea Speranza. «La questione calabrese è una questione nazionale – ha aggiunto il ministro – l’unica cosa di cui non si è parlato è stato il decreto Calabria approvato lo scorso mercoledì che prova a mettere mano alla necessaria ripartenza della regione, nuovi investimenti, più agibilità per la struttura commissariale e più strumenti. In questi anni si sono accumulati in Calabria un numero di risorse incredibili, 700 milioni non spesi e abbiamo creato le condizioni per spenderli nel modo più veloce possibile».
Il commissario di Conte delira: "Per prendere il Covid devi usare la lingua". Il nuovo commissario alla sanità della Calabria shock: "Ti becchi il virus solo se ficchi la lingua in bocca ad uno per 15 minuti". Michel Dessì, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. “La mascherina non serve a un cazzo!” Parola del nuovo commissario ad acta della sanità in Calabria Giuseppe Zuccatelli, nominato in fretta e furia dal governo per riparare ai danni del dimissionario Saverio Cotticelli, finito nella bufera a seguito di una surreale intervista televisiva. Insomma, di male in peggio. Prima un commissario inadatto, poi un commissario quasi “nagazionista”. Al peggio non c’è mai fine. E la Calabria, anche questa volta dovrà accontentarsi. Del peggio. “Adesso se non c’è la mascherina non si fa assolutamente nulla.” Dice il commissario fresco di nomina commentando uno degli ultimi DPCM firmati da Conte, che obbliga tutti i cittadini ad indossare sempre e ovunque la mascherina. Anche a casa. Ma lui, l’uomo di fiducia del governo, precisamente di Leu e del ministro Speranza, la pensa diversamente dal premier e da tutto il comitato tecnico scientifico. Anche dal ministro che lo ha voluto. “La mascherina non serve a un cazzo, ve lo devo dire in inglese stretto?” Dice con veemenza ai suoi interlocutori basiti dalle sue parole. Qualcuno cerca di replicare, ma è tutto inutile. E rincara la dose: “Sapete cosa serve? La distanza! Per beccarti il virus, se io fossi positivo, sai cosa devi fare? Devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus!” Ne è convinto il medico mandato da Giuseppe Conte a risanare la sanità calabrese. Sì, lo stesso Conte che non fa altro che ripetere come un mantra: “Indossate la mascherina, indossate la mascherina.” Uno monito ripetuto più e più volte, pubblicizzato anche su tutti i social. Una raccomandazione semplice fatta da tutti i medici. Tutti, tranne lui. Tranne Zuccatelli. Talmente convinto da andare contro tutti e tutto. Anche contro le regole. Anche contro la legge che, la mascherina, la impone. Ma un medico così scettico come può combattere in prima linea il Covid? Come può farlo, soprattutto, in una Regione ad alto rischio come la Calabria? Resta un mistero. Il governo lo ha voluto, ed ora sarà lui ad attuare il piano d’emergenza per contrastare il coronavirus. Un piano che doveva essere fatto già dal precedete commissario, ignaro di tutto. Caduto dalle nubi come dimostrato dalle telecamere di “Titolo Quinto”. Ma Giuseppe Zuccatelli non è il nuovo che avanza, non è l'uomo forte, il salvatore che tutti i calabresi si sarebbero aspettati dopo il terremoto d'inefficienza causato da Cotticelli. Zuccatelli è in Calabria già da dicembre 2019, nominato commissario straordinario dell’azienda ospedaliera Pugliese Ciaccio e dell’azienda universitaria Mater Domini di Catanzaro. Ha diretto anche l’azienda sanitaria provinciale di Cosenza. Seppur per poco tempo. Eppure, la sanità in quegli ospedali non è delle migliori. “Il virus si becca se tu ti becchi le gocce di saliva per venti minuti.” Dice ancora il medico. Parole che ci mettono in imbarazzano. Lo sarà anche la politica? Non è dato sapere. Intanto (ironia della sorte) Zuccatelli si trova in isolamento perché risultato positivo al Covid. La domanda è d’obbligo: con chi avrà “limonato”?
Luca Sablone per ilgiornale.it l'8 novembre 2020. "Adesso se non c’è la mascherina non si fa assolutamente nulla. La mascherina non serve a un cazzo! Per beccarti il virus, se io fossi positivo, sai cosa devi fare? Devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus!". Le parole di Giuseppe Zuccatelli hanno innescato subito una serie di reazioni del mondo della politica. Il video, pubblicato in esclusiva su ilGiornale.it dal giornalista Michel Dessì, sta facendo il giro del web da questa mattina. E pensare che proprio ieri sera Giuseppe Conte, riunendo d'urgenza il Consiglio dei ministri, lo ha nominato come nuovo commissario alla sanità in Calabria in seguito allo scandaloso caso del generale Saverio Cotticelli che ha scoperto in televisione di doversi occupare del piano Covid. Il premier, dopo il servizio andato in onda sulla trasmissione Titolo Quinto, lo ha immediatamente destituito. Ma la sensazione è che questo sia il classico esempio in cui la toppa sia peggio del buco. Infatti il centrodestra è andato subito all'attacco, puntando il dito contro il governo giallorosso per la scelta fatta. A farsi sentire è stato Giorgio Mulé, deputato di Forza Italia: "Dopo il danno la beffa. Il governo Conte colpisce ancora: non bastava lo scempio compiuto dall'ex commissario per la sanità in Calabria, Saverio Cotticelli, scoperto nella sua inefficienza solo per un'inchiesta tv, il nuovo commissario voluto sempre da palazzo Chigi, Giuseppe Zuccatelli, è forse anche peggiore". Il portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato ha sottolineato come il Cdm sia stato capace "di sostituire un incapace con un negazionista". "Fino a che punto vogliono continuare a provocare i cittadini calabresi?", si chiede.
"Conte non ama la Calabria". Su tutte le furie pure Matteo Salvini, che ha additato duramente il presidente del Consiglio e tutto l'esecutivo che a suo giudizio è composto da personaggi "incapaci e pericolosi". Il leader della Lega non tollera che il nuovo commissario sia stato premiato solamente per la militanza a sinistra: "È ufficiale, Conte non vuole bene alla Calabria". Intanto lo stesso Zuccatelli ha provato a difendersi: "Le mie affermazioni errate, estrapolate impropriamente da una conversazione privata, risalgono al primo periodo della diffusione del contagio. L'esperienza di questi mesi, tuttavia, ci ha insegnato che si tratta di un virus per molti versi ancora sconosciuto per evoluzione e modalità di diffusione. Le conoscenze si sono consolidate nel corso dei mesi, in accordo con gli studi scientifici condotti".
Antonello Piroso per la verità l'8 novembre 2020. Brutto risveglio quello di ieri mattina per Giuseppe Conte, il premier con il dpcm incorporato. Quando l'ufficio stampa di Palazzo Chigi gli ha segnalato l'articolo della Verità che accusava il governo in carica - ma anche quello che lo aveva preceduto, accomunati dall'avere lo stesso capo dell'esecutivo: toh, sempre lui, Giuseppi - per il disastro della sanità in Calabria, da cui non poteva chiamarsi fuori dal momento che è esso stesso, attraverso la nomina dei commissari ad acta, a gestirla, Conte ha fatto spallucce: «Un foglio sovranista e fazioso, chi volete che prenderà sul serio una campagna chiaramente propagandistica?» (questa è una ricostruzione di fantasia, ovviamente, ma diciamo che ci può stare). Purtroppo per lui, però, a ruota è diventato gettonatissimo in Rete, con commenti al vetriolo tra cui il più soave era questo: «Chiusi in casa per zona rossa decisa da questa banda di scappati di casa», il video trasmesso la sera prima dal programma di Rai 3 Titolo V, sull'incontro con il commissario straordinario alla sanità calabrese, Saverio Cotticelli. Una sequenza degna di Scherzi a parte. Il «commissario per caso», pover' uomo, davanti alle contestazioni sul mancato varo del piano anti Covid («Ah, dovevo farlo io da giugno?», per poi aggiungere, aggravando la sua situazione, «sarà pronto la settimana prossima»: a novembre inoltrato?), sembrava un pugile suonato, ignorava perfino quanti fossero i posti disponibili in terapia intensiva. A un certo punto nel confronto si inseriva il sub commissario Maria Crocco, che dall'altra stanza lo rimproverava: «La devi finire! Quando fai queste cose (parlare con i giornalisti, per dirne una, nda) devi andare preparato». Fino all'apoteosi finale di questa pochade tragicocomica: a fornire il numero delle terapie intensive, correggendo lo stesso commissario, arrivava un terzo soggetto. Un dottore? Un componente di qualche comitato tecnico scientifico? Macché: l'usciere. No, dico: l'u-s-c-i-e-r-e. Ma non è tutto meraviglioso? A mezzogiorno Conte aveva così un sussulto di dignità istituzionale, e annunciava urbi et orbi che il predetto rappresentante del governo (da lui nominato) sarebbe stato dimissionato senza se e senza ma, alla sua maniera (quindi: adesso, ma non subito): «Il commissario Cotticelli va sostituito con effetto immediato. Anche se il processo di nomina del nuovo commissario prevede un percorso molto articolato, voglio firmare il decreto già nelle prossime ore: i calabresi meritano subito un nuovo commissario pienamente capace di affrontare la complessa e impegnativa sfida della sanità». I calabresi via social, invece, ritenevano di meritare di non essere presi per i fondelli. A loro si affiancava anche chi calabrese non è. Come Marco Bentivogli, ex leader dei metalmeccanici della Cisl, che non può certo essere tacciato di essere filo salviniano o meloniano, il quale l'ha toccata piano: «Troppo facile cacciare, via Twitter, un commissario alla Sanità di cui si è responsabile della nomina. E il governo, ministro della Sanità, Affari regionali apprendono da una trasmissione tv che la Calabria non ha il piano anti Covid?».O come il capitano Ultimo, Sergio De Caprio, il carabiniere che ha catturato Totò Riina, chiamato dal presidente della Calabria, la scomparsa Jole Santelli, a far parte della sua giunta come assessore all'ambiente, che ha scritto, rivolgendosi esplicitamente a Conte, Speranza e al governo tutto: «Di fronte al proprio fallimento una leadership responsabile e concettualmente onesta si fa da parte e cede il posto ad altri. È rispetto per i caduti». I fan di Conte hanno provato a buttare la palla in tribuna, puntando il dito sulle corresponsabilità regionali. Una difesa d'ufficio, l'inutile tentativo di arroccarsi su una Linea Maginot travolta dalla più inoppugnabile delle constatazioni: è da 11 anni, come segnalavamo ieri, che la sanità non è più nelle mani dei calabresi. Che possono essere chiamati a rispondere del pessimo andazzo precedente, di certo non di quello dell'ultimo decennio, che vede esposti i ministri della Salute e i loro governi. Prendendo in esame solo gli ultimi cinque esecutivi, dal 2013 a oggi, vale la pena ricordare che in quelli di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, titolare del dicastero è stata Beatrice Lorenzin, nel Conte uno la penstastellata Giulia Grillo, oggi il «sinistro» Roberto Speranza: tutti accasati in un campo che non può essere di certo definito «sovranista». E, rimanendo a Cotticelli (campano, 69 anni, generale di corpo d'armata dei carabinieri in pensione, commendatore Ordine al merito della Repubblica italiana), va ribadito che è stato nominato dal Conte uno, a maggioranza Lega-M5s, nel dicembre 2018 con un decreto firmato da Conte, dall'allora ministro dell'Economia, Giovanni Tria, e dal ministro Grillo, e appunto riconfermato dal Conte due, con la duplice firma Speranza-Gualtieri. Il mantra dei 5 stelle, si sa, è sempre stato: onestà-onestà-onestà (e nessuno dubita che Cotticelli sia persona perbene), purtroppo a scapito della competenza. Cotticelli si è ritrovato (ex) commissario in Calabria un po' per caso, come del resto si può dire, senza offesa ma anche senza tema di essere smentiti, di Conte a Palazzo Chigi. «Generale dietro la collina/ci sta la notte cruccia e assassina... davanti alla collina, invece, ignoranti e incapaci», hanno concluso gli aspromontani su Facebook, con una citazione metà canzone, metà «sconsolazione», che non necessita di una parola di più.
Antonello Piroso per “la Verità” il 9 novembre 2020. Giuseppe Zuccatelli, chi era costui? Ma forse sarebbe più appropriato dire cos' è: una toppa peggiore del buco. Nominato per sostituire Saverio Cotticelli (il quale -come si sa - ha rimediato una figura di menta colossale a favore di telecamere) come commissario straordinario alla sanità della Regione Calabria, non ha fatto nemmeno in tempo a pronunciare la formula di rito: «Sono onorato dell' incarico ricevuto», che si è ritrovato bombardato da una shitstorm da far impallidire il ricordo delle V2 naziste su Londra durante la seconda guerra mondiale. Infatti nel giro di poche ore si sono apprese le seguenti «perle»:
1. Zuccatelli, che deve fronteggiare l' espandersi del Covid, è un «no mask»: non nega cioè che il virus esista, ma sostiene - come una Sara Cunial qualsiasi, la parlamentare ex M5s, ora gruppo Misto - che le mascherine siano inutili. Anche lui in video, infatti, si lascia andare alle seguenti, dotte considerazioni: «La mascherina non serve a un ca...» e «Per beccarti il virus, se io fossi positivo, tu devi stare con me e baciarmi per 15 minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi». Ovviamente, è arrivata puntuale la rettifica: «Le mie affermazioni errate, estrapolate impropriamente da una conversazione privata, risalgono al primo periodo della diffusione del contagio» (manco per niente: le immagini sono del 27 maggio, a primo lockdown archiviato).
2. Zuccatelli è arrivato in Calabria l' anno scorso - sempre su nomina governativa - per guidare l' Asp di Cosenza (una delle aziende sanitarie più grandi d' Italia, con 1 miliardo di euro di bilancio), e poi le due realtà sanitarie di Catanzaro, l' ospedale Pugliese Ciaccio e la citata azienda ospedaliera universitaria Mater Domini, con risultati a dir poco controversi.
3. Zuccatelli, che deve combattere il coronavirus, in Calabria - per dirne un' altra - «ha depotenziato il reparto di malattie infettive dell' ospedale catanzarese Mater Domini, declassandolo! In tutto il mondo sono state potenziate! Sono perplesso!», ha scritto su Twitter sabato sera Raffaele Bruno, primario cosentino del reparto malattie infettive del San Matteo di Pavia.
4. Zuccatelli nel frattempo il Covid l' ha preso e si trova in isolamento, asintomatico (a lui i più sinceri auguri). I social spietati si sono scatenati: «Con chi avrà fatto lingua in bocca per esserselo beccato?»; «Piuttosto: chi avrà avuto il coraggio di limonare con lui?»; «Per Zuccatelli il virus si becca solo baciandosi con la lingua per 15 minuti, Calabria passa da zona rossa a zona a luci rosse», e via infierendo.
5. Zuccatelli sarà pure un tecnico, ma di sicuro è immerso mani e piedi nel sistema lottizzatorio che è la costante di ogni Repubblica (la prima, la seconda e pure la terza): ex presidente dell' Agenas, Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, ha avuto incarichi da commissario e subcommissario alla sanità in Campania e Abruzzo. Anche (o soprattutto?) in quanto bersaniano storico.
6. Nel 2018 è stato infatti candidato alla Camera con il movimento di sinistra-sinistra Liberi e uguali, nel collegio Emilia Romagna 2, rimediando poco più di 5.000 voti (il collegio è andato a Simona Vietina di Forza Italia).
7. Ma a Cesena, dove sta trascorrendo la quarantena, Zuccatelli è stato prima consigliere comunale pd, per poi formare nel marzo 2017 uno dei primi gruppi consiliari d' Italia di Articolo 1, formazione nata dalla scissione nel Pd con la fuoriuscita di Pier Luigi Bersani, poi confluita appunto in Leu.
8. Zuccatelli era già stato protagonista di uno svarione alla Cotticelli, davanti alle telecamere di Report, ma per sua fortuna la «carica virale» sul piano mediatico non c' era stata. Come se nulla fosse, spiegò al microfono che l' individuazione come centro Covid dell' ospedale calabrese di Castrovillari, all' epoca sguarnito di tutto (per capirci: non c' erano né il reparto, né i medici per curare polmoni e polmoniti), era una fake news, una «classica invenzione della stampa, mai nessuno ha indicato Castrovillari come presidio Covid». Peccato che la delibera in tal senso fosse stata firmata da... lui medesimo, nel pieno del carosello delle multi reggenze!
Si dirà: vabbè, è che sarà mai? La Calabria è solo sfortunata, passando - per investitura del governo centrale - dal lottizzato M5s Cotticelli a quello Leu, Zuccatelli. In realtà, ci sarebbe poi da parlare del caso di Domenico Maria Pallaria: dal 2013 a oggi -passando quindi attraverso giunte regionali di colore opposto - un superdirigente «reggente» del Dipartimento infrastrutture e lavori pubblici, responsabile unico del procedimento per la realizzazione dei nuovi ospedali di Sibari, Gioia Tauro e Vibo Valentia, cui viene affidato anche, scrive il sito Ilfattodicalabria.it, l' onere di controllare l' emergenza pandemica e requisire attrezzature sanitarie. E lui, serafico: «Non mi sono mai occupato di sanità e di apparecchiature. Non so neanche cosa sia un ventilatore polmonare, né dove trovarlo». Povera Calabria. E povera Italia.
Striscia la Notizia, attacco estremo a Roberto Speranza: le "figure di merda multiple" di un ministro da cacciare. Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. In un governo disastroso, in cui Giuseppe Conte è massima espressione del disastro, forse c'è anche chi riesce a fare peggio: Roberto Speranza. Gaffe e scivoloni l'uno dietro l'altro. Tanto che anche Striscia la Notizia cannoneggia contro l'improbabile ministro alla Salute. Lo fa con un tagliente servizio trasmesso nell'edizione del tg satirico in onda su Canale 5 lunedì 9 novembre, in cui vengono ripercorse le ultime due "prodezze", in rigoroso ordine cronologico, in cui è incappato Speranza. Spiega Striscia: "Tra il libro Perché guariremo, recentemente ritirato dal mercato, e lo scandalo del commissario della Sanità in Calabria Cotticelli, sostituito da un altrettanto discusso Zuccatelli, per il ministro della Salute Roberto Speranza non è certo un bel momento - premettono -. Anzi, come direbbe Emilio Fede, quelle accumulate dal ministro sarebbero delle figure di merda multiple", concludono da Striscia. Il messaggio è chiarissimo: Speranza farebbe meglio a farsi da parte.
Bruno Vespa a Quarta Repubblica: "Ho ripensato a Mussolini e a piazza Venezia piena". Il paragone col Covid: lo insultano in diretta. Libero Quotidiano il 10 novembre 2020. "Questo virus è un dittatore cruento", Bruno Vespa lascia per una sera Porta a porta e Raiuno per un "blitz" a Mediaset, ospite di Nicola Porro a Quarta repubblica. Si parla anche di coronavirus, seconda ondata, Dpcm e zone rosse, e Vespa espone una teoria suggestiva che sorprende i presenti in studio e molti telespettatori a casa: "Sono andato a Piazza Venezia alla fine del lockdown ed era deserta e ho ripensato a quando c'era il Duce e la piazza era gremita, quindi anche il virus è un dittatore, uno la riempie la piazza e l'altro la svuota". Un paragone spiazzante, quello tra Covid e Benito Mussolini, che trova anche qualche contestazione un po' troppo "vivace" sui social. E c'è come sempre chi passa direttamente agli insulti.
Zuccatelli nella bufera. Meloni: «È stato nominato solo perché è da sempre organico alla sinistra». Redazione domenica 8 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Meloni su Zuccatelli polverizza Conte. La scelta del premier ha solo motivazioni politiche. O meglio, di appartenenza politica. Agli schieramenti di sinistra e, in particolare, alla conventicola di Leu in cui rientra, guarda caso, il ministro della Salute Speranza. L’avvicendamento in Calabria al ruolo di commissario alla Salute scatena la bufera. E conferma il detto secondo cui, spesso, la toppa è peggio del buco. Del resto, come altro valutare se non cercando di contenere stupore e indignazione nel tentativo di trovare una valida ragione alla scelta, la decisione di Conte di nominare per la sanità regionale un uomo, non solo positivo al Covid e attualmente in quarantena. Ma anche un sostituto chiamato ad affrontare l’emergenza epidemiologica a dir poco controverso. E che, come rilevato dai più ancora in queste ore, appena poco tempo fa, in un video sostenne apertamente che: «Le mascherine non servono a un cazzo». Tanto per far capire come il discusso personaggio, ora nobilitato dalla carica insignita dal premier, la pensava su rischi sanitari e disposizioni governative nel merito… Tutto questo per Giorgia Meloni è semplicemente inaccettabile. E la leader di Fratelli d’Italia non manca di argomentare perché sui suoi profili social…Tutto questo per Giorgia Meloni è semplicemente inaccettabile. E la leader di Fratelli d’Italia non manca di argomentare perché sui suoi profili social. «Questo signore è Giuseppe Zuccatelli, il nuovo commissario alla Salute della Regione Calabria nominato dal governo Conte – scrive la presidente di Fdi su Facebook – in sostituzione del precedente commissario (sempre nominato da Conte) che nemmeno sapeva di essere responsabile dell’emergenza anti-Covid. Tra i grandi meriti di Zuccatelli quello di essere da sempre organico alla sinistra. Fin dai tempi del Pci. E di essere stato candidato di Leu (partito del ministro della Salute). Ecco con quali criteri il governo Pd-M5S sceglie a chi affidare la salute dei cittadini». Un post, quello in cui la Meloni su Zuccatelli annichilisce Conte, in cui la leader di FdI mette in evidenza e alla berlina l’ultima, controversa scelta varata dal premier. Una decisione che, al danno dell’urgenza, ha unito e amplificato, il carico della beffa e del caos che la contestata soluzione ha aggiunto al problema. E non è solo la presidente di FdI a rimarcare danno e beffa della scelta operata da Conte con Zuccatelli. Anche il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha di che recriminare. E infatti, sulla vexata quaestio, dichiara: «Prima un commissario alla Sanità (Cotticelli) che non sapeva di doversi occupare di emergenza Covid. Ora un sostituto (Zuccatelli) premiato per la militanza a sinistra. E che diceva: “Se fossi positivo devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus!”». Concludendo poi lapidario che: quello in carica è un «governo di incapaci e pericolosi. È ufficiale: Conte non vuole bene alla Calabria»…Stesse argomentazioni, stessa indignazione, quella manifestata dal senatore azzurro Maurizio Gasparri sulla scelta di Zuccatelli commissario alla salute in Calabria. Una decisione che anche l’esponente forzista, come Meloni e Salvini, legge solo in chiave di una palese appartenenza politica a sinistra. «E poi dicono che dovremmo collaborare con il governo. Dopo aver tenuto in Calabria un commissario alla Sanità scelto dal governo Conte, assolutamente incapace e costretto alle dimissioni dopo una figuraccia, Speranza ha scelto un suo compagno di partito per guidare la sanità in Calabria», commenta Gasparri. Quindi prosegue: «Si tratta di un tale Zuccatelli, già candidato nel collegio di Cesena al Senato per Liberi e uguali, il movimento politico a cui appartiene Speranza. Quindi non si sceglie una persona competente e super partes, ma uno del proprio partito, che avrebbe detto cose sostanzialmente negazioniste sull’uso delle mascherine, con delle affermazioni sconcertanti sul virus. Questo è il modo con cui si governa il territorio da parte del governo Conte e del ministro Speranza. Questa è la gente che chiede collaborazione e che usa cariche importanti soltanto per scelte politiche. Denuncio pubblicamente questa vicenda – conclude quindi il senatore di Forza Italia – e chiedo al Presidente della Repubblica di intervenire a tutela della Regione Calabria».
Luca Sablone per ilgiornale.it l'8 novembre 2020. A Roberto Speranza tocca scendere in campo e mettere la propria faccia per difendere le frasi shock pronunciate da Giuseppe Zuccatelli, che nelle scorse ore è stato promosso dal governo come nuovo commissario alla sanità in Calabria. La nomina è arrivata in seguito allo scandalo che ha coinvolto il generale Saverio Cotticelli, il quale ha scoperto in televisione di doversi occupare del piano Covid. Il premier Giuseppe Conte ha deciso di destituirlo immediatamente dopo il servizio andato in onda sulla trasmissione Titolo Quinto. Peccato però che il successore non possa vantare di meglio. Da questa mattina sta girando il video, pubblicato in esclusiva su ilGiornale.it, che immortala il neocommisario mentre sostiene teorie piuttosto strampalate. "Adesso se non c’è la mascherina non si fa assolutamente nulla. La mascherina non serve a un cazzo! Per beccarti il virus, se io fossi positivo, sai cosa devi fare? Devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus!", dichiarava a gran voce. Il centrodestra è andato su tutte le furie e ha chiesto provvedimenti nei suoi confronti, ma il ministro della Salute ha minimizzato tutto sottolineando che la ripresa risale alla fase iniziale della pandemia, quando la stessa Organizzazione mondiale della sanità riteneva che l'uso delle mascherine fosse da riservare ai soli contagiati e ai sanitari: "Quel video è profondamente inopportuno, è un modo sbagliato di comunicare, ma 30 anni di curriculum non si possono cancellare per un video sbagliato e rubato. Il commissario si è scusato e ha indicato come la mascherina sia qualcosa di decisivo". Non ci si poteva aspettare altro visto che Zuccatelli sarebbe stato già candidato nel collegio di Cesena al Senato per Liberi e uguali, il movimento politico a cui appartiene il titolare della Salute. Neanche all'interno della maggioranza riescono a mettersi d'accordo. Dopo la diffusione del video è intervenuto a sorpresa Nicola Fratoianni. "Capisco tutto, l’urgenza, l’emergenza, la fretta e tutto il resto per trovare un nuovo commissario alla sanità della Calabria", ha esordito. Ma il portavoce di Sinistra italiana ed esponente di Leu ha voluto aggiungere che si tratta di un fatto gravissimo e in quanto tale pretende immediate conseguenze: "Così non si può fare. Si intervenga subito".
"Dati falsi? Reato grave" In questi giorni sta facendo molto discutere l'azione dell'esecutivo giallorosso che, stando all'accusa dei governatori, avrebbe deciso di dividere il nostro Paese in tre fasce di rischio tenendo in considerazione dati vecchi, non aggiornati e dunque non corrispondenti all'attuale quadro epidemiologico. Il sospetto è che qualche presidente di Regione possa fornire dati parziali sulla situazione Coronavirus per non subire restrizioni. "Nel rapporto tra istituzioni sarebbe un reato molto grave dare dei dati falsi. Penso che le Regioni debbano necessariamente dare dei dati corretti. I nostri dati sono pubblici. Sono perché siano pubblici sempre, la trasparenza è un punto di forza", ha avvertito Speranza. Nell'intervista rilasciata a In mezz'ora in piu su Rai 3, il ministro della Salute - probabilmente imbarazzato da quanto accaduto - ha aggirato subito la domanda sulla questione Zuccatelli. Lo ha fatto parlando del decreto Calabria che, in teoria, dovrebbe fornire nuovi investimenti e potenziare la struttura commissariale: "In questi anni si sono accumulati oltre 700 milioni non spesi e con questo decreto costruiamo le condizioni per spenderle più velocemente possibile". Ha dunque approfittato dello spazio in tv per fare il classico spot al governo: "Vorrei che il messaggio fosse questo, ovvero una nuova presa in carico della questione della sanità calabrese come nazionale e non territoriale".
Calabria come Kabul. E c’è chi invoca Gino Strada commissario alla Sanità. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'11 novembre 2020. Dopo le dimissioni del commissario alla sanità Cotticelli, finisce nella bufera anche il suo successore Zuccatelli. E Morra (M5S) spera di portare in Calabria il fondatore di Emergency. La Calabria come un teatro di guerra. Deve pensarla un po’ così chi, in queste ore, invoca il nome di Gino Strada, il fondatore di Emergency, come nuovo commissario alla Sanità calabrese. Il nome del chirurgo milanese, inizialmente sussurrato a bassa voce da pochi estimatori, comincia infatti a farsi largo tra le forze politiche di maggioranza. Strada piace alla base del Movimento 5 Stelle come a una parte del Pd e sarebbe, secondo i sostenitori della soluzione “emergenziale”, la migliore via d’uscita a una situazione imbarazzante. Dopo le dimissioni del commissario Saverio Cotticelli – che aveva appreso durante un’intervista televisiva di essere il responsabile del piano anti Covid della Regione – non è andata meglio col suo successore: Giuseppe Zuccatelli, manager molto stimato dal ministro Roberto Speranza, candidato tra le file di Leu alle scorse Politiche. A poche ore dalla nomina a commissario salta infatti fuori un video in cui Zuccatelli mette in discussione l’utilità delle mascherine nel contenimento della diffusione virale. Il filmato risale al maggio scorso e a nulla servono le scuse del diretto interessato, che parla di «affermazioni errate, estrapolate impropriamente da una conversazione privata». Per una parte della maggioranza la nomina di Zuccatelli è «un’inaccettabile beffa per i cittadini». I primi a prendere le distanze dal nuovo commissario sono i parlamentari grillini calabresi. «Dopo le dimissioni del generale Cotticelli non possiamo permetterci un’altra figura inadeguata a sovrintendere alla sanità calabrese», scrivono in un documento diffuso sui social una decina tra deputati, senatori ed europarlamentari. «È fondamentale avere la certezza che la Calabria sia messa questa volta in buone mani», aggiungono. Ma è l’intervento di una componente del governo, la sottosegretaria ai Beni culturali Anna Laura Orrico – che parla di una nomina non «all’altezza delle aspettative» – a mandare in tilt i big del M5S, convinti che il fuoco amico su Zuccatelli possa comportare ripercussioni sull’intera maggioranza. I pentastellati calabresi, però, non sono gli unici a chiedere la rimozione del neo commissario. Anche Nicola Fratoianni, membro di Leu, in quota Sinistra italiana, definisce quella di Zuccatelli «una scelta discutibile e sbagliata». E mentre persino la Cei calabra manifesta «forte preoccupazione e profonda amarezza di fronte all’evoluzione delle vicende che riguardano la sanità e la tutela del diritto alla salute in Calabria», ecco farsi largo l’ipotesi Gino Strada. Inizialmente invocata dalle Sardine, ora la figura del fondatore di Emergency è acclamata anche da una parte della politica. Il primo a nominarlo è il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra. L’esponente di spicco del Movimento non si spinge fino parlare di Strada come nuovo commissario, ma riferisce di un «dialogo in corso» nel governo per inserire il chirurgo in una sorta di squadra alla Sanità calabrese. «Bisogna fare un salto di qualità facendo scendere in campo una personalità che è, a livello forse mondiale, considerata capace di mettere mano nella sanità, portando immediatamente servizi, prestazioni e soprattutto diritti per i più deboli», dice Morra. «E allora, lavorando in silenzio, senza far polemiche inutili si possono ottenere dei risultati, ci stiamo forse riuscendo», aggiunge il presidente dell’Antimafia, prima di annunciare: «Spero che nel giro di 24 ore al massimo si possa dar ufficialità di una notizia che sarebbe enorme non soltanto per la Calabria ma per l’Italia tutta». Morra è convinto che per la punta meridionale del Paese serva una vera e propria «rivoluzione». E a quanto pare lo pensa anche il Pd locale. «Il ministro Speranza non può restare sordo, far credere a questa terra che dei malati di Covid in attesa davanti al Ps di Cosenza al governo non importi nulla», scrive su Facebook il coordinatore provinciale dei Forum Pd di Cosenza, Giuseppe Giudiceandrea. «Si metta mano, urgentemente, a questo scempio, ascoltando chi da più parti propone la nomina di persone “realmente terze” come Gino Strada». Non può che accogliere con soddisfazione la notizia Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, di cui il medico di Emergency è cittadino onorario, che ha sentito Strada al telefono. «Sarebbe il nome giusto al momento giusto, una luce in mezzo alle ombre di poteri forti e perversi», racconta Lucano. Credo accetti questo ruolo in un momento emergenziale per la Calabria assimilabile agli scenari dove ha combattuto in prima linea in tutto il mondo». La sanità calabra, a quanto pare, è proprio in “emergenza”.
Calabria, su Zuccatelli va in onda lo scontro tra Speranza e Conte (che vuole Gino Strada…). Claudia Fusani su Il Riformista l'11 Novembre 2020. Uno è convinto di essere “vittima di un attacco mediatico” una sorta di complotto che ha agito al segnale convenuto e ipnotico della luce rossa della telecamera in funzione. È un generale dell’Arma, si chiama Saverio Cotticelli, due anni fa è stato nominato commissario ad acta per la sanità calabrese – l’allora ministra del governo giallo-verde Giulia Grillo ebbe quasi una crisi di nervi in aula per difendere quella nomina – ma venerdì sera, intervistato a “Titolo V” su Rai 3, non ha saputo dire chi dovesse dare seguito al piano della sanità calabrese contro il Covid. L’altro, quello che ne ha preso il posto, ha dichiarato che il Covid si trasmette «dopo un bacio lungo almeno quindici minuti» e che le mascherine servono fino ad un certo punto. Effetto ebrezza: era maggio, l’Italia era uscita di casa e non aveva assolutamente voglia di sentir parlare di restrizioni e simili. Ma non è tanto una frase dal sen fuggita che adombra l’adeguatezza del commissario in una regione “rossa” – per il Covid – come la Calabria, a rischio non tanto per i contagi quanto per l’inefficienza delle strutture sanitarie. Il fatto è che Giuseppe Zuccatelli, 76 anni, esperienze manageriali nella Sanità in Campania e Abruzzo dove non ha disegnato tagli e razionalizzazioni, arrivato in Calabria nel dicembre del 2019 dove guida l’azienda ospedaliera “Pugliese Ciaccio” e il “Mater Domini” di Catanzaro, è un “uomo di Pierluigi Bersani”. E su di lui scommette il partito dell’ex ministro per portare a casa la guida della regione quando tornerà a votare. Accadrà tra febbraio e aprile quando la regione dovrà sostituire l’amata governatrice Jole Santelli. Quello che puzza quindi non è il bacio e la mascherina. Ma l’uso del Covid in chiave politica. Il capitolo dei commissari alla Sanità calabresi è stato solo uno dei tanti che abbiamo potuto “leggere” nell’ultimo week end al tempo del Covid. Se per la prima volta dopo un mese siamo stati esentati da contare i petali Dpcm Sì – Dpcm No, la cronaca ha però servito sul piatto numerose altre variabili. Il premier Conte ha silurato in diretta il commissario Cotticelli. Nicola Fratoianni, stesso partito di Speranza, ha attaccato il ministro della Sanità perché «quando è troppo è troppo». Walter Ricciardi, consigliere particolare del ministro della Salute, ha accusato il governo «di non aver la forza e la determinazione per decidere», dopodiché uno si aspetta che o il consigliere o il ministro levino il disturbo. Sono invece entrambi al loro posto. I media hanno innescato la consueta gara all’inasprimento delle misure scommettendo su lockdown più o meno nazionali. Più Conte dice di voler “resistere”, più i media pronosticano nuove chiusure. Più il premier dice «adesso aspettiamo che le nuove misure facciano effetto» e alla prima contabilità utile, quella delle 17 in genere, sale il coro: «Serve subito una nuova ordinanza o un nuovo Dpcm». È successo anche ieri: da venerdì scorso ci sono cinque regioni rosse (Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta, Trentino, Calabria); da oggi ce ne sono sette arancioni (Liguria, Toscana, Umbria, Marche Abruzzo, Puglia e Sicilia). Le altre sono ancora gialle ma i governatori di Emilia Romagna, Veneto e Friuli stanno valutando di anticipare alcune misure per vedere di evitare ondate più dure in termini di contagi e decessi. La Campania resta ancora gialla. Il governatore ha il potere di chiudere Napoli e Caserta, i due cluster. Gli scommettitori sono già al lavoro: “Nuovo Dpcm nel fine settimana”. E vai con gli scongiuri. Il caso Calabria è senza dubbio il fatto più politico. Dove è lampante che nella gestione Covid pesano non due ma tre variabili: salute, economia e il consenso politico. Il punto è se arriva il momento in cui tutto quello che tocchi da consenso positivo diventa negativo. Ed è un po’ quello che sta accadendo alla maggioranza. Rimuovere Cotticelli è stato una necessità. Sostituirlo con Zuccatelli rischia di essere un boomerang. Sono partite campagne social per chiederne la rimozione. Nel frattempo il premier, suggerito dai 5 Stelle, ha contattato Gino Strada. Conte vedrebbe bene in Calabria il fondatore di Emergency. Ha tenuto testa ai Talebani e bande di tagliatori di teste di ogni tipo. Può ben farlo con l’’ndrangheta. Ma il ministro tiene duro. Ha assunto su di sé la responsabilità della nomina. E con poteri mai visti prima. Per risanare la sanità calabrese, il governo ha messo a disposizione di Zuccatelli una nuova struttura composta da 20 dirigenti e 5 amministrativi, un patrimonio di tre milioni di euro dove devono entrare appalti, assunzioni, nuove strutture, il famoso piano Covid. Gino Strada, se accetta, potrebbe avere un ruolo di consulente. Il Commissario del commissario? Oppure lavorare insieme al governo? Il braccio di ferro Conte-Speranza è più intenso del previsto. Il ministro ha dato a Zuccatelli una delega molto ampia, fiducia totale, azzardo calcolato. Se dovesse andare bene, come poi tutti si augurano per la salute dei calabresi, è chiaro che il neo commissario ha buone chance per essere il candidato del centrosinistra alla guida della regione. E, a quel punto, lasciare il posto a Strada. Politica, appunto.
“Non abbiamo bisogno di missionari”. Il presidente calabrese non vuole Gino Strada. Il Dubbio l'11 novembre 2020. Nino Spirlì contro l’ipotesi del medico di Emergency come commissario alla sanità. Ma in Calabria è emergenza posti letto e terapie intensive. “Cosa c’entra Gino Strada? La Calabria è una regione dell’Italia, non abbiamo bisogno di missionari. Abbiamo fior di professori, si cerchi qui chi deve occuparsi della sanità calabrese, non abbiamo bisogno di essere schiavizzati”. Così Nino Spirlì, presidente facente funzioni della Regione Calabria, ospite di Tagadà su La7, ha risposto a una domanda sull’ipotesi del coinvolgimento di Gino Strada, il fondatore di Emergency, nella struttura commissariale della sanità calabrese. “Basta, è una vergogna alla quale il governo deve mettere fine – ha aggiunto Spirlì – non abbiamo bisogno di geni che vengono dalle altre parti del mondo. Men che meno del professore Strada”. Ma forse Spirlì ignora la situazione gravissima della sanità calabrese che ancora non ha pronto un piano anticovid. Una situazione emersa dopo l’intervista dell’ex commissario Cotticelli il quale ignorava che dovesse essere lui ad allestire il piano. Per fare fronte alla situazione, il presidente ff della Regione Nino Spirlì ha firmato un’ordinanza che prevede la conversione di posti letto di area medica in posti letto Covid-19. Un’ordinanza, tuttavia, definita “illegittima solo un atto di propaganda politica” dal gruppo del Pd alla Regione. Spirlì, secondo gli esponenti dem, “dovrebbe giustificarsi con i calabresi perché non ha dato attuazione al decreto 91: adesso sarebbero già possibili nuove Terapie intensive e ricoveri in degenza ordinaria dedicati Covid”. La carenza di posti letto è confermata dall’ospedale di Cosenza, visitato stamani dal sindaco Mario Occhiuto. “Si tratta di una situazione d’emergenza – ha detto – che riguarda tutto il Paese ma al momento i posti in terapia intensiva ci sono e potrebbero essere ampliati in altri reparti. Ho deciso di emanare un’ordinanza per imporre all’Azienda ospedaliera di assumere personale”. E sempre a Cosenza un gruppo di mamme sono scese in piazza davanti al Comune per chiedere la chiusura di tutte le scuole ancora aperte in città.
"Dobbiamo scavare pozzi?" Così Spirlì asfalta Gino Strada. Il presidente facente funzione della Calabria contro la possibile nomina del fondatore di Emergency: "Non abbiamo bisogno di medici missionari africani". Luca Sablone, Giovedì 12/11/2020 su Il Giornale. Pare che il governo faccia sul serio e voglia puntare su Gino Strada per affidargli la gestione sanitaria in Calabria. Il profilo del fondatore di Emergency è spuntato in seguito al video choc - pubblicato in esclusiva da ilGiornale.it - in cui si sentiva il neocommissario Zuccatelli sostenere teorie strampalate sul Coronavirus. "La mascherina non serve a un cazzo! Per beccarti il virus, se io fossi positivo, sai cosa devi fare? Devi stare con me e baciarmi per quindici minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus!", aveva dichiarato. E pensare che la fiducia al manager sanitario - tra l'altro già candidato nel collegio di Cesena al Senato per Liberi e uguali - era stata conferita in seguito alla clamorosa figuraccia del generale Saverio Cotticelli, che solamente in televisione ha scoperto di doversi occupare del piano Covid. Così i giallorossi, imbarazzati per quanto accaduto nel giro di pochissimi giorni, si sono messi subito al lavoro per rimediare a questi flop e vorrebbero affidare all'attivista italiano non solo la gestione del piano sanitario nella Regione ma anche un ruolo operativo più esteso. Il premier Conte, che l'ha già sentito al telefono, sta dunque per esaudire il sogno di sardine e 5 Stelle: entrambi, con il sostegno anche del Partito democratico, hanno avanzato la proposta di premiare Strada in Calabria. Voci dicono che potrebbe affiancare Zuccatelli, magari organizzando i reparti Covid e gli ospedali da campo per far fronte alla pandemia.
L'ira di Nino Spirlì. Ma come l'avrà presa la politica locale? Stando alle parole di Nino Spirlì l'ipotesi di certo non è gradita a tutti. "Mandateci anche i padri comboniani e diteci dove dobbiamo scavare i pozzi. Ma cosa c’entra Gino Strada? La Calabria è una Regione dell’Italia, non abbiamo bisogno di medici missionari africani, non ne abbiamo necessità. Non abbiamo bisogno di geni che vengono dalle altre parti del mondo, men che meno del professore Strada", ha tuonato il presidente facente funzione della Calabria ai microfoni di Tagadà su La7. Il suo auspicio è che ai "fior di professori" del posto si possano dare i compiti di gestire la sanità calabrese: "Non abbiamo bisogno di essere schiavizzati nella nostra sanità. Ora basta, è una vergogna a cui il governo deve mettere fine". A scagliarsi contro l'ipotesi dell'esecutivo è stata anche Giorgia Meloni, che non ha risparmiato parole dure e ha respinto categoricamente questa possibilità: "Mi pare si facciano scelte molto politicizzate e mi chiedo se sia il tempo delle scelte ideologiche, di mettersi a fare politica su una materia come quella che stiamo trattando".
Da affaritaliani.it il 12 novembre 2020. Mentre l'Italia intera è alle prese con l'emergenza Coronavirus, in una regione la situazione oltre ad essere caotica è addirittura paradossale. In Calabria si susseguono le voci su chi dovrà essere il nuovo commissario alla sanità, dopo l'uscita di scena di Saverio Cotticelli, che non sapeva di doversi occupare del piano di emergenza Covid per la regione. Il governo ha nominato in tutta fretta un sostituto, Giuseppe Zuccatelli, ma anche su questo nome ci sono forti perplessità, dopo il video comparso in rete in cui dichiarava: "Le mascherine non servono a niente, bisogna stare 15 minuti a baciarsi con la lingua per prendere il virus". Da qui anche l'ipotesi di Gino Strada, il fondatore di Emergency. Ma sull'ex commissario Cotticelli - si legge sul Riformista - emerge un retroscena choc. Sarebbe stato per diverso tempo un agente segreto, uno 007. Dopo la mancata nomina a comandante generale dell'Arma, sarebbe stato destinato all'Ufficio centrale ispettivo del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, dal giugno 2015. Una conferma dell'incarico extra Arma - riporta il Riformista - sarebbe arrivata dall'appuntato scelto Vincenzo Romeo, che era suo stretto collaboratore ai tempi del Cocer. Per ora dai Servizi nessun commento in merito alla vicenda.
Stefano Filippi per “la Verità” il 12 novembre 2020. I commissari nominati dal governo per la sanità calabrese sono come i terremoti di assestamento: fanno crollare quel poco che è rimasto in piedi. Ieri è arrivata l' ultima perla di saggezza di Giuseppe Zuccatelli, spedito l'anno scorso nel Tacco d' Italia dal ministro Roberto Speranza, suo compagno di partito, a guidare i due ospedali di Catanzaro. Zuccatelli è un vecchio compagno ferrarese cui piace spararle grosse. Del resto, ci voleva uno così per fare dimenticare Saverio Cotticelli, il generale dei carabinieri che ha appreso durante un' intervista che toccava a lui redigere il piano regionale contro il coronavirus, e poi si è pentito dicendo che qualcuno l' aveva drogato. L' altro giorno un collettivo di femministe di Cosenza aveva mostrato Zuccatelli mentre illustrava dottamente come ci si infetta di Covid. «La mascherina non serve a un cazzo, ve lo dico in inglese stretto», aveva detto davanti alle telecamere il 27 maggio scorso. «Sapete cosa serve? La distanza. Se io fossi positivo, sai cosa devi fare?», aveva domandato alla bella ragazza mora che gli faceva le domande. «Devi stare con me e baciarmi per 15 minuti con la lingua in bocca, altrimenti non te lo becchi il virus». Senza limonare per un quarto d' ora si ha l' immunità garantita: la rivelazione ha rincuorato tutte le terapie intensive d' Italia traboccanti di anziani. Ieri le Cosentine in lotta del collettivo Femin hanno sparato il secondo colpo. Uno spezzone della stessa registrazione ancora inedito in cui Zuccatelli se la prende con i virologi. La scena è la medesima, risale alla fine del maggio scorso: il manager seduto a una scrivania, privo di mascherina, che si agita sulla poltrona, alza la voce e sparge i suoi tesori di sapienza anti contagio. «Che la politica abbia affidato ai virologi il compito di governare il Paese, questa è una cosa che solo in Italia può succedere», protesta gesticolando il nuovo commissario della sanità calabrese parlando con tre rappresentanti del collettivo. «I virologi sono virologi, e sono la coda della coda della coda dell' area medica. Dopo l' Hiv nella fine degli anni Ottanta hanno avuto una visibilità che nessuno gli aveva mai dato». «La coda della coda della coda»: non c' è scampo per i nuovi campioni di ascolto televisivo, le vestali del sapere medico che saltano da un talk show all' altro terrorizzando gli italiani. Ma non c' è scampo nemmeno per il suo amico Speranza, il ministro che ha messo sé stesso e il destino del Paese nelle mani del Comitato tecnico scientifico e ha affidato la divulgazione sul Covid a una squadra di esperti capitanata da Roberto Burioni. Così il superesperto di sanità ha sbugiardato il governo che l' ha incaricato. Zuccatelli ha girato tutta Italia come manager della sanità in quota rossa: tessera del Pci, uomo forte della sanità di Ferrara, poi ispettore sanitario, quindi una lunga discesa verso il Sud in ospedali della Romagna, delle Marche, dell' Abruzzo fino ad approdare in Calabria dalla fine dell' anno scorso. Speranza lo ha nominato commissario dopo Cotticelli mentre Zuccatelli era in quarantena perché positivo al Covid, anche se asintomatico: una bella pena del contrappasso per chi aveva gettato la mascherina al vento. Ora è entrato nella cerchia ristretta degli stregoni del virus, dopo il suo predecessore Cotticelli e Giuseppe Tiani, nominato da un altro big della sinistra, il governatore pugliese Michele Emiliano, a gestire gli appalti regionali della sanità. Tiani è quello che l' altro giorno si è presentato a una videoconferenza davanti alla commissione Affari costituzionali della Camera con un ciondolo al collo che gli consentirebbe di tenere lontano le particelle virali. Tre manager sanitari scelti dai giallorossi, tre disastri. Il generale Cotticelli è stato cacciato, Tiani ha dato le dimissioni da InnovaPuglia, Zuccatelli resiste: è abituato alle apnee lingua in bocca per dei quarti d' ora.
Il caso. Calabria commissariata e il ghigno mediatico che produce i "Cotticelli". Ilario Ammendolia su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Se potessi parlare con il generale Cotticelli vorrei esprimergli tutta la mia umana comprensione. Lo potrei fare perché credo di essere stato l’unico, in Calabria e fuori, ad aver pubblicamente denunciato, già nel gennaio 2019, l’oggettivo “scandalo” costituito dalla nomina d’un ex generale di corpo d’armata a commissario straordinario alla sanità calabrese. I primi segnali di Cotticelli all’atto dell’insediamento confermavano e moltiplicavano tutti i miei dubbi. Oggi, sono certo che il blocco politico-istituzionale (e mediatico) che aggredisce il generale per la brutta figura rimediata durante la trasmissione “Titolo V”, rappresenti il cancro che mangia se stesso. Hanno ridotto la grave questione sanitaria calabrese in un problema di apparente lotta alla ‘ndrangheta e ciò ha portato a pesanti ricadute sulla salute dei calabresi e sulla fragile economia regionale. Anche un bambino avrebbe capito che un generale di corpo d’armata non sarebbe stato la figura adatta a riformare un sistema sanitario che negli anni è stato trasformato in verdi pascoli su cui brucano politici di rango, alti burocrati, cliniche private, “baroni” della sanità, imprenditori e mafiosi. Locali e nazionali. E sembra apparentemente inspiegabile il fatto che le grandi operazioni di polizia che da circa 30 anni si abbattono sistematicamente sulla Calabria abbiano risparmiato il torbido mondo e i grandi privilegi che girano intorno alla sanità calabrese. Neanche dopo l’atroce esecuzione del dottor Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale, ragionevolmente riconducibile al mondo della sanità, la soglia che separa i diritti degli ammalati dai grandi interessi e privilegi è stata oltrepassata. Sembra quasi che i grandi inquisitori abbiano preferito conquistare le luci della ribalta operando su un terreno diverso da quello in cui sono attendati gli oligarchi che dominano sulla Regione. Cotticelli è stato mandato in Calabria a difendere i confini d’una legalità malata. Una legalità impegnata e ingessata sulla difesa d’un ordine che confligge con i diritti costituzionali dei calabresi. E lui già comandante di tutte le unità mobili speciali, dei Ros e con una medaglia d’oro conferitegli per meriti speciali nel campo della sanità (?) si è arroccato in una specie di fortezza dei tartari immaginando di essere circondato da un popolo di ‘ndranghetisti, cannibali e malviventi che, prima o poi, avrebbe tentato l’assalto alla cittadella della legalità. E in questa logica non bisogna sorprendersi se ha considerato il piano anticovid un impaccio burocratico di poca importanza. Un generale che è stato a un passo dal diventare comandante generale dell’Arma, avrà trovato mortificante doversi occupare di posti letto in terapia intensiva o d’un piano per la medicina territoriale. Altri i motivi per cui Cotticelli era stato scelto e mandato sul “fronte” della lotta alla ‘ndrangheta. Più grave ci sembra il fatto che né il ministero della Salute e ancor meno la Regione Calabria si siano accorti di questa sua grave inadempienza (e oggettiva incompetenza). Oggi la Calabria è in zona rossa e paga un prezzo enorme così tanto da spingere i responsabili del disastro a chiedere il “sacrificio” di Cotticelli e la sua esposizione sulla pubblica gogna. Il ghigno crudele con cui il generale viene aggredito sulla stampa (soprattutto calabrese) e in televisione è inversamente proporzionale alla supina e storica complicità e accondiscendenza verso un sistema di potere che non può non produrre “Cotticelli” seriali. De André cantava che non esistono poteri buoni. Sicuramente non ci potranno essere commissari buoni che vengono in Calabria a decidere i destini d’un popolo sottomesso e rassegnato.
Perché la Calabria è zona rossa? Ecco la situazione in alcuni ospedali. Le Iene News il 10 novembre 2020. Nonostante un numero di positivi relativamente basso rispetto a medie più allarmanti, la Calabria è “zona rossa”. La sanità della regione è impreparata ad affrontare la pandemia? Gaetano Pecoraro intervista medici, dirigenti e il consigliere regionale Carlo Guccione per capire cosa è andato storto. Mentre infuria la polemica su vecchio e nuovo commissario alla Salute. “Avessero aperto i posti letto tipo Gioia Tauro e individuato un altro punto nella zona della Locride, la Calabria non sarebbe diventata zona rossa perché avevamo i posti letto. Ma non hanno fatto niente”, dice a Gaetano Pecoraro un medico calabrese Nella regione la rabbia è grande dopo che è diventata “zona rossa” nonostante un numero di contagi da Covid relativamente basso rispetto a medie più allarmanti. Ma perché anche qui è stato deciso un nuovo lockdown? La regione è stata negli ultimi giorni al centro delle polemiche dopo che il commissario alla sanità calabrese, Saverio Cotticelli, ha ammesso di non aver fatto il piano Covid nonostante toccasse a lui occuparsene. Anche il nuovo commissario Giuseppe Zuccatelli, appena nominato per sostituirlo dopo le sue dimissioni per il caso, è finito nel mirino dopo la diffusione di un video che riporta alcune sue dichiarazioni risalenti a maggio. Una su tutte: “Le mascherine non servono a un c….”. “La sanità calabrese è impreparata ad affrontare la pandemia”, dice a Gaetano Pecoraro il consigliere regionale Pd Carlo Guccione. E il problema non riguarderebbe solo i posti in terapia intensiva: “Come è possibile tracciare una provincia che ha 750mila abitanti con un solo laboratorio di virologia, che può processare sì e no 300 tamponi al giorno?”. E questo a fronte di qualche migliaia di richieste al giorno: “Noi siamo a mani nude a contrastare il Covid in Calabria”. “È come se avessero sperato che non succedesse nulla e non hanno fatto assolutamente nulla”, dice Nuccio Azzarà, segretario della Uil di Reggio Calabria. Gaetano Pecoraro intervista anche un medico dell’ospedale di riferimento per i malati di Covid di tutta la provincia di Reggio Calabria. Ci racconta la situazione nella struttura, che la Iena è andata a visitare per capire come stanno le cose. Gaetano Pecoraro è andato anche nell’ospedale di Gioia Tauro, che era stato individuato come centro Covid dopo la prima ondata. È stato quasi tutto ristrutturato ma ora invece di essere operativo e alleggerire la pressione sull’ospedale di Reggio, è chiuso. La Iena va all’ospedale di Reggio, al centro Covid, per capire con i dirigenti l’origine di tutte le criticità che abbiamo visto. Parlando con i medici, sembra che problemi e carenze di questo centro Covid non dipendano dalla loro inefficienza: è vero che i soldi per il potenziamento sanitario sono stati stanziati dal governo, ma la loro versione è che non sono arrivati perché il commissario straordinario nazionale per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, non li avrebbe ancora liberati.
La polemica. La Calabria è alla deriva, periferia d’Italia ormai abbandonata. Gioacchino Criaco su Il Riformista l'11 Novembre 2020. In Calabria sta succedendo qualcosa di pericoloso, devastante: si sta rompendo il patto democratico con lo Stato. Si marcia, di errore in errore, verso il disastro. Un pezzo, grande, di periferia, ormai abbandonato a se stesso. Alla deriva, un distacco che si propagherà a Sud. Non è il piagnisteo solito, il dare la colpa agli altri: è la coscienza di un punto di non ritorno, l’ipogeo raggiunto, superato. La vicenda del commissario Cotticelli e di Zuccatelli, di una Regione costretta in zona rossa non per i numeri degli infettati, ma per la disarmante resa della Sanità, del Governo, della Regione, per il venir meno della ragione fondante dello stare insieme: rinunciare a molte libertà individuali per fondersi in un principio di solidarietà che curi, migliori, sia futuro. Il Governo ha cacciato un commissario alla Sanità per manifesta incapacità di risolvere il problema, lo ha fatto dopo averlo tenuto in carica per due anni e dopo averlo riconfermato, solo tre giorni prima, per altri tre anni. Ha nominato un nuovo commissario che si annuncia pericolosamente vicino, per capacità risolutive, al precedente. Entrambi arrivano dopo un altro commissario del Governo. E tutti incarnano una surroga della democrazia, ormai strumento abituale dello Stato nel rapportarsi con la Calabria. È mancato, e magari arriverà, il commissariamento dei talami, come atto finale, che dettasse i tempi dell’amore ai calabresi. Tutto ciò che significava autonomia locale è finito nelle mani di prefetti, generali e magistrati in pensione, o funzionari del ministero degli interni o comunque in delega di qualche potere centrale. E tutto è accaduto senza che la situazione migliorasse, con una dilatazione dei problemi e non una loro contrazione, o contenimento. La corsa della Calabria è stata un percorso inverso allo sviluppo, alla liberazione. Si togliessero un po’ di orpelli della modernità, si ripiomberebbe in un’epoca lontana, scomparsa dal resto dell’Occidente. Un quadro del genere rappresenta un mosaico da miriadi di tessere, trovare incolpevoli sarebbe arduo. Il fallimento più grande è quello statuale, plastico, evidente nella caduta del sistema sanitario, che ha superato l’affanno del sistema economico, di quello sociale. Il Governo continua a ignorare la situazione reale, magari se la fa raccontare da chi abbia un interesse a falsarla. Sul posto lo Stato è assente, il presidente della Giunta, purtroppo, è morto, al suo posto un facente funzioni che non era nemmeno stato eletto, abilitato alla sola amministrazione ordinaria. La Calabria è orfana di direzione, di punti di riferimento, in uno dei momenti più tragici dell’umanità. Resta a ricordo, e simbolo, dello Stato, un formidabile sistema repressivo, come se la questione calabrese fosse esclusivamente un caso criminale. Resta un nuovo commissario portato dalla Romagna, a significare che in loco non si possano reperire capacità. Resta un rapporto logorato, teso, che presto si romperà.
SPERANZA E ARCURI: VERGOGNATEVI. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 10 novembre 2020. Otto mesi per dare alla Calabria 6, solo 6, nuove postazioni di terapia intensiva. Alla regione più penalizzata negli investimenti fissi in sanità – 15,9 euro pro capite contro gli 84,4 pro capite dell’Emilia-Romagna – che parte nella Pandemia dalla posizione più sfavorevole e dovrebbe quindi avere molto più degli altri. Non ci sono mezze misure: il ministro della Salute e il commissario devono dimettersi per le scelte fatte e per non avere vigilato. 140, 146, 6. In questi tre numeri ci sono sigillate in una bustina per mascherina chirurgica monouso dispositivo medico classe uno, le ragioni algebriche ineliminabili delle dimissioni obbligate del ministro della Salute, Roberto Speranza, e del commissario per l’emergenza sanitaria, Domenico Arcuri. 140 è il numero delle postazioni di terapia intensiva disponibili a marzo in Calabria. 146 è il numero delle postazioni di terapia intensiva disponibili al 14 ottobre. Otto mesi otto per dare alla Calabria 6, dico 6, nuove postazioni di terapia intensiva. Alla regione più penalizzata negli investimenti fissi in sanità – 15,9 euro pro capite contro gli 84,4 pro capite dell’Emilia-Romagna – che parte nella Pandemia dalla posizione più sfavorevole e dovrebbe quindi avere molto più degli altri, chi ha la responsabilità della politica sanitaria e della gestione dell’emergenza dà meno di tutti, anzi non dà niente, perché 6 è niente. Questo 6 della vergogna che rimarrà per sempre ha un nome e cognome. Roberto Speranza. Anzi ne ha due. Perché il secondo nome è quello di Domenico Arcuri e viene prima del ministro. Che avrebbe dovuto vigilare su di lui. Vi rendete conto in che Paese viviamo? Se non ci fosse stato un giornalista televisivo di Titolo V, meritoria trasmissione di Rai3, che intervistava l’ex commissario Cotticelli, il ministro in carica della Salute non si sarebbe accorto che il suo commissario neppure sapeva di essere stato nominato soggetto attuatore del piano Covid e, tanto meno, se ne occupava. Avevano bisogno dell’intervista lui e Arcuri per rendersi conto del misfatto di cui si erano macchiate le loro coscienze. Nel caso di Arcuri siamo poi all’apoteosi dello scandalo. Fa l’ordinanza il 27 ottobre, avete capito bene il 27 ottobre, che vuol dire otto mesi otto con le mani in mano. E chi nomina come soggetto attuatore? Il mitico Cotticelli che apprende di essere stato nominato leggendo la carta che le dà la sua segretaria davanti alle telecamere TV. Quando si capirà che i generali vanno usati anche nel Mezzogiorno per guidare team di legalità non per fare mestieri che non sanno fare avremo fatto un bel passo in avanti. Ma vi rendete conto che l’ineffabile coppia Speranza-Arcuri riesce a superarsi nominando l’amichetto politico di Cesena, Zuccatelli, che ha già fallito a Cosenza e sta fallendo a Catanzaro, come successore del generale per andare a combattere sul campo di guerra di una Pandemia che può diventare un’ecatombe? Il candidato trombato nelle liste di Leu alle politiche del 2018 è il “generale” al quale Speranza e Arcuri vogliono affidare il comando della guerra per salvare vite umane che si preannuncia a dir poco terribile dopo la vergogna di cui loro si sono macchiati rimanendo inerti per otto lunghissimi mesi. Non solo non hanno agito, ma nemmeno si informavano di quello che accadeva e, quando sono messi davanti alle loro imperdonabili responsabilità, che fanno? Chiedono scusa? Chiamano a raccolta i cervelli migliori della Calabria che sono in casa per scrivere una storia nuova? Cercano un manager specializzato e un team di medici di valore? No, assolutamente no, chiamano il loro amichetto politico. Ci sono settecento milioni da spendere prima delle nuove prossime elezioni regionali, mettiamoli in mani politiche sicure, avranno pensato. Ci sono venticinque persone da assumere, avranno pensato, meglio che li scegliamo noi, magari altri amichetti vero? Pensare per un attimo alle postazioni di terapia intensiva che mancano per colpa esclusivamente loro, no? Per carità. Pensare per un attimo che un’economia regionale già in ginocchio rischia di passare dalla povertà alla sotto povertà non perché ha un tasso di contagio del Covid 19 che la obbliga alla zona rossa, ma perché per colpa loro non ha la sufficiente protezione sanitaria mai, vero? Pensare per un attimo che tanta inefficienza fa lo stesso gioco che dodici anni dodici della più inefficiente delle gestioni commissariali ministeriali ha fatto e, cioè, negare una sanità decente alle donne e agli uomini della Calabria, ma che in tempi di Pandemia affossando per sempre l’economia fa anche il gioco della più temibile delle soccorritrici che è la ‘ndrangheta, è forse chiedere troppo? Che ci si macchia, così, della più grave delle responsabilità civili, è davvero così difficile almeno chiederselo? Se si esce dal film surreale della comunicazione con le stellette dei generali e il bacio in bocca di quindici minuti di Zuccatelli si arriva alla dura realtà. Che è quella di una regione che è stata giustamente espropriata dei suoi poteri in materia sanitaria per i debiti accumulati, falsi in bilancio e ruberie varie con tanto di consorterie criminali. Che è quella di una regione che dopo dodici anni dodici di commissariamento ministeriale deve constatare che gli espropriatori possono competere con gli espropriati perlomeno in inefficienza. Che è quella di una regione dove un presidente pro tempore senza i poteri (che sono dei commissari) annuncia di avere predisposto duecento e passa tra letti e nuove postazioni di terapia intensiva. Ritorna anche in Calabria quella frammentazione decisionale da Paese Arlecchino che condanna l’Italia all’ immobilismo in una lite permanente tra l’esecutivo e i venti Capetti regionali che si sentono venti Capi di Stato ombra. Abbiamo avvisato il Presidente Conte: in Calabria la paura e la protesta sociale dilagano in modo contagioso. Uno o due o tre commissari se si ispirano sempre a operazioni di immagine non solo non servono, ma sono controproducenti. Servono atti pubblici che dimostrano di avere capito gli errori commessi e di averne tratto le conseguenze. Servono uomini nuovi per avviare in corsa una stagione di cambiamento all’insegna della concretezza. Altrimenti il cerino della Calabria incendierà il Paese intero. Perché la questione non è regionale ma nazionale.
Io Speranza che me la cavo, terzo grado al ministro. Per il ministero della Salute era tutto ok. Il piano Covid 19 per il potenziamento della rete ospedaliera di emergenza della Regione Calabria era stato portato a termine. Come il ministro anche il commissario Arcuri sapeva, ma nessuno in estate ha vigilato. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. Per il ministero della Salute era tutto ok. Il piano Covid 19 per il potenziamento della rete ospedaliera di emergenza della Regione Calabria era stato portato a termine. Adottato in base all’art.2 del Dl 34 2020 dall’ente locale il 18 luglio scorso. Integrato il 3 luglio con tanto di timbro del dicastero guidato da Roberto Speranza. Il 13 luglio era stato poi inviato al commissario Domenico Arcuri. Anche lui sapeva, era stato messo al corrente. Ma nessuno dei due, nei giorni dell’afa e del solleone, mentre le spiagge iniziavano ad affollarsi, i deejay in discoteca si scaldavano i pollici, si era preso la briga di vigilare, di verificare per capire come stessero realmente le cose in una regione drammaticamente commissariata dalla a alla zeta. Se si stesse attrezzando, se le dotazioni di terapia intensiva si stessero incrementando, i reparti ampliando, se quel signore che aveva dismesso la divisa avesse adottato i piani anti-pandemia o se almeno sapesse di cosa si stava parlando. Quasi che quel motto “fedeli nei secoli” si potesse applicare a scatola chiusa anche all’ex comandante dell’Arma, quel Saverio Cotticelli, commissario straordinario «a sua insaputa», verrebbe da dire, visto il modo in cui ha apertamente ammesso dinanzi alle telecamere di Rai3 di non sapere neanche il numero di terapie intensive disponibili sul suo territorio.
LA BUFERA SULLA CATENA DI COMANDO. LA GRANATO: SI DIMETTANO. Il primo scossone ha fatto cascare dall’albero l’ex commissario dimissionario mostrandone tutta l’approssimazione e l’inadeguatezza. Il secondo minaccia le radici e il tronco, rischia di investire in ordine gerarchico tutta la catena di comando. A partire dal tandem Speranza-Arcuri. Con l’aggravante per il ministro di aver commesso un secondo errore: la scelta del sostituto, Giuseppe Zuccatelli. «Se per Speranza prima di prendere una decisione affrettata è giusto fare una pausa di riflessione – attacca Bianca Granato, senatrice calabrese del M5S – non può dirsi altrettanto per il commissario Arcuri e per Zuccatelli. Dinanzi al ripetersi di omissioni e ritardi non ci sono più giustificazioni che tengano. Dimissioni immediate del primo e dimissioni spontanee del secondo. Per noi calabresi la nomina di Zuccatelli è un affronto. Ci dispiace – riprende la senatrice – che in questo momento sia malato di Covid, per noi resta una scelta inopportuna. Stiamo parlando di un personaggio molto discutibile. Va revocato prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto che cambierà l’assetto dell’ufficio commissariale introducendo un secondo subcommissario».
AL MINISTRO ERA STATA INVIATA UNA NOTA PER FERMARE LA NOMINA. Che si sia trattato di uno scivolone del ministro Speranza è ormai di tutta evidenza. Il suo tentativo di giustificare Zuccatelli («ho guardato solo al suo curriculum, non andrei a vedere il passo falso sulle mascherine…») è apparso goffo. Rischia di coinvolgerlo ancora di più portandoli entrambi a fondo. Nel M5S si è alzato un fuoco di fila. L’obiettivo dei pentastellati era lanciare un S.O.S Al fondatore di Emergency Gino Strada. «Il ministro non può non rispondere di questa nomina – alza il tiro la senatrice Bianca Granato – due giorni prima che lui indicasse il sostituto di Conticelli gli avevamo inviato le nostre osservazioni. Dalla questione dei tamponi all’Asp di Cosenza, alla gestione dei pazienti di Villa Torano. Non può dirci che non sapeva». Persino i vescovi calabresi non avevano gradito la nomina del nuovo commissario. Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, non c’è andato leggero. Zona rossa e avvicendamento dei due improponibili commissari «dimostrano non soltanto la totale inadeguatezza del sistema sanitario regionale, ma la mancanza di senso di responsabilità che la seconda ondata ha definitivamente e inequivocabilmente palesato”. Stiamo parlando di una situazione già collassata. Basti pensare che per 4 anni consecutivi il commissario ad acta Massimo Scura, un ingegnere indagato insieme al suo subcommissario Andrea Urbani – che per 9 anni avrebbe percepito compensi aggiuntivi che non gli spettavano – non è riuscito a presentare i bilanci. Di questo stiamo parlando. Per anni chi ha tenuto in piedi la parte tecnica è stata Maria Crocco, la subcommissaria che nel fuorionda tv rimprovera il povero Cotticelli di non essersi preparato all’intervista, diventando il caso mediatico del momento. Al ministro Speranza, uno dei leader di Articolo 1, ex capogruppo Dem alla Camera, non vengono risparmiate critiche. Ed è già iniziata la caccia al colpevole. Chi ha voluto Zuccatelli, il padre del sistema sanitario emiliano romagnolo? Chi se non il duo Vasco Errani-Pierluigi Bersani, suoi sponsor da sempre, avrebbero caldeggiato la sua nomina? «Giudichiamolo dai risultati», è stata la difesa d’ufficio del ministro. Troppo flebile, però, per arginare la rivolta scoppiata nel Pd, capeggiata a livello locale dal sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà.
IL METODO CASALINO: FUOCO SUI MINISTRI PER SALVARE IL PREMIER. I bersaniani che avrebbero voluto esportare il modello emiliano in Italia e nel mondo si sfilano. Per loro il ministro ha scelto autonomamente e in base al Cv, quello di Zuccatelli «parla da solo», fanno sapere senza esporsi in prima persona. A difendere il ministro pugliese sono in pochi. Tra questi Michele Anzaldi. «Questo governo ancora una volta ha dimostrato tutta a sua inadeguatezza – commenta il deputato di Italia Viva – ma prendersela con Speranza non ha molto senso. È uno dei pochi a coltivare ideali autentici e non può essere diventato all’improvviso il capro espiatorio». «Non vorrei – prosegue Anzaldi – che fosse un effetto del metodo-Rocco Casalino (portavoce del premier Conte, n.d.r.) – quando le cose si mettono male si mandano avanti i ministri. Quando invece c’è da rivendicare qualche raro successo ecco che sì fa bello il presidente del Consiglio. È un metodo che ormai conosciamo bene». Negli ambienti di Articolo 1 si lascia intendere intanto che il video incriminato, quello che inchioda Zuccatelli, sia stato innescato tipo ordigno ad orologeria. Preparato perché esplodesse al momento opportuno, in perfetta sincronia con la nomina. Filmato il 27 maggio scorso, scaricato solo tre giorni fa da Facebook e diffuso sul web da un collettivo femminista di Cosenza. Tutte le attività produttive avevano riaperto i consultori continuavano a rimanere chiusi. Gli operatori sanitari non avevano i dispositivi di protezione individuale per visitare i pazienti e le strutture sanitarie non erano state igienizzate. Il 3 giugno, ovvero 5 giorni dopo, il manager di Cesena che aveva promesso di risolvere in poche ore il problema si dimise dall’incarico. Insomma, sostengono le femministe cosentine, quel video non fu una voce dal sen fuggita, un trappolone riproposto ora per allora per far fuori l’ex commissario, ma fu autorizzato «come possono testimoniare alcuni agenti della Digos presenti all’incontro.» Ma la resa dei conti è solo iniziata.
Sanità in Calabria, le infinite verità. Il ministro D'Incà: «Cotticelli aveva approvato il piano Covid». Saverio Puccio su Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. L’ormai ex commissario Saverio Cotticelli aveva approvato il Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera per l’emergenza COVID-19 in Calabria che era stato successivamente deliberato anche dal ministero della Salute, ma la gestione commissariale aveva comunque evidenziato altre criticità. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, ha fatto chiarezza sulla gestione Cotticelli nel corso del question time alla Camera, confermando alcune tesi espresse dall’ex generale dei carabinieri ed evidenziando alcune difficoltà del sistema commissariale. Il ministro ha sottolineato che il Piano «è stato adottato dalla struttura commissariale» guidata da Saverio Cotticelli, «con decreto del Commissario ad acta n. 9. del 18 giugno 2020. Il piano è stato quindi approvato dal Ministero della salute il 3 luglio 2020 e trasmesso al Commissario straordinario per l’emergenza il successivo 6 luglio». «Il Piano – ha aggiunto – prevede, rispetto alla dotazione iniziale di posti letto di terapia intensiva, un incremento di 134 posti letto, nel rispetto dello standard previsto dal decreto-legge n. 34 del 2020 (0,14 posti letto per 1.000 abitanti)». Nel ripercorrere gli atti relativi alla nomina di Cotticelli, D’Incà ha aggiunto che la «conferma del commissario Cotticelli, ricordo che lo stesso è stato nominato nel dicembre 2018 e confermato, in occasione della sostituzione del relativo sub-commissario, nel luglio 2019». Il ministro ha, quindi, rappresentato le prospettive che derivano dal nuovo “Decreto Calabria”: «Il decreto-legge recante misure urgenti per il rilancio del servizio sanitario della regione Calabria, presentato ieri alla Camera ha come obiettivo principale rialzare in modo adeguato i livelli essenziali di assistenza». Tra le principali finalità del decreto elencate da D’Incà in Aula, anche quella di «prevedere un fondo di solidarietà di 60 milioni di euro per tre anni per ridurre il debito della sanità calabrese». Per il ministro, la «gestione dell’emergenza sanitaria in Calabria è priorità per l’azione del governo, mentre «Quanto all’attività della struttura commissariale, ferma restando la situazione di squilibrio economico e finanziario della regione Calabria, si osserva che il monitoraggio effettuato a maggio 2020 nel competente tavolo tecnico, con riferimento all’ultimo trimestre 2019, ha presentato un disavanzo dopo il conferimento delle coperture pari a 10 milioni di euro e un disavanzo prima del conferimento delle coperture pari a 116,172 milioni di euro. Nel tavolo tecnico di verifica di ottobre 2020 sono emerse criticità derivanti dall’inesigibilità di un credito in seguito a una sentenza della Corte di Cassazione. L’impossibilità di riprodurre questa posta positiva in bilancio, unitamente ad altre poste, ha determinato un disavanzo di circa 104 milioni di euro». Inoltre, per il ministro, l’erogazione dei Lea «numericamente non ha raggiunto la sufficienza». Dati che, secondo l’ex commissario Cotticelli, sarebbero stati falsati dal mancato caricamento dei numeri da parte delle singole Aziende sanitarie (LEGGI LA DIFESA DI COTTICELLI). Un vero e proprio “complotto”, secondo l’ex commissario, che non ha escluso il ricorso alla magistratura con una denuncia rispetto a quanto accaduto.
SUDISMI - Se il centralismo è quello visto in Calabria nasce il dubbio che la cura sia peggiore del male. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 10 novembre 2020. L’episodio del commissariamento della sanità calabra, che risale a 10 anni fa, diminuisce la forza della teoria dell’esigenza di meno federalismo e più centralismo. Molti sono convinti che il Mezzogiorno abbia bisogno di essere in alcuni casi maggiormente guidato dal Governo centrale, con una sostituzione di poteri, nel caso le Regioni non fossero in grado di adempiere alle loro funzioni. Ma, se lo Stato interviene nel modo in cui l’ha fatto in Calabria, allora in tanti nasce il dubbio che la cura sia peggiore del male. La povera Jole Santelli aveva denunciato: “Siamo vittime da anni di un commissariamento governativo che, improntato esclusivamente a logiche meramente ragionieristiche, ha distrutto la sanità calabrese” aveva tuonato. La critica al titolo V della costituzione, che introduce le autonomie regionali e che ha portato alla messa in discussione della catena di comando, che ha visto recentemente scatenare la babele decisionale tra Regioni e Stato e che ha trovato molti consensi, rischia di essere sepolta da una incapacità di azione non tollerabile. È così chiaro che in settori fondamentali del Paese, come la sanità, l’istruzione e l’infrastrutturazione non ci possano essere grandi autonomie, perché si rischia di avere 20 realtà differenti, ed in molti hanno richiesto il cambiamento di tale assetto istituzionale.
CONFLITTO DI POTERE. La clausola di supremazia viene richiesta per evitare che non si sappia, sopratutto nell’emergenza, chi debba intervenire. Probabilmente, essendo il Paese diviso in due parti completante diverse, l’effetto di norme simili potrebbero avere risultati differenti, perché chi è più avvertito potrebbe non subire commissariamenti come avverrebbe invece a chi non riesce a gestire in modo adeguato. Quindi probabilmente il cambiamento richiesto potrebbe essere accettato anche dalle Regioni settentrionali che, ritenendosi più brave, invece chiedono di avere più autonomia. Ovviamente tutto a patto che i diritti di cittadinanza vengano garantiti a tutti e che la spesa pro capite sia uguale in tutti i territori. Ci sarà tempo per mettersi d’accordo di quale spesa pro capite si tratti, considerato che in molti per esempio non vogliono che in tale spesa venga inserita quella delle imprese pubbliche, alcune quotate, che non dovrebbero avere l’obiettivo della redistribuzione ma solo quello di fare utili. Per la spesa previdenziale non dovrebbe essere inserita perché corrispettivo di contributi versati, dimenticando che molta parte riguarda le pensioni calcolate con il metodo retributivo e che quindi gravano sulla fiscalità generale. Ma andiamo con ordine: alcuni anni fa la sanità calabra viene commissariata perché spende troppo e male, non raggiungendo gli obiettivi che dovrebbe perseguire. Come è previsto dalla normativa nazionale, viene nominato dal Conte 1 e confermato dal Conte 2 un commissario che si dimette giorni fa perché non “ricorda” che l’emergenza Covid è di sua competenza. Per cui la Calabria, pur avendo un rapporto di contagiati su popolazione che è il più basso del Paese, 18.44 su 100.000 abitanti, viene inserita, giustamente per l’andamento degli altri 20 indicatori, tra le zone rosse come il Piemonte che invece ha un indice di contagiati su popolazione di 89.16. Si interviene tempestivamente nominando un altro commissario dopo le dimissioni del primo, vicino a Leu e gradito al ministro Speranza. Nulla da ridire se avessero scelto un uomo vicino al partito, ma con competenza manageriale consolidata da un curriculum di eccellenza. Invece scelgono un uomo di Cesena, che scende in Calabria, non in aereo o in treno, ma con la macchina con l’autista, che dimostra tutta la sua protervia ed incapacità in un video semi negazionista, fatto quando l’epidemia era già in uno stadio maturo.
TRE MILIONI DI POSTI. Ed allora se questi sono i criteri di selezione, cioè quello dell’appartenenza, per cui “un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene” allora non c’è centralismo che ci può salvare. Per cui non è l’assetto istituzionale che diventa importante ma il modo in cui si gestisce la cosa pubblica. Il vero cambiamento che serve al Paese è quello di rimettere al centro il merito e la competenza, dopo la notte buia dell’uno vale uno, che tanto danni ha fatto. Se le scelte sono fatte sulla base dell’appartenenza, se la democrazia in una parte è sospesa perché una classe dominante estrattiva ha preso il sopravvento piegando ai propri interessi la democrazia con un gigantesco voto di scambio, favorito dal bisogno estremo di un territorio che avrebbe bisogno di un saldo occupazionale di 3 milioni di posti di lavoro, mentre una parte quella Nord cerca di sottrarre al territorio più risorse possibili, approfittando della maggiore capacità di essere sul pezzo, gestendo nella conferenza delle Regioni a proprio favore la distribuzione delle risorse, allora il nostro Paese non può salvarsi. Il Covid è l’occasione per una riflessione più ampia e per il recupero di competenze e professionalità, sia in termini politici che tecnici. Il dubbio che tutto ciò possa non avvenire però è legittimo.
(ANSA il 10 novembre 2020) - Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha sentito il fondatore di Emergency Gino Strada. Lo confermano fonti di Palazzo Chigi. Il nome di Gino Strada è stato proposto da esponenti del Movimento 5 stelle e dalle Sardine per la sanità in Calabria, dopo il caso emerso attorno alla nomina di Giuseppe Zuccatelli a commissario della sanità regionale.
Ilario Lombardo per lastampa.it il 10 novembre 2020. Calabria, il tutto è successo in 48 ore. Conte II ha mandato a casa un commissario straordinario alla Salute nominato dal Conte I inadatto a completare un piano anti-Covid, ne ha nominato un altro, Giuseppe Zuccatelli, che la sinistra considera un fuoriclasse, ma che invece di infilarsi la mascherina in bocca, a maggio sosteneva che non servisse «a un cazzo». Poi è arrivato il M5S, partito che con la Lega aveva promosso il primo commissario, e ha detto: «Meglio Gino Strada», con un pezzettino di sinistra a ruota e la benedizione dell' ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Conte contro Conte. Maggioranza contro maggioranza. Il premier e il ministro Speranza congelati nell' imbarazzo, sperando che svanisca presto. Tutto in 48 ore. Mentre dopo 15 anni di commissariamento la Calabria ha ancora una Sanità che non è degna di chiamarsi tale.
Da adnkronos.com l'11 novembre 2020. "Cosa c'entra Gino Strada? La Calabria è una regione dell'Italia, non abbiamo bisogno di missionari. Abbiamo fior di professori, si cerchi qui chi deve occuparsi della sanità calabrese, non abbiamo bisogno di essere schiavizzati". Così Nino Spirlì, presidente facente funzioni della Regione Calabria, ospite di Tagadà su La7, ha risposto a una domanda sull'ipotesi del coinvolgimento di Gino Strada, il fondatore di Emergency, nella struttura commissariale della sanità calabrese. "Basta, è una vergogna alla quale il governo deve mettere fine - ha aggiunto Spirlì - non abbiamo bisogno di geni che vengono dalle altre parti del mondo. Men che meno del professore Strada".
(ANSA l'11 novembre 2020) - "Ci sono state interlocuzioni, non con me direttamente". Così Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, a proposito di Gino Strada e le voci di una sua possibile nomina a commissario alla sanità calabrese. Intervenuto poco fa in diretta nel programma di Raiuno "Oggi è un altro giorno", Sileri ha aggiunto: "Giuseppe Zuccatelli ha fatto un passo falso, anzi ha detto una scemenza, ma ha un curriculum valido: lasciamolo lavorare in santa pace. È importante girare pagina. Ognuno di noi oggi è calabrese, ci aspettiamo un netto miglioramento della situazione".
Sanità, Spirlì boccia Gino Strada: «Non abbiamo bisogno di lui, ci sono tanti calabresi». Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. Il nome di Gino Strada, medico e fondatore di Emergency, come componente dell’ufficio del commissario per la sanità calabrese non piace al presidente Nino Spirlì. L’idea era stata avanzata anche dal presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, ma respinta dal governatore facente funzioni: «Ma cosa c’entra Gino Strada. La Calabria è una regione dell’Italia, non abbiamo bisogno di medici missionari africani, non ne abbiamo necessità». Una dura presa di posizione da parte di Spirlì, intervistato a Tagada su La7: «Abbiamo bisogno che in Calabria, dove ci sono fior di professori, si cerchi qui chi si deve occupare della sanità calabrese. Non abbiamo bisogno di essere schiavizzati nella nostra sanità. Ora basta – ha aggiunto – è una vergogna a cui il governo deve mettere fine. Non abbiamo bisogno di geni che vengono dalle altre parti del mondo men che meno del professore Strada».
IL COMMISSARIO CHE NON È STATO. Il caso Calabria dimostra che il Governo non riesce a agire pur avendo tutti i poteri. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. Perché Speranza e Arcuri non hanno vigilato su nulla? Perché soprattutto non fanno niente? Che cosa impedisce loro di chiamare a raccolta l’esercito e il personale medico e di fare loro un ospedale da campo in Calabria? Che cosa impedisce di mandare gli anestesisti e i rianimatori che mancano? Bisogna dimostrare che lo Stato in Italia c’è, che dà i soldi che servono per comprare le terapie intensive e rimborsare le perdite per salvare le aziende. Presidente Conte, bisogna agire subito altrimenti la situazione sfugge di mano. Errare è umano, perseverare è diabolico. Non solo non c’è stata la revoca dell’incarico a Arcuri di commissario per l’emergenza sanitaria ma addirittura si raddoppia con quella per la gestione del trasporto e della logistica dei vaccini. Siamo più vicini all’incoscienza che all’ irresponsabilità perché è sotto gli occhi di tutti che quella struttura commissariale non funziona e nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi complica, non facilita le cose. Abbiamo la netta sensazione che la Presidenza del Consiglio non abbia la piena consapevolezza che oggi la questione sanitaria della Calabria è molto più importante della sua dimensione territoriale perché è il luogo dove si dimostra che il Governo non riesce a agire pur avendo tutti i poteri. Speranza nomina un commissario a nostro avviso sbagliato dopo che chi lo ha preceduto ne aveva nominato uno ancora più inadeguato, ma oggi Speranza e il suo commissario per l’emergenza sanitaria Arcuri potrebbero fare tutto da soli. Invece non hanno visto niente. Non hanno vigilato su nulla. Soprattutto non fanno niente. Che cosa impedisce loro di chiamare a raccolta l’esercito e il personale medico e di fare loro un ospedale da campo in Calabria? È così difficile capire che qui bisogna agire subito e dare segnali concreti altrimenti la situazione sfugge di mano? A volte i problemi si risolvono da soli, Presidente Conte, e la sua indole la spinge a lasciare decantare le situazioni, ma in questo caso i problemi sono destinati a aggravarsi e a esplodere in modo deflagrante in tempi strettissimi. Questo giornale ha sempre difeso la responsabilità nazionale rispetto allo strapotere delle Regioni con i suoi Capetti del Centro-Nord che operano come Capi di Stato ombra e hanno anche il vizio di prelevare alla fonte risorse pubbliche che toccano alle Regioni del Mezzogiorno distorcendo la spesa sociale e infrastrutturale e minando così dalle fondamenta coesione e competitività del Paese. Proprio per questo riteniamo di essere titolati ad avvisarla che se il suo Governo fallisce in Calabria non ha più titolo a ambire a quel ruolo nazionale di guida e di gestione che invece noi valutiamo fondamentale per riunire le due Italie e tornare a dire la nostra tra i Grandi del mondo. Qui, non altrove, il Governo deve dimostrare che se c’è lo Stato la musica cambia. Se in Cina fanno un ospedale da campo in tre settimane che cosa impedisce di farlo anche noi? Che cosa impedisce di mandare in Calabria gli anestesisti e i rianimatori che mancano? Bisogna dimostrare che lo Stato in Italia c’è, è forte e dà i soldi che servono per comprare le terapie intensive e salvare vite umane, ma anche per salvare le aziende altrimenti il danno certo post Pandemia è quello di un deserto industriale. Condivida con l’opposizione e faccia uno scostamento di bilancio, ma per fare cose serie che è poi essenzialmente una. Prendere il fatturato e rimborsare al 50/75% la perdita sul conto corrente dell’impresa che avete chiuso. Si tratta di fare cose semplici non di fantasia alla Gualtieri che è costretto a rifare la manovra smentendo i suoi numeri venti giorni dopo averli raccontati a tutti con un’enfasi fuori dal mondo. Se ne è accorto perfino Crozza che abbiamo conosciuto il primo ministro dell’Economia che racconta barzellette sui numeri della finanza pubblica. Non ne possiamo più di questo Paese Arlecchino così miope e incapace che neppure nei giorni del nuovo ’29 scopre ragioni di solidarietà, ma vuole addirittura riproporre alleanze tra Regioni ricche del Nord-Est, le quali Regioni tutte e, cioè, ricche e povere fanno uno scaricabarile con il Governo avendo come bussola non le vite umane da salvare ma il proprio gradimento. Vogliono sempre che le scelte impopolari le faccia il Governo e quelle popolari invece loro. Se, però, l’alternativa a ciò è un ministro della Salute che sbaglia tutto e non chiede mai scusa o un commissario per l’emergenza che in otto mesi riesce a fare sei, dico sei, nuove terapie intensive mentre ne servirebbero centinaia e che addirittura non si rende conto che il soggetto attuatore neppure sa di dovere attuare qualcosa, allora siamo messi davvero male. Presidente Conte, prima pone fine a questa farsa meglio è anche perché la polveriera calabrese è già esplosa ma ora può deflagrare in un modo incontrollato. Non c’è un solo sindaco della Calabria che non chieda l’azzeramento del debito sanitario calabrese e che non può non notare che prima del commissariamento il buco era di cento milioni, ma che dopo dieci anni è tale e quale con l’aggiunta di altri due miliardi di debiti nuovi. Questo senza considerare che il debito ricevuto in eredità è anche figlio di finanziamenti alla sanità calabrese e, in genere, del Mezzogiorno indebitamente ridotti a favore delle Regioni del Nord. Per fare questa operazione verità servono uomini di governo e di macchina di ben altra tempra. Perché bisogna fare le cose e bisogna evitare che la sanità calabrese ritorni a essere sotto qualsiasi forma la greppia di intessi criminali e massonici. Non lo meritano le donne e gli uomini della Calabria che hanno fame di ospedali e lavoro. Che sono già molto arrabbiati ma lo diventeranno ancora di più se si continuerà con questo andazzo scandaloso. Il ministro degli Esteri Di Maio e vero Capo dei 5Stelle chiede, in un’intervista al nostro giornale che pubblichiamo oggi, che il governo ascolti il Sud perché il Sud non può essere abbandonato. Siamo contenti della sensibilità rispetto al tema che è decisivo per il Paese intero, ma deve essere chiaro a tutti che senza un’autocritica esplicita su una politica assistenziale che ha fallito e senza un cambiamento in corsa della macchina pubblica e degli uomini che la guidano l’ascolto non può produrre nulla di buono. Servono risposte concrete nell’immediato per non essere travolti dalla protesta sociale e, subito dopo, una nuova architettura istituzionale che restituisca allo Stato il ruolo e i poteri che permettono di coniugare strategia e operatività. Serve l’esatto contrario di quello che hanno fatto Speranza e Arcuri in Calabria.
(LaPresse il 16 novembre 2020.) - Al professor Eugenio Gaudio, Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", di origine cosentine, è stato affidato l'incarico di nuovo Commissario alla Sanità della Regione Calabria. Lo si apprende da fonti di palazzo Chigi. Gino Strada ha confermato la disponibilità a far parte della squadra, anche con una delega speciale, che in Calabria sta fronteggiando le criticità dell'attuale emergenza sanitaria. "Due nomi autorevoli che possono aiutare la sanità calabrese a ripartire", continuano le stesse fonti. Calabria, Zuccatelli: Torno a fare il pensionato. "In questo momento sono un pensionato quindi ora torno a leggere le cose che mi piacciono e faccio il pensionato". Lo dice a Rainews24 Giuseppe Zuccatelli, commissario straordinario per la sanità in Calabria che oggi ha rassegnato le sue dimissioni dopo una 'gaffe' sull'uso delle mascherine.
Gaudio commissario alla sanità in Calabria. Strada delega speciale. Notizie.it il 16/11/2020. Eugenio Gaudio è il nuovo commissario alla sanità in Calabria. A Gino Strada è stata affidata la delega speciale. Due nomi autorevoli inizieranno a far fronte all’emergenza sanitaria che sta affrontando la Calabria. Eugenio Gaudio è il nuovo commissario alla sanità. A Gino Strada è stata affidata la delega speciale. Lo si apprende da fonti autorevoli di Palazzo Chigi. Eugenio Gaudio è stato chiamato per ricoprire il ruolo di Commissario alla Sanità. Gino Strada ha confermato la possibilità di far parte della squadra con delega speciale. Si tratta di due nomi di eccellenza che potrebbero risollevare le sorti della Calabria. Gino Strada è noto e tutti associano da decenni il suo nome all’associazione Emergency, ma chi è Eugenio Gaudio? Laureato in Medicina e Chirurgia alla facoltà di Medicina e Chirurgia alla Sapienza di Roma, ha ricoperto per un periodo il ruolo di ricercatore di Anatomia Umana sempre alla Sapienza. Dal 2000 ricopre il ruolo di docente di Anatomia Umana alla Sapienza. Dal 2014 al 2020 è stato il Rettore dell’Università alla Sapienza. Ha curato inoltre diversi libri accademici.
Le parole di Gino Strada. Nella serata di domenica 15 novembre Gino Strada si è espresso a proposito della proposta che il Governo gli ha fatto di potersi impegnare per l’emergenza sanitaria in Calabria. Ha anche tuttavia precisato che nonostante i colloqui con il Governo non gli sarebbe stata ancora avanzata nessuna proposta formale, non mancando tuttavia il supporto alla Calabria dove con Emergency ha lavorato molto. ” Una settimana fa ho ricevuto la richiesta da parte del Governo di impegnarmi in prima persona per l’emergenza sanitaria in Calabria. Ho chiesto alcuni chiarimenti sul mandato e sulle modalità di lavoro, ponendo una condizione fondamentale: non sono disponibile a fare il candidato di facciata né a rappresentare una parte politica, ma metterei a disposizione la mia esperienza solo se ci fossero la volontà e le premesse per un reale cambiamento. Ho sentito qualche commentatore dire che – dopo tanti giorni – dovrei “decidere se accettare o meno l’incarico”. Non sono in questa condizione perché dopo quei primi colloqui non mi è stata fatta alcuna proposta formale. Sia chiaro: non ho nulla da recriminare nei confronti del governo che ha ovviamente facoltà di scegliere il candidato che ritiene più adatto a questo incarico. Non voglio però neanche alimentare l’equivoco di una mia indecisione: da medico, ritengo che in un momento di grave emergenza sanitaria per il nostro Paese, tutti debbano dare una mano e con questo spirito avevo messo a disposizione il lavoro mio e di EMERGENCY che già opera da 15 anni in molte regioni italiane, Calabria inclusa. Nel frastuono delle tante voci di questi giorni, ho avuto anche l’occasione di sentire la fiducia e la voglia di fare di tanti cittadini, calabresi e non, infermieri e medici e rappresentanti delle istituzioni, che ringrazio per il sostegno e per l’apprezzamento che hanno dimostrato per il lavoro mio e di EMERGENCY”.
Eugenio Gaudio indagato. Nel frattempo la nomina di Eugenio Gaudio potrebbe essere a rischio. Il Neocommissario alla sanità in Calabria sarebbe indagato per concorso in turbativa dalla Procura di Catania in un’inchiesta del 2019 sui concorsi truccati all’Università. Stando a quanto riporta il quotidiano Domani Gaudio sarebbe stato indagato e al momento sembrerebbe che si possa procedere con l’archiviazione. Ad oggi la richiesta dovrebbe essere ancora approvata. Sarebbero diversi i professori coinvolti negli atenei di tutta Italia.
Strada, il tandem Gaudio non esiste.
In seguito alla notizia che vedrebbero Gaudio commissario alla sanità in Calabria, Gino Strada è tornato a parlare del tandem che lo vedrebbero insieme a quest’ultimo, dichiarando che si tratta di un’accoppiata che semplicemente non esiste. Per quanto riguarda l’incarico che gli sarebbe stato dato con delega speciale Gino Strada parla chiaro parlando che ancora non sono stati definiti i termini di tale collaborazione con il Governo specificando: “Ribadisco di aver dato al Presidente del Consiglio la mia disponibilità a dare una mano in Calabria, ma dobbiamo ancora definire per che cosa e in quali termini”. Strada ha poi proseguito dichiarando di come questa situazione in divenire lo stia mettendo a disagio: “Sono abituato a comunicare quando faccio le cose – a volte anche dopo averle fatte – quindi mi trovo a disagio in una situazione in cui si parla di qualcosa ancora da definire. Ringrazio il Governo per la fiducia e rinnovo la disponibilità a discutere di un possibile coinvolgimento mio e di EMERGENCY su progetti concreti per l’emergenza sanitaria che siano di aiuto ai cittadini calabresi”.
Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 16 novembre 2020. Il nuovo commissario per la sanità calabrese Eugenio Gaudio è ancora indagato a Catania nell’ambito dell’inchiesta sull’università. Gaudio aveva ricevuto l’avviso di conclusione indagine e subito dopo era stato interrogato. La sua versione dei fatti sull’accusa che gli contestano i magistrati ha convinto questi ultimi, spiegano fonti della procura. La maledizione dei commissari alla sanità in Calabria continua. Il governo e il ministro competente, Roberto Speranza, sono riusciti in meno di dieci giorni a sbagliarne due, ma anche la terza nomina presenta una criticità. Dopo l’addio del generale Saverio Cotticelli, le dimissioni di Giuseppe Zuccatelli, il governo ha nominato un indagato: Gaudio, rettore uscente dell’università La Sapienza di Roma. Sarà affiancato, nel ruolo di supporto, da Gino Strada, fondatore di Emergency. L’inchiesta nella quale è coinvolto Gaudio è quella relativa ai concorsi truccati. Nel 2019 l’indagine della Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, ha travolto il mondo universitario etneo, coinvolgendo 66 persone, per alcune sono scattate le misure cautelari. In questa indagine Gaudio è indagato per alcune telefonate nelle quali parlavano di lui, il reato è il concorso in turbativa. Precisiamo che per la sua posizione è arrivato l’avviso delle conclusioni delle indagini, Gaudio si è fatto interrogare e, spiegano fonti autorevoli, la sua difesa ha fatto riflettere gli inquirenti che al momento propendono per una richiesta di archiviazione nei suoi confronti. Anche il suo avvocato difensore ha dichiarato di avere «buoni motivi per ritenere imminente l’archiviazione». Tuttavia ancora non è stata fatta e deve comunque passare al vaglio di un giudice, che dovrà condividere o meno l’eventuale richiesta di archiviazione della procura di Catania.
Calabria, il neo commissario Gaudio indagato dalla procura di Catania. Gaudio è indagato dalla procura di Catania nell'ambito dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università. Federico Giuliani, Lunedì 16/11/2020 su Il Giornale. Pronti, via: neanche il tempo di essere scelto dal governo come nuovo commissario alla Sanità in Calabria che Eugenio Gaudio è subito finito nell'occhio del ciclone. Gaudio è infatti indagato dalla Procura di Catania nell'ambito dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università. Secondo quanto riportato dal quotidiano Domani, l'ex rettore dell'Università La Sapienza di Roma aveva ricevuto l'avviso di conclusione indagine e subito dopo era stato interrogato. Dunque, in meno di dieci giorni, il ministro competente, Roberto Speranza, e l'esecutivo sono riusciti a mettere sul tavolo tre nomine collegate ad altrettante criticità. L'inchiesta nella quale è coinvolto Gaudio è stata avviata nel 2019 dal Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro e dalla pm Raffaella Vinciguerra. Sono 66 le persone coinvolte tra cui molti esponenti del mondo universitario etneo. "In questa indagine Gaudio è indagato per alcune telefonate nelle quali parlavano di lui, il reato è il concorso in turbativa", si legge su Domani.
Le indagini e l'inchiesta. Sembra che per la sua posizione sia in arrivo l'avviso delle conclusioni delle indagini. "Gaudio si è fatto interrogare e, spiegano fonti autorevoli, la sua difesa ha fatto riflettere gli inquirenti che al momento propendono per una richiesta di archiviazione nei suoi confronti", scrive ancora il quotidiano. In ogni caso la suddetta richiesta di archiviazione non è ancora stata fatta e deve prima passare al vaglio di un giudice, chiamato a condividere o meno l'eventuale archiviazione della procura di Catania. Gaudio dovrebbe essere affiancato, nel ruolo di supporto, dal fondatore di Emergency, Gino Strada. Profilo, quest'ultimo particolarmente gradito al Movimento 5 Stelle. Strada ha tuttavia ribadito di "aver dato al Presidente del Consiglio la mia disponibilità a dare una mano in Calabria, ma dobbiamo ancora definire per che cosa e in quali termini". In ogni caso il neo commissario è indagato per alcune telefonate nelle quali parlavano di lui. Il reato è concorso in turbativa. Ricapitolando, la Regione Calabria ha visto evaporare come neve al sole prima Saverio Cotticelli poi Giuseppe Zucatelli. Ricordiamo che Cotticelli si è dimesso dopo l'intervista a Titolo V mentre Zucatelli, chiamato a sostituire il collega, ha fatto altrettanto dopo la bufera che lo ha coinvolto nei giorni scorsi, legata a un video in cui definiva inutili le mascherine. Adesso è la volta di Gaudio.
Strada: "Tandem con Gaudio non esiste". Abbiamo parlato di Gino Strada. Ebbene, il fondatore di Emergency ha dichiarato che, nonostante la disponibilità data al governo, non esiste ancora alcun tandem con Gaudio. "Apprendo dai media che ci sarebbe un tandem Gaudio-Strada a guidare la sanità in Calabria. Questo tandem semplicemente non esiste. Sono abituato a comunicare quando faccio le cose - a volte anche dopo averle fatte - quindi mi trovo a disagio in una situazione in cui si parla di qualcosa ancora da definire", ha scritto lo stesso Strada su Facebook, rinnovando la disponibilità a discutere "di un possibile coinvolgimento mio e di Emergency su progetti concreti per l'emergenza sanitaria che siano di aiuto ai cittadini calabresi". Nel frattempo la Lega ha attaccato l'esecutivo per l'ennesimo pasticcio. Emblematiche le parole del leghista Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato: "Hanno spalancato i porti ai clandestini, adesso nominano Gino Strada, la prossima volta daranno un incarico anche alla figlia di Strada oppure a Carola Rackete? Sul ponte dello Stretto non sventola più la bandiera bianca di Battiato ma quella rossa di Conte e dei Cinque Stelle". "La nomina di Gino Strada in Calabria - ha aggiunto Calderoli - certifica che la deriva dei Cinque Stelle e del loro premier Conte verso una sinistra, non solo quella di Leu, sempre più rossa ed estrema sta assumendo una deriva ideologica da sinistra extraparlamentare. La scelta di Strada, scelta dei Cinque Stelle e soprattutto di Conte, è il tributo ai loro veri alleati della sinistra estrema, al ministro Speranza, a Leu e alle Sardine rosse che, finora, lo ricordiamo, non hanno mai preso un voto".
Strada e Gaudio: falce e tampone per la Calabria. Max Del Papa il 16 novembre 2020 su Nicola Porro.it. È straordinario: “La Calabria ha bisogno di Gino Strada, sia nominato oggi, subito”. Firmato Matteo Renzi aka il Bomba. E invoca uno che proviene dal ’68 movimentista. Con rottamatori così, chi ha bisogno di vecchi arnesi?, parliamo del giovane frequentatore della Ruota della Fortuna, mica dell’altro. Gira che ti rigira amore bello, i compagni post tutto ritornano alla comune, al compagnero: la sinistra riparta da Gino. La storia si ripete sempre due volte, la prima in forma di comunismo, la seconda in forma di comunismo. Il governo si vergogna di avere affidato la pubblica sanità calabrese metastizzata dalla ‘ndrangheta prima ad un generale in pensione talmente incompetente, per diretta ammissione, da arrivare a dire: mah, non so più niente, mi avranno drogato; poi ad un successore al di là del negazionismo, per prendere il Covid bisogna infilarsi la lingua in gola per un quarto d’ora. Oltre la tragedia e oltre la farsa. Conte se li sceglie col lanternino e alla terza opzione le lanterne son rosse fuoco, non si risolverà niente in Calabria ma forse si risolve qualcosa a Roma, palazzo Chigi, dove il puntello del Pd scricchiola sempre più. Ma il santo Emergencyale da solo non basta e gli affiancano un rettore, quello della Sapienza: da Gino a Eugenio, breve è la Strada che conduce al Gaudio, cosentino verace, medico pregno di riconoscimenti plurimi e ideologicamente impeccabili: fra i tanti, un attestato delizioso: insignito il 1 novembre 2019 a Wuhan, presso la Zhongnan University of Economics and Law, del prestigioso Honorary Doctoral Degree in Economics and Law dal Governo della Repubblica popolare cinese. Cioè ha preso un premio a Wuhan, terra d’origine del Covid, esattamente quando il Covid fuggiva dai laboratori degli apprendisti stregone. Che vuoi di più dalla vita? Un Lucano (Mimmo, inventore del prodigioso modello Riace, ispirato a sicura dissipazione)? Tocca al dream pool mettere ordine nel gran casino calabrese e per Gino stanno esultando come un coro militare tutte le giubbe rosse sulla piazza: le varie estreme, da SeL a LeU, che son come l’araba fenice, che ci siano ciascun lo dice ma cosa facciano nessun lo sa, il sedicente riformismo progressista piddino, e poi il citato Lucano, le immancabili sardine, l’Anpi reducista, i centri sociali, le frange maduriste, il mondo antagonista, il revanscismo comunista. Forse il superpool falce & tampone (ma Strada dice che “il tandem non esiste”) schiererà pure l’immunologo Galli, altro sessantottino per sempre, quello che spinge per lockdown totali, sovietici, e vuole proibire “il superfluo”, che sarebbe tutto ciò che non piace a lui, e vuole impedire le visite ai cimiteri, che è tutta paccottiglia fideista, e vuole mettere sotto chiave anche il Natale, basta regali, cenoni, lucette, robaccia da deviazionismo borghese. Il dream team per salvare la Calabria sanitaria assomiglia alla squadra di calcio di Alberto Sordi: BorgoRosso, Rosso, Rosso… A sinistra tutti si scapigliano e si accapigliano e, essendo Arcuri imbarazzante per sicumera non giustificata, cercano di ripartire dal Red Pool. Che ironia, però, uno come Gino, sempre antagonista contro ogni potere, divisa, autorità, ritrovarsi nel ruolo di vicecommissario Strada. Come si cambia, per non cambiare, quando la realtà supera ogni fiction. Max Del Papa
In Calabria arriva Gino Strada: "Abbiamo siglato un accordo". Gino Strada ha annunciato un accordo tra Emergency e la Protezione civile, per intervenire sull'emergenza sanitaria in Calabria. Francesca Bernasconi, Martedì 17/11/2020 su Il Giornale. C'è un accordo di collaborazione tra la Protezione civile ed Emergency. Gino Strada, il fondatore dell'associazione, scende in campo per aiutare a rispondere all'emergenza sanitaria che sta affliggendo la Calabria, dove in pochi giorni si sono succeduti tre Commissari designati alla Sanità. Non sarà lui ad accogliere la nomina, ma l'associazione aiuterà a gestire l'emergenza. Ad annunciarlo è il medico stesso che, sul suo profilo Facebook ha confermato: "Oggi pomeriggio abbiamo definito un accordo di collaborazione tra Emergency e Protezione civile per contribuire concretamente a rispondere all'emergenza sanitaria in Calabria". I lavori inizieranno domani mattina, per mettere a punto "un progetto da far partire al più presto". Nel post, Strada ringrazia anche "il governo per la stima che ha dimostrato per il lavoro di Emergency e le tante persone che ci hanno dato fiducia, offrendo da subito il loro sostegno". "Considerando l'evoluzione della situazione epidemiologica in atto, si è ritenuto che l'Associazione Emergency possa contribuire a rispondere ad urgenti esigenze di assistenza socio-sanitaria alla popolazione, come la gestione di strutture ospedaliere campali o il supporto all'interno dei "Covid Hotel", nonchè nei punti di triage delle strutture ospedaliere", ha commentato il Dipartimento della Protezione Civile in una nota. E da domani, "l'associazione sarà attiva sul territorio". In 10 giorni, in Calabria si sono succeduti tre Commissari alla Sanità. I problemi erano iniziati a inizio novembre, con le dimissioni di Saverio Cotticelli, ritrovatosi responsabile del piano Covid per la Regione a sua insaputa. Il caos si era scatenato a causa di un'intervista andata in onda su Rai3, durante Titolo V, in cui Cotticelli si mostrava spaesato davanti alle domande del giornalista, che chiedeva il punto sulle terapie intensive in Calabria. Dopo di lui, aveva ricevuto la nomina Giuseppe Zuccatelli, ma anche in questo caso la bufera non aveva tardato ad arrivare, portata da un video in cui il neo Commissario parlava dell'inutilità delle mascherine. Successivamente, Zuccatelli aveva ammesso di aver detto "sicuramente una fesseria", precisando però che le immagini risalivano allo scorso maggio, durante la "prima fase, dove è stato detto di tutto". In molti avevano sperato nelle sue dimissioni, che erano arrivate solamente su richiesta del ministro della Salute, Roberto Speranza, secondo quanto aveva dichiarato lo stesso Zuccatelli al Corriere della Sera. A quel punto, già in molti avevano fatto il nome di Gino Strada, da Matteo Renzi, a Nicola Morra. Ma ieri, dopo le dimissioni di Zucchelli, era spuntato un altro nome, che avrebbe dovuto prendere l'incarico: si trattava di Eugenio Gaudio, il rettore uscente della Sapienza di Roma. Oggi, però. Gaudio ha dichiarato che non avrebbe accettato l'incarico offertogli dal governo: "Motivi personali me lo impediscono", ha detto a Repubblica, specificando che il motivo sarebbe legato alla volontà della moglie di non trasferirsi a Catanzaro. Così, nel giro di pochi giorni, è spuntata l'ennesima dimissione. E ora, dopo le pressioni della maggioranza, in Calabria arriva l'associazione di Gino Strada, anche se il medico non sarà designato ad essere Commissario, intervenendo con un ruolo di consulenza. Ad annunciarlo è stato lui stesso, che ha parlato di un "accordo di collaborazione tra Emergency e Protezione civile per contribuire concretamente a rispondere all’emergenza sanitaria in Calabria". I lavori inizieranno domani.
"Bush, Salvini e Minniti? Come Hitler". Strada dà del fascista un po' a tutti. Il body shaming contro Brunetta. Massimo Malpica, Mercoledì 18/11/2020 su Il Giornale. Sicuramente tecnico, ma anche politico per sua stessa ammissione, e per nulla bipartisan. Nel curriculum di Gino Strada non ci sono solo i tanti anni da chirurgo e capo di Emergency, ma anche un continuo ricamo di strali rivolti alla politica, con un occhio di ri(s)guardo per il centrodestra, pur senza trascurare occasionali attacchi anche alla sinistra e ai grillini, che pure nel 2013 lo avevano candidato al Quirinale. La scarsa diplomazia delle sue uscite pubbliche divenne conclamata già nel 2003, quando, a febbraio, Strada disse la sua sul presidente Usa che si apprestava a muovere guerra all'Irak, con un paragone delicatissimo. «Siamo a un passo dalla guerra mondiale e forse da una guerra nucleare. Gli Usa sono pronti ad attaccare, con o senza l'Onu. Mi pare che le analogie con Hitler siano evidenti. Basterebbe chiederlo ai 6 miliardi di cittadini del mondo: chi è secondo voi il nuovo Hitler del terzo millennio? Sarebbe un plebiscito per Bush, sono sicuro». Quello stesso anno, a dicembre, Strada ed Emergency rifiutano i finanziamenti della cooperazione internazionale, come reazione alla decisione di governo e parlamento di prendere parte alla guerra in Afghanistan. Ad aprile 2013, parlando a un Giorno da Pecora, Strada invece sceglie la strada del body shaming per attaccare Renato Brunetta, raccontando che negli ultimi anni aveva scelto di votare solo una volta, nel 2010, per le Comunali di Venezia. «Ho scelto Orsoni racconta perché ho pensato che Brunetta fosse esteticamente incompatibile con Venezia». Le sue esternazioni si moltiplicano soprattutto con il primo governo Conte, quando nel mirino di Strada finisce il ministro dell'interno Matteo Salvini. A giugno 2018 spiega che a 70 anni «non pensavo più di vedere ministri razzisti o sbirri alla guida del mio Paese», sei mesi più tardi definisce il governo «una banda dove una metà sono fascisti e lìaltra metà coglioni», spegnendo anche l''idillio passato con i Cinque stelle, e su Salvini taglia corto: «è il nuovo fascistello». Il leader del Carroccio, ribadisce tre mesi dopo, vanta «l'elemento più caratteristico del fascismo, cioè il razzismo». E ancora su Salvini e sul suo predecessore Minniti, Strada azzarda il paragone che aveva riservato a Bush: «Entrambi spiega - condividono una pratica: si possono anche sacrificare vite umane rispetto a una priorità: l'impenetrabilità dei nostri confini. Non è così lontano dall'idea della Fortezza Europa di Adolf Hitler». Uscito Salvini dal governo, ecco a settembre 2019 Strada invocare "«l giusto silenzio su di lui», salvo tornare ad attaccarlo a febbraio scorso, ironizzando alla sua maniera sulle «differenze» tra il leader leghista e Giorgia Meloni: «Anche tra i gerarchi nazisti c'era discussione fra chi rappresentava meglio la destra». Nel mirino, però, finisce anche il Conte-bis, per i ritardi nell'abrogare i decreti sicurezza, «leggi fasciste» per Strada, che conclude: «C'è una logica fascista e razzista non soltanto nell'opposizione ma anche nel governo». Lo stesso che ora vuole spedirlo a fermare il Covid in Calabria.
Anche Gaudio e Strada rinunciano. Meloni: “I calabresi non meritano questo governo di incapaci”. Carlo Marini martedì 17 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Dal “dream team” formato da Gaudio e Strada e annunciato con squilli di tromba, si è passati allo zero assoluto. Le mirabolanti imprese del governo Conte sul prossimo commissario alla Sanità della Calabria non finiscono mai. Oggi pomeriggio, il primo a rinunciare è stato il rettore uscente della Sapienza. Gaudio ha comunicato al ministro della Salute, Roberto Speranza di dover dire no per motivi familiari. Dopo poche ore è arrivato anche il secco no del fondatore di Emergency. Anche questa volta è stata una doccia scozzese per il governo. Quattro commissari liquefatti in pochi giorni non si era mai visto. In tutto questo, come nota la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni a farne le spese sono i cittadini calabresi. «Conte e Speranza trasformano in farsa la nomina del commissario alla Sanità in Calabria. A pagarne le spese sono i cittadini calabresi che non meritano un governo di presuntuosi incompetenti». E sulla rinuncia di Gaudio e Strada è durissimo anche l’assessore regionale di FdI. «Sembra una telenovela. A noi non interessa chi nominano, basta che sia una figura di discontinuità che venga ad operare con serietà. Ci eravamo rallegrati per la nomina dell’ex rettore Gaudio, che ora ha rinunciato. Ma verificassero bene prima di nominarli. E imbarazzante». Così l’assessore al Turismo della Regione Calabria, Fausto Orsomarso, commentando la rinuncia di Eugenio Gaudio. «Le istituzioni sono una cosa seria – spiega Orsomarso -, la Calabria non merita questo, e con grande rispetto dico, e lo abbiamo detto anche in Consiglio regionale, che il primo responsabile è il ministro della Salute Roberto Speranza. Cotticelli prima, Zuccatelli poi, e ora Gaudio, significa che il ministro si sta occupando in modo poco serio dei problemi della Calabria e quindi dell’Italia. Nulla si personale, ma è irresponsabile e imbarazzante. Così perdono tutte le istituzioni. Non è possibile dedicare tre Consigli dei ministri alla Calabria senza azzeccarne una», conclude l’assessore.
Corrado Zunino per repubblica.it il 17 novembre 2020. Eugenio Gaudio, appena nominato dal Consiglio dei ministri nuovo commissario alla Sanità in Calabria, ha rinunciato al suo incarico. Lo ha annunciato a Repubblica lo stesso rettore in carica dell'Università La Sapienza di Roma.
Rettore, ci spiega perché non vuole prendere in mano un comparto così importante e disastrato della Regione Calabria?
"Motivi personali e familiari me lo impediscono".
Deve spiegare meglio, altrimenti non si capisce e partono le illazioni.
"Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro. Un lavoro del genere va affrontato con il massimo impegno e non ho intenzione di aprire una crisi familiare".
C'entra l'ansia per un incarico così diverso da quello di medico e rettore?
"Sarebbe una sfida importante, ma la famiglia per me è un valore primario".
E' rimasto ferito per le notizie che hanno richiamato un suo coinvolgimento, nell'estate 2019, nell'inchiesta sull'Università di Catania?
"Sono sempre colpito dall'imbarbarimento della politica. Le do una notizia in proposito: il procuratore di Catania ha appena fatto sapere al mio avvocato che è andato a depositare la richiesta di archiviazione per la mia presunta turbativa nei concorsi. Ne esco come ne sono entrato, pulito. Vorrei ricordare questo...".
Dica?
"Ho mandato i miei figli a studiare in Inghilterra, a Cambridge e Coventry, per evitare che si iscrivessero alla Sapienza di Roma, che chicchessia potesse avanzare illazioni nei loro e mei miei confronti. Ho vissuto così e vedermi tirato dentro un'inchiesta per alcune telefonate in cui dico che non faccio impicci, sì, mi ha fatto male".
Lei è un medico che, nei cinque anni di mandato, ha migliorato conti e iscrizioni della più grande università d'Europa. Sarebbe stato in grado di guidare una realtà storicamente malata qual è la sanità calabrese?
"Avrei voluto provare, è un impegno gravoso ma mi sono sempre messo a disposizione del servizio pubblico. Ho trovato resistenze in casa, e a questo mi piego. L'ho detto per tempo al ministro Speranza".
Gino Strada, candidato in un primo tempo a fare tandem con lei, ha scritto una lettera che dice: "Il tandem con Gaudio semplicemente non esiste". Nasce da quella lettera la sua decisione di rinunciare?".
"No, non sono quelli i problemi, ho passato tutto il mandato in Sapienza a trovare coinvolgimenti, mediare. La scelta è mia, non posso fare il commissario della Sanità in Calabria".
E' un rettore uscente, adesso che cosa farà?
"Non vado in pensione. Continuo a insegnare, un mestiere meraviglioso. I miei due corsi di Medicina. E poi sono consulente del ministro Manfredi e continuo a dirigere l'osservatorio delle scuole di specializzazione di Medicina".
Federico Giuliani per ilgiornale.it il 27 novembre 2020. Il nome di un altro possibile candidato a ricoprire il ruolo di commissario alla Sanità della Calabria è evaporato come neve al sole. Nelle ultime ore sembrava che Agostino Miozzo potesse essere l'uomo giusto, il profilo capace di mettere d'accordo tutti e archiviare i recenti e molteplici pasticci commessi dal governo.
Fumata nera. Ebbene, secondo quanto riferisce Repubblica, non sarà nemmeno Miozzo il nuovo commissario incaricato di gestire la sanità calabrese. Il coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, che in passato fu braccio destro di Guido Bertolaso, aveva messo sul tavolo alcune condizioni per poter lavorare. Queste condizioni sarebbero state considerate troppo vincolanti da Palazzo Chigi. Da qui, l'ennesima fumata nera.
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 18 novembre 2020. Sotto la poltrona del Superman sanitario calabrese deve esserci un po' di kryptonite. Dopo Saverio Cotticelli caduto in diretta tivù («Come: l' emergenza Covid tocca a me?») e Giuseppe Zuccatelli fatto fuori dal video galeotto («Le mascherine non servono un ...»), è saltato il terzo, l' ex rettore della Sapienza (un po' inquisito) Eugenio Gaudio: «Mia moglie non vorrebbe trasferirsi a Catanzaro». Finché da una nuvoletta, con la Protezione civile, è sbucato Gino Strada. Una sfida temeraria, forse, per il medico milanese fondatore di Emergency. Alle prese con una terra non meno complicata (e a rischio) di quella afghana. Ma per capire quanto sia fradicio il sistema, occorre tornare indietro. E ripartire da una intercettazione in cui qualche anno fa l'allora potentissimo Satrapo della sanità calabrese, Domenico Crea detto Mimmo, spiegava come va il mondo (il «suo» mondo) a un collaboratore che aspirava a essere eletto al Consiglio regionale: «Ma quando tu hai me, cretino, che vuoi fare? Ti prendi 10.000 euro di consigliere? E che minchia sono?». Spiccioli erano, per lui, a confronto dei soldi veri. «Senti quello che ti dice Mimmo». E spiegava che gli amici che aveva avuto intorno, armeggiando sulla Sanità, erano «tutti miliardari. Il più fesso di loro è miliardario... E ti ho detto tutto...». Diceva tutto sì, quella vanteria. Per decenni, infatti, quel settore che assorbe 3,7 miliardi dei 7 dell'intero bilancio regionale, è stato sistematicamente saccheggiato con gestioni scellerate che gridano vendetta a Dio. Fino a far saltare, una dozzina di anni fa, tutti i conti. Al punto che ieri mattina, in una audizione alla Camera, il professore Ettore Jorio, docente all'Ateneo di Reggio e collaboratore del Sole 24 Ore , ha ricordato di essere stato l'ultimo incaricato di fare una ricognizione sui debiti al 31 dicembre 2008. Quando il deficit patrimoniale era a un miliardo e 792 milioni di euro. E adesso? Boh...Nonostante gli «incomprensibili e inauditi 15 milioni di euro messi verosimilmente a disposizione degli advisor» questi non hanno «mai perfezionato in quasi un decennio» la certificazione dovuta «tanto da registrare ad oggi bilanci incerti, quando va bene, ovvero mai adottati». Un calcolo «spannometrico»? Non è possibile rispondere, dice Ettore Jorio: «Credo però che se la sola Asp reggina è sotto di un miliardo, come dicono varie denunce, è plausibile che la Regione sia sotto di due e mezzo. Se non di più». E il piano di rientro? Ciao. Non basta: i ritardi nei pagamenti ai fornitori da parte delle aziende del Servizio sanitario regionale, dice il monitoraggio interministeriale di ottobre, «sono saliti a oltre 800 giorni». I rischi, ha spiegato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a Carlo Piano de La Stampa , sono gravi: «Quando la stretta creditizia aumenta, gli usurai vanno a nozze. In momenti così è facile sostituirsi alle banche, rilevare aziende in crisi, investire il denaro della droga». Del resto, insiste il magistrato nel saggio «Ossigeno illegale» scritto con Antonio Nicaso, le mafie hanno «da tempo messo le mani anche su importanti risorse della sanità pubblica. Ha fatto il giro del mondo, per esempio, la notizia pubblicata dal Financial Times secondo cui alcuni privati, nell'impossibilità di farsi liquidare da aziende sanitarie pubbliche calabresi, avrebbero venduto i loro crediti a banche e società estere. Secondo il quotidiano britannico, i titoli venduti a investitori internazionali tra il 2015 e il 2019 ammonterebbero a circa un miliardo di euro. In un caso, i titoli commerciali e le obbligazioni legate ad aziende sospettate di avere legami con la 'ndrangheta sarebbero stati acquistati da una delle banche private più importanti d'Europa». Non è solo un problema economico. Ma più ancora sanitario, politico, morale. Un'emergenza con cui l'Italia («Ma è la Calabria!», chiudono il discorso da decenni troppi leader allargando le braccia come dessero ogni partita per persa) non ha mai fatto davvero i conti. «La 'ndrangheta mette in fuga anche i medici. Otto posti da primario presso l'Unità sanitaria di Locri non si riescono a coprire per l'impossibilità di trovare docenti disposti a far parte delle commissioni», scriveva Carlo Macrì nel 1990. Sono passati trent' anni. E tutta la regione patisce la mancanza di medici, tecnici, infermieri... Come prima, peggio di prima. E ogni vuoto d'organico, ogni reparto abbandonato al degrado, ogni macchinario comprato vent' anni fa e ancora incellofanato accende la collera contro gli sprechi di un tempo. E di oggi. A partire dall'ospedale di Pizzo, mai aperto dopo oltre mezzo secolo di lavori, dove dei pazzi misero gli ascensori della sala chirurgica a un metro dalla parete (gli operati avrebbero dovuto uscire in piedi, per sdraiarsi poi nella barella) e si spinsero a comprare montagne di sandali sanitari col tacco alto prima di assumere una sola infermiera. O dai sette-nosocomi-sette della piana di Gioia Tauro destinati negli anni 90 a essere soppressi per dare vita a un unico grande ospedale moderno. Risultato: oggi quello di Taurianova dove dominava il discusso Francesco Macrì detto «don Ciccio Mazzetta» (venerato dai clientes per avere «creato una generazione benestante di famiglie spesso a doppio reddito e ora a doppia pensione») è quasi tutto chiuso, quello di Oppido Mamertina ospita una ventina di vecchi, quello di Rosarno (allora nuovo di zecca) è uno scheletro mai aperto, quello di Cittanova ha un reparto di riabilitazione, quello di Gioia Tauro (dove si scordarono del riscaldamento e fecero la sala operatoria senza manco l'acqua calda) conta solo su due o tre reparti e quello di Polistena, l'unico che davvero si fa carico di tanti servizi e ha 107 posti letto, è ridotto negli organici al punto che su dodici anestesisti previsti quello in servizio oggi è uno solo. E l'ospedale nuovo? Mai visto. Un disastro. Che pesa sui calabresi spingendoli ancor più d'una volta ad andarsi a curare nel resto d'Italia. Spendendo una cifra assurda, 310 milioni di euro. Ovvio. Nonostante esistano qua e là eccellenze formidabili, isolati reparti non inferiori a quelli altoatesini, centri di ricerca con giovani straordinari, sale operatorie dove svettano chirurghi bravissimi, troppi cittadini sono stati via via demoralizzati dalla sciatteria della classe politica locale e dalla colpevole lontananza, quand'anche avesse avuto un po' di buona volontà, di quella nazionale. E la girandola dei commissari della sanità di questi ultimi giorni la dice lunga su quanto una svolta radicale sia sempre più obbligatoria.
Dagospia il 21 novembre 2020. Trascrizione dell’intervento di Nicola Gratteri a “Tg2Post”. La Calabria non è l’Afghanistan in tempo di guerra, il problema non è il pronto soccorso, non è l’emergenza, il covid per la sanità in Calabria è uno spicchio, è uno dei problemi. Il commissario si deve interessare di questa voragine, di questo pozzo senza fondo (…) Il commissario dispone, il soggetto attuatore sarebbe l’Asp che è stata sciolta per mafia, dove all’interno ci sono gli stessi quadri che c’erano tre anni fa. Se i funzionari, gli impiegati e i dirigenti sono gli stessi di tre anni fa, allora a che serve il commissario? Io penso che il senso di un commissario sia quello che le Asp non devono toccare palla. I concorsi devono essere fatti alla fiera di Roma, con commissari che hanno un cognome tedesco che sono di Pordenone, che conoscono la Calabria dalla carta geografica, altrimenti non ne usciamo. Questa è una cura da febbre da cavallo, snenò la sanità la potete commissariare altri 50 anni, non cambierà nulla.
Calabria Film Commission, quando piovevano parcelle sul “re dei legali”. Pablo Petrasso per corrieredellacalabria.it il 21 novembre 2020. «I progetti della Film Commission andranno avanti, se sono regolari. Io non ho mai annullato nulla, mi sono fermata solo quando, vedendo le carte, ho trovato qualcosa che non funzionava». E il giorno in cui Jole Santelli e Giovanni Minoli presentano la loro “fabbrica dei sogni”, un nuovo progetto per l’audiovisivo in Calabria. La presidente scomparsa lo scorso 15 ottobre risponde alle domande dei cronisti: non e detto che si riferisca a «carte» trovate spulciando gli atti della “vecchia” Fondazione. La frase resta sospesa, come i progetti che la governatrice non potra realizzare assieme al giornalista che ha scelto perche «e il migliore e ha fatto la storia della televisione». Neppure Minoli, meno di un mese dopo, crede di poter continuare quel percorso senza chi lo aveva ispirato. Saluta la Calabria e si dimette – le dimissioni saranno respinte dal governatore reggente Nino Spirli – in una lettera nella quale racconta di non essere riuscito neanche a farsi rispondere al telefono dallo stesso Spirli. In quelle righe di commiato, c’e un’altra frase che resta sospesa. Minoli afferma di «aver chiesto una due diligence sul passato per essere certo – come credo – che tutto il lavoro fatto sia stato chiaro e trasparente e, quindi, si possa agire speditamente». La due diligence, una verifica dei dati di bilancio di una societa, e un atto quasi dovuto quando si materializza un passaggio di consegne. Da due frasi sospese a una certezza: uno studio indipendente della Capitale sta analizzando i conti e gli atti prodotti dalla Fondazione. Di certezza ce n’e anche un’altra: oltre alla due diligence, che e per sua natura indipendente, la stessa Film Commission ha iniziato una revisione degli atti, partendo da consulenze e spese legali. Secondo i documenti consultati dal Corriere della Calabria, alcune delle pratiche in esame riguardano i pagamenti incassati dall’avvocato Pasquale Gallo, Lello per gli amici, e dallo studio Gallo&Gallo che, negli ultimi anni, ha gravitato nell’orbita dell’ente che si e occupato di rilanciare il cinema in Calabria. Dal passato, com’e ovvio che sia in questi casi, continuano ad arrivare richieste di pagamento. Il nuovo management della Fondazione ha deciso di verificarne la provenienza. E sulle scrivanie sono niti incarichi, nomine, consulenze, progetti avviati da tempo. Soprattutto – con riferimento al ruolo del legale e del suo studio – negli anni in cui la presidenza e stata affidata a Giuseppe Citrigno (tra il 2016 e il 2020, prima della nomina di Minoli come commissario), che oggi guida la sezione Cinema di Unindustria Calabria. In quel periodo, infatti, il ruolo di Pasquale Gallo all’interno della Fondazione sarebbe diventato preminente. Un fatto che emerge sia dalle comunicazioni ufciali (il «legale della Film Commission» ha presentato al Festival di Venezia la legge regionale per il cinema) che dalle delibere messe in la nella verica interna. Nel 2017, Gallo avrebbe ricevuto dalla Film Commission oltre 80mila euro tra compensi, partecipazioni a eventi di settore, spese legali, spese di funzionamento, rimborsi e altro. Nel 2018 sarebbero arrivati servizi di consulenza, rimborsi e spese legali per provvedimenti pregressi per un totale di quasi 73mila euro. Nel 2019, il quadro delle collaborazioni si allarga anche a Fabrizio Gallo, fondatore dello studio Gallo&Gallo. E dalle casse della Film Commission escono in un anno circa 180mila euro. Quasi tutti per il legale “storico” della Fondazione (al fratello vanno 4mila euro per l’assistenza legale dei progetti “Creativita talentuosa” e “Ostelli accoglienti”): si va dai rimborsi per le spese di missione al contenzioso contro Creative Movie, dalle opposizioni a precetti e pignoramenti ad altri rimborsi per la partecipazione ai Festival di Cannes e Venezia. Nel 2020, tra gennaio e giugno – dall’insediamento della nuova giunta regionale all’arrivo del commissario Minoli – Lello Gallo resta seduto sul “trono” della Film Commission (lo spunto e offerto da una foto sui social in cui l’avvocato posa effettivamente su un trono) e riceve 79mila euro. Oltre ai soliti rimborsi (tra i quali quello per la partecipazione allo European Film Market di Berlino), l’avvocato riceve compensi per le proprie consulenze legali: si occupa, infatti, del Modello per la privacy e del Piano Triennale per la Prevenzione della corruzione e per la Trasparenza. Negli anni 2019 e 2020, inoltre, nei conti della Fondazione comparirebbe un altro avvocato legato sempre allo studio Gallo&Gallo, al quale sarebbero andati complessivamente poco piu di 44mila euro. Dal 2017 a meta 2020, dunque, la galassia legale che fa capo a Pasquale Gallo, avrebbe ricevuto dalla Fondazione Calabria Film Commission una cifra compresa tra i 450 e i 500mila euro. Il centro della questione non e (soltanto) la cifra, ma il sistema utilizzato. Che prevedeva, per il legale, diversi canali di pagamento e una nuova parcella per ogni causa assunta per conto della Film Commission. Pagamenti parcellizzati, dunque, non una convenzione (che avrebbe, forse, permesso di realizzare risparmi: e proprio questo uno dei temi della verifica interna). L’avvocato Daniele Romeo, scelto da Minoli per entrare nella squadra della “sua” Fondazione, spiega cosi al Corriere della Calabria gli approfondimenti in corso: «Stiamo cercando di fare chiarezza sul metodo che e stato utilizzato prima, per capire se sia stato penalizzante per le casse della Fondazione». Ci tiene a evidenziare un passaggio nel nuovo corso: «Non e vero che Minoli ha aumentato i costi delle consulenze e dell’area legale – dice –. E il contrario: li ha contenuti. Perche non accadra mai piu che in due anni un consulente costi piu di 450mila euro. Il metodo Minoli e un metodo basato sulla chiarezza e, soprattutto, e un metodo moderno, che premia il merito. Le aziende moderne si pongono degli obiettivi, e quelli bravi vengono pagati perche raggiungono gli obiettivi. L’obiettivo di una Fondazione non puo essere quello di fare piu cause possibili per poi, tra l’altro, perderle in maniera disastrosa. Deve essere quello di contenere i costi pubblici». Il lavoro iniziato da settimane servirà proprio a capire se l’obiettivo sia stato quello. Romeo ha qualche dubbio: «Stanno emergendo diverse anomalie che hanno portato a un dispendio di risorse». Quante e quali siano le cause affrontate dalla Film Commission e materia di cui ora si occupano i tecnici. Certo il contenzioso e sempre stato uno dei tasti dolenti. Anche in passato. Al Tribunale civile di Catanzaro, ad esempio, e stato afdato il ricorso per decreto ingiuntivo avanzato dal direttore organizzativo, per conto della Fondazione del “Festival della Calabria”. La vicenda si lega a un contratto che risale al 2013, mentre la causa e stata intentata dall’interessato nel 2014. Il professionista si e rivolto al Tribunale per reclamare una consistente quota di retribuzione mai corrisposta. E ha ottenuto, secondo i documenti in possesso del Corriere della Calabria, un decreto ingiuntivo per la somma complessiva di 32.546 euro. L’atto e stato depositato in cancelleria il 16 settembre 2014. Chi ha difeso il direttore organizzativo del festival? Pasquale e Fabrizio Gallo, tempo prima che “Lello” diventasse il “re” dei legali della Film Commission.
Il gioco dell'autunno: chi sarà il commissario? Gratteri commissario della sanità in Calabria, ci mancava solo lui…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Novembre 2020. Alla fine il nome impronunciabile, “Gratteri”, è saltato fuori, pur se sulla bocca di un insospettabile, Guido Bertolaso, uomo delle emergenze, come del resto Gino Strada, che si accinge a traslocare in Calabria con il suo bagaglio di tende tendoni e ospedali da campo. L’uomo della ricostruzione dell’Aquila indica Nicola Gratteri come l’uomo giusto a restaurare l’amministrazione della sanità in Calabria dove, dice, ci sono eccellenze nel campo medico e infermieristico, ma quel che manca è quel quid in più per farle funzionare. Discorso ineccepibile, che crolla nella soluzione finale. Non perché Gratteri non abbia capacità, anzi. Il procuratore di Catanzaro è decisamente un uomo del fare, semmai è uno che ha sbagliato mestiere, non è proprio portato per la magistratura, starebbe meglio in una caserma o in una palestra. Ma gli piace invece tantissimo portare la toga, alla maniera sua, un po’ poliziotto un po’ eroe. Non la lascerebbe mai per andare a fare il commissario regionale alle dipendenze del governo e a prendere ordini da un ministro, ruolo che a lui fu negato. Ma il problema del discorso di Bertolaso è un altro, è la ripetizione all’infinito del fatto che per la Regione più povera e più orgogliosa d’Italia ci voglia sempre qualcosa di emergenziale. Come se si fosse sempre in guerra o dopo un terremoto tremendo come quello di Reggio e Messina del 1908 o in presenza di una delle tante alluvioni che hanno distrutto bellissimi paesi di montagna portando detriti fino al mare. L’interprete perfetto di questa cultura è Gino Strada, che per super-ego non è certo secondo a Gratteri, e che non conosce la normalità del lavorare e del soccorrere. Impossibile per lui l’ipotesi di affiancarsi (o essere affiancato, avrebbe ritenuto lui) a un democristiano burocrate e professore come Eugenio Gaudio. Il quale lo ha ricambiato della stessa moneta, sottraendosi alla possibilità di lavorare al fianco di un estremista un po’ arrogante. Mentre il governo dei pasticcioni (e sia chiaro che il termine non è affettuoso né comprensivo) si arrabatta, dopo tre fallimenti e inutili tardive scuse e pentimenti del premier Conte, a studiare curricula ma anche certificati penali e carichi pendenti di nuovi candidati, il vero leader di Sila e Aspromonte, il procuratore Gratteri, sembra essere l’unico ad avere le idee chiare. Parla come se la decisione spettasse a lui. Mentre compie il suo tour promozionale per il ventesimo libro sulla ‘ndrangheta, ha cominciato, ospite da Gruber martedì sera, a delineare il profilo del candidato perfetto, sussurrando (ascolti, caro Conte) di aver in testa il nome. Da bravo comunicatore non lo fa, ma spiega che è un calabrese “salito” al nord, dove si è fatto valere in ruoli importanti. E ha aggiunto, nella giornata di ieri, che l’assenza di un commissario in Calabria, è “un problema politico”. Lo ha detto pubblicamente, nel corso della cerimonia di insediamento di undici nuovi giudici e quattro pm nel capoluogo calabrese. Ci riflette e ne parla. Marca la propria presenza. In senso lato, politica. Il suo mostrarsi come tuttofare nella terra dove è nato e cresciuto e dove ha voluto tornare dopo ogni assenza, finisce con l’essere uno dei limiti della possibilità di sviluppo della Calabria. È uno dei tanti ingombri che ributtano i cittadini nella tradizionale rassegnazione da cui cercano disperatamente di sollevarsi. Sono gli occhiali che vedono solo delinquenza e mafia. E quindi emergenza e necessità di trovare un uomo del destino che impugni le armi (e le manette) e metta questa terra a ferro e fuoco per risolvere problemi che sono sociali e di buona amministrazione. Non è un caso che due diversi governi abbiano sponsorizzato il commissario-carabiniere. E che lui, il generale Cotticelli, abbia ricordato con orgoglio di essere andato a omaggiare Gratteri non appena messo piede sul suolo calabro. Emergenza, emergenza! gridano in coro tutti quelli che sfornano nomi uno dopo l’altro. È chiaro che il quarto scivolone (più il mezzo, con l’indicazione grillina di Strada, recuperato in corner con un altro ruolo) sia da evitare. Così qualcuno sta tirando fuori dal cilindro una persona di sicuro valore, smagliante sorriso e brillante curriculum, ma il cui nome ricorda un’altra Emergenza, quella da scrivere con la maiuscola, “Tangentopoli” e “Mani Pulite”. L’ex colonnello della guardia di finanza Federico Maurizio D’Andrea, oggi sessantenne manager di successo, che affiancava il procuratore Borrelli e soprattutto Gherardo Colombo nella fotografie che glorificavano i loro “successi”. Di emergenza in emergenza, da procuratore a procuratore. Ripetiamolo ancora: povera Calabria.
Da repubblica.it il 27 novembre 2020. Il cdm ha deciso. Sarà Guido Longo, ex prefetto di Vibo Valentia, il nuovo commissario della Calabria. Dopo una lunga serie di rifiuti, gaffe e imbarazzi, il caso sembra arrivato a una svolta.
(LaPresse il 27 novembre 2020) - "Il nuovo commissario per la sanità calabrese è il prefetto Guido Longo. Un uomo delle istituzioni, che ha già operato in Calabria, sempre a difesa della legalità".Così su Twitter il premier Giuseppe Conte.
Alessia Candito per repubblica.it il 27 novembre 2020. Finiti i jolly, il governo gioca l'ultima carta. Dopo aver bruciato una decina di papabili commissari sul falò dei veti incrociati, il governo si starebbe orientando sull'ex ministro della Sanità ed ex presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. Già stasera ci dovrebbe essere un cdm per la nomina del commissario. È questo l'ultimo nome che circola in ambienti di governo, dopo il "no, grazie" con cui è stato congedato il coordinatore del Comitato tecnico-scientifico Agostino Miozzo, che alla proposta di incarico in Calabria aveva risposto positivamente, ma solo a patto di poter agire in deroga ai poteri previsti, di avere mano libera nella scelta della squadra di 25 commissari di Aziende sanitarie provinciali e ospedaliere e di poter rientrare in servizio in Protezione civile dalla pensione. Paletti a quanto pare ritenuti inaccettabili dall'esecutivo, che ha congedato Miozzo e adesso torna a pensare ad una figura prettamente politica per gestire la Sanità calabrese. Un dossier che scotta, soprattutto da quando il premier Conte lo ha preso personalmente in mano, promettendo anche pubblicamente una rapida soluzione. Il Consiglio regionale della Calabria ha intanto preso atto delle dimissioni di Domenico Tallini, presidente dell'assemblea, sospeso per il suo coinvolgimento nell'inchiesta "Farmabusiness" della Dda di Catanzaro, e ne ha disposto la surroga con Frank Mario Santacroce, primo dei non eletti con Forza Italia nella circoscrizione centrale. Santacroce ha quindi ufficialmente preso posto sui banchi dell'aula. Da quando il premier ha preso in mano il dossier Calabria, sono passati quasi cinque giorni. Ma sulla nomina - già concordata - del manager sanitario romano di area dem, Narciso Mostarda, sono stati i pentastellati che a sorpresa si sono presentati al Consiglio dei ministri che avrebbe solo dovuto "ratificare" una decisione già presa, mettendo sul piatto la candidatura alternativa del prefetto Luigi Varratta. Mostarda, hanno fatto filtrare, sarebbe stato troppo vicino al centrosinistra per risultare di loro gradimento. E, forse è un caso, forse no, proprio in quei giorni, reduce dagli Stati generali, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, annunciava bellicoso "nel governo i nostri ministri dovranno contare di più". Un problema che rischia di riproporsi per Bindi, espressione organica del Pd, per altro considerata fumo negli occhi da parte del centrodestra che governa la Regione, con cui il premier Conte preferirebbe non entrare in rotta di collisione e che - ha confermato qualche giorno fa il ministro Boccia - sarà coinvolto nella scelta del commissario. Un'equazione complicata che Conte avrebbe deciso di gestire personalmente dopo lo scivolone Zuccatelli, il primo commissario scelto dal governo, poi costretto al passo indietro a causa di un vecchio video su mascherine e baci appassionati in tempo di Covid. Da allora sono passate settimane, per gestire la sanità calabrese sono stati fatti i nomi di prefetti, manager, medici, il rettore uscente della Sapienza, Eugenio Gaudio, ha rinunciato all'incarico in meno di 24 ore perché - ha scoperto - "mia moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro". Nel frattempo, in Calabria ci si organizza come si può per tamponare l'emergenza. Emergency lavora all'ospedale da campo di Crotone, l'esercito a quello di Cosenza, a Reggio Calabria una campagna di screening di massa è stata messa a punto grazie un progetto realizzato dalla task force messa in piedi dal sindaco Giuseppe Falcomatà e alla disponibilità del commissario nazionale per l'emergenza, Domenico Arcuri, che sulla riva calabrese dello Stretto invierà 70mila tamponi antigenici. "Quella del Commissario alla sanità in Calabria è una telenovela infinita che non fa bene alla credibilità delle istituzioni" tuona Falcomatà, che ricorda "come sindaci siamo arrivati fino a Palazzo Chigi per chiedere rapidità, efficacia, competenza, per riempire il vuoto che si è creato. È passata una settimana - ha aggiunto il sindaco - e l'unica cosa che si è riempita sono i titoli dei giornali che ogni giorno riportano nomi e smentite. Uno spettacolo che non fa bene alla Calabria e, soprattutto, ai calabresi che continuano ad ammalarsi e sono sempre più disorientati e disillusi".
Da liberoquotidiano.it il 17 novembre 2020. “Come sanno i suoi amici, Domenico Arcuri è noto anche per essere chiamato in privato ‘ciao come sto’”. Così Claudio Cerasa ha suscitato grande ilarità nello studio di Tagadà, con Tiziana Panella che ha esclamato “questa non la sapevo”. “Questa è una chicca”, ha aggiunto sorridendo il direttore de Il Foglio, che ha poi offerto il suo punto di vista sul commissario all’emergenza coronavirus: “È evidente che se viene scelto per fare qualsiasi cosa vuol dire che qualche capacità probabilmente ce l’ha, anche se tende a nasconderla molto bene. Però se fa il commissario di una quantità incredibile di cose, mi risulta strano che abbia anche il tempo di andare così spesso a fare conferenze stampa che servono a mettere in mostra il proprio narcisismo più che la capacità di risolvere i problemi”. Infine Cerasa ha auspicato che Arcuri, essendo la persona di riferimento per le terapie intensive e per i vaccini, “si dedichi più alle cose da fare che a quelle da dire, perché poi come comunicatore potrebbe fare meglio”.
Da corriere.it il 17 novembre 2020. È pesante la replica dell’Associazione dei medici anestesisti e rianimatori (Anaao) alle parole pronunciate oggi dal commissario straordinario all’emergenza Covid, Domenico Arcuri, secondo cui attualmente in Italia, con 3.300 ricoverati «non c’è pressione sulle terapie intensive». Arcuri, intervenuto alla conferenza ”Finanza e sistema Paese un anno dopo” durante la Digital Finance Community Week, ha detto anche che «al picco abbiamo avuto nel nostro Paese circa 7 mila pazienti in rianimazione; mentre oggi abbiamo circa 10 mila posti di terapia intensiva e arriveremo a 11.300 nel prossimo mese».
«Oltre la soglia critica». Ad insorgere è il segretario nazionale dell’Anaao Assomed, Carlo Palermo: «I posti di terapia intensiva oggi disponibili ed attivi in Italia sono intorno a 7.500 e non 11mila — afferma —. È questa infatti, con gli organici a disposizione, la dotazione massima con cui si possono garantire numeri e cure di qualità». E Palermo quindi puntualizza: «La soglia del 30%, indicata come livello di allarme, di posti letto di Terapia intensiva dedicati alla Covid-19 è quindi posta intorno a 2.300 ricoveri. I dati sui ricoveri totali di malati Covid-19 in Terapia intensiva, 3.492, indicano che ormai siamo ben oltre il 40% dei posti presenti. In molte realtà i pazienti aspettano ore, se non giorni, anche intubati, nei pronto soccorso prima di essere avviati nei reparti intensivi. Va ribadito poi che circa il 60% di questi letti è già occupato da pazienti con malattie gravissime come ictus, infarti, politraumi, stati di shock, sepsi e insufficienze multi-organo, che ovviamente non possono essere collocati in altri setting assistenziali».
«Un azzardo». Ma contro Arcuri si schiera anche Federico Gelli, presidente della Fondazione Italia In Salute e Coordinatore dell’Unità Sanitaria di Crisi della AUSL Toscana Centro per l’emergenza pandemica da SARS-COV-2 . «Il commissario all’emergenza Covid sbaglia — sottolinea il presidente —, il picco di pazienti Covid in terapia intensiva nella prima ondata è stato non di “circa 7 mila” come dice lui ma di 4.068, il 3 aprile. E dire che oggi non vi è pressione in questi reparti è un azzardo».
Le mascherine di Arcuri? Troppo grandi o strette e difficili da togliere. Invitalia manda alle elementari dispositivi per adulti, che spesso non vengono usati. Marta Bravi, Mercoledì 18/11/2020 su Il Giornale. Mascherine da adulti per bambini, troppo grandi per le dimensioni del volto, impossibili da far aderire al viso, in alcuni casi dotate di elastico da far passare dietro la testa che le rendono ostiche alla maggioranza degli alunni e di fatto inutilizzabili. Si parla di migliaia di dispositivi che il governo, o meglio la struttura coordinata dal Commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri invia alle scuole di tutta Italia. Le segnalazioni in questo caso arrivano dalle scuole primarie di Milano, che hanno segnalato l'errore e lo spreco conseguente. La tipologia IIR è stata in prevalenza distribuita da settembre: si tratta di mascherine di formato pediatrico, ma con gli elastici dietro la testa. La maggior parte dei bimbi le trovano «opprimenti», gli altri che riescono ad indossarle per la dimensione piccola della testa, al momento di toglierle in autonomia fanno passare la parte esterna sul volto, cosa che andrebbe assolutamente evitata. Inoltre l'assenza del ferretto da stringere sopra al naso fa sì che la mascherina sia più «mobile» di quanto dovrebbe, non trovandosi ad aderire al volto di chi la indossa. Il risultato è che per poter utilizzare comunque le mascherine, gli elastici vengono tagliati e di nuovo attaccati (in vari e fantasiosi modi) per poterli posizionare dietro le orecchie, ma nella maggioranza dei casi le mascherine non vengono usate del tutto, con un enorme spreco di risorse pubbliche, e di conseguenza con le famiglie che si trovano a sobbarcarsi anche la spesa dei dispositivi formato bimbo. A ciò si aggiunge lo smaltimento delle mascherine inutilizzate. Con il Dpcm del 3 novembre per le elementari e le prime medie, uniche ad avere garantita la didattica in presenza, l'uso della dispositivi di protezione individuale è diventato obbligatorio anche al banco e i bambini sono tenuti a cambiarli a metà giornata. A ogni alunno viene ora distribuito un pacchetto di 10 pezzi per la settimana, peccato che si sia in formato per adulti. L'aspetto che lascia assolutamente perplessi è che Invitalia, la struttura guidata da Arcuri, pur essendo ovviamente a conoscenza dell'utenza cui i dispositivi sono destinati, ha inviato mascherine per adulti. E solo dopo l'ennesima segnalazione, ha pensato di modificare la fornitura. «Si conferma anzitutto che la struttura commissariale provvede alla fornitura gratuita di mascherine chirurgiche destinata agli studenti di scuole primarie, secondarie di I e II grado nonché al personale docente e non docente di ogni ordine e grado - si legge nella risposta, che non tiene conto del fatto che gli studenti delle scuole superiori sono ormai a casa-. Proprio per venire incontro alla segnalazioni ricevute, da qualche giorno, abbiamo deciso di far realizzare anche per i più piccoli le mascherine con gli elastici dietro le orecchie. Come quelle che avete chiesto. Servirà ancora qualche settimana, e quando saranno pronte le manderemo in tutte le scuole d'Italia». Ma ancora più scioccante è la risposta finale: «Laddove nel frattempo la tipologia di mascherine non fosse conforme alle Vostre esigenze, potremo fornire quelle per adulti».
In Calabria va in scena la tragicommedia del governo Conte. Tre commissari in dieci giorni. In Calabria sta andando in scena una vera e propria tragicommedia, dopo le dimissioni di Eugenio Gaudio arrivate oggi "per colpa della moglie". Francesco Curridori, Martedì 17/11/2020 su Il Giornale. Tre commissari in dieci giorni. Se fosse un film, ci sarebbe da ridere. E, invece, è la tragica realtà che sta vivendo la Regione Calabria che, dopo le doverose dimissioni di Saverio Cotticelli e di Giuseppe Zuccatelli, si ritrova prima priva anche di Eugenio Gaudio. L’ex rettore dell’Università La Sapienza di Roma ha spiegato che la sua scelta è dettata da “motivi personali e familiari”. “Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro. Un lavoro del genere va affrontato con il massimo impegno e non ho intenzione di aprire una crisi familiare", ha aggiunto Gaudio. Nessuno mette in dubbio che il passaggio da Roma a Catanzaro possa essere un cambiamento traumatico per chi magari è abituato alla vita della Capitale, ma siamo davvero sicuri che le polemiche degli ultimi giorni non abbiano avuto alcuna influenza nella rinuncia di Gaudio? L’ombra di Gino Strada, fondatore di Emergency, cercato e poi abbandonato dal premier Giuseppe Conte, deve essere stata alquanto ingombrante e l’ipotesi di nominarlo consulente del nuovo commissario, al di là delle smentite di rito, non dev’essere piaciuta a Gaudio. Il governo ce la mette tutta, ma, per quanto si sforzi, non riesce proprio a sbrogliare la matassa calabrese. Tutto, come sappiamo, ha inizio con l’intervista che il generale Cotticelli rilascia alla trasmissione Titolo V durante la quale ammette candidamente di non sapere che spettasse a lui stilare il piano Covid e non era a conoscenza neppure del numero esatto di letti di terapia intensiva disponibili per la Calabria. In pratica, quasi un omaggio all’incompetenza. Un’intervista così scandalosa che il premier Conte, il mattino dopo, lo licenzia con un tweet. Gli esponenti di maggioranza respingono con prontezza le critiche di Salvini: “Cotticelli è lì dal 2018, lo hai nominato tu”. Peccato però che, solo pochi giorni prima di quella fatale intervista, proprio il governo Conte-bis aveva attribuito degli ulteriori poteri a Cotticelli. Ma, ormai, dare le colpe a Salvini su qualsiasi cosa avvenga in Italia sta quasi diventando una prassi tra le forze di maggioranza. La nomina di Zuccatelli, invece, è tutta opera del ministro Roberto Speranza dato che il predecessore di Gaudio è un bersaniano di ferro che nel 2018 si candidò alle politiche con LeU. Zuccatelli è, forse, uno dei rarissimi di negazionisti di sinistra ed è bastato un vecchio video per innescare un vespaio infinito di polemiche. Quella che sembra una tragicommedia sta assumendo sempre più i contorni di un film horror del quale non si vede ancora la fine. Solo il futuro saprà svelarci quale pantomima ci riserverà il governo Conte….
Covid, la farsa dei super tecnici. Il caos in Calabria è l'ultimo degli errori del governo. Durante la pandemia fioccano le nomine, ma senza risultati. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Martedì 17/11/2020 su Il Giornale. Se ancora avessimo avuto bisogno di una prova del fallimento della stagione dei super tecnici, ecco che il brutto pasticcio consumato sulla pelle dei calabresi ce l'ha fornita. Negli ultimi dieci giorni, mentre la regione sta lottando contro il dilagare del contagio e la conseguente emergenza sanitaria, sono saltate tre teste. Una dopo l'altra. Giù come birilli. Così, dopo le dimissioni di Eugenio Gaudio (nominato appena ventiquattr'ore prima), la Calabria si è ritrovata nuovamente senza commissario alla Sanità in un momento in cui non può certo permettersi un passo falso di questo tipo. "Ora attendiamo se ne vada pure Speranza...", ha commentato nelle ultime ore Matteo Salvini sparando contro il ministro della Salute. Al centro della bufera, però, finisce anche Palazzo Chigi che sin dall'inizio della pandemia ha deciso di mettersi nella mani dei tecnici augurando così una lunga stagione di gaffe, passi falsi, polemiche e buchi nell'acqua.
Lo "scippo" delle competenze. Alla fine di gennaio, quando inizia a essere chiaro che le "polmoniti atipiche" registrate a Wuhan sono più gravi di quanto non si immaginasse, il dossier finisce sulla scrivania del ministero della Salute. Ed è da lì che escono le prime, caotiche circolari che dicono tutto e il contrario di tutto. Speranza mette il suo vice, Pierpaolo Sileri, su un aereo e lo spedisce in Cina per gestire il rientro degli italiani bloccati a Wuhan. Nonostante i primi passi falsi, la pratica rimane nelle sue mani anche quando a Roma vengono scoperti due turisti cinesi positivi. Poi, però, qualcosa si inceppa. Ancora prima che a Codogno venga scoperto il "paziente uno", come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), il ministro finisce dietro le quinte. Il 31 gennaio, dichiarando lo Stato di emergenza, il premier Giuseppe Conte decide di togliergli dalle mani il dossier e di affidarlo ad Angelo Borrelli. Al capo della Protezione civile, sebbene del tutto inesperto in ambito medico e sanitario, vengono dati poteri speciali e diretti per gestire l'emergenza. Difficile ipotizzare il motivo di questa scelta. Secondo Sileri, Speranza non ha mai voluto fare il commissario. "Non è nel suo carattere...", ha rivelato il viceministro. Sta di fatto che in quel momento il premier decide di affidare le sorti del Paese a una task force di tecnici che aumenterà di giorno in giorno senza produrre mai risultati apprezzabili. Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di medicina molecolare dell'Università di Padova, ha individuato subito il nocciolo del problema. "C'è un problema di Cts non tanto nella composizione, quanto nell'assenza. Possibile che non ci siano le migliori menti delle università italiane?". Da quando Conte ha affidato la gestione dell'emergenza a Borrelli, abbiamo assistito a un imbarazzante e repentino moltiplicarsi di poltrone, incarichi e deleghe che, come dicevamo, non ha portato a grandi risultati. Nel giro di un paio di mesi accanto al capo della Protezione civile, chiamato a coordinarne e organizzarne il lavoro, ecco spuntare fuori Domenico Arcuri, a cui viene affidato l'approvvigionamento delle forniture sanitarie. Da subito soprannominato "mister Mascherina" per i pasticci inanellati, viene percepito come una sorta di anti Borrelli. Una sorta di commissario del commissario. Difficile capire il perché dello sdoppiamento delle figure. Sta di fatto che al super commissario vengono affidati i dossier più spinosi: dalle mascherine ai ventilatori, fino ai "banchi a rotelle" per riportare gli studenti in classe. I risultati della sua gestione vengono bocciati ripetutamente dalle opposizioni che in più di un'occasione ne chiedono le dimissioni, ma Conte continua ad affidarsi a lui. Tanto che Arcuri si troverà a dover gestire anche la pratica dei vaccini.
Le meteore. A luglio, per dare una "mano" di rosa alle innumerevoli task force che aveva creato, Conte aveva fatto un'infornata di donne. Del tutto inutile. Aldilà del rispetto delle "quote rosa", non è dato infatti sapere se queste nomine abbiano prodotto un risultato. Ma non dobbiamo stupirci. Non è certo l'unica trovata del governo a finire in un buco nell'acqua. Che dire, per esempio, dei sessantaquattro esperti infilati nella task force tecnologica voluta dalla ministra all'Innovazione Paola Pisano? E che dire di Vittorio Colao? Quest'ultimo è stato chiamato a guidare la squadra che doveva accompagnare il Paese nella "fase 2" ponendo le basi per il rilancio del sistema economico. Aldilà dei bonus e delle mancette non si è visto molto di più. Tra le meteore, a cui il governo ha legato il proprio destino e il destino dell'Italia, non possiamo non annoverare anche i tre commissari chiamati a gestire la sanità in Calabria. Prima è toccato a Saverio Cotticelli che, in un'unica intervista alla trasmissione di Rai3 Titolo V, ci ha svelato di non aver la benché minima idea del numero dei letti in terapia intensiva e di non sapere di essere il responsabile del "piano Covid" della regione. Chiuso con lui, ecco subentrare per pochi giorni Guglielmo Zuccatelli, padre di una tesi alquanto insolita sull'inefficacia delle mascherine: "Non servono a un cazzo, ve lo dico in inglese stretto. Sapete cosa serve? La distanza. Perché per beccarti il virus, se io fossi positivo, dovresti baciarmi per 15 minuti con la lingua in bocca". Dulcis in fundo, Speranza si affida a Gaudio (già indagato dalla procura di Catania) per uscire dal pantano. Ma quest'ultimo li gela: "Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro". Ultimo schiaffo al Paese che cerca di uscire dalla pandemia. Nonostante le task force.
La gogna contro Gaudio la paga la disastrata sanità calabrese. Davide Varì su Il Dubbio il 17 novembre 2020. La stampa ha crocifisso il neocommissario alla sanità calabrese presentato un’indagine come fosse una condanna. Lui ha lasciato l’incarico ma sono i calabresi a pagarne le conseguenze. E’ bastata una sola indagine, una macchia montata ad arte dalla stampa per convincere Eugenio Gaudio a rinunciare all’incarico di commissario della sanità calabrese. Ma stavolta la vittima della gogna mediatica non è il diretto interessato – il quale probabilmente vedrà archiviata la sua posizione di indagato nel giro di qualche giorno. No, la vera vittima è il popolo calabrese e la sua disastrata sanità. Gaudio, già rettore dell’Università La Sapienza e autore di più di 500 pubblicazioni sulle più note riviste scientifiche del mondo, sarebbe stato il primo medico a prendere in mano il sistema sanitario calabrese dopo decenni di gestione (disastrosa) affidata a generali della finanza e dei carabinieri. Risultato: record di morti per malasanità, strutture fatiscenti e immigrazione sanitaria tra le più alte d’Europa. Come dimenticare la tragica e incredibile storia di Federica Monteleone, la ragazza 17enne morta nel corso di un’operazione di appendicite per un banalissimo blackout e l’assenza di un semplice generatore di corrente? E così i calabresi vanno a farsi curare in Lombardia o nel Lazio pur di non rischiare la pelle. E c’è da capirli. Insomma, Gaudio, crocifisso dalla stampa e dalla politica, sarebbe stato il primo commissario alla sanità degno di questo nome. Ma la stampa “scandalistica”, e qualche politico, ha preferito spulciare nei polverosi casellari giudiziari presentando un’indagine come fosse una sentenza di condanna piuttosto che valutare la sua indiscutibile preparazione professionale. E la Calabria ringrazia…
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2020. Non abbiamo posti per la terapia intensiva, ma abbiamo Giuseppe Tiani, il manager che gestisce gli appalti della sanità in Puglia maneggiando un ciondolo liberamente ispirato al «pendolino» del compianto Maurizio Mosca. Tiani se lo è sfilato dal collo durante un' audizione alla commissione Affari Costituzionali, il sancta sanctorum della democrazia. Leggendo un testo scritto - forse un dépliant, forse le memorie di Vanna Marchi - ha spiegato che si trattava di un micropurificatore d' aria. Per la modica cifra di 50 euro, ha detto, questa meraviglia di produzione israeliana genera dei cationi in grado di inibire qualsiasi virus di segno positivo si aggiri nel raggio di un metro cubo. Alla parola «cationi» è serpeggiato un comprensibile sgomento tra gli astanti, e il Tiani ne ha approfittato per raccomandare l' acquisto del ciondolo da parte dello Stato, così da poterlo dare in dotazione a medici e poliziotti (egli è anche segretario di un sindacato di polizia). «Ci aiuterebbe a combattere il virus», ha concluso, agitandolo davanti ai padri della Patria in stato di ipnosi. Più tardi ha negato di essersi riferito alla pandemia, lasciando tutti nel dubbio: esiste dunque un altro virus contro cui dobbiamo combattere, oltre al Covid e alle castronerie? Oppure anche Tiani parlava sotto l' effetto di droghe, come il commissario alla Sanità calabrese della settimana scorsa? Se questi sono gli uomini che governano la nostra salute, il ciondolo di cui abbiamo più bisogno è un portafortuna.
Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” l'11 novembre 2020. È tutto un giramento di cationi. È così che funziona l'amuleto anti-covid. Sì, ok, sembra la classica "calla" da televendita notturna. Ma c' è chi ci crede. Un tizio in particolare. Tale Giuseppe Tiani. Non proprio un fesso qualsiasi. Ma il presidente di InnovaPuglia, ovvero la centrale degli appalti della Regione guidata da Michele Emiliano. Uno che gestisce un giro di forniture da un miliardo di euro all' anno. Per dire. Ebbene, se guardi il video che sta circolando in rete, puoi essere tratto in inganno. Il nostro Tiani sembra il mago do Nascimiento. Che tira fuori un amuleto dal collo della camicia - un pezzo di latta luccicante appeso a un cordino di caucciù - e ne magnifica gli effetti benefici. Validi, a suo dire, anche contro il coronavirus. Poi, se metti a fuoco meglio la scena, capisci che fa sul serio. Non è in onda su Tv Luna, ma sta parlando sul circuito interno della Camera dei deputati, in un' audizione davanti alla Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio. Tiani è anche segretario nazionale del sindacato di polizia Siap. La sua tesi è che la patacca potrebbe essere salvifica per le forze dell' ordine, proteggendole dal contagio. «Io oggi porto al collo questo micro-purificatore d' aria che costa 50 euro, di tecnologia israeliana», spiega il burocrate-sciamano. Il feticcio, precisa, crea una bolla di sicurezza di «un metro cubo intorno alla persona» e genera «dei cationi che inibiscono qualsiasi virus abbia segno positivo». Insomma, averlo con sé ha il vantaggio che nessuno ti rompe i cationi. Neanche il Covid. «È tecnologia che andrebbe distribuita alle forze di polizia del Paese e a tutti i sanitari impegnati», propone Tiani, «questo ci darebbe una mano a fare più serenamente il nostro lavoro e soprattutto a combattere il virus». L' amuleto magico, però, non protegge il presidente di InnovaPuglia dalle polemiche. E ora rischia il posto alla Regione, che gli frutta un emolumento di 40mila euro l' anno. A chiedere al governatore Michele Emiliano di rimuoverlo dall' incarico sono il parlamentare di Italia Viva Ivan Scalfarotto e l' europarlamentare salentino Andrea Caroppo. «Penso sia inutile attardarsi a commentare l' incredibile performance del presidente di InnovaPuglia sul "miracoloso" ciondolo anti-Covid. Sarebbe da riderci di gusto, se non stessimo parlando di una tragedia che anche in Puglia ha disseminato perdite, lutti e dolori. Emiliano lo cacci immediatamente e chieda scusa. Siamo oltre ogni decenza», dice Scalfarotto. «Credo che non debba trascorrere altro tempo: il signor Tiani non deve restare un minuto di più alla guida di InnovaPuglia», gli fa eco Caroppo. Mister Amuleto prova a difendersi: «Non ho mai fatto alcun accostamento tra l' utilizzo del purificatore d' aria individuale di ultima generazione ed il contrasto al Covid-19. A margine di un ben più articolato intervento in tema di immigrazione e sicurezza», spiega Tiani, «ho richiesto anche l' utilizzo della tecnologia più all' avanguardia, evidenziando ai presenti l' esistenza di uno strumento, pubblicizzato da diversi mesi dalla ditta costruttrice attraverso importanti e qualificati quotidiani nazionali e la cui scheda tecnica non è stata mai smentita, che potrebbe essere utile per la salute degli operatori». Cioè, il pataccone israeliano. Tiani si dice «basito» dal clamore delle sue dichiarazioni, oltretutto «interrotte dal presidente della Commissione». L' intromissione gli ha impedito di «concludere il ragionamento, impropriamente abbinato al contrasto del Covid a cui non è mai stato mai fatto alcun riferimento». Sul tema interviene anche il professor Roberto Burioni: «Pare che la pubblica amministrazione si impegni assiduamente a individuare chi ha detto la cosa più irreale sul Covid-19 negli ultimi mesi per affidargli infine un importante incarico». Le polemiche spingono il diretto interessato di nuovo a precisare il suo discorso, stavolta al TgNorba24. Spiega che il «senso dell' intervento era nell' ambito del decreto Sicurezza e Immigrazione», che l' intenzione è di fornire l' amuleto «al personale di polizia, che è particolarmente esposto ad agenti atmosferici infettanti, dai pollini alle polveri sottili al fumo passivo, e a tutto ciò che può essere portatore di virus che certamente non sono il coronavirus. Non mi riferivo a quello», ribadisce. Ma la frittata, oramai, è fatta.
Nicolò Zuliani per termometropolitico.it il 10 novembre 2020. Giuseppe Tiani, segretario di InnovaPuglia, vicequestore e segretario nazionale del sindacato di polizia SIAP, presenta alla camera un ciondolo anti Covid. Lo mostra alla videocamera e spiega: “Questo micropurificatore d’aria di tecnologia israeliana, per un metro cubo attorno alla persona genera dei tachioni che inibiscono, praticamente, qualsiasi virus abbia segno positivo. Ok? È tecnologia che andrebbe distribuita alle forze di polizia del paese, a tutti i sanitari impegnati, perché questo ci darebbe una mano a fare più serenamente il nostro lavoro e soprattutto a combattere il virus. È un neutralizzatore di batteri.” La gente si spertica in ironie e derisioni. Su Twitter i paragoni con Wanna Marchi si sprecano, ma a quanto pare nessuno ha idea di cosa sia quel ciondolo o da dove venga. In rete si trovano tracce di altri tentativi anticovid finiti male. In Indonesia avevano creato una collanina con essenze di eucalipto pubblicizzato dal ministro dell’agricoltura, che aveva scatenato un putiferio. Poi c’era stato lo Shut Out necklace, che sta venendo bandito negli Stati Uniti. Anche in Italia ci sono stati dei timidi tentativi non finiti benissimo, ma nessuno di questi oggetti somiglia al ciondolo mostrato dal vicequestore Tani. Da dove viene? Cos’è? Chi lo produce? Chi l’ha inventato? Si chiama AirMed, ed è prodotto da una startup italiana. “un determinato voltaggio su un’area dotata di miscroscopiche punte accuminate (scritto così, NdA) che fungono da emettitori di ioni. L’elettricità fa in modo che gli elettroni si sviluppino proprio su queste piccolissime punte, per poi essere subito espulsi ed immessi nell’aria; una volta liberati, gli elettroni cercano la molecola di ossigeno più vicina e le si aggrappano, dandole una carica negativa diventano ioni negativi”. Sul canale Youtube della AirMed si trova anche un test, che nomina una certa “Ari’oh – Breath technology”. L’articolo di Repubblica entra nei dettagli con un esperimento condotto dalla Columbia University: Sempre sul sito, alla domanda “perché usare AirMed”, le motivazioni sono che aiuta a ridurre il colesterolo nel sangue, ha effetti positivi su bambini affetti da ADHD, aiuta a proteggersi da virus influenzali, aiuta a contrastare le allergie da pollini e riniti, aiuta a contrastare il particolato (PM2,5 e PM10), aiuta a contrastare virus e batteri, aiuta a dimagrire, aiuta a dormire meglio, rafforza il sistema immunitario e favorisce l’autoguarigione, aiuta le performance cognitive e sportive. È straordinario. Secondo quanto riportato, è possibile acquistare AirMed in farmacia e in parafarmacia. Noi lo abbiamo trovato solo su Amazon, mentre non abbiamo trovato riscontri su alcun sito di farmacie o parafarmacie online, e i farmacisti interpellati da Termometro politico non l’hanno mai sentito nominare; se è una startup di Isernia, tuttavia, non è strano. Dopotutto cercano agenti di commercio. Il prezzo di listino sono 59,90 euro, non 50. Chi ha inventato AirMed è la Mendel Capital srl, fondata dai fratelli David e Daniel Feig. Due commercialisti di Isernia apparsi sull’inserto “Salute e benessere” di Repubblica e su QuotidianoMolise. Non è chiaro quale sia la sede di Mendel Capital srl; sul sito nomina solo via dei Serpenti 32 a Roma, mentre sul sito dell’Associazione Italiana Commercio Elettronico dice Corso Risorgimento 166 a Isernia, che però risulta essere la sede di tale Simone Feig, anche lui commercialista. Nella brochure che si può scaricare dal sito sono presenti entrambi gli indirizzi. Come al solito, chiudiamo con più domande che risposte. Quest’invenzione è davvero in grado di migliorare e salvare milioni di vite? Due commercialisti di Isernia hanno davvero creato un meccanismo capace di far respirare “aria più pulita fino all’87,5%“?, anticipando gli scienziati nel resto del mondo? Come mai un’invenzione simile è stata snobbata? Come ne è venuto a conoscenza, il segretario di InnovaPuglia? Aspettiamo fiduciosi qualcuno risponda.
Il presidente del “ciondolo anti-covid” si dimette dal vertice di InnovaPuglia. Il Corriere del Giorno l'11 Novembre 2020. Il segretario nazionale del sindacato di polizia Siap, travolto dalle polemiche per la presentazione ridicola alla commissione Affari costituzionali della Camera di un ‘rimedio’ israeliano al Covid, abbandona la presidenza dell’agenzia regionale che gestisce appalti sanitari dove era stato “piazzato” da Michele Emiliano. Giuseppe Tiani segretario nazionale del sindacato di polizia SIAP ridicolizzato dalle polemiche per la presentazione davanti alla commissione Affari costituzionali della Camera di un ciondolo anti-batterico, “che inibisce qualsiasi virus di segno positivo“, ha rimesso nelle mani del governatore pugliese Michele Emiliano il suo incarico di presidente della società pubblica regionale InnovaPuglia. Tiani ha abbandonato l’incarico proprio mentre si apprestava a spegnere la sua prima candelina dalla sua nomina alla guida del nuovo Consiglio di amministrazione di InnovaPuglia che gli fruttava un compenso annuo di 40mila euro, dove era stato designato da Emiliano , in sostituzione dell’ex sindaco di Bisceglie, Francesco Spina. La nomina di Tiani al vertice InnovaPuglia aveva suscitato molte polemiche clamore a causa dei trascorsi del sindacalista da esponente dell’estrema destra, avvicinandosi un anno fa al Partito Democratico, nel tentativo di conquistare un posto alle elezioni politiche del 2018, nel collegio della Bat. Travolto da una valanga di polemiche esplose a seguito della diffusione del video su siti di quotidiani e social network, Tiani dopo la figuraccia diventata “virale”, si è visto anche messo in discussione da imminenti iniziative politiche per verificare la compatibilità del suo lavoro presso la Polizia di Stato con la presidenza della società in house della Regione Puglia, che gestisce appalti milionari. “Eccoci qua. Mi ero appena ripreso dallo sbigottimento per la grande soddisfazione espressa per la Puglia in zona arancione chiaro che mi vedo costretto guardare attonito un video di uno dei tanti nominati da Emiliano che esibisce il ciondolo anti-virus. Lo ripeto per convincere più me stesso: il ciondolo che purifica l’aria dal virus” ha commentato Raffaele Fitto eurodeputato di Fratelli d’Italia. “La misura è colma. Siamo drammaticamente ancora in attesa delle centinaia di posti di terapia intensiva e subintensiva, la gente è in fila nelle ambulanze, la Puglia è zona arancione per inefficienza e non per i numeri di contagio, subiamo atteggiamenti ondivaghi che vedono scrivere e stracciare ordinanze sempre più contorte. E in questo fase drammatica c’è chi si affida agli amuleti israelinani.” ha aggiunto Fitto. “Ora tutti possono cogliere fino in fondo il livello dei nominati da questa Regione, ai quali vengono affidati compiti importanti – attacca l’eurodeputato di FdI – Abbiamo davvero raschiato il fondo del barile“. Reazione indignata da parte del ministro all’Agricoltura Teresa Bellanova: “Noi pugliesi ci siamo già passati con la Xylella. Si sarebbe dovuto ascoltare la scienza, si è preferito dar seguito alle parole di sedicenti santoni – ha scritto il ministro su Facebook – Ma quando le vesti dei santoni sono indossate da chi riveste cariche pubbliche, è ancora più intollerabile“. Nella sua lettera di dimissioni Tiani così scrive “Non ho mai messo il ciondolo in relazione al Covid ma l’ho presentato nell’ambito di un discorso in cui si parlava delle tutele operative dei poliziotti che operano in situazioni particolari“. “Il contenuto di una mia audizione, largamente travisato e volutamente strumentalizzato, ha generato un ampio quanto inaspettato clamore mediatico, non risparmiando, in modo assolutamente inappropriato, il mio ruolo di presidente di InnovaPuglia che nulla ha a che vedere con l’episodio” si era giustificato poche ore fa Tiani. “Quando lei mi conferì l’incarico di guidare Innovapuglia – continua Tiani nella sua lettera al governatore Michele Emiliano – mi chiese massima trasparenza e costante celerità nell’espletamento delle procedure di gara, ed io ho pienamente onorato l’impegno assunto, tanto che in quel settore la Regione Puglia si è distinta, anche nei confronti di altre regioni, per tempestività ed efficienza“. “Ma tutto questo non è valso a scoraggiare la gogna mediatica che si è ingiustamente abbattuta su di me” – prosegue Tiani – Quello che però non riesco ad accettare è il tentativo becero di coinvolgere nella vicenda soggetti assolutamente estranei all’accaduto come la società in house che presiedo, l’amministrazione regionale e la sua stessa persona. Questa, dunque – conclude – è la ragione che mi induce a rassegnare in modo irrevocabile le dimissioni”.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 6 dicembre 2020. Per settimane ci hanno rotto le tasche, e anche qualcos'altro, con la storia dei camici di Attilio Fontana. La Regione Lombardia da quell'operazione non ci ha rimesso un euro, anzi ne ha guadagnati, perché alla fine, a causa di un presunto conflitto d'interessi tra il fornitore e il presidente, ha ottenuto gratis decine di migliaia di indumenti per medici e infermieri. Gli stessi giornali che si sono così insistentemente appassionati alla fornitura effettuata dall'azienda di proprietà del cognato del governatore, invece, non riescono a trovare avvincente la questione del miliardo speso dallo Stato in mascherine. Una montagna di denaro che non sarebbe finita interamente nelle tasche del produttore cinese, ma sarebbe stata dirottata anche in altre interamente italiane. Così, con poco sforzo, alcuni intermediari avrebbero incassato in un sol colpo 63,5 milioni di euro: un'enormità. Lasciamo perdere i risvolti politici, i nomi dei personaggi coinvolti e la scarsa chiarezza attorno all'intera vicenda. Concentriamoci per un momento solo su due cifre: 63,5 milioni di guadagno in poche settimane e quasi 60 mila morti di Covid in pochi mesi. Già questo confronto - oltre 1.000 euro incassato a fronte di ogni decesso - imporrebbe a chiunque di accendere un faro su una incredibile e cinica speculazione messa in atto sulla pelle degli italiani. E invece no, i giornaloni si distraggono dando retta alle chiacchiere di Giuseppe Conte e si interessano di Mes e di altre faccende su Franceschini, il Quirinale e così via. Ma di affacciare in prima pagina la questione della fornitura di mascherine per un valore di oltre un miliardo, con annesso guadagno di milioni per una serie di prestanome, non se la sentono. Eppure, la storia scoperchiata dalla Verità ha prodotto anche un'indagine della magistratura, che l'altroieri ha disposto alcune perquisizioni e indagato una serie di persone. Come sanno i lettori del nostro quotidiano, ma non quelli di altri, tutto nasce da una segnalazione dell'ufficio anti riciclaggio che ha registrato in pochi giorni l'accredito di milioni su alcuni conti correnti. Che all'indirizzo Iban di una società con un fatturato di poche decine di migliaia di euro affluissero all'improvviso 12 milioni, e per di più dall'estero, non poteva non attirare l'attenzione. Così come non poteva non destare sospetti l'arrivo di un'altra sessantina di milioni sul conto di una società che fino al giorno prima ne movimentava in un anno uno o due. Gli esperti che sorvegliano i flussi di denaro a caccia di evasori e imbroglioni, devono aver drizzato subito le antenne, perché non succede tutti i giorni che degli sconosciuti si vedano accreditare simili cifre. E così ecco spuntare due oscuri personaggi, un giornalista Rai in aspettativa e un amico imprenditore, i quali avrebbero ottenuto di essere ricoperti d'oro per aver «intermediato» una fornitura di mascherine quando queste erano introvabili. In pratica il cronista, ben addentro ai giri prodiani, avrebbe messo da parte le cronache per dedicarsi agli affari. E ricordandosi di avere tra le sue conoscenze un certo numero di persone nell'ambiente dei boiardi di Stato, avrebbe bussato alla porta di Domenico Arcuri, da poco nominato super commissario all'emergenza Covid. Come dice la massima, chi trova un amico trova un tesoro e il giornalista prodiano, infatti, in un amen ha vinto alla lotteria, anzi più che alla lotteria, perché il premio di Capodanno si ferma a 5 milioni, mentre quello incassato dai fortunati intermediari è di oltre 12 volte superiore. I soldi si sarebbero dispersi rapidamente in mille rivoli, con l'arrivo sulla scena di una serie di improbabili prestanome. Una ragazza straniera di 22 anni senza arte né parte, un extracomunitario titolare di una società specializzata in succhi di frutta, eccetera. Tutto ciò naturalmente all'insaputa del commissario alle emergenze, il quale emerge solo nell'inchiesta come persona disinformata dei fatti. Lui c'era mentre il gruppetto faceva affari con le mascherine e con la salute degli italiani, ma non si è accorto di nulla. È responsabile degli appalti di banchi, dispositivi di sicurezza, siringhe e quant' altro, ma non si è accorto di nulla. Preso com' è tra mille incarichi - Invitalia, Ilva, tamponi e tamponati - sarebbe stato raggirato. Non si sarebbe accorto della maxi commissione incassata da un gruppetto di persone non proprio specializzate nell'importazione di prodotti medici. Del resto, nell'ora più buia della storia italiana (le parole le ho prese a prestito da Giuseppe Conte, il quale le ha copiate da Winston Churchill quando l'Inghilterra era aggredita dai tedeschi, mica dal Covid), era difficile far luce e capire chi incassa che cosa e perché. Il problema è che se allora i contorni dell'operazione miliardaria erano oscuri lo sono anche ora, in quanto politica e stampa si guardano bene dall'illuminare la faccenda, preferendo parlare d'altro. Per quanto ci riguarda, nonostante l'imbarazzante silenzio, continueremo a occuparcene. Soprattutto continueremo a porci una domanda: ma se Domenico Arcuri si è fatto soffiare sotto il naso 63,5 milioni, perché Conte, dopo tutti i disastri, gli vuole affidare anche la distribuzione dei vaccini? Per ottenere una risposta servirebbe che le conferenze stampa fossero vere e non finte, organizzate dall'ufficio stampa di Palazzo Chigi per interrogativi senza repliche.
Dagospia il 18 dicembre 2020. Dalla pagina Facebook di ''Fuori dal Coro'': Le mascherine cinesi di Arcuri? Dietro la super provvigione di 72 milioni di euro incassata da Mario Benotti, Andrea Vincenzo Tommasi e Jorge Solis c’è un’azienda che era stata creata appena 5 giorni prima della firma del contratto. Il 50 per cento dell’appalto da 1,2 miliardi di euro, infatti, è stato aggiudicato il 15 aprile 2020 alla Luokai Yongjia Trading Co. Che, come testimonia un documento esclusivo che sarà mostrato nella prossima puntata di “Fuori dal Coro”, è stata creata nei giorni immediatamente precedenti, esattamente il 10 aprile 2020. Com’è possibile che il caporedattore Rai in aspettativa e l’ingegnere aerospaziale la conoscessero? E perché comprare materiale sanitario da una società appena nata? Non è tutto. Nell’inchiesta, che sarà trasmessa prossimamente dalla trasmissione di Rete4, condotta da Mario Giordano, risulta che dietro la Luokai ci sia un’azienda (la Prince International) che non è specializzata nella produzione di mascherine ma nella produzione di valvole e altri prodotti idraulici per impianti petroliferi. La quale azienda è strettamente collegata con una società di Settimo Milanese, la Athena Engineering srl. La Athena Engineering e la Prince International, per altro, hanno pure lo stesso azionista di maggioranza, mister Pan Qiuhe, che possiede il 70 per cento di entrambe. Ricapitolando: l’Italia, tramite la struttura del commissario straordinario, acquista mascherine per 1,2 miliardi di euro da due società cinesi, che pagano 72 milioni di euro di provvigioni a Mario Benotti, Andrea Tommasi e Jorge Solis. Una di queste due società cinesi, quando firma il contratto, è stata costituita da appena cinque giorni, e fa parte di un gruppo specializzato in valvole per impianti petroliferi che ha una sede importante a Settimo Milanese. Come mai ci si è rivolti proprio a questa società? Che c’entrano le valvole per gli impianti petroliferi con il materiale sanitario? E perché per stabilire un contatto con un gruppo cinese che ha radici a Settimo Milanese c’è stato bisogno dell’intermediazione di Tommasi, Solis e Benotti? In attesa delle risposte che arriveranno dalla Procura, l’inchiesta di #Fuoridalcoro continua!
Giacomo Amadori Giuseppe China per “la Verità” il 18 dicembre 2020. L'inchiesta per l' acquisto di 800 milioni di mascherine cinesi da parte della struttura del Commissario straordinario per l' emergenza sanitaria ruota tutta intorno al ruolo del commissario Domenico Arcuri (non indagato), che gli inquirenti romani ritengono sia stato messo in mezzo dai soggetti che hanno incassato la bellezza di 63,5 milioni di commissioni. In particolare da Mario Benotti, giornalista Rai in aspettativa non retribuita, che avrebbe «sfruttato le sue relazioni personali con Arcuri» per far ottenere le commesse agli imprenditori Andrea Vincenzo Tommasi e Jorge Solis, impegnati in settori diversi da quello biomedicale. Ma per configurare il reato di traffico di influenze di cui sono accusati sei degli otto indagati occorre esercitare indebite pressioni sul pubblico ufficiale. E Benotti, il trait-d' union della presunta cricca con Arcuri, nega di aver effettuato alcuna pressione. Anzi di essere stato da lui incalzato. Ai suoi avvocati, Alessandro Sammarco e Giuseppe Ioppolo, ha riferito di conservare nel cellulare i messaggi di sollecito ricevuti dallo stesso Arcuri. Mercoledì in un' intervista rilasciata a Bruno Vespa, Benotti ha dichiarato: «Era un periodo in cui io parlavo con Arcuri di varie questioni. Stavo preparando un libro, su questioni di politica industriale eccetera. Poi scoppiò l' emergenza e fra le tante persone che, immagino, siano state interpellate, Arcuri mi chiese di dare una mano nella ricerca di dispositivi di protezione individuale () Misi in contatto la Protezione civile, cioè l' ufficio del commissario Arcuri, e la persona che ritenevo in quel momento più importante». Cioè l' ingegnere Tommasi. A questo punto il giornalista aggiunge: «Quando cercai evidentemente all' interno dei miei contatti, di vedere come si poteva dare una mano, io informai Arcuri: "Forse abbiamo una soluzione" e Arcuri mi mise immediatamente in contatto con la struttura tecnica. Dopodiché, Arcuri in questa vicenda non è più entrato».
Non è chiaro quando tutto questo sarebbe successo. E in questa storia le date sono importanti. Noi purtroppo non siamo riusciti a parlare con Benotti, ma ci piacerebbe avere dei chiarimenti sulla sua ricostruzione. Infatti Arcuri a inizio marzo era ancora l' ad di Invitalia e la sua nomina a commissario straordinario è stata annunciata dal premier Giuseppe Conte solo il 12 marzo, nomina divenuta effettiva il 17 dello stesso mese. Ma gli investigatori hanno scovato le proposte di incarico da parte di due aziende cinesi, aventi a oggetto «consulenza in tema di promozione e vendita -in Paesi diversi dalla Cina- di dispositivi medici», datate 10 marzo e 16 marzo. Dunque a partire dal 10 marzo Tommasi aveva pronti i fornitori che avrebbero fatto planare sull' Italia oltre 800 milioni di mascherine in Italia, anche se i contratti sono stati firmati il 25 marzo e il 15 aprile. È vero che è stato Arcuri a chiedere aiuto a Benotti e non, invece, il giornalista a proporsi? Se è così, perché il commissario si è rivolto a un uomo impegnato in business molto diversi da quello delle mascherine? E ancora, Arcuri ha incaricato Benotti quando era già commissario o prima? C' entrano qualcosa i rapporti di Benotti con la politica nel suo coinvolgimento da parte della struttura emergenziale? A Porta a Porta il giornalista ha negato: «Io non ho utilizzato nessun canale della politica né della maggioranza, né dell' opposizione» e ha assicurato che «nessun uomo politico sapeva della provvigione». Quando Vespa ha fatto notare a Benotti che le sue aziende si occupavano di tutt' altro, lui ha risposto: «Io presiedo un consorzio di ricerca pubblico e privato, che lavora nel settore delle scienze della vita e con una serie di società collegate e una serie di contatti internazionali». Questo consorzio si chiama Optel, ha sede a Mesagne in provincia di Brindisi e su Internet si legge che è «attivo nel settore della ricerca in campo della microelettronica, meccatronica, sensoristica avanzata di estrema precisione, con applicazione (esemplificative) in campo militare, civile, medico e di protezione idrogeologica». Insomma i dispositivi non sembrano proprio il core-business. In più nell' oggetto sociale si legge anche che «il Consorzio non ha scopo di lucro e che la sua gestione non deve portare alla distribuzione di utili sotto qualsiasi forma». Per incassare la provvigione da 12 milioni di euro Benotti ha scelto un' altra delle società in cui ha un ruolo, la Microproducts It. Ricavi senza spese, ottenuti mettendo semplicemente in contatto Arcuri con Tommasi e poi quest' ultimo con la struttura. Durante l' intervista il giornalista imprenditore ha sparato un po' di numeri a caso, sostenendo che grazie a lui lo Stato avrebbe risparmiato quasi 850 milioni di euro, rispetto ai prezzi stabiliti dalla Consip, e che a marzo le mascherine chirurgiche si pagavano anche «7, 8, 10 o 12 euro». Infine Benotti ha scaricato sul socio Tommasi la decisione di coinvolgere nel business l' ecuadoriano Solis, che ha incassato 3,8 milioni di commessa con una società che si occupa di bibite e che è stato segnalato agli uffici tecnici della Protezione civile dallo stesso Benotti: «Personalmente non lo conosco» ha precisato il giornalista. «A me l' ha segnalato l' ingegner Tommasi. E io ho detto alla Protezione civile che c' erano queste due persone che si stavano occupando di questa cosa. In quel momento posso aver peccato di non aver controllato che questo signore si occupasse di bevande». Alla fine Benotti ha ringraziato il Signore per l' importante guadagno e Vespa per avergli dato la possibilità di dare la sua versione: «Quello che mi sta a cuore è spiegare che questi soldi sono arrivati, sono su una società, e non sono miei personalmente e che sono soldi anche in via di reinvestimento e su cui si pagheranno le tasse. Se avessi avuto qualcosa da nascondere non li avremmo fatti venire qua».
Fabio Amendolara François de Tonquédec per “La Verità” il 20 dicembre 2020. Dopo il caso di Mario Benotti, il giornalista indagato per traffico illecito di influenze già in rapporti con la struttura del commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri, che ha mediato una fornitura da 1,25 miliardi di euro di mascherine, strascico giudiziario incluso, un altro imprenditore, questa volta con l'ombra del potenziale conflitto di interessi, incrocia la strada del manager scelto da Giuseppi per portare l'Italia fuori dalla pandemia. E quella di uno dei suoi più stretti collaboratori: il dirigente di Invitalia Roberto Rizzardo, oggi a capo degli acquisti per l'emergenza Covid della struttura commissariale e Rup (responsabile unico del procedimento) nella procedura per la fornitura delle siringhe per il vaccino. Il manager Rizzardo è approdato nell'agenzia controllata dal ministero dell'Economia e delle finanze insieme con Arcuri nel 2007, con la stessa provenienza: la società di consulenza Deloitte Italy. L'attuale commissario è stato infatti amministratore delegato dal 2004 al 2007 della filiale italiana della multinazionale (una tra le maggiori società di consulenza e revisione aziendale al mondo), mentre Rizzardo è stato senior manager tra il 2003 e il 2007. Nello stesso periodo, secondo il curriculum pubblicato sul sito della multi utility a capitale pubblico Acque del Chiampo, faceva parte dello staff di Deloitte anche Antonio Pelo, amministratore unico di una delle società selezionate del bando per la fornitura delle siringhe per la somministrazione del vaccino per il Covid-19. Nel documento disponibile in Rete, che ricostruisce il suo percorso di studi che vanta anche un master alla Bocconi, il manager della ItalHealth srl unipersonale si presenta come «Editorialista della rivista Sole 24 Ore» e oltre a elencare i suoi incarichi di componente dell'Organismo di vigilanza in importanti società, descrive così la sua esperienza nella società di consulenza tra il 2003 e il 2010: «Presso la società Deloitte spa ho partecipato a numerosi progetti di consulenza relativi al miglioramento dei processi di business (processi, tecnologie, organizzazione), gestendo team da due a quattro risorse […]». La ItalHealth ha presentato offerte per i tre i lotti della fornitura, dando la disponibilità per 240 milioni di siringhe e 400 milioni di aghi, per un importo complessivo monstre (nel caso venisse acquistato l'intero quantitativo proposto, che verrebbe consegnato a partire dal mese di marzo ) di 104,6 milioni di euro. Una grandissima operazione commerciale, che in considerazione delle modalità di pagamento, ovvero 30 giorni dalla fattura che può essere emessa solo dopo il rilascio del certificato di regolare esecuzione della prestazione, richiederebbe una solidità economica di un certo livello. E a gestire la maxi fornitura milionaria si ritroverebbe ad essere la ItalHealth del dottore commercialista Pelo, che ha la sede legale a Pavia, allo stesso indirizzo della residenza del professionista (come risulta dalla scheda di Pelo sul sito dell' ordine dei commercialisti di Nocera, in provincia di Salerno) e con la società Ap partecipazioni che detiene il 100 per cento delle quote. E a meno che non abbia reclutato personale, lo dovrà fare con un solo addetto (stando a quanto risulta al 30 giugno 2020 alla Camera di commercio). La società amministrata da Pelo (10.000 euro di capitale sociale e soli 775.000 euro di valore della produzione nell' ultimo anno) arriva all'appaltone del commissario anche dopo un'annata non proprio rosea: i ricavi delle vendite e delle prestazioni, che nel 2019 sono si sono fermati a 647.543 euro (da conto economico), nel 2018 erano arrivati a 1.157.601 euro. Il bilancio Il fatturato, insomma, ha subito una contrazione di circa il 44 per cento. E anche l'utile è sceso dai 95.464 euro (2018) ai 76.377 dell'ultimo bilancio. Ma, proprio in una nota integrativa al bilancio è sottolineato: «Dall'osservazione dei dati relativi ai primi mesi dell'esercizio in corso (quindi il 2020), emerge una significativa impennata delle vendite di mascherine». Il 2020, insomma, tra mascherine e siringhe, è cominciato bene per la piccola ItalHealt del dottor Pelo. Le siringhe offerte dalle società aggiudicatarie sono 466 milioni, il fabbisogno ipotizzato dal ministero è di 157 milioni. Tra cui le siringhe del terzo lotto (ItalHealth ne ha proposte 40 milioni), con ago bloccato, che sono state definite introvabili (anche durante trasmissioni televisive) da alcuni addetti ai lavori: secondo loro la scarsa reperibilità deriva dal prezzo molto più alto rispetto alle siringhe tradizionali, e per questo poco competitivo. Nella replica di Arcuri letta dalla conduttrice di Tagadà nella puntata del 4 dicembre scorso il prezzo più alto era stato smentito, ma la scarsa disponibilità non è stata contestata. Le siringhe Dopo aver soddisfatto la priorità di dicembre e gennaio, Arcuri e il suo staff potranno valutare liberamente se e quali fornitori utilizzare in base anche alla convenienza economica. Tuttavia, come precisato nel bando, i 157 milioni non sono la quantità necessaria, ma quella che il ministero della Salute ha «attualmente stimato». Il bando prevede che tutte le esigenze del periodo successivo, anche eccedenti la quantità prevista, vengano soddisfatte attraverso il ricorso alle offerte ammesse alla gara. Nessuna ricerca di ulteriori fornitori più competitivi o più affidabili sarà possibile. In caso di una o più rinunce o di problemi nella fornitura da parte di altri fornitori (per esempio per la mancanza del requisito fondamentale dell'iscrizione del prodotto nella banca dati e nel repertorio dei dispositivi medici) la ItalHealth del dottor Pelo, ex collaboratore di Arcuri in Deloitte potrebbe trovarsi quindi a dover affrontare l'improba impresa. Sulla carta con un dipendente, e per di più da casa.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 22 novembre 2020. L'affare delle mascherine che ha portato nelle casse della Sunsky 60.000.000 di provvigioni (anche se dall'azienda dicono che sono un po' meno) è stato organizzato da Mario Benotti, ex dg di Rai World e caporedattore in aspettativa della tv di Stato, ma con ottimi addentellati nella politica. Per aver messo in contatto la Sunsky con il commissario straordinario Domenico Arcuri e con il funzionario dell'ufficio acquisti Antonio Fabbrocini ha incassato 12 milioni di euro. Il cinquantacinquenne ingegnere aerospaziale, Andrea Vincenzo Tommasi, titolare al 99% e presidente della milanese Sunsky Srl chiarisce con La Verità: «Benotti, che conosco da 5-6 anni, mi ha chiamato per chiedermi se conoscessi qualcuno che potesse vendere ventilatori». All'inizio Tommasi trova un venditore e invia delle quotazioni, ma non si arriva ai contratti. Altro passaggio a vuoto con la ricerca di guanti protettivi. Alle fine la Sunsky riesce a trovare quello che serve al governo. «Quando mi ha parlato delle mascherine, lì è venuto fuori il discorso della Cina. Ho trovato prezzi più bassi di Consip, forniti in tempi molto più rapidi e con i certificati». E l'affare va in porto. Tommasi ha parlato direttamente con Arcuri? «No, Benotti mi ha messo in contatto con Fabbrocini. Arcuri credo che abbia chiamato Benotti». A questo punto Tommasi firma un contratto di consulenza con Benotti come persona fisica. «Ho rinunciato a parte delle mie provvigioni e l'ho fatto pagare direttamente dai cinesi. Così è rimasto tutto tracciato» aggiunge l'ingegnere.trascorsi politiciMa chi è Benotti, l'uomo che sussurra ad Arcuri? È stato consigliere giuridico dell'ufficio di gabinetto del ministero delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio e consigliere del ministro del Lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti, con delega a giovani, lavoro e innovazione. È stato anche capo della segreteria particolare e consigliere per gli affari politici e istituzionali del sottosegretario di Stato con delega alle Politiche e agli Affari Europei Sandro Gozi. Nel 2020 Benotti ha proposto a Tommasi anche la sua amica Antonella Appulo come consulente per la comunicazione di Sunsky. «Mi ha detto: devi fare un po' di pubbliche relazioni e mi ha presentato lei. Credo fosse inizio anno», dice Tommasi. «Per me una persona valeva un'altra, non essendo esperto del settore». I risk manager che hanno segnalato presunti movimenti sospetti della Sunsky all'ufficio analisi finanziaria della Banca d'Italia hanno evidenziato due bonifici da 26.520 euro l'uno pagati dalla stessa Sunsky alla Appulo (uno dei quali il 19 maggio scorso). Chi è questa signora? Sul suo profilo Linkedin si presenta come funzionario del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. In effetti è stata segretaria particolare del ministro Delrio (alla cui corte ha incrociato Benotti). Nell'area trasparenza del sito del Mit compare il suo contratto a tempo determinato con validità 3 aprile 2015 - 31 luglio 2018. La Appulo sul Web viene descritta come attiva in ambiti ministeriali da circa tre lustri, prima con Clemente Mastella, poi con Mara Carfagna, successivamente con Piero Gnudi e, dal 2013, con Delrio. I risk manager che hanno fatto la segnalazione all'Antiriciclaggio hanno scovato una vecchia storia che riguarda la donna. Quando era un'esponente del movimento giovanile dell'Udeur è finita nelle carte di una maxi inchiesta della Procura di Reggio Calabria sui clan 'ndranghetisti dei Piromalli e dei Molè. A lei gli investigatori arrivarono intercettando l'indagato Aldo Miccichè e il boss Antonio Piromalli. Nel settembre 2007 il primo dice che ha parlato direttamente con la Appulo, oltre che con la segretaria particolare del Guardasigilli Mastella. I boss, svelò l'inchiesta, avevano a cuore la questione del 41 bis. La Appulo tornò alla ribalta quando il suo compagno, Marco Bonamico, ex ad di Sogei, venne assunto come dirigente della società Quadrilatero Spa, controllata dall'Anas, società sotto l'ombrello del ministero guidato all'epoca da Delrio, di cui la Appulo era collaboratrice. Torniamo alle mascherine. Alla fine il governo ha acquistato, attraverso la mediazione di Sunsky e della Microproducts it presieduta da Benotti e controllata all'80% da Partecipazioni Spa (di cui il giornalista è fondatore e vicepresidente), oltre 800 milioni di mascherine per un importo complessivo di 1.250.000.000. In Partecipazioni Spa uno dei soci è Guido Pugliesi: classe 1940, già consigliere d'amministrazione di Cinecittà holding (fino al 2005), ed ex amministratore delegato dell'Enav, la società che gestisce il traffico aereo civile in Italia. Nel 2010 è finito ai domiciliari con l'accusa di aver consegnato 200.000 euro all'ex tesoriere Udc Giuseppe Naro. Si difese sostenendo che il suo accusatore era mosso da ragioni di rancore e di vendetta perché la sua ditta era stata esclusa dall'Enav. Dopo quasi otto anni dall'imputazione, però, il Tribunale di Roma ha decretato la prescrizione del reato. Compagini societarie a parte, le provvigioni per la fornitura di 800 milioni di mascherine ammontano a circa 72.000.000 di euro, circa il 5,75 per cento del costo totale dei dispositivi. La Sunsky sostiene che siano state più basse, ma non ha voluto specificare di quanto. «Posso dirle che la consegna delle mascherine doveva iniziare quindici giorni dopo la firma dei contratti e proseguire a scaglioni sino al completamento delle forniture, con ottobre come termine ultimo», concede Tommasi. «Ma abbiamo terminato le consegne a luglio». In tutto sono stati fatti sette ordini a tre società cinesi: 231.617.647 Ffp3 sono costate 3,4 euro l'una (trasporto compreso; 110 milioni di Ffp2 da 2,16 a 2,20; 460 milioni di chirurgiche (dalla Cina, a maggio ne erano state ordinate in tutto 1,8 miliardi da 15 diversi fornitori) da 0,49 a 0,55. I prezzi erano gli stessi per le mascherine in arrivo in primavera e i dispositivi consegnati in estate (anche se il contratto parlava anche di autunno). Per fare un confronto, nella Regione Lazio, in piena emergenza, le mascherine sono state acquistate, per quantità molto inferiori, a prezzi simili: 4 milioni di Ffp3 sono costate in media 3,9 euro, 17,6 di Ffp2 3,17 e i quasi 13 milioni di chirurgiche 0,58. La Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione, ha acquistato in pieno caos le Ffp3 a 5,88, le Ffp2 a 4,58 e le chirurgiche a 0,56.l'antiriciclaggioTommasi ci assicura che la segnalazione all'Antiriciclaggio non avrebbe avuto per lui conseguenze: «Abbiamo saputo dei controlli da parte della Banca Intesa a cui abbiamo consegnato tutto. Successivamente non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione e abbiamo potuto continuare a operare, quindi deduco che i controlli abbiano certificato l'assenza di qualunque tipo di problema». Sui guadagni monstre di Tommasi e Bonetti rivelate ieri dalla Verità, i deputati di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli e Andrea Del Mastro Delle Vedove hanno presentato un'interpellanza al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza per sapere se fossero a conoscenza delle provvigioni pagate sull'acquisizione delle mascherine. Hanno anche chiesto se gli interpellati intendano far luce sui rapporti degli imprenditori coinvolti con il commissario dell'emergenza.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 dicembre 2020. Il 19 novembre scorso La Verità ha pubblicato lo scoop sul mega investimento da 1,25 miliardi di euro per l' acquisto di 800 milioni di mascherine deciso dal commissario Domenico Arcuri e gestito dal funzionario dell' ufficio acquisti Antonio Fabbrocini. Il titolo del nostro articolo era: «Indagine sulle mascherine di Arcuri». La vicenda partiva da una segnalazione del 30 luglio 2020 inviata all' Unità di informazione finanziaria della Banca d' Italia che evidenziava le provvigioni milionarie (72 milioni per l' esattezza) incassate dalla Sunsky Srl dell' ingegnere aerospaziale Andrea Vincenzo Tommasi e dal suo intermediario Mario Benotti, il giornalista Rai che per aver messo in contatto Tommasi con Arcuri avrebbe intascato ben 12 milioni di euro. Però la Sos (segnalazione di operazione sospetta, ndr) dell' Antiriciclaggio prima di finire sulle pagine del nostro quotidiano era arrivata alla Procura di Roma guidata da Giuseppe Prestipino, dando il via a un' inchiesta riservatissima che potrebbe portare a clamorosi sviluppi. A occuparsene è il pool dei reati della pubblica amministrazione coordinato dall' aggiunto Paolo Ielo. Il procuratore Prestipino non si è sbottonato, ma ha ammesso l' esistenza del fascicolo: «Ci stiamo lavorando. Non posso dire altro perché altrimenti violerei il segreto. Già ci siamo lamentati perché hanno fatto uscire sui media questa Sos. Posso dire che stiamo lavorando da tempo su quella segnalazione». All' incirca da quando è stata trasmessa alla Banca d' Italia nell' estate scorsa. È un' inchiesta importante? «Direi di sì» ammette il procuratore. C' è il massimo riserbo sui nomi degli indagati e sulle ipotesi di reato. Resta il fatto che ci troviamo di fronte a «un' inchiesta importante». «I magistrati e la guardia di finanza stanno lavorando. Dovete avere solo un po' di pazienza», conclude Prestipino. I fornitori delle mascherine erano tre ditte cinesi e secondo i risk manager delle banche gli accordi «parrebbero identici variando solo le date e la carta intestata». Nella Sos si legge pure che «sospette appaiono anche le provvigioni che sembra sarebbero riconosciute oltre che a Sunsky anche a Microproducts It Srl per quasi 12 milioni di euro a fronte di ricavi nel 2019 di circa 72.000 euro». La Microproducts, presieduta da Benotti, è controllata all' 80% da Partecipazioni Spa, di cui il giornalista è fondatore, vicepresidente e «titolare effettivo», come si legge nella segnalazione all' Antiriciclaggio. Sul sito del commissario dell' emergenza, che dipende direttamente dalla presidenza del Consiglio, a proposito delle commesse cinesi, viene data sempre la stessa spiegazione, versione ciclostile: «Il fornitore è stato individuato all' inizio del mandato del commissario tra i pochi che al mondo tra i pochi che erano in grado di offrire, in modo affidabile, notevoli quantità di mascherine a prezzi per l' epoca concorrenziali». Quasi un excusatio non petita. La fornitura che colpisce di più è quella per 450.000.0000 di mascherine chirurgiche acquistate dal commissario al prezzo di 0,49 centesimi, praticamente uguale a quello calmierato deciso la scorsa primavera da Arcuri per la vendita in farmacia. Ma in questi mesi di indagini che cosa avranno scoperto la Procura e la guardia di finanza? I prezzi delle mascherine erano congrui? I dispositivi erano regolari? Qualche politico o tecnico al servizio del governo ha beneficiato di una fetta delle generosissime commissioni pagate da Pechino? Noi nei giorni scorsi abbiamo evidenziato come l' uomo che ha portato l' ingegner Tommasi nelle stanze della politica è stato Benotti, ex stretto collaboratore di tre ministri Pd, Graziano Delrio, Sandro Gozi e Giuliano Poletti. Nella segnalazione all' Antiriciclaggio veniva evidenziato anche un versamento di 53.000 euro in due tranche da parte della società di Tommasi ad Antonella Appulo, ex segretaria dello stesso Delrio e amica di Benotti. Tommasi, una decina di giorni fa, ci aveva fatto sapere che a proporgliela come pierre era stato lo stesso giornalista. E si era vantato anche di aver fatto risparmiare il governo soprattutto sul trasporto dei dispositivi: «Alitalia costava 750.000 euro per ogni viaggio e l' El Al (la compagnia israeliana, ndr) sui 375.000 dollari. Per lo stesso tipo di aereo (Boeing 777, ndr). Il commissario Arcuri non è riuscito a far ragionare l' amministratore di Alitalia per avere la stessa tariffa. Quindi io sono soddisfatto per essere riuscito a fare tutto ciò e a questo prezzo...», ci aveva riferito. Alessandro Sammarco e Giuseppe Ioppolo, legali di Benotti, con La Verità offrono al cronista una pista alternativa: «Siamo svolgendo indagini difensive per scoprire chi possa essere all' origine del gigantesco abbaglio mediatico riguardante questo appalto, tenuto conto che la fornitura di mascherine realizzata dalle società dei nostri assistiti ha fatto risparmiare allo Stato italiano centinaia di milioni di euro e forse ha scontentato altri soggetti che miravano a guadagni personali anche grazie al trasporto delle mascherine». Tommasi ci ha detto che l' Alitalia offriva voli al doppio del prezzo della compagnia israeliana, sta facendo riferimento a questo? «Sì. Questa è una delle ipotesi che stiamo vagliando». Benotti, come detto, è vicepresidente della Partecipazioni Spa (l' amministratore delegato è la compagna del giornalista, Daniela Guarnieri), società di cui ha ceduto il 3% delle quote, nel 2015, all' ottantenne Guido Pugliesi, ex amministratore dell' Enav, l' ente che gestisce il traffico aereo civile in Italia. Il restante 97% della ditta appartiene alla Cardusio fiduciaria, «mentre Benotti», si legge nella segnalazione, «è stato indicato come il titolare effettivo». Nella Sos del 30 luglio 2020 è specificato che Pugliesi e Benotti sono stati «attenzionati» in un altro alert bancario per alcuni bonifici scambiati tra loro o indirizzati a terzi soggetti: «I prestiti personali tra Pugliesi e Benotti», specifica la comunicazione all' Antiriclaggio, «le implicazioni processuali (sono stati entrambi sottoposti a procedimenti giudiziari: il primo è stato prescritto, il secondo archiviato, ndr) e le connessioni societarie tra loro intercorrenti lasciano emergere relazioni non adeguatamente giustificate, tali da non consentire di stabilire con certezza la liceità della destinazione finale delle somme in uscita». Il documento è datato 25 settembre 2019. Dieci mesi dopo alla Banca d' Italia è arrivata la segnalazione sul grande affare delle mascherine. Ed è partita l'«importante inchiesta» della Procura di Roma.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 6 dicembre 2020. Dai misteri di San Marino a quelli vaticani, nell'inchiesta delle mascherine acquistate da tre ditte cinesi dal Commissario straordinario per l'emergenza sanitaria Domenico Arcuri sta entrando davvero di tutto. La vicenda è nota ai nostri lettori: la Procura di Roma ha aperto un fascicolo (il 37684 del 2020) per traffico illecito di influenze nei confronti di sei persone accusate di aver portato a casa commesse per 1,25 miliardi di euro grazie ai rapporti con Arcuri di Mario Benotti, a sua volta indagato. Quest' ultimo è un giornalista Rai in aspettativa considerato «esposto politicamente» e con importanti entrature in Vaticano (il padre era il vicedirettore dell'Osservatore romano, Teofilo Benotti). Benotti, difeso dagli avvocati Alessandro Sammarco e Giuseppe Ioppolo, ha incassato attraverso la sua Microproducts It Srl ben 12 milioni di commissioni. Gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria a casa sua, un bell'appartamento con vista su Castel Sant' Angelo, hanno portato via computer e faldoni relativi ai contratti con le aziende cinesi produttrici di mascherine. Perquisizione anche a casa del banchiere sammarinese Daniele Guidi, difeso dall'avvocato Massimo Dinoia, lo stesso, per citare qualche cliente, di Marco Carrai e Cecilia Marogna. I pm romani, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, nei decreti di sequestro hanno scritto: «Risulta altresì che partner di Tommasi sia stato Guidi che, unitamente a Tommasi, ha curato l'aspetto organizzativo e, in particolare, i numerosi voli aerei per convogliare in Italia un quantitativo così ingente (di mascherine, ndr), compiendo i necessari investimenti». Il cinquantaquattrenne originario del Monte Titano è un manager piuttosto chiacchierato. Nel 2019 è finito sotto indagine per la gestione della Banca Cis (Credito industriale sammarinese), di cui era amministratore delegato e direttore generale, nonché socio della stessa attraverso una società lussemburghese, la Leiton. Guidi è sotto inchiesta con l'accusa di associazione per delinquere, concorso in amministrazione infedele, compartecipazione in truffa aggravata ai danni della Repubblica, corruzione e ostacolo alle funzioni di vigilanza. Il procedimento è ancora in fase di indagini preliminari. L'istituto che Guidi dirigeva è stato messo in risoluzione con un buco di oltre 400 milioni, di cui si sta facendo carico lo Stato. Oggi il manager ha lasciato la piccola Repubblica e vive in Italia dove ha intrapreso nuovi business. Quando era alla guida dell'istituto l'Aif, l'agenzia antiriciclaggio di San Marino, aveva denunciato, tra i tanti, un prestito anomalo al fratello di Romano Prodi, Vittorio. Per entrare più nel dettaglio, Banca Cis aveva finanziato con 730.000 euro la società Laboratori Protex Spa a fronte di un pegno su alcuni titoli pari a un valore di 10.000 euro. Una quota di questa società (7,84%) era di proprietà di Vittorio Prodi.Questo cognome è noto a Benotti, il quale, oltre a conoscere personalmente il Professore, è stato un collaboratore del figlioccio politico dell'ex premier, Sandro Gozi. Nell'inchiesta ci sono anche due indagate per ricettazione. Una di queste è Francesca Chaouqui, la «papessa» del caso Vatileaks, accusata per la firma di alcuni contratti di consulenza con Benotti. Anche le perquisizioni negli uffici e in casa della trentanovenne calabrese hanno riservato sorprese. Tra giganteschi spezieri del '600 e gabbie con colorati pappagalli, i finanzieri sono andati alla ricerca di documenti riguardanti le società cinesi o contenenti i nomi di pubblici ufficiali, e, invece, hanno trovato solo carte vaticane, cassetti pieni di incenso con il sigillo pontificio, timbri con stemmi della Santa sede e della Cosea (Pontificia commissione referente di studio e di indirizzo sull'organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa sede), pergamene pregiate con in filigrana la parola «secretum». Nei due appartamenti della View point strategy, società di comunicazione della Chaouqui, non sono passate inosservate le altissime pile di «(Ri)costruzione», l'ultima fatica letteraria di Benotti. La papessa, in base a un contratto di promozione firmato con il giornalista, ha infatti acquistato 1.500 copie del tomo da regalare ai clienti. Durante le operazioni i finanzieri hanno tentato inutilmente di aprire una cassaforte a muro, di cui l'indagata non possiede le chiavi, come confermato dal locatore. In un forziere bianco gli investigatori hanno trovato un archivio di documenti vaticani, distinte, bilanci, lettere e faldoni di documenti su Vatileaks, Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), Papa Francesco, Cosea, nonché diversi faldoni sul palazzo di Londra al centro di un'inchiesta vaticana. I militari hanno solo dato uno veloce a questa mole di materiale, non essendo pertinente all'inchiesta e detenuto dalla Chaouqui in veste di commissario Cosea. Infine i finanzieri si sono scervellati su un quaderno di appunti con versi di poesie ripetuti centinaia di volte. Frasi che nascondevano, attraverso la cosiddetta sequenza di Fibonacci, il codice segreto di uno scrigno. A casa della donna hanno trovato antiche copie della Divina commedia e una frase anch' essa scritta ossessivamente su antichi diari in pelle: «La pace è solo un nemico che ti sta studiando». Anch' essa nascondeva una sequenza alfanumerica. Venerdì le Fiamme gialle hanno bussato pure al dipartimento della Protezione civile. «Siamo totalmente estranei ai fatti» hanno fatto sapere da via Ulpiano, sottolineando che «i documenti acquisiti» dalla Guardia di finanza «non riguardano commesse del Dipartimento». In effetti a interessare gli investigatori erano i pareri (e i relativi documenti) del Comitato tecnico scientifico sulle forniture al centro dell'indagine. I finanzieri si sono presentati con una richiesta di esibizione atti anche in via Calabria, sede della struttura del Commissario straordinario per l'emergenza Covid. I funzionari hanno messo a disposizione la documentazione richiesta. Le perquisizioni sono state il primo atto concreto di ricerca della prova a carico degli indagati, non essendo consentite le intercettazioni per il reato di traffico illecito di influenze. Se l'esito sarà fruttuoso l'inchiesta potrebbe avere nuovi sviluppi, portando al coinvolgimento di altri soggetti e all'accertamento di ulteriori reati.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 7 dicembre 2020. Nel suo libro (Ri)costruire il giornalista Rai in aspettativa Mario Benotti, indagato per traffico illecito di influenze dalla procura di Roma per un appalto da 1,25 miliardi e 801 milioni di mascherine cinesi, non ha mancato di ringraziare l'uomo grazie al quale ha potuto incassare 12 milioni di euro di provvigioni, ovvero il commissario straordinario per l'emergenza sanitaria Domenico Arcuri. Tra una ricetta e un'altra per risollevare l'Italia e in mezzo a molti attacchi riservati a Giuseppe Conte e al suo governo, Benotti usa parole di miele per l'ad di Invitalia: «Sulla generosità umana e professionale del commissario all'emergenza e dei suoi pochi collaboratori () è stato rovesciato il compito proibitivo di fornire mascherine e respiratori, reperendoli in tutto il mondo con enormi difficoltà e responsabilità». Ovviamente molti dispositivi l'eroico Mimmo li ha trovati in Cina, grazie allo stesso Benotti. Ma il panegirico non è finito: «Di fatto, Arcuri si è trovato a supplire in poche ore e poche notti alle scelte deliranti assunte dal Paese nel corso degli anni passati, con l'uscita dal mercato dei dispositivi di protezione individuali e dei reagenti». Insomma il commissario, per Benotti, è già pronto per un monumento equestre. Forse perché, secondo gli inquirenti romani, il giornalista, «sfruttando le sue relazioni personali con Arcuri () si faceva prima promettere e quindi dare indebitamente () la somma di 11.948.852 euro». Non è però ancora chiaro da quanto tempo Arcuri e Benotti si conoscano e quando l'indagato abbia attivato il suo canale con il commissario. Sfruculiando tra i contratti di intermediazione che hanno permesso all'ingegnere aerospaziale Andrea Vincenzo Tommasi, alla sua Sunsky Srl, all'ecuadoriano Jorge Solis e a Benotti di incassare 63,5 milioni di commissioni, si intuisce, però, che la presunta cricca delle mascherine (che al momento conta 8 indagati) qualche via preferenziale potrebbe averla trovata. A pagina 4 dei decreti di perquisizione si legge che gli inquirenti hanno scovato le proposte di incarico da parte di due aziende cinesi, aventi a oggetto «consulenza in tema di promozione e vendita - in Paesi diversi dalla Cina - di dispositivi medici». Datate 10 marzo e 16 marzo, sono state accettate dalla Sunsky Srl di Tommasi solo il 28 marzo, quando gli ordini erano già stati formalizzati da tre giorni. Inoltre, le toghe scrivono che le lettere di proposta di mediazione «sono redatte con il medesimo carattere e le medesime impostazioni grafiche». Quindi è lecito pensare che, come spesso succede, sia stata la stessa Sunsky ad averle predisposte e ad aver detto ai cinesi: se vi interessa la fornitura inviatemi questa proposta. Nelle carte c'è anche una bozza di incarico del 12 aprile 2020 della Luokai Trade (Yongjia) con «medesimo oggetto», ma «senza data di accettazione». In ogni caso anche la Luokai ha fornito i suoi dispositivi al commissario e ha pagato le provvigioni. Ma concentriamoci sulle proposte d'incarico del 10 e del 16 marzo. La sera dell'11 dello stesso mese il premier Conte aveva annunciato via Facebook agli italiani la nomina di Arcuri a commissario «per potenziare la risposta delle strutture ospedaliere a questa emergenza sanitaria» e aveva puntualizzato che l'ad di Invitalia avrebbe avuto «ampi poteri di deroga». Arcuri (nominato ufficialmente il 17 marzo 2020) dal 5 marzo partecipava alle riunioni per l'emergenza con Conte e la Protezione civile. Cinque giorni dopo, il 10 marzo, Benotti e Tommasi si erano già attivati per predisporre i contratti per beneficiare delle lucrose commissioni. A quanto ci risulta, prima del 10 marzo, gli indagati non avevano contattato la Protezione civile, come confermano dalla sede di via Ulpiano: «Possiamo dire che con ogni probabilità, anche se non abbiamo potuto fare una ricerca accurata, questi signori non si sono mai palesati con noi, anche perché se ci avessero proposto così tanti dispositivi ce lo ricorderemmo. Era una commessa importante e in quel periodo eravamo alla disperata ricerca di mascherine». Neanche alla Consip, la centrale acquisti dello Stato, ricordano Tommasi e Benotti. Consip richiedeva fideiussioni e la Protezione civile faceva l'esame del sangue a mediatori o fornitori. Chissà se avrebbero preso in considerazione una società come quella di Tommasi impegnata nella consulenza nel settore della Difesa e dell'aeronautica e con un capitale sociale di 100.000 euro a fronte di una fornitura da 1,25 miliardi. A questo punto non si può escludere che Benotti, il trait d'union con Arcuri, disponesse di informazioni privilegiate e che prima del 10 marzo sapesse che l'ad di Invitalia stava per essere nominato commissario e che avrebbe avuto il potere di disporre forniture miliardarie senza gara. Infatti prima del 17 marzo questo tipo di affidamenti era disposto solo dalla Protezione civile. Che però non sarebbe stata contattata da Benotti & C. In alternativa le forniture dovevano avvenire attraverso gare Consip. L'inviato della Rai nel suo tomo elogia pure l'intenso lavoro di Arcuri per la riconversione delle aziende italiane nel settore della produzione delle mascherine. Ma, alla fine, deve ammettere che tutt' oggi «alle gare pubbliche nel settore partecipano - attraverso il principio del massimo ribasso e senza puntare sulle società operanti in Italia - solo aziende provenienti da Cina e Corea o dall'Oriente in generale poiché, se si vuole ottenere una fornitura di mascherine chirurgiche a 8 centesimi - come recentemente accaduto - non vi sono molte altre soluzioni». E pensare, che grazie a lui, Arcuri, a marzo e aprile, le chirurgiche cinesi (460 milioni di pezzi) le aveva pagate tra 49 e 55 centesimi.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 5 dicembre 2020. Il Paese è affamato di mascherine. Il periodo è aprile marzo. Il commissario straordinario Domenico Arcuri è in affanno. Non si trovano i dispositivi. Il giornalista in aspettativa della Rai, Mario Benotti ha però la soluzione in tasca: grazie al suo amico, l'ingegnere Andrea Vincenzo Tommasi con ottimi agganci in estremo oriente, è in grado di far piovere sull'Italia 800 milioni tra chirurgiche, ffp2 e ffp3. Merce made in China. Costo dell'operazione un miliardo e 251 milioni di euro. Fin qui tutto regolare, i prezzi sarebbero in linea con il folle mercato di quei mesi. Ma il dato che fa partire la segnalazione di operazione sospetta (sos) da Bankitalia, la successiva indagine della procura e le perquisizioni del valutario della finanza di ieri sono i denari che la coppia Tommasi-Benotti incassa per aver mediato l'operazione: quasi 60 milioni di euro. Da qui parte l'inchiesta. A Roma la procura, l'aggiunto Paolo Ielo, apre un fascicolo ed iscrive per traffico di influenze illecite Benotti. Implicati nell'inchiesta anche Tommasi e Antonella Appulo ex segretaria dell'ex ministro ai Trasporti e infrastrutture Graziano Delrio. Inoltre anche Francesca Immacolata Chaoqui, nota alle cronache per gli scandali nella vicenda Vatileaks, finisce sotto la lente della procura. Riciclaggio, l'accusa rivolta alla dama nera. La donna, 39 anni, ha incassato con la sua società View Point Strategy, 220mila euro tra aprile e novembre da Benotti. Denaro, si legge nel decreto di perquisizione, frutto «del reato di traffico illecito di influenze commesso» proprio dal giornalista Rai. In sostanza, questa è la tesi degli inquirenti, la Chaoqui avrebbe incassato consapevolmente soldi che provengono da un'operazione sporca. L'operazione sporca in questione sarebbe, come emerge dalle carte della procura, proprio la mediazione esercitata da Benotti nei palazzi romani: «ricorrono gravi indizi del reato contestato (traffico di influenze illecite), essendo emerso dagli accertamenti svolti che le forniture ordinate dal commissario straordinario alle società indicate nell'incolpazione siano state illecitamente intermediate da Mario Benotti». Quest' ultimo, scrivono sempre gli inquirenti avrebbe «sfruttato la personale conoscenza con» Arcuri «facendosene retribuire, in modo occulto e non giustificato da esercizio di mediazione professionale istituzionale». In pratica Benotti si sarebbe mosso all'interno dei palazzi del potere per far recapitare l'offerta a chi di dovere esercitando attività di lobbying mentre il suo socio Tommasi si muoveva in direzione del Dragone per garantirsi la maxi fornitura. Un business concluso con successo con le due società cinesi la Wenzhou Moon Ray e la Wenzhou Light che fanno piovere le mascherine nel paese in virtù di «sei ordini commessi dal governo italiano». Nel frattempo le due aziende cinesi versano una cascata di milioni anche a due società italiane a titolo di provvigione (i 60 milioni di euro). La fetta più grossa va alla Sunsky di Tommasi l'altra alla Microproduts di Benotti. Dopodiché 53mila euro dalla Sunsky approdano sul conto di Antonella Appullo. Così scrivono gli inquirenti «movimento finanziario giustificato mediante false fatturazioni». A richiedere il pagamento a Tommasi è Benotti, si legge sempre nelle carte. «Benotti - compare nel decreto di perquisizione - intrattiene uno stretto rapporto con Appulo, anch' ella con passato politico». La Chaoqui spiega di «non sapere nulla sulla provenienza dei soldi» e che quei compensi incassati sono relativi a dei «servizi di produzioni web e comunicazione richiesti da Benotti che aveva conosciuto in Vaticano». In un nota gli uffici del Commissario straordinario per l'emergenza hanno fatto sapere di aver «consegnato alla Finanza tutta la documentazione relativa ai contratti di forniture dei dispositivi sottoscritti agli inizi dell'emergenza con alcune aziende cinesi».
Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 dicembre 2020. Per la storia dell'appalto monstre da 1,25 miliardi di euro, spesi dalla struttura del commissario straordinario per l'emergenza sanitaria, Domenico Arcuri, ieri sono scattate le perquisizioni ordinate dai pm romani Gennaro Varone e Fabrizio Tucci. I principali indagati sono Mario Benotti, giornalista in aspettativa, già stretto collaboratore di tre ministri Pd (Sandro Gozi, Giuliano Poletti e Graziano Delrio) e intermediario dell'affare, accusato di traffico illecito di influenze, insieme con il socio Andrea Vincenzo Tommasi, ingegnere aerospaziale, proprietario della milanese Sunsky Srl che ha importato dalla Cina circa 800 milioni di mascherine che avrebbero fruttato almeno 63,5 milioni di euro in provvigioni a Tommasi, Benotti e alla loro presunta cricca. Il cronista viene definito dagli inquirenti «persona politicamente esposta per essere stato già consulente presso la presidenza del Consiglio dei ministri, con notevoli entrature nel mondo della politica e dell'alta dirigenza bancaria». Da quanto si apprende dal decreto di perquisizione consegnato a Benotti, sono accusati di traffico illecito di influenze pure la compagna Daniela Rossana Guarnieri, il quarantanovenne equadoriano Jorge Edisson Solis San Andres, il cinquantaquattrenne banchiere sammarinese Daniele Guidi e il sessantatreenne l'avvocato Georges Fares Skandam Khouzam, nativo di Mantova, ma con origini mediorientali. L'ex funzionaria ministeriale Antonella Appulo e l'imprenditrice Francesca Chaouqui, la «Papessa» del caso Vatileaks, sono invece accusate di ricettazione. In tutto ci sono quindi almeno otto indagati. Nel decreto si legge che Benotti, «sfruttando le sue relazioni personali con Domenico Arcuri, commissario nazionale per l'emergenza Covid, si faceva prima promettere e quindi dare indebitamente da Andrea Tommasi, Daniele Guidi e Jorge Edisson Solis San Andres, la somma di 11.948.852 euro» di cui quasi 9 milioni sono confluiti sul conto della Microproducts It Srl, di cui la Guarnieri è la legale rappresentante, e 3 milioni su quello della controllante Partecipazioni Spa presieduta da Khouzam. Quei 12 milioni sono considerati dai pm romani una «remunerazione indebita () -perché svolta al di fuori da un ruolo professionale/istituzionale - della sua mediazione illecita, siccome occulta e fondata sulle relazioni con il predetto commissario». Le commesse cinesi di cui parliamo da giorni su questo giornale sarebbero state individuate grazie all'intermediazione di Tommasi, Guidi e Solis San Andres, i quali avrebbero ricevuto 59.705.882 euro, sui conti di Susnky, l'azienda di Tommasi, e 3,8 milioni, sui conti della Guernica dell'imprenditore equadoriano. Tommasi avrebbe provveduto a richiedere alle società cinesi «di accreditare il compenso illecito a Benotti sui conti correnti delle due aziende». Quindi in totale le provvigioni ammonterebbero, come detto, a 63,5 milioni e non a 72 come denunciato dall'Antiriciclaggio. Nei decreti di perquisizione si legge che i soldi sono giunti sui conti tra marzo e il 14 luglio 2020, che «c'è l'aggravante» del coinvolgimento di «cinque o più persone» e che «ricorrono gravi e fondati del reato provvisoriamente contestato». Le toghe hanno anche riassunto il presunto disegno criminale: «Lo schema di azione che ne risulta è quello dell'intermediario, il quale, forte del suo credito verso un pubblico ufficiale, ottiene, per sé e per i suoi soci, un compenso per una mediazione andata a buon fine». Ieri mattina gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria di Roma si sono presentati prima delle 7 del mattino nelle case degli indagati, hanno copiato le memorie dei cellulari e dei computer alla ricerca di riscontri all'ipotesi accusatoria. Ad almeno uno degli indagati hanno fatto domande anche su Antonio Fabbrocini, funzionario dell'ufficio acquisti della struttura commissariale, e su Mauro Bonaretti, entrambi non indagati. Bonaretti, magistrato della Corte dei conti, è stato inserito la scorsa primavera nello staff ristretto di Arcuri. In passato era stato direttore generale del Comune di Reggio Emilia con Delrio sindaco e al seguito dell'attuale capogruppo Pd della Camera aveva ricoperto gli incarichi di segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri e di capo di gabinetto al ministero dei Lavori pubblici e trasporti e in quello degli Affari regionali. Benotti e Bonaretti hanno affiancato nello stesso periodo Delrio al ministero dei Trasporti. La Procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati anche Daniele Guidi «che, unitamente a Tommasi, ha curato l'aspetto organizzativo e in particolare i numerosi voli aerei necessari per convogliare in Italia un quantitativo così ingente (di mascherine, ndr), compiendo i necessari investimenti». Guidi, nel gennaio 2019, è stato posto agli arresti domiciliari dal Tribunale di San Marino (e liberato poco dopo). Ai tempi era direttore generale e ad di Banca Cis. I magistrati nell'ordinanza di custodia cautelare gli avevano contestato i reati di associazione per delinquere, concorso in amministrazione infedele, compartecipazione in truffa aggravata ai danni della Repubblica, corruzione e ostacolo alle funzioni di vigilanza. Il procedimento è in corso. La Procura di Roma, per bocca del procuratore aggiunto Paolo Ielo, si è affrettata a far sapere che «il commissario straordinario Arcuri è totalmente estraneo alle indagini», che il suo nome sarebbe stato «sfruttato» da Benotti per ottenere il maxi appalto e che il dipartimento della Protezione civile sarebbe il «soggetto danneggiato». La difesa di Arcuri da parte della Procura è arrivata quasi a scatola chiusa, mentre i finanzieri effettuavano sequestri e facevano domande. In effetti, se il pubblico ufficiale fosse coinvolto, l'accusa non sarebbe di traffico illecito di influenze, ma, per esempio, di corruzione. Gli inquirenti hanno ribadito che le verifiche sono partite da una segnalazione di operazione sospetta della Banca d'Italia e che «la pubblicazione di quelle informazioni» da parte della Verità «ha danneggiato le indagini». Per i pm «la ragione della segnalazione è nell'anomalia consistente nell'estraneità della rappresentata intermediazione delle due società (Sunsky e Micorproducts It, ndr) rispetto al loro oggetto sociale e nell'incoerenza del volume delle commissioni percepite, rispetto al fatturato degli esercizi precedenti». Avrebbero fatto da intermediari in settori che non compaiono nell'oggetto sociale, con spropositate provvigioni. Nel decreto è specificato che l'azienda di Benotti è nata nel 2015 per l'offerta di servizi di ricerca e sviluppo nel campo delle scienze naturali e dell'ingegneria, non certo per la compravendita di attrezzature mediche. La Microproducts è controllata per il 20% dalla Guarnieri e per l'80 dalla Partecipazioni Spa. Per i magistrati il 76,7 per cento del capitale di quest' ultima appartiene proprio a Benotti, nonostante ufficialmente sia intestato a una fiduciaria. Secondo gli inquirenti il giornalista «è aduso a schermare i suoi rapporti bancari attraverso l'utilizzo di società fiduciarie». La Banca d'Italia ha segnalato anche un'altra impresa con sede a Roma, la Guernica srl, costituita il 28 marzo 2018, avente come socio unico e amministratore Dayanna Andreina Solis Cedeno, una ventiduenne equadoriana studentessa di cinema in un'università romana. Per gli inquirenti sarebbe una «testa di legno» del padre Jorge, amministratore di fatto e indagato, e la sua ditta sarebbe stata «beneficiaria di accredito per euro 3.800.000 dalla (nota) Wenzhou Light». Anche Guernica presenta un oggetto sociale che non c'entra nulla con le mascherine («inconferente con il commercio dei presidi sanitari», scrivono i pm): ufficialmente si occupa di ricerche di mercato nel campo del marketing, strategie di mercato per lancio di prodotti o servizi o strategie pubblicitarie. Inoltre «la Guernica srl, così come la Microproducts It srl di Benotti, non compare in alcuna lettera di commissione». Non è finita. Benotti, sottolineano sempre i magistrati, «intrattiene uno stretto rapporto con Antonella Appulo, anch' ella con passato politico». Sul suo profilo Linkedin la donna si presenta come funzionario del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, dove ha lavorato con un contratto a tempo determinato dal 2015 al 2018. È stata segretaria particolare del solito ministro Delrio. Continuano i magistrati: «Le rimesse di denaro che dall'affare la Appulo ha ricavato è decisamente indicativo dei rapporti intercorsi tra gli attori di questa vicenda». Ed eccoli questi rapporti: «È il Tommasi, su disposizione del Benotti, a versare, dal conto corrente della Sunsky srl alla Appulo 53.000 euro, giustificando il movimento finanziario mediante false fatturazioni, simulando attività di consulenza ricevuta dalla predetta». Per questo alla donna è stata contestata la ricettazione, il reato commesso da chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto. È accusata di ricettazione anche la Chaouqui. Per questo ieri è stata perquisita la sua View point strategy srl, società di comunicazione. La «Papessa» ieri è la sola che abbiamo trovato disponibile a parlare. È accusata di aver ricevuto in due tranche, tra aprile e settembre 2020, sui conti della sua azienda, 232.216 considerati frutto di «un ingiusto profitto», cioè «compendio del reato di traffico illecito di influenze». Gli investigatori sostengono che sarebbe stata a conoscenza della provenienza delittuosa: «Io delle mascherine non sapevo niente, niente, niente» ribatte lei. «La Microproducts era mia cliente e la mia agenzia la sua fornitrice. Ho firmato con loro una serie di contratti: uno per un evento estivo per 150 persone in galleria Borghese, museo che abbiamo affittato in esclusiva, offrendo guide private e catering, al costo di 35-40.000 euro; un altro per la realizzazione del libro (Ri)costruzione firmato da Benotti, per cui ci siamo occupati di tutto, dalla grafica ai contenuti, e di cui abbiamo acquistato 1.500 copie per i clienti. Spesa: circa 60.000 euro. Infine ci siamo occupati di riprese, montaggio, testi e messa in onda del canale Youtube del Democristiano in borghese dello stesso Benotti. Un programma che ha impegnato sette persone per 30 puntate, 21 già online, ognuna delle quali è costata 7-8.000 euro, materiali e trasferte escluse. Abbiamo gestito anche un blog e una rubrica che Benotti tiene su altri due siti e, a partire da aprile, tutti i suoi canali social, fornendo report mensili. Le posso assicurare che abbiamo incassato meno di quanto abbiamo fornito». La View point strategy una settimana fa, dopo il primo scoop della Verità, era stata incaricata dalla Partecipazioni Spa della «comunicazione di crisi». L'ultima parola la concediamo all'avvocato di Benotti, Alessandro Sammarco: «La Protezione civile aveva bisogno di mascherine e le società private le hanno trovate ai prezzi imposti, facendo risparmiare centinaia di milioni allo Stato italiano. A pagare le provvigioni sono state le aziende cinesi. Mi dite dove è il traffico illecito di influenze?». La risposta la dovranno trovare i magistrati.
Da leggo.it il 27 novembre 2020. Il commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri, ospite questa mattina ad Agorà su Rai3, ha parlato della scuola, dei vaccini e del suo ruolo, rispondendo al sarcasmo di chi lo ha ribattezzato come 'supereroe': «Da otto mesi faccio il mestiere complicato del commissario e vorrei sfatare la leggenda per cui io faccia troppe cose. In realtà tutte le attività che mi vengono richieste hanno a che fare con l'emergenza. Lavoro coordinando decine di persone che da marzo si occupano di questa tragedia che attraversa il mondo», ha detto Arcuri. «Non ho particolari problematiche o tensioni in questi mesi, anzi ho ricevuto dal Governo il massimo supporto - dice - Ho discusso con gli amministratori locali ma questa dialettica non è mai nefasta anzi sempre positiva. Il commissario ha poteri derogatori, proprio perchè deve fare in fretta, acquisisce le decisioni del Governo e cerca di attuarle nel tempo e nel modo migliori possibile. Per quanto riguarda l'App Immuni, non sono sicuro che basti renderla obbligatoria: non basta fare il download, bisogna poi tenerla attiva».
SUI VACCINI. «Abbiamo almeno 5 vaccini arrivati alla fine della sperimentazione, stiamo aspettando che l'ente di certificazione europeo ammetta la loro immissione in commercio, stiamo preparando la rete di distribuzione, conservazione e somministrazione. Se l'Ema e Aifa autorizzeranno l'immissione in commercio, nell'ultima decade di gennaio partiremo con le prime somministrazioni agli italiani», ha aggiunto parlando del vaccino. «Il Ministro della Salute la prossima settimana presenterà in Parlamento il piano strategico per la più grande campagna di vaccinazione di massa che la nostra generazione ricordi, il Parlamento lo discuterà e ove lo approvi. partiremo con le prime categorie». «L'Esercito è al nostro fianco dall'inizio dell'emergenza e ci affiancherà anche in questa complessa operazione - aggiunge -Il numero massimo di persone che si somministrerà il vaccino aiuterà la sostanziale scomparsa della contagiosità, è un fatto matematico».
SULLA SCUOLA. «Tenere chiuse le scuole è un dolore per una comunità contemporanea e tenere insieme scuola, lavoro e salute è il faro lungo il quale ci siamo mossi e dobbiamo continuare a muoverci», ha aggiunto Arcuri. «Abbiamo iniziato a distribuire i test antigenici, ne abbiamo comprati tantissimi e già due milioni sono stati distribuiti alle Regioni nelle scorse settimane. Per quanto riguarda la riapertura con tempi stretti - aggiunge - non credo ci sia un'insormontabile vincolo organizzativo: bisogna mettere a sistema i trasporti, la scuola ma soprattutto la responsabilità delle persone. Il virus, me ne sto convincendo, non esce dalla scuola ma è entrato nella scuola. L'eccesso di mobilità e la normale volitività dei giovani deve essere il più possibile contenuta».
Conte sceglie ancora una volta Arcuri: sarà commissario per la distribuzione del vaccino anti-Covid. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Novembre 2020. Alla guida della macchina che dovrà gestire il piano di distribuzione del vaccino anti-Covid ci sarà Domenico Arcuri, commissario straordinario all’emergenza Covid. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come anticipato dall’Ansa, ha deciso di affidare il piano nazionale per la vaccinazione della popolazione all’ex AD di Invitalia, che dall’inizio dell’emergenza si è già occupato del reperimento di mascherine, tamponi, ventilatori polmonari e di tutto il materiale medico richiesto dalle Regioni per fa fronte al coronavirus. Arcuri ha anche gestito la riapertura delle scuole a settembre, con il caso dei banchi a rotelle diventato "simbolo" dei ritardi del governo, con l’arrivo quando per gli studenti era già applicata la Didattica a distanza.
PFIZER E LA "CATENA DEL FREDDO" – Secondo le previsioni, che dovranno essere confermate "sul campo", il vaccino di Pfizer-ioNTech potrebbe essere disponibile a partire da metà gennaio. Gli sviluppatori americani-tedeschi hanno già spiegato che il vaccino dovrà essere conservato a temperature tra i 70° e gli 80° sotto zero, durante tutta la catena, dalla produzione alla somministrazione, quella che è stata definita “catena del freddo” ed è attualmente la sfida logisticamente più importante da affrontare nel breve periodo.
L’ALTRO VACCINO – Attualmente l’Italia è riuscita ad ottenere 3,4 milioni di dosi per 1,7 milioni di italiani (il vaccino prevede due somministrazioni) del vaccino Pfizer. Non solo. L’Italia ha prenotato altre 70 milioni di dosi ad AstraZeneca, che produce e commercializza un vaccino messo a punto in collaborazione anche con Irbm di Pomezia e dall’Università di Oxford.
LA LOGISTICA DEL VACCINO – Nell’ottica di non farsi trovare impreparati va letta la richiesta di Raffaella Paita, parlamentare di Italia Viva presidente della Commissione Trasporti della Camera, di convocare “un ciclo di audizioni, da svolgersi in accordo con la commissione Affari sociali, che permettano di mettere in luce i vari aspetti della questione, in modo da offrire al Parlamento gli strumenti necessari per affrontarla, ascoltando le principali associazioni della logistica, i ministri competenti e il Commissario straordinario per l’emergenza”. “L’operazione di distribuzione dei vaccini rappresenta una difficilissima sfida logistica. Come spiegano i rappresentanti del settore, per vincerla è indispensabile giocare d’anticipo chiarendo già ora quali sono i mezzi e i metodi necessari”, aggiunge la Paita.
In Italia c'è un commissario per ogni disgrazia. Il Paese incapace di gestire le sue difficoltà si affida a manager dell’emergenza in ogni campo, dall'Ilva all’Alitalia, dal Mose ai comuni infiltrati dalla criminalità. Un esercito di Montalbano strapagati che non porta i risultati del poliziotto di Camilleri. Gianfranco Turano su L'Espresso il 27 novembre 2019. Paese di santi, di navigatori, di commissari. L’Italia in emergenza permanente effettiva, dal Mose all’Ilva, dall’Alitalia alle imprese edili, si consegna ad alti commissari, supercommissari, commissari straordinari, commissari prefettizi, commissari giudiziali, commissari ad acta. C’è un commissario per ogni difficoltà che non si possa risolvere attraverso le vie normali: cioè sempre. Ci sono stati commissari antimafia (1982-1993), che Giovanni Falcone considerava inutili. Commissari polivalenti come Guido Bertolaso (terremoti, vulcani, rifiuti, migranti, mondiali di ciclismo) e superspecializzati come l’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota (contraffazione) o come il democrat veneziano Paolo Costa, delegato dal governo per il traffico acqueo in laguna. Dal Grande Vecchio al Grande Montalbano il salto è stato rovinoso. Venezia, Taranto, Fiumicino rischiano di essere le pietre tombali di un esecutivo che francamente è solo l’ultimo a reggere un cerino a fine corsa. Quando è colpa di tutti, non è colpa di nessuno. Si è visto con l’acqua alta nella laguna veneta dove l’unico spettacolo più orrendo della devastazione di un gioiello architettonico senza pari al mondo è stato lo scaricabarile collettivo dei politici. Il governatore Luca Zaia ha detto che ormai tanto vale finire ma a lui il Mose non è mai piaciuto. Non si sarebbe detto a vederlo entusiasta durante la primissima inaugurazione del Mose alla bocca di Treporti nel 2013, poco dopo il primo scossone della magistratura con l’arresto di Pierluigi Baita, deus ex machina del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Baita, che ha patteggiato per le tangenti veneziane dopo l’arresto (febbraio 2013), spara a zero sui cinque anni di gestione straordinaria e denuncia “l’irresponsabilità collettiva”. Giancarlo Galan, predecessore di Zaia, che era il suo vicepresidente, si è assolto da ogni colpa sui ritardi dell’opera da 5,5 miliardi dopo avere anche lui patteggiato una condanna a due anni e dieci mesi. I veneziani Renato Brunetta (Forza Italia) e Pier Paolo Baretta (Pd) hanno rievocato il loro trauma giovanile dell’“aqua granda” del 1966. Intanto nelle ore della marea eccezionale si litigava sul sistema delle dighe: sollevarle o lasciarle sott’acqua, dove stanno arrugginendo a grande velocità? Ha prevalso la linea dell’immobilismo, dettata dal commissario Francesco Ossola, e forse è stata una fortuna dati i problemi tecnici manifestati dall’opera di recente. Ma nel picco della crisi non era chiaro a chi spettasse la parola finale, se ai commissari, e a quale dei due commissari, oppure al prefetto o ancora al provveditorato che il governo Renzi ha sostituito all’antico magistrato alle acque, dopo che due figure di vertice dell’organismo creato dai dogi (Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva) erano finite agli arresti per le tangenti del Mose, stimate complessivamente in un centinaio di milioni di euro. Così è stato nominato il supercommissario previsto da una legge del governo giallo-verde, la Sblocca cantieri, parente stretta dello Sblocca Italia di Matteo Renzi. A Venezia arriverà l’architetto Elisabetta Spitz. Il compito è di completare quel 6-7 per cento di impiantistica, e non è poco, che manca al Mose per entrare compiutamente in azione alla fine del 2021. «Ci sono tante figure di commissari», dice Luigi Magistro, terzo commissario del Cvn fino alle dimissioni senza rimpiazzo due anni e mezzo fa. «Quelli per le crisi aziendali, come per il concordato di Astaldi, o quelli che arrivano in casi di crisi giudiziaria, come il Mose. In teoria sono plenipotenziari dello Stato. In pratica, lo Stato stesso aumenta i controlli rispetto alla situazione precedente, per esempio attraverso la Corte dei conti. Giusto farlo ma i tempi si allungano. In più, il commissario subentra in casa altrui e si dà per scontato che i proprietari, per quanto delinquenti, continuino a finanziare l’impresa. Ma se dicono di no, nessuno li può costringere. Si può solo farli fallire, e non è questo l’obiettivo. Il terzo problema è che i lavori li fanno sempre loro e, se prima erano abituati a fare prezzi molto alti, tendono a insistere su questa strada. Da qui nascono altri rallentamenti e spesso il commissario passa gran parte della sua attività a replicare ai ricorsi dei proprietari». Con questo panorama, il lavoro dei commissari impegnati con il Mose non è certo stato dei peggiori. L’opera, giusta o sbagliata che sia, è andata avanti nonostante le condizioni ardue perché in questi anni sopra Venezia si è scatenata la tempesta perfetta. Al commissariamento governativo del Cvn si è aggiunta la crisi economica di quasi tutti i soci del consorzio: Mantovani-Fip (Serenissima holding), Condotte, Fincosit Grandi Lavori, Astaldi, le cooperative. La capofila Serenissima della famiglia Chiarotto a fine gennaio ha ottenuto il via libera del tribunale di Padova che ha nominato i commissari Remo Davì, Anna Paccagnella e Michele Pivotti. Il documento con la richiesta di concordato fallimentare dei Chiarotto è allo stesso tempo la carrellata su un declino finanziario e un atto di accusa. Eppure la holding è cresciuta a dismisura e in breve tempo grazie ai finanziamenti pubblici dello Stato. Nel 2013 i ricavi arrivavano al record di 633 milioni. Nel 2014, dopo l’inizio dello scandalo, erano 551, nel 2015 scendevano a 336, poi a 230 nel 2016 e a 152 milioni nel 2017. L’anno scorso il fatturato è stato di 70 milioni con 200 milioni di perdite contro i 10 milioni di utile del 2014. La colpa? «L’intervenuto commissariamento del principale committente (Cvn) e una gestione assai penalizzante nei confronti delle imprese consorziate realizzatrici dei lavori, tanto nel mancato affidamento di nuovi lavori quanto nel pagamento dei debiti pregressi». Firmato Romeo Chiarotto, il patriarca novantenne azionista del gruppo padovano. Per andare avanti la Mantovani è stata ceduta in fitto alla parmense Coge ad agosto 2018 e Serenissima aspetta di fare cassa con la cessione del 14 per cento della superstrada Ragusa-Catania, statalizzata dall’ex ministro Danilo Toninelli, e con l’11,7 per cento del raccordo anulare di Padova. Certo, che il Mose sia un’opera giusta o sbagliata non è propriamente secondario. Come non era secondario diffondere dati ridicolmente bassi sulle spese annuali di gestione delle dighe mobili. I 15-20 milioni di euro previsti sono in effetti 100 o forse più. «Può anche essere giusto che costi così tanto», dice un ex collaudatore che chiede l’anonimato. «Il problema è che dichiararlo da subito sarebbe costato il posto a chi lo diceva». Un altro commissario collaudatore, l’ex direttore generale dell’Anas Francesco Sabato, presidente della commissione di collaudo alla bocca di porto del Lido, oggi ricorda: «Nel 2004 con i miei colleghi completammo diversi controlli e presentammo una serie di rilievi. Evidentemente eravamo troppo pignoli e il Magistrato alle acque ci sostituì nel 2010. Da allora ho letto sull’Espresso del problema della ruggine nelle cerniere. Credo sia una mancanza da parte dell’impresa perché non erano certo imprevedibili gli effetti dell’acqua salata sulla parte metallica sommersa». Anche volendo attribuire alla Fip (gruppo Chiarotto) i 34 milioni di euro già spesi fuori budget per tamponare il problema, l’azienda di Selvazzano non sarebbe in grado di fare fronte. Pagherà il contribuente, come da manuale delle grandi opere in Italia. A ben guardare c’è un quarto problema oltre ai tre esposti da Magistro. È il compenso del supercommissario. Per un impegno come quello che richiede il Mose vale la legge 111 del 2011. C’è una parte fissa di 50 mila euro e una somma pari variabile secondo il raggiungimento degli obiettivi. Nella migliore delle ipotesi, si parla di 100 mila euro. Nella peggiore, sono duemila netti al mese per tenere a bada il mare Adriatico. Con questi chiari di luna si comprende come spesso la qualità del personale commissariale abbia suscitato perplessità, soprattutto quando le terne hanno dovuto affrontare situazioni complesse come quelle dei comuni colpiti contemporaneamente da infiltrazioni del crimine organizzato e situazioni di dissesto finanziario. La vicenda drammatica dell’Ilva di Taranto, per restare agli ultimi mesi, mostra che più di qualcosa non va, nonostante l’introduzione del sorteggio su una rosa di selezionati voluto dai grillini per evitare un’eccessiva concentrazione di incarichi sui soliti noti. A fine aprile si sono dimessi i commissari di nomina renziana Piero Gnudi, commercialista bolognese per decenni in testa alla lista di chi ha più incarichi, Enrico Laghi, cinquantenne che si muove sulla strada del professionista bolognese (tredici incarichi attivi tra commissariamenti, collegi sindacali, cda e liquidazioni), e Corrado Carrubba. Al loro posto, l’allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha nominato Antonio Cattaneo, Antonio Lupo e Francesco Ardito. Cattaneo ha declinato l’invito quasi subito, senza neppure entrare in carica, per possibili conflitti di interessi e si è andato a occupare della crisi di Mercatone Uno insieme a Luca Gratteri e a Giuseppe Farchione. Negli ultimi giorni, dopo che Arcelor-Mittal ha dichiarato di volere chiudere l’impianto, il Mise di Stefano Patuanelli ha incaricato una società di head-hunting di individuare un commissario straordinario, per gestire la fase di transizione. La fine di questo mese di novembre potrebbe essere la svolta per Taranto, come per il Mose e per Alitalia che paga mesi e mesi di indecisione. Ma come se non bastassero le esitazioni fra Delta e Lufthansa e il tira e molla con Atlantia, dieci giorni fa la Procura di Civitavecchia ha spedito la Guardia di finanza a caccia di documenti negli uffici di Fiumicino per verificare la posizione, e gli eventuali conflitti di interessi, dei quattro commissari straordinari Luigi Gubitosi, poi passato a guidare Tim, il suo sostituto Daniele Discepolo, l’ex rettore dell’università di Bergamo Stefano Paleari e il già citato Laghi, ex presidente di Midco, controllante della compagnia di bandiera. Sulla vicenda a giugno dell’anno scorso si era pronunciata l’Anac, allora guidata da Raffaele Cantone, che si era dichiarata incompetente «in relazione ai profili evidenziati». Rispetto ai 100 mila euro del supercommissario al Mose, il lavoro in Alitalia offre ben altre prospettive di guadagno, se la compagnia riuscirà a salvarsi. Il decreto del Mise guidato da Carlo Calenda (2017) prevede circa 10 milioni di euro complessivi per la terna. Possono sembrare tanti soldi ma sono poca cosa rispetto ai 12 milioni a testa, poi scesi a 7 milioni, contrattati dai commissari Astaldi Vincenzo Ioffredi, Francesco Rocchi e Stefano Ambrosini (recordman italiano con 50 incarichi inclusa la vecchia Alitalia). Rocchi e Ambrosini sono indagati per corruzione dalla Procura di Roma in un’inchiesta rivelata dall’Espresso all’inizio di novembre. Con loro è indagato Corrado Gatti, che doveva vagliare la bontà del piano di concordato. Laghi ha un ruolo anche nella vicenda Astaldi. Il docente di economia aziendale alla Sapienza di Roma è creditore dell’impresa per oltre 900 mila euro e ha un contratto di consulenza da 2,5 milioni per il piano che dovrebbe riportare l’impresa in buona salute con Laghi ad agire da procuratore, se andrà bene, o da liquidatore, se andrà male. Laghi ha minimizzato il suo possibile conflitto di interessi scrivendo ai commissari che i 900 mila euro sono «meno del 9 per cento del volume d’affari» suo e del suo studio nell’anno in cui si è formato il suo credito ossia una decina di milioni complessivi. Il commissario inventato da Andrea Camilleri non ha mai visto tanti soldi in vita sua.
Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate. Raffaele Simone su L'Espresso il 27 settembre 2017. Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente. Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza. La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere? «L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti. La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.
La crisi dei competenti: «Fin qui tutto male, ma può peggiorare. Lo dice la Storia». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2020. Per non venire spiazzati dal tatticismo del titolo, che potrebbe far pensare a un tardo racconto della disfatta degli intellettuali di sinistra, il nuovo libro di Raffaele Alberto Ventura, Radical choc (Einaudi) va letto da destra verso sinistra: «choc radicale». Perché è uno choc ed è radicale lo stravolgimento che sta investendo i competenti, ossia i dispensatori di quelle risposte pertinenti che generano sicurezza, favorendo lo sviluppo. Ascesa e caduta dei competenti sono inserite in un quadro agilmente vasto: dal filosofo arabo del 1300 Ibn Khaldun, con le sue intuizioni sul rapporto tra centro e periferia e la guerra simbolica per il prestigio sociale, fino al nazismo come apoteosi della macchina-Stato omicida, animata da un populismo che ha realizzato la modernità azzerando la democrazia. In mezzo, il Medioevo, l’Umanesimo e gli Stati moderni, la cui Bibbia è Il Leviatano poiché lo Stato nasce come patto postbellico.
I riferimenti pop e la fine di Hubert. Il libro, già al centro di La guerra di tutti (saggio che ha seguito l’esordio di Ventura nel 2017, Teoria della classe disagiata ), qui dialoga con il famigerato La burocratizzazione del mondo, del trozkista Bruno Rizzi: il libro già nel 1939 svelava le similitudini tra nazismo e stalinismo e, benché clandestino, ispirò Guy Debord (e indirettamente George Orwell) per La società dello spettacolo (1967): lo statalismo con la burocrazia e il capitalismo con la divisione del lavoro sono al servizio di una stessa ideologia economica che, con la maschera dello Spettacolo, domina la società con scopi razionali (sviluppo) ed effetti irrazionali (alienazione). I riferimenti pop di Ventura, funzionali a storicizzare il presente, vanno da Voltron, cartone animato Anni 80 che ricorda il Leviatano, al film L’odio (1995), con la frase «fin qui tutto bene» di Hubert che sta cadendo da un palazzo: finché non si sfracella può dirlo. Ventura invece sostiene: fin qui tutto male, ma può peggiorare, lo dice la Storia.
I costi di manager, burocrati e intellettuali. Il popolo che abita le periferie e la campagna si ribella alle élite del centro e della città quando i costi dei competenti superano i benefici (avviene non solo per la crisi economica, ma per la concorrenza interna e per la complessità delle macchine che manager, burocrati, intellettuali e impiegati devono oliare). Le rivolte, che porteranno ad altri paradigmi, spingono su leader che parlano in nome del popolo. Trump, Brexit, 5Stelle, Lega... Ecco il primo choc. Ma — secondo choc — il popolo tanto sovrano non è se la politica si fa commissariare dai tecnici, per debolezza cognitiva o alibi, mentre i tecnici stressati dall’urgenza e dalla paura di sbagliare nella propria sfera di competenza esasperano il principio di precauzione, invadendo altre sfere. La perdita di sovranità avviene anche dove non c’è dittatura: basta il regime di urgenza, com’è avvenuto in Italia.
Tecnopopulismo o il capitalismo di Stato. Gli scenari sono due: il tecnopopulismo o il capitalismo di Stato. In entrambi, la modernizzazione vuole risposte accelerate (ansia da vaccino) e meno democrazia (insofferenza per i partiti). Cosa fare? Servono competenti con un migliore equilibrio tra costi e benefici, tra centro e periferia: meno polarizzazione. Altrimenti i populisti dilagheranno, sostiene Ventura, che abbiamo intervistato.
Nel libro gli intellettuali di oggi hanno uno spazio marginale. Cita il filosofo Giorgio Agamben, che sul blog ha scritto della «supposta epidemia» sfiorando il negazionismo. Aggiungo: l’opinionista tv Andrea Scanzi prima sbeffeggia chi considera il Covid una malattia mortale e poi scrive un best-seller contro I cazzari del virus ; infine Sgarbi, critico d’arte, leader no-mask. La competenza è un optional?
«Sono esempi diversi. Il problema nel caso di Agamben, di cui rispetto l’allarme sui rischi della democrazia legati allo stato di emergenza, è la facilità di accesso a mezzi digitali che gli hanno permesso di intervenire subito su un tema in evoluzione. La macchina, la possibilità di comunicazione istantanea favorisce errori».
Il prestigio dei competenti oggi deve fare i conti con gli influencer, la cui legittimità non viene tanto da titoli, ma dalla capacità di farsi seguire. Alcuni virologi e scienziati sui social sembrano aspiranti influencer.
«Gli influencer hanno il pro di far emergere outsider, rappresentanti di minoranze prima escluse, senza dover passare da accademie o istituzioni. Io stesso arrivo dal web, non dall’università. Sono autocritico allora se dico che i social network e media hanno un meccanismo disfunzionale, il like cresce anche se causi un litigio, infiammi un dibattito violento, riporti un contenuto negativo. Gli incentivi funzionali portano a effetti positivi sulla società, quelli negativi no, sono perversi. E penso al ruolo di reclutamento politico via web, che ha ottenuto anche risultati qualitativi inferiori persino al sorteggio».
Nel libro scrive di società iatrogena, dove le cure producono effetti collaterali negativi, a volte persino patologie. Cita l’ospedalizzazione che accelera la diffusione del virus, ma pure la radicalizzazione di islamici dovuta a infiltrati dell’antiterrorismo. Come evitare di cadere nella dietrologia complottista?
«Mi interessa mostrare com’è realmente possibile diventare cospirazionisti, anche per evitarlo: la società è ossessionata dal controllo ma non riuscendo a controllare tutto crea disfunzioni. Io le analizzo per togliere moralismo, alibi, non c’è alcun cattivo che sta controllando tutto, ma ci sono strutture e burocrazie così complesse che producono pasticci che forniscono dati reali a chi crede alla dietrologia. Capire le ragioni di chi pensiamo abbia torto, populisti o complottisti, è importante, non dobbiamo avere paura, sennò abbiamo già perso».
Raffaele Alberto Ventura, nato nel 1983 a Milano, vive a Parigi, dove collabora con il Groupe d’études géopolitiques e la rivista Esprit. Sul web si è imposto con il nome di Eschaton. Il nuovo saggio Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, conclude la «trilogia del collasso» iniziata con la Teoria della classe disagiata (2017) e La guerra di tutti (2019), entrambi editi da minimumfax.
Hanno tutti ragione. La prevalenza del cretino. Stefano Cappellini su La Repubblica il 30 ottobre 2020. Questo è il numero di venerdì 30 ottobre 2020 della newsletter Hanno tutti ragione, firmata da Stefano Cappellini. L'iscrizione è inclusa nell'abbonamento a Rep:. Per attivare l'iscrizione clicca qui. Quando da adolescente lessi qualcosa di Charles Bukowski (poi passa, il guaio è se non passa, allora fatevi vedere) una frase mi fece molto arrovellare. Suonava più o meno così: “Preferirò sempre un intelligente del partito avversario a un cretino del mio partito”. Da subito mi interrogai con un certo tormento: sono d’accordo? E se sono d’accordo, che senso può avere, allora, aderire a un partito? E se invece non sono d’accordo, significa che preferisco l’ottusa militanza alla libera intelligenza? O forse bisogna provare a smontare la costruzione, e distinguere tra lato umano della cosa (ha ragione Bukowski) e lato politico (ha torto Bukowski)? Quella frase, comunque, all'epoca mi diede fastidio. Mi parve, al fondo, un po' qualunquista. E infatti è una trappola che pare funzionare proprio all’opposto del suo autore: fatta apposta per dispiacerti a 16 anni e convincerti a 40. Pare. Ma è davvero così? Mi è tornata in mente, quella vecchia citazione, per via del dibattito intorno al governo Conte e alla sua adeguatezza rispetto all’emergenza Covid, o meglio all’inadeguatezza di alcuni dei suoi ministri. Sia chiaro, non sono così mal messo da considerare il governo Conte bis il “mio” governo. Anzi, provo rigetto – se scusate la durezza del termine – per una parte della sua composizione politica. Ma non sono nemmeno più così giovane o così calendiano da pensare che, per inseguire un “mio” governo ideale, valga la pena rischiare di trovarsene in concreto uno ben peggiore. Uno a guida Salvini-Meloni, per esempio. Però non siamo ancora al cuore della questione. Perché molti dei detrattori del Conte bis sostengono l’ipotesi alternativa di un governo tecnico, chiamiamolo così per comodità. Un esecutivo che sostituisca almeno una parte degli impresentabili, dei dilettanti, degli inattrezzati con figure di più solido spessore e curriculum. Anche per chi, come me e molti altri, non ha mai amato questo genere di soluzione, è difficile non interrogarsi sulla sua opportunità. Abbiamo un ministro degli Esteri, e tuttora capo di fatto del partito di maggioranza relativa in Parlamento, che nel pieno della seconda ondata di virus non ha trovato di meglio che rilanciare su tutte le sue piattaforme social la proposta di tagliare lo stipendio dei parlamentari. Abbiamo una ministra dell’Istruzione che pochi giorni fa è andata in televisione e ha dimostrato di non avere idea della differenza tra test sierologico e tampone rapido, una cosa sconvolgente, perché da otto mesi si suppone che la ministra non abbia avuto altra preoccupazione che rendere sicure e agibili le scuole, e che abbia fatto decine di riunioni, e parlato con centinaia di esperti e consulenti, una trafila che in teoria avrebbe dovuto rendere edotto della materia anche il più ignorante in materia, e in partenza lo eravamo quasi tutti, e che invece nel suo caso, nonostante la responsabilità diretta sulle decisioni da prendere, non è bastato: incredibilmente, a ottobre 2020, Azzolina non aveva chiara la distinzione. Abbiamo una viceministra dell’Economia che dichiara in una intervista che è l’ora di finirla con le “politiche anticicliche” e che pare dunque afflitta da analfabetismo economico. L’elenco potrebbe continuare. E allora? Meglio un nuovo governo degli ottimati? Un altro Monti? Un Draghi, se volessimo usare il brand che accompagna questa suggestione? Di base, penso scambieremmo tutti o quasi una Azzolina o un Di Maio per un Draghi. Ma la politica è sempre una faccenda un po’ più complessa di uno scambio di figurine e, a differenza di altri mestieri, ha un rapporto non meccanico con la competenza tecnica. Tanto per cominciare, è una sciocchezza figlia solo del delirio antipolitico degli ultimi anni l’idea che un buon ministro del Tesoro possa essere solo un economista, o un buon ministro della Salute solo un dottore e via dicendo. In realtà compito di un buon politico è applicare alla gestione tecnica della materia di cui è responsabile una visione, un impulso, una direzione. Quando Silvio Berlusconi scese in campo, lo fece con la retorica dell’amministratore delegato del Paese: “Guiderò l’Italia come ho guidato le mie aziende”. La nazione, però, sotto la sua guida non ha conosciuto le fortune di Segrate e Cologno Monzese. Perché il Consiglio dei ministri non è, per fortuna, l’equivalente di un cda e l’amministrazione della cosa pubblica richiede sensibilità e capacità spesso sconosciute anche al più brillante dei manager. Oppure prendete il caso di Corrado Passera. Manager e uomo d’impresa notevole, accompagnato da una meritata fama di efficiente risolutore, divenne ministro dello Sviluppo economico del governo Monti. Poi si buttò in politica fondando un suo partito: Italia unica. Quella di Passera fu una delle più scalcagnate imprese di ogni epoca, chiusa dopo poco tempo per manifesta inferiorità, come si dice nel baseball, e non prima di aver consegnato alla storia minima del costume politico alcune perle, come la foto di Passera imbavagliato insieme a un pugno di figuranti e la più scellerata delle scelte di calendario, dato che l’assemblea fondativa di Italia Unica si svolse il 31 gennaio 2015, e se vi chiedete il perché della pignoleria di riportare la data esatta, sappiate che è il giorno dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, evento che relegò l’attenzione mediatica per la nascita del partito di Passera a un massimo di dieci righe a pagina 28 o in pezzi che nella home page precedevano di poco la ricetta della perfetta carbonara. Elsa Fornero, ministro cattedrato del governo Monti e autrice dell’omonima riforma del sistema previdenziale, scrisse una norma forse salvifica nell’immediato per i conti pubblici minacciati dallo spread a 500 ma gravata da un clamoroso vulnus: i cosiddetti esodati, fuori dal lavoro ma anche dal diritto alla pensione, inizialmente stimati in poche decine di migliaia (come fossero pochi, peraltro) e più avanti ricalcolati in almeno 300 mila invisibili. Negli anni successivi i vari governi dovettero intervenire a più riprese per tappare quella tragica falla, una disattenzione poco tecnica e molto politica al cui confronto impallidisce persino il pasticcio dei navigator. Fin qui, l’equivoco della competenza o del curriculum. Poi c’è la questione più squisitamente politica e che riporta al dilemma bukowskiano: è accettabile tenersi l’incompetenza manifesta se veste del colore meno sgradito? Ieri il capogruppo Pd al Senato Andrea M.arcucci ha scatenato un finimondo per aver detto in aula che urge una verifica: "Valuti Conte se i singoli ministri sono adeguati all’emergenza che stiamo vivendo". Ora, nonostante la folta concorrenza, io faccio fatica a trovare un nome più distante del senatore M.arcucci dalla mia personale idea di sinistra. E ritengo folle aprire un tavolo di rimpasto in questo momento. Ma l'invito di M.arcucci al premier, in sé, non pare così infondato. Perché a nessuno piace rassegnarsi all'idea che in un frangente simile il volante non sia nelle migliori mani possibili. Eppure il problema di quale alternativa non è meno pressante. Un governo è una macchina complessa, dove spesso spinge e conta anche chi non ha un ruolo formale o chi ha un potere di controllo e indirizzo, oppure quei pochi abili in squadra che finiscono per surrogare l’inazione dei ministri incapaci. La presenza di un diversamente intelligente nella compagine più affine alla propria visione non cancella la visione stessa, cosa che invece può accadere se la leva del comando passa in mano a un intelligente di altra fazione. Il guaio del Conte bis, e dell’Italia tutta, è che si tratta di un esecutivo pieno di schiappe nel momento più drammatico del dopoguerra dopo il sequestro Moro, quando però la classe dirigente del Paese, maggioranza e opposizione, era oggettivamente di un'altra levatura. È brutto dirlo così, somiglia a quei giudizi demagogici che sono il veleno del dibattito pubblico da tanti anni, ma è una verità difficile da negare. Al tempo stesso, il legittimo desiderio di cambiare ciò che non va deve fare i conti con la necessità e la responsabilità di capire come si ricostruisce il palazzo che si vuole buttare giù (un concetto che è il pilastro dell'azione di Sergio Mattarella, un capo dello Stato formidabile). Anche perché un’altra verità incontestabile, e mi piace dirlo nel giorno del suo sessantesimo compleanno, è che non ci sono molti Maradona in panchina. Per questo, alla fine, se devo fare una previsione penso che il governo andrà avanti com'è. Se devo esprimere un giudizio, credo che faticherà molto a mantenere il consenso dei mesi scorsi. E se devo tornare alla citazione di partenza sono convinto che, nonostante l’apparenza, quella frase di Bukoswki sia un po’ come Bukoswski tutto: è più facile condividerla nel furore dei 16 anni piuttosto che nella maturità dei 40.
Dagospia l'1 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, governo di incapaci, senza dubbio, che adesso chiede all’opposizione un aiuto e l’opposizione risponde con un troppo tardi. Il troppo tardi avrebbe forse un senso (forse, perché per un’opposizione responsabile di fronte a una pandemia mondiale non dovrebbe essere mai troppo tardi) se in tutti questi mesi ci fossero state proposte serie non ascoltate. Invece gli slogan sono stati: no alle chiusure durante il lockdown, no al MES quando la maggioranza voleva chiederlo (che poi neppure ha chiesto), no perfino alla mascherina, appoggiando ogni negazionista e scendendo perfino in piazza a settembre contro la dittatura sanitaria (dittatura sanitaria, proprio così, e cioè se il governo ha la colpa di aver fatto poco e male, l’opposizione avrebbe fatto ancora meno). Tuttavia il troppo tardi bisogna ammettere che conviene: se sei altrettanto incapace di chi contesti, meglio starne fuori e continuare a fare campagna elettorale sulla vita delle persone con i no a tutto. Baci, Massimiliano Parente
L'Italia ha già 120 miliardi di euro in tasca e non è capace di spenderli. Ponti, dighe, ferrovie: decine di grandi opere sono ferme anche se già finanziate con montagne di soldi. In attesa del Recovery fund, il nostro Paese conti con il suo immobilismo. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 03 novembre 2020. Milano il Seveso esonda puntualmente ogni autunno, da almeno sei anni sono a disposizione 120 milioni di euro per realizzare le vasche di compensazione, ma i lavori sono praticamente fermi. A Palermo da cinque anni sono stati stanziati 17 milioni di euro per mettere in sicurezza il ponte Corleone, una sorta di ponte Morandi di Genova come importanza strategica per la città visto che collega i due tratti principali della circonvallazione, ma ad oggi non un euro è stato speso. Sono due fotogrammi che uniscono da Nord a Sud il Paese che non sa spendere i soldi che ha già in cassa. E ne ha tanti, in pancia, divisi in mille rivoli tra enti locali, Stato e società controllate come Rfi e Anas.
Ritardi, cavilli e milioni non spesi. Così i trasporti sono andati in tilt. Emanuele Lauria e Giovanna Vitale su La Repubblica il 2 novembre 2020. In sofferenza soprattutto i mezzi pubblici delle grandi città. Tra le cause gli ingressi nelle scuole non scaglionati a sufficienza. Alla fine pure Giuseppe Conte, nella cornice solenne di Montecitorio, ha dovuto ammettere che qualcosa è andata storta: "C'è un'oggettiva difficoltà ad assicurare il distanziamento sui mezzi di trasporto". Anche sul suo smartphone, d'altronde, sono rimbalzate le immagini di bus e metropolitane pieni, con i passeggeri accalcati nelle ore di punta. Immagini che fanno a pugni con l'esigenza di frenare la curva dei contagi che ha cominciato a crescere esponenzialmente da fine settembre in poi, da quando cioè un esercito di otto milioni di studenti si è rimesso in movimento, accanto ai lavoratori già in attività dopo le ferie. Questa è la storia del pericoloso flop dei trasporti pubblici, che ha contribuito a provocare l'attuale stato di semi-lockdown e che ha generato uno scontro fra il governo e le autonomie locali. Ma cosa è successo esattamente?
I 180 milioni non spesi. È vero, come dice il premier, che il governo ha stanziato a fine agosto 300 milioni per potenziare i servizi di trasporto e che le Regioni, al momento, ne hanno spesi solo 120. Fondi che però sono stati materialmente ripartiti due mesi dopo, con un decreto attuativo firmato venerdì scorso. In ogni caso, in forza di impegni e anticipazioni, quei soldi sono stati impiegati per 4 mila nuove corse: impossibile acquistare bus nuovi in breve tempo, sono stati utilizzati 2 mila bus forniti da privati. Eppure ciò non è bastato a evitare l'emergenza. Perché il potenziamento è avvenuto principalmente su tratte extraurbane e nei piccoli centri, mentre non è servito ad alleggerire le corse nei capoluoghi, dove più forte è la domanda di mobilità.
La beffa dei bus turistici. Uno dei problemi emersi, sin da subito, è la difficoltà di impiegare i mezzi turistici assicurati dai privati per le corse ordinarie nei centri urbani: la loro conformazione impedisce accessi e uscite veloci dai bus. In realtà, è solo una parte della questione. Perché un altro affollamento - quello normativo - è stato d'intralcio: nessuno, a inizio settembre, nel mettere a disposizione i 300 milioni per i trasporti ha pensato di eliminare una disposizione precedente che vincolava l'utilizzo delle somme al fatto che le linee, prima del Covid, facessero registrare un grado di utilizzo superiore all'80 per cento della capienza. Un cavillo che, denunciano diversi governatori, ha limitato la possibilità di intervento.
Il nodo autonomia scolastica. Ma lo scoglio più alto si è rivelato lo scaglionamento degli orari di ingresso e di uscita dalle scuole. "Il vero problema è che le aziende di trasporto non sono mai riuscite neppure a conoscere la domanda di mobilità", sintetizza Andrea Gibelli, presidente di Asstra, l'associazione che rappresenta il 95 per cento del Tpl urbano in Italia: "Ogni scuola, nel passaggio dall'orario provvisorio a quello definitivo, si è organizzata a modo proprio, con comunicazioni inesistenti o tardive a chi gestisce i collegamenti. L'autonomia scolastica è sacra - osserva Gibelli - ma in questo periodo di emergenza tutti stanno rinunciando a qualcosa. Forse chi sovraintende al mondo della scuola avrebbe potuto fare di più per assicurare un coordinamento". Ma almeno sino a metà ottobre la ministra Lucia Azzolina non ha voluto prendere in considerazione indicazioni univoche, su tutto il territorio, sullo scaglionamento degli orari delle lezioni, proprio in nome dell'autonomia scolastica. E malgrado le sollecitazioni in senso contrario di altri esponenti di governo (come Francesco Boccia) e degli enti locali. Nel frattempo, però, gli assembramenti non sono finiti, sui mezzi e alle fermate. Anche perché i controlli sono pochi e non esiste il contingentamento degli ingressi. In alcune città come Roma e Milano per evitare la ressa alle banchine della metro è stato offerto ai passeggeri un servizio alternativo sui bus. Ma la gente ha continuato a preferire la metropolitana.
I ritardi. Un dato è evidente: questa affannosa corsa per garantire trasporti sicuri è partita in ritardo. E qui si torna ai 300 milioni spesi per meno della metà. E messi in circolo con una conferenza unificata solo il 31 agosto, cioè proprio a ridosso dell'inizio dell'anno scolastico, dopo un'estate a discutere di plexiglas e banchi con le rotelle. Non si poteva fare prima? "Noi abbiamo presentato già a luglio un piano per garantire collegamenti sicuri", sottolinea il presidente dell'Asstra Gibelli sollevando altri interrogativi. Con lo stesso provvedimento il governo ha alzato il limite di riempimento dei mezzi all'80 per cento della loro capienza. Tetto che con il passare delle settimane è finito sotto accusa perché ritenuto troppo elevato, sulla base anche delle immagini delle resse sui mezzi. Eppure, ha sottolineato la ministra dei Trasporti Paola De Micheli in commissione, il limite dell'80 per cento è appena superiore a quello (75 per cento) indicato dal comitato tecnico scientifico: anche con 5 passeggeri per metro quadro, adeguatamente protetti e per un periodo non troppo lungo, non c'è rischio di contagio. Seppur questo riempimento - ha precisato De Micheli - possa sembrare "non coerente con le misure di contenimento del virus". Nel dubbio, il governo sta pensando di riabbassare la percentuale. L'ennesima prova di una scommessa fallita.
Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2020. L'Urss era quel posto dove lavoratori e mezzi erano tanti, ma restavano fermi. La domanda dei frutti del loro lavoro rimaneva insoddisfatta. E politici e burocrati discutevano per mesi, senza riuscire a far incontrare gli uni e l' altra. A Gabriele Saija, che ha 25 anni, le foto di bus e metrò affollati nelle città italiane durante le prime settimane del ritorno a scuola ricordano un po' la storia sovietica che ha studiato a scuola. Saija nel 2018 aveva vinto un premio di Confindustria per la sua startup che fa nel trasporto privato in bus ciò che Uber fa con le auto. Era arrivato ad avere 16 dipendenti. E quando a marzo le prenotazioni si sono azzerate con la prima ondata virale, ha lanciato zeelo.co.it: offre bus privati con distanziamento, tracciamento, disinfezione e controllo di temperatura. Amazon e altre aziende lo stanno già usando. L'imprenditore ha anche scritto ai 735 comuni italiani sopra i 15 mila abitanti per offrire lo stesso servizio con oltre quattromila bus privati connessi. Poteva aiutare a ridurre l' affollamento, quando avrebbero riaperto le scuole. Risposte positive: zero su 735. Sajia non è stato il solo a ricevere queste reazioni, spiega Riccardo Verona del Comitato bus turistici. In questi mesi molte coalizioni di imprese di trasporto privato, rimaste senza lavoro, si sono viste chiudere le porte in faccia da comuni e regioni. I mezzi pubblici sono rimasti spesso affollati oltre i limiti di legge; almeno 180 dei 300 milioni di euro stanziati dal governo per affittarli sono rimasti dormienti; migliaia di bus privati disponibili sono rimasti nelle rimesse, con i conducenti in cassa integrazione. L' Italia è giunta impreparata alla ripresa d' autunno e il virus ha ripreso a circolare. Non era inevitabile. Già in aprile un rapporto, firmato da figure di spicco del comitato-tecnico scientifico (Cts) del governo come Silvio Brusaferro dell' Istituto superiore di sanità e Sergio Iavicoli dell' Inail, indicavano i problemi e le scelte da compiere: «Emerge una criticità soprattutto per le grandi aree metropolitane relativa alla mobilità nelle ore di punta», si legge. I punti delicati sono già indicati in quel testo: servono, si osserva, «misure organizzative e di prevenzione per il contenimento della diffusione del contagio». In altri termini servivano più bus all' ora di punta del mattino - attorno alle sette e trenta - specie nelle aree di Roma, Milano, Torino, Venezia-Mestre e Genova. A maggior ragione perché il Cts dall' estate chiede che il riempimento dei mezzi non superi il 50% della capienza. Solo a fine agosto il governo arriverà a indicare un livello massimo di affollamento dell' 80%, al termine di un estenuante negoziato con le regioni. Ma in realtà queste ultime, che hanno poteri diretti sul trasporto pubblico locale, non sono mai state d' accordo. Un' ordinanza del 26 giugno della giunta veneta, a guida leghista, consente l' occupazione al 100% dei posti seduti e in piedi sui mezzi «in deroga all' obbligo di distanziamento». Il 27 giugno la Liguria, anch' essa in mano al centrodestra, permette i viaggi a pieno carico dei posti a sedere. Il 7 agosto la leghista Lombardia esprime «preoccupazione per l' obbligatorietà del distanziamento sui mezzi» e ricorda (correttamente) che tutte le regioni - anche quelle rette dal centrosinistra - sono della stessa idea. Quello è il giorno in cui il governo stanzia trecento milioni per il noleggio di bus privati supplementari, dei quali solo 120 verranno usati. Ad oggi la Lombardia ha aggiunto l' offerta di circa tremila posti in bus per il mezzo milione di studenti e lavoratori in più che si sono riversati sulle strade da settembre. Il Veneto ottomila in più (e solo da questa settimana) per i 250 mila viaggiatori tornati a circolare sui mezzi. Roma a guida M5S rafforza sette linee urbane di bus su 345 e non offre navette per alleggerire le rotte della metro. Anche l' Emilia-Romagna e il Lazio, a guida del Pd, irrobustiscono l'offerta di posti - rispettivamente - del 4,5% e del 2% dell' aumento di domanda di trasporto stimata con l' inizio delle scuole. E il governo non mostra la leadership necessaria per scardinare la protezione stesa dagli enti sul monopolio delle società di trasporto pubblico che essi stessi controllano. Quasi niente. Così le foto di viaggiatori stipati fanno il giro del Paese, il virus anche, ma è impossibile sapere quanta congestione ci sia stata in realtà: fra i grandi enti locali d' Italia, solo Roma dà trasparenza sui propri punti critici dell' ora di punta. «Spero che il blocco parziale del prossimo mese serva a prepararci meglio», osserva ora Iavicoli del Cts. Intanto Saija, lo startupper, ha trovato l' unica soluzione per lui ormai possibile: ha tagliato due dipendenti su tre e si è indebitato in banca.
Ministri e burocrati non all’altezza e la gente non sa più a chi credere. Paolo Pompeni su Il Quotidiano del Sud il 25 ottobre 2020. L’OPINIONE pubblica non sa a chi credere: a quelli che denunciano che la situazione è sfuggita di mano, o a quelli che sostengono che non la si può paragonare all’emergenza di marzo-aprile? Dopo aver ridotto la politica a comunicazione, dopo avere aperto tutti i possibili palcoscenici ad una folta schiera di esperti che non sai se ti aiutano con la loro scienza, fanno a chi la spara “strana”, o addirittura si mettono al servizio di questa o quella lobby di potere in vista di future prebende, scopriamo che siamo poco informati e ancor meno diretti. E sì che “leadership” in inglese significa banalmente capacità di condurre. E’ diventata una banalità scrivere che il paese è disorientato e frastornato, benché fino a non molto tempo fa dirlo era considerato fare del sensazionalismo. Oggi siamo in balia dell’attesa di conoscere se entro sera arriverà il solito DPCM che dovrebbe mettere ordine e ricostruire la fiducia della gente. Abbiamo qualche dubbio che sia in grado di farlo, per la semplice ragione che arriva tardi, dopo che ha lasciato correre anticipazioni di ogni genere e conseguenti prese di posizione pro o contro. Soprattutto non si vede ancora lo sforzo coeso delle classi dirigenti del paese a compattare tutti nella risposta possibile, e dunque non miracolistica, all’emergenza che minaccia di travolgerci. Il governo è debole, difficile negarlo. Il premier non si è mostrato più capace di imporsi come riferimento, molte figure da lui scelte per gestire la situazione si stanno rivelando quantomeno non altezza, vale per i ministri come per i burocrati. Per quanto sia sempre antipatico dirlo, in questi casi bisognerebbe capire che non si danno messaggi tranquillizzanti senza cambiare un po’ di persone. Lasciamo perdere le macabre immagini delle teste che rotolano, ma più banalmente la chiamata in servizio di figure nuove che possano dare almeno la speranza di avere più capacità da mettere in campo è una vecchia, ma sempre valida ricetta per fronteggiare momenti politicamente difficili. Alcuni si sono buttati nei paralleli storici e hanno ricordato che dopo Caporetto si manda via Cadorna e si chiama Diaz: un po’ semplicistico, ma rende l’idea, anche se non è detto che basti questo per raddrizzare la situazione (peraltro in quel caso cambiarono anche il governo e la sua guida …). Il fatto è che la politica non è in grado di prendere decisioni così impattanti. Il presidente Mattarella non può fare altro che richiamare ormai in continuazione alla coesione nazionale, ma non ha il potere di indicare una soluzione. I partiti di maggioranza sono in competizione fra loro e il più numeroso, M5S, è politicamente inconsistente. Le opposizioni maggiori faticano ad uscire dalla scelta che sotto sotto hanno fatto per il tanto peggio, tanto meglio. Del resto un vero cambio di passo da parte loro implicherebbe qualche cambiamento traumatico nei rispettivi equilibri interni e tra di essi. Eppure è singolare che con tutta l’attenzione che si mette oggi sulla comunicazione e sulle demagogie di vario tipo non si colga la necessità di tentare almeno una o più mosse di forte impatto simbolico. Lo è tanto più che siamo in prossimità di un momento dell’anno che è ad altissima densità simbolica, perché andiamo verso le festività natalizie, che sommano contenuti tanto culturali quanto banalmente consumistici la cui carica emotiva non può essere sottovalutata. Arrivare in quel periodo in preda ad uno sconquasso tanto sanitario quanto socio-economico sarebbe un colpo durissimo per la tenuta dello spirito pubblico, e al contempo un rischio non sottovalutabile per tutto il nostro sistema politico (intendendo la parola nel senso più alto del termine).
La denuncia di Arcuri. Intanto, il commissario per l'Emergenza, Domenico Arcuri, al termine della Stato-Regioni, denuncia: "In questi mesi alle Regioni abbiamo inviato 3.059 ventilatori polmonari per le terapie intensive, 1.429 per le subintensive. Prima del Covid le terapie intensive erano 5.179 e ora ne risultano attive 6.628 ma, in base ai dispositivi forniti, dovevamo averne altre 1.600 che sono già nelle disponibilità delle singole regioni ma non sono ancora attive. Chiederei alle regioni di attivarle. Abbiamo altri 1.500 ventilatori disponibili, ma prima di distribuirli vorremmo vedere attivati i 1.600 posti letto di terapia intensiva per cui abbiamo già inviato i ventilatori", osserva Arcuri.
Boccia alle Regioni: "Chi ha bisogno lo dica". "Massima disponibilità e massima trasparenza, chi ha bisogno di aiuto lo dica, ma questo va fatto prima di intervenire su lavoro e scuola. In questi mesi sono stati distribuiti ventilatori polmonari ovunque, così come confermato da Arcuri: il problema è dove sono finiti i ventilatori, attendiamo risposte in tempo reale dalle regioni - incalza il ministro per le Autonomie, Francesco Boccia, al termine della Stato-Regioni - La Campania prima del Covid aveva 335 posti letto di terapia intensiva. Il governo attraverso il commissario Arcuri ha inviato 231 ventilatori per le terapie intensive e 167 per le sub intensive. Oggi risultano attivati 433 posti, devono essere 566". Boccia poi annuncia che "domani alle 9 è prevista una riunione di coordinamento dalla Protezione civile con le Regioni, il ministro Speranza e Arcuri. Chiedo alle Regioni di rispondere alle richieste inviate dal commissario Arcuri in modo da intervenire se necessario in tempo reale".
Questione tamponi. "Sarebbe opportuno utilizzare lo schema utilizzato da alcune regioni, Veneto, Lazio o Emilia Romagna, che indicano chiaramente sul proprio sito i luoghi e i laboratori in cui è possibile effettuare tamponi, molecolari, antigenici e quelli rapidi validati dalle autorità sanitarie del g7 autorizzati la settimana scorsa", spiega Boccia. Che ha fatto sapere che a ieri sono stati somministrati oltre 13 milioni di tamponi (11 milioni messi a disposizione dal commissario e 2 milioni dalle Regioni). È stata inviata inoltre due giorni fa una lettera alle Regioni in cui si chiedeva di comunicare il fabbisogno di tamponi e reagenti per poter chiudere la nuova offerta. Arcuri ora attende da loro indicazioni per poter procedere ulteriormente. Altri 5 milioni di tamponi sono già acquistati.
E sulla scuola e il lavoro, Bocca precisa: "Tutti i presidenti hanno autonomia di fare ordinanze più restrittive nelle modalità che ritengono. Ma se abbiamo condiviso che i due pilastri che dobbiamo tutelare sono scuola e lavoro e le ordinanze incidono su quegli ambiti, sarebbe opportuno un raccordo tra governo e regioni".
Zaia: "Sì a lockdown chirurgici". Dall'opposizione il leader della Lega, Matteo Salvini, attacca chi parla di chiusura ("Dire forse lockdown a natale è un crimine contro il popolo", dice), mentre il governatore del Veneto, Luca Zaia, apre al lockdown purché sia 'chirurgico'. "Sono contrario ad un nuovo lockdown - dichiara Zaia - dopodiché un lockdown chirurgico lo abbiamo già fatto nel Comelico, che può essere preso ad esempio. Abbiamo introdotto misure per 10 giorni e poi siamo tornati alla normalità". Zaia precisa ancora: "Non porto avanti idee di lockdown perché sarebbe una sconfitta, vorrebbe dire avere ospedali al collasso, molte vittime, sarebbe ammettere che qualcosa è andato storto nel piano di prevenzione. Sono per il lavoro di squadra, però qualche aggiustamento, senza complicare la vita ai cittadini, va fatto soprattutto nelle misure di protezione. Si andrà verso restrizioni a seconda dei contesti territoriali. Sento che tutti gli altri presidenti di regione sono su questa linea. Penso però che sia fondamentale che il governo cominci a lavorare per una scala di parametri".
A preoccupare Franceschini l'accelerazione della pandemia. A preoccupare il ministro dei Beni culturali Franceschini è stata l'accelerazione dei contagi delle ultime settimane e la presa di posizione del Comitato tecnico scientifico (Cts) secondo il quale alla luce dei nuovi dati emersi e della nuova fase servono misure più stringenti anche in vista del week end. Tra le ipotesi, quella di un “coprifuoco” e la Didattica a distanza almeno per le scuole superiori. Per evitare dunque che in Italia vengano presi provvedimenti a macchia di leopardo magari per iniziativa delle singole Regioni, ed essendo mutato il quadro epidemiologico della diffusione del Covid - 19 rispetto all'ultimo Dpcm, Franceschini chiede ora una riunione urgente per un aggiornamento degli interventi nazionali".
Gianluca Zappa per startmag.it il 24 ottobre 2020. La guerra legale avviata dal commissario Domenico Arcuri, come capo azienda del gruppo statale Invitalia, divide due consiglieri di amministrazione del quotidiano diretto da Stefano Feltri, già vicedirettore del Fatto Quotidiano. Ieri Arcuri ha dato mandato ai suoi legali di avviare un’azione civile contro il nostro quotidiano, Domani, dopo l’articolo pubblicato da Nello Trocchia ieri dal titolo “La guardia di finanza a Invitalia per i super stipendi di Arcuri”. Il commissario agisce per tutelare la sua “immagine e reputazione”, come ha scritto ieri l’Ansa: “La cosa che avrebbe leso entrambe è aver scritto che “il 29 settembre le fiamme gialle, su delega della procura della Corte dei Conti, hanno acquisito documenti per verificare l’eventuale danno erariale e capire se la società è esonerata dal rispetto dei tetti degli stipendi”, ha scritto oggi il direttore Feltri nel suo editoriale. “Arcuri non contesta la notizia, non smentisce nulla – sottolinea il direttore del quotidiano Domani – Considera semplicemente lesivo della sua reputazione che un giornale racconti una notizia vera, cioè che la procura della Corte dei conti sta ancora indagando sui suoi stipendi da amministratore delegato della società pubblica Invitalia che guida dal lontano 2007.” Prosegue Feltri: “Nell’articolo noi abbiamo riportato anche la versione di Arcuri, che rivendica la legittimità di aver percepito 617mila euro di stipendio nel 2014, derogando al tetto già allora in vigore che fissa il tetto per i manager pubblici a 240mila. Nel complesso, sostiene la Corte dei Conti, ha ricevuto 1.467.200 euro più del dovuto. Arcuri dice che è tutto corretto, perché la sua società emette obbligazioni quotate, cosa che permette di sfuggire al tetto. La vicenda, peraltro, è ampiamente nota. La novità è la l’acquisizione da parte della Guardia di Finanza di nuovi documenti nelle scorse settimane, di cui abbiamo dato notizia ieri”. In effetti gli approfondimenti della Corte dei Conti sono stati svelati nelle scorse settimane in più puntate della trasmissione “Quarta Repubblica” condotta da Nicola Porro su Rete4. Conclude oggi Feltri: “Nella mia carriera mi era capitato di incontrare soltanto persone – potenti e non – che si sentissero danneggiati dalle notizie scorrette, da epiteti offensivi, da paragoni inappropriati. Non mi era mai capitato di trovare qualcuno che si sente danneggiato da una notizia vera, peraltro riportata in un breve articolo nel basso di una pagina. Ma la legge consente ad Arcuri di chiedere danni ai giornali anche in questo caso, spetterà poi a un giudice decidere. Nell’attesa dell’esito, saranno i lettori e i cittadini a valutare l’opportunità da parte di uno degli uomini più potenti di Italia di avviare richieste di risarcimento danni nei confronti di un giornale che pubblica notizie vere sulla sua persona nel pieno di una tragica pandemia che pensavamo assorbisse ogni energia del commissario straordinario”. Ma dietro la guerra di Arcuri al quotidiano nato per iniziativa di Carlo De Benedetti si cela anche una diatriba di fatto all’interno del consiglio di amministrazione della società che edita il quotidiano Domani. Infatti, secondo le indiscrezioni raccolte in ambienti legali romani, a difendere Arcuri sarà lo studio del noto avvocato Grazia Volo, che è uno dei consiglieri di amministrazione proprio della società del giornale debenedettiano presieduta da Luigi Zanda. Non solo: a difendere invece il quotidiano diretto da Feltri sarà come sempre un avvocato che è anche membro del consiglio di amministrazione dell’Editoriale Domani spa: Virginia Ripa di Meana. Il 29 settembre, mentre Domenico Arcuri tesseva le lodi del nostro paese nel contrastare il virus e, implicitamente, le sue come commissario all’emergenza Covid-19, a Invitalia arrivava la Guardia di finanza. Invitalia è la società del ministero dell’Economia di cui Arcuri è amministratore delegato dal 2007 (anche se all’epoca si chiamava Sviluppo Italia). «Noi tutti siamo più bravi degli altri a gestire la tragedia», diceva il commissario. Nel frattempo i militari entravano nella sede della società a Roma per acquisire documenti e materiale su delega della procura della Corte dei conti del Lazio, in una vicenda che riguarda proprio Arcuri. Gli accertamenti, avviati nel 2016, riguardano un possibile danno erariale. Ma la svolta è arrivata lo scorso luglio quando i finanzieri hanno notificato ad Arcuri un atto di costituzione in mora per interrompere gli effetti della prescrizione che incombeva sul fascicolo. La storia è diventata pubblica in piena emergenza. Secondo la ricostruzione della Corte dei conti, da manager di Invitalia, Arcuri e gli altri membri del consiglio di amministrazione avrebbero per alcuni anni percepito stipendi più alti di quelli stabiliti dalla legge che ne aveva disposto la riduzione. Secondo le norme che fissano a 240mila euro il tetto degli stipendi per i manager pubblici e secondo un decreto del ministero dell’Economia, Invitalia «avrebbe dovuto adeguare il compenso dell’amministratore delegato a 192mila euro». Nell’atto di costituzione in mora si legge invece che «risulta dalla tabella che, nel corso del 2014, all’ad (e dirigente) Arcuri Domenico è stato riconosciuto un compenso (comprensivo di tutte le voci, ndr) complessivo pari a 617mila euro». L’amministratore delegato di Invitalia supera il tetto di 192mila euro anche nel 2015, 2016 e 2017. E questo nonostante proprio il 4 agosto 2016 l’assemblea rappresentata dal socio unico, il ministero dell’Economia, aveva invitato la società a ricondurre «i trattamenti economici ai limiti di legge vigenti». Arcuri si è detto pronto a spiegare tutto: «Offro la mia totale collaborazione alla Corte dei conti in modo da chiarire l’assenza di qualunque errore da parte mia o di Invitalia. Non vi è stata alcuna violazione». La cifra non è stata restituita, il commissario ha ricevuto 1.467.200 euro in più rispetto ai limiti di legge, e ora la Guardia di finanza, su delega del viceprocuratore generale Massimo Lasalvia (il fascicolo è passato alla magistrata Gaia Palmieri), ha acquisito dati e documenti per approfondire due questioni. La prima riguarda la verifica degli emolumenti ricevuti, in questi anni, da Arcuri e dagli altri manager di Invitalia. La seconda questione riguarda una legge che permette alle società che emettono strumenti finanziari di derogare al tetto dei compensi. I militari hanno acquisito tutta la documentazione per capire se gli strumenti finanziari emessi da Invitalia consentono di rientrare nelle società esonerate dagli obblighi di riduzione dei costi. Nel 2014 Arcuri a Repubblica spiegava che al momento la società non emetteva strumenti finanziari e che guadagnava: «300mila euro l’anno, tutto compreso». Prima di lodarsi: «Se non avessi ritenuto giusto il taglio al mio stipendio me ne sarei andato».
Altro che Mr. Wolf, Arcuri non risolve problemi. Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 2 novembre 2020. Panorama l’ha ironicamente chiamato il “Commissario moviola” per la capacità di rallentare, anziché velocizzare, le procedure che avrebbero dovuto permetterci di resistere alla seconda ondata di pandemia. A sette mesi dalla nomina a supercommissario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri si è dimostrato tutt’altro che il signor Wolf di “Pulp fiction”. Eppure continua a godere della piena fiducia del premier, Giuseppe Conte, che lo vorrebbe anche al vertice di Leonardo come successore di Alessandro Profumo. Ma con quali titoli? A oggi la gestione dell’affaire Covid portata avanti da Arcuri presenta più di una lacuna. L’ultimo flop è quello dei banchi monoposto a rotelle, che nelle intenzioni della ministra Lucia Azzolina avrebbero assicurato il rispetto delle distanze a scuola, garantendo la didattica in presenza. Il commissario aveva promesso che banchi e sedie innovative sarebbero stati distribuiti in tutte le scuole entro il 31 ottobre. Scadenza non rispettata, all’appello ne mancano diverse centinaia di migliaia. La consegna dovrebbe essere ultimata per Natale, ma sull’intera operazione pesa l’incognita di una nuova chiusura generalizzata degli istituti. Non meno spinosa la questione delle mascherine a uso degli studenti. L’obiettivo era fornire ogni giorno 11 milioni di dispositivi di protezione alle scuole insieme al gel per disinfettare le mani. Arcuri l’aveva definita un’impresa «senza eguali» ma per arrivare a dama sono serviti quasi due mesi. Il risultato è stato rivendicato recentemente dallo stesso commissario in un’intervista al Corriere della Sera. Ma lo stesso quotidiano ha messo in evidenza che questa cifra ora, con la ripresa della Dad alle superiori in numerose regioni, potrebbe addirittura superare le reali necessità del sistema scuola. Le mascherine, in effetti, sono state il grande tallone d’Achille di Arcuri. Per settembre l’attuale ad di Invitalia aveva assicurato la piena autosufficienza, annunciando che sul nostro mercato ci sarebbero state «solo mascherine italiane». Ma i dati pubblicati lo scorso mese da Assosistema certificano che il made in China continua a coprire un’ampia fetta della domanda (2,5 miliardi di euro il controvalore dei dispositivi arrivati nel nostro Paese fra marzo e luglio). Conte ha recentemente affermato che l’Italia ogni giorno produce circa 18 milioni di mascherine, bel al di sotto del fabbisogno da 35 milioni individuato da numerosi studi come cifra da raggiungere per gestire la fase due. Un numero che oggi, fra l’altro, andrebbe rivisto al rialzo in forza dell’obbligo di indossare il dispositivo usa e getta anche all’aperto. Senza dimenticare i ritardi sull’implementazione del sistema di terapie intensive su cui Arcuri ha sostanzialmente scaricato ogni responsabilità sulle regioni.
Le promesse mancate e i fallimenti del commissario Domenico Arcuri. "Da settembre non dipenderemo più dall’estero", aveva annunciato a maggio parlando delle mascherine. E invece per lentezze burocratiche e difficoltà tecniche la corsa contro il tempo è andata persa e dipendiamo ancora dalle importazioni. Quasi tutte dalla Cina. Vittorio Malagutti e Francesca Sironi su L'Espresso il 23 ottobre 2020. Le ultime parole famose risalgono a maggio, il 27 del mese, quando la stagione dei lutti e della paura sembrava volgere alla fine e il mondo intero si illudeva di poter convivere con il virus fino alla inevitabile vittoria. «A settembre ci saranno sul mercato solo mascherine italiane», scandì Domenico Arcuri davanti ai deputati della commissione Affari sociali della Camera, con il tono solenne delle dichiarazioni definitive, parole che non lasciavano spazio a dubbi e obiezioni. E nessuno obiettò, infatti. Del resto, solo poche settimane prima, lo stesso Arcuri non aveva forse annunciato che sei aziende italiane entro l’autunno avrebbero rifornito il Paese di 660 milioni di mascherine pagate dallo Stato?
Il dossier che inchioda Arcuri: perché ha sprecato tre mesi. Il commissario all'emergenza coronavirus Domenico Arcuri avrebbe sprecato tre mesi senza riuscire a garantire all'Italia nuovi posti nelle terapie intensive. Federico Giuliani, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. L'Italia sta facendo i conti con la seconda ondata di Covid-19 completamente impreparata, senza una strategia chiara per arginare la pandemia o contromisure adeguate, che pure erano state promesse dal governo giallorosso. I contagi hanno sfondato il tetto dei 10mila casi al giorno. Gli ospedali iniziano nuovamente a sentire la pressione, con il numero di posti in terapia intensiva insufficiente nel caso in cui la curva epidemiologica dovesse continuare a salire con questa rapidità. Eppure - come rivelato più volte da ilGiornale.it - chi doveva gestire questa delicata situazione, tra cui Domenico Arcuri, ha avuto tutta l'estate per prendere provvedimenti adeguati, così da evitare gli stessi errori della scorsa primavera, quando il Paese si presentò a combattere il virus in modo inadeguato.
Arcuri nell'occhio del ciclone. I riflettori sono puntati proprio su Domenico Arcuri, il "super commissario" nominato da Giuseppe Conte per l'emergenza coronavirus. Già finito nell'occhio del ciclone per la questione delle mascherine, secondo quanto riportato dal quotidiano Domani, Arcuri avrebbe sprecato tre mesi, senza riuscire a garantire all'Italia nuovi posti nelle terapie intensive. Per quale motivo il nostro Paese si trova adesso con il fiato corto? A luglio – è la ricostruzione dei fatti offerta da Domani – il Ministero della Salute avrebbe trasmesso ad Arcuri i progetti delle Regioni. Il commissario, tuttavia, avrebbe dato le deleghe per i lavori soltanto il 9 ottobre, ovvero poco più di una settimana fa. Detto altrimenti, i piani realizzati dalle Regioni per riorganizzare i vari ospedali sarebbero rimasti a prendere polvere sul tavolo di Arcuri per oltre due mesi. Non solo: in questi mesi, orientativamente da luglio a settembre, i reparti degli ospedali si erano svuotati grazie al rallentamento estivo della pandemia. Ed era proprio in una simile fase di calma che i lavori di ristrutturazione sarebbero potuti (e dovuti) partire. Non è invece andata così, visto che le gare per i lavori sono partite soltanto a ottobre, quando l'Italia era già con un piede nella seconda ondata. Le Regioni che nel frattempo si sono attrezzate riorganizzando gli ospedali lo hanno fatto attingendo ai propri fondi o adeguando vecchie strutture non utilizzate, adattandole ad accogliere posti letto extra.
Tre mesi sprecati. Riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di capire che cosa è successo. Al termine della prima ondata di Covid-19, il 19 maggio, il governo – attraverso il decreto legge 34 - dà 30 giorni di tempo alle amministrazioni regionali per riorganizzare il numero di posti letto in terapia intensiva. L'obiettivo dell'esecutivo? Portarli da 7 a 14 ogni 100mila abitanti. Il governo stanzia perfino 1,1 miliardi per i vari piani. Quasi tutte le Regioni rispondono presente in tempo; 18 – sottolinea ancora Domani – avrebbero completato e consegnato i progetti all'esecutivo nel giro di un mese esatto. Il Ministero chiede però ad alcune amministrazioni di integrare i progetti. Entro il 17 luglio è tutto pronto, ed entro il 24 i piani aggiornati sono approvati. A questo punto i documenti sarebbero stati inviati sia agli uffici centrali di bilancio e alla Corte dei Conti, sia alla struttura coadiuvata da Domenico Arcuri. Quest'ultimo avrebbe ricevuto il 3 luglio i piani di sei regioni (Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Marche, Umbria, Veneto e delle due province di Trento e Bolzano). L'ultimo piano sarebbe stato quello della Campania, arrivato il 24 luglio. Il 29 luglio arriva il semaforo verde dalla Corte dei Conti. Si attende quello di Arcuri. Che però non arriva, così come non partono i lavori di ristrutturazione previsti. L'Abruzzo si lamenta, chiedendo di avere la delega dal commissario all'emergenza per poter gestire la riorganizzazione in modo autonomo. Niente da fare. Il 9 ottobre, due mesi dopo che la corte dei Conti ha registrato l'ultimo progetto, Arcuri avrebbe finalmente firmato le ordinanze di delega ai presidenti di regione che avevano chiesto di gestirei progetti. Nello stesso giorno il commissario avrebbe firmato anche le nomine per le regioni che non avevano chiesto la delega. Intanto però il virus è tornato a correre. E l'Italia scopre di aver bruciato settimane preziose.
Lisa Di Giuseppe per “Domani” – estratto il 17 ottobre 2020. Il decreto Rilancio di questa primavera ha stanziato nuovo fondi per le terapie intensive. I posti in più previsti sono 5.612 in terapia intensiva e 4.225 in terapia subintensiva. Le regioni hanno presentato le loro richieste entro luglio, ma il ministero della Salute ha tardato a dare risposta. La pubblicazione del bando o l’affidamento diretto spettava poi al commissario Domenico Arcuri che ha fatto una gara lampo, di tre giorni, dal 9 al 12 ottobre. I lavori dovranno partire a fine mese. Iniziare ora che la pandemia sta tornando significherebbe chiudere interi reparti oppure spostare i pazienti ricoverati in stanze recuperate in extremis.
Giovanna Faggionato per “Domani” – estratto il 17 ottobre 2020. Per più di due mesi i piani delle regioni per riorganizzare gli ospedali sono rimasti a prendere polvere nelle mani della struttura del commissario all’emergenza Domenico Arcuri. I documenti interni che abbiamo consultato provano che diciotto regioni hanno progettato la riorganizzazione degli ospedali nel giro di un mese e consegnato il programma al governo entro la scadenza. Il manager riceve già il 3 luglio i piani di sei regioni e cioè di Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Marche e Umbria, del Veneto e delle due province di Trento e Bolzano.
Stefano zurlo per Il Giornale il 17 ottobre 2020. Il commissario Domenico Arcuri gonfia i muscoli: «Abbiamo distribuito 13 milioni di tamponi». Una cifra che dovrebbe spegnere l'inquietudine serpeggiante. Ma Arcuri parla dei tamponi rapidi che non risolvono ma anzi rischiano di aggravare il problema perché spesso fanno cilecca e certificano negativi che poi puntualmente si ammaleranno. La verità è che il commissario si impicca alle sue stesse parole: «Il tempo è una variabile fondamentale». Peccato che i mesi della tregua estiva concessa dal Covid non siano stati sfruttati per riempire gli arsenali e irrobustire le prime linee. Oggi, alle prime spallate del nemico invisibile, si aprono crepe paurose nel sistema di difesa. Occorreva tagliare la strada al virus, anticiparlo e chiuderlo all'angolo appena scoperto. Per questo erano necessari due passaggi: la moltiplicazione dei tamponi tradizionali, fino alla quota trecentomila teorizzata da Andrea Crisanti. E poi erano state disegnate le Usca, ovvero le Unita speciali di continuità assistenziale. «Alle Usca - spiega al Giornale Crisanti - era stato assegnato un ruolo cruciale, ovvero tenere i rapporti con i positivi, tracciare i loro contatti, accompagnarli passo passo fino al tampone liberatorio». Ma a quanto risulta su 1.200 Usca ne sono state create solo 600 e queste funzionano come possono. Molte persone continuano ad affollare i pronto soccorso, in barba a tutta la retorica sulla medicina territoriale, i risultati dei tamponi arrivano dopo giorni e giorni. Con ritardi abissali. «Ma soprattutto - aggiunge Crisanti - non c'è nessuna organizzazione che sia in grado di tracciare centomila persone al giorno, calcolando 10 incontri per positivo». Si procede a tentoni, anche perché le assunzioni promesse non sono arrivate. Non solo: i tamponi sono sempre quelli, la soglia dei trecentomila è lontanissima e dunque il virus scappa da tutte le parti. Si sono sperperati i soldi per i banchi a rotelle, trovata dadaista dell'esecutivo Conte, non si sono investiti dove servivano. L'app Immuni è un flop e le situazioni che affiorano hanno dell'incredibile pure su questo fronte: la Regione Veneto non ha mai attivato la piattaforma. Mancanza grave, ma pare altrettanto drammatico se non peggio che Roma non se ne sia accorta. Si è discusso per settimane, come fossimo in un alato convegno con annesso coffee break, se fosse corretto accettare i 32 milioni del Mes, da buttare immediatamente nel pozzo dell'emergenza. Risultato: pochi soldi, idee confuse. Siamo indietro sul capitolo delicatissimo delle terapie intensive e qui Arcuri, che ci tiene a non fare il parafulmine, ha qualche ragione nel bacchettare le Regioni: «Abbiamo inviato 3.059 ventilatori polmonari, abbiamo attivato fino a 9.463 posti di terapia intensiva, ma per ora ne risultano operativi 6.628. Dovevamo averne altri 1.600 che sono già nella disponibilità delle singole regioni ma sono ancora sulla carta, chiediamo alle regioni di procedere. Abbiamo altri 1.500 ventilatori disponibili - insiste il commissario - ma prima di distribuirli vorremmo vedere attivati i 1.600 posti di terapia intensiva per cui abbiamo mandato i ventilatori». È l'eterno rimpallo delle competenze italiane che rende tutto pasticciato e sfuggente. Arcuri punta il dito contro le Regioni, ma il bando per il potenziamento delle terapie intensive, con uno stanziamento di 713 milioni datato maggio, è stato aperto solo il 2 ottobre. Non si poteva fare prima? Insomma, il centro accusa la periferia che risponde per le rime, esattamente come era successo nelle settimane cupe della prima ondata, ad esempio per la mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo. Oggetto di un'inchiesta della procura di Bergamo per dirimere le responsabilità. Infine, i mezzi pubblici: invece di potenziare il parco mezzi si punta sullo smart working per tenere a casa gli utenti. Poca o nulla programmazione, molta approssimazione e distanziamento a fisarmonica. Governo e Regioni litigano. Il virus, intanto, corre.
Dagospia il 14 ottobre 2020. Caro Direttore, sostenere che gli Uffici del Commissario Per l’emergenza Covid hanno già distribuito oltre 20 milioni tra tamponi e provette alle Regioni Italiane, che oggi ne hanno somministrati oltre 152 mila ai cittadini, oppure che i vaccini antiinfluenzali non hanno nulla a che fare con le sue attività o, ancora, che le problematiche connesse al sistema dei trasporti sono di competenza di altri, sarebbe riduttivo. Così come dire che il Commissario non ha ingaggiato nè Lorenzo Mingolla nè alcun altra risorsa per la comunicazione o le Relazioni Istituzionali sarebbe poco. L’intero articolo, per così dire, è davvero poco informato: sia sulle norme, sia sulle funzioni, sia sulle azioni specifiche che gli Uffici del Commissario Arcuri stanno ponendo in essere per fronteggiare l’emergenza. L’Ufficio Stampa del Commissario Straordinario per l’Emergenza Covid 19.
DAGONEWS il 14 ottobre 2020. C'è un responsabile dell'attuale situazione, che è precipitata nell'arco di dieci giorni? Ovviamente non ce n'è uno solo, ma su uno solo si è incaponito il premier nella scorsa primavera, tanto da dargli pieni poteri e da oscurare Protezione Civile e ministero della Salute. Parliamo ovviamente del commissario straordinario all'emergenza sanitaria Domenico Arcuri. Il prode ad di Invitalia (carica che ha ovviamente mantenuto) ha occupato le conferenze stampa a litigare con gli ''economisti da divano'' e gli studiosi da cocktail che gli contestavano le scelte sulle mascherine (introvabili) e poi l'estate aggrappato a questi demenziali banchi a rotelle (spostarli con le manine non si può). Il tutto senza che nel frattempo – il lockdown è finito ai primi di maggio - fosse predisposto un sistema per l’approvvigionamento di tamponi, di vaccini influenzali e mezzi di trasporto in vista della seconda ondata, evento che gli scienziati e virologi davano praticamente per scontato. Il problema è che il prode manager non può nascondersi dietro al calo dei casi in estate o a settembre, perché in quegli stessi mesi il governo di cui fa parte aveva rinnovato lo stato di emergenza. Se c'è un'emergenza, bisogna predisporre misure straordinarie, no? E invece dopo i click day che duravano un secondo e le gare per centinaia di migliaia di banchi a rotelle affidate a ditte con un dipendente, siamo arrivati all'autunno con le proverbiali mani, una davanti e l'altra dietro. Il buco più clamoroso, oltre a quello dei tamponi per cui la gente fa file di 14 ore ai drive-in, è quello dei trasporti. Certo, non si può rivoluzionare un settore così fondamentale in pochi mesi, ma da marzo a oggi forse qualche idea poteva essere partorita. Invece niente. Il sistema della mobilità è lo stesso di allora, e si fa presto a mettere nastri e imporre capienze al 50 o 80% se tanto nessuno può controllare e non esistono mezzi aggiuntivi messi in campo dalle autorità. E non parliamo dei bollettini: ogni giorno leggiamo una pioggia di numeri totalmente falsati, visto che le regioni con il maggior numero di contagi sono anche quelle che fanno più tamponi (Lombardia, Lazio) e che ci sono dei veri e propri buchi neri (vedi la Sicilia e il Piemonte) dove i test sono in numero ridicolo rispetto alla gravità del contagio. Questa quotidiana comparazione di pere e mele non viene né coordinata né spiegata da qualche esperto come almeno avveniva nella fase iniziale con le soporifere conferenze stampa di Borrelli e company. Il problema politico è però che nessuno chiede conto ad Arcuri di cosa abbia fatto in questi mesi. Non ci risulta che ci sia una commissione parlamentare che si occupi di verificare e controllare il suo operato. Dai 5 Stelle, che pure non lo amano (Di Maio in primis) non è venuto neanche un rantolo, per non indebolire il suo dante causa Conte prima delle elezioni. La maggioranza stessa sul tema Covid è in preda a un caos totale, con il consiglio dei ministri dell'altra sera che si è arenato proprio sul divieto di feste in casa e sull'ipotizzato demente sistema di delazione dei vicini messo in campo da Speranza. Il fatto che il premier debba specificare ''Non vi manderemo la polizia in casa a verificare quanti siete'' è di per sé una follia col botto. Frasi mai sentite manco da Kim Jong-Un. Tanto che c'è voluto l'intervento di un Mattarella straincazzato per stoppare qualunque ipotesi di sanzione e di uso delle forze dell'ordine nei confronti di chi ospita persone a cena. Anche grazie a questo bordello Arcuri può viaggiare sotto i radar e continuare a puntare al suo vero obiettivo: in tandem con il neo-ingaggiato Lorenzo Mingolla (ex collaboratore del famigerato sondaggista Luigi Crespi), aspetta solo che passi la nottata invernale per arrivare alle nomine di primavera, quando scade il cda di Cdp e lui punta a prenderne il timone al posto di Fabrizio Palermo.
Mario Giordano per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Caro commissario Arcuri, lei non mi risponde, perché preferisce esibirsi nei salottini amici, ma io insisto. Non riesco a darmi pace. Passi che non restituisce i soldi dello stipendio che secondo la Corte dei conti avrebbe preso in più rispetto al dovuto e che avrebbe già dovuto ridarci indietro a luglio. Passi che appena nominato non è riuscito a procurarci in tempo nulla di quello che ci serviva, né camici per medici né respiratori. Passi che abbia fatto partire la gara per i test rapidi a fine settembre. Passi che aveva promesso che le mascherine sarebbero state prodotte tutte in Italia e invece continuiamo a importarla dalla Cina, e pure senza il marchio di sicurezza della Ue. E passi perfino che i famosi banchi che dovevano essere tutti in aula l'8 settembre (lo annunciò lei) non ci sono ancora. Glielo confesso: con una buona dose di digestivo, sarei disposto a buttare giù questo malloppo di nefandezze. A patto che lei la smettesse di raccontare balle sui posti letto in terapia intensiva. La terapia intensiva è un luogo sacro. Di sofferenza. Di dolore. Spesso di morte. Attorno a quei letti si muovono i fili fragili delle nostre esistenze, le nostre speranze, le mani di medici e infermieri che per tenerci attaccati all'ultimo respiro sono disposti a sacrifici disumani. Lei non ha il diritto di bruciare tutto questo sull' altare della sua arroganza e della sua supponenza. L' altro giorno ha attaccato le Regioni dicendo di aver distribuito 1.600 ventilatori che non sono stati ancora usati. E ha aggiunto, quasi sotto forma di ricattuccio, ne abbiamo pronti altri, ma non ve li diamo. Tiè tiè tiè. Un atteggiamento che già nel cortile della scuola elementare Carducci di Alessandria, quando ancora portavamo il grembiule nero, avremmo considerato un po' troppo sciocchino. Il fatto è che lei ha una coda di paglia grande quanto la sua prosopopea. È stato nominato commissario unico. Ha centralizzato su di sé tutto. Tra un po' anche per cambiare il bidet nel nostro bagno di casa bisognerà passare per una gara d'appalto gestita da lei. Per le terapie intensive ha voluto tutti i piani regionali. Li ha riscritti. Ha fatto partire una gara unica per i lavori negli ospedali (lavori necessari per realizzare terapie intensive definitive e non provvisorie). E ora, che si scopre che siamo in ritardo, non trova di meglio che scaricare tutto sulle Regioni? Lei si deve vergognare, caro Arcuri. A maggio sono stati stanziati i soldi per realizzare 3.443 posti in più in terapia intensiva. Lei ha gestito tutta la pratica, con poteri, per l'appunto, straordinari. Il bando di gara lo ha fatto solo il 1° ottobre. Siamo in un ritardo spaventoso. E lei non ha nemmeno l'umiltà di chiedere scusa? Vede, caro Arcuri, come tutti i boiardi attaccati al potere lei non conosce il significato della parola responsabilità. Le faccio un esempio? Il direttore di questo giornale ha poteri straordinari. Può decidere di pubblicare o no questo pezzo. Può decidere come titolarlo e come impaginarlo. Ma se sbaglia finisce davanti al tribunale. Non scarica mica sul tipografo, come invece farebbe lei. Meschino com' è.
Terapie intensive inadeguate. E Arcuri è in ritardo. Nicolaporro.it il 14 ottobre 2020. Dalla puntata di Quarta Repubblica del 12 ottobre 2020. Ormai da giorni il governo giallorosso è tornato a parlare di emergenza Covid, seconda ondata e allarme contagi. E via con l’obbligo dell’utilizzo della mascherina all’aperto, sparate del ministro Speranza sulle delazioni e nuovo Dpcm con restrizioni draconiane. Ma allora perché per la realizzazione di quelle terapie intensive, per cui c’era uno stanziamento governativo già il 14 maggio, si è aspettato addirittura il 2 ottobre per pubblicare il bando (scaduto lunedì)? Dov’era il commissario all’emergenza Domenico Arcuri in questi mesi? Perché dà la colpa alle Regioni, se le Regioni già da mesi gli hanno fatto pervenire le loro richieste?
Da liberoquotidiano.it il 20 ottobre 2020. Si parla ancora di coronavirus a Quarta Repubblica, il programma di Rete 4. E chi meglio di Guido Bertolaso può spiegare quanto sta realmente accadendo in Italia. L'ex direttore del Dipartimento della Protezione Civile è stato chiamato da Nicola Porro per rispondere alle critiche che lo hanno visto protagonista nella prima ondata. Giornalisti come Marco Travaglio e politici del Pd e del M5s hanno duramente attaccato la realizzazione, da lui pensata, di un nuovo ospedale, quello della Fiera di Milano. Una costruzione che ai cittadini non è costata un euro, nata con soli soldi privati e che fa di Bertolaso, più ancora di quanto già non lo fosse, un veterano del suo mestiere. "Quando incontravo i presidenti di Regione - ha raccontato al conduttore di Mediaset - mi dicevano che correvo troppo, che non riuscivano a starmi dietro". Meglio così per il funzionario, visto che siamo in una situazione di emergenza. "Questa è la più drammatica e difficile emergenza della storia della Repubblica italiana, è la peggiore di tutte perché è mondiale". Poi la frecciatina a Domenico Arcuri, commissario per l'emergenza, ora addetto alla ripartenza della scuola: "Lui è stato messo lì, ma è come se mettessero me all'Agenzia delle Entrate e mi chiedessero dell'Irpef di cui io non so nulla. Anche Arcuri non sa nulla di tamponi e vaccini".
Alessandro Barbera per “la Stampa” il 12/10/2020. Come cicale allietate dalla tregua estiva, abbiamo perso tempo prezioso. File ai drive-in per i test e negli ambulatori, ospedali non adeguatamente attrezzati. Abbiamo affrontato l'emergenza, stiamo contenendo la seconda ondata, ma la nostra sanità non è pronta a convivere con il virus. Lo racconta l'esperienza di molti, emerge dai numeri. Dall'inizio della pandemia il governo ha messo a disposizione circa 3,4 miliardi di euro: finora ne sono stati spesi poco più di un terzo, in gran parte per l'acquisto di mascherine, camici, attrezzature. Prendiamo il caso delle terapie intensive. Il rapporto consegnato a Palazzo Chigi dal commissario all'emergenza Covid Domenico Arcuri il 9 ottobre dice che i posti letto sono 6.458, uno ogni 9.346 abitanti. Si tratta di un quarto dei posti in più di quelli a disposizione all'inizio dell'anno, appena la metà di quelli programmati dal ministero della Salute. Per il momento - lo rivela sempre il documento di Arcuri - sono occupati appena il 6 per cento dei posti. Se però la curva dei ricoveri dovesse impennarsi alcune Regioni potrebbero trovarsi rapidamente in difficoltà. Il 9 ottobre quelle con più ricoverati gravi rispetto ai posti disponibili sono la Campania (14,7 per cento), la Sardegna (13,4), la Liguria (12,4) e l'Umbria (11,43). Le cose vanno meglio alla voce «malattie infettive e pneumologia»: da 6.525 ora i posti sono saliti a 14.195. C'è un enorme però: i nuovi letti sono quasi tutti al Nord. Sono 5.120 contro gli 886 del Centro e i 1.664 del Sud. L'Italia ha venti sistemi sanitari, e si vede. Il 19 maggio il decreto «Rilancio» ha stanziato 1,9 miliardi per il potenziamento delle strutture sanitarie. Solo ora, a cinque mesi di distanza, le Regioni hanno iniziato a presentare piani per spendere 734 milioni di euro. Nove hanno chiesto ad Arcuri di fare da sole (Abruzzo, Campania, Emilia, Liguria, Puglia, Sicilia, Valle d'Aosta, Trento e Bolzano) tre sono in ritardo, le altre riceveranno i fondi dal commissario su richiesta dei direttori generali delle Asl. Per i governatori puntare il dito contro lo Stato è facile, eppure hanno responsabilità enormi nei ritardi. Una delle emergenze post-Covid è quella delle liste d'attesa per gli interventi non urgenti. Ebbene, l'ultimo decreto di emergenza pubblicato il 15 agosto imponeva alle Regioni di prendere provvedimenti «entro trenta giorni». A ieri le amministrazioni che hanno stanziato i fondi sono appena quattro: Piemonte, Marche, Toscana e Veneto. Stessa cosa dicasi per i tamponi: ci sono Regioni in cui i medici di famiglia sono in grado di disporre dei test, altre in cui, prima di farlo, devono chiedere l'autorizzazione alla Asl. Secondo le stime della loro associazione accade una volta su due. In questi mesi Arcuri ha distribuito 10 milioni e 514mila tamponi, ce ne sono disponibili altri 2,7 milioni, questa settimana ha completato la gara per comprare cinque milioni di test antigenici, quelli che permettono i risultati in poche ore: andranno principalmente alle scuole. Ma quanto ci vorrà per distribuirli? E' più o meno il destino del vaccino antinfluenzale: molte Regioni hanno annunciato la distribuzione ben prima di averlo a disposizione. Il ministero della Salute avrebbe ordinato 17 milioni di dosi, il 30 per cento in più dell'anno scorso, ma nella maggior parte dei casi - soprattutto al Sud - non è possibile prenotarsi. Mai come oggi il governo ha l'opportunità di far recuperare terreno a un sistema sanitario che per vent' anni ha dovuto accontentarsi di non aumentare i fondi. Ma come sempre più degli annunci contano i risultati. Il ministro della Salute Roberto Speranza ha presentato un piano da 29 miliardi da finanziare con fondi europei, eppure dall'inizio della pandemia non siamo riusciti ad utilizzarne bene e rapidamente nemmeno tre.
Alessandro Rico per “la Verità” l'8 ottobre 2020. La peculiarità di Domenico Arcuri è che gli manca il senso del ridicolo. «Abbiamo già avviato un piano di rafforzamento delle reti ospedaliere Covid», ha arringato ieri. Capito? «Già». Come se fosse in anticipo. Eppure, il bando cui fa riferimento il commissario straordinario è partito il primo ottobre. Le offerte arriveranno entro il 12. Dopodiché, inizierà la solita corsa contro il tempo. Tipo quella per i banchi. A proposito: Arcuri ha ribadito che li consegnerà tutti «entro ottobre». Significa che ne sta spedendo oltre 61.000 al giorno: le avete viste, no, le autostrade ingorgate di camion? Purtroppo, anche se, al convegno Fimmg a Villasimius, si è vantato di aver «stabilizzato 7.000 posti di terapia intensiva e 15.000 di subintensiva», lo Speedy Gonzales di Reggio Calabria è di nuovo in ritardo. Come sui reagenti. Come sulle mascherine. Come sugli arredi scolastici. L'epidemia c'è da otto mesi, ma il bando per la «riorganizzazione della rete ospedaliera», che dovrebbe portare ad altri «3.500 posti stabili in intensiva e 4.500 in subintensiva», lui l'ha pubblicato una settimana fa. E sono proprio questi dettagli a smontare la narrazione del governo e del ministro Roberto Speranza. Quel tentativo di puntare il dito sui cittadini irresponsabili, che non mettono i Dpi, non rispettano le distanze e vanno a cena fuori. Se emergenza è, significa che per mesi l'esecutivo ha dormito. L'emergenza, per definizione, è qualcosa che «emerge», che non si poteva prevedere, per cui non ci si poteva preparare. Aver dichiarato l'allerta il 30 gennaio, per poi mettersi a regalare protezioni alla Cina, finendo sguarniti, era già imperdonabile; ancora peggio è volerci dare a bere che, arrivati a oggi, non siamo ancora in grado di gestire la situazione con i mezzi ordinari. Non si poteva immaginare che in autunno ci sarebbe stato un rialzo delle infezioni? Non ci si poteva premunire, arrivando a ottobre con le dotazioni ospedaliere ultimate? Non suona un po' comico parlare di piano «già» avviato, quando siamo ormai nella stagione in cui è possibile una recrudescenza del Covid?Sarà per queste ragioni che Arcuri, in mezzo a tante amenità, ha infilato anche qualche verità. Ad esempio, ha ridimensionato la retorica della strage imminente, che il governo è tornato a cavalcare per preparare il terreno ad altre restrizioni draconiane: «Abbiamo dei numeri ancora nei limiti della normale gestione», ha assicurato il commissario. Che ha sottolineato: «Ieri [lunedì, ndr] eravamo il diciottesimo Paese per numero di contagiati e il 21 marzo eravamo il secondo. [...] Siamo attrezzati a contenere la forza di una eventuale seconda ondata pandemica». Fantastico. Ma il punto resta quello. O siamo messi bene, dunque l'emergenza non c'è, dunque non è necessario minacciare i ristoratori e mandare sul lastrico chi tiene la mascherina abbassata. Oppure l'emergenza c'è e dunque non è andato tutto bene, come da slogan; l'esecutivo non è stato fenomenale, come baltera qualcuno all'Oms; e, soprattutto, non ha senso catechizzarci a ottobre sulla necessità di «prepararci alla possibilità» che i contagi «crescano». Perché questa era un'eventualità cui bisognava pensare a giugno, quando la morsa dell'infezione si era allentata. Cosa faceva Speranza? Dov' era Giuseppe Conte? A che pensava Arcuri? Il commissario, giorni fa, è stato convocato dal Cts per un incontro di «preparazione» alla stagione autunnale e invernale, al fine di scongiurare «possibili mancanze» di Ffp2 e Ffp3 nei nosocomi. Ci rendiamo conto? Sui monti nevica, però Arcuri e il Cts si stanno ancora («già», direbbe lui) preparando all'inverno e alla potenziale penuria delle mascherine, per le quali l'ad di Invitalia avrebbe già dovuto garantire l'autonomia produttiva del Paese. Ecco qual è la vera emergenza: è che l'emergenza la gestiscono questi qui.
Coronavirus, Franco Bechis: "Governo di irresponsabili, ecco le cifre sulle terapie intensive". In sei mesi non è cambiato nulla. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2020. La seconda ondata di coronavirus è già qui ma l'Italia si fa trovare impreparata. La denuncia arriva da Franco Bechis, che parla di "governo di irresponsabili", indietro su tutto: terapie intensive, banchi scolastici e vaccini anti-influenzali. "A febbraio nessuno aveva pensato di fare gli acquisti necessari di mascherine, camici, guanti, respiratori e tutto quel che serviva almeno negli ospedali e nei centri medici per affrontare la pandemia - ha scritto il direttore sul Tempo -. Ma almeno speravamo che quella esperienza negativa sarebbe stata di lezione a chi aveva mostrato tanta irresponsabilità". Innanzitutto Bechis fa notare che nulla è cambiato negli ospedali, dove le terapie intensive sono le stesse che andarono nel panico a marzo. All'epoca sia il premier Giuseppe Conte che il ministro della Salute Roberto Speranza assicurarono che si sarebbe fatto di tutto per rafforzare gli ospedali. Ma così non è andata. Solo il 2 ottobre, infatti, il commissario Domenico Arcuri ha emanato il bando "per l'affidamento di lavori, servizi di ingegneria ed architettura e altri servizi tecnici al fine dell'attuazione dei piani di riorganizzazione della rete ospedaliera nazionale". "In pieno inizio della seconda ondata siamo ancora al giorno zero delle nuove terapie intensive". continua Bechis. Un ritardo difficile da spiegare secondo il giornalista, anche perché ci si era mossi già a maggio, quando un decreto del governo aveva stanziato più di 1 miliardo di euro per finanziare gli interventi necessari negli ospedali. A quel punto l'esecutivo aveva chiesto e ottenuto i progetti dalle regioni e Speranza aveva dato la sua approvazione il 29 maggio con una circolare. Ma da quel giorno più nulla. Adesso bisogna, quindi, darsi una mossa. Ma non è detto che si riesca a fare tutto in tempo. Ecco perché Franco Bechis lancia l'allarme: "Anche correndo il bando deve cercare progettisti e architetti che disegnino sia quelle terapie intensive che i percorsi di ingresso e uscita da quei luoghi necessari. Se il virus dovesse marciare esponenzialmente con la velocità mostrata in queste settimane, saremmo fritti e con il sistema sanitario nazionale per la seconda volta in tilt". La stessa irresponsabilità, secondo il giornalista, è stata dimostrata anche sul versante scuola, dove mancano ancora i banchi, e sul versante dei vaccini anti-influenzali. Non ce ne sarebbero abbastanza, infatti, per soddisfare la domanda di tutti i cittadini.
I guai di mister Mascherina: indagine sui suoi stipendi. La Corte dei conti accende il faro sui compensi fuori quota da manager Invitalia: 396mila euro nel 2016. Luca Fazzo, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. Una sfilza di redditi da leccarsi i baffi, anno dopo anno, con buona pace dei tentativi del governo di mettere un freno alle retribuzioni d'oro dei manager pubblici. Protagonista, un boiardo divenuto negli ultimi mesi familiare agli italiani: Domenico Arcuri, oggi commissario straordinario all'emergenza Covid-19, l'uomo scelto il 18 marzo dal governo per garantire l'approvvigionamento delle mascherine e degli altri strumenti di protezione dal virus. I rifornimenti ad arrivare ci hanno messo un po', nel frattempo Arcuri si è scontrato frontalmente con i farmacisti, ha promesso a tutti le mascherine a mezzo euro, e alla fine è andato in Parlamento a rivendicare di non avere sbagliato niente. Il premier Giuseppe Conte probabilmente non la pensa proprio così, visto che a metà aprile lo affiancò con una task force assai nutrita, trentanove tra consulenti, ufficiali, manager: al punto che il gesto di Palazzo Chigi suonò come una sorta di commissariamento. Se l'operato di Arcuri come commissario straordinario è sotto gli occhi di tutti, celate nei meandri di vecchi e sconosciuti documenti ci sono le performance e le retribuzioni che il manager ha incassato nella sua vita precedente, e che hanno sollevato più di un interrogativo da parte della Corte dei conti. A scovarle è stato Claudio Rinaldi, inviato del programma di Nicola Porro Quarta Repubblica, che le ha raccontate nella puntata di ieri sera. Si tratta delle relazioni che la Corte ha inviato al governo e al Parlamento analizzando i bilanci di Invitalia, l'Agenzia per lo sviluppo, di cui Arcuri è amministratore delegato da ormai tredici anni consecutivi. Un posto prestigioso, mantenuto da Arcuri sotto sette governi e cinque maggioranze. Oltre che prestigiosa, la carica è ben retribuita. La Corte dei conti nella sua relazione sul bilancio 2014 indica come compensi percepiti da Arcuri 789mila euro nel 2012 e 760mila l'anno successivo. Nel 2013, il governo Monti vara la prima norma che mette un tetto agli stipendi dei manager pubblici, indicando come parametro quello del presidente della Cassazione: ebbene, nel 2014 la busta paga di Arcuri si alleggerisce un po', ma si assesta a quota 599mila, ben al di sopra del tetto indicato dal governo. E molto di più anche di quanto lo stesso Arcuri dichiara il 26 marzo 2014 di guadagnare in una intervista a Repubblica: «Prendo 300mila euro all'anno, tutto compreso». Ben al di sopra si rimane anche negli anni successivi: 396mila euro, più 23mila di rimborsi spese (voce apparentemente fissa, visto che rimane costante negli anni) sia nel 2015 che nel 2016. Viene smentito anche quanto il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan aveva comunicato nell'aprile 2015 al Parlamento, indicando il taglio a 300mila euro dello stipendio di Arcuri come esempio dei sacrifici imposti ai boiardi di Stato. Nella sua relazione sul 2014 la Corte dei Conti non manca di sottolinearlo ripetutamente: «Permangono i profili di criticità già evidenziati nella scorsa relazione relativi all'adempimento alle prescrizioni di legge in materia di compensi all'amministratore delegato e al presidente», si legge. Oltretutto, l'assemblea dei soci (ovvero il Ministero dell'economia, che controlla Invitalia al 100%) «ha invitato il Consiglio di amministrazione a ricondurre i trattamenti economici ai limiti di legge», si legge nella relazione sul bilancio 2014. L'invito del ministero evidentemente non viene accolto, perché anche nel 2015 e nel 2016 Arcuri e i suoi consiglieri vengono richiamati al rispetto della legge. Ma non accade nulla. Solo l'anno successivo, Invitalia e i suoi manager cambiano status, perché l'Agenzia inizia a emettere obbligazioni quotate e viene pertanto svincolata dal rispetto dei tetti, introducendo una parte legata ai risultati: e a quel punto, curiosamente, lo stipendio di Domenico Arcuri scende di colpo. Ma intanto il futuro mr. Mascherine ha incassato i suoi super stipendi fuori quota.
Dagospia l'11 luglio 2020. LA PRECISAZIONE DI ARCURI. Arcuri: Nessuna indagine che mi riguarda. 1,9 milioni di euro sono compensi di più persone per più annualitá. In riferimento alle notizie circolate su alcuni organi di stampa che riguardano l’avvio nei miei confronti di una indagine della Corte dei Conti, desidero innanzitutto precisare che, ad oggi, non vi è alcuna indagine, ma solo l'invio di un avviso volto ad interrompere eventuali termini prescrizionali. I fatti riguardano il controllo della Corte dei Conti relativo al 2015 e agli anni precedenti ma che è stato trasmesso ora. Quanto al merito della vicenda, ho già dato istruzioni di offrire la massima collaborazione alla Corte dei Conti in modo da chiarire l’assenza di qualunque errore da parte mia o di Invitalia. Come avrò modo di spiegare, la disciplina relativa ai tetti di trattamento economico non trova applicazione per contratti che, come il mio, risalgono ad una data antecedente al 2007. Inoltre è opportuno sottolineare che l’importo di 1,9 milioni di euro deriva dalla somma di più annualità ( 6 anni ), e dai compensi di più persone. Confido quindi che già da domani si possa dimostrare che non vi è stata alcuna violazione o irregolarità.
CORTE DEI CONTI, INCHIESTA SUGLI STIPENDI DEL COMMISSARIO ARCURI, AD DI INVITALIA: "DANNO DA 1,9 MILIONI DI EURO". Estratto dell’articolo di Lorenzo D’Albergo per “la Repubblica” l'11 luglio 2020. (...) In veste di amministratore delegato di Invitalia, come ricostruito dal pm Massimo Lasalvia, avrebbe percepito uno stipendio più alto del dovuto. Per questo, assieme ad altri 14 tra membri del consiglio di amministrazione e manager della società controllata dal ministero dell'Economia, ha ricevuto la richiesta di restituire la somma al pubblico erario entro i prossimi 10 giorni. (...) Il fascicolo è stato aperto il 7 dicembre 2016, quando la sezione di controllo sugli enti della Corte dei Conti ha inviato alla procura regionale del Lazio tutte le criticità riscontrate spulciando i il bilancio 2014 di Invitalia. L'anno non è casuale: dal primo maggio del 2014, infatti, secondo la normativa allora appena entrata in vigore, la società che si occupa di attrarre investimenti e dello sviluppo delle imprese avrebbe dovuto adeguare i compensi dei suo vertici. Per Arcuri, ad dell'ente, il tetto sarebbe dovuto essere di 192 mila euro annui. Per il presidente del consiglio di amministrazione, la soglia è ancora più bassa: 57.600 euro. (…)
DANNO DA 2 MILIONI I FINANZIERI DA ARCURI. Valeria Di Corrado per “il Tempo” l'11 luglio 2020. Va avanti come un treno l' inchiesta della Corte dei conti del Lazio sugli emolumenti «extra» che avrebbe in debitamente percepito Domenico Arcuri nella veste di amministratore delegato della società Invitalia, partecipata al cento per cento dal ministero dell' Economia e delle Finanze. Giovedì i finanzieri del nucleo di Polizia economico -finanziaria di Roma, su ordine del vice procuratore Massimo Lasalvia, hanno notificato all' attuale commissario straordinario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere necessarie a far fronte all' emergenza Covid-19 un atto di costituzione in mora, con il quale si chiede ad Arcuri e ad altre 14 persone di restituire entro 10 giorni all' erario 1,9 milioni di euro. Con questo atto si interrompe infatti il termine della prescrizione, che nella giustizia contabile è di 5 anni. L' indagine è partita guando, il 7 dicembre 2016, la sezione del Controllo sugli enti della Corte dei conti ha trasmesso alla procura regionale del Lazio le criticità riscontrate dal controllo eseguito dai magistrati sulla gestione finanziaria relativa all' anno 2014 dell' Agenzia nazionale per l' attrazione degli investimenti e sviluppo d' impresa spa (Invitalia). Secondo la nuova normativa, infatti, tale società avrebbe dovuto adeguare il compenso dell' amministratore delegato all' 80% del limi te massimo retributivo di 240.000 euro annui, cioè di 192.000 euro annui. Allo stesso modo avrebbe dovuto adeguare il compenso del presidente del consiglio di amministrazione al limite massimo del 30% dell' ad, cioè a 57.600 euro. È emerso invece che Arcuri, amministratore di Invitalia dal lontano 2007 e tutt'oggi in carica, nel corso del 2014 abbia avuto un compenso complessivo pari a 617mi1a euro e che l' ex presidente del cda Giancarlo Innocenzi Botti per quell' anno ab bia percepito 151mila euro, tra indennità e rimborso spese. Entrambi, quindi, avrebbero sforato il tetto massimo previsto dalla legge. E lo avrebbero fatto anche l' anno precedente e gli anni successivi. Eppure, in un' intervista del 26 marzo 2014 a «La Repubblica», Arcuri si era vantato di essere uno dei pochi manager pubblici in Italia ad essersi ridotto lo stipendio, riparametrandolo ai risultati raggiunti: «Se si accetta di lavorare per la cosa pubblica si deve accettare di prendere un po' di meno». Alla domanda specifica del giornalista su quanto guadagnasse in quel momento, Arcuri rispose: «Trecento mila euro l' anno, tutto compreso». Ma gli accertamenti dei magistrati contabili della sezione Controllo hanno dimostrato che prendeva esattamente il doppio di quanto dichiarato nell' intervista. L' andazzo non è cambiato nemmeno negli anni successivi: nel 2015 Arcuri aveva percepito 419mi1a euro complessivi; mentre Innocenzi Boni 156mi1a. Nel 2016, il primo sempre 419mi1a euro; il secondo 127mi1a. Nel 2017 l' attuale commissario al Co vid aveva guadagnato 265mila euro (a fronte di un limite di 192mi1a) e l' ex presidente del cda 109mi1a (a fronte di un limite di 57.600 euro). Insomma, dal 2013 al 2017, Ar curi avrebbe percepito 1,4 milioni di euro in più di quanto prevede la legge, Innocenzi Boni 323mi1a euro in più e il presidente pro -tempore Claudio Tesauro 120mi1a euro in più. Per cui si arriva a un presunto danno erariale, contestato dai pm, pari a 1.911.160 euro addebitabile ai consiglieri del cda di Invita lia, ai membri del consiglio sindacale della società chiamati a dare il loro parere sulle remunerazioni e al responsabile della direzione VII del Dipartimento del Tesoro, Francesco Parlato, che avrebbe omesso i dovuti controlli. Due dei sindaci chiamati a rispondere del danno rico prono lo stesso incarico in Mediocredito Centrale -Banca del Mezzogiorno, società acquisita da Invitalia nell' agosto 2017. Un mese dopo è stato nominato amministratore delegato Bernardo Mattarella, nipote del Presidente della Repubblica. Consultando oggi il sito di Invitalia non viene riportata l' attuale retribuzione di Arcuri, che ad aprile si era scagliato contro le «sentenze dailiberisti sul divano con un cocktail in mano», riferendosi a chi rivendicava che il prezzo finale della mascherine doveva essere fissato dal mercato e non dallo Stato.
Chi è Domenico Arcuri, nuovo commissario per l'emergenza coronavirus, da 13 anni alla guida di Invitalia. Già di casa nel quartier generale della Protezione civile: fin dall'inizio dell'emergenza si è occupato degli approvvigionamenti di materiale e apparecchiature sanitarie. Giovanna Vitale l'11 marzo 2020 su La Repubblica. Classe 1963, calabrese di Melito Porto Salvo, il neo commissario per l'emergenza Domenico Arcuri è da 13 anni amministratore delegato di Invitalia, l'agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo d'impresa controllata dal ministero dell'Economia. Riconfermato alla guida, per la quinta volta, appena tre mesi fa. Dopo aver frequentato la scuola militare della Nunziatella a Napoli, nel 1986 Arcuri si laurea in Economia alla Luiss e inizia una lunga carriera tra pubblico e privato. A partire dall'Iri, dove si occupa delle aziende del gruppo operanti nei settori delle telecomunicazioni, dell'informatica, della radiotelevisione. Nel 2004, dopo aver guidato in Italia la "Telco, Media e Technology" di Arthur Andersen, diventa amministratore delegato della Deloitte Consulting, trasformandola in una delle più grandi aziende nel settore della consulenza alle grandi aziende e alle pubbliche amministrazioni. Da numero uno di Invitalia ha curato la reindustrializzazione di aree in crisi come Termini Imerese e la bonifica dell'area di Bagnoli. Nel quartier generale della Protezione civile Arcuri è già di casa: Invitalia opera infatti come centrale di committenza per gli appalti della Pubblica Amministrazione e da quando è iniziata l'emergenza si è occupato degli approvvigionamenti di materiale e apparecchiature sanitarie.
Domenico Arcuri, il supercommissario alla pandemia immune dai mutamenti della politica. Ex consulente, alla guida di Invitalia da tredici anni, il manager di origine calabrese aspirava alla guida di Leonardo prima di essere nominato a gestire l'emergenza virus. Amico di andreottiani e dalemiani, storia di un bravo navigatore tra destra e sinistra. Gianfranco Turano il 12 marzo 2020 su L'Espresso. Quando uno resta tredici anni nello stesso posto è perché non vuole fare carriera oppure non riesce a farla. Dalle 21.50 circa di mercoledì 11 marzo nessuna delle due opzioni si applica più a Domenico Francesco Arcuri, 56 anni, dal 2007 manager di Sviluppo Italia, poi ribattezzata Invitalia. Il premier Giuseppe Conte ha scelto l'ex consulente (Arthur Andersen, Deloitte) di origine calabrese come commissario all'emergenza coronavirus, una figura prevedibile e forse per una volta giustificata nel paese dei mille commissari. La nomina era attesa ed è stata condotta in porto disseminando la strada, come vuole il manuale degli incarichi, di candidature civetta come quelle di Gianni De Gennaro e Guido Bertolaso, per motivi diversi due uomini molto più ingombranti. Arcuri è adattabile. Portato a Sviluppo Italia da Massimo D'Alema, si è ricollocato senza battere ciglio con il sistema Silvio Berlusconi-Gianni Letta. Con altrettanta flessibilità è tornato nelle grazie dei governanti giallo-rosa grazie al ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, dalemiano antemarcia entrato in direzione nazionale proprio nel 2007, l'anno di esordio di Arcuri fra i boiardi di Stato. "Ora, questo è il momento di compiere un passo in più. L'Italia rimarrà sempre una zona unica. Ma ora disponiamo anche la chiusura di tutte le attività commerciali di vendita al dettaglio a eccezione dei negozi di beni di prima necessità, delle farmacie e delle parafarmacie. Chiudiamo negozi, bar, pub, ristoranti. Chiudono parrucchieri, centri estetici e servizi di mensa". Ad annunciare il blocco totale in tutta Italia è il premier Giuseppe Conte in diretta da Palazzo Chigi. "Per le attività produttive va incentivato il più possibile il lavoro agile, incentivate le ferie e i permessi. Le fabbriche potranno continuare a svolgere attività produttive a condizione che assumano protocolli di sicurezza che evitino il contagio. Resta garantito lo svolgimento dei servizi pubblici essenziali, tra cui i trasporti", ha concluso il Presidente del Consiglio nel nuovo messaggio agli italiani. Restano sempre aperti gli alimentari, i supermercati, le farmacie e le parafarmacie. La scintilla con Conte sarebbe scattata su un finanziamento da 280 milioni di euro per lo sviluppo della Capitanata, nella provincia foggiana cara al presidente del Consiglio, che Arcuri avrebbe contribuito a sbloccare. Nei tredici anni passati a guidare l'azienda di sostegno alle imprese italiane, Arcuri ha moltiplicato il suo spettro relazionale grazie all'ex moglie, la giornalista tv Myrta Merlino, al suo uomo delle relazioni istituzionali Stefano Andreani, scomparso nel 2017, cavaliere del Santo Sepolcro ed ex portavoce del Divo Giulio Andreotti. Fra una cena elegante con l'ingegnere Francesco Gaetano Caltagirone e un convegno di Confindustria, Arcuri si è dovuto districare fra le numerose patate bollenti di un panorama imprenditoriale in declino. Ha seguito la cessione dell'impianto automobilistico di Termini Imerese alla Blutec del torinese Roberto Ginatta, arrestato un anno fa per malversazioni nella gestione dei finanziamenti pubblici ricevuti. Si è occupato della bonifica e del rilancio dell'area dismessa di Bagnoli. Ha lavorato alla cessione dell'Ilva di Taranto al gruppo franco-indiano Arcelor Mittal. Il Sars-Cov-2 entra a buon diritto in una lista di situazioni altamente critiche, anche se Arcuri avrebbe preferito la guida di Leonardo, l'ex Finmeccanica, in sostituzione di Alessandro Profumo all'ultimo giro di nomine messo in stand-by dalla pandemia. Sulla pratica Leonardo, i nemici di Arcuri parlano di un'autocandidatura mentre altri nemici, dalle parti di un altro andreottiano di vecchia scuola, Luigi Bisignani, hanno fatto resistenza attiva. Sull'emergenza virus, il profilo del manager sembra consentire ampia capacità di manovra a premier e ministri. Non è detto sia un male, anzi. Nella storia dell'impresa italiana, di solito i supercommissari troppo indipendenti hanno fatto più danni di quelli che hanno trovato.
Gianni Dragoni per “il Sole 24 Ore” il 3 aprile 2020. Domenico Arcuri, nominato supercommissario per il Coronavirus. ha un doppio incarico, perché non lascerà la poltrona di amministratore delegato di Invitalia. Arcuri fu nominato ad della società pubblica nel febbraio 2007 dal governo di Romano Prodi. Lo sponsor di Arcuri è Massimo D'Alema. Con la nomina di Arcuri, il governo tentò di trasformare l’ex Sviluppo Italia da carrozzone in "Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa”. Non si può dire che Invitalia abbia risultati brillanti. Come attenuante, i compiti affidati alla società riguardano situazioni critiche. Per esempio, il rilancio di Termini Imerese dopo l'addio di Fiat o la ricerca di un partner industriale (andata a vuoto) per l'Industria Italiana Autobus. Dal 2018, Invitalia cerca di vendere la controllata Italia Turismo, che possiede otto villaggi turistici nel Sud dati in gestione a terzi e terreni. Nell'ultimo bilancio, si legge che il 14 giugno 2019 Invitalia «ha comunicato la positiva valutazione di un'offerta pervenuta da un investitore terzo» per larga parte dei villaggi e immobili. Ma, dai documenti societari, risulta che Italia Turismo e i villaggi sono ancora di Invitalia. La società del turismo nel 2018 ha fatturato 7,15 milioni e ne ha persi 7,2; dal 2016 al 2018 ha perso 25,57 milioni. Ha un debito con le banche di 47 milioni. A fine 2018, aveva 11 dipendenti, costati nell'anno 921.790 euro. Al 30 settembre 2019, secondo una visura Cerved, i dipendenti erano saliti a 12, con l'aumento dei dirigenti da 2 a 3.
Alessandro Barbera per “la Stampa” il 12 marzo 2020. Nei momenti di difficoltà si scelgono le persone di fiducia. Per Roberto Gualtieri quella di Domenico Arcuri a commissario delegato per l' emergenza virus non è a caso. Arcuri, calabrese di Melito Porto Salvo, è amministratore delegato di Invitalia da un lustro. Nel 2007 ha preso in mano un carrozzone clientelare per farne - per quanto gli è riuscito - un' Agenzia pubblica per lo sviluppo. Laureato in Economia alla Luiss di Roma, nato professionalmente nella consulenza (nell' allora Arthur Andersen e poi in Deloitte) vanta una lunga esperienza nelle aziende pubbliche, un mondo le cui regole solo in parte sono le stesse delle private. Arcuri, 57 anni, è passato dall' Iri, e più precisamente dalla direzione pianificazione e controllo. Lì si occupò di telecomuncazioni e informatica. Arcuri è abilissimo anche nelle relazioni politiche: nei tredici anni a Invitalia è passato indenne da otto governi, di destra e sinistra. Di recente aveva stretto buoni rapporti con il Movimento Cinque Stelle, cosa che gli aveva garantito la riconferma ad Invitalia. Ma Arcuri era e resta un amico del ministro del Tesoro e del suo mentore politico, Massimo D' Alema. Nelle ultime settimane, prima che l' emergenza costringesse il governo a rinviare i rinnovi nelle grandi aziende pubbliche partecipate dallo Stato, il nome di Arcuri era circolato per sostituire Alessandro Profumo alla guida di Leonardo. Ad Arcuri ora va un compito da far tremare i polsi. Dovrà coordinarsi con la Protezione civile di Angelo Borrelli per gestire i fondi - moltissimi fondi - necessari ad affrontare l' epidemia del coronavirus. Arcuri ha la fama di essere un uomo di polso, e nella maggioranza c' era l' opinione diffusa che Borrelli non aveva l' esperienza necessaria. Domani il consiglio dei ministri stanzierà i primi dodici miliardi di euro, che serviranno anzitutto ad evitare il peggio alle famiglie. Ma di qui a pochi giorni c' è da prepararsi a molte altre spese, a partire da quelle necessarie a rafforzare i presidi ospedalieri. Spiega Conte annunciando la scelta: «Arcuri avrà ampi poteri di deroga, lavorerà per rafforzare la produzione e la distribuzione di attrezzature di terapia intensiva e sub intensiva, il potere di impiantare nuovi stabilimenti e sopperire alle carenze sin qui riscontrate». Lo scenario che terrorizza il governo è quello di un estensione dell' epidemia al Sud. E se il coronavirus ha messo in ginocchio la sanità lombarda, molti si chiedono che accadrebbe se ad essere colpita fosse la Campania. Insomma, il numero uno di Invitalia sarà una sorta di assicurazione sulla vita di Conte e del governo. In realtà il premier ha tentato fino all' ultimo di evitare la nomina, anche perché sperava che l' emergenza non lo costringesse a tanto, ma ha dovuto cedere alle pressioni del Pd, che in questo modo gli sottrae la responsabilità di gestire l' emergenza. Eppure la cosa era nell' aria da tempo: più di una fonte racconta di averlo visto più volte alla Protezione civile. Conte gli aveva già chiesto una mano per aumentare la produzione di maschere per il personale sanitario, ormai introvabili.
Arcuri, maschera socialista che vuole il prezzo morale. Il costo bloccato a 50 cent ha paralizzato il mercato. Ma bastava leggere Manzoni per avere una lezione liberale. Nicola Porro, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. In un articolo uscito sul Los Angeles Times il 17 febbraio del 1977, il premio Nobel per l'Economia, Milton Friedman, scriveva: «Noi economisti non conosciamo molte cose, ma sappiamo come creare una carenza nei mercati. Se vuoi creare una carenza di pomodori, per esempio, basta approvare una legge che vieta ai rivenditori di vendere pomodori per più di due centesimi a libbra. Immediatamente, si ottiene una carenza di pomodori. Vale lo stesso per la benzina o per il gas». E per le mascherine chirurgiche, aggiungiamo noi. Der Kommisar (vi ricordate la vecchia canzone di Falco?) Arcuri ne combina una dietro l'altra: ha prima detto che sarebbero arrivate in abbondanza e poi ha fissato un prezzo massimo di 50 centesimi (che poi sono 61, visto che l'Iva i consumatori la pagano). Ovviamente le protezioni sono diventate introvabili, come anche uno studente di economia al primo anno avrebbe immaginato. Der Kommisar ha poi detto che era colpa delle Regioni, delle Farmacie e della distribuzione. Colpa di tutti tranne che sua. Vedrete che, finita l'emergenza, sarà la stessa storia per il risanamento di Bagnoli, incautamente affidato dal governo Renzi al medesimo Arcuri. Sull'incapacità del commissario di rimediare le mascherine, che proprio il governo ha rese obbligatorie, ci sono pochi dubbi. Molti però apprezzano l'idea di aver posto un prezzo limite: contro la speculazione, si dice. E la cosa paradossale è che gli stessi che apprezzano la tariffa stabilita per legge, vi consegnano contestualmente la propria fede liberale. Vedete, le mascherine di Arcuri, rappresentano proprio il caso di scuola per distinguere un liberale (tutti oggi si definiscono tali) da un socialista (nessuno oggi, tranne pochi onesti intellettualmente, si vogliono sentire chiamare così). Non vogliamo renderla complicata, ma la teoria dei prezzi è proprio ciò che discrimina le due grandi scuole di pensiero economico. I liberali sono convinti che il prezzo sia banalmente un'informazione: e cioè di quanto un bene o un servizio sia richiesto in rapporto alla sua offerta. Se un bene è scarso e vi è una grande richiesta, il prezzo sale e in questa maniera indica una corsa al suo acquisto. D'altra parte più sale un prezzo e più c'è convenienza per terzi operatori di entrare in quel mercato per fare soldi: cosa legittima, ovviamente. Insomma, quando i prezzi si alzano arrivano nuovi fornitori che cercano di prendere una quota di mercato e aumentando così l'offerta riducono il prezzo. Per un pianificatore, un socialista, il prezzo ha un obbligo morale, che il mercato non considera. Deve essere giusto, anzi equo. E dunque in una società che non può più essere quella pianificata e sovietica, il prezzo deve essere controllato, stabilito, vigilato. Il caso Arcuri. I cosiddetti liberali che condividono il prezzo di 50 centesimi, sono ovviamente dei socialisti mascherati. Nulla di male, basta intendersi. E giustificano la propria accondiscendenza al prezzo di Arcuri con due punti di vista ritenuti forti. Il primo è l'ingiusto profitto che farebbero gli speculatori. Il secondo è il rispetto del portafoglio dei più deboli. La forza dei principi liberali in economia è che non solo rispettano la fondamentale libertà economica, ma che alla prova dei fatti i meccanismi di mercato aiutano soprattutto i più deboli, oltre che i più meritevoli. Andiamo nel concreto. Fissare un prezzo massimo per le mascherine non ha comportato la fine della speculazione, ma ha cagionato il fermo della distribuzione. Bastava leggere Manzoni: nei Promessi Sposi racconta l'Arcuri della peste di Milano, che impose il prezzo del pane, così disincentivando la sua produzione e alimentando l'assalto ai forni e la scarsità della pagnotta. Oggi sostituite il pane con le mascherine e il gioco è fatto. In un mercato libero si sarebbe assistito ad un aumento anche elevato dei prezzi delle mascherine, ma proprio per questo motivo ci sarebbe stato l'incentivo a produrle, importarle e costruirle in quantità vista l'intraprendenza dei nostri imprenditori. Il socialista non crede nel mercato e pensa come un dio dei commerci di stabilire cosa sia giusto: il risultato è che l'abbassamento dei prezzi per legge, avviene con molto più ritardo rispetto a quello che avrebbe portato la concorrenza. Si dirà che nella prima fase i più deboli non avrebbero avuto a disposizione la preziosa protezione. Vero. Ecco perché lo Stato sarebbe potuto intervenire nella difesa dei più deboli, nel corrispondere loro meglio in cash che in natura, la disponibilità necessaria per acquistare mascherine. Diamo un inutile credito fiscale, in base al reddito, per andare in vacanza, avremmo potuto fornire un più utile sostegno immediato e monetario per dotarsi di mascherine. E non avremmo inceppato il meccanismo del mercato. I pianificatori, i socialisti, sono molto presuntuosi. Pensano di sapere cosa sia meglio per voi, pensano di decidere da soli meglio di quanto facciano milioni di consumatori, e quando vengono smentiti attribuiscono sempre agli altri la colpa. Il mercato non è infallibile, ma lo Stato è Arcuri. Il liberale preferisce sempre il primo, cari amici liberali dell'ultima ora che tanto amate il prezzo imposto. Toc Toc: ma quando la crisi economica inizierà a mordere per davvero, perché non fissare per legge il prezzo massimo del pane? O delle uova? O di quei generi alimentari essenziali? Perché fermarsi alle mascherine? Ogni emergenza ha la sua infelicità e in un giorno di cattivo commercio ci potremo trovare un bel comitato prezzi, che stabilisca oltre alle tariffe anche il giusto profitto. In fondo il passo è brevissimo.
Domenico Arcuri: il commissario straordinario che elogia il commissario straordinario per il suo lavoro straordinario. Max Del Papa per nicolaporro.it il 5 giugno 2020.
Mercuriale Domenico Arcuri: “Siamo stati straordinari, tutti dovrebbero riconoscerlo”. L’ha detto davvero, e già che pretenda pubblica devozione, dimostra qualcosa. Dimostra che la devozione latita e a questo punto bisogna capire se sono gli italiani a non comprendere o se è lui a non meritarsela. Domenico Arcuri, de profezion bel zovine (avrebbe detto Nereo Rocco), è della specie più pericolosa: uno che crede sul serio di essere un fuoriclasse, non importa quanto la realtà faccia muro: se i conti non tornano, al diavolo i fatti, se ne faranno una ragione. In realtà, l’universo che dovrebbero riconoscerlo, riconosce in Arcuri una figura che fino a tre mesi fa non sospettava: quella dell’ennesimo boiardo, o superburocrate, o manager, o influencer, tanto ormai sono categorie intercambiabili, ne trovi a un soldo la dozzina e te li tirano dietro (un altro sta a Londra…), dalle sicure competenze: anche se nessuno saprebbe dire quali; neanche Arcuri, che è un po’ come la magistratura: garantisce per lui.
Arcuri è Cassazione: quando dichiara qualcosa, quella è. Magari alla rovescia, ma quella è. Il rosario di gaffe nel tempo del lockdown è leggendario, roba difficile da mettere insieme in poche settimane, ci voleva proprio un supermanager, di quelli che i ministeri si rimpallano di legislatura in legislatura; perché i governi passano, ma gli Arcuri galleggiano sempre, come l’olio sull’acqua. Domenico è sempre Domenico: eccolo, ancora nel riscaldamento della pandemia, 22 marzo, alle prese con Lucia Annunziata: “Il Presidente del Consiglio Conte che governa questa macchina complicata ha chiesto e ottenuto dal Presidente Putin di far arrivare in queste ore, e arriveranno a Roma, alcuni aerei dell’Unione Sovietica che porteranno 180 medici, infermieri e ventilatori”. L’Unione Sovietica. Che si era sbriciolata 29 anni prima. Ma, si sa, Arcuri è un comunista da dormeuse e rifugge la realtà, per lui il tempo s’è fermato all’amore in bianco e nero per l’URSS; un po’ come Sandrino Mazzola che, quando rievoca le sue gesta in azzurro, parla ancora di “Jugoslavia” e “Cecoslovacchia”. Muri di memoria che non vanno giù.
Da quel momento, è escalation, der Uberkommissar non smette più d’incombere: ammonisce, dirige, consiglia, striglia, sgrida, annuncia, vaticina, sempre con quella voce che sprizza affabilità da tutte le corde vocali. I risultati, da quel grosso manager che è, non tardano ad arrivare: spara la notiziona dei “5 milioni di tamponi già pronti” e immediatamente il virologo Andrea Crisanti lo infila di rimessa: sì, ma i reagenti dove stanno? Al che Domenico replica: calma e gesso, stiamo facendo il bando. È il 12 maggio, in Veneto lo stesso Crisanti ha fiutato il pericolo per tempo ed è partito il 20 gennaio, quasi 4 mesi prima. Bando alle ciance!
Quelle di Arcuri, che, non contento, infila subito un’altra perla: entra a gamba tesa nello smercio delle mascherine annunciando un prezzo calmierato di 50 centesimi e scagliandosi contro i “liberisti da divano”: la trovata dirigista del tovarish manager da sofà raggiunge l’effetto immediato di una sicura distruzione del mercato: quei patetici scudi di pezza contro il virus impalpabile diventano più ricercati di un Gronchi rosa per la disperazione di farmacisti, cittadini e congiunti; cassoni di robaccia cinese (l’ironia del fato non ha limiti, come l’incoscienza di certi fenomeni al potere) intercettati alla dogana, e quindi la fatidica soluzione all’italiana: arrangiatevi, va bene tutto, cartone, pannolenci, fazzoletti, scampoli di tappezzeria, si torna, anzi si resta, all’arte d’arrangiarsi.
Ma niente paura: “Stiamo provvedendo”, raccomanda senza requie Domenico, che è uno dei Gerundio Boys di Giuseppi il quale lo apprezza al punto da mortificare chiunque si permetta una domanda – “Se lei ritiene di far meglio di Arcuri, la terrò presente”. E solo la buona educazione impedisce al giornalista Alberto Ciapparoni, di RTL 102,5, di rispondergli: tutti farebbero meglio di Arcuri.
Der Uberkommissar non fa una piega, avanti per il suo sentiero di spocchia anche quando il presidente di Federfarma, Marco Cossolo, lo pungola: “Il Commissario mi dica dove devo trovarle e noi ben volentieri le comperiamo. A quest’ora sul mercato non sono disponibili. E si faceva una gran fatica anche prima del prezzo calmierato. In ogni caso confermo quanto già detto e preciso che le farmacie non si sono mai lamentate né del prezzo basso, né abbiamo mai detto che ci rimettevamo a venderle perché eravamo ristorati”. Italia, porco paese che non riconosce le sue eccellenze.
Nel frattempo, Giulia Presutti di Report si occupa di una attorcigliata faccenda di respiratori sequestrati e dissequestrati alla dogana: quando la stessa Presutti, durante la conferenza stampa del 2 maggio, lo incalza sul punto, Arcuri prima si agita, poi si mette a vaneggiare di calcio. Insomma fa melina e, all’occorrenza, butta la palla in fallo laterale. Resterebbe da rievocare l’ulteriore capolavoro sulla app Immuni, più volte annunciata in una bufera di confusione, di incertezze, di rinvii e di conseguente diffidenza negli italiani i quali, pervicacemente, non ce la fanno proprio a convincersi della straordinarietà del loro Uberkommissar. Cazzoni che altri non sono. E sì che Domenico sono 3 mesi che li avverte, un po’ alla maniera del prof. Muscolo, quello di Gian Burrasca: “Tutti fermi! Tutti zitti! Nessuno si azzardi a muovere un muscolo del viso!”.
Ancora poche ore fa, in occasione del “ritorno alla normalità” senza più barriere regionali, non si è tenuto dal tratteggiare orizzonti di sfiga: “Abbiamo riconquistato la libertà ma non dimentichiamo quei terribili giorni, pieni di morti. Senza una consapevole gestione dell’emergenza il virus si sarebbe esteso probabilmente in tutto il Paese con la stessa profondità e la stessa drammatica gravità”. Praticamente Arcuri si sente contemporaneamente megadirettore laterale e impiegato inferiore: allo specchio si dice: io sono un supermanager eccezionale, ma buono; e si risponde: com’è umano, lei…
Umano, troppo umano: mai smettere di affliggere le populace scriteriato, incline alle movide, agli assembramenti, questo lumpenproletariat da guidare col bastone e la carota (ministro Francesco Boccia dixit, un altro che te lo raccomando). Lenin dove sei. Eh, non sconfinfera troppo ad Arcuri la libera uscita, la licenza dalla clausura, lui, da bravo nostalgico dell’Unione Sovietica, sogna una società regolamentata, in cui tutti controllano tutti, abitano in Panopticon senza scampo e ci stanno dentro senza mai evadere, nemmeno col pensiero. E, al di sopra, lui, Der Uberkommissar, il Leviatano con l’app, l’uomo della provvidenza, il supermanager che resiste ai governi e non sbaglia mai. Roba da mettersi in ginocchio al suo cospetto, alla Myrta Merlino: der Uberkommissar lives matter.
IL RITRATTO - Arcuri, il manager che non ne azzecca una ma riesce benissimo a far infuriare i medici. Paolo Guzzanti il 9 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Doveva trovare le mascherine e non le ha trovate. Doveva metterle in vendita al prezzo garantito e calmierato di mezzo euro l’una e invece ha dovuto prendere atto, per sua ignoranza di come funziona l’Iva, che tali oggetti costeranno non meno di sessantuno centesimi e cioè alla fine sarà un euro e non mezzo euro. Doveva far partire la miracolosa applicazione Immuni facendola coincidere alla fase due, e invece la fase due è partita allo sbando ma senza che ci sia l’applicazione. E, come se non bastasse, ha simulato una mutazione genetica del tutto illegittima del proprio ruolo: da manager di un ente che distribuisce a pioggia milioni statali, Domenico Arcuri si è trasformato in un guru sanitario, un veggente che impartisce come perle di saggezza le sue raccomandazioni sanitarie senza avere alcun titolo per farlo.
EPIC FAIL. Uno dei suoi momenti trionfali – quello della sua peggior figuraccia prima del flop delle mascherine – è stato all’inizio di maggio, quando ha elargito una sorta di omelia sull’eroismo del disciplinato popolo italiano, ma lo faceva proprio a conclusione di una giornata in cui i morti erano risaliti a 470 (come se negli Usa, fatte le proporzioni, fossero stati 3.000) e proprio mentre a Milano i giovani sciamavano sui navigli senza mascherina in gruppi abbracciandosi e baciandosi alla faccia di tutte le raccomandazioni benedicenti dei procacciatori d’affari e prebende diventati predicatori e premi Nobel per la Medicina. I medici sul campo sono furiosi: ma chi cavolo si crede di essere questo? La domanda è presto tracimata dal campo medico a quello politico. Chi è, e a che titolo e con quali risultati, agisce questo signore che cento ne fa e una ne pensa? Inoltre, si fa consistente il boatos secondo cui questo manager pubblico di successo potrebbe diventare il presidente di una rinata Iri, anche se forse si chiamerà diversamente, ricalcando le orme del progetto mussoliniano con cui nel 1933 il fascismo creò quell’ente per (parole di Mussolini) «ridare fiato all’industria italiana».
LA SPOCCHIA. Nato in Calabria, ma radicato a Foggia dove si è mosso nell’area che ha dati i natali all’attuale presidente del Consiglio, arrivato a sua volta del tutto a sorpresa a Palazzo Chigi, Domenico Arcuri resta un personaggio tanto noto quanto misterioso e a oggi del tutto dannoso. Certamente la sua carriera ha avuto una svolta quando il suo destino si è incrociato con quello dell’avvocato Giuseppe Conte che, in una inedita partita di scacchi politici all’italiana, si è trovato a salire per caso il famoso alto Colle da cui ha avuto un’investitura nata dai veti incrociati fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Essendo l’Italia un Paese capace di anticipare i tempi, si può dire che con il tipo di gestione alla maniera di Arcuri, siamo già all’Ancien Régime. Il presidente del Consiglio lo ha prelevato dall’impresa Invitalia e ne ha fatto il super commissario straordinario immaginario all’attuazione e – come se non bastasse – anche al «coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e il contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19». Voi già vedete in questa crostata di parole inutili, le festose metastasi semantiche solo per dire che Arcuri avrebbe il dovere di assicurare quel che serve a fronteggiare l’epidemia. Simpatico, gliene va dato atto, non lo è. Odiosetto e leggermente tendente alla spocchia, come sostengono in molti, forse. Ha di sicuro il piglio e la supponenza di chi è sicuro di trovarsi sempre un palmo sopra altri ed è stato così che ieri ha toppato di brutto. Ha infatti detto, ordinato, dichiarato e sottoscritto che da subito le mascherine si sarebbero trovate per tutti in ogni farmacia al prezzo uguale per tutti di mezzo euro, cosa che non può assolutamente accadere, perché né Arcuri né il governo hanno il magico potere di abolire l’Iva senza il permesso europeo.
QUALE MESTIERE? Tutto prevedibile e previsto, se si sa fare un mestiere. Ma che mestiere sa fare questo grande manager di Stato che pensa a integrare pubblico e privato? Ormai è un problema. Non per i pochi o molti centesimi. Ma per la competenza. Ancora una volta il super commissario ha dato l’impressione, corroborata dalle conseguenze, di aprire bocca e darle fiato. Per uno che fa quel mestiere, e con quel titolo, l’unica conseguenza concepibile sarebbe di dimettersi. E se resistesse, qualcuno dovrebbe mostrargli la porta d’uscita.
Invece, come abbiamo detto, si fa consistente la voce di un incarico maggiore alla testa di un nuovo Iri, creatura amata e riproposta anche da Romano Prodi a costo di sembrare mussoliniano, con un articolo in cui ricorda e ripete la frase attribuita a Mussolini nel 1933: «Fate qualcosa per l’industria italiana». Ora il «fare qualcosa per l’industria italiana» potrebbe assumere un volto e un nome: quello di un manager che non ne ha azzeccata una.
LA APP? NON C’È. Anche la decantata applicazione “Immuni”, che funziona soltanto nel suo software e che fa sì che vengano caricati da fuori i dati che permettono di interagire con quelli di qualcuno che ha la stessa applicazione nutrita con gli stessi dati. Ma l’applicazione ha un piccolo problema. Non c’è. Non ci sarebbe tecnicamente neanche la fase due. Ma invece c’è, senza mascherine da mezzo euro e senza applicazione, ma la gente – non tutta ma comunque troppa – ha, specialmente in Lombardia, equivocato sull’ottimismo e se ne va a spasso come se tutto andasse bene, mentre l’ipotesi di un tragico flop si fa ogni giorno più realistica. Arcuri avrebbe potuto, se avesse voluto, promuovere dei test di preminenza, a campione compatibile con le disponibilità facendo test di 1.000 o 1.500 persone per regione e avere la vera diffusione statistica del virus, su cui calibrare le future azioni. Non lo ha fatto e non lo ha chiesto. Sicché ancora oggi si seguitano a valutare, nel numero di contagiati, soltanto quelli che si presentano con sintomi agli ospedali, o poco più. Se nella fase degli acquisti non ha portato alcun vero risultato – le mascherine insegnano – questo manager ha fatto progressi solo nell’area che gli dovrebbe essere preclusa per totale incompetenza: quella dei consigli di sanità ai medici. Come se fosse Antony Fauci o il Nobel Montagnier o un esperto delle scienze epidemiologiche. Quando tutti si cominciano a chiedere che cosa faccia e chi sia esattamente, come profilo di manager e a che cosa diavolo serva, ecco che riciccia come commissario per emergenza Covid attaccandosi con voluttà ai microfoni da cui emette con lessico incerto, a tasso di carisma prossimo allo zero.
Arcuri commissariato: uno staff di 39 persone tra burocrati e portaborse. Per il "responsabile acquisti" un carrozzone, ancora più affollato della squadra di Colao. Pasquale Napolitano, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Altro che un uomo solo al comando. I ministri del governo Conte «commissariano» il commissario per l'emergenza coronavirus Domenico Arcuri. La struttura che affiancherà l'ad di Invitalia sarà composta da 39 persone. Quasi il doppio del numero (22) dei ministri che formano l'esecutivo giallorosso. Un carrozzone per distribuire poltrone a consulenti, ufficiali delle forze dell'ordine, funzionari di Palazzo Chigi, manager di Invitalia e collaboratori dei ministri. Si ripropone un film già visto con la task-force guidata da Vittorio Colao. Dove hanno trovato posto esperti della cerchia ristretta del premier Conte e dei ministri. L'ordinanza (n.7 del 2020) che istituisce la struttura di crisi porta la data del primo aprile. Non c'è traccia dei compensi. Ma nel provvedimento di costituzione si precisa che «la struttura commissariale dovrà muoversi in concerto con la Protezione civile». Al vertice del governo per l'emergenza c'è Arcuri. Poi a scendere sono state istituite delle micro-unità con compiti specifici. I due angeli custodi di Arcuri sono Antonino Ilacqua e Massimo Paolucci. Il primo sarà il legal advisor; si occuperà del controllo legale su tutti gli atti prodotti della struttura commissariale. Ilacqua è il consigliere giuridico del ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia. Paolucci sarà il global advisor. Avrà nelle proprie mani la responsabilità dell'acquisto di dispositivi e apparecchiature sanitarie. Paolucci è una vecchia conoscenza della sinistra: ex parlamentare europeo, oggi occupa la poltrona di capo della segreteria politica del ministro della Salute Roberto Speranza. A delineare il profilo del braccio destro di Speranza è il giornale online Anteprima24: Paolucci è un dalemiano di ferro che ha guidato, al fianco dell'ex governatore Antonio Bassolino, il commissariato per l'emergenza rifiuti in Campania negli anni della crisi. Da Napoli arriva anche il colonnello dei Carabinieri in pensione Rinaldo Ventriglia: l'ufficiale dell'Arma avrà il controllo su voli e logistica. In passato ha guidato il comando provinciale dei Carabinieri di Imperia. Il team che avrà il monitoraggio sulle donazioni sarà composto da tre persone: Luigi D'Angelo, un ex funzionario della Presidenza del consiglio, Gabriella Forte, responsabile organizzazione e sviluppo di Invitalia, e Federica Zaino, consulente di area Pd vicina al ministro del Sud Giuseppe Provenzano. Ma la Zaino avrà anche la responsabilità delle relazioni istituzionali. E tre saranno i componenti del team project management: Raffaele Ruffo, Silvia Fabrizi e Davide Moriconi. Del team relazione istituzionali oltre a Zaino faranno parte Ermanna Sarullo, capo ufficio stampa ministro Boccia, e Manuela Patella esperta in comunicazione istituzionale. La struttura commissariale avrà una centrale unica per la raccolta dati. L'unità sarà guidata da un manager di Invitalia: Mario Ettorre. Per le richieste di incentivi da parte delle aziende è stato costituito un team ad hoc guidato da Ernesto Somma, docente universitario di Politica industriale ed ex capo di gabinetto del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda. Il nucleo analisi e programmazione sarà affidato alla guida di Andrea Urbani, direttore generale della Programmazione sanitaria del ministero della Salute. Mentre la centrale unica per acquisti, contratti e gestione dei fornitori sarà guidata da Roberto Rizzardo (Invitalia). Il colonnello dell'Aeronautica Tino Ivo, già alla Presidenza del consiglio, avrà la responsabilità dei voli che trasportano il materiale sanitario. Ma la distribuzione sarà di competenza del team guidato dal generale Pasquale Izzo, ex gabinetto del ministro della Difesa Elisabetta Trenta, considerato vicino al parlamentare dem Luca Lotti. Un carrozzone di 39 persone. Mentre un altro carrozzone, la task-force (17 persone) guidata da Vittorio Colao, fatica a muovere i primi passi per dare avvio alla ripartenza. «Un lavoro che è ancora in fase embrionale» spiega all'Huffpost uno degli esperti scelti da Conte. Ieri c'è stata una prima riunione: un briefing di ascolto. E si andrà avanti così, tra audizioni e riunioni, per i prossimi giorni. Il piano per la fase due è ancora molto lontano.
Il filo rosso che lega Colao, Capua, Monti e De Benedetti. Rec News il 25/04/2020. E poi John Elkann, dirigenti della JP Morgan, della Deutsche Bank e di Alliance, la tedesca che sta mettendo le mani sulle autostrade italiane. Tutti insieme per una “visione prospettica europea e globale”.
Di Vittorio Amedeo Colao, super-manager di origini calabresi (è nato a Brescia e vissuto a Fossato Serralta, in provincia di Catanzaro), si sente parlare sempre più spesso. E’ il boss della Fase 2, quella che tenterà di far accettare il distanziamento sociale nei mezzi di trasporto, nelle fabbriche, nei locali costretti a dimezzare posti e guadagni. In tempi di “emergenza” si è guadagnata un posto visibile anche Ilaria Capua, la virologa del mainstream del “niente sarà più come prima”: proprio quello che vuole Colao, che qualcuno già dipinge come candidato “ideale” per il prossimo esecutivo, o nelle vesti di ministro per un Conte Ter o addirittura come Presidente del Consiglio. I due, assieme all’ex premier dell’Austerity Mario Monti e al patron storico del gruppo Gedi Carlo De Benedetti, provengono da una fucina comune, peraltro assieme al nipote di Gianni Agnelli e dirigente della FCA John Elkann. E’ l’Università Bocconi di Milano, dove ognuno ricopre un posto di rilievo, con connessioni da non sottovalutare. Sotto la presidenza di Mario Monti all’interno del Consiglio di amministrazione, per esempio, si instaura proprio Vittorio Colao, suggerito come consigliere dalla Città Metropolitana di Milano. Resterà in carica, salvo cambiamenti, no al 2022. I due sono anche componenti dell’International Advisory Council (IAC), che “assiste il Cda nella strategia di internazionalizzazione dell’Ateneo” per una “visione prospettica europea e globale”. Occhio alle parole. E’ qui che si incontrano dinosauri della Deutsche Bank e di JP Morgan, manovalanze di Alliance (la tedesca che sta lavorando all’acquisizione del 51% di Autostrade) o di Gucci, l’azienda di moda che ha deciso di nominare come consulente della sua “Fase 2” Roberto Burioni . Non rimane fuori, come accennato, neppure Ilaria Capua, già deputata, e “l’ingegnere” Carlo De Benedetti.
Il rapporto Colao-Monti? Basato sulla stima reciproca e, si direbbe, sull’opportunità. Nel 2019 l’europeista convinto più anziano ringrazia il manager rampante pubblicamente, per fargli gli auguri per il suo insediamento nel Cda della Bocconi. C’è da temere, con l’avanzata e l’immunità di Colao, un ritorno alle “lacrime e sangue” di montiana memoria? Per di più in salsa digitale dunque con annessi i pericoli derivati dal 5G? Staremo a vedere.
· Le nuove star sono i virologi.
Marco Castoro e Marco Esposito per "leggo.it" il 16 dicembre 2020. Virologi e immunologi sono diventati i veri divi della tv e assieme ai politici bucano lo schermo e timbrano il cartellino delle presenze (e anche dei cachet, visto che il Codacons ha confezionato un esposto a riguardo).
FABRIZIO PREGLIASCO 10 - È il Pirlo (il Pirlo giocatore, eh) dei virologi. Serafico, tranquillizzante, sembra che nulla lo allarmi e grazie a questo riesce a trasmettere un senso di serenità in chi lo ascolta. Tra i suoi colleghi è sicuramente tra i più coerenti: mentre c'era chi cambiava tesi ogni venti giorni, lui è riuscito a mantenere dritta la barra della propria comunicazione.
ANTONELLA VIOLA 10 - Ha capito perfettamente come si comunica in tv: netta, senza se e senza ma, e sempre con una punta polemica che colpisce e fa riflettere. Un altro volto rassicurante è l'immunologo Alberto Mantovani. Sa spiegare i concetti in maniera semplice. Alla Piero Angela per intenderci. E da nonno sa farsi apprezzare anche dai più giovani.
MATTEO BASSETTI 8,5 - Si è creato un personaggio, ha catalizzato una parte del Paese. Abbastanza furbo da strappare consensi in tv, sia da chi lo invita sia da chi lo guarda. Andando indietro nei mesi si scopre che qualche incongruenza nel suo credo c'è stata. Certo se scendesse in politica, se la giocherebbe con i migliori in fatto di capacità di stare in video. Ma (per ora) fa il virologo.
ANDREA CRISANTI 8 - Sarà pure un po' troppo istintivo e fumino, tuttavia riesce a fare breccia tra i telespettatori. Non a caso vanta la percentuale di share più alta tra i virologi in tv. Come indice di coerenza è un po' indietro, come quasi tutti. Ma il suo controcanto è un'arma efficace.
ROBERTO BURIONI 7.5 Che sia preparatissimo lo sappiamo tutti. Il mezzo punto in più lo guadagna grazie alla sua chiarezza di esposizione. Alcune sue lezioni a Che Tempo che Fa da Fabio Fazio sono dei piccoli cult della televisione. Il maestro Manzi della virologia. Difetti? Si, sui social esagera a bacchettare gli utenti, e finisce per risultare spesso poco simpatico, facendo in questo modo il gioco dei suoi nemici: i no vax.
ILARIA CAPUA 7 Autorevole e preparata, risulta però troppo spesso fredda e distaccata. Manca di empatia e questo in televisione si percepisce. Sembra uno di quei medici con cui abbiamo qualche volta a che fare: bravissimi, ma glaciali nell'esposizione. Potrebbe dire qualsiasi cosa, dalla più bella alla più drammatica, senza cambiare tono di voce.
FRANCESCO VAIA 6,5 - Bravo e coraggioso. Non ha paura ad andare controcorrente. Come quando ha proposto di spalmare l'apertura dei negozi su un orario più ampio possibile, proprio per evitare che i clienti si assembrassero nei punti vendita. Non sempre a suo agio davanti alle telecamere, cosa che paga, restando anonimo. Peccato.
MASSIMO GALLI 6 - Si è guadagnato tra gli addetti ai lavori il soprannome di Cassandra. Non è in dubbio la sua preparazione o la sua coerenza, ma la sua capacità comunicativa. Gli avvertimenti, le raccomandazioni e le preoccupazioni vanno sapute comunicare, altrimenti una parte di pubblico potrebbe respingerle, scegliendo di non ascoltarle.
ALBERTO ZANGRILLO 5 - Alcune sue certezze troppo sopra le righe gli hanno fatto perdere sicurezza. E il pubblico lo percepisce. La sua uscita sull'estinzione del virus alla fine della prima ondata è indimenticabile. Forse l'ha fatto perché con pazienti come Berlusconi e Briatore l'ottimismo è d'obbligo. Ma soprattutto in tempi di emergenza c'è da rimanere con i piedi per terra.
VALERIA CAGNO 4 - Floris su La7 ha mostrato coraggio nel gettarla nella mischia. Ma la giovane ricercatrice dell'Università di Ginevra sembra che ce l'abbia con il mondo. Spesso traspare un'arroganza che la rende respingente e inutilmente aggressiva. Insomma controproducente. Sempre da Floris molto brava è invece la divulgatrice Barbara Gallavotti.
MARIA RITA GISMONDO 4 - Vanta il peggiore indice di coerenza. Ne ha dette talmente tante, per poi nelle ospitate a seguire cambiare la versione. Spesso facendo un triplice salto carpiato con avvitamento degno del miglior Klaus Di Biasi.
Da adnkronos.com il 13 novembre 2020. "De Luca mi querela? Mi sorprende, lo facesse…". Corrado Formigli “spaventa” il professor Andrea Crisanti nella puntata di Piazzapulita. Il giornalista annuncia a Crisanti una querela in arrivo dal governatore della Campania, Vincenzo De Luca. "Non capisco...", dice Crisanti, visibilmente sorpreso. "Ho fatto confusione, De Luca si riferisce a Ricciardi…", si corregge Formigli, indicando il reale destinatario della querela. Alla domanda sull'emergenza in Campania, Crisanti replica con particolare cautela: "Aspetti un attimo, mi faccia riprendere… Mi ha annunciato una querela in diretta… La situazione in Campania è preoccupante e credo che i politici se ne rendano conto in prima persona. E’ una regione con un’elevata densità di popolazione, va seguita passo passo...", chiude Crisanti.
Il Bianco e il Nero, Ruggieri: "Sono come burocrati del Pcus". Bonino: "Ma la colpa non è dei virologi". Dall'inizio di questa pandemia i virologi che finora erano sconosciuti ai più, sono diventate delle star, spesso anche smentendo ciò che avevano affermato solo pochi giorni prima. Ma quali sono le loro colpe? Lo abbiamo chiesto al deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri e alla senatrice Emma Bonino. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Venerdì 13/11/2020 su Il Giornale. Dall'inizio di questa pandemia i virologi che finora erano sconosciuti ai più, sono diventate delle star, spesso anche smentendo ciò che avevano affermato solo pochi giorni prima. Ma quali sono le loro colpe? Lo abbiamo chiesto al deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri e alla senatrice Emma Bonino.
Quali sono stati gli errori dei virologi?
Ruggieri: "Una totale delusione. Si sono rivelati mediocri uomini del giorno dopo. Incapaci di prevedere che il virus potesse arrivare da noi (Galli, 20 febbraio, diceva che fosse impossibile), di dirci se la mascherina servisse o meno (Lopalco, svariate volte), se gli asintomatici contagiassero o meno (tutti). Hanno detto tutto e il contrario di tutto. Totalmente a secco di alcuna strategia; capaci solo di dire: "Lockdown. Tutti rinchiusi". Beh a vietare sono buoni tutti. Quelli bravi organizzano, anziché rinchiudere. Dovevano suggerire come far rallentare, senza inchiodare, l’Italia e le sue attività, alleggerendo la pressione sugli ospedali. Hanno solo fatto casino e sono gli unici ad averci guadagnato. Alcuni rincorrevano la vetrina della loro vanità, altri protagonismo politico; alcuni si fanno addirittura pagare le ospitate. Miserabili".
Bonino: "I virologi non sono una "categoria". Sono anch’essi individui. E su di un virus che nessuno conosceva è normale che molti di loro abbiano formulato ipotesi rivelatesi infondate. La scienza va avanti proprio perché fa errori, se li riconosce. Mi preoccupano di più gli errori - direi meglio, le ipocrisie - dei politici che provano a intestare ai virologi o genericamente alla 'scienza' scelte che spettano alle istituzioni. I virologi e gli igienisti possono spiegare come si trasmette il contagio in una metropolitana, ma di certo non si può chiedere loro di organizzare il sistema di trasporto pubblico locale di Roma o di Milano e di coordinare la mobilità di milioni di persone. Anche perché chiudere o meno le metropolitane comporta conseguenze sociali che non spetta certo ai virologi governare. La scienza non può diventare una foglia di fico".
È giusto il presenzialismo mediatico di cui si sono resi protagonisti?
Ruggieri: "Una follia. Dovevano divulgare notizie utili e possibilmente concordanti per guidare i cittadini verso i giusti comportamenti. Sono finiti come nemmeno le vallette di terza fila: Galli va in tv da 8 mesi al ritmo di 4 volte al giorno a pontificare, nemmeno accetta un dubbio o una critica, e annuncia alla stampa il suo ritiro dalle trasmissioni per una settimana (non un anno, una settimana…!), manco fosse Cristiano Ronaldo che proclama l’addio al calcio; Ricciardi che sembra un carceriere e insulta ridicolmente su Twitter Capi di Stato nostri alleati; Crisanti che litiga con Zaia perché il merito del salvataggio Veneto sarebbe suo, quando è documentalmente provato che Crisanti ha sì dato consigli, ma le decisioni sono di Zaia (come è giusto che sia, visto che è lui quello eletto dal popolo, mentre Crisanti si occupava di zanzare).Tutti presuntuosi e permalosi, invidiosi l’uno dell’altro. Io in tv ci ho lavorato: di gente con la mania di apparire me ne intendo. Alcuni di questi hanno una voglia di farsi vedere che a confronto un concorrente del Grande Fratello è discreto. Poi, paradosso, nel Cts non c’è l’ombra di un virologo. Ma anche lì, sono disposti a tutto. Persino a pensare una cosa ma sostenere in pubblico l’opposto. Hanno solo disorientato i comportamenti di noi cittadini. Quando questa emergenza finirà, torneranno nel buio e saranno tutti a rischio depressione. Speriamo che nessuno di loro pensi a gesti estremi".
Bonino: "Il problema non è il 'cosa', ma il 'come'. Non che gli scienziati vadano in tv, ma come ci vanno. Ci sono stati scienziati, penso a Umberto Veronesi, che hanno dimostrato che si può parlare di temi complessi e gravi all’opinione pubblica in modo costruttivo e onesto, senza pretendere atti di fede, ma suscitando una fiducia razionale nel progresso scientifico. Ha insegnato a tante persone a non avere paura del cancro, senza minimizzarne affatto i pericoli, ma al contrario persuadendo i cittadini a collaborare nell’attività di prevenzione e cura".
Secondo una ricerca di SpinFactor, fatta in esclusiva per il Giornale.it, i virologi che tirano di più in rete sono quelli che generano più preoccupazione. Così facendo non c'è il rischio di alimentare terrore e paura?
Ruggieri: "È quello che vogliono fare. Così restano sulla scena e hanno potere decisionale che un Governo totalmente incapace sbaglia a lasciargli. Ma sono complici del governo, che soffia sul terrore inoculato negli italiani. Sono talmente complici che a marzo, a verbale scrissero: “No al lockdown nazionale”, per poi andare in tv a difenderlo. Ma come? Eri contro, il Governo lo fa comunque, e tu ti dici d’accordo? Del Comitato conosco uno in particolare che definiva il Coronavirus un virus quasi risibile per la nostra salute (“Andrea, la polmonite fa 11mila morti l’anno. La chiamiamo “l’amica dei vecchi”. Eppure, ne senti mai parlare?”). Diceva che il Corona sarebbe solo stata una grana, peraltro gestibile con un briciolo di organizzazione, per gli ospedali. Appena imbarcato nel Cts ha iniziato a gridare: ”Rischiamo di morire tutti” e a fare considerazioni politiche, peraltro imbarazzanti. Non hanno saputo spiegare che serve prudenza, ma non panico, rivelando una bassissima concezione del popolo italiano, che giudicano una massa di pecore indisciplinate. Popolo di cui io invece mi fido a tal punto da dire: “Chiunque possa lavorare in sicurezza, resti aperto. E lo Stato controlli e sanzioni i trasgressori, senza condannarne milioni alla povertà”.
Bonino: "A suscitare paure eccessive o ottimismi immotivati non sono in genere i dati, ma il modo in cui li si comunica. Anche la gestione e comunicazione del rischio – che ci trovi di fronte a un terremoto, a una carestia, a un’epidemia, o a un evento bellico – è per definizione un problema politico. Ci sono dati che, a seconda di come vengono comunicati, suscitano comportamenti coerenti o incoerenti con la strategia che si è scelto di utilizzare. Ad esempio è verissimo che la letalità delle infezioni da Covid-19 è concentrata nelle classi di età più avanzate ma questo dato, che non va taciuto, va comunicato in modo che non appaia un’autorizzazione preventiva alla negligenza per i cittadini che statisticamente dal virus hanno meno da temere, ma dal cui comportamento dipende, ad esempio, la tenuta del sistema sanitario o la diffusione del contagio nelle famiglie. Allo stesso modo il dato della pericolosità del virus per le persone anziane va utilizzato per suscitare comportamenti virtuosi di protezione e auto-protezione, non per suggerirne la segregazione o auto-segregazione in attesa di tempi migliori".
Chi è il peggiore e chi è il migliore?
Ruggieri: "Sulla capacità professionale non posso giudicare. Ma come comunicatori, i peggiori sono Galli (che o ha tre gemelli o non vede un malato dal ’78, visto che passa cinque ore al giorno in tv) e Ricciardi, per distacco. I migliori Palù e Bassetti: gente che ha curriculum ed esperienza sul campo, mica burocrati da Pcus con la vanità di una valletta o la sete di potere del gerarca".
Bonino: "Dare pagelle non mi piace. Non sono la “signora maestra” di nessuno, tanto meno di scienziati che studiano cose di cui so veramente poco".
Sono i virologi che hanno iniziato a far politica o è la politica a tirare per la giacchetta i virologi?
Ruggieri: "Entrambe le cose. Sembra di rivedere il film dei magistrati. Lo Palco ha subito approfittato della sua improvvisa popolarità per farsi eleggere e diventare assessore in Puglia. Il Governo debole, incapace e spaventato li usa come foglia di fico cui delegare le decisioni; loro sono i ‘terroristi’ (sottolineo le virgolette) utili al governo. E se uno si azzarda a usare misura, dicendo alla Nazione: “Ragazzi, prudenza, perché il contagio va limitato per consentire agli ospedali di curare bene tutti, ma statisticamente in rianimazione ci va uno ogni 200 contagiati, e il 90% delle vittime ha 82 anni e tre patologie, quindi niente panico, ma mi raccomando: distanza, mascherina sempre, e continuo lavaggio delle mani” ti danno del negazionista. Pensano l’Italia come un gigantesco ospedale popolato solo di dipendenti pubblici come loro, posto di lavoro e stipendio sicuri. Un Paese dove si mangiano panini al Napisan e budini di Chanteclaire. Nemmeno provano a capire che oltre la sacrosanta difesa della salute di tutti, che peraltro compete a ognuno di noi, c’è il diritto al lavoro, a non perdere quanto si è costruito, e il diritto alla libertà. Loro rifiutano di contemperare i diversi diritti. Vogliono fare politica ma sarebbero dei pessimi politici. Galli il 20 ottobre diceva: “Aumento dei contagi? Colpa dell’estate scellerata”. Il 22, due giorni dopo: “Colpa della riapertura delle scuole”. Giudicate voi Risultato? In molti pronto soccorso, il 65% dei ricoverati sono codici verdi, gente spaventata da loro. E un numero sempre crescente di italiani non garantiti, da nord a sud, è imbufalito e accetta volentieri il rischio di contagiarsi, confidando nel fatto che il 95% dei contagi non sfoci poi in malattia, preferendo questo rischio alla certezza di diventare poveri e dover ricominciare da zero, in un Paese oppresso da fisco e burocrazia, e dove dunque è troppo difficile ripartire da capo o anche solo rimontare. In Italia siamo riusciti a non tutelare né la salute, né l’economia, ed è anche colpa loro. Li assumeranno Galli, Ricciardi, Richeldi, Lo Palco, Burioni e Crisanti i milioni di disoccupati che i lockdown, di cui loro sono fan, produrranno, appena sbloccati i licenziamenti? La politica è stata spaventata da questi signori. E questa è una colpa. A sinistra poi… dicono sempre che la destra, autoritaria, soffia sulla paura. E menomale…! Loro invece hanno sequestrato l’Italia, saltato il Parlamento, gettato benzina sul fuoco per terrorizzare tutti e passare da salvatori della patria, e pretendono di spacciare ciò per responsabilità. Spariranno alle prossime elezioni, per fortuna. I virologi prima, grazie al vaccino prodotto da aziende private che i grillini no-vax definivano “e murtinazzzzionali infami de big pharma”, e che io dico invece: “Menomale che esistono”.
Bonino: "La polarizzazione del dibattito pubblico in fazioni divise da un’ostilità preconcetta è di molto precedente il Covid. Quindi tutti i protagonisti del dibattito sulla pandemia, scienziati compresi, finiscono risucchiati da questo schema, in cui l’unica cosa rilevante è 'chi sta con chi'. Avere diversi 'partiti' di virologi, divisi non tanto dall’analisi del virus, ma dal giudizio sulle politiche pubbliche – quelli che vogliono 'chiudere', quelli che non vogliono 'chiudere' – accresce semplicemente la confusione dei cittadini".
Chi sono i virologi più popolari sui media: la classifica da Ricciardi a Crisanti e Galli. Roberta Caiano su Il Riformista il 9 Novembre 2020. Diventati popolari nel mondo dell’informazione, i virologi sono ormai parte integrante di commenti, raccomandazioni e notizie riguardanti la pandemia da coronavirus. A seguito della diffusione rapida e pericolosa della prima fase dell’epidemia nel nostro Paese, la loro reputazione sui social e in tutti i media è accresciuta di mese in mese fino ad arrivare alla seconda ondata con nuovi esperti di riferimento. Se nel primo lockdown Ilaria Capua e Roberto Burioni hanno svettato la classifica di popolarità, nell’ultimo report stilato a novembre troviamo Walter Ricciardi, Andrea Crisanti e Massimo Galli in testa.
LA CLASSIFICA – Secondo la classifica stilata da Mediamonitor.it e Cedat85 sulla base del numero di citazioni fatte per ogni esperto su un campione di oltre 1.500 fonti di informazione, tra carta stampata siti, radio, Tv e blog, il consulente speciale del ministero della Salute sull’epidemia e professore di Igiene generale all’università Cattolica Walter Ricciardi domina la scena con 4.725 citazioni. A seguire troviamo Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova con 3.291 citazioni, scalando la classifica di ben otto posizioni rispetto ai dati snocciolati lo scorso aprile, e Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano con un numero di citazioni pari a 2705. Fuori dal podio troviamo il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, che perde il primato conquistato in primavera anche grazie alle quotidiane conferenze stampa della Protezione Civile e si piazza al quinto posto con 1.574 citazioni. Scendono in basso alla classifica anche virologo dell’ospedale San Raffaele di Milano Roberto Burioni con 822 citazioni, star invece della prima classifica stilata nel primo lockdown, e l’epidemiologo e direttore della Prevenzione del ministero della Salute Giovanni Rezza con 438 piazzandosi al quattordicesimo posto. Un calo lieve invece per il direttore del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli che si classifica nono con 1.087 citazioni e Ilaria Capua a capo del One Health Center of Excellence all’Università della Florida, scivolata in undicesima posizione con 794 citazioni. Anche Giorgio Palù, virologo dell’Università di Padova spesso in polemica con Crisanti, perde consensi scivolando dal quattordicesimo al quindicesimo posto con 423 citazioni. Ma rispetto alla scorsa primavera c’è chi invece scala la classifica come il direttore della clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova Matteo Bassetti, che passa dalla dodicesima alla sesta posizione con 1.335 citazioni, e il supervisore scientifico del Pio Albergo Trivulzio di Milano Fabrizio Pregliasco, che si classifica al quarto posto con 2.305 citazioni salendo di cinque posizioni. Balzo in avanti anche per l’epidemiologo dell’Università di Pisa recentemente nominato assessore alla Sanità e al Welfare della Regione Puglia Pier Luigi Lopalco, il quale avanza dall’undicesimo al settimo posto con 1.272 citazioni. Inoltre in questa nuova classifica ci sono anche nelle new entry che ‘volano’ nelle quotazioni come il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta, ottavo con 1.045 citazioni e Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova, decima con 803 citazioni. Mentre Alberto Zangrillo, primario di Terapia intensiva del San Raffaele di Milano che ha curato tra gli altri le infezioni di Silvio Berlusconi e Flavio Briatore, si posiziona tredicesimo con 561 citazioni. Infine, considerando esclusivamente le emittenti radiofoniche e televisive nell’ultimo mese, in cima al podio si trova ancora Walter Ricciardi, menzionato 753 volte, seguito da Andrea Crisanti a 418 e Fabrizio Pregliasco con 322 citazioni.
Gaffe e sconfinamenti. La stagione dei tecnici che invadono la politica. Galli chiede di rinviare le elezioni, Lo Palco corre con il Pd. Il governo ombra del Cts. Paolo Bracalini, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Il governo ombra dei tecnici, con i virologi da talk show e sullo sfondo l'ineffabile Comitato tecnico scientifico, gli ayatollah della salute pubblica italiana. Con il lockdown il confine tra medicina e politica si è assottigliato fino a scomparire, le invasioni di campo dei camici bianchi, depositari dei segreti della pandemia, ormai una prassi quotidiana, le figuracce altrettanto. Alcuni virologi hanno fatto direttamente il salto di specie, da scienziati a politici, come Pier Luigi Lopalco, candidato in Puglia con il Pd, ormai noto come «il virologo di Emiliano». Altri sono stati tentati, come il professore Andrea Crisanti che è stato tra i papabili per entrare nelle liste del M5s in Veneto, e del primario Marco Bassetti sondato dal centrodestra in Liguria. La credibilità dei tecnici è scesa più rapidamente nel numero di contagi per attestarsi su un livello piuttosto basso: troppe previsioni sbagliate, troppi errori, troppe diagnosi contraddittorie, troppi protagonismi. Tuttavia la confusione di ruoli e la sovraesposizione mediatica hanno legittimato pareri e incursioni in territori che nulla c'entrano con la medicina. L'ultima è del professor Massimo Galli, secondo cui si dovrebbero cancellare le elezioni regionali e il referendum, temi giudicati «rinviabili» dall'infettivologo, a cui sembra «inappropriato» tenere delle elezioni perché, «come non erano opportune movide e discoteche, se fai le elezioni muovi milioni di persone». Ma se gli si fa notare che il calendario istituzionale non pertiene all'infettivologia, il professore si risente, «mi accusano di fare politica per togliere di mezzo alcune verità scomode» dice Galli, valutando querele per chi lo accomuna ai colleghi che invece si candidano. Come appunto Lo Palco, protagonista recente di uscite quantomeno discutibili, come la tesi per cui l'aumento dei contagi Covid in Italia è colpa dell'opposizione («Se noi abbiamo questa ripresa del Covid-19 è anche per effetto di una propaganda scriteriata di alcune forze politiche del Nord che doveva dire che il virus non esiste e che quindi potevamo tornare a curarci nelle cliniche del Nord perché sono sicure»). La pubblicazione dei verbali del Cts poi ha resto evidente il ruolo avuto dai tecnici da febbraio in poi, una sorta di governo ombra che ha indirizzato l'esecutivo, guidato le scelte governative, consigliato quale linea seguire anche non in materia sanitaria. Come quando, nel marzo scorso, i membri del Comitato tecnico scientifico suggeriscono di tenere secretato il «Piano di organizzazione della risposta dell'Italia in caso di epidemia», per evitare «che i numeri arrivino alla stampa». Il Cts si è espresso su molti ambiti, dalla non opportunità di riaprire gli stadi al divieto di cantare nelle aule scolastiche (diffonde le goccioline), tanto che tra gli oltre 250 atti normativi sulla pandemia quelli partoriti dal Comitato scientifico sono un buon numero. Altrettanto attivo è un altro tecnico, anzi supertecnico, il commissario Domenico Arcuri. Sua la firma sulla gestione delle mascherine, come pure la regia dell'operazione ancora in corso, quella - altrettanto caotica - dei famigerati banchi a rotelle da fornire a tutte le scuole italiane (entro ottobre, si spera). Un vero sovragoverno dei tecnici, dietro a cui c'è poi un altro «non politico» pienamente regnante, l'avvocato Giuseppe Conte, deciso a tornare a fare il «tecnico», nelle aule universitarie, il più tardi possibile.
Dagospia il 9 ottobre 2020. Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Matteo Bassetti, infettivologo e Direttore della Clinica Malattie Infettive dell'Ospedale San Martino di Genova, oggi è intervenuto a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove ha parlato anche di argomenti più leggeri rispetto a quelli che è abituato a trattare. A partire dalle parole di Selvaggia Lucarelli, che sul "Fatto Quotidiano" lo ha definito "il Lady Gaga" del Covid...”Preferisco non commentare – ha risposto Bassetti a Radio1 – e poi non ho nemmeno mai ascoltato Lady Gaga, io sono un gran tifoso dei "revival"....”
Cosa intende dire?
“Mi piacciono Gino Paoli, De André, tutta quella scuola...”
Un sito molto importante come Dagospia ha scritto che lei è diventato una icona gay.
“Ma sono un eterosessuale convinto. Io in questo periodo sto cercando di esser quello che sono sempre stato: me stesso”.
Vista la notorietà, c'è stata qualche donna che le ha fatto delle avances, magari via social?
“Qualche avances è fisiologica, ma c'erano anche prima”.
Quindi la popolarità non aumentato la sua notorietà.
“A me della popolarità interessa poco e ne farei a meno. Penso che in un momento come questo sia giusto che parlino le persone che i virus li hanno sempre trattati”, ha spiegato Bassetti a Un Giorno da Pecora.
Massimo Galli dalla Bignardi, indiscreto "Segretissimo": "Messaggio subliminale, scende in campo con il centrosinistra?" Libero Quotidiano il 25 ottobre 2020. Vuoi vedere che Massimo Galli scende in politica, ovviamente con il centrosinistra? A lanciare il sospetto il "Segretissimo" indiscreto di Arnaldo Magro sul Tempo. A destare più di un dubbio l'intervista rilasciata dal virologo dell'ospedale Sacco di Milano a Daria Bignardi per L'Assedio, sul Nove. "Sanità lombarda sbagliata, la politica ha sbagliato, si è privilegiato il privato rispetto al pubblico", ha accusato il professore puntando il dito sul governatore Attilio Fontana. "Sarà anche vero, ma la denuncia ha un certo sottofondo politico - spiega Magro -. Il mantra del centrosinistra, riproposto cosi, dal professor Galli a noi suona subliminale come messaggio". Quindi la stoccata: "Che il professore non abbia simpatia innata per la destra, si era intuito ma vuoi vedere mai, che non gli si proponga, di entrare proprio in politica". Un percorso già fatto, peraltro, dal collega Lopalco, oggi assessore nella giunta di Michele Emiliano in Puglia. Con il centrosinistra.
Galli adesso "confessa" tutto: "Io di sinistra e sessantottino". Massimo Galli su La7 rivendica con orgoglio il passato da Sessantottino e ribadisce la sua simpatia ai movimenti della sinistra italiana. Francesca Galici, Domenica 15/11/2020 su Il Giornale. I virologi, loro malgrado, sono i personaggi del momento in Italia. Da marzo sono ricercati dalle tv e dai media per commentare la pandemia e spiegare ai cittadini come si sta evolvendo e, soprattutto, cosa ci aspetta nel prossimo futuro. Che la scienza non sia (quasi) mai uniforme non è una novità ma la pandemia di coronavirus ha acceso i riflettori sulle profonde divergenze che possono esserci negli studiosi, ognuno dei quali elabora proprie teorie e le espone, causando però confusione nel Paese. Massimo Galli è uno dei virologi che si è maggiormente esposto dall'esplosione dell'epidemia lo scorso febbraio ma sulle sue posizioni, per alcuni considerate allarmiste, si è spesso allungata l'ombra della politicizzazione del coronavirus. Oggi è stato ospite del programma L'aria di domenica, su La7, e non ha negato le voci che finora sono circolate sulle sue posizioni politiche.
Galli, virologo sessantottino che "okkupa" giornali e tv. "Avevo 17 anni nel '68, come molti coetanei ho fatto parte di una cultura che non rinnego nemmeno per un pezzettino. Sono consapevole che il tempo passi e la storia si modifichi, ma questo non significa rinnegare. Sono ancora di sinistra? Lo sono sempre stato in vita mia", ha affermato Massimo Galli da Myrta Merlino. Il direttore delle Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano non si tira indietro ma non commenta oltre la sua posizione politica, a parte una battuta con la conduttrice su quella che per lui è l'unica fede, ben lontana dall'ambito politico: "Sono tentato di fare un periodo di wash out completo, l'unica fede che ho è quella calcistica ben definita. Lo sanno tutti che sono interista. Molto francamente, credo vada considerato il fatto che ci sono posizioni derivate da dati scientifici e altre che sono legate a ipotesi campate in aria o previsioni che si rivelano fallaci. Non trovo nessun gusto ad aver ragione". Calcio e politica a parte, nonostante qualcuno potrebbe pensare il contrario, non si dice avvezzo alle telecamere e al clamore mediatico, soprattutto quando si scatena "il derby dei virologi", metafora calcistica a lui molto cara. Le sue posizioni sul coronavirus sono note fin dal principio, perché Massimo Galli è fin dall'inizio uno dei virologi la cui visione dell'epidemia si inquadra tra gli scenari peggiori: "Tutti quelli che si sono espressi con cautele basate sui dati sarebbero stati felici di avere torto, non abbiamo gran voglia di continuare a mettere la faccia in questioni che sarebbero di competenza altrui. Lo faccio, anche se non ho libri da promuovere, candidature o interessi specifici". Stoccate che non sono passate inosservate e che si inseriscono nella lunga, ed evitabile, diatriba trai virologi in un momento in cui l'Italia continua a farei conti con centinaia di morti al giorno per l'epidemia.
MASSIMO GALLI, IL VIROLOGO-POLITICO COL DONO DELL’UBIQUITÀ. Francesco Specchia l'11 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Rieccolo. Nel bailamme delle cronache intasate dal Covid, nel nostro quotidiano sfuggente, nella nostra diuturna inquietudine, si staglia oramai un’unica certezza. Un uomo solo al comando. Il suo nome è Galli, Massimo Galli. Il professor Galli, razza padana purissima, lombardo doc, nasce come Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dell’Ospedale Sacco di Milano; è un medico col dono sciamanico dell’ubiquità. L’altro giorno, tra La7 e la Rai, l’ho intravisto in ben tre programmi quasi in contemporanea; e non dubito che nello stesso momento facesse lezione all’università o visitasse un paziente. Ora che virologi, epidemiologi, infettivologi, in seconda battuta pneumologi (perfino urologi se passasse la vulgata, alla Briatore, prostatite/Covid) si avvicinano a commentare le elezioni – dall’ottica sanitaria, naturalmente-; be’, il Galli diventa il simbolo stesso della politica ibridata alla scienza. Perché Galli non fa politica, ma, facendo sé stesso, fa politica. Selvaggia Lucarelli lo dipinge, affettuosamente, così: “Con quell’aria di vaga insofferenza nei confronti dell’intervistatore, delle domande poste, dei pollini di stagione e del colore della giacca di Floris, con le sue risposte tranchant e il ghigno beffardo di chi piuttosto che darla vinta al virus farebbe da cavia umana pure a un vaccino creato da Red Ronnie, Massimo Galli è la Mara Maionchi degli infettivologi”. E sottoscrivo. Galli possiede l’innaturale abilità di assestare colpi di katana agli interlocutori ma sempre con sorrisi increspati e una ferocia da togliere il fiato. Il prof, al Messaggero, dichiara sul campionato di calcio: “Capisco che togliere i circenses agli italiani possa dispiacere, ma dal punto di vista scientifico portare il pubblico negli impianti sportivi può avere gli stessi effetti che abbiamo visto nelle discoteche. Le scuole mi pare sacrosanto dobbiamo aprirle, non gli stadi”. Però, sull’apertura delle scuole, specifica: “Non sarei stato scandalizzato se avessero aperto solo il primo ottobre, in una situazione in cui tutto fosse stato sistemato a dovere”. E, precedentemente aveva chiesto “l’unanimità di voto” sul contiano Decreto chiudi- Italia (lui che era stato il primo a prendere il Covid sottogamba); e dopo ancora aveva parlato di danni dei contagi di Ferragosto superiori “a quelli dell’economia”. E il mese prima ancora, riguardo al convegno anti-allarmista organizzato dalla Lega sul Coronavirus, era stato inappellabile: “Non ha alcuna base scientifica, è un messaggio pericoloso”. E si può anche essere d’accordo con lui, su questo. Ma è innegabile che il Galli, con questo genere di uscite tranchant, abbia invaso il campo di almeno quattro ministeri -sport, istruzione, interni, economia- e massacrato l’opposizione. Galli, ex sessantottino mai pentito, fa, appunto, politica. Anche se, poi, richiesto da Lilli Gruber a La7 di commentare se esistesse “un modo di sinistra e uno di destra di affrontare una pandemia”, l’uomo negò di volersi “infilare nell’agone della politica”, dichiarandosi disponibile eventualmente a condurre il Festival di Sanremo. Ma credo che Lilli, ascoltandolo intimorita, avesse avuto la mia stessa impressione: mentre il prof parlava, assomigliava in modo impressionante a Cirino Pomicino nell’atto di accettare il ministero del Bilancio nel governo Andreotti VI. Per pura coincidenza, era medico pure Pomicino. Galli ha capito perfettamente i meccanismi del contagio mediatico. E sempre in camice, sempre con la sua bella e indomabile cravatta a pois, è diventato un mago nell’interlocuzione coi giornalisti. Sempre Lucarelli fa degli esempi: “Giornalista 1: “Professore, principali vettori del contagio?”. Galli: “Nel mio caso voi giornalisti”. Giornalista 2: “Professore, se le dovessero chiedere quali misure più stringenti si potrebbero adottare lei cosa direbbe?”. Galli: “Normalmente non me lo chiedono!”. Giornalista 2: “Ma glielo chiedo io”. Galli: “Ecco, brava”. Ecco. Dicesse le stesse cose un Conte qualsiasi, verrebbe crocefisso sul più alto pennone di Palazzo Chigi. Le dice il Galli e la gente applaude; anzi, probabilmente a qualcuno, tra poco, verrà pure l’intuizione che, in fondo in fondo, mettere un virologo a Palazzo Chigi potrebbe non essere un’idea così peregrina…
Fabio Sindici per "La Stampa" il 13 agosto 2020. «Il Sars-CoV-2 ha agito come un potente catalizzatore e acceleratore della ricerca biomedica sui coronavirus. Tuttavia, molti di noi sono rimasti spiazzati dal fatto che a un livello più generale esso sia stato un amplificatore delle debolezze della comunità e dell'impresa scientifica moderna, che ha esposto in una luce impietosa». Il senso del malessere della scienza, per Enrico Bucci, scienziato, divulgatore scientifico e polemista, è racchiuso nell'ambivalenza di queste due frasi, nel capitolo aggiunto all'edizione aggiornata del suo saggio Cattivi scienziati (prefazione di Elena Cattaneo, ADD editore). Il titolo del nuovo capitolo è esplicito: La pandemia della malascienza. Come il virus si è dimostrato capace di penetrare l'organismo umano in aree diverse, dal sistema respiratorio a quello nervoso, così a livello politico e scientifico, mediatico e sociale, ha prodotto fenomeni che vanno dall'alterazione e dalla confusione dei dati ai teatrini dei virologi in tv, dalla moltiplicazione delle fake news al proliferare dei comitati tecnico-scientifici a loro volta generatori di altre notizie, non sempre sottoposte al metodo che ispira la loro ragion d'essere, quello scientifico. Questi peccati si sono aggiunti a quelli già denunciati dal ricercatore nella prima edizione del libro nel 2015: frodi, consorterie, finanziamenti opachi, competizione estrema nelle pubblicazioni. Bucci non è un alfiere del pensiero antiscientifico. Tutt' altro. Biochimico e biologo molecolare, ha fondato una piccola azienda che si dedica alla verifica dell'integrità dei dati scientifici.
La sua, piuttosto, è una critica alla scienza impura.
«Il coronavirus ha esposto un peccato capitale degli scienziati: il narcisismo. Non è una cosa nuova. Basta pensare alla polemica tra Leibniz e Newton sul calcolo differenziale, che risale a più di tre secoli fa. Ci ricorda oggi le battaglie di dati, previsioni e modelli matematici sull'espansione della pandemia. E, in Italia, le contraddizioni in seno agli stessi comitati scientifici. Dove ricercatori, virologi ed esperti vari hanno finito per fare da foglia di fico alle scelte della politica. Da parte degli scienziati coinvolti, l'ingenuità ha fatto specchio al narcisismo».
Non è mai stato tentato da uno dei tanti comitati che si sono formati, dai comuni al governo?
«Sono stato consultato e, nelle questioni dove avevo competenza, ho dato le mie opinioni. Mi sono tenuto alla larga dall'essere coinvolto in pianta stabile. Comitati e contro-comitati sono stati lo scenario di zuffe ed equivoci. Così abbiamo visto lotte nel fango tra virologi. Scontri che andavano confinati nel camerino e non svolgersi sul palcoscenico mediatico. Rispetto all'epoca di Newton e Leibniz, l'amplificazione dei media è molto più potente. Il ridicolo porta discredito».
Clorochina sì, clorochina no. Mascherina sì, mascherina no. Suona come il refrain di una canzonetta...
«Quello della clorochina è un caso emblematico. Da una parte abbiamo ricerche-spazzatura su cui si basano le terapie di un medico mediatico quale è il francese Didier Raoult. Dall'altra abbiamo la comunità scientifica tradizionale che si chiude a riccio e dichiara la clorochina un farmaco a rischio per la salute. Anche qui un'esagerazione. La scienza così si divide in squadre. E l'opinione pubblica in tifoserie. Per fortuna, c'è anche la buona ricerca che forse ci darà il vaccino per il prossimo anno. E ci ha già dato terapie sulle quali i numeri possono confermare l'efficacia. Un antivirale come il Remdesivir per esempio. O il Tocilizumab, un antireumatico che funziona come immunosoppressore».
C'è una scienza da laboratorio e una da palcoscenico?
«Purtroppo nella scienza moderna, soprattutto in campo medico, ma anche nell'ambiente, nella biologia e in altri settori, gli interessi finanziari sono molto forti. E la politica è invasiva. In Italia, si dovrebbe arrivare a un autogoverno degli organismi scientifici».
Non si rischiano le storture che abbiamo già visto con la magistratura, le divisioni in correnti politicizzate?
«Il rischio c'è. La scienza è divisa in bande. Ma oggi le nomine politiche nelle organizzazioni scientifiche, anche a livello internazionale, sono la peggiore zavorra per la comunità».
Una commistione che ha come risultato una buona dose di retorica pseudo-scientifica, non solo nella pandemia.
«La retorica porta opacità. Prendiamo gli Ogm. È vero che le multinazionali che li producono finanziano ricerche parziali. Ma è vero che pure i critici, i duri e puri della natura, hanno dietro forti interessi, come quello del settore biologico. Un'attivista come Vandana Shiva muove miliardi. Lo stesso vale per il riscaldamento globale. Credo che non si possano avere dubbi sul fattore antropico riguardo all'attuale global warming. Però anche qui ci sono stati dati falsati e male interpretati. In questo modo, ad avvantaggiarsi sono i negazionisti».
Lei ha paragonato alcuni scienziati a dei preti laici. Non c'è il rischio di creare santini, come l'immunologo americano Anthony Fauci, o l'adolescente attivista Greta Thunberg, una specie di Giovanna d'Arco dei nostri giorni?
«Quanto a Greta Thunberg, penso che le sia caduta sulle spalle una responsabilità più grande di quella che una ragazza dovrebbe portare. In realtà è la gente a creare santini, sulla base di simpatie ed antipatie, non di valutazioni obiettive. Pensiamo, sempre per il virus, alle fazioni sulla tracciabilità e alle app elettroniche. Non è tanto un problema di privacy, almeno in occidente. Ma di tenuta del sistema sanitario. Se l'app mi segnala contatti potenzialmente contagiosi devo avere diritto a un tampone veloce, l'alternativa sono gli arresti domiciliari a tempo indeterminato. Altro problema è quello di acquistare generi alimentari per un lungo periodo. Non si possono ordinare sempre i pasti tramite le app di consegna dal ristorante. In alcuni piccoli centri, come Ivrea, dove vivo, si sono formate catene di reciproco sostegno tra negozianti e consumatori dello stesso quartiere per rifornire chi è costretto tra le pareti di casa».
DAGONOTA il 18 agosto 2020. Santo subito? A mano a mano che le settimane passano, l’odor di santità che emanava dal professor Crisanti, autonominatosi sul campo “re dei tamponi”, virologo, epidemiologo, microbiologo, biochimico, salvatore del Veneto (anche se chi lo scelse per l’Università di Padova, il professor Palù, ora lo definisce un ”zanzarologo”), va progressivamente svanendo. Mentre all’Università di Padova, a forza di assegnare la patente di somaro ai colleghi anche più illustri, ormai non lo sopporta più nessuno, “Il Gazzettino” di Venezia consente finalmente di dare una risposta alla domanda che dal 21 febbraio a oggi attanagliava il mondo politico veneto e, come vedremo, anche quello- nazionale: ma perché Crisanti parla così tanto, ovunque, su giornali, radio e tv, ma soprattutto fa costantemente il bastian contrario e in particolare ama fare il quotidiano controcanto al Presidente Luca Zaia? I sospetti dei più maliziosi hanno finalmente trovato conferma: il professore non disdegna la politica e sta lavorando a testa bassa al suo futuro a livello nazionale. Il nome di Crisanti, infatti, è stato per almeno tre settimane all’attenzione dei pentastellati (in primis il ministro bellunese D’Incà) per l’elezione nel collegio senatoriale di Verona il 20 e il 21 settembre prossimi, in contemporanea con le elezioni regionali e il referendum. E il Pd, con Zingaretti, pare fosse ben d’accordo: non si spiegherebbe altrimenti perché il candidato del Pd alle Regionali, Lorenzoni, docente universitario e quindi collega di Crisanti, da settimane insista per commissariare proprio col “zanzarologo” la sanità regionale. Ma l’intesa fra M5S e Pd non si è trovata, anche per le consuete divisioni fra i pentastellati. Ma il professore può dormire sonni tranquilli: per lui è pronta una bella poltrona romana (leggasi: incarico) vicinissima al sole. Che è ciò cui il professore tiene di più, altro che un seggio senatoriale che da un giorno all’altro può franare sotto i colpi di una crisi di maggioranza. Ipotesi, quella romana, che suscita un immenso sollievo nel rettore di Padova, Rizzuto, e in tutta la scuola di medicina dove sono ormai tutti sull’orlo di una crisi di nervi. “Se vuole andare a Roma con una carrozza a cavalli, gliela paghiamo noi”, avrebbe commentato un collega della facoltà di medicina. Sottinteso: purché si tolga di torno.
Alda Vanzan per “Il Gazzettino” il 18 agosto 2020. C'era anche il professor Andrea Crisanti tra i papabili candidati alla carica di senatore nel collegio di Verona, dove il prossimo 20 e 21 settembre si svolgeranno le elezioni suppletive per coprire il posto lasciato libero da Stefano Bertacco, deceduto lo scorso 14 giugno. Raccontano che l'idea di puntare sul famoso virologo, responsabile del Laboratorio di microbiologia e virologia dell' Azienda ospedaliera di Padova, sia venuta in ambienti del Movimento 5 stelle e che abbia trovato il consenso del ministro bellunese Federico D' Incà. Non solo: anche il Partito Democratico sarebbe stato favorevole. La candidatura di Crisanti - il padre dei tamponi che ha salvato il Veneto, ma che da tempo non è più in sintonia con il governatore leghista Luca Zaia - avrebbe potuto così determinare la prima convergenza elettorale in Veneto tra M5s e Pd. Ma non è andata in porto. Non solo perché in casa pentastellata ci sarebbero stati dei distinguo, in primis da parte del capogruppo uscente in consiglio regionale Jacopo Berti, ma principalmente perché l' interessato ha declinato l' invito: no, grazie. Non solo: in ballo c' era anche un' altra candidatura eccellente, perché il Pd aveva pensato di puntare su Damiano Tommasi, veronese di Negrar, ex calciatore, 25 presenze in nazionale, tra cui i Mondiali del 2002, fino allo scorso giugno presidente dell' Associazione Italiana Calciatori, impegnato nel sociale. Ma anche questa ipotesi di candidatura è sfumata. Pd e M5s correranno quindi da soli, mentre il centrodestra già pensa di portare a casa il risultato: il favorito è Luca De Carlo, sindaco di Calalzo, coordinatore regionale di Fratelli d' Italia, fino a poche settimane fa deputato, scranno che ha dovuto cedere dopo l' ennesimo riconteggio al leghista trevigiano Giuseppe Bepi Paolin. Il termine per presentare in Corte d' Appello a Venezia le candidature per il collegio senatoriale uninominale di Verona - che interessa 57 Comuni, tra cui Villafranca - scadeva ieri. Nessuna sorpresa da parte del centrodestra: Lega, Fratelli d' Italia e Forza Italia si sono ripresentati uniti, come alle Politiche del 2018, candidando Luca De Carlo. Tra l' altro il seggio veronese era già stato appannaggio di FdI, che l' ha mantenuto con la candidatura del suo coordinatore veneto. De Carlo, se eletto, come pronosticato dai sondaggi, sarà un caso più unico che raro: componente di entrambi i rami del Parlamento, prima alla Camera e poi al Senato, nel corso della stessa legislatura. PD Il Partito Democratico ha presentato in Corte d' Appello a Venezia la candidatura di Matteo Melotti, veronese di Villafranca, 47 anni il prossimo 27 settembre, una laurea in Biotecnologie agro-industriali, insegnante di Matematica e Scienze alle scuole medie di Sommacampagna, consigliere comunale del Pd dal 2013. «Credo nella politica come servizio alla comunità - ha detto - Uno degli aspetti che ho più a cuore è lo sviluppo sostenibile che non è assolutamente un' idea astratta ma dovrebbe essere il parametro per valutare tutte le scelte politiche in ambito di scuola, lavoro, qualità della vita». M5S Il Movimento 5 Stelle ha presentato la candidatura di Emanuele Sterzi, veronese di Bovolone, 58 anni, broker assicurativo, iscritto da anni al M5s, l' anno scorso candidato per la lista Cittadini nei Consorzi alle elezioni per il rinnovo del Consiglio del Consorzio di Bonifica Veronese. «Per dare una rappresentanza reale in Senato al nostro territorio - ha detto - è necessario eleggere un portavoce che viva ed operi nella realtà della Pianura Veronese. Per questo motivo ho dato la mia disponibilità a candidarmi. Se verrò eletto intendo attivare un punto di ascolto e dialogo con i cittadini, gli operatori economici e gli amministratori locali del collegio per poter portare in Parlamento le nostre problematiche». Chiusa la pratica del collegio di Verona, l' attenzione ora si sposta sulle elezioni regionali e comunali. Due i giorni per la presentazione delle liste: venerdì e sabato. E stamattina i capigruppo in consiglio regionale del Veneto decideranno se gemmare una seconda lista oltre alla propria, risparmiandosi così la raccolta delle firme. Saranno sicuramente gemmate le liste Veneto che Vogliamo, +Europa/Volt, Sanca Veneta per Arturo Lorenzoni, la terza lista per Luca Zaia, la lista Ves per Patrizia Bartelle. A raccogliere le firme dovrà essere, a meno di sorprese, Simonetta Rubinato.
Elezioni in Puglia: "Lopalco in lista con Emiliano". E il centrodestra va all'attacco. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Alla fine Michele Emiliano ha contagiato Pier Luigi Lopalco. Il virologo che ha seguito tutte le fasi della pandemia, tranquillizzando i pugliesi e spopolando nei talk televisivi sull'andamento dei contagi, non ha resistito alle sirene della politica e sarà in una delle liste per le regionali. Il governatore gli ha di fatto affidato le chiavi della sanità pugliese, trovando forse l'assessore che non ha mai voluto da quando ha cominciato la sua avventura di governo alla Regione cinque anni fa. Sulla scelta dello scienziato come consulente per l'emergenza, del resto. gli apprezzamenti erano stati bipartisan. Almeno all'inizio. " È una possibilità " , sibilano dall'entourage di Emiliano alle prese con la composizione delle liste e soprattutto a costruire candidature forti. Come quella di Lopalco, che da pugliese è tornato da Pisa dettando spesso l'agenda della pandemia fra specialisti collegati da remoto o in chat. Se Emiliano è apparso in questi mesi più isituzionale del solito, lo si deve anche a lui. Il professore, intanto, non si sbilancia. Ma la sua popolarità non può che far bene alla presunta crisi di consensi che attribuiscono a Emiliano da quando il centrodestra si è unito formalmente sulla candidatura di Raffaele Fitto e nel centrosinistra i renziani corrono da soli, ma soprattutto, contro Emiliano. E i 5 Stelle non ne vogliono sapere, per ora, di fare la stampella per arrotondare la percentuale che basterebbe a Emiliano per affrontare in sicurezza l'appuntamento con le urne a settembre. Il centrodestra lo sa. Da tempo azzardava l'ipotesi che il docente di igiene all'Università di Pisa e responsabile per le emergenze epidemiologiche della Regione Puglia potesse fare il salto in politica. Troppo in giro con Emiliano, nei suoi tour che avevano poco di istituzionale ma molto di elettorale. E lo hanno ribadito il coordinatore regionale di Forza Italia, Mauro D'Attis, e il suo vice, Dario Damiani: "Centoventimila mila euro non per coordinare le misure anti Covid, ma evidentemente per farsi campagna elettorale con i soldi di tutti gli ignari cittadini pugliesi: la candidatura del professor Lopalco nelle liste di Emiliano è l'ultimo atto di un film che abbiamo iniziato a vedere qualche settimana fa " . Di certo c'è che Emiliano sta prendendo le contromisure all'assalto del centrodestra. Ieri, per esempio, ha fatto sapere di aver approvato in giunta uno schema di disegno di legge per introdurre la doppia preferenza di genere nella legge elettorale pugliese, sollecitata dal premier Giuseppe Conte alle Regioni inadempienti e da quasi tutti i partiti in consiglio regionale. Dove nel frattempo continua la guerriglia. Anche ieri è saltato il numero legale: è accaduto quando l'ex assessore all'Agricoltura, Leonardo Di Gioia, ha presentato un emendamento per bloccare le procedure concorsuali delle agenzie regionali - in primis l'Arpal, che si occupa di politiche del lavoro - per evitare implicazioni elettorali. Se ne riparlerà perciò la settimana prossima.
Regionali Puglia, Lopalco: «Io candidato? Non ho ricevuto alcuna offerta concreta». Così l’epidemiologo risponde alle voci di una sua candidatura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Luglio 2020. «Non ho ricevuto nessuna offerta concreta», così il professore Pierluigi Lopalco, epidemiologo e capo della task force pugliese per l’emergenza Coronavirus, risponde alle voci che lo vorrebbero candidato alle prossime Regionali in Puglia in una lista civica a sostegno dell’attuale governatore, Michele Emiliano.
Lopalco candidato con Emiliano, FI attacca: campagna elettorale con i soldi dei pugliesi. «Se arriverà un’offerta ci rifletterò», aggiunge. La possibilità che Lopalco possa candidarsi ha provocato la reazione delle opposizioni, in particolare Forza Italia ha criticato il suo eventuale impegno diretto in politica. L’accusa che viene rivolta al professore, e indirettamente a Emiliano, è di voler «sfruttare l’esposizione mediatica» degli ultimi quattro mesi.
Puglia, per le Regionali nelle liste Pd scoppia il caso Gentile. EMILIANO: «QUALCUNO TEME CHE SI CANDIDI» - «Nel 2004 quando si parlava della mia candidatura a sindaco di Bari, Raffaele Fitto (ell'epoca governatore pugliese di Fi, ndr) mi scrisse due lettere nelle quali mi ricordava che ero un magistrato e quindi non avrei dovuto candidarmi. Mi fece capire con quelle lettere che temeva che io mi candidassi. La stessa cosa sta succedendo con il professor Lopalco. Evidentemente qualcuno ha timore che il professore si candidi». Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha raccontato l’aneddoto a margine della inaugurazione del nuovo centro trasfusionale del Policlinico di Bari, rispondendo ai giornalisti sulla indiscrezione relativa alla candidatura alle regionali dell’epidemiologo Pierluigi Lopalco, coordinatore scientifico della task force pugliese per l'emergenza Covid 19. «Alla seconda lettera di Fitto - ha continuato Emiliano - risposi 'presidente, ciò che io non avevo capito, e cioè che sono già il sindaco di Bari, e che devo solo avere il coraggio di mettermi in aspettativa e di candidarmì. Senza quelle lettere di Fitto - ha concluso - probabilmente io non ci sarei mai candidato, perché non avrei maturato quei sentimenti di passione e anche di consapevolezza che lui mi trasmise».
Tra Lopalco e realtà. Da corriere.it Massimo Gramellini l'11 luglio 2020. L’unico dubbio era se sarebbero entrati prima in politica. o nei reality. I divi del Covid hanno scelto la strada più facile: l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, con quel pizzetto telegenico da Lenin delle ampolle, s’accinge a candidarsi nella lista di Emiliano in Puglia per aiutarlo a resistere alla seconda ondata di Fitto, con l’obiettivo di garantire il distanziamento sociale almeno nelle urne. Già mi pregusto gli slogan: «Più tamponi per tutti» e «Per una politica delle mani pulite, anzi disinfettate».
Qualche povero di spirito rinfaccerà al professor Lopalco certe perplessità, poi rientrate, sull’utilità delle mascherine, e quella profezia, fortunatamente sbagliata, sui ragazzi della movida milanese che entro la metà di giugno avrebbero contagiato i loro genitori. Ma si tratta di macchie trascurabili, destinate a sciogliersi sotto i raggi della Scienza. Non date retta agli ultimi fessi come il sottoscritto, i quali pensano che la politica sia un mestiere complicato che va appreso da giovani in apposite scuole di partito e poi affinato per tutta la vita. Molto meglio affidarsi a chi non ne sa nulla, come stiamo facendo da quasi trent’anni con splendidi risultati. In fondo, nel passaggio dal camice alle istituzioni, i virologi non potranno comportarsi peggio di attori, giornalisti e venditori di bibite. Adesso che Lopalco ha preso il virus, aspettiamoci una pandemia: Zangrillo sindaco di Milano, Ilaria Capua agli Esteri e Burioni al Quirinale tra due corazzieri in mascherina.
Tony Damascelli per ''il Giornale'' il 10 luglio 2020. Il virus porta voti. È quello che si augura Lopalco Pier Luigi, l'epidemiologo che ha coordinato l'emergenza del Covid19 in Puglia. I risultati eccellenti, la situazione mai emergenziale, i contagi tenuti sotto controllo, hanno portato l'illustre medico professore ad occupare, come molti altri suoi sodali, i dibattiti televisivi, raggiungendo una popolarità giustificata e riscontrata nei fatti. Va da sé, che seguendo le buone (?) abitudini di questo nostro Paese, la politica ha sentito profumo di tartufo bianco e dunque Emiliano Michele, governatore, più portato allo studio delle cozze pelose, ha capito che Lopalco sarebbe l'uomo giusto al momento giusto. Essendo, l'Emiliano medesimo, in ritardo, almeno nei sondaggi, rispetto al Raffaele Fitto candidato dell'opposizione, l'ex magistrato si è ritrovato in mano il jolly per vincere al banco. Lopalco scende in campo per debellare un altro pericoloso virus, Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega messe assieme possono infettare la terra di Puglia, meglio ricorrere al vaccino del Piddì, di facile e immediata reperibilità. Pier Luigi Lopalco è in piena campagna elettorale, si è presentato alla Festa delle musica, con chitarra appresso, la festa era organizzata ovviamente dalla Regione Puglia governata dell'Emiliano di cui sopra, l'imprevedibile rockettaro Lopalco ha raccolto applausi ma ha invitato al rispetto delle distanze di sicurezza sanitaria. Tra l'altro lo stesso epidemiologo ha annunciato che prima di ottobre non sarà possibile riportare il pubblico negli stadi di football. Però si presume che sarà importante radunare il popolo del centrosinistra per la consultazione elettorale. Ovviamente l'opposizione si oppone, l'onorevole D'Attis commissario regionale di Forza Italia, denuncia l'operazione con la quale verrebbero utilizzati e sperperati i denari pubblici per la candidatura del professore brindisino di Mesagne, residente in Toscana a Pisa. La battaglia si preannuncia aspra. La pandemia continua a mettere paura, la mascherina protegge da eventuali contagi. Intanto il virus della politica utilizza uomini in maschera per allungare la carriera.
Quel retroscena sui virologi: "Molti fremono per fare politica". Pierluigi Lopalco, consulente della Regione Puglia per l'emergenza Covid-19, ha manifestato interesse per la possibile candidatura alle Regionali con il centrosinistra. Ma non è l'unico...Gabriele Laganà, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. Tra voci e smentite, la possibile candidatura di Pierluigi Lopalco, attuale consulente della Regione Puglia per l'emergenza Covid-19 e nome da inserire nelle liste di Michele Emiliano per le prossime elezioni regionali in Puglia, ha scatenato polemiche. Al Pd, i cui consensi a livello nazionale non sono poi così soddisfacenti e che a settembre dovrà difendere la Regione che ha amministrato negli ultimi 5 anni, avere dalla sua parte una figura molto popolare può solo fare del bene. Del resto, Lopalco ha ottenuto buoni risultati nella gestione della pandemia in Puglia ed è un personaggio che anche "bucato lo schermo". Ma la possibile candidatura con il centrosinistra è, al momento, smentita dal diretto interessato. "La mia candidatura per le Regionali in Puglia è una voce, circolata in certi ambienti. A me non è arrivata nessuna proposta ufficiale dal presidente Emiliano, con cui non ho parlato in questi giorni. Nessuna decisione è stata presa. Se arriverà un'offerta ci rifletterò", ha affermato l'epidemiologo dell'Università di Pisa. Lopalco è apparso decisamente infastidito per le accuse piovute sui social di aver sfruttato il suo ruolo di consulente per trarne vantaggi personali: "Sono stupidaggini". L'epidemiologo, però, non chiude la porta ad un suo impegno politico. "In questi giorni – ha spiegato - ho discusso molto con alcuni amici su cosa significhi, per chi viene dalla società civile, impegnarsi in politica spesso si fanno dichiarazioni dicendo appunto che la società civile deve prendere posizione". "E allora – ha sottolineato - mi chiedo chi più degli scienziati può dare un vero significato a questa parole? Abbiamo le conoscenze e sappiamo fare il nostro lavoro, se ci sono le condizioni di una reale possibilità di cambiamento - conclude - la scienza deve mettersi a disposizione della politica". Lopalco potrebbe non essere l'ultimo ad unire lavoro nel campo medico ad impegno politico. Ad ammetterlo è Massimo Clementi, virologo dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che all'Adnkronos Salute ha affermato di vedere "altri colleghi che hanno atteggiamenti che preludono ad una discesa in campo. Fremono per fare politica". Clementi precisa che il caso di Lopalco, epidemiologo "che conosco molto bene, perché sia insieme nel Patto per la scienza", andrebbe "contestualizzato il suo impegno politico in un ambito locale dove peraltro sta già lavorando come consulente per l'emergenza Covid-19". "Diverso- puntualizza il virologo- dal caso di alcuni colleghi che invece flirtano con la politica nazionale". Secondo Clementi, il desiderio di medici o scienziati di fare politica "è legittimo" ma "poi può essere imbarazzante se uno fa avanti e indietro". Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano, sempre all'Adnkronos Salute vede con favore un eventuale ingresso in politica del "collega e amico" Pierluigi Lopalco e spiega che "questa emergenza Covid ha messo in evidenza l'importanza dell'impegno di ognuno di noi ricercatori. E come Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) ho toccato con mano l'importanza di dar voce alla società civile". Pregliasco pensa che "dalla società civile, e dalla scienza, possano arrivare nuove prospettive e nuove forze che possono contribuire all'autorevolezza delle istituzioni". "Insomma- ha aggiunto il virologo- la politica potrebbe solo arricchirsi con innesti della società civile, e se Lopalco deciderà di impegnarsi gli faccio i miei migliori auguri". Sempre all’Adnkronos Salute, Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia antinfettiva (Sita), commenta con favore le voci di una candidatura di Lopalco alle prossime elezioni regionali in Puglia al fianco di Michele Emiliano. "Stimo molto Pierluigi Lopalco ed è libero di fare quello che vuole. Se come medico si vuole mettere il proprio sapere al servizio della politica, che poi vuol dire essere al servizio dei cittadini, non vedo cosa ci sia di male. Come scendono in politica avvocati o imprenditori non c'é niente di male se un epidemiologo decide di fare politica", ha specificato Bassetti. Quest’ultimo ha affermato di rispettare le scelte dei colleghi che vogliono fare politica "anche se io non lo fare mai. Credo che un medico o un ricercatore che decidono di impegnarsi in questo settore, come hanno fatto nella loro carriera professionale, possano essere solo una guadagno per la collettività". "Se Lopalco sarà candidato- ha aggiunto- a lui va un grande in bocca al lupo. Certo, non è come fare il medico. Occorre prendere i voti, elaborare un programma e fasi eleggere". Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell'ospedale San Raffaele di Milano, dichiara all'Adnkronos Salute che"la politica, mai come in questa situazione, ha bisogno di buon senso e di impegno civile con l'obiettivo di formare una vera classe dirigente. Ciò detto, sono contentissimo che questo tipo di impegno non mi riguardi". Il professore ammette di essere "felice e sereno perché questo tipo di impegno non riguarderà mai la mia persona" e spiega che "il Servizio sanitario nazionale ha urgente bisogno di una politica efficace, guidata dalla competenza tecnica". Se i colleghi di Lopalco sono sostanzialmente favorevoli ad un impegno in politica dell’attuale consulente della Regione Puglia per l'emergenza Covid-19, diverso è il discorso per i rappresentati dei partiti. Il primo duro attacco contro l’esperto è partito da Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, che in una nota ha affermato: "La notizia della candidatura del virogolo Pierluigi Lopalco nelle liste di Emiliano è scandalosa. Lopalco è consulente del governatore pugliese per l'emergenza Covid ed è assurdo che mentre è lautamente retribuito con i soldi dei cittadini adesso ne chieda anche i voti". "Oltretutto- ha aggiunto l’azzurra- e questo vale tanto per Emiliano quanto per Lopalco, è intollerabile si cavalchi la sovraesposizione mediatica dovuta a questa crisi sanitaria ed economica a fini politici ed elettorali. È vero che al peggio non c'è mai fine, ma ragioni di buongusto oltre che di opportunità imporrebbero un ripensamento da parte del virologo".
Sabrina Cottone per “il Giornale” il 23 settembre 2020. Lo Palco Pietro Luigi, detto Pierluigi, virologo dal curriculum internazionale e dal pizzetto puntuto, diventato consulente antiCovid di Emiliano, di fama mediatica grazie alle dichiarazioni con cui furoreggiava in tv durante l'emergenza Coronavirus, non ha deluso le aspettative del presidente della Regione Puglia. Michele Emiliano lo aveva voluto a guidare la propria lista civica a Bari e il professor Lopalco gli ha portato in dote 14.679 preferenze. «Con Emiliano» a Lecce, ha aggiunto altri 1.572 voti e 218 ne ha racimolati a Foggia. Con questi numeri il magistrato diventato politico non ha faticato a trasformare il «suo» virologo in assessore alla Salute. Lo aveva promesso, ma resta una delle nomine più rapide che la cronaca ricordi. È possibile che Lopalco sia solo il primo esempio di virologo che fa carriera politica. Dopo l'ondata di giudici, avvocati, giornalisti, tecnici, si attende l'era degli epidemiologi, la cui crescente importanza era stata profetizzata già in Spillover. Ricordiamo bene i mesi in cui gli esperti erano i volti più amati dagli italiani, quando in loro assenza si cambiava canale o si buttava via il giornale, e ciascuno aveva l'epidemiologo del cuore. Poi la fascinazione si è trasformata in malcelato fastidio, perché al momento del «liberi tutti» loro continuavano a ripetere di tenere alta la guardia, politici e economisti riprendevano in mano il pallino, e Lopalco è sempre stato tra i più «allarmisti». Professore dell'Università di Pisa a cui è approdato dopo una cattedra a Bari, ancora ad aprile invitava a tenere alta la guardia per il probabile arrivo della seconda ondata di Covid. Che il professor Lopalco fosse già consulente contro il Coronavirus della precedente giunta Emiliano gli è costato l'accusa di conflitto d'interessi e di aver guadagnato 120mila euro dall'incarico. Santini del professore sono arrivati ai malati oncologici, ma lui ha negato recisamente di essere coinvolto nell'operazione. Le cartucce di maggior calibro del centrodestra. Ora il dibattito sull'opportunità politica torna d'attualità, tra colleghi epidiomologi che si dichiarano favorevoli o contrari. Soddisfatti Fabrizio Pregliasco e Massimo Galli, altre due stelle divenute visibili nel lockdown, contraria Maria Rita Gismondo, possibilista Alberto Zangrillo, che si era pronunciato al momento della candidatura: «La politica, mai come in questa situazione, ha bisogno di buon senso e di impegno civile» ma «io non lo farei mai». In campagna elettorale Lopalco ha continuato con le sue discusse dichiarazioni, contro «la dittatura» di tamponi e test sierologici e a favore dei termometri a scuola. La sua corsa elettorale è stata una mezza scommessa e può darsi che, oltre alla stima dei suoi elettori, abbiano aiutato la sua vittoria i contagi tornati meno confortanti. Ormai assessore alla Salute in pectore, rilascia dichiarazioni prudenti ma tranquillizzanti: «Siamo in una situazione di circolazione virale che possiamo definire modesta. Insistiamo moltissimo perché tutti i cittadini facciano la propria parte». Sulla competenza in malattie infettive, prevenzione e vaccini non ci sono dubbi. Parlano per pubblicazioni scientifiche dal titolo «Epidemiologia facile», «Informati e vaccinati», il lungo elenco di articoli, l'incarico ai vertici dell'Ecdc di Stoccolma, il lavoro sui programmi europei di vaccinazione e i nuovi vaccini. In Puglia, come ovunque, non si muore certo di solo Covid. Ma il virologo in politica è la tendenza del momento. Tanto che un altro acclamato esperto, Andrea Crisanti, rivendica i propri diritti elettorali: «Zaia ha vinto grazie a me». Difficile che sia cooptato in Veneto: tra i due ormai non corre buon sangue.
Da liberoquotidiano.it il 23 settembre 2020. Luca Zaia raggiunge risultati mai visti prima. Roba da Doge. Roba da imperatore. Il leghista si riconferma alla guida del Veneto con il 76,78 per cento dei voti, percentuali bulgare. Ma per Andrea Crisanti il merito non è suo. "I veneti hanno premiato Zaia per come ha gestito l’epidemia - esordisce il virologo che ha affiancato il presidente della Regione nei primi mesi della pandemia, salvo poi fare un passo indietro - con tutti i meriti e le contraddizioni del caso". Crisanti, lo si ricorda, fu al fianco di Zaia nella gestione del coronavirus, poi tra i due si è consumata una rottura, netta e un poco misteriosa. E ora, lo stesso Crisanti in buona sostanza ci spiega che il trionfo di Zaia sarebbe merito suo. Un discreto delirio, ammettiamolo. Insomma, che tra Zaia e Crisanti non ci fosse più feeling si era già capito. Così come è ormai ben noto il briciolo di protagonismo che caratterizza il professore di microbiologia. Mesi fa - nel bel mezzo dell'emergenza coronavirus - Crisanti, nominato commissario per fermare il Covid-19 in Veneto, uscì dalla porta principale. Nel mirino l'elogio del governatore a Francesca Russo, direttrice del dipartimento di Prevenzione additata come responsabile del modello-Veneto. "In una situazione disastrosa il presidente mi ha detto retta seguendo l’evidenza scientifica - ha proseguito raggiunto dalla Stampa -. Se non fosse stato per me Zaia avrebbe combinato un disastro". Crisanti segue la cronologia degli avvenimenti, precisando che "Zaia il 28 febbraio parlò di epidemia mediatica, poi si è preso il merito e non ho potuto tacere". Ma le ambizioni del genetista sono tante, tra queste non poteva mancare la politica: "Mi hanno poi offerto una candidatura al Senato per il centrosinistra e il M5S, ma preferisco rimanere uno scienziato. È così che mi sento più utile. Magari quando andrò in pensione ci penserò, ma mancano cinque anni". Insomma, Crisanti segue l'esempio del collega Pier Luigi Lopalco, perché nel Pd si può trovare "un punto di riferimento, anche se è dilaniato da tante contraddizioni. Mi sento un liberal senza casa, attento alla giustizia sociale", conclude lasciando intendere che mai dire mai.
"Alterati i fatti e distorta la realtà". Bomba mediatica su Crisanti. Il virologo pubblica uno studio su Nature e si arroga i meriti del miracolo di Vo'. Scoppia la guerra: "Le decisioni sul focolaio prese da Zaia". Le accuse della Regione Veneto. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 28/10/2020 su Il Giornale. Trovare la verità è difficile. Bisogna fare un salto indietro, o forse più di uno. Sono in giorni di fine febbraio, quando il Nord Italia si trova ad avere a che fare con i primi focolai di coronavirus. Gli occhi puntati di Palazzo Chigi e del ministero della Salute sono puntati su una decina di Comuni del Lodigiano e su un paesino in provincia di Padova, Vo' Euganeo. È da lì che viene Adriano Trevisan, un pensionato padovano di 78 anni, originario di Monselice. Era ricoverato nella terapia intensiva dell'ospedale di Schiavonia ma i medici che lo avevano in cura non hanno potuto far nulla per salvarlo. Le sue condizioni sono apparse da subito critiche. La sera del 21 febbraio (non erano ancora le 23) ha esalato l'ultimo respiro. Da quel momento in poi la curva dei contagi, in Lombardia e in Veneto, prenderà a salire in modo vertiginoso. Fino a un certo punto andranno di pari passo, poi le curve si allontaneranno. La Regione guidata dal governatore Luca Zaia, strappando platealmente con le linee guida del governo, intraprenderà una politica aggressiva per arginare i contagi. Una linea che vedrà nel tracciamento dei contagi attraverso tamponi nasofaringei a pioggia il proprio caposaldo. Chi ci sia dietro questa linea è ormai impossibile a dirsi. Inizialmente Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia dell'Università di Padova, si era preso tutto il merito. Era stato addirittura rinominato il "papà" del modello Vo'. Definizione che ha fatto innervosire i vertici della Regione. Come avevamo già scritto sul Giornale.it lo scorso maggio, nella sanità veneta è in corso da mesi una lotta intestina per attribuirsi i meriti di un miracolo (riconosciuto in tutto il mondo) che non solo aveva arginato sin da subito il diffondersi dei contagi ma aveva addirittura liberato l'intera "zona rossa" sui Colli Euganei dall'incubo del coronavirus. "Il merito è della mia squadra - ci ha sempre tenuto a ribadire Zaia - Crisanti è arrivato dopo". Come ricostruito poi nel Libro nero del coronavirus, ora già alla prima ristampa (clicca qui), il malcontento degli esperti guidati dal direttore generale Domenico Mantoan ha radici profonde, almeno da quando il virologo arrivato dall'Imperial College di Londra ha iniziato a essere onnipresente su quotidiani, talk show e trasmissioni radiofoniche. "Noi eravamo pronti da un mese grazie alla dottoressa Francesca Russo, una catanese che dirige il Dipartimento di prevenzione", facevano trapelare mesi fa dall'entourage del governatore leghista.
Virus, intrighi e colpi bassi. La guerra nella sanità veneta. A far traboccare un vaso già colmo di risentimento è stato uno studio apparso recentemente sulla rivista scientifica Nature. A firmarlo è stato proprio Crisanti, accusato di essersi attribuito la paternità della strategia usata per "tamponare" tutta Vo' e poi applicata da Zaia in tutta la regione. Davanti a quello che in molti hanno vissuto come un affronto la Russo ha preso carta e penna e ha scritto a Nature per raccontare un'altra versione dei fatti. Nella lettera, che Bruno Vespa ha riportato nel suo libro Perché l'Italia amò Mussolini (Mondadori), non vengono usati mezzi termini: "La pubblicazione ha alterato i fatti, distorcendo la realtà e mistificando quanto è accaduto a Vo'. Tutte le decisioni rilevanti su come affrontare il focolaio hanno avuto origine dall'ospedale di Schiavonia, dove sono stati ricoverati i primi due pazienti residenti a Vo' positivi per Sars-CoV-2, e sono state assunte dal Presidente della Regione del Veneto di concerto con la Direzione Prevenzione e Sanità Pubblica della Regione e con le autorità sanitarie dell’ Azienda Ulss 6 Euganea. Tutto questo - ha, quindi, precisato - è accaduto ancor prima che lo studio di Vo' fosse concepito". La direttrice del Dipartimento di prevenzione ha, infatti, ricordato che "l'effettuazione dei tamponi è iniziata dopo che l'ospedale era già stato evacuato e dopo che fosse disposto l'isolamento e il lockdown del Comune di Vo'" e che "il lockdown era ancora in corso al momento del secondo campionamento". Una vera e propria bomba mediatica. Per la Russo, infatti, molti dei fatti riportati nella ricerca di Crisanti (pagata da Zaia con uno stanziamento di 150mila euro) non corrisponderebbero a verità. Tanto per cominciare non sarebbe vero che sono state condotte due indagini sui residenti di Vo' a meno di due settimane di distanza in modo da indagare sull'esposizione della popolazione al Covid-19 prima e dopo il lockdown. Come non sarebbe vero che lo studio "ha guidato la strategia adottata dalla Regione del Veneto" e che poi "questa strategia di testing and tracing ha avuto un impatto notevole sul corso dell'epidemia in Veneto rispetto alle altre regioni italiane". "Il caso di Vo' - è la stoccata finale della Russo - ha avuto un impatto strategico minimo sull'approccio della Regione del Veneto nell'affrontare l'epidemia, dal momento che conta, finora, solo 5 morti e 83 casi positivi nel comune mentre altri focolai sono simultaneamente scoppiati in comunità molto più grandi e la strategia di testing and tracing era già in atto".
Da “il Gazzettino” il 28 ottobre 2020. Una lettera durissima e rimasta finora inedita inviata dalla direttrice della Prevenzione della regione Veneto Francesca Russo alla prestigiosa rivista Nature. A rivelarla é Bruno Vespa nel suo prossimo libro in uscita tra pochi giorni. Oggetto della missiva: un articolo scritto per la rivista inglese dai professor Andrea Crisanti, in cui il docente ricostruisce la strategia veneta contro il Covid e si attribuisce fra l'altro la paternità dei tamponi di Vo’, in realtà effettuati dall'Asl di Padova per decisione di Zaia. Una versione dei fatti che contrasta con quanto lo stesso Crisanti aveva in altre occasioni sostenuto e che provoca la secca replica della Regione Veneto. Ecco la ricostruzione della vicenda fatta da Bruno Vespa.
Bruno Vespa per “il Gazzettino” il 28 ottobre 2020. L'11 febbraio il «Corriere del Veneto», sotto il titolo Analisi a chi rientra dalla Cina, pubblica un'intervista ad Andrea Crisanti, rientrato dall'Imperial College di Londra per occupare la cattedra di microbiologia e virologia all'università di Padova e dirigere il laboratorio dell'ospedale cittadino. Crisanti sostiene che la comunità cinese ha chiesto di sottoporre ad analisi non soltanto chi presenta sintomi compatibili con quelli del Coronavirus, ma anche tutti coloro che sono rientrati nel Veneto dopo un viaggio in Cina. In regione puntualizzano che Crisanti, ottimo microbiologo, ha ereditato dal suo predecessore Giorgio Palù, già presidente dei virologi europei, una «Ferrari sanitaria»: Padova ha il più importante dei 14 laboratori di microbiologia distribuiti su 3000 metri quadrati in tutto il territorio veneto. Ebbene, né il direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, né il direttore generale dell'azienda padovana che unisce ospedale e università, Luciano Flor da cui dipende Crisanti , sanno alcunché dell'iniziativa del professore di effettuare tamponi alla comunità cinese. Mantoan ricorda che iniziative del genere sono al di fuori di ogni protocollo, vanno concordate e, comunque, non sono coperte finanziariamente. In una lettera inviata a Mantoan il 12 febbraio, Crisanti si affretta a precisare che le sue dichiarazioni «sono state travisate dagli organi di stampa» e lo rassicura sulla sua adesione alle direttive ministeriali. Alla regione affermano che il professore non ha mai inviato un progetto scientifico sul tipo di analisi alle quali sottoporre i cinesi e ha partecipato in modo sporadico alle riunioni del Comitato tecnico scientifico regionale presieduto da Mantoan. Insomma, i rapporti tra i due sono sempre stati conflittuali. Il 21 febbraio il Veneto entra in emergenza e il laboratorio di Padova non basta per fare tutti i tamponi necessari. Viene validato, perciò, anche quello dell'ospedale di Schiavonìa. Il 24 febbraio vengono chiusi Vo' e Codogno. L'indomani Crisanti chiama Zaia (i due non si conoscono) per chiarire definitivamente la polemica nata sui giornali e già sopita con la sua lettera a Mantoan. Una settimana più tardi, nuova telefonata di Crisanti: «Lei» dice a Zaia «con i tamponi a tutta la popolazione di Vo', ha fatto una cosa unica al mondo. Mi finanzia una ricerca epidemiologica per rieseguire tutti i tamponi alla fine della quarantena?». Il governatore trova l'iniziativa «utile e interessante». Il 2 marzo c'è un incontro in assessorato e la giunta regionale stanzia 150.000 euro. Crisanti procede con i tamponi, ma le autorità sanitarie venete lamentano di non aver ricevuto i risultati della nuova ricerca. Li leggono, per contro, sulla prestigiosa rivista inglese «Nature» e notano che il professore si attribuisce la paternità anche del primo giro di tamponi, eseguito invece dall'azienda sanitaria di Padova, per decisione di Zaia, tra il 23 e il 29 febbraio. Crisanti scrive che questa iniziativa è fondamentale per la strategia del Veneto nella lotta al virus. Lui stesso, come abbiamo visto, ne attribuisce la paternità a Zaia, ma nel suo articolo su «Nature» non vi fa cenno.
REPLICA. In autunno la Regione del Veneto spedisce a «Nature» una durissima lettera di replica firmata da Francesca Russo, direttore della Prevenzione. «La pubblicazione» si legge «ha alterato i fatti, distorcendo la realtà e mistificando quanto è accaduto a Vo'. Tutte le decisioni rilevanti su come affrontare il focolaio hanno avuto origine dall'Ospedale di Schiavonìa, dove sono stati ricoverati i primi due pazienti residenti a Vo' positivi per Sars-CoV-2, e sono state assunte dal Presidente della Regione del Veneto di concerto con la Direzione Prevenzione e Sanità Pubblica della Regione e con le autorità sanitarie dell'Azienda Ulss 6 Euganea. Tutto questo è accaduto ancor prima che lo studio di Vo' fosse concepito. Infatti, l'effettuazione dei tamponi è iniziata dopo che l'Ospedale era già stato evacuato e dopo che fosse disposto l'isolamento e il lockdown del Comune di Vo'. Inoltre, il lockdown era ancora in corso al momento del secondo campionamento». E ancora: «Non corrisponde al vero che due indagini sulla popolazione residente di Vo' sono state condotte a meno di due settimane di distanza, per indagare l'esposizione della popolazione a Sars-CoV-2 prima e dopo il lockdown. (...) Non è vero che (...) questo studio ha guidato la strategia adottata dalla Regione del Veneto e che questa strategia di testing and tracing ha avuto un impatto notevole sul corso dell'epidemia in Veneto rispetto alle altre regioni italiane. Il caso di Vo' ha avuto un impatto strategico minimo sull'approccio della Regione del Veneto nell'affrontare l'epidemia, dal momento che conta, finora, solo 5 morti e 83 casi positivi nel comune mentre altri focolai sono simultaneamente scoppiati in comunità molto più grandi e la strategia di testing and tracing era già in atto».
RIVENDICAZIONE. In conclusione la Russo rivendica che «la Regione del Veneto, a differenza delle altre regioni italiane, I) ha mantenuto una tradizione di distribuzione territoriale capillare delle strutture di prevenzione e controllo; II) ha istituito, sin dall'inizio della pandemia, un sistema biologico, clinico ed epidemiologico di tracciamento dei contatti e monitoraggio dei casi; III) ha istituito punti di pronto soccorso, reparti e ospedali dedicati a Covid-19. Questa organizzazione ha determinato i risultati di sanità pubblica, non lo studio di Vo'». Perciò, la pandemia è stata «affrontata con largo anticipo rispetto a uno studio progettato e intrapreso a posteriori che non ha avuto il minimo impatto sulle scelte strategiche di sanità pubblica». Andrea Crisanti non è mai citato, ma è a lui che è indirizzata la smentita.
In guerra con Zaia, Andrea Crisanti si sposta a Roma (voluto da Speranza e Zingaretti). Il professore grazie alla sua strategia sui tamponi ha permesso al Veneto di ridurre la circolazione del coronavirus. Ma è diventato scomodo per il governatore leghista. E ora sta definendo il passaggio per lo Spallanzani, nella capitale. Carlo Tecce su L'Espresso il 29 ottobre 2020. Il metodo Veneto contro la pandemia non esiste più. E il professore Andrea Crisanti, che ne fu l'inventore, lascia pure la regione governata dal leghista Luca Zaia e il dipartimento di microbiologia e virologia che dirige all'Università di Padova. Il professore si trasferisce allo “Spallanzani”, il centro nazionale per le malattie infettive di Roma, struttura d'eccellenza per la regione Lazio, riconosciuto come istituto di ricovero e cura a carattere scientifico e perciò finanziato dal ministero per la Salute. Crisanti ha permesso al Veneto, dove si è sviluppato il focolaio di Vo’ Euganeo, di contenere la prima fase della pandemia con un utilizzo massiccio di tamponi per scovare gli asintomatici, i super diffusori che, per un lungo periodo, hanno consentito al Covid 19 di circolare indisturbato. Nel laboratorio di Padova, già a febbraio, si analizzavano mille tamponi al giorno, mentre nel resto d’Italia mancavano i reagenti e si interveniva con ritardo sui malati. I successi del Veneto erano i successi di Crisanti. Finché Zaia non si è immerso nella campagna elettorale e si è intestato virtù politiche e pure scientifiche . Crisanti non ha cambiato mai idea, ha professato attenzione e prevenzione anche durante l'estate delle illusioni con la politica che danzava sulla fragile riapertura e i virologici si dividevano in squadre fra ottimisti e pessimisti, apocalittici e integrati, discoteche sì e discoteche no. I fatti danno ragione al professore di Padova. Origini e formazioni romane, Crisanti ha diretto la sezione malattie infettive e immunologia dell’Imperial College di Londra, soltanto due anni fa è rientrato in Italia, a Padova. Adesso sarà al servizio dello “Spallanzani” con la benedizione del governo di centrosinistra e la benedizione di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio nonché segretario del Pd e di Roberto Speranza, ministro della Salute. Il passaggio sarà ufficializzato tra poche settimane. Crisanti non commenta. A fine anno va in pensione la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi, direttore del dipartimento di virologia dello “Spallanzani”, la scienziata che con la squadra ha isolato e mappato il coronavirus poi chiamato Covid 19.
Ilaria Capua insultata dopo DiMartedì: "Brutta troia hai finito di dire stronzate", attacco sconvolgente. Libero Quotidiano il 24 settembre 2020. “Brutta troia hai finito di dire stronzate”. Ilaria Capua ha svelato l’orrore che è costretta a sopportare ogni volta che appare in televisione. Nello specifico a DiMartedì, dove solo due giorni fa aveva spiegato che c’erano avvisaglie di una seconda ondata di coronavirus in gran parte d’Europa, mentre l’Italia non deve abbassare la guardia pur avendo una situazione epidemiologica sotto controllo al momento. La Capua si era espressa con il solito garbo e soprattutto con equilibrio, doti che a diversi suoi colleghi sono mancate durante questi lunghi mesi di apparizioni televisive. Eppure si è ritrovata coperta di offese pesanti: “Il mercoledì mattina - ha scritto su Twitter - lo battezzo con gli insulti relativi alla mia presenza in tv. Li vorrei ritwittare tutti. Per protesta. Nei cito uno esemplare: "Brutta troia hai finito di dire stronzate. Roberto Burioni le ha inviato subito un messaggio di solidarietà, rivelando che anche lui è molto bersagliato: “Nei miei confronti alcuni dimostrano maggiore fantasia, come quello che mi ha scritto "satanista criminale piddino"”.
Coronavirus e medici in tv: e se ci fosse un conflitto d'interesse? Le Iene News il 09 giugno 2020. Alessandro Politi ci parla dei medici, scienziati e consulenti che sono apparsi in televisione in questi mesi. Qualcuno si chiede: quando danno consigli, lo fanno per puro interesse scientifico o anche per interesse personale? E affronta un caso specifico. In questi ultimi mesi la tv si è svuotata di ballerini, cantanti e calciatori, e si è riempita di virologi, ematologici ed esperti di coronavirus. Ormai ci chiediamo: cosa dirà lo scienziato di turno? E qualcuno ha iniziato a chiedersi: parlerà per puro interesse scientifico o anche per un interesse personale? Perché, come sostiene il presidente del Codacons, l'avvocato Carlo Rienzi, c’è il rischio un potenziale conflitto d’interessi: “Se un medico, o consulente scientifico, vuole dare dei consigli non deve essere finanziariamente o economicamente implicato in erogazione di denaro da parte di chi produce, perché non ci può essere serenità”. Cioè se un medico o uno scienziato va in televisione a dare dei consigli, non dovrebbe avere alcun legame con chi tramite quei consigli potrebbe guadagnarci. Per esempio, anche se mettere la mascherina è la scelta più giusta per contenere la pandemia, non dovrebbe essere l’esperto legato alla ditta produttrice a consigliarli. “Devo avere la certezza della trasparenza della comunicazione, soprattutto nel servizio pubblico”, spiega Rienzi. “Se c’è chiarezza, se c’è trasparenza il problema non si pone”, dice Enrico Mentana. “Se uno dice di non aver nulla a che fare con nessuno e poi si scopre che prende i soldi da una casa farmaceutica, è chiaro che c’è indifendibilità”. Il direttore parla in generale, ma questa sera Alessandro Politi ci parlerà di un caso specifico.
Dagospia il 17 giugno 2020. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Io diventato famoso per le presenze in tv? “Mi viene da ridere. Mi fa piacere però che alcuni mi abbiano detto che ho assunto un po' il ruolo del medico di famiglia, stesso mestiere di mio padre”. A parlare, ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è il dottor Massimo Galli, direttore della terza divisione di malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, che oggi si è raccontato alla trasmissione condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Grazie a questo fama le hanno mai chiesto di farsi un selfie? “Si, è capitato. E li ho fatti, cosa dovevo fare...” Con o senza mascherina? “Con la mascherina e un po' distanziati”. Lei tra i suoi colleghi virologi a volte passa per una sorta di 'rompiscatole'. “Quando sei un po' ripetitivo, burbero, uccello del malaugurio, lo fai perché non ne hai potuto più di vedere morti, questo è il punto. Serviva qualcuno che facesse la parte del rompiscatole - ha detto il virologo a Rai Radio1 - ma chi mi conosce sa che non sono così”. Secondo lei Berlusconi ha fatto bene a restare in Francia in tutto questo periodo di lockdown? “Berlusconi è un signore di una certa età, e come tutti i signori di una certa età credo abbia fatto bene a stare in situazioni che non lo mettessero a repentaglio in modo particolare”. Dottore, quando potremo tornare a baciarci? “Io ho sempre pensato che solo in pochi si siano davvero astenuti da ciò anche nel periodo peggiore”. Ci si dovrà baciare con la mascherina? “No. Credo che questo sarebbe di scarsa soddisfazione...” Lei ha un hobby molto particolare: le conchiglie. “Le colleziono da quando ho 4 anni colleziono, soprattutto cipree, ne esistono 214 tipologie diverse. Ora mi limito a guardare quelle che ho senza toglierle dal mare. Andando in pensione, alla fine dell'anno prossimo, spero di fare uno studio su di una specie affascinante”.
Fabio Fazio sbotta per Burioni: "Il merito è visto con sospetto". Fabio Fazio scende in campo in difesa di Roberto Burioni dopo il servizio de Le Iene e ne difende il lavoro, con una vena polemica autoriferita. Francesca Galici, Mercoledì 10/06/2020 il Giornale. Roberto Burioni in queste ore è tornato suo malgrado al centro dell'attenzione mediatica dopo aver annunciato l'intenzione di prendere un periodo sabbatico dopo l'eccessiva esposizione degli ultimi mesi. Il virologo è stato ospite fisso di Fabio Fazio a Che tempo che fa fin dall'inizio della pandemia e ha fornito il supporto necessario per un'informazione corretta e coerente, anche se non sono mancate le critiche per alcune affermazioni di Burioni che col tempo si sono rivelate errate. Le discussioni tra virologi, d'altronde, hanno caratterizzato gli ultimi tre mesi del nostro Paese a causa di discordanze profonde tra gli esperti impegnati nello studio del Covid-19. I virologi sono stati le vere star dell'informazione del Paese, contesi da tutte le trasmissioni di informazione e non solo. Il loro ruolo ha assunto un'importanza cruciale nel bombardamento mediatico in merito al coronavirus. Tra tutti quelli che sono intervenuti il televisione, Roberto Burioni era già prima uno dei più noti. Da diversi anni, infatti, il virologo si espone sui social, dove propone le sue opinioni col piglio deciso di sa perfettamente di cosa parla, senza paura di essere smentito. Questo suo atteggiamento l'ha spesso fatto scontrare con i no-vax ma gli ha permesso di raccogliere lodi positive da parte della comunità social. Per tanti, infatti, Burioni è diventato un leader scientifico. Di settimana in settimana, Roberto Burioni ha affiancato Fabio Fazio nella sua trasmissione domenicale. Tuttavia, le opinioni discordanti dei virologi, spesso diametralmente opposte e non semplicemente divergenti, hanno di fatto creato confusione nel pubblico a casa. Tantissimi telespettatori e cittadini sono arrivati al punto di chiedersi se le discordanze non fossero in realtà frutto di un conflitto di interessi. Durante la puntata di ieri de Le Iene, Alessandro Politi ha messo sotto la lente d'ingrandimento il caso specifico di Roberto Burioni, in un lungo servizio che ha analizzato alcuni aspetti della vita professionale del virologo e delle sue numerose collaborazioni e consulenze. Un servizio durato quasi 15 minuti che non è piaciuto a Roberto Burioni, che questa mattina ha voluto puntualizzare alcuni degli argomenti trattati da Le Iene, portando documenti e prove a suo favore, riservandosi il diritto di adire le vie legali, dopo un'attenta revisione del pezzo con il suo legale. In suo soccorso è giunto poco fa Fabio Fazio, che ha espresso solidarietà al virologo. "Grazie a Roberto Burioni per la collaborazione e l'aiuto che ha fornito ai telespettatori di Che tempo che fa. Viviamo in uno strano periodo storico, in cui merito e competenza sono guardati con fastidio e sospetto. Non possiamo far altro che cercare di fare al meglio il nostro lavoro", ha scritto il conduttore riportando il post di Burioni. Parole dedicate al virologo ma in un certo senso autoriferite per Fabio Fazio, che da qualche giorno si trova al centro della polemica per il suo rinnovo in Rai. Il contratto del conduttore è in scadenza nel 2021 e c'è chi considera irresponsabile l'idea di rinnovarlo in questo momento storico di grande incertezza economica, visti i costi elevati. Nei corridoi di Viale Mazzini questa mossa pare abbia scatenato più di qualche insofferenza, tanto che le trattative sembrano ora essersi fermate.
Le accuse al virologo. Burioni attaccato dall’Espresso sulle consulenze, la nuova crociata dopo il caso Ilaria Capua. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2020. L’Espresso colpisce ancora. Il settimanale diretto da Marco Damilano ha messo nel mirino Roberto Burioni, il virologo del San Raffaele di Milano finito al centro di una inchiesta del giornale per le consulenze ottenute da varie aziende, da Ferrari a Tim, da Gucci a Marelli. Un trattamento giornalistico già noto, perché a esserne vittima fu anni fa la collega virologa Ilaria Capua, "vittima" dell’inchiesta del settimanale “Trafficanti di virus” (datata aprile 2014), riferita ad una indagine della Procura di Roma che finirà con l’assoluzione della scienziata su un presunto traffico di vaccini. Capua quindi denunciò l’Espresso, ma il tribunale di Velletri decise di rigettare le accuse della virologa, archiviando la posizione del giornalista Lirio Abbate, vicedirettore del settimanale e autore dell’articolo. Ora è Burioni è finito nell’occhio del ciclone per delle consulenze concesse senza infrangere nessuna legge o codice deontologico. In una intervista al Corriere della Sera, Burioni replica alle polemiche e annuncia anche il suo addio alla tv. “In generale in questi anni mi hanno ferito più gli attacchi di quelli che la pensano come me che quelli dei complottisti. Sulle consulenze dico una cosa semplice: chi dovrebbe aiutare la ripartenza di un Paese se non un esperto di queste questioni? Se la Ferrari mi chiede un aiuto, dovrei dire di no? Io ritengo che sia un dovere dare una mano. E un professionista va pagato, perché altrimenti si tratta di sfruttamento. Mi hanno accusato di speculare sulla pandemia persino quando è uscito il mio ultimo libro, Virus, anche se tutti sapevano che i proventi sarebbero andati alla ricerca”. Solidarietà nei suoi confronti è arrivata proprio da Ilaria Capua, che su Twitter si è espressa a favore del virologo: “Non è con il fango che si migliora il paese in questa situazione drammatica”, ha scritto la Capua con un hashstag molto chiaro sulla sua posizione nella vicenda, #EBastaFango.
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per ''L'Espresso'' l'11 giugno 2020. La Lifenet Helthcare, la società di Nicola Bedin che ha inventato insieme al virologo Roberto Burioni le consulenze anti Covid per le aziende, ha deciso – dopo l'inchiesta dell'Espresso della scorsa settimana – di rescindere il contratto con la Snam, il colosso del gas naturale controllato da Cassa depositi e prestiti. Qualche giorno fa il nostro settimanale aveva scoperto che anche l'azienda pubblica del metano aveva aderito a “Back on track”, un servizio di consulenza che vende «indicazioni e linee guida per riprendere l'attività aziendale in sicurezza rispetto al coronavirus». Con tariffe variabili a seconda del tipo di servizio (consigli sul distanziamento in fabbrica e ufficio, suggerimenti su protocolli e norme varie) e del consulente scientifico prescelto (Burioni il preferito da molti) dai vari clienti, come Tim, Gucci, Philip Morris, Ferrari e altri marchi. Il contratto con Snam arriva a massimali pari a 150 mila euro. Somma legittima ma notevole, anche perché per consulenze simili altri scienziati prendono assai meno: Massimo Galli ha chiesto per consulenze anti Sarv-Cov 2 circa 20 mila euro alla Pirelli, soldi che però (dovesse essere approvato il contratto dal dipartimento dell'università) andranno quasi per intero alla ricerca e all'ateneo. L'Espresso, soprattutto, aveva individuato un potenziale conflitto d'interessi dell'amministratore delegato di Lifenet: contrattualizzato come consulente da Snam ad aprile, Bedin è stato poi designato dal governo (o meglio da Cassa depositi e prestiti, azionista di maggioranza di Snam) come membro di amministrazione e presidente designato dell'azienda pubblica. L'imprenditore, già manager del San Raffaele e con ottimi rapporti con Davide Casaleggio - tanto da aver tenuto speech sulla sanità alla manifestazione grillina “Sun” di Ivrea - è stato fino al 2018 pure nel cda di Italgas, società partecipata da Cassa Depositi e Prestiti e da Snam. Mentre qualche giornale e i social polemizzavano sull'inchiesta giornalistica (mai smentita in nessuna sua parte dai diretti interessati) il 5 giugno, il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo sul sito, Bedin ha preso carta e penna e ha inviato ai dirigenti di Snam una lettera, con la richiesta di risolvere rapidamente il contratto. «Egregi signori, in relazione alla mia designazione annunciata lo scorso 29 maggio da parte di Cdp spa quale prossimo consigliere e presidente di Snam...sono con la presente a rappresentarvi la richiesta di Lifenet srl di cessare anticipatamente con efficacia immediata il contratto n.7300004357 sottoscritto o scorso 24 aprile con durata sino al 31 luglio prossimo», spiegava. Il motivo è proprio quello ipotizzato dall'Espresso: «Ragioni di opportunità legate al non voler sovrapporre, anche solo in via potenziale, il mio ruolo di ad e socio di Lifenet con quello di presidente di Snam». La lettera, dicono i maligni, sarebbe stata spedita poche ore dopo la pubblicazione dell'articolo sugli affari di Bedin e di Burioni non per mera casualità: membri del governo (soprattutto legati al Movimento Cinque Stelle) non avrebbero gradito la doppia veste di Bedin come consulente e futuro presidente. E avrebbero suggerito all'imprenditore quarantenne che, prima dell'assemblea del cda di Snam del prossimo18 giugno, sarebbe stata necessario sciogliere il nodo. «In altri paesi, non sarebbe saltato il contratto» chiosano adesso fonti interne ai sindacati «Ma sarebbe saltata la sua designazione come numero uno». Da fonti interne all'azienda, invece, si sottolinea invece che i contatti tra Snam e Lifenet sono iniziati a metà aprile, e che il contratto è stato firmato il 24 dello stesso mese. Due settimane prima delle dimissioni del presidente uscente Luca Dal Fabbro, che a sorpresa si è dimesso lo scorso maggio. In occasione della sua designazione a presidente di Snam, come previsto dalla legge, Bedin inoltre avrebbe dichiarato il suo contratto. L'azienda del gas comunque non risparmierà tutti i 150 mila euro: Bedin parte dei soldi con Snam pattuiti li vuole. «Chiedo altresì a voi di valutare lo stato di avanzamento dei servizi e dei deliverables di cui all'oggetto del contratto, e di conseguenza la quota di prezzo ad oggi maturata». Il futuro presidente è un professionista, e vuole ogni euro che gli spetta. Anche se presto avrà nuove entrate di rilievo: il presidente di Snam guadagna infatti oltre 300 mila euro lordi l'anno. Chissà se Casaleggio al prossimo "Sun" in onore del padre Gianroberto inviterà Bedin, già esperto di sanità e Covid, su un panel sul gas e il metano.
Le Iene, Roberto Burioni e il conflitto d'interesse: "Bugie evidenti, passato il segno. Il Codacons mi perseguita da anni". Libero Quotidiano il 10 giugno 2020. “Un servizio de Le Iene ha scelto come fonte per crocifiggermi il Codacons, che da anni mi perseguita”. Roberto Burioni è costretto a ritardare la scomparsa dei media annunciata nei giorni scorsi: il virologo ha affidato a Facebook un lungo post in cui risponde alle accuse di conflitto di interesse per quanto riguarda il coronavirus. “Se il plasma funziona o se funzionano gli anticorpi monoclonali contro il Covid-19 - ha sottolineato Burioni - se servono le mascherine o no, se si usano o no i disinfettanti o i farmaci, a me non cambia niente dal punto di vista economico”. Per quanto riguarda la collaborazione sui vaccini con la Fondazione Lorenzini, il noto virologo marchigiano ha spiegato che si trattava di una “collaborazione per la stesura di un quaderno sull’esito vaccinale uscito con il Sole 24 Ore e scritto insieme a una serie di autorevoli colleghi, per la quale ho emesso regolare fattura di 1500 euro”. Quindi per Burioni parlare di conflitto di interesse su questo tema “richiede uno sforzo notevole di immaginazione”. Per il virologo “questa volta si è passato il segno” e non è finita qui: “Queste sono le bugie più evidenti che ho sentito. Per le altre datemi tempo di risentire questo servizio insieme al mio legale. Spero che questo trattamento - è la chiosa di Burioni - fatto di bugie e di insinuazioni, sia di monito a qualunque scienziato voglia nel futuro impegnarsi a informare correttamente le persone”.
Coronavirus e esperti: quando parla di scienza Burioni ha un conflitto di interessi? Le Iene News il 09 giugno 2020. Alessandro Politi ci parla dei medici, scienziati e consulenti che sono apparsi in televisione in questi mesi. Qualcuno si chiede: quando danno consigli, lo fanno per un alto interesse scientifico o per un interesse personale? E ci parla di un caso specifico, quello di Roberto Burioni. Possibile che il professore abbia un conflitto di interessi? In questi ultimi mesi la tv si è svuotata di ballerini, cantanti e calciatori, e si è riempita di virologi, ematologici ed esperti di coronavirus. Orma ci chiediamo: cosa dirà lo scienziato di turno? E qualcuno ha anche iniziato a chiedersi: parlerà per un alto interesse scientifico o per un interesse personale? Perché, come ci spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi, si rischia un potenziale conflitto d’interessi: “Se un medico, o consulente scientifico, vuole dare dei consigli non deve essere finanziariamente o economicamente implicato in erogazione di denaro da parte di chi produce, perché non ci può essere serenità”. Cioè se un medico o uno scienziato va in televisione a dare dei consigli, non dovrebbe avere alcun legame con chi tramite quei consigli potrebbe guadagnarci. Per esempio, anche se mettere la mascherina è la scelta più giusta per contenere la pandemia, non dovrebbe essere l’esperto legato alla ditta produttrice a consigliarli. “Devo avere la certezza della trasparenza della comunicazione. Soprattutto nel servizio pubblico”, spiega Rienzi. “Se c’è chiarezza, se c’è trasparenza il problema non si pone”, dice Enrico Mentana. “Se uno dice di non aver nulla a che fare con nessuno, e poi si scopre che prende i soldi da una casa farmaceutica, è chiaro che c’è indifendibilità”. Il direttore parla in generale, ma in questo servizio il nostro Alessandro Politi ci parla di un caso specifico: il professor Burioni. Ospite fisso di Fabio Fazio fino a poco tempo fa, il professor Burioni è stato esperto di riferimento per molti. Ma veniamo alle affermazioni specifiche del professore, che in qualche maniera potrebbero tradire un suo possibile conflitto d’interessi: in vari momenti ha parlato di “anticorpi monoclonali”, come potete vedere nel servizio qui sopra. Il suo parlare di questi anticorpi come possibile soluzione contro il coronavirus ovviamente è rimbalzata su molti giornali e siti specializzati. E qui ci siamo chiesti: come mai spinge così tanto questo tipo di anticorpi per la lotta contro il coronavirus? Facendo un po’ di ricerche scopriamo che il professore non solo da sempre li studia, ma li ha brevettati e depositati. “Addirittura una società, la Pomona, aveva registrato una enormità di suoi prodotti”, ci dice Rienzi. “Io mi domando: se uno brevetta l’anticorpo monoclonale immunizzante del virus JC, e non è solo questo ma sono tanti, eh sì, lui ha interesse quindi a farlo vendere?”. È proprio con questa società che Burioni deposita molti dei suoi brevetti di anticorpi monoclonali contro vari tipi di virus influenzali e non. Questo vuol dire che da quei brevetti è probabile che lui ci guadagni. E qui ci tornano in mente alcune sue affermazioni: in Italia è uscita ovunque la notizia che la sperimentazione con il plasma iperimmune stava dando ottimi risultati. “Utilizzare i sieri e il plasma dei pazienti guariti può essere in grado di migliorare chi sta male”, ha detto Burioni ospite di Fazio. “Questa è una notizia buona non solo per il fatto che si può fare questo, perché poi si può fare poco perché prendere il sangue dai guariti non è una cosa semplice”. Il nostro Alessandro Politi però è andato lui stesso in ospedale e in meno di trenta minuti ha donato due sacche di plasma. Burioni però non si limita a questo: in un’altra puntata dice che “il plasma delle persone guarite è disponibile in piccola quantità ovviamente, non è che possiamo svenare i guariti”. E qui ci permettiamo di ricordare che oggi in Italia ci sono più di 150mila guariti contro 6mila ricoverati e solo 450 persone in terapia intensiva. E anche all’epoca di quelle dichiarazioni il numero dei guariti era già più alto di quello delle persone in terapia intensiva. “Noi siamo capaci di fare questi sieri, tra virgolette, artificialmente in laboratorio: si chiamano anticorpi monoclonali umani: è una speranza nuova che si apre”, ha detto ancora Burioni. Insomma sembra che l’importante non sia il plasma che è poco, ma gli anticorpi monoclonali. E in un’altra puntata aggiunge: “Questi plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”. Ma chi lavora il plasma tutti i giorni ci ha detto che il costo è bassissimo, come potete vedere nel servizio qui sopra. Gli anticorpi monoclonali invece, a sentire lo stesso Burioni, costerebbero molto. Il professore comunque continua a criticare l’uso del plasma, anche sul suo blog, come potete vedere nel servizio qui sopra. “Quando lui dice che le cure col plasma meglio di no, non si sa, sono costose eccetera, cose non vere… lì dovresti dire: io comunque vi devo avvertire che ho degli interessi su questi monoclonali”, sostiene Rienzi. “Il conflitto di interessi è potenziale, si chiama”, ci dice Peter Gomez, direttore de ilfattoquidiano.it. “Però va dichiarato: visto che non possiamo stabilire prima se sei buono o cattivo, dobbiamo sapere solo che c’è il conflitto di interessi”. “Il conflitto di interessi si risolve solo con la trasparenza”, aggiunge il professor Andrea Crisanti. E cosa avrebbe dovuto dire Burioni quando ha esaltato gli anticorpi monoclonali? “Guardate io ho un interesse perché magari ci faccio anche dei quattrini. Comunque detto questo ho delle ragioni scientifiche per supportare questa cosa. E allora a quel punto dopo che mi hai ascoltato puoi dire: sì vabbè, può avere ragione ma può anche essere motivato da un interesse, no? Hai tutti gli strumenti per capire se io sono in buona fede o in malafede”. E infatti esistono delle vere e proprie regole per monitorare i conflitti d’interesse in ambito scientifico: “Ognuno di noi quando scrive un articolo scientifico, quando fa una presentazione a un congresso, all’inizio della propria presentazione riporta i propri conflitti d’interesse”, ci spiega il professor Matteo Bassetti: “Che siano consulenze, che siano studi clinici, partecipazione a congressi… ed è così in tutto il mondo”. Ma adesso che noi sappiamo che Burioni brevetta proprio anticorpi monoclonali e che quando ne ha parlato non l’ha specificato, cosa dobbiamo pensare? “È chiaro che l’anticorpo monoclonali potenzialmente mi può portare un mucchio di grana”, ci dice ancora il professor Crisanti. “Però questo non toglie che devo fare la scelta che è più efficace economicamente dal punto di vista sia del paziente che del sistema sanitario”. Soprattutto dopo che su Nature è stato descritto il plasma dei convalescenti come trattamento di prima scelta per il coronavirus.Ma se io in televisione dico che il plasma ha questi problemi, che non sono veri… “Questo è sbagliatissimo, questo è in malafede”, dice Crisanti. “Fai due sbagli in questo caso: primo, non manifesti il tuo conflitto di interesse, e poi manipoli la realtà per indirizzare le scelte verso quello che ti conviene. Sono due cose sbagliate”. Come potete vedere nel servizio qui sopra, quando si parla del plasma sembra che Burioni riporti il discorso sugli anticorpi monoclonali. Gli anticorpi monoclonali sono la soluzione, ma contemporaneamente sono proprio quello che il professore studia, poi brevetta assieme a una casa farmaceutica. “Questo si chiama conflitto d’interessi non dichiarato”, dice Peter Gomez. “Lui deve dichiarare: io ho speso la mia vita per fare brevetti di questo tipo, ma lo dobbiamo sapere”. “Anche così, anche con scritto sotto ‘io sono così eccetera eccetera’, non va bene per me”, dice il professor Massimo Cacciari. “Ha fatto un danno a se stesso e un danno alla comunità”, aggiunge ancora Crisanti. Ma c’è un’altra polemiche apparsa sui giornali: quanto guadagnano i virologi per le presenze in tv? Anche se il mondo scientifico condanna questo fenomeno, il problema è: quando vediamo uno scienziato in tv pensiamo che parli di scienza, non di altre cose. E qui il Codacons ha notato un altro aspetto delle affermazioni di Burioni, su cui ha fatto un esposto all’Ordine dei medici, al Garante delle comunicazioni e persino all’Anticorruzione. “Quando noi vedevamo tutte queste prese di posizione a favore dei vaccini, siamo andati a cercare e abbiamo scoperto che questo Burioni aveva partecipato a convegni con fondazioni finanziate dalle case farmaceutiche proprio sui vaccini”, ci racconta Carlo Rienzi. Sia chiaro, i vaccini vanno fatti. Lo dicono tutte le autorità sanitarie del mondo. Il problema non è se vadano fatti o meno, ma se chi li consiglia abbia un conflitto d’interessi parlandone in televisione. “Se tu da una casa farmaceutica hai avuto una somma di denaro, c’è un sospetto”, sostiene Rienzi. “Per esempio ha fatto un discorso a un corso di formazione sui vaccini che è stato organizzato da una casa farmaceutica che produce vaccini”. E ci sono altri esempi, come potete vedere e sentire qui sopra. Se fai inserti, eventi e collaborazioni con case farmaceutiche, poi vai in televisione e non li dichiari, si configura il conflitto di interesse? “Certo”, risponde il professor Crisanti. “Si configura il conflitto d’interesse nascosto e non risolto”. E allora ci chiediamo perché il professor Burioni, durante una conferenza web sponsorizzata da una casa farmaceutica, dica: “Io ritengo che il vaccino antinfluenzale debba essere obbligatorio, altrimenti ogni influenza può essere un allarme coronavirus”. Vaccino antinfluenzale obbligatorio? Può essere giusto. “La verità non può essere verità se il soggetto che la enuncia sotto può avere un conflitto d’interesse”, sostiene Rienzi. “Devi essere indipendente a prescindere”. Ma Burioni che tipo di legame ha per esempio con Pomona, l’azienda farmaceutica con cui ha depositato molti dei suoi brevetti di anticorpi monoclonali e che si occupa anche di vaccini? Facendo alcune ricerche abbiamo scoperto che l’intera proprietà della ditta è di un certo Gualtiero Cochis, che ne possiede il 100%. Cochis inoltre possiede o è socio di una marea di ditte in tutta Italia, che operano nei più disparati settori. Ma che rapporto avrà questo Cochis con Roberto Burioni? Per capirlo Alessandro Politi è andato a cercare proprio Cochis. La Iena non lo trova, ma riesce a parlare con la sorella e allora coglie la palla al balzo, e le chiediamo di telefonargli perché vorremmo parlargli una serie di progetti per la sua azienda farmaceutica. Dopo poco la sorella risponde che “mi ha detto che dovete parlare con Burioni, che lui non se ne occupa”. Ma non ha il 100% della proprietà? E poi perché mai dovremmo parlare con Burioni, visto che lui non figura da nessuna parte? “Se fosse che lui ha un rapporto attraverso un prestanome per esempio, ma non figura ufficialmente, se esce fuori che pubblicizza i prodotti che Pomona gestisce o brevetta sarebbe molto scorretto”, dice Rienzi. “Se hai la prova che lui ha un interesse economico nell’azienda li produce e li commercializza e questo interesse economico viene celato al pubblico, questo sarebbe molto grave”, aggiunge Peter Gomez. Ma siamo sicuri di aver capito bene? La Iena ha chiesto meglio alla sorella di Cochis: “Mi ha detto: guarda, io ho da fare, però digli di parlare con il prof. Burioni”. Quindi Burioni è dentro Pomona? “Credo di sì”. È lui che decide? “Forse decide Burioni”.
La risposta di Roberto Burioni alle Iene e il nostro invito ad un confronto. Le Iene News il 13 giugno 2020. Il servizio di Alessandro Politi ha suscitato molte reazioni, tra cui quella dello stesso Burioni che ha ingaggiato l’avvocato Fabio Anselmo per “ristabilire la verità”. Abbiamo raggiunto al telefono entrambi per invitarli ad un confronto . Nella puntata di martedi 9 giugno abbiamo realizzato un servizio sul professor Roberto Burioni, basato su una domanda: "quando parla di scienza su un canale della televisione pubblica, ha un conflitto di interessi?". Vi abbiamo raccontato delle sue critiche al plasma iperimmune e delle molte volte in cui ha perorato la causa degli “anticorpi monoclonali”, sui quali dichiara: “Produrre anticorpi monoclonali umani è il mio lavoro dal momento della mia laurea. Ne ho prodotti tanti, ma nessuno di questi è di mia proprietà”. Ecco i due post su Facebook del professor Roberto Burioni.
Nel primo si legge: NON HO ALCUN CONFLITTO DI INTERESSE PER QUANTO RIGUARDA COVID-19. Sono stato appena deliziato da un servizio delle Iene che ha scelto come fonte per crocifiggermi il Codacons, che da anni mi perseguita. Per cui sono costretto a ritardare la mia scomparsa dai media e dai social per fornire alcune precisazioni.
1) produrre anticorpi monoclonali umani è il mio lavoro dal momento della mia laurea. Ne ho prodotti tanti, ma nessuno di questi è di mia proprietà. La gran parte sono di Pomona Ricerca, una azienda di cui non sono socio ma con la quale collaboro proficuamente da molti anni e della quale sono da molti anni consulente scientifico. Ovvio che qualunque opportunità di collaborazione scientifica venga rimandata alla mia valutazione. Nessuno di questi anticorpi monoclonali è in commercio (sono tutti in una fase molto precoce di sviluppo) e non lo saranno ancora per almeno 10 anni; soprattutto nessuno di questi monoclonali è (purtroppo) diretto contro COVID-19. Quindi se gli anticorpi monoclonali contro COVID-19 si dimostreranno utili, io - così come Pomona RIcerca - non ne trarrò alcun beneficio economico. Il beneficio lo trarrà chi li ha brevettati (non io) chi li produce (non io) e chi li vende (non io). Anzi, per essere chiari io non ho nulla a che fare con qualunque azienda produca o venda qualunque bene utile a prevenire, curare, vaccinare per il coronavirus. Per cui NON HO NESSUN CONFLITTO DI INTERESSE : se il plasma funziona o se funzionano gli anticorpi monoclonali contro COVID-19, se servono le mascherine o non servono, se si usano o non si usano i disinfettanti o i farmaci, a me non cambia niente dal punto di vista economico. Sui dettagli scientifici su economicità e sicurezza del plasma e degli anticorpi monoclonali vi rimando a medical facts o alla pagina del prof. Guido Silvestri, che ne ha spesso parlato. Immaginare il plasma come alternativo agli anticorpi monoclonali vuole dire non sapere di cosa si parla. Il plasma è una terapia di emergenza, i monoclonali sono qualcosa che può sconfiggere il coronavirus. Ma se così fosse, come ha pure prospettato il prof. Silvestri nei suoi post più volte, io non avrò alcun vantaggio (se non quello del comune cittadino che potrà essere curato) Ripeto, non ho alcun conflitto di interesse nel campo di COVID-19, qualunque cosa accada (vaccini, plasmi, terapie, monoclonali, mascherine, guanti, disinfettanti, farmaci) non mi arriverà un centesimo in tasca.
2) la mia collaborazione con la Fondazione Lorenzini riguardo ai vaccini si è concretizzata nella collaborazione per la stesura di un quaderno sulla esitazione vaccinale uscito con il sole 24 ore scritto insieme a una serie di autorevoli colleghi per la quale ho emesso regolare fattura di 1500 euro. Immaginare che questo costituisca conflitto di interesse richiede uno sforzo notevole di immaginazione. Potete trovare il quaderno a questo link. Il contributo della azienda è bene in evidenza, ma io non ho collaborato con l'azienda, ma con la Fondazione Lorenzini, un ente con un'ottima reputazione che mi ha onorato affiancandomi ai migliori esperti nel campo delle vaccinazioni.
3) Queste sono le bugie più evidenti che ho sentito. Per le altre datemi tempo di risentire questo servizio insieme al mio legale, perché questa volta si è passato il segno. Giusto per la cronaca, i numerosi esposti che il Codacons ha fatto negli anni contro di me all’ordine dei medici, al TAR e ad altre entità che ora dimentico per sottolineare miei ipotetici conflitti di interessi sulle vaccinazioni sono stati tutti archiviati.
Grazie per la pazienza. Spero che questo trattamento, fatto di bugie e di insinuazioni, sia di monito a qualunque scienziato voglia nel futuro impegnarsi a informare correttamente le persone. Per quanto mi riguarda, vi ringrazio dell'affetto e della fiducia che mi avete affidato. Sappiate che non l'ho mai tradita e che non ho mai scritto nulla che non fosse la trascrizione più accurata che sapevo fare della verità scientifica. Tanto che in tutti i miei libri e in tutti i miei articoli su medical facts nessuno ha mai trovato un errore (anzi uno sì, erano descritti male i transistor, e l'ho corretto). Questo non accade perché io non faccio errori, ma perché ogni riga scritta viene sottoposta sempre alla verifica severa di un collega esperto. Non vi dico a presto perché a presto non sarà. State attenti e prendete ancora le precauzioni. L'epidemia sta passando ma meglio riprendere la nostra vita normale con prudenza ancora per qualche settimana. In bocca al lupo e auguri di ottima salute a voi e ai vostri cari. Nel secondo, invece, Burioni scrive: Sono molto addolorato per quanto affermato sul mio conto e sulla mia persona dalla trasmissione televisiva “Le Iene". È stata messa in discussione la mia professionalità e sono stato accusato di conflitti di interesse su una malattia gravissima, che ha portato lutto e dolore agli italiani. In tutto questo, pensate che non sono stato nemmeno interpellato. Se l'inviato delle Iene lo avesse fatto sono certo che si sarebbe reso conto della verità e quel servizio non sarebbe andato in onda. La mia storia di vita professionale parla per me. Non ho alcun interesse in cure, terapie, vaccinazioni contro COVID-19 . Non solo non possiedo nessun brevetto su anticorpi monoclonali contro COVID-19, ma nessun progetto di ricerca che anche lontanamente possa riguardare questo tipo di molecole potenzialmente utili contro COVID-19 è collegato alla mia persona. Mi sono rivolto all’avvocato Fabio Anselmo per chiedergli un’unica e per me fondamentale cosa: ristabilire la verità. L'avvocato ha accettato il mio mandato e lo ringrazio di cuore. Sarà affiancato dall’avvocato Roberto Marchegiani, che da sempre mi difende. Ho accettato tante critiche. Questa, tuttavia, la percepisco fortissimamente ingiusta.
Martedì 9 giugno direttamente dal nostro programma abbiamo rivolto un invito ufficiale al professor Burioni. Nei giorni seguenti lo abbiamo inoltre raggiunto al telefono, e abbiamo parlato anche col suo legale Fabio Anselmo. Saremmo lieti di ospitare le loro repliche così da poterci confrontare sui temi trattati. Il professor Burioni ci accusa sui social di dire “bugie”, affermazioni gravi in quanto ciò che abbiamo raccontato non ci risulta essere privo di fondamento e quindi a maggior ragione merita di avere un chiarimento urgente. Il professore e il suo legale, ci hanno risposto che in settimana ci avrebbero fatto sapere. Per continuare a dare un'informazione corretta e trasparente a chi ci segue, siamo in attesa di accogliere i loro chiarimenti. Vi terremo informati.
Da corrieredellosport.it il 15 giugno 2020. "Sul mio conflitto di interesse accetto il confronto: ma solo con il prof. Matteo Bassetti e con il Prof. Andrea Crisanti che hanno partecipato alla trasmissione delle Iene dove sono stato gravemente diffamato". Inizia così il messaggio lanciato sul proprio profilo Facebook da Roberto Burioni, protagonista di un servizio de Le Iene nella puntata di martedì scorso. "Mi ritengo, anche se qualcuno dei miei nemici non sarà d'accordo, un uomo di scienza che ha dedicato alla scienza tutta la vita - prosegue Burioni -. La pandemia che ci ha colpito è stata una tragedia di proporzioni mondiali, che solo nel nostro Paese ha falcidiato decine di migliaia di famiglie. Inutile dire che è inammissibile scherzarci su, e inutile dire che l'argomento è dannatamente scientifico". "Accetto ogni possibile critica ma non posso accettare che venga messa in discussione la mia onestà. Una notissima e seguitissima trasmissione televisiva l’ha messa gravemente in dubbio sostenendo apertamente che io parlerei pubblicamente delle possibili cure tacendo volontariamente il fatto di avere forti interessi economici su una di esse. In buona sostanza criticherei o sminuirei le altre per favorire quella che mi porterebbe denaro. Falso. Tutto irrimediabilmente falso ma anche, scientificamente, completamente sbagliato - sbotta Burioni -. Il prof. Matteo Bassetti e il prof. Andrea Crisanti hanno partecipato alla trasmissione dove sono stato pesantemente diffamato. Ma il conflitto di interessi non è un’opinione, bensì una questione oggettiva. Con il loro supporto sono stato accusato di perseguire un profitto personale denigrando l’utilizzo del plasma proveniente da donatori per curare Covid-19 al fine di favorire l’utilizzo del plasma sintetico fatto con anticorpi monoclonali umani anti-Covid-19, dal quale io trarrei un vantaggio economico".
Il prof. Burioni accusa le Iene di mentire sempre. Ma la verità è facile da raccontare e rende liberi. Le Iene News il 16 giugno 2020. Il prof.Burioni, dopo che Le Iene martedì 9 giugno hanno mandato un servizio del nostro Alessandro Politi che aveva per titolo: “Il prof. Burioni, quando parla di scienza su un canale della televisione pubblica, ha un conflitto d’interessi?” ha iniziato un’attività social di comunicazione che non risponde ai temi sollevati (cioè un suo presunto conflitto d’interesse potenziale in generale) ma sposta l’attenzione su vicende che poco c’entrano con il tema da chiarire. Martedì 9 giugno, vi abbiamo raccontato dei rapporti che il prof. Burioni ha da anni “proficuamente” (il termine proficuamente è una sua definizione) con l’azienda Pomona, una compagnia privata che opera nel settore delle biotecnologie e impegnata nello studio sviluppo e produzione di anticorpi monoclonali umani. Potete rivedere il servizio in questione cliccando qui. Il professor Burioni, che abbiamo invitato per una replica sul suo presunto conflitto d’interesse, ci ha inizialmente risposto con due post su Facebook, come vi abbiamo raccontato qui. Nei giorni seguenti lo abbiamo raggiunto al telefono, e abbiamo parlato anche col suo legale Fabio Anselmo, per una sua replica. Sempre tramite Facebook il professor Burioni ha fatto sapere di essere disponibile al confronto ma solo con i suoi colleghi, i professori Bassetti e Crisanti, come vi abbiamo raccontato qui. Allora abbiamo contattato entrambi. Il prof. Bassetti ci ha testualmente detto: “Io non voglio entrarci... non ne voglio sapere... io vorrei conoscere i fatti in maniera approfondita... e nel modo in cui li avete presentati è la vostra versione... e vorrei conoscere la sua... perciò non voglio esprimere nessun giudizio... sulla vicenda. Non ci voglio entrare, non è il mio mestiere…(e conclude) voi avete fatto una lecita inchiesta giornalistica...”. Il prof. Crisanti invece ha raccolto l’invito del prof. Burioni dicendoci testualmente:”Io sono disposto ad un confronto con lui sul valore della trasparenza nella comunicazione per evitare conflitti e altre situazioni”. Così, raccolta la partecipazione del prof. Crisanti, abbiamo fatto un comunicato in cui dicevamo: “martedì 23 giugno dalle 21.10 su Italia 1 potrete assistere a un inedito confronto tra virologi sulla trasparenza nella comunicazione, per evitare conflitti d’interesse". Nel frattempo però Roberto Burioni ha scritto su Facebook: “Mi ha appena telefonato il prof. Matteo Bassetti, manifestandomi la sua solidarietà per gli attacchi ricevuti e rinnovandomi la sua stima, che io ricambio con affetto. Come ero certo, le sue parole trasmesse durante il servizio de Le Iene non erano in alcun modo rivolte a me e neppure al mio INESISTENTE conflitto di interesse.” Se davvero il conflitto d’interesse di Burioni è INESISTENTE, sarà facile per il professore dimostrarlo confrontandosi con noi, rispondendo alle domande che abbiamo posto in merito alla sua attività e abbiamo ben documentato nel servizio del 9 giugno. E comunque, per la precisione, ripetiamo testuali le parole del prof. Bassetti in merito all’invito del prof. Burioni ad un confronto: “Io non voglio entrarci... non ne voglio sapere... io vorrei conoscere i fatti in maniera approfondita... e nel modo in cui li avete presentati è la vostra versione... e vorrei conoscere la sua... perciò non voglio esprimere nessun giudizio... sulla vicenda. Non ci voglio entrare, non è il mio mestiere…(e conclude) voi avete fatto una lecita inchiesta giornalistica...”. Al post del prof. Burioni sul prof. Bassetti, ne segue un altro che ha per titolo “Per dovere di cronaca” e riporta il testo di una mail appena ricevuta, firmata dal Capo Ufficio Stampa dell’Università di Padova: ”Buonasera professor Burioni, volevo informarla che ho smentito quanto divulgato da Le Iene in merito a un ipotetico dibattito tra Lei e il prof.Crisanti. Il prof. Crisanti NON ha infatti acconsentito ad un intervento in tal senso, se non dando una generale disponibilità ad un intervento divulgativo sulla trasparenza nella scienza nei suoi diversi aspetti. Tra l’altro la telefonata del prof. Crisanti con Politi de Le Iene è avvenuta in viva voce con altre persone presenti, che possono riferire quanto sopra riportato”. La nostra telefonata, proprio per il dovere di essere precisi, è stata registrata e non ci sarà difficile dimostrare quanto detto testualmente dal prof. Crisanti: ”Io sono disposto ad un confronto con lui sul valore della trasparenza nella comunicazione per evitare conflitti e altre situazioni”. Le Iene non dicono bugie e non stravolgono i fatti. Nella puntata del 9 giugno abbiamo pubblicamente e lecitamente posto un quesito: “Il prof. Burioni, quando parla di scienza su un canale della televisione pubblica, lo fa solo in omaggio alla scienza o ha interessi connessi? Ha un conflitto d’interessi?”. E’ solo un professore universitario o anche un consulente di case farmaceutiche? E in quest’ultimo caso i suoi interessi potrebbero influenzare quanto esprime oppure no? Tutti noi (e i sottopancia) lo abbiamo classificato come “virologo”, ma se ci fossero degli interessi economici personali, questi andrebbero dichiarati o no? E’ giusto chiarirlo soprattutto quando si parla da una televisione pubblica? Questo ci siamo chiesti e chiediamo al prof. Burioni. Le chiacchiere stanno a zero e rinnoviamo caldamente il nostro invito al prof. Burioni: ci sembra molto più costruttivo e utile per la collettività un sereno confronto su un tema di indubbia attualità e rilevanza sociale come quello che stiamo affrontando piuttosto che rinviarlo alle aule del tribunale come minacciato dal prof. Burioni e dove comunque, se del caso, faremo valere tutte le nostre ragioni. Tratteremo l’intera vicenda nella nostra ultima puntata, martedì 23 giugno.
Coronavirus e esperti, in attesa delle risposte del professor Burioni. Le Iene News il 23 giugno 2020. Dopo il nostro servizio in cui ci chiedevamo: “Ma i virologi che abbiamo conosciuto durante la pandemia attraverso la tv pubblica ci hanno parlato per puro interesse scientifico o tra questi potevano esserci scienziati in conflitto d’interessi?", si è scatenata una bufera. Ecco che cosa è successo davvero e le domande a Roberto Burioni. Roberto Burioni ha scritto: “Non ho alcun conflitto d’interesse. Spero che questo trattamento fatto di bugie e insinuazioni sia di monito a qualunque scienziato voglia nel futuro impegnarsi a informare correttamente le persone”. Noi abbiamo risposto: “Non raccontiamo bugie”. Questo botta e risposta è avvenuto dopo un nostro servizio in cui ci chiedevamo: ma i virologi che abbiamo conosciuto durante la pandemia attraverso la tv pubblica, ci hanno parlato per puro interesse scientifico o tra questi potevano esserci scienziati in conflitto d’interessi? La prima cosa che abbiamo fatto dopo questo botta e risposta è stato invitare il professor Burioni per una replica che potesse chiarire la sua posizione, visto che sui social si è lamentato di non esser stato interpellato. Allora il nostro Alessandro Politi lo ha chiamato, come potete vedere nel servizio qui sopra, e lui ci ha chiesto di rivolgerci al suo avvocato. Ci siamo rivolti al suo avvocato, Fabio Anselmo, che ci chiede di risentirci a metà settimana. Tenete bene a mente questo appuntamento perché le cose sono andate un po’ diversamente. Questo accadeva due venerdì fa, tre giorni dopo il servizio in cui ci siamo concentrati in particolare sui possibili conflitti d’interessi del professor Burioni. Quando si è parlato del plasma iperimmune come possibile cura per il coronavirus, lui si è sempre dimostrato scettico, come altri scienziati. Quello che ci ha colpito è che il professore, oltre a screditare la cura con il plasma come potete vedere nel servizio qui sopra, spesso spostava il discorso sugli anticorpi monoclonali. Anticorpi che, a differenza della sacca di plasma che costa 80 euro, sono prodotti dalle case farmaceutiche e costano molto cari. Abbiamo fatto un paio di ricerche, e abbiamo scoperto che Roberto Burioni, oltre ad essere uno stimato professore del San Raffaele di Milano come si è e ci è sempre stato presentato, è anche tra gli scienziati creatori e ispiratori di una casa farmaceutica con cui ha depositato una lunga serie di brevetti di anticorpi monoclonali, alcuni dei quali rivolti contro virus influenzali. Abbiamo chiesto ad alcuni suoi colleghi ed esperti di informazione come valutavano questa coincidenza, come potete vedere nel servizio qui sopra. Facciamo un esperimento: provate a sentire la stessa dichiarazione di Roberto Burioni, prima come professore di Virologia dell’università Vita e Salute dell’ospedale San Raffaele di Milano, poi come produttore di anticorpi monoclonali e consulente di una casa farmaceutica. La prima comunicazione è uguale alla seconda? Un altro cavallo di battaglia del professore sono stati i vaccini: che sia chiaro, i vaccini è importante farli. Abbiamo sentito dire dal professor Burioni: “Ritengo che il vaccino antinfluenzale debba essere obbligatorio, perché altrimenti ogni influenza sarà un allarme di coronavirus”. E visto che la Pomona srl, casa farmaceutica che da lui e altri scienziati è stata creata e ispirata, si occupa oltre che di anticorpi monoclonali anche di vaccini, ci siamo chiesti: che rapporto ha il professor Burioni con questa azienda? Dovete sapere che questa azienda figura essere di un solo proprietario, Gualtiero Cochis, che è socio anche di svariate aziende nei più disparati settori. E c’è un’altra cosa che colpisce, osservando attentamente i prodotti della Pomona: la maggior parte sono brevettati proprio dal professor Burioni. E allora ci domandiamo: quale sarà il suo ruolo in quest’azienda? Quali saranno le competenze sugli anticorpi monoclonali del proprietario Gualtiero Cochis? Per avere una risposta a queste domande siamo andati direttamente da Cochis, per proporgli alcuni progetti ma soprattutto sapere con chi parlare per una eventuale assunzione. Non essendoci, la sorella dopo averlo sentito al telefono ci ha detto: “Mi ha detto che deve parlare con Burioni, che lui non se ne occupa”. Perché mai dovremmo parlare con Burioni di progetti e assunzioni, se lui è solo un consulente scientifico? In un post su Facebook il professor Burioni ha scritto di non essere socio di Pomona Ricerca, ma ci collabora proficuamente da molti anni. Visto che in italiano proficuo significa “che dà profitto”, stiamo pensando male se pensiamo che Roberto Burioni tragga profitto economico dal lavoro che svolge per una casa farmaceutica? La faccenda è molto semplice: Roberto Burioni è un professore universitario come si presenta nella tv di Stato o è un consulente di una casa farmaceutica? Ci sembra lecito porci questa domanda, e come ci spiega il professor Crisanti lui avrebbe dovuto dire: “Guardate io ho un interesse perché magari ci faccio anche dei quattrini. Comunque detto questo ho delle ragioni scientifiche per supportare questa cosa. E allora a quel punto dopo che mi hai ascoltato puoi dire: sì vabbè, può avere ragione ma può anche essere motivato da un interesse, no? Hai tutti gli strumenti per capire se io sono in buona fede o in malafede”. Insomma sapere se qualcuno ha un interesse nell’affermare qualcosa o qualcos’altro è alla base di una comunicazione onesta e trasparente. Osservando meglio il lavoro del professo Burioni, salta all’occhio la descrizione di alcuni suoi brevetti: “L’anticorpo monoclonale dell’invenzione può essere usato anche per testare preparazioni di anticorpi da utilizzare come vaccini”. A questo punto chiamiamo il professor Crisanti per chiedergli cosa vuol dire, come potete vedere nel servizio qui sopra. Non ci resta che chiarire il tutto con il professor Burioni: vi ricordate l’appuntamento telefonico per concordare l’incontro? Una settimana fa ha preferito annunciarlo sui social: “Sul mio conflitto d’interesse accetto il confronto, ma solo con i professori Bassetti e Crisanti”. Purtroppo il professor Bassetti, raggiunto al telefono, preferisce non partecipare. Il professor Crisanti invece accetta l’incontro. Così pubblichiamo la notizia: passa meno di un’ora e Burioni pubblica questo post: “Mi ha appena telefonato il professor Bassetti. Come ero certo le sue parole trasmesse durante il servizio de Le Iene non erano in alcun modo rivolte a me e neppure al mio INESISTENTE conflitto d’interesse. Alla fine la verità come vedete viene a galla”. Ma quale verità? A noi il professor Bassetti aveva parlato in generale di come si gestisce in Italia il conflitto d’interesse. E nel servizio è molto chiaro, come potete riascoltare. Quello che è vero invece è che a noi il professor Bassetti quando l’abbiamo sentito per il confronto aveva detto: “Voi avete fatto una lecita inchiesta giornalistica, ma io non ci entro e non voglio minimamente entrarci”. Ma lo show del professor Burioni non finisce qui: passano poche ore pubblica un post dal titolo “Per dovere di cronaca”, che riporterebbe una email ricevuta dall’ufficio stampa dell’università di Padova che in sostanza sosterebbe che il professor Crisanti non ha mai dato la sua disponibilità a questo incontro. Ma a che gioco giochiamo? Noi non siamo bugiardi, e per fortuna abbiamo il vizio di documentare quello che facciamo. A noi il professor Crisanti ha detto: “Allora io sono disponibile a fare un confronto con lui sul valore della trasparenza nella comunicazione, per evitare conflitti e altre situazioni”. Così abbiamo risentito il professor Crisanti, che ha smentito il suo ufficio stampa, ribandendo la sua disponibilità al confronto con il professor Burioni: “L’università farà una nota dicendo che il professor Crisanti aveva accettato, va bene?”. Meglio così. Peccato che da quel giorno il professor Burioni non ha più risposto al telefono. Poi quattro giorni fa ci arriva questo messaggio: “Voglio rassicurarla sul fatto che un confronto ci sarà. Avrete modo di conoscerne per tempo luogo, sede e modalità. Saluti, Roberto Burioni”. Da quel momento non l’abbiamo mai più sentito. Come vedete noi di bugie non ne diciamo. E allora, in attesa che il professor Burioni batta un colpo, gli chiediamo: ci spiega perché lei non sarebbe in “conflitto d’interessi” essendosi presentato per mesi in una tv pubblica come virologo, senza palesare il suo rapporto evidente e continuativo con una casa farmaceutica? Che tipo di rapporto ha con la Pomona Ricerca srl? Che tipo di rapporto ha con l’industria di biotecnologie Fides Pharma? Gli anticorpi monoclonali che brevetta vengono o verranno venduti a case farmaceutiche che fanno test per i vaccini? E già che ci siamo, per trasparenza, per andare ospite tutte le domeniche sulla tv pubblica è stato pagato? Fino a oggi a queste domande il professore e il proprietario della casa farmaceutica dove presta la sua “proficua consulenza” ci hanno risposto solo con una minacciosa diffida. Professor Burioni, ci vuole portare in tribunale? Perfetto, queste domande gliele faremo lì.
Burioni attacca Le Iene citando uno studio sul plasma iperimmune. Ma chi l'ha scritto lo smentisce. Le Iene News il 27 luglio 2020. Noi de Le Iene aspettiamo ancora un confronto sul suo presunto conflitto di interessi. Il prof. Burioni preferisce invece attaccarci su Facebook citando uno studio sul plasma iperimmune che dal suo punto di vista ne evidenzierebbe alcune criticità. Peccato che gli autori di quello studio, come ci hanno raccontato al telefono i principali firmatari, sostengono che il loro lavoro dice il contrario di quanto sostiene il virologo. Il prof. Roberto Burioni continua ad attaccare Le Iene citando questa volta uno studio sul plasma iperimmune. Peccato però che gli autori di quello studio, che abbiamo sentito al telefono, smentiscono la sua interpretazione del loro lavoro. Dopo che ci eravamo lasciati nell’ultima puntata del 23 giugno con il servizio di Alessandro Politi in cui ribadivamo le nostre domande al virologo su un suo possibile conflitto di interesse, aspettando le sue risposte e più che disposti a un confronto pubblico diretto (clicca qui per il servizio).
L’ATTACCO DI BURIONI. Quelle risposte non sono arrivate. Oggi invece è arrivato un attacco su Facebook che parte da una sua interpretazione dello studio pubblicato sulla rivista scientifica medRxiv “Riduzione della mortalità in 46 pazienti gravi per Covid-19 trattati con il plasma iperimmune”. Ovvero secondo il virologo proprio “quell'argomento per cui le Iene mi hanno diffamato accusandomi falsamente di essere un bugiardo e di avere un conflitto di interesse”. “Pare che il plasma non sia così sicuro come alcuni pensano: nel lavoro viene riportato come su 46 pazienti trattati in 4 ci sono stati gravi effetti collaterali… Niente di eccezionale, perché sono eventualità conosciute, ma corrispondono perfettamente alle cose che dicevo e per le quali sono stato accusato di mentire”, sostiene il prof. Burioni. “Vi ricordate quelli delle Iene, che mi accusavano di sminuire l'efficacia del plasma iperimmune per promuovere l'uso dei miei anticorpi monoclonali (che non esistono, come potranno verificare dolorosamente in tribunale)? Ebbene, questo è il finale dell'articolo: ‘… questi dati aprono la strada… eventualmente alla possibilità di conservare il siero iperimmune per anticipare una potenziale seconda ondata pandemica, allo sviluppo di prodotti farmaceutici standardizzati costituiti dalla frazione (del plasma) di anticorpi purificati e, ultimi nella lista ma non per ordine di importanza, ALLA PRODUZIONE DI ANTICORPI MONOCLONALI SU LARGA SCALA. Avete capito, io sono stato crocifisso da le Iene per avere detto esattamente quello che dicono i medici che hanno condotto questa sperimentazione”.
LA SMENTITA DEGLI AUTORI DELLO STUDIO. Pare però che la sua interpretazione dello studio sia sbagliata. E a dirlo non siamo noi ma chi quello studio l’ha scritto ed effettuato. Come ci hanno raccontato al telefono i principali firmatari: Cesare Perotti, direttore del Servizio immunoematologia e medicina trasfusionale dell’ospedale San Matteo di Pavia, e Massimo Franchini, direttore del Servizio immunoematologia e medicina trasfusionale dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Lo studio non dice che la terapia con il plasma iperimmune non è sicuro. Anzi, al contrario, dicono i due ematologi, ne conferma la validità. Quanto agli anticorpi monoclonali, sarebbero solo “una possibilità terapeutiche tutta da provare”. Insomma, il loro studio non dice quello che il prof. Burioni gli avrebbe voluto far dire. Ma ecco le loro parole. “Il plasma iperimmune si conferma una terapia che funziona nel nostro lavoro, ci sono effetti collaterali previsti e sovrapponibili a quelli di qualsiasi trasfusione di un prodotto ematico”, ci dice al telefono il prof. Perotti. “Tra le possibili, eventuali applicazioni future c’è da tenere in considerazione anche l’estrazione degli anticorpi monoclonali che sono un’altra possibilità terapeutica tutta da provare. La validità della terapia col plasma iperimmune è confermata da riduzione della mortalità dal 15 al 6%, aumento della capacità respiratoria e riduzione degli indici infiammatori. Il messaggio che ha diffuso il professor Burioni è strumentalizzato”. “È previsto già un comunicato stampa per rispondere a Burioni. Le 4 reazioni avverse su 46 sono classificate come probabilmente collegati al plasma iperimmune perché questi pazienti stavano facendo anche altri trattamenti. Solo due hanno richiesto poi trattamento, le altre sono regredite da sole”, ci dice il prof. Franchini. Perché allora il prof. Burioni sostiene che questa terapia che non è sicura? “Il nostro è un progetto pilota mondiale, il primo del mondo occidentale. Non ci sono più dubbi sulla sicurezza: si parla di nulla. Ogni esperto dovrebbe restare nel suo campo e parlare di quello che sa. Sulla sicurezza ematologica io ho voce in capitolo”. E se si trovasse davanti il prof. Burioni al bar che le dice quanto ha scritto su Facebook, cosa risponderebbe? “‘Lei è un grande clinico. Lasci le cose tecniche di medicina trasfusionale ai trasfusionisti. È una questione di competenze. Bisogna che ognuno parli delle cose di cui è competente’. In questo paese siamo diventati in generale tutti tuttologi, tutti esperti di tutto il coronavirus. Con tifosi per l’una e l’altra terapia. Il nostro studio conferma l’assoluta sicurezza della terapia con il plasma iperimmune. Non bisogna leggere solo l’abstract, bisogna leggersi tutti i dati e tutto l’articolo. Il professor Burioni ha letto solo l’abstract, il riassunto dello studio e ha capito male per quello”.
Il prof. Burioni ci chiama “somari”. Ecco cosa dicono i suoi colleghi: somari anche loro? Le Iene News il 29 luglio 2020. Il virologo commenta su Facebook il nostro articolo di ieri “Burioni attacca Le Iene citando uno studio sul plasma iperimmune. Ma chi l'ha scritto lo smentisce”. E ci chiama “somari”. Direbbe la stessa cosa a chi, come l’ematologo di Mantova Massimo Franchini che sentite parlare con noi qui sopra, dice che Burioni ha interpretato male il suo studio, usato poi per attaccarci? Il prof. Roberto Burioni questa volta sceglie i commenti sulla nostra pagina Facebook per risponderci dopo l’articolo di ieri: “Burioni attacca Le Iene citando uno studio sul plasma iperimmune. Ma chi l'ha scritto lo smentisce”. Sono somari anche i suoi colleghi che quello studio l’hanno fatto e scritto e che sostengono che il loro lavoro dice il contrario di quanto sostiene lui? Ma andiamo con ordine. Il virologo ci aveva attaccato ieri citando lo studio “Riduzione della mortalità in 46 pazienti gravi per Covid-19 trattati con il plasma iperimmune” che dal suo punto di vista evidenzierebbe alcune criticità di questa terapia e che il suo uso per i malati di Covid “non sia così sicuro come alcuni pensano”. Lo stesso articolo avrebbe sostenuto l’importanza della produzione di anticorpi monoclonali. Su questi due punti abbiamo avuto un dibattito con il virologo, sul quale abbiamo sollevato anche il dubbio che possa essere in conflitto di interessi quando parla in tv. E su quest’ultimo punto lo abbiamo più volte invitato a un confronto pubblico (qui il nostro servizio del 23 giugno in onda nell’ultima puntata). Nel caso dell’articolo di ieri la questione non era tanto questa. Quanto piuttosto la sua interpretazione dello studio scientifico usato per attaccare di nuovo Le Iene. La sua interpretazione dello studio sembra sbagliata. Lo studio non dice che la terapia con il plasma iperimmune non è sicura. Al contrario ne conferma la validità. Quanto agli anticorpi monoclonali, sarebbero solo per gli autori “una possibilità terapeutica tutta da provare”. Insomma, lo studio non dice quello che il prof. Burioni gli avrebbe voluto far dire. Anzi. E a sostenerlo non siamo noi ma chi quello studio l’ha scritto ed effettuato. Come ci hanno raccontato al telefono i principali firmatari: Cesare Perotti, direttore del Servizio immunoematologia e medicina trasfusionale dell’ospedale San Matteo di Pavia, e Massimo Franchini, direttore del Servizio immunoematologia e medicina trasfusionale dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova (sopra potete ascoltare alcune delle cose che ci ha detto Franchini e qui trovate tutto l’articolo completo). Commentando sulla nostra pagina Facebook il post con questa notizia, il prof. Burioni scrive: “Io ho riportato le parole testuali contenute nell’articolo, così come i numeri sui quali c’è poco da discutere, arrampicatevi sugli specchi quanto volete ma una grave complicanza polmonare dovuta alla trasfusione di plasma (TRALI) su 46 pazienti l’hanno descritta gli autori dello studio (tra i quali De Donno) non io. L’articolo possono leggerlo tutti al link allegato. Quanto al resto, non sono io a dovermi discolpare dalle vostre accuse di conflitto di interessi, ma sarete voi a dovere provare in tribunale che sono vere. E lì cascherà l’asino, o meglio cascheranno i somari.” Il prof. Burioni ci dà dei somari? Ripetiamo: cosa vuol dire allora per esempio al suo collega, l’ematologo Massimo Franchini di Pavia di cui sopra potete sentire alcune delle cose che ci ha detto al telefono? E cioè, tra le tante cose appunto, che “Le 4 reazioni avverse su 46 sono classificate come probabilmente collegate al plasma iperimmune perché questi pazienti stavano facendo anche altri trattamenti. Solo due hanno richiesto poi trattamento, le altre sono regredite da sole. Non ci sono più dubbi sulla sicurezza. Ogni esperto dovrebbe restare nel suo campo e parlare di quello che sa. Sulla sicurezza ematologica io ho voce in capitolo. A Burioni direi: ‘Lei è un grande clinico. Lasci le cose tecniche di medicina trasfusionale ai trasfusionisti. È una questione di competenze. Bisogna che ognuno parli delle cose di cui è competente’. Non bisogna leggere solo l’abstract, bisogna leggersi tutti i dati e tutto l’articolo. Il professor Burioni ha letto solo l’abstract, il riassunto dello studio e ha capito male per quello”. A proposito, per quanto riguarda il presunto conflitto di interessi, ribadiamo: Le Iene non dicono bugie e non stravolgono i fatti, come abbiamo già scritto e detto: la verità è facile da dire e rende liberi. Rinnoviamo allora caldamente il nostro invito al prof. Burioni: ci sembra molto più costruttivo e utile per la collettività un sereno confronto su un tema di indubbia attualità e rilevanza sociale come quello che stiamo affrontando piuttosto che rinviarlo alle aule del tribunale come minacciato e dove comunque, se del caso, faremo valere tutte le nostre ragioni.
Burioni lascia la tv: “Le consulenze? Un professionista va pagato”. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2020. “Torno alla mia vera aula, quella universitaria e starò in silenzio stampa almeno fino all’autunno. Ho detto quello che dovevo. Ora per un po’ non andrò in tv e in radio e non sarò sugli altri media. Piuttosto vorrei scrivere un testo universitario, dedicarmi ai miei studenti: mi sono mancati”. Roberto Burioni, 57 anni, medico, ordinario di Microbiologia e Virologia all’Università "Vita-Salute San Raffaele" di Milano, lo ha detto al Corriere della Sera. Precisando sulle sue comparse in tv: “Io non sono un presenzialista! E’ soltanto una bufala, vado in televisione meno di altri, ma ora stacco la spina”. Nell’intervista al Corriere della Sera, Burioni replica alle polemiche relative a un articolo de L’Espresso che ricostruiva le consulenze del virologo. “In generale in questi anni mi hanno ferito più gli attacchi di quelli che la pensano come me che quelli dei complottisti. Sulle consulenze dico una cosa semplice: chi dovrebbe aiutare la ripartenza di un Paese se non un esperto di queste questioni? Se la Ferrari mi chiede un aiuto, dovrei dire di no? Io ritengo che sia un dovere dare una mano. E un professionista va pagato, perché altrimenti si tratta di sfruttamento. Mi hanno accusato di speculare sulla pandemia persino quando è uscito il mio ultimo libro, Virus, anche se tutti sapevano che i proventi sarebbero andati alla ricerca”. Qualche sassolino anche contro una certa politica che prima della pandemia criticava i vaccini: “Oggi – spiega Burioni – la politica ci chiede certezze ma quando, appena qualche mese fa, dicevamo che i vaccini sono indispensabili, una certa politica ci ha sbeffeggiato e ha strizzato l’occhio ai complottisti”.
Roberta Scorranese per il ''Corriere della Sera'' l'8 giugno 2020. Professor Burioni, ma se ne va proprio adesso?
«Torno alla mia vera aula, quella universitaria e starò in silenzio stampa almeno fino all'autunno. Ho detto quello che dovevo. Ora per un po' non andrò in tv e in radio e non sarò sugli altri media. Piuttosto vorrei scrivere un testo universitario, dedicarmi ai miei studenti: mi sono mancati». Roberto Burioni, 57 anni, medico, è ordinario di Microbiologia e Virologia all'Università «Vita-Salute San Raffaele» di Milano, oltre ad essere una delle voci più ascoltate di questa pandemia. Ascoltate in tutti i sensi: c'è chi lo osanna e chi lo detesta.
Troppa televisione?
«Ma io non sono un presenzialista!»
Vogliamo le prove.
«Eccole, il monitoraggio Agcom: nel periodo più buio, dal primo marzo al 30 aprile, non sono entrato nemmeno nei primi dieci più presenti nel dibattito pubblico».
In effetti, subito dopo Conte ci sono Galli e Pregliasco. Ma allora perché gli altri medici non hanno le orde di «haters» che ha lei in rete?
«Ah, non lo so. La mia linea è stata chiara sin dall'inizio, dal 2016, quando ho cominciato a espormi sui vaccini».
Sì, all'inizio lei si confrontò con Red Ronnie e Brigliadori.
«Poi però decisi: non mi confronto mai pubblicamente con persone che non sono qualificate a parlare della mia materia».
Forse ciò è stato visto come una forma di arroganza?
«Non me ne importa. Io ho fatto quello che ritenevo giusto: sin dall'8 gennaio ho cominciato a preoccuparmi per quelle "strane polmoniti" che si vedevano in Cina e ho preso a studiare le carte mediche».
Eppure in rete gira ancora il meme di lei che dice: «In Italia il virus non circola».
«Ecco, questo non me lo spiego: l'ho detto in un momento in cui non c'era alcuna evidenza, come se ora lei mi chiedesse se in Italia circola la malaria. Dovrei rispondere che circola? Però nessuno va a prendere le frasi che ho rilasciato il 22 gennaio, quando ho detto: "Le autorità europee hanno affermato che il rischio che il virus arrivi in Europa, e in particolare in Italia, è minimo. Io non sono per niente d'accordo con loro, ma spero vivamente di sbagliarmi". Che dire? In Italia ti perdonano tutto, ma non la popolarità».
La nostalgia degli studenti è l'unico motivo per cui lei lascia la tv?
«Lo faccio anche perché ho capito molte cose in questi mesi. Un'aula televisiva come quella che mi ha offerto Fazio è stata una palestra importante e, sono onesto, gratificante. Ma il linguaggio e i tempi della tv non sono quelli della scienza». I rischi della popolarità. «Si viene travisati. Mi hanno attribuito di tutto. Ora che la situazione epidemiologica italiana sta migliorando, faccio un passo indietro». Nessun sassolino da togliersi? Non ci crediamo.
«Oggi la politica ci chiede certezze ma quando, appena qualche mese fa, dicevamo che i vaccini sono indispensabili, una certa politica ci ha sbeffeggiato e ha strizzato l'occhio ai complottisti». Se lo aspettava un attacco così da parte dell'«Espresso», che ha fatto i conti delle sue consulenze alle aziende?
«Onestamente no. In generale in questi anni mi hanno ferito più gli attacchi di quelli che la pensano come me che quelli dei complottisti. Sulle consulenze dico una cosa semplice: chi dovrebbe aiutare la ripartenza di un Paese se non un esperto di queste questioni? Se la Ferrari mi chiede un aiuto, dovrei dire di no? Io ritengo che sia un dovere dare una mano. E un professionista va pagato, perché altrimenti si tratta di sfruttamento. Mi hanno accusato di speculare sulla pandemia persino quando è uscito il mio ultimo libro, Virus , anche se tutti sapevano che i proventi sarebbero andati alla ricerca».
Burioni, ma «ritirandosi» lei non rischia di lasciare il campo ai fabbricanti di fake news in un momento delicato come questo?
«L'Italia ha fatto un sacrificio enorme. Senza il lockdown ora staremmo contando i morti per le strade. Gli italiani secondo me hanno capito da che parte stare».
Roberto Burioni, è polemica per le consulenze d'oro: ecco quanto è stato pagato il virologo per le indicazioni anti-Covid. Libero Quotidiano il 06 giugno 2020. Il virologo Roberto Burioni pagato a peso d'oro. A spulciare nelle sue consulenze retribuite è stato L'Espresso che ha scoperto pagamenti fino a 200mila euro per le sue indicazioni anti-coronavirus ad aziende come Gucci, Marella, Tim e Snam. Il tutto - si precisa - senza infrangere la legge. Burioni ha infatti concesso consulenze assieme a Lifenet Healthcare, la srl "focalizzata su attività ambulatoriali e ospedaliere", a Tim per 200mila euro e a Snam per 150mila euro. Ma queste non sono state le uniche due aziende interessate: con loro si sono aggiunte anche Aci Sport, Philip Morris e Tecnogym, Pellegrini, Imab Group e il Gruppo Sapio. Insomma, Burioni non ha fatto altro che fare il suo lavoro anche se a L'Espresso questo sembra non andare giù. Per non parlare del fatto che lo stesso Burioni è stato tra i primi a lanciare l'allarme sulla pandemia che stava prendendo piede. Risultato? Anche questo non andava bene e così l'esperto ha preferito mettersi da parte e disintossicarsi per un po' dalla tv.
Coronavirus, le consulenze d'oro di Roberto Burioni (e del suo socio Nicola Bedin). Lifenet ha lanciato un servizio di consulenza rivolto alle aziende insieme al virologo. Contratti fino a 200 mila euro con Tim, Snam, la Marelli, Gucci e altri marchi. Lo scienziato: «Della parte commerciale se ne occupa la srl, io sono solo un loro consulente. Quanto prendo? È riservato». Ferrari ha dato al professore 33 mila euro. Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 04 giugno 2020 su L'Espresso. La Fase 2 della pandemia da Coronavirus, per le aziende italiane, è affare complesso da gestire. Per i fatturati in picchiata e i business ancora boccheggianti, in primis. Ma anche per la gestione della sicurezza sul lavoro di operai e dipendenti e (in caso di ristoranti, bar e negozi) dei clienti. Fabbriche e uffici che stanno riaprendo hanno infatti bisogno per legge di rispettare decine di regole di igiene, direttive sul distanziamento e protocolli di vario tipo. Se non lo fanno rischiano multe salate, nuovi blocchi delle attività e della produzione, e - in caso di contagio - possibili cause civili. Ecco perché, mentre ricercatori in mezzo mondo sono chini sui vetrini a cercare cure e vaccini, altri scienziati da qualche settimana offrono soluzioni per affrontare la riapertura. Organizzando attività di consulenza ad hoc. Obiettivo: vendere servizi anti-Covid a imprese e gruppi industriali interessati. Leggendo le cronache, tra le varie iniziative spicca il progetto chiamato “Back on track”. «Un servizio di consulenza», si legge in una brochure informativa spedita a potenziali clienti, «realizzato da Lifenet Healthcare e dal professor Roberto Burioni». Il virologo del San Raffaele di Milano è ospite fisso di programmi tv, e non ha bisogno di presentazioni. Meno conosciuta è la Lifenet: una srl «focalizzata su attività ambulatoriali e ospedaliere» fondata nel 2018 da Nicola Bedin. Un brillante quarantenne con relazioni importanti che è stato per sette anni amministratore delegato proprio del San Raffaele, e che pochi giorni fa è stato designato a sorpresa come nuovo presidente di Snam.
Bedin e Burioni, partnership nata con l’arrivo del Covid 19, propongono da qualche settimana alle aziende italiane un pacchetto di «indicazioni e linee guida per riprendere l’attività aziendale in sicurezza rispetto al coronavirus». Gli affari di Lifenet (controllata da Bedin attraverso un’altra società, la Invin srl, di cui possiede il 70 per cento delle quote) vanno a gonfie vele: nelle ultime settimane il gruppo ha firmato contratti da centinaia di migliaia di euro con aziende e marchi top. Le tariffe di “Back on track” variano a seconda del servizio e del consulente scientifico prescelto dal cliente finale (oltre a Burioni, Bedin propone ai clienti altri virologi «ed esperti» un po’ meno gettonati), ma l’entità dei contratti di Lifenet Healthcare è riservata. L’Espresso ha però scoperto qualche cifra significativa: Tim ha firmato con Lifenet un contratto da circa 200 mila euro, mentre quello con Snam, il nostro colosso pubblico del gas, può arrivare a massimali pari a 150 mila euro. Se dentro Snam qualcuno ipotizza un possibile conflitto di interessi (Bedin da consulente diventerà tra pochi giorni presidente della società), Lifenet ha firmato un contratto dai valori analoghi anche con la Marelli, la multinazionale specializzata in prodotti e sistemi per l’industria automobilistica. E per “riaprire in sicurezza” pure Gucci ha voluto la collaborazione della srl e di Burioni. Contattato più volte, l’ufficio stampa del marchio dell’alta moda ha preferito non confermare il valore del loro accordo. Anche Ferrari ha bussato alla porta degli esperti in rischio biologico per ottenere consigli su come distanziare gli operai nelle fabbriche di Maranello, ma il Cavallino rampante (la cui proprietà fa capo anche a Exor) avrebbe ottenuto da Lifenet una collaborazione del tutto gratuita. Non da Burioni, che, come risulta all’Espresso, dalla Ferrari ha ricevuto per il lavoro un cachet da 33 mila euro lordi. Leggendo online i comunicati stampa delle aziende che annunciano la collaborazione con Lifenet e studiando lo stesso sito del gruppo, è evidente che in tempi di coronavirus i clienti non mancano: oltre ai brand già citati, si sono affidati a “Back on track” Vibram e Aci Sport, Philip Morris e Tecnogym, passando per la Pellegrini («ma a noi hanno chiesto circa 10 mila euro») fino alla Imab Group e al Gruppo Sapio. Facendo i conti, grazie alle consulenze sul Sars-Cov 2 in pochi mesi il fatturato della srl di Bedin potrebbe essere aumentato di cifre considerevoli. Superando di slancio il fatturato dell’ultimo bilancio depositato alla Camera di Commercio a fine 2018, dove i profitti annui risultano essere di poco superiori a 400 mila euro. Ma in cosa consiste il servizio di consulenza della coppia Bedin-Burioni, e come si spartiscono i guadagni? Le slide destinate ai possibili acquirenti spiegano che “Back on track” risponde all’esigenza delle imprese italiane «di identificare le migliori linee guida per rafforzare la sicurezza dei propri dipendenti, avendo riguardo al rischio Covid-19, anche alla luce degli obblighi del datore di lavoro». Il servizio a pagamento garantisce una protezione a vari rischi potenziali, e un «valore aggiunto» costituito da strategie di prevenzione, da «nuove regole per massimizzare l’efficacia del rientro produttivo», e dai suggerimenti per tenere intatta «la reputazione aziendale, che deve essere salvaguardata e promossa con professionalità e competenza». Di fatto, Bedin e i suoi esperti fanno sopralluoghi, piazzano pannelli informativi ed adesivi per segnalare il distanziamento negli uffici e nelle fabbriche, si raccordano con i medici aziendali, propongono formazione per il personale, assistenza psicologica, e la preziosa «validazione scientifica». In realtà molte grandi aziende avrebbero già le capacità interne per riorganizzarsi bene per la Fase 2. Di certo i contratti con Bedin e il celebre Burioni funzionano anche come marketing. Abbiamo contattato sia la Lifenet sia il virologo per avere conferma o smentita dell’entità dei vari contratti, e per sapere come vengono divisi i compensi tra la srl e gli esperti scientifici che fanno le consulenze. Fonti interne all’azienda di Bedin ci hanno detto che delle cifre dei contratti e dei clienti loro «non parlano, essendo informazioni riservate», specificando poi che gli accordi economici anti-Covid variano a seconda «della complessità e della grandezza delle sedi» delle aziende. Alla domanda se i ricavi di “Back on track” vengano divisi a metà tra Lifenet e i vari esperti, Burioni su tutti, affermano che «su questo non facciamo outing». A fine telefonata aggiungono che in realtà «le consulenze scientifiche che fa il professor Burioni non sono legate a noi, sono svincolate. Lui fa consulenze per conto suo. È uno dei professionisti con cui ci troviamo a lavorare... ma in parallelo». Come si spiegano dunque le brochure di “Back on track” dove le foto e i curriculum di Bedin e Burioni sono affiancati, e in cui si legge che si tratta di «un servizio di consulenza realizzato con Lifenet e dal prof. Roberto Burioni»? Il virologo all’Espresso chiarisce: «Della parte commerciale con le varie aziende se ne occupa solo Lifenet. Io sono solo un loro consulente. Quindi io non conosco l’importo del contratto con la Tim o altri gruppi. Io ho firmato un contratto di consulenza direttamente con Lifenet». Altro che «in parallelo», dunque, come sostengono da Lifenet. Burioni spiega che in qualche caso fattura direttamente con le aziende, come nel caso della Ferrari o di Gucci. Ma quanto prende da Bedin resta un mistero. «Mi farebbe piacere dare all’Espresso tutti i dettagli, ma i contratti che ho firmato mi impongono riservatezza. Fermo restando che non ho nulla da nascondere, perché pago le tasse fino all’ultimo euro. Quello che prendo sono comunque cifre normalissime, le assicuro». Sia Lifenet che il professore ospite fisso di Fabio Fazio forniscono a chi non se lo può permettere (come alcune Ong, per esempio) pareri del tutto gratuiti. Un lavoro pro bono che, per gli scienziati che lavorano a tempo pieno nella sanità pubblica (il San Raffaele è invece ateneo privato), non è una scelta, ma spesso un obbligo. Al mercato delle consulenze si trovano virologi e luminari di ogni tipo, ma Massimo Galli, celebre infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano, è certamente uno dei più richiesti. Risulta a L'Espresso che un colosso come la Pirelli abbia chiesto ad aprile proprio a lui una collaborazione per la sicurezza aziendale in merito al Covid, e che sia stata offerta a un prezzo assai più basso di quelli proposti da “Back on track”. Poco meno di 20 mila euro. «Confermo. Ma dica che se la cosa va in porto e il dipartimento approvasse quel contratto, prenderò una parte minima del totale. Il resto della somma andrà all'università che la destinerà alla ricerca scientifica» ragiona l'immunologo «Potrei guadagnare molto facendo le cosiddette “prestazioni occasionali”, è vero. Però secondo lei io in questo momento con il clima che c'è mi metto a fare attività economica sul Covid? Anche lo studio per Atm, l'azienda dei trasporti milanese, l'ho fatto gratuitamente».
Coronavirus, Paolo Becchi su Ilaria Capua: "La sua fee per un collegamento di 10 minuti? 2mila euro più Iva". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Un "tariffario" nei giorni del coronavirus. Sia chiaro: nulla di illegale né di scandaloso. Semplicemente un dato di fatto, sul quale Paolo Becchi spende un tweet. Nel dettaglio, il filosofo parla di Ilaria Capua, una delle "superstar televisive" in tempo di pandemia. "Il virus per alcuni si sta rivelando un buon affare - premette Becchi -. Ilaria Capua, ex deputata di Scelta Civica, ha la sua fee, come si chiama nell'ambiente, d'ordinanza. Per un contributo di 10 minuti su Skype o dallo studio televisivo dell'università siamo attorno ai 2mila euro più Iva", rivela Paolo Becchi. Un discreto gruzzoletto, insomma.
Che tempo che fa, Roberto Burioni e l'esposto del Codacons: "Quanto lo paghiamo per essere sempre in tv?" Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Roberto Burioni è da mesi un ospite fisso della domenica di Rai2 a Che tempo che fa. Il Codacons ha presentato un esposto alla Corte dei conti per capire quanto costa ai cittadini italiani la presenza del virologo marchigiano alla trasmissione di Fabio Fazio, che è già oggetto di indagini da parte della magistratura contabile per i suoi costi. Non che ci sia nulla di male nel percepire un compenso, soprattutto per il ruolo informativo svolto da Burioni in questi mesi sull’epidemia da coronavirus, ma allo stesso tempo il virologo riceve numerose critiche per quello che viene ritenuto un “eccessivo protagonismo mediatico”. L’esposto del Codacons è partito dall’inchiesta di Panorama, che ha svelato un business che vedremo coinvolto Burioni e altri suoi colleghi, i quali chiederebbero lauti compensi per le partecipazioni alle varie trasmissioni televisive. In particolare quella di Fazio è finanziata dai cittadini attraverso il canone Rai: “Gli utenti - sostiene il Codacons - hanno tutto il diritto di sapere quanto la rete versa a Burioni per la sua presenza. Per tale motivo presentiamo un esposto alla Corte dei conti, affinché avvii una indagine sulla vicenda e verifichi la congruità dei compensi riconosciuti da Fazio a Burioni, nell’ottica di una totale trasparenza ai fini di possibili danni sul fronte erariale”.
Francesca Ronchin per ''Panorama'' il 13 maggio 2020. Come mai la presenza del Prof. Roberto Burioni sulle reti Rai è assidua e sistematica? Quali costi deve sostenere il Servizio pubblico a fronte di affermazioni talvolta persino contraddittorie? Dopo centinaia di segnalazioni da parte di cittadini, e in particolare medici e personale sanitario, il Codacons ha deciso di preparare un esposto e girare le domande direttamente a chi potrebbe rispondere: la Rai. Secondo Francesco di Lieto, vicepresidente del Coordinamento per la tutela dei diritti dei consumatori, l’ormai settimanale ospitata di Burioni al programma di Fabio Fazio Che tempo che fa su Rai 2 lederebbe il diritto del cittadino a un’informazione plurale, trasparente e scevra da ogni tipo di condizionamento, come ci si aspetterebbe dal Servizio pubblico. A destare preoccupazione non vi sarebbe solo l’unicità del contributo in assenza di contraddittorio, ma la presenza di un possibile conflitto d’interessi, dato che Burioni ha rapporti di lavoro con multinazionali di farmaci e vaccini. Il professore infatti è ideatore della Pomona ricerca Srl che si occupa della ricerca nel campo degli anticorpi monoclonali e dello sviluppo di vaccini innovativi «epitopo-based» e che ha collaborato a lungo con l’Istituto superiore di Sanità, l’Anrs (ente di ricerca francese) e alcune case farmaceutiche produttrici di vaccini come GlaxoSmithKline e Sanofi Pasteur. A nome di Burioni sono stati depositati almeno 30 brevetti internazionali, cosa di cui il professore non fa alcun mistero e che anzi cita con comprensibile orgoglio sul suo sito Medical Facts. La cosa del resto è del tutto lecita e legittima ma secondo il Codacons può inficiare la genuinità delle affermazioni e tramutare l’assidua esposizione mediatica in vera e propria pubblicità a vantaggio dei molteplici brevetti depositati. Sul tema, Codacons ha sollecitato da tempo anche Anac e Ordine dei medici senza avere mai risposta. Questa volta però ha chiesto anche ad Agcom di aprire un’istruttoria e alza il tiro chiedendo trasparenza su compensi e rimborsi di cui a oggi hanno contezza solo Rai e Officina Srl, la società di cui Fazio è socio al 50 per cento, insieme a Magnolia e che a ogni puntata corrisponderebbe a Burioni un gettone di presenza ormai strutturato. Niente di troppo strano, con gli ospiti fissi funziona così un po’ ovunque e per i virologi più stellati, la «fee», come si chiama nell’ambiente, è prassi consolidata così come l’abitudine di affidare agende e trattative a un agente. Burioni per esempio si è rivolto a Elastica, società di comunicazione di Bologna, e quando chiediamo informazioni fingendo di chiamare da una produzione privata, ti rispondono che le richieste di Burioni variano da caso a caso. «Mi dica il budget» premette l’agente. Quando spieghiamo che è limitato, l’agente chiarisce che il professore «farà le sue valutazioni. Potrebbe decidere di partecipare gratuitamente oppure di chiedere qualcosa in più perché è talmente impegnato che il compenso economico può essere una ragione per fare le cose». Anche Ilaria Capua, appuntamento fisso sia sulla tv di Stato che sulle reti private, ha la sua «fee» d’ordinanza. «Per un contributo di 10 minuti su Skype o dallo studio televisivo dell’università» ci spiega l’agente «siamo attorno ai 2 mila euro più Iva. Non andiamo a minutaggio ma se si chiede una presenza di 10 minuti non può essere di un’ora, altrimenti la fee sale». Tutto chiaro. Un po’ meno quando ci sono in ballo soldi pubblici. Sul tema ha chiesto chiarimenti alla Rai anche il consigliere Riccardo Laganà. Bisognerà vedere ora se a fronte di un’emergenza sanitaria dove la correttezza dell’informazione è di primaria importanza per la salute, la tv pubblica riterrà la trasparenza sul tema doverosa o se invece ricorrerà a una risposta piuttosto nota a Viale Mazzini: i budget di produzione sono coperti da segreto industriale.
Gli opinionisti del virus la nuova casta in tv. Angela Rizzica l'11 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Abituati ai salotti televisivi, quando il Coronavirus si è seduto sul trono non ci siamo stupiti più di tanto. Quello che, forse, ha destato più sorpresa è stato assistere all’ascesa di una nuova classe di opinionisti in TV: i virologi. Insomma, stanchi di Tina Cipollari e Gianni Sperti, sono arrivati nelle nostre case Roberto Burioni e Maria Rita Gismondo, tra gli altri, a commentare l’evoluzione del virus e i suoi danni. Il problema, se così si può dire, è la perenne contraddizione della nuova classe dirigente delle “ospitate TV” e dei media in generale la quale, sin dagli albori, ha fornito informazioni contrastanti alla popolazione. Se questo fenomeno, nell’ambito degli opinionisti dei reality, è trascurabile se non, addirittura, fisiologico trattandosi di intrattenimento, diventa motivo di scompiglio quando si tratta di salute. Partiamo dagli albori: il virus arriva o no in Italia? Lo scorso 2 febbraio, alza la mano Roberto Burioni dagli studi televisivi di “Che tempo che fa” rassicurando la popolazione con un “Rischio 0” di diffusione. Poi, purtroppo come ben noto, il virus arriva eccome: le stime dei contagi cominciano a salire vorticosamente e la paura segue la stessa curva. Il virologo più famoso d’Italia inizia a ritrattare e, a fine febbraio, arriva a paragonare la mortalità potenziale del Coronavirus a quella dell’influenza spagnola. Subentra Maria Rita Gismondo, responsabile della Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze del noto Sacco di Milano che, dal proprio profilo Facebook, definisce invece una follia il fatto di scambiare un’influenza per una pandemia letale. Ne nasce un conflitto acceso tra i due virologi sui social e la “patata bollente” viene passata all’illustre scienziata Ilaria Capua la quale, intervistata a “In 1/2 ora” da Lucia Annunziata, invita alla calma e soprattutto alla cautela in quanto a pronostici, prevedendo una rapida diffusione del virus accompagnato, però, a un suo graduale indebolimento. Il virus, come previsto, comincia a mietere vittime e, con esso, iniziano a sorgere dubbi in merito all’utilizzo dei presidi sanitari per arginare il contagio: il 25 febbraio Walter Ricciardi, membro dell’Oms e consulente del ministro Speranza, nel corso della conferenza stampa con il commissario Borrelli alla protezione Civile, afferma che le mascherine, per la persona sana, non servono a niente ma devono essere fornite alla persona malata e al personale sanitario. Sempliciter: un loro utilizzo indiscriminato è inutile e controproducente. Risponde Burioni il 7 aprile successivo il quale si dice addirittura deluso dal documento dell’Oms sull’uso del dispositivo di protezione individuale poiché non ne consiglia l’utilizzo a tutti in pubblico. Insomma, le mascherine per Burioni sono essenziali e tutti devono munirsene; secondo Ricciardi no e devono indossarle solo il personale sanitario e i malati. Altro giro, altra corsa: servono o no i tamponi a tutta la popolazione? Alla fine di marzo Massimo Clementi, direttore di Microbiologia e Virologia dell’ospedale San Raffaele di Milano, afferma l’utilità dei tamponi per individuare i soggetti infetti ma a condizione che gli stessi siano accompagnati dall’isolamento del soggetto infetto e dalla ricerca di tutti i suoi contatti. Quasi contestualmente (24 marzo 2020), arriva il commento di Burioni il quale, sempre dal salotto di “Che tempo che fa”, si dice scettico in merito all’ampliamento della platea sottoposta a tampone in quanto, a prescindere, dovremmo tutti comportarci come se le persone che abbiamo davanti fossero infettive. Altre ancora sono state e, ahimè, saranno le contraddizioni dei virologi italiani soprattutto in questa Fase 2, problematica e pesantemente contestata sin dalle sue prime ore di vita. Come detto, deve però rimanere chiaro il ruolo svolto dagli scienziati: allo stato attuale, sono la nostra risorsa più grande contro il Coronavirus e la ricerca è l’unico vero barlume di speranza. L’invito ai virologi e agli “addetti ai lavori tutti” è quindi quello di lasciare agli opinionisti della TV il loro faceto compito per dedicarsi, invece, alla scoperta di una cura definitiva o del tanto agognato vaccino. Dai salotti della TV non si fa ricerca e nemmeno dalle pagine Facebook; nei laboratori, al contrario, si possono salvare vite.
I libri dei virologi sul coronavirus, che noia. Una saggistica di basso livello che non merita la sufficienza. Carlo Franza il 9 maggio 2020 su Il Giornale. Fino a poco tempo fa nessuno, o quasi, conosceva la classe dei virologi. E nessuno sapeva che in Italia ce ne fossero talmente tanti che, tra questi, pochi si tuffavano a studiare i virus e le loro famiglie; adesso con l’arrivo della peste del XXI secolo si è verificata una mania inverosimile di interesse con plotoni pronti all’attacco di un mostro invisibile, che tanto invisibile non è, ma ben evidente nei corpi degli oltre trentamila morti che abbiamo avuto in Italia. Una tragedia immane, con tutti i problemi a seguire e che ci avvolgeranno nei prossimi mesi. Ora sappiamo che l’epidemia da coronavirus è stata linfa vitale per i virologi, che hanno invaso i palinsesti televisivi, a tutte le ore, al mattino, a mezzogiorno, a sera, e di notte. E badate bene che c’era chi la raccontava in un modo, chi nell’altro, chi di destra e chi di sinistra, e taluni persino in odor di olezzo con l’Ordine Mondiale della Sanità, i quali si sono via via scontrati all’inverosimile, tutti saputi e tutti presuntuosi quando generalmente i ricercatori dovrebbero essere cauti, ma anche con scontri epici senza risparmio di offese. Mi sono detto, ma questi virologi onnipresenti in TV e impegnati a scrivere libri, quando sono in reparto nei loro ospedali? Fondamentalmente si è visto c e si vede ancora oggi che ognuno la pensa in modo diverso, al punto da arrivare quasi a stufare gli italiani, che avrebbero voluto risposte largamente condivise sul virus. Alessandro Gnocchi su Il Giornale ha scritto: “Il dibattito sul Coronavirus ha lasciato perplessi, a dir poco, gli italiani, sottoposti ogni giorno a previsioni fauste o infauste del virologo (o sedicente tale) di turno. Nel frattempo, il Coronavirus, insensibile alle parole dei luminari, ha fatto quello che doveva fare: si è diffuso in tutto il mondo e sembra intenzionato a svilupparsi, in positivo o in negativo, senza tenere conto, stranamente, delle esternazioni degli studiosi. Potrebbe perfino venire il sospetto che gli esperti, sollecitati dai media, invece di fornire protocolli d’igiene a prova di bomba, si siano lasciati andare a previsioni azzardate, tipo oroscopo, visto che il virus è una novità e la scienza, nonostante il ministro Boccia pretenda risposte definitive, non è purtroppo in grado di fornire verità assolute in poche settimane”. Ora vediamo che i virologi, nonostante le tante ospitate in tv, non sono rimasti con le mani in mano, si sono scoperti scrittori, ma badate bene non con una letteratura scientifica, ma con libri di saggistica che sono andati a riempire il cumulo dei libri “da cassetta”. Quindi oggi vediamo taluni virologi che hanno scritto e altri che stanno scrivendo libri che già affollano gli scaffali. Una saggistica di basso livello che non merita la sufficienza. Il primo è stato Roberto Burioni, che ad inizio marzo ha pubblicato da Rizzoli con Luigi Lopalco “Virus”; così Burioni: “In giro c’è molta paura, e io credo che il miglior modo per tranquillizzare un bambino che pensa che in una stanza buia ci sia un mostro è semplicemente accendere la luce. È quello che io e Pier Luigi Lopalco abbiamo cercato di fare scrivendo questo libro”. Già questa frase dice nulla. A seguire Maria Rita Gismondo che aveva annunciato il suo “Coronavirus, fake news vere e verità false”, ma il libro sembra sparito nel nulla, come il post che lo lanciava. Ilaria Capua è invece pronta con “L’era del contagio” (Mondadori ), che sarà basato sul rapporto con l’ambiente e sullo studio approfondito dei dati. La nave di Teseo presenta “I vaccini fanno bene” a cura di Guido Forni, Alberto Mantovani, Lorenzo Moretta e Giovanni Rezza; il libro rispecchia un documento ufficiale dell’Accademia Nazionale dei Lincei preparato dai curatori e spiega che “i vaccini costituiscono un’assicurazione sulla vita e una cintura di sicurezza per l’umanità intera. COVID-19 lo sta ricordando a tutti in modo drammatico”( il solo che merita la sufficienza). Mancano ancora in tanti all’appello, tra cui Walter Ricciardi, Tarro, Brusaferro, Fabrizio Pregliasco, Galli e Bassetti e altri ancora, tutti volti divenuti noti negli ultimi mesi grazie alla tv e che ci hanno ammorbato gli occhi, unitamente anche a quello stereotipo insincero dell’ “ andrà tutto bene” che ci ha stordito. “Non disperate – è stato il commento di Alessandro Gnocchi ( Il Giornale) – è soltanto maggio e le librerie hanno appena riaperto”. A questo punto è presto facile immaginare che nelle prossime settimane ci sarà un’abbondante letteratura sul coronavirus, uscita in tempo reale, ma scritta con leggerezza, totale insufficienza, poco o nulla comunicativa. D’altronde coloro che fino ad oggi non hanno capito nulla del virus, possono adesso spiegarci cos’è? Carlo Franza
Alessandro Gnocchi per "Il Giornale" il 9 maggio 2020. «In Italia il rischio pandemia di Coronavirus è pari a zero». «La malattia arriverà, ma sarà poco più di un' influenza». «Sarà peggio della Sars».
«Andrà via con l' estate». «Durerà fino alla scoperta del vaccino». «C' è già una cura».
«Ciarlatano. (...) (...) Buffone. Incompetente. Parolaio».
Il dibattito sul Coronavirus ha lasciato perplessi, a dir poco, gli italiani, sottoposti ogni giorno a previsioni fauste o infauste del virologo (o sedicente tale) di turno. Nel frattempo, il Coronavirus, insensibile alle parole dei luminari, ha fatto quello che doveva fare: si è diffuso in tutto il mondo e sembra intenzionato a svilupparsi, in positivo o in negativo, senza tenere conto, stranamente, delle esternazioni degli studiosi. Potrebbe perfino venire il sospetto che gli esperti, sollecitati dai media, invece di fornire protocolli d' igiene a prova di bomba, si siano lasciati andare a previsioni azzardate, tipo oroscopo, visto che il virus è una novità e la scienza, nonostante il ministro Boccia pretenda risposte definitive, non è purtroppo in grado di fornire verità assolute in poche settimane. I virologi comunque si stanno organizzando per la fase due, che consiste nel soddisfare le richieste dell' industria editoriale. Il recordman della tempestività è stato Vincenzo Burioni che, assieme a Pier Luigi Lopalco, non citato in copertina, ha pubblicato per Rizzoli già ai primi di marzo il saggio Virus. Sembrava essere stata altrettanto rapida Maria Rita Gismondo, avversaria mediatica di Burioni stesso. Aveva annunciato di aver ultimato Coronavirus, fake news vere e verità false, ma il libro sembra sparito nel nulla, come il post che lo lanciava. Ilaria Capua è ai blocchi di partenza con il suo L' era del contagio (Mondadori), basato «su un rapporto più rispettoso nei confronti dell' ambiente e sullo studio approfondito dei dati». Segrate punta molto anche su Il fuoco interiore di Alberto Mantovani, lo scienziato italiano con il più alto punteggio internazionale. Non è legato direttamente al virus, ma trattando del sistema immunitario e dell' origine delle malattie, rientra nel gruppone almeno dal punto di vista del marketing. La nave di Teseo presenta I vaccini fanno bene a cura di Guido Forni, Alberto Mantovani, Lorenzo Moretta e Giovanni Rezza. Il libro rispecchia un documento ufficiale dell' Accademia Nazionale dei Lincei preparato dai curatori e spiega che «i vaccini costituiscono un' assicurazione sulla vita e una cintura di sicurezza per l' umanità intera. COVID-19 lo sta ricordando a tutti in modo drammatico». HarperCollins rilancia La miglior difesa. La nuova scienza del sistema immunitario (2019) opera però di un reporter del New York Times, il premio Pulitzer Matt Richtel. Marsilio sta traducendo il saggio Le regole del contagio di Adam Kucharski, epidemiologo e matematico inglese. Parla dei modelli matematici della pandemia, «sia essa relativa a una malattia, a una moda, a un comportamento sociale». Longanesi ha già pubblicato in ebook, ma presto arriva il cartaceo, Conosci il tuo nemico: Cos' è, da dove viene e cosa ci insegna il coronavirus di Valerio Rossi Albertini. Mancano ancora tanti all' appello: Ricciardi, Tarro, Brusaferro, Galli, Bassetti... Non disperate, è soltanto maggio e le librerie hanno appena riaperto. Segnaliamo anche l' uscita di un saggio di Alberto Frachelli e Michele Mengoli, che potrebbe rivelarsi utile: L' arte della supercazzola. Lessico essenziale dell' Italia che non ci meritiamo, dal 1861 al Covid-19. Include alcuni capitoli tristemente esilaranti sulle supercazzole da virus («andrà tutto bene», come no?). Uscirà per Baldini+Castoldi e fin dal titolo potrebbe instillare il sospetto che, con i dovuti distinguo, molti di coloro che (forse inevitabilmente) fino a qui non hanno capito niente del virus, ora ci vogliano spiegare cos' è.
Da Brad Pitt a Myrta Merlino: la parabola dei virologi in tv. Il proliferare in video di una nuova stirpe (da qui, qualche problema...). Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 29 aprile 2020. In un Paese in cui tutti sono, ad intermittenza, poeti, santi, navigatori, costituzionalisti, esperti del Mes e, ora, informatissimi virologi; be’, mai avrei pensato di render pubblica la mia ansia nei momenti in cui la tv si riempie di Coronavirus. Cioè sempre. Invece un pò ho cambiato idea: i virologi sono un moderno racconto di Balzac, il ricettacolo d’una varia umanità. L’ho intuito osservando Brad Pitt -in veste satirica all’americano Saturday Night Live- che interpretava il virologo Anthony Fauci, “la voce più autorevole della task force sul Covid della Casa Bianca”. Lì ho capito. Quando Pitt/Fauci dichiarava, massacrando Trump “Il presidente si è preso qualche libertà con le nostre linee guida …”; ecco, lì, ho realizzato che in America stanno messo peggio di noi. Da loro i virologi sono arrivati alla caricatura. Da noi, il rispetto per la scienza e la deferenza verso chi potrebbe illuminarci con raggi di speranza ci impone di ascoltarne la voce oracolare. Troppo oracolare. I virologi sono opinionisti ubiqui, imprimono svolte all’azione di Conte e dei cameramen; e oramai -ha ragione il tanto vituperato Vittorio Sgarbi- stanno più in tv che a far ricerca. Su Facebook si pubblicizza l’album delle figurine Panini dei Virologi (“La raccolta completa”). I bookmakers si divertono a contarne le presenze tv: in una sola settimana Pregliasco ne ha fatte 19 con predilezione per i talk di La7 e lo studio di Lilli Gruber; la Gismondo e la Capua ne hanno registrate 11 (la Capua, più esotica, dagli Usa); Galli è un ologramma che attraversa le reti; Burioni, la voce ufficiale di Fazio, litiga col sedicente candidato Premio Nobel Tarro da Giletti. Quasi sempre i virologi sono autorevoli esperti che si contraddicono reciprocamente e contraddicono se stessi. Quando passano in video ormai mi viene la tachicardia. Ma non ho visto alcun virologo che abbia cazziato il Presidente Conte mentre consentiva un allucinante assembramento per l’inaugurazione del Ponte di Genova. Solo Myrta Merlino, tacciando la cosa come “ridicola, vergognosa, da due mesi parliamo di distanze, non mandiamo i bimbi a scuola, non usciamo di casa e poi dobbiamo assistere a questa follia”, ha ritirato l’inviato. Ma non l’hanno ascoltata. Non ha un master in epidemiologia…
Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 10 marzo 2020. C’erano una volta le sardine. In tv da mattina a sera, il movimento era rappresentato soprattutto dai riccioli e dal sorriso a trentadue denti di Mattia Santori. E’ passato appena un mese, ma sembra un secolo. Perché nel frattempo l’Italia è stata travolta dall’emergenza coronavirus, che ha ridisegnato priorità e scalette dei programmi televisivi. Le nuove star sono infatti i virologi. Non c’è talk che non ne ospiti uno, non c’è conduttore che non chieda loro un parere, ritenuto marchio di garanzia per dare vita a qualsiasi tipo di dibattito. Un valore aggiunto, considerati i tanti esperti dell’ultima ora in circolazione, che però fa i conti con una vera e propria occupazione mediatica. Tanti sono i volti che si sono passati la staffetta, quattro quelli capaci di imporsi, divenendo figure familiari: Fabrizio Pregliasco, Maria Rita Gismondo, Ilaria Capua e Roberto Burioni. Se i primi inviti sul tema coronavirus risalgono già all’inizio dell’anno, l’avvio dell’emergenza va collocato nella giornata di venerdì 21 febbraio, quando nel Paese venne individuato il primo italiano positivo, seguito poco dopo dall’annuncio del primo decesso. Un punto di rottura, coinciso con l’inizio della cosiddetta fase due, nella quale siamo tutt’ora immersi. Da allora fino a domenica 8 marzo sono state ben 45 le apparizioni dei quattro personaggi in questione. Dato addirittura al ribasso, visto che non tiene conto delle partecipazioni a tg e all-news, né delle interviste alle varie radio, che spesso godono di un canale dedicato sul digitale terrestre. A dominare su tutti gli altri è, a sorpresa, Fabrizio Pregliasco. Sono 19 le sue ospitate, con una predilezione per i talk di La7 e lo studio di Lilli Gruber. Il 21 febbraio è stato a Otto e mezzo, il 23 a Non è l’Arena, il 24 a Tutta Salute, Tagadà e Otto e mezzo, il 25 di nuovo a Otto e mezzo, il 26 ad Agorà, Tagadà e Otto e mezzo, il 27 a Otto e mezzo. Trasferta a Povera Patria il 2 marzo, ad Agorà, Tagadà e Sono le Venti il 3, a L’Aria che tira il 4, a Otto e mezzo il 5, a L’Aria che tira il 6, a Otto e mezzo il 7 e da Massimo Giletti l’8 marzo. Staccatissime ma ugualmente onnipresenti pure Maria Rita Gismondo e Ilaria Capua, entrambe a quota 11. La responsabile del reparto di virologia del Sacco ha realizzato una prima tripletta martedì 25 febbraio (Agorà, L’Aria che tira e Porta a porta), per proseguire con Uno Mattina il 26, Zona Rossa e Piazzapulita il 27, Stasera Italia il 2 marzo, L’Aria che tira e Agorà il 4 marzo, Porta a porta il 6 e Non è l’Arena domenica 8. Sguardo di osservazione esterno invece per la Capua, spesso collegata dalla Florida. Il 21 febbraio ha dato la sua versione a L’Aria che tira, ribadendola sabato 22 a Le Parole della settimana e il 23 a Mezz’ora in più e Stasera Italia. Il 24 è stata a Omnibus e Tagadà, il 25 a Zona Rossa e Cartabianca, il 29 allo Speciale del Tg5, il 2 marzo a L’Aria che tira e giovedì 5 a Piazzapulita. A sorpresa, sono appena 4 le apparizioni di Roberto Burioni. Attivissimo sui social e celebre blastatore dei No-Vax, il medico marchigiano è in compenso diventato il ‘braccio destro’ di Fabio Fazio e punto di riferimento di Che tempo che fa, dove si reca ininterrottamente da tre domeniche (23 febbraio, 1 e 8 marzo). Oltre alla trasmissione di Rai 2, Burioni si era concesso un’incursione a Tiki Taka il 24 febbraio. In rampa di lancio e con lo sguardo rivolto al referendum e alle elezioni regionali di primavera, la politica è stata costretta improvvisamente ad uno stop forzato. Non che sia stato un male, tuttavia avremmo preferito motivazioni differenti.
Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 27 aprile 2020. Una delle scoperte di questo tempo di pandemia è stata che gli scienziati sono umani. Li credevamo robot infallibili, privi di emozioni, pure menti calcolanti, che a differenza di noi poveri mortali, così sensibili alla vanità e alle passioni, non aprivano mai bocca se non per profferire verità sperimentali accertate. Ma quando mai. Sono come noi, peggio di noi: ciarlieri, esibizionisti, litigiosi, approssimativi, e soprattutto simpatici o antipatici (più questi che quelli). Di questo devono essersi accorti anche i sondaggisti, così le agenzie Noto e My PR hanno stilato la classifica degli scienziati più "credibili" secondo gli italiani. Ai primi tre posti, con più del 70% dei consensi, ci sono, Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell' ospedale Spallanzani di Roma, seguito da Ilaria Capua, direttrice dell' One Health Center of Excellence dell' Università della Florida, la quale precede l' epidemiologo dell' Istituto superiore di sanità Giovanni Rezza. Dietro seguono Andrea Crisanti, virologo dell' università di Padova, Roberto Burioni, virologo dell' università Vita e Salute del San Raffaele di Milano, e Luigi Lopalco, epidemiologo dell' università di Pisa. Questi, come anche molti degli altri presenti nella classifica completa, sono tutti nomi che abbiamo ascoltato molte volte dai media in questi giorni, giacché, come dicevamo, gli scienziati, lungi dall' immagine ingenua del ricercatore in camice bianco timido e sfuggente, che bada alle sue ricerche e non si occupa del mondo esterno, sono sempre più graditi ospiti di trasmissioni televisive e radio, nonché abili o perfino spregiudicati comunicatori sui social. Non a caso è stata anche diffusa un' altra classifica, che invece elenca gli scienziati più conosciuti dagli italiani, e in questa svetta (ed era facile prevederlo) Roberto Burioni, conosciuto dal 92% del campione, seguito da Massimo Galli e da Ilaria Capua. Quarto, Silvio Brusaferro, presidente dell' Iss (che nella classifica dei "credibili" è invece ottavo). Ma perché fare classifiche del genere? «Una delle dinamiche sociali più importanti che abbiamo rilevato è la domanda di conoscenza e soprattutto di competenza, per cui l' inserimento degli esperti nel palinsesto mediatico degli italiani copre un' esigenza precisa» ha spiegato il sociologo Antonio Noto, tra gli autori del sondaggio. E gli fa eco il suo collega, Giorgio Cattaneo: «Gli esperti hanno scalato in modo accelerato un vuoto mediatico, perché capaci di informare e comunicare trattando più temi, dalla spiegazione del virus alle proiezioni dell' andamento epidemiologico». Il problema, semmai, è che una volta occupato il vuoto mediatico, gli esperti rischiano di prenderci gusto, e di lasciarsi andare a dichiarazioni non sempre sorvegliate pur di non perdere popolarità. Sondare quali siano le figure del mondo scientifico ritenute più credibili dagli italiani è senz' altro interessante, ma non vorremmo che scatenasse, come spesso fanno le classifiche, un' insana competizione. Sono dati che vanno presi con le pinze, e certo il fatto che uno scienziato non sia primo, o addirittura sia ultimo, nella classifica dei "credibili" non vuol dire che sia un cattivo studioso. Ai suoi tempi, Isaac Newton, che era un tipo irascibile, invidioso e litigioso, in una classifica del genere sarebbe finito agli ultimi posti. La scienza è una cosa seria, e queste classifiche (e chi tra gli scienziati dovesse esserne sedotto) sono solo un gioco.
Analisi Social: tra Capua, Burioni e Ricciardi chi è il più influente? Redazione de Il Riformista il 10 Aprile 2020. Il Coronavirus ha chiuso gli italiani in casa e li ha messi uno stato d’ansia nel reperire le informazioni sullo stato di emergenza. Oltre alle comunicazioni ufficiali del Presidente del Consiglio Conte e della Protezione Civile, molte trasmissioni televisive hanno dato appuntamento ai loro spettatori in determinati orari che informano sull’epidemia del secolo. Quando però le tv sono spente e non operative subentra il web. Mai come mai Twitter è salito nell’interesse collettivo per via della possibilità di ricevere direttamente gli aggiornamenti dai testimonial più in voga del momento, soprattutto se sono medici, ed i virologi, gli epidemiologi insieme a tutti gli scienziati sono diventati degli influencer. La sfida principale sul web corre tra Ilaria Capua, Pre-eminent Professor at the University of Florida e 63.000 followers, Roberto Burioni, Professore di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano con 225.000 followers, e Walter Ricciardi, docente di Salute Pubblica e membro italiano dell’Organizzazione Monsiale della sanità con i 35.000 follower. Mentre Ricciardì è presente in molti media per via del suo ruolo istituzionale, Roberto Burioni è invece l’esperto interpellato dalla trasmissione televisiva Che Tempo che Fa di Fabio Fazio mentre Ilaria Capua dispensa consigli dal salotto di Floris nel format Di martedì. Una sfida tra titani che a colpi di tweet e dichiarazioni pubbliche in video entrano non solo nelle case dei cittadini, ma dentro i loro dispositivi tecnologici H24. Analizziamo quanto pesano nell’opinione pubblica nel web su Twitter e nelle ricerche di Google partendo dal 19 gennaio fino al 6 aprile. L’analisi, condotta dal data journalist Livio Varriale, mette complessivamente i dati dei tre registrati negli ultimi tre mesi. Questi hanno pesato complessivamente 240.000 tweets circa. Tantissimi se consideriamo che hanno mobilitato 2 milioni di like 380.000 retweets e 187.000 conversazioni. Questi numeri fanno comprendere che in Italia sono loro i signori dell’informazione medica più accreditata sul COVID19.
USERNAME. Se partiamo dagli utenti singolarmente, ci accorgiamo che Burioni stacca tutti dal punto di vista delle pubblicazioni con più di 1000 tweet ed il 74.7% di copertura, segue Ricciardi con 17.6% che allunga sulla Capua ferma al 7.7% di penetrazione social tanto da non figurare nella top 20 degli utenti più attivi dove sono presenti nella parte alta della classifica @Keynesblog @infoitsalute @kenyaEin @diegorusso626.
MENZIONI. Nel round delle menzioni, Burioni è quello più citato, ma è chiaro il fattore non solo delle pubblicazioni, bensì anche della risonanza che che tempo che fa ha nel mondo social ed infatti sia Burioni che Che Tempo che fa sono sopra Ilaria Capua. Ricciardi mantiene la classifica stando nel mezzo. Un risultato scontato se consideriamo le proporzioni della presenza sui social da parte dei tre. Presenti in cima anche @ProfLopalco @Cartabellotta @GiuseppeConteIT
HASHTAG. Le parole chiave collegate ai protagonisti attuali dello scenario medico italiano sono coronavirus covid19 e guarda caso oltre a Burioni, tra i primi risultati di tendenza, c’è anche Che Tempo che Fa con il suo #CTCF ai piani alti e #chetempochefa a quelli bassi, seguono Ricciardi e Capua sparsi nella classifica dove figura anche l’hashtag #iorestoacasa.
GOOGLE TRENDS. Discorso diverso nei trends di Google dove nessuno, o pochi cerca Ricciardi, mentre Capua e Burioni hanno indici di ricerca elevati che si intrecciano tra di loro. La sfida è aperta nonostante il medico del San Raffaele sia l’avversario da battere, ma quello che conferma la teoria che il rappresentante Pro-Vax non gioca da solo la partita della fama è chiaro nel dato specifico delle ricerche che segue.
TREND REGIONE. Sia lui che Capua figurano vicendevolmente nelle ricerche fatte dagli internauti, ma c’è un dettaglio da non sottovalutare, mentre Burioni fa coppia fissa con Fazio e la sua trasmissione, la Capua viaggia da sola e non figura in nessuna ricerca l’accoppiata con Di Martedì o con Floris, ma la cosa più grave che emerge dai dati è che molti risultati di ricerca fanno ancora riferimento ad una storia di Malagiustizia che costrinse Ilaria Capua alle dimissioni dal Parlamento ed alla fuga dall’Italia risoltasi dopo anni con “il fatto non sussiste”. Se la Capua ha un ranking superiore in termini professionali ed un pubblico fidelizzato per la sua attività di virologa, Roberto Burioni invece è l’uomo dei media forti, di Stato, che vanta tanti follower su Twitter acquisiti dalla sua campagna contro i vaccini, che ci strappa un sorriso: Burioni ed i no Vax hanno fatto pace non tanto nelle piazze virtuali, ma nei salotti politici dove PD e 5S oramai siedono insieme a capo del Governo.
L’Italia ai tempi del Coronavirus in mano agli “esperti”, i nuovi populisti. Paolo Macry de Il Riformista il 17 Marzo 2020. Quale Italia verrà fuori dal tunnel del coronavirus? Quale sistema politico? Quale politica? Gli ottimisti (e i governativi) plaudono al ritorno delle competenze, al decisionismo governativo, all’Union sacrée. Ma i dubbi non mancano. E il primo, il primo dubbio, riguarda l’incipit di questa storia, cioè il quadro politico che presentava il Paese al momento di entrare nel tunnel. Un quadro altamente contraddittorio, volatile e tetragono al tempo stesso. Ad affrontare la grande emergenza è stata infatti una coalizione composta dallo zoccolo duro della sinistra d’antan e da un movimento pentastellato fortissimo in Parlamento e debolissimo nell’opinione pubblica. Un bizzarro centrosinistra guidato dallo stesso premier del precedente centrodestra. E si sa (basta scorrere le cronache degli anni Trenta del Novecento) quanto sia pericoloso affidare la gestione di una crisi epocale a governi poveri di radici e privi di una leadership esperta. Il secondo dubbio concerne quanto è accaduto e sta accadendo nel tunnel, cioè le politiche di queste settimane. Sebbene pasticciata e disomogenea, la compagine giallorossa ha scelto di fronte all’epidemia la linea dura. Ovvero la linea cinese. E l’adozione, sia pure edulcorata, della linea cinese ha significato sospendere una quantità di libertà individuali, entrare nel vivo dei diritti, incidere nella carne viva dei valori e dei comportamenti collettivi. E rischiare di indebolire la fisiologia della rappresentanza democratica. Quei provvedimenti draconiani sono stati assunti attraverso momenti formali e sostanziali non sempre trasparenti, affidando al consiglio dei ministri il compito di ratificare decisioni già prese dai leader dei partiti, usando strumenti inusuali come i decreti del presidente del consiglio, limitando il lavoro delle Camere a un giorno alla settimana, facendole votare a ranghi ridotti. Un sostanziale depotenziamento degli organi collegiali e assembleari. Ma oggi che la Cina comunista sembra in grande spolvero (anche sui media), bisognerebbe fare molta attenzione alle procedure democratiche. Bisognerebbe tenersi ben stretto, noi che possiamo, lo Stato di diritto. E le sue preziosissime forme. Tutto questo del resto è coerente con il terzo tassello del mosaico (che è poi il terzo dubbio di chi scrive): la nascita di un modello di governo fondato sul premierato. Ma quanto atipico e politicamente ambiguo sia anche quest’aspetto è fin troppo chiaro. Chi propone oggi una simile torsione della costituzione materiale è un premier sui generis, privo di legittimazione popolare, senza un partito alle spalle, indistinto perfino nella sua appartenenza alla destra o alla sinistra. Un premier, inoltre, macchiato dall’ombra originaria del trasformismo. L’opposto di una leadership maturata secondo la logica e le procedure della storia politica repubblicana. Anche il premierato forte appare come un’ipotesi spuria, difficile da stabilizzare, e ogni paragone fra Prodi e Conte appare azzardato, sia per lo spessore delle personalità, sia per l’assai differente retroterra politico-culturale. Visto in una simile ottica, e tralasciando di considerare le opposizioni (del tutto afone, peraltro) il sistema politico italiano appare perciò come un castello di carte. Che fino a due mesi fa si reggeva grazie all’istinto di autoconservazione dei parlamentari e che oggi si regge grazie a una logica da gabinetto di guerra. Ed è evidente che tutto questo non basta. Soprattutto non basterà quando il paese sarà uscito dal tunnel e vorrà ricostruirsi. Scarsa rappresentatività dell’esecutivo, esautorazione strisciante delle assemblee elettive, premierato di facciata non costituiscono un modello politico attendibile. Ma c’è dell’altro. Sta cambiando, nel frattempo, la legittimazione del ceto politico. Dopo anni di durissimo attacco alla casta, alle élite, ai “successi professionali”, alle competenze, sembra venuto il momento della scienza, di chi parla a ragion veduta, degli esperti. Lo stesso ceto politico che fino a ieri teorizzava l’uno vale uno, oggi chiede al Paese di fidarsi di chi sa. Certo è che, nelle settimane dell’emergenza, le decisioni, anche le più ardite, anche le più delicate, sono state prese e vengono prese in base al “parere degli esperti”.
Fino a pochi mesi decidevano i NoTav e i NoVax. Oggi decidono gli scienziati, i clinici, i tecnici. Partiti di governo e di opposizione, presidenti di Regione, sindaci delle città, tutti si nascondono dietro i super-esperti dell’Iss, gli uomini della Protezione Civile, i luminari dei grandi nosocomi. Una svolta? Il ritorno della ragione dopo la lunga dittatura della pancia? In realtà, finché la politica sarà fragile com’è oggi, finchè sarà un castello di carta, tutto questo non significherà probabilmente, come in molti sembrano invece credere, il funerale del populismo. Finchè i saggi serviranno a coprire l’inconsistenza della politica, la democrazia rappresentativa resterà problematica, i partiti resteranno forme vuote, la responsabilità del mandato elettorale resterà compromessa. E al populismo plebeo rischierà di sostituirsi una sorta di populismo delle competenze.
L’intellighenzia presenzialista nei talk tv: sempre i soliti pseudo esperti con le stesse idee. Pietro Di Muccio De Quattro il 17 marzo 2020. Conduttori o soubrette che sovrastano gli scienziati sentendosi esperti e ospiti fissi. Così si esclude il confronto con idee diverse. La televisione parlata, talkshow, è pure parlante? Cioè, dice cose costruttive agli spettatori oppure è soltanto spettacolo di parole, come pure il nome indicherebbe? La parola sembra prendere insopportabilmente il sopravvento senza comunicare contributi apprezzabili. Le trasmissioni politiche hanno invaso le reti nazionali. E’ impossibile non imbattervisi mattina, pomeriggio, sera, in prima e seconda serata. Talora sono una macina di chiacchiere seriose, talaltra fanno sorridere senza essere facete. Possono avere un che d’avanspettacolo, anche quando trattano con gravità affettata drammi reali, come il coronavirus, esibendo infettivologi, virologi, biologi, epidemiologi, e trasformando accreditati scienziati in star da salotto loro malgrado, qualcuno purtroppo prestandosi. La gravità del tema d’attualità ha, paradossalmente, enfatizzato certi difetti di tali trasmissioni per una regola dei fenomeni umani: “La quantità degrada la qualità”. Non è parso vero al conduttore navigato, avvezzo a spaccare in trentadue il ciuffo laccato di Conte, la barba ispida di Salvini, i radi peli di Zingaretti, quelli catramati di Berlusconi, le permanenti chiome di Meloni e Boschi; non è parso vero a codesto auriga lanciare il carro televisivo alla conquista dell’alloro per la “copertura h. 24” del dramma nazionale e globale. Sia chiaro, nel diluvio informativo le notizie sul coronavirus sono fatti. E i fatti sono la carne viva del vero giornalismo. Ebbene, hanno a che fare con i fatti quei poveri inviati sguinzagliati notte e giorno a catturare inutili, non dico false, notizie senza polpa né ossa; a rincorrere veri o presunti disgraziati per cavar loro un’impressione o un parere su dettagli insignificanti; a fungere da riempitivi delle “dirette” televisive? E’ difficile non provare fastidio nel constatare quanto certi celebrati conduttori si atteggino a competenti, mentre dichiarano che tutti ( sic!) dovremmo affidarci alla scienza, e sovrastino gli scienziati con appiccicaticce nozioni, interrompendoli pure sul più bello, lontani o vicini che siano. A chi ha maturato la convinzione che al conduttore ( giornalista o soubrette) non basti la guida della trasmissione ma pretenda pure di accreditarsi come vero conoscitore della materia, egli appare spesso pervaso da hybris qui intesa come eccesso confidenziale con il pubblico, come se, sentendosene superiore, volesse dominarlo piuttosto che informarlo. In tale accezione, la hybris dei conduttori televisivi, una sorta di sindrome professionale, viene facilmente mascherata nel dibattito politico, in cui ognuno può dire la sua in ogni senso e specialmente il conduttore può menar le danze al suono della sua musica. La discussione verte dove gli pare e piace. Ne presceglie i partecipanti, ne predispone i temi, ne regola gl’interventi. Tutto questo ha poco più di una parvenza di esercizio della libertà di pensiero, in un duplice senso, l’uno più grave dell’altro: non solo la selezione dei partecipanti esclude determinate opinioni e correnti di pensiero ( censura indiretta), ma la continua presenza dei medesimi partecipanti avalla pure, reiterandole, le loro opinioni e dottrine, a prescindere dalla credibilità degli uni e dalla plausibilità delle altre. E dà noia, perché ripetitivo, ascoltare tutti i giorni le stesse cose dalle medesime trenta/ quaranta persone. Incomprensibili in astratto, ma comprensibilissimi in concreto, i motivi per i quali le reti ammanniscano a spettatori di bocca buona il pensiero dell’intellighenzia presenzialista. Il sostanziale conformismo dei talkshow emerge imponente dai teatrali contrasti e dalla finta dialettica dei partecipanti, impegnati allo spasimo nel futile tiro alla fune tra conservatorismo e socialismo, variamente imbellettati, senza decampare mai dal comune seminato politico. Troppo spesso idee di seconda mano però sparse dalla stessa mano.
Tutti gli esperti convocati in tv: è pandemia di presenzialismo. Eccessi di narcisismo, scontri verbali, sopravvalutazioni del fenomeno, sottovalutazioni del medesimo, lunghissimi dibattiti nei talk invece di essere nei luoghi di lavoro: gli effetti collaterali dell’emergenza. Aldo Grasso 27 febbraio 2020 su Il Corriere della Sera. Il guaio inizia quando, nella situazione d’emergenza in cui stiamo vivendo, qualcuno dice: «Dobbiamo metterci in mano agli esperti». Ovviamente stiamo parlando di quello che succede in tv, solo in tv. Nella vita normale, degli scienziati ci fidiamo, eccome se ci fidiamo! Ma in tv succede sempre l’imponderabile: eccessi di narcisismo, scontri verbali, sopravvalutazioni del fenomeno, sottovalutazioni del medesimo, lunghissimi dibattiti nei talk invece di essere nei luoghi di lavoro, una sorta di pandemia di presenzialismo. La cosa più curiosa è che ogni situazione fuori del comune genera indotto mediatico. Osserviamo quanto è successo alla politica (gli eletti dovrebbero essere, a ragion veduta, degli esperti): da tempo la situazione in Italia è così grave che i politici preferiscono frequentare i programmi tv piuttosto che le aule del Parlamento. Le grandi decisioni si prendono nei talk show. Come nella pittura di Picasso, si potrebbe colorare la storia della tv italiana a partire dalle categorie di esperti. C’è stato il periodo degli scienziati della psiche (un lungo cammino che parte da Paolo Crepet, passa per Raffaele Morelli e arriva fino a Massimo Recalcati; ma il numero è impressionante). C’è stato il periodo delle scuole filosofiche, per cercare di conoscere noi stessi al modo dei grandi pensatori (purtroppo i superstiti sono solo Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, che cita sempre Platone e Aristotele, e Diego Fusaro, il turbocapitalismo senza etica). C’è stato, e c’è tuttora, il periodo dei criminologi, che ha generato una vera industria, come se i delitti venissero commessi perché qualcuno potesse poi commentarli (c’è anche il caso di Alessandro Meluzzi che copre diverse categorie). Inutile dire che stiamo vivendo il periodo dei virologi, degli epidemiologi, degli infettivologi. Il coronavirus li ha messi al centro della scena. E loro, con tutto rispetto, un po’ se ne compiacciono.
Non se ne può più: ridateci Piero Angela e Luciano Lombardi. Lo spettacolo della tv, il diario ai tempi del Covid-19. Enzo Spiezia su ottopagine.it mercoledì 18 marzo 2020. Giorno 10 anno Domini 2020. Ci vorrebbero Piero Angela, Luciano Lombardi e Luciano Onder – mi scuso con gli altri: sono i primissimi che mi vengono in mente, quelli che ho sempre seguito con particolare attenzione – in questo momento tanto drammatico. Servirebbero loro in tv, dovrebbero essere loro a guidare i talk show e non, come capita nella maggior parte dei casi, quei conduttori che dobbiamo sorbirci ogni giorno, a tutte le ore, con il loro insulso protagonismo. Avremmo bisogno della loro competenza, della capacità di divulgazione, della bravura nel porre le domande agli specialisti - virologi, epidemiologi e infettivologi- senza sovrapporsi con la voce alle risposte che danno, come fanno quei ciarlatani che tentano di dimostrare di potere gestire loro il teatrino, assecondando un canovaccio scritto a tavolino e interrotto dalle pause pubblicitarie. Fateci caso: negli studi, ora non più direttamente, sono spesso presenti personaggi che al massimo potrebbero comparire in un programma comico. Un florilegio di sciocchezze nutrite dal pregiudizio politico, al quale si aggiunge quello dei politicanti di quarto ordine chiamati, come mission della giornata, a difendere ciò che viene fatto o a contrastarlo a prescindere perchè arriva dalla sponda opposta a quella sulla quale loro sono seduti, in attesa che sfili il "nemico di turno". Quante ne abbiamo sentite, in queste settimane. E quante ne stiamo sentendo attraverso tanti canali che meriterebbero di essere oscurati. Spettacolini che si arrogano il diritto, tra risate, ricorso alla mozione degli affetti e una spruzzatina di gossip che non guasta mai, di fare informazione su una emergenza sanitaria senza precedenti. Per fortuna esiste il telecomando, ma lo zapping non risolve il problema. Decine e decine di schermi sono diventati purtroppo un tutt'uno, ripetono le stesse cose, rilanciano le agenzie, spesso in contraddizione. E lo fanno mentre il chiacchiericcio in sottofondo diventa, in alcuni momenti, insopportabile ed imbarazzante. Ridateci Piero Angela, Luciano Lombardi e Luciano Onder, restituiteci la loro compostezza, i toni pacati ma fermissimi, la loro non ricerca del sensazionalismo, degli effetti speciali. Fate in modo che siano loro gli interlocutori del mondo scientifico, strappate i microfoni dalle mani di chi al massimo sa portarli in giro, e consegnateli a chi ne capisce. Abbiamo uno stramaledetto bisogno di parole senza indulgenza, di messaggi autorevoli rilanciati da una intermediazione altrettanto autorevole. Vi prego; ridateci Piero Angela, Luciano Lombardi e Luciano Onder.
Coronavirus, come si diventa virologi e cacciatori di epidemie. Francesca Barbieri de ilsole24ore.com 27 febbraio 2020. Il coronavirus li ha messi al centro dei riflettori:virologi, infettivologi, epidemiologi. Ma come si entra nel club dei massimi esperti della materia: medici da una parte, specializzati in statistica per la medicina dall’altra?
Virologi, infettivologi, epidemiologi. Il coronavirus li ha messi al centro dei riflettori: che cos’è Covid-19? Come si trasmette? Che differenza c’è con la Sars? Siamo di fronte a un’epidemia o a una pandemia? Le domande si moltiplicano. Ma come si entra nel club dei massimi esperti della materia: medici da una parte, specializzati in statistica per la medicina dall’altra? Ecco, in 10 domande e risposte, la differenza tra i diversi percorsi di studio e di carriera, con i consigli del virologo Massimo Clementi e dell’epidemiologo Pierluigi Lopalco.
1) Che differenza c'è tra virologia, infettivologia ed epidemiologia? La virologia è la disciplina che studia le caratteristiche biologiche e molecolari dei virus. «La virologia medica, in particolare, è la branca della virologia che studia i virus coinvolti nelle malattie dell’uomo - spiega Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia dell’ università Vita-Salute San Raffaele e già direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano -. L'epidemiologia invece è la disciplina che studia la distribuzione e la frequenza di eventi di rilevanza medica nella popolazione. Si avvale largamente di strumenti statistici». L’infettivologia, invece, è la scienza che cura ed esegue i trattamenti relativi alle malattie infettive. In parole povere se la virologia ci dice quali sono le caratteristiche di un virus, l’epidemiologia ci informa su quanto è diffuso e l’infettivologia su come avviene il contagio.
2) Come si diventa virologi? I medici virologi devono avere una specializzazione in microbiologia e virologia. Quindi dopo i 6 anni di medicina bisogna tentare l’accesso alla scuola di specializzazione in microbiologia e virologia (altri 4 anni). I posti a disposizione sono appena una ventina in tutta Italia. Due i possibili sbocchi: da un lato la microbiologia clinica per arrivare alle diagnosi delle patologie virali; dall’altro la ricerca sui microrganismi «per testare i meccanismi di azione e di sensibilità dei virus» dice Clementi. Gli sbocchi lavorativi sono nei laboratori degli ospedali ma anche in università.
3) Le scuole di specializzazione in virologia sono solo per laureati in medicina? No. Anche un laureato magistrale in biolologia o in biotecnologie puà candidarsi a entrare partecipando al concorso per l’area «non medica”.
4) Come si diventa infettivologo? La strada non è molto diversa rispetto a quella del virologo: 6 anni di medicina più la scuola di specializzazione - in infettivologia - di 4 anni.
5) Qual è il percorso degli esperti di epidemie? «In Italia - risponde Pierluigi Lopalco, ordinario di igiene e medicina preventiva all’unversità di Pisa - non esiste il titolo di epidemiologo, la specializzazione in igiene e medicina preventiva». Gli epidemiologi, dunque, sono in genere degli igienisti, laureati in medicina e specializzati in igiene e medicina preventiva. Ma non è detto. «L'epidemiologia: una, nessuna e centomila»: il titolo del congresso 2019 dell’Aie (Associazione italiana epidemiologia) rende bene l’idea dell’eterogeneità dell'approccio epidemiologico che può di fatto rivolgersi a molteplici interlocutori ma che, per poterlo fare, deve avere un linguaggio che sia comprensibile e possa orientare le scelte, altrimenti rischia di essere inefficace.
6) Esistono altre specializzazioni per diventare epidemiologi? «I laureati in medicina possono scegliere la specializzazione in statistica medica - risponde Lopalco - ma anche iscriversi a master post laurea in statistica».
7) La laurea in statistica può essere utile? Ai laureati triennali in statistica non è vietato di scegliere una un percorso di studio per approfondire le tematiche bio-sanitarie, dalla biostatistica e della statistica applicata in ambito sanitario.
8) C'è interesse da parte dei giovani per queste specializzazioni? «C'è certamente interesse - risponde Clementi -. Tuttavia, mentre i posti per Igiene offerti nel concorso nazionale sono in numero sufficiente, è stato ridotto nel tempo quello per le scuole di Microbiologia e Virologia».
9) Quali consigli per un giovane che inizia gli studi per diventare virologo? «Consiglio di studiare bene medicina e chirurgia in modo da avere una solida preparazione di base - risponde Clementi -, affrontare con serietà una buona scuola di specializzazione (informandosi sulla sua reputazione in virologia medica), durante la quale fare un'esperienza in un laboratorio estero per almeno 1 anno, infine cercare di svolgere la propria attività lavorativa in una struttura qualificata.
10) Quali consigli invece per chi vuole specializzarsi nello studio delle epidemia? «Se parliamo di un epidemiologo che si interessa di malattie infettive - risponde Lopalco -, certamente iscriversi a medicina e chirurgia e seguire il percorso con specializzazione in Igiene o Malattie infettive. Poi si può approfondire con un corso o un master. Ce ne sono di ottimi sia in Italia che all'estero. Segnalo anche la possibilità per chi volesse fare una formazione europea, il programma Epiet (training in epidemiologia di campo) proprio dedicato all’indagine delle epidemie.
· In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…
Chi cerca trova: i misteri della coerenza della scienza.
Tasso di morbosità più alta rispetto agli altri paesi? Perché sono stati fatti più tamponi rispetto alla popolazione.
Tasso di letalità più alto rispetto altri paesi? Perché sono stati fatti meno tamponi rispetto alla popolazione.
La nostra vita in mano ai sedicenti esperti: Esperti di che?
Il loro parere vale quanto l’opinione dei partecipanti ai vari Grandi Fratelli di Mediaset.
Esperto è chi conosce: il Covid 19 è un virus sconosciuto.
I professoroni hanno detto il tutto ed il contrario di tutto ed in antitesi tra di loro.
Il Governo di inesperti si sono affidati ai professoroni inesperti ed hanno portato i cittadini italiani terrorizzati e condizionati un po’ di qua ed un po’ di là come cani al guinzaglio. Mascherina per tutti:
è possibile che il cittadino sia infettato
è probabile che il cittadino sia infettato
è possibile che il cittadino sia a rischio d'infezione
è probabile che il cittadino sia asintomatico
è possibile che il cittadino sia pauci sintomatico
è confermato che il cittadino sia infettato
Se il cittadino non ha niente ed è sano come un pesce, vuol dire che è un complottista: a lui non va messa la mascherina, ma si obbliga l’uso del bavaglio
Monica Guerzoni per corriere.it il 15 dicembre 2020. I tre direttori generali del ministero della Salute Achille Iachino, Andrea Urbani e Giovanni Rezza non hanno firmato il verbale finale evidenziando la spaccatura sulla decisione di non indicare misure specifiche. Maggiori controlli ma senza indicare chiusure specifiche. È stata questa l’indicazione del Comitato tecnico scientifico al governo. Ma nel verbale non si fa riferimento ad alcuna norma specifica da modificare. Gli scienziati condividono la linea del rigore dopo gli affollamenti di strade e piazze nel fine settimana. E per questo danno parere favorevole a misure restrittive per impedire alla curva epidemiologica di risalire. Lo scrivono nel parere del Comitato tecnico scientifico inviato al governo alla vigilia di nuove misure che dovranno essere prese in vista delle vacanze di Natale. Al termine della seconda riunione convocata su richiesta dell’esecutivo il verbale degli esperti sposa la linea di chiusura ma senza fornire la lista dei luoghi dove intervenire. È stato il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro a sottolineare i rischi di assembramenti «nei posti dove si abbassa la mascherina», quindi bar, ristoranti e negozi. Più in generale sono stati chiesti interventi per impedire gli assembramenti. A seguire, verosimilmente tra domani e giovedì, il Governo vedrà le Regioni per un confronto sulle decisioni assunte. Ma come detto, su questa linea non è stata raggiunta l’unanimità, visto il passo indietro al momento della firma dei tre rappresentanti del ministero della sanità. Sono tre i punti fondamentali messi a fuoco. Il primo riguarda il potenziamento dei meccanismi di controllo per garantire le norme in vigore. I tecnici in premessa parlano di coinvolgimento «massivo» delle forze dell’ordine. Il secondo segnala che le misure devono evitare l’aggregazione incontrollata delle persone sia nei luoghi aperti al pubblico che a domicilio. Infine si dice che la zona gialla, nella quale saranno praticamente tutte le Regioni da sabato 20, non basta, visto che si chiedono misure più dure scelte tra quelle indicate dall’articolo 3 Dpcm del 3 dicembre scorso. Il senso è che devono essere adottate le previsioni pensate per le zone rosse oppure arancioni. Ma i tempi deve deciderli il governo. Il Cts, scrivono gli esperti, «valuta con molta preoccupazione il riscontro di grandi aggregazioni tra persone osservate in diverse aree del Paese, soprattutto nei centri storici e nelle aree metropolitane, nonché la difficoltà di contenimento/prevenzione delle aggregazioni medesime». Secondo gli i tecnici le misure di mitigazione devono interrompere le situazioni che mettono a rischio rispetto al «distanziamento interpersonale e all’uso corretto dei dispositivi di protezione individuale in ogni occasione in cui gli stessi siano prescritti». Poi vengono ricordati i risultati del monitoraggio della Cabina di regia, che da una parte accerta un miglioramento dei dati sulla circolazione del virus, dall’altro però sottolinea come in molte Regioni ci sia ancora una occupazione di letti di terapia intensiva e internistici sopra la soglia di guardia. E importante che l’epidemia continui a ritirarsi. La riunione è stata molto lunga e due anime del Cts si sono confrontate. C’era chi voleva un chiaro riferimento alle regole delle zone rosse, come il commissario straordinario dell’emergenza Domenico Arcuri, e chi invece, come Franco Locatelli dell’Istituto superiore di sanità, voleva dare indicazioni più «aperte», senza riferimenti specifici ai provvedimenti da prendere. Se ne è usciti con quell’ultimo passaggio, nel quale si invita ad utilizzare le restrizioni previste dal Dpcm e quindi, visto che bisogna inasprire le misure delle zone gialle, le previsioni indicate per le zone rosse e per le arancioni. Queste ultime differiscono da quelle delle zone gialle per due punti: prevedono la chiusura dei bar e dei ristoranti e obbligano i cittadini a restare nel loro Comune. Quindi questo è il minimo suggerito dal Cts ma il Governo dovrà valutare soprattutto i provvedimenti indicati per le zone rosse.
Paolo Russo per “la Stampa” il 17 novembre 2020. Sull' andamento dell' epidemia gli scienziati si dividono. Da un lato larga parte del Cts che, senza lasciarsi andare a facili entusiasmi, inizia a vedere la luce in fondo al tunnel. «L' Rt, l' indice di contagiosità, si sta abbassando e questo è la premessa al calo della curva dei contagi e, a seguire, di quella dei ricoveri e infine dei decessi», sostiene il fronte degli ottimisti. «Niente affatto», replicano gli scettici, sostenendo che oramai con la Caporetto del tracciamento ogni previsione sia falsata, visto che quel che emerge sarebbe soltanto la punta dell' iceberg della massa dei contagiati che non riusciamo più a scovare. Due visioni opposte dalle quali dipende che Natale passeremo: a tavola solo con i «conviventi» e i regali acquistati su Amazon nel caso avessero ragione i pessimisti. Con qualche parente in più e un po' di shopping scegliendo i regali dalle vetrine se avranno visto giusto gli ottimisti. Il fronte degli scettici Nel mirino degli scettici è finito soprattutto l' Rt. Giorgio Parisi, che è un fisico di fama internazionale oltre che presidente dell' Accademia dei Lincei, lo ha detto a chiare lettere: «L' Rt così non è affidabile». «Capisco le difficoltà, perché visti i numeri dei contagi va fatto uno sforzo enorme per ritracciare le persone che si sono ammalate e sapere l' inizio dei sintomi», tutte cose che servono al calcolo dell' Rt. Secondo il professore inaffidabile per gli stessi numeri riportati nel documento di sintesi del monitoraggio settimanale, quello che poi definisce i colori e quindi le chiusure delle regioni. «Se la settimana scorsa avevamo un indice di contagio che con il 95% di probabilità era compreso tra un valore di 1,45 e 1,83, nell' ultimo report la forchetta è raddoppiata, oscillando da 1,08 a 1,81. Come per gli exit poll non c' è certezza e la sintesi dell' ultimo report a leggerla bene vuol dire che il numero dei contagiati giornalieri potrebbe essere rimasto quasi costante, o essere quasi raddoppiato o aver fatto qualcosa di intermedio». Per questo a suo parere servono in assoluto più dati. «Sappiamo quanti sono i posti letto occupati nelle terapie intensive ma non quanti pazienti vi entrano e quanti ne escono ogni giorno. Non conosciamo quante chiamate arrivano nei pronto soccorso regionali e nemmeno quante persone si sono ammalate nei singoli comuni lombardi», afferma il prof, anticipando quella che sarà la prossima missione dell' Accademia. Stesso scetticismo manifesta Andrea Crisanti, il padre del «metodo Vo'», che giudica inattendibili sia i numeri sull' indice di contagiosità che quelli dei positivi rilevati quotidianamente «da un sistema di tracciamento che è oramai collassato da tempo». «Siamo in una situazione sovrapponibile a quella di marzo - afferma spegnendo qualsiasi entusiasmo - e qui non stiamo facendo nemmeno un vero lockdown. Per cui l' impatto delle misure restrittive sarà inferiore a quello di allora e servirà più tempo perché producano effetto». «Poi magari allenteremo un po' la guardia a Natale e il lockdown lo dovremo fare comunque a gennaio», afferma. Continuando a ripetere che «saltato il contact tracing, gli unici dati attendibili sono quelli dei ricoveri e dei decessi». Sicuramente meno rincuoranti dell' Rt. Il fronte dei "cauti ottimisti" Sul fronte opposto il presidente del Consiglio superiore di sanità, nonché tra i più ascoltati scienziati del Cts, Franco Locatelli, non ha invece dubbi: «Il dato relativo all' Rt è un indicatore della decelerazione, il primo risultato delle restrizioni adottate a fine ottobre, che iniziano a mostrare i loro effetti sulla curva dei contagi». E del resto lo stesso consulente di Speranza, Walter Ricciardi, se non si sfrega le mani al calo dell' Rt, almeno per le regioni in zona rossa si aspetta nella prossima settimana che le curve dei letti occupati in terapia intensiva e dei decessi comincino a piegarsi verso il basso. Sul fatto poi che in queste condizioni l' Rt sia inattendibile dissente il Presidente dell' Iss, Silvio Brusaferro, che lontano da voler alimentare polemiche ci tiene a spiegare che «l' indice di contagiosità è calcolato solo sui positivi sintomatici, che proprio per questo difficilmente sfuggono al tracciamento». La decelerazione sembra comunque già iniziata. L' analisi degli scienziati del gruppo Facebook "Coronavirus, dati e analisi scientifiche" mostra che a metà ottobre il raddoppio delle curve era per i nuovi casi di una settimana, degli ospedalizzati di 9 giorni, delle terapie intensive di 10 e dei decessi di 6,5 giorni per i decessi. Mentre ora i casi raddoppiano ogni 35 giorni, le ospedalizzazioni 19 e i decessi dopo 12. Non sarà ancora la fine del tunnel, ma quei numeri accendono almeno la speranza di passare un Natale meno blindato.
Ilaria Betti per huffingtonpost.it l'1 novembre 2020. “Pensare che la scienza debba sapere tutto è una sciocchezza. È da sciocchi non accettare i limiti del sapere”: così Carlo Rovelli, il grande studioso italiano di fisica teorica, commenta ad HuffPost l’accavallarsi quotidiano di dati, studi e ricerche. Lockdown sì, lockdown no, il vaccino ci salverà, il vaccino non è la soluzione: sono solo alcuni dei messaggi contraddittori a cui ci esponiamo ogni giorno e che in qualche modo confondono l’immagine della scienza, che è invece sperimentazione, lavoro incessante. “Come sosteneva Galileo, la scienza procede per tentativi ed errori. Non bisogna confondere ‘la scienza’ con la faccia di alcuni scienziati che vanno in televisione o si fanno intervistare per esprimere opinioni che di fatto sono opinioni politiche su argomenti roventi - aggiunge Rovelli -. La scienza funziona per discussione e formazione del consenso attraverso la discussione”. Chi fa scienza non ha le risposte in tasca. Eppure, a giudicare dalle tante prese di posizione sul Covid-19 da parte di chi di scienza si occupa, sembrerebbe il contrario. Per Rovelli, la conoscenza del virus si ferma ad un certo punto: “Nel caso dell’epidemia, ci sono istituzioni internazionali, in particolare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che hanno raccolto il consenso scientifico attuale su quanto sappiamo dell’epidemia. L’OMS è stata affidabile e chiara nel dire cosa sappiamo e cosa non sappiamo sull’epidemia”. Nel caso in cui volessimo sapere fin dove arriva il sapere della scienza sull’epidemia, secondo Rovelli, dovremmo ascoltare l’ultimo bollettino dell’OMS, e “non un singolo scienziato che dice la sua in televisione in un talk show, o si fa intervistare da un quotidiano”. Il fisico offre una definizione chiara di “scienza”: ”È la conoscenza che abbiamo”. Punto. E non c’entra niente con le opinioni politiche. Purtroppo tra i due ambiti si fa ancora troppa confusione. Come nel caso del lockdown. “La scienza ci dice, per esempio, che data la conoscenza attuale che abbiamo, aprire le scuole, tenere aperti i bar, oppure non fare un lockdown, porterà con tale e tale probabilità e con tale e tale incertezza un numero di morti addizionali - afferma Rovelli -. D’altra parte sappiamo anche che non aprire le scuole, chiudere i bar, andare in lockdown, comporta perdita di ricchezza da parte di alcune persone, un danno per i ragazzi, eccetera. Dunque la decisione se dare più importanza ai morti oppure alla ricchezza è una decisione politica, non scientifica”. Lo scienziato, in quanto tale, dovrebbe rimanere fermo sui dati empirici che ha e non sbilanciarsi a dare una sua visione: “Fare o non fare un lockdown è una decisione molto difficile che ovviamente ci divide, perché abbiamo interessi particolari divergenti e scale di valori diverse. Gli "scienziati" che dicono "in fondo è una malattia come un’altra", così come gli altri che dicono che "la situazione è gravissima", non stanno parlando di scienza: stanno parlando della loro scala di valori, o focalizzandosi sugli interessi degli uni o degli altri: per alcuni, dei morti in più non è così grave, per altri lo è. Per alcuni, se qualcuno si impoverisce un po’ non è così grave, per altri lo è”. Ammettere che la scienza ha bisogno dei suoi tempi, che le più grandi scoperte della Storia non sono avvenute dal giorno alla notte, sarebbe un grosso passo in avanti. Rovelli, che alla scienza ha dedicato la sua vita, sa bene di che pasta è fatta. “Se sapessimo tutto - afferma - sapremmo se la settimana prossima pioverà o no. Non lo sappiamo. È da sciocchi non accettare i limiti del sapere, o pensare che sia colpa di chi sa (quindi dello scienziato), se non sa tutto”. La fiducia delle persone, nel patto invisibile con la scienza, però non deve mai venire a mancare: ”È ancora più da sciocchi - conclude - non dare credito a chi sa, solo perché non sa tutto”.
Zangrillo, Crisanti, Galli e Bassetti: lotte (di classe) tra esperti. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 30/10/2020. Onnipresenti star mediatiche nei talk, si rinfacciano simpatie politiche. Mai polemiche per ragioni scientifiche. Le domande sono due. La prima: dove trovano il tempo di stare sempre in tivù? La seconda: dove trovano la forza di litigare tra loro? Perché ormai litigano. E di brutto. Un mischione quotidiano. Epidemiologi, virologi, anestesisti, entomologi esperti di zanzare, tutti diventati famosi con questa pandemia, tutti docenti, tutti primari, quasi tutti luminari nel loro campo, s’azzuffano a parole. Con argomenti che, spesso, non hanno però più solo un carattere scientifico: le polemiche piegano infatti sul privato, sul passato, le allusioni cominciano ad avere uno sgradevole sapore politico, e anche peggio. Pensateci. Fate mente locale. Noi, con il rosario dei morti, dei contagiati, con lo spavento, l’angoscia, il puro terrore per questo dannato Covid. Loro collegati da luoghi imprecisati, di solito stanze piene di libri, in una penombra cimiteriale, anche se l’ultima volta il professor Alberto Zangrillo era in una sala con un quadro antico e la bandiera tricolore appesa al muro, tipo Quirinale. Zangrillo, in diretta con «L’Aria che tira», su La7, risponde a una domanda di Myrta Merlino, e la butta lì: dicendo che se ne è accorto, «il professor Galli mi accusa sempre velatamente», è quel modo di accusare subdolo, «il nemico additato senza farne il nome, tipico di un ex sessantottino» — com’è appunto Galli, passato dall’eskimo a delle terrificanti cravatte fantasia, spesso sul blu elettrico. Conclude Zangrillo: «Galli dovrebbe denunciarmi». Tutti sanno che Zangrillo è anche il medico personale di Silvio Berlusconi, l’ha curato lui pure dal Covid, e allora subito si scatena la sarabanda. L’attacco sembra politico, anzi — dicono in tanti — è proprio politico; commentatori al lavoro: sì, ecco, questa è la prova che in Italia destra e sinistra esistono ancora. Puntuale, la sera, il professor Galli, responsabile Malattie infettive del Sacco di Milano — vera rivelazione mediatica del passato lockdown, l’aria sempre un filo insofferente, ma concetti netti, credibili, purtroppo regolarmente confermati dai fatti — è già da Bianca Berlinguer, a «Carta Bianca». E replica: «Non posso denunciare Zangrillo perché il reato di negazionismo non esiste in questo Paese». Su Twitter si eccitano. Qualcuno ha letto Pinocchio, parte l’hashtag #ZangrilloParlante. Gli ricordano le dichiarazioni di giugno (quelle che indignano Galli). «Il virus, da un punto di vista clinico, non esiste più». «Tra poco potremo buttare via le mascherine». «Nessuna seconda ondata: perché sappiamo cosa fare». Gli autori dei talk annusano nel polverone. Ma Zangrillo non ha la tenuta fisica di Enrico Mentana, e ogni tanto deve mollare le telecamere, andare a casa, farsi una doccia. Allora gli autori puntano il professor Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie infettive al San Martino di Genova. Che precisa — «Io negazionista? Casomai ottimista» — e però lo chiamano lo stesso, perché c’era anche lui, il 27 luglio scorso, al Senato, a quel convegno voluto dal leghista Armando Siri, ex sottosegretario a rischio processo per due episodi di corruzione, ma comunque con l’entusiasmo necessario per mettersi lì a dire che il Covid era stato narrato con esagerazione (e infatti poi a metà mattina arrivò tutto tronfio Matteo Salvini che, nonostante gli inviti dei funzionari di Palazzo Madama, rifiutò di mettere la mascherina, spiegando che «il saluto con il gomito è la fine della specie umana», una cosa alla quale in effetti nemmeno Darwin aveva mai pensato). Intanto le agenzie battono un’anticipazione dell’Espresso: sembra che Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia all’università di Padova, stia per trasferirsi allo Spallanzani di Roma. Del resto sono settimane che Crisanti litiga con il governatore del Veneto, Luca Zaia. Succo del violento bisticcio: Crisanti sostiene che fu lui a suggerire il massiccio uso dei tamponi per scovare gli asintomatici, mossa che poi tenne il Veneto al riparo dalla prima ondata; Zaia dice che invece il merito è dei suoi dirigenti sanitari. Crisanti allora sbuffa, mostra WhatsApp, scuote la testa, e continua, infaticabile, a fare l’ospite un po’ ovunque (talvolta, grazie alle registrazioni, compare a reti unificate). Poi un giorno gli arriva sul collo una dichiarazione del professor Giorgio Palù, suo maestro: «Guardate che Crisanti è un esperto di zanzare. È un entomologo». Una roba tremenda. Un colpo basso. Ma Crisanti, invece di restarci mortificato, di giustificarsi, di polemizzare, spariglia: «Io comunque mi sento vicino al Pd». Avrebbe potuto dire che gli piacciono i Ricchi e Poveri, che conosce a memoria la formazione della grande Inter, Sarti Burgnich Facchetti: e invece no, dice che lui è del Pd. Pensate che per evitare di dire una cosa simile, ma fare ugualmente campagna elettorale per Michele Emiliano e alla fine diventare assessore alla Sanità in Puglia, il professor Pierluigi Lopalco, scienziato di fama mondiale, una mattina di giugno andò a suonare sotto l’ospedale di Bari vestito come Piero Pelù (dalle finestre infermieri osservavano stupefatti, indecisi se intervenire: ma poi la presero a ridere).
Dagospia il 30 ottobre 2020. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”. Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova, oggi è intervenuta ad Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove oltre alle sue considerazioni sul momento delicato che stiamo vivendo a causa del Coronavirus ha parlato anche di tematiche più leggere. A partire dai suoi colleghi medici. Con chi di loro andrebbe a cena? “Sono già andata a cena con Andrea Crisanti, è stata una piacevolissima serata. Io e Andrea abbiamo frequentato lo stesso istituto di Basilea, dove ci siamo formati entrambi professionalmente, anche se in periodi diversi”. Qual è il virologo più affascinante secondo lei? “Direi Fabrizio Pregliasco, ha un piglio calmo ed è sempre moderato nei toni. E' dolce e, anche scientificamente, è più posato”. Il dottor Pregliasco ci ha raccontato che sui social gli arrivano insulti e perfino minacce di morte. Capita anche a lei? “No, io ho ricevuto solo un paio di mail di insulti, per il resto sono per la maggior parte richieste di aiuto”. E c'è qualcuno che, vedendola in tv, le ha fatto delle avances sui social? “Mi scrivono di tutto di più, ad esempio proposte di matrimonio, che ricevo molto frequentemente. L'ultimo che mi ha scritto aveva 31anni, ma io sono felicemente sposata”. Quante volte le saranno arrivate queste avances? “Dall'inizio della pandemia avrò ricevuto una 50ina di richieste 'galanti', mai nessuna sopra le righe però, tutti galantuomini...”, ha spiegato l'immunologa a Un Giorno da Pecora. A proposito: secondo lei in questo momento si possono avere rapporti sessuali oppure, come ha detto Pregliasco, è meglio evitare? O ci si può almeno baciare? "Si può "limonare" e si può fare l'amore, assolutamente si, noi dobbiamo convivere almeno fino all'estate con questa situazione, cosa dovremmo fare?”
Da liberoquotidiano.it il 9 ottobre 2020. Volano stracci tra Claudio Borghi e Roberto Burioni. Un serratissimo confronto sui social. Il tema? Il coronavirus, ovviamente. O meglio, i tamponi. Ad aprire le danze è il leghista, il quale cinguetta: "Ho scoperto che qui c'è una massa di tampoinomani per i quali dire che un tampone è fastidioso è bestemmia - premette partendo in quarta -. Cari amici, infilatevi su per il naso anche lo scopino del cesso se vi piace ma non venitemi a rompere le scatole se dico che trovo l'esame invasivo per essere di routine", ha attaccato Borghi. Dunque, ecco la replica di Burioni: "Onorevole, il tampone rinofaringeo può essere fastidioso (specie in pazienti con ipertrofia dei turbinati o deviazione detto nasale) ma non è considerato invasivo. Invasiva è una biopsia epatica, per esempio". Finita? Nemmeno per idea. Borghi controreplica: "Gentile Professore, se la letteratura scientifica, i siti medici e il NYT parlano di ricerca di test meno invasivi del tampone deduco che definirlo invasivo sia corretto". Ma Burioni non ne vuole sentir parlare: "No, dicono come farlo “più facile”. Il che sarebbe importante perché se mettessimo a punto un test che non necessita di un prelievo (per esempio un test che usa la saliva che il paziente può autonomamente sputare in una provetta) sarebbe un notevole passo avanti". Cala il sipario.
Ora Palù asfalta Crisanti: "È un esperto di zanzare”. Il maestro ridicolizza il suo allievo in televisione. E ancora: “Non è un virologo, non ha mai pubblicato un volume di virologia”. Valentina Dardari, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. Il professor Giorgio Palù non ha usato mezzi termini nel definire il suo allievo Andrea Crisanti: “È entomologo, un esperto di zanzare”. Da quando è iniziata la pandemia siamo stati abituati a conoscere medici, esperti e professionisti di cui prima non sapevamo neanche l’esistenza. Ospiti di trasmissioni, dibattiti e talk-show, hanno detto la loro, spesso andando uno contro l’altro, sul coronavirus e facendo previsioni sul futuro.
Palù "Crisanti è un esperto di zanzare". Uno di questi è Andrea Crisanti, professore ordinario di microbiologia all'Università di Padova, che qualche giorno fa, ospite in una trasmissione, ha evocato il lockdown per Natale, mostrandosi preoccupato per la curva epidemiologica delle ultime settimane Naturalmente scatenando il panico tra tutta la popolazione, e tra albergatori, ristoratori, e attività che grazie al periodo natalizio sperano di guadagnare qualche euro. "Credo che un lockdown a Natale sia nell'ordine delle cose: si potrebbe resettare il sistema, abbassare la trasmissione del virus e aumentare il contact tracing. Così come siamo il sistema è saturo" aveva detto. Durante una intervista al Corriere aveva poi parlato di un reset di tre settimane per poter riportare la situazione a un livello sostenibile. E anche dopo questa affermazione non sono mancate le polemiche. Adesso è il suo “maestro” Giorgio Palù, professore di Neuroscienze all'Università di Philadelphia e presidente della Società europea di Viro logia, a chiarire le cose, almeno sul ruolo di Crisanti, suo allievo, chiamato da Londra. Palù ha precisato che Crisanti non è un virologo ma un entomologo, ovvero un esperto di zanzare. Come già aveva sottolineato il professor Alberto Zangrillo, primario dela San Raffaele, a luglio. Alla trasmissione "Primus inter pares" su Tv7 Group, il professore ha spiegato: “ Crisanti è un mio allievo. Nel senso che accademicamente l'ho chiamato io da Londra. Non è un virologo. Non ha mai pubblicato un lavoro di virologia. Negli ultimi dieci anni non ne ha mai pubblicato neanche uno di microbiologia. Ma è un esperto di zanzare, come entomologo”. Confessando di aver avuto anche una certa difficoltà a chiamarlo.
Il passaggio di testimone. A ottobre dello scorso anno ha ceduto il posto a Crisanti, alla guida del Dipartimento di Medicina Molecolare all'Università di Padova, quando ancora non vi era l’idea di una possibile pandemia. Ai tempi Palù parlava così di Crisanti: “C'era bisogno di un sostituto e l'abbiamo trovato in Andrea Crisanti, una figura di primo piano: medico, parassitologo, con una formazione internazionale. La parassitologia sarà la dimensione del futuro: pensiamo ai cambiamenti climatici, ai nuovi parassiti che si vanno diffondendo e ai cosiddetti vettori, gli insetti che trasmettono alcune malattie. Ad esempio la zanzara tigre è vettore di zika, dengue, chikungunya e febbre gialla”. Se si cercano notizie di Crisanti online, si legge che “è noto soprattutto per la ricerca e lo sviluppo di zanzare geneticamente modificate, con l'obiettivo di interferire con il loro tasso riproduttivo e la capacità di trasmettere malattie infettive come la malaria”, e anche le pubblicazioni da lui fatte sono inerenti a ciò.
Crisanti lancia l'allarme contagi: "Si è sbriciolato il sistema di controllo". Campo sicuramente importante, ma non abbastanza da dare sentenze sulla pandemia in corso o evocare chiusure totali. Il professore di Philadelphia ha tenuto a precisare: “è ora di finirla con questo bollettino di guerra dei contagiati. Chiamiamoli positivi, anche perché non sappiamo se sono contagiosi oppure no”. Parlando dei dati ufficiali ha affermato che questi “dicono che il 95% dei positivi è asintomatico. Ciò rende del tutto irrazionale e non scientifico voler inseguire gli asintomatici puntando al contagio zero tramite i tamponi molecolari”. Decisamente più in linea con l'infettivologo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova e componente della task force Covid-19 della Regione Liguria, che con Crisanti.
Zangrillo attacca Galli in diretta: "Mi denunci e la chiudiamo qua". Il prorettore dell’Università San Raffaele replica agli attacchi del direttore del dipartimento Malattie infettive del Sacco: "Questo accusare senza mai fare chiaramente il nome è forse figlio della sua antica militanza sessantottina di cui si fa vanto". Fabio Franchini, Martedì 27/10/2020 su Il Giornale. Ancora scintille all’interno della comunità scientifica, ancora scintille tra virologi. L’ultimo scontro tra professori è arrivato questa mattina durante la messa in onda de L’aria che tira su La7. In studio il co-conduttore “d’emergenza” David Parenzo, in collegamento da casa Myrta Merlino (per la positività al Covid di un autore del programma) e in collegamento dall’ospedale Alberto Zangrillo. Il primario dell'unità di Anestesia e rianimazione generale del San Raffaele, dopo aver commentato l’ultimo Dpcm varato dal governo Conte – "Di solito non commento l’azione del legislatore, ma ritengo apprezzabile la gradualità dell’intervento che consente a tutti, in primis al Comitato tecnico scientifico e a chi deve decidere, di prendere provvedimenti coerenti e proporzionate alla realtà che stiamo osservando" – si è tolto qualche sassolino dalle scarpe. Tutto nasce da una domanda di Myrta Merlino, che ha chiesto un parere al prorettore dell’Università San Raffaele circa le parole del collega Massimo Galli sulla seconda ondata (il direttore del dipartimento di Malattie infettive del Sacco di Milano ha infatti parlato di “folle estate del liberi tutti”) e sulla divisione degli esperti – come Ricciardi, Brusaferro e lo stesso Galli da un lato e Bassetti, Palù e proprio Zangrillo dall’altro –in "allarmisti" e "tranquillizzatori". Ecco, queste le parole di Zangrillo: "Mi dispiace questa divisione, ma se proprio vogliamo banalizzare mi viene da dire che ci dividiamo in pessimisti e ottimisti; questi ultimi, secondo me, hanno un contatto più diretto con la realtà clinica. L’importante è affrontare la pandemia con tranquillità, organizzazione e responsabilità. E credo che tutti noi stiamo facendo del nostro meglio cooperando con le regioni di riferimento per mantenere la situazione sotto controllo". Dunque, l’affondo nei confronti di Galli: "Per quanto riguarda la mia persona, voglio fugare ogni dubbio: a me dispiace che il prefessor Galli trovi sempre il tempo per accusarmi velatamente e non. Io questo tempo non ce l’ho e ho sempre cercato di essere sempre molto rispettoso, però gli do un consiglio: questo accusare senza mai fare chiaramente il nome è forse figlio della sua antica militanza sessantottina di cui si fa vanto; allora il nemico veniva additato senza nominarlo. Lui ha un modo molto semplice per risolvere il suo problema ed è quello di presentare una denuncia alla procura della Repubblica contro il professor Alberto Zangrillo. Io non l’ho mai nominato né accusato. Chiudiamola qua e parliamo di cose serie...".
Da liberoquotidiano.it il 27 ottobre 2020. Lo scontro tra virologi continua. Durissimo. Siamo a L'aria che tira, il programma in onda su La7, condotto in tandem da David Parenzo e Myrta Merlino. Il primo ospite in collegamento era Massimo Galli, che ha nuovamente invocato misure più restrittive e tratteggiato scenari catastrofici sull'andamento del coronavirus. Galli, per inciso, ha aggiunto che bisogna agire anche a costo di fare ulteriore danno all'economia. Tesi che però vengono rigettate, in toto, da Alberto Zangrillo, protagonista di un intervento successivo. In cui ha picchiato durissimo. "Credo che sia apprezzabile una gradualità d'intervento che consenta al CTS di prendere misure coerenti e proporzionate alla realtà che stiamo attraversando - premette -. Quelli che sono più ottimisti, che hanno dimostrato meno enfatizzazione in termine catastrofista sono coloro che hanno un contatto più diretto con la realtà clinica", ha premesso il medico del San Raffaele. Dunque, l'affondo contro Massimo Galli. Durissimo. "Galli? Ha un'antica militanza sessantottina di cui si fa vanto. Gli do un consiglio: mi denunci, e chiudiamola qua". Dunque, Zangrillo ha tratteggiato uno scenario meno disastroso per quel che riguarda l'emergenza pandemiaca. "I ricoveri in terapia intensiva sono una netta minoranza. Il 65% delle persone che si presentano nei nostri Pronto Soccorsi viene dimesso entro le 9 ore". E ancora: "Forse la mia età non più verde mi permette di raccontare la verità senza eccedere né nell'ottimismo né nel catastrofismo. La realtà che osservo è quella di una situazione ben gestita dalle regioni di riferimento in cui si sarebbe potuto fare meglio e di più sul territorio", ha concluso Zangrillo. E ogni riferimento a Massimo Galli non è assolutamente casuale.
Zangrillo fulmina Galli: «Un ex-sessantottino: e se ne vanta pure. Mi denunci e finiamola qui». Bianca Conte martedì 27 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Zangrillo contro Galli: rissa a distanza in tv. Dome mesi di sfilate di virologi in tv, ora è rissa. Del resto, era quasi inevitabile: tante personalità a confronto, spesso attestati su posizioni a dir poco divergenti, non potevano che arrivare allo scontro. E scontro è stato: in diretta dallo studio de L’aria che tira, il programma in onda su La7, condotto in tandem da David Parenzo e Myrta Merlino.
Zangrillo contro Galli: rissa a distanza in tv. La tensione corre sui media da settimane. Con un esperto, nello specifico il professor Galli, ospite a sua volta in collegamento, e tornato sempre da La 7 ja ribadire la necessità di misure più restrittive, motivate dal drammatico andamento dell’epidemia registrato anche negli ultimi giorni. e tratteggiato scenari catastrofici sull’andamento del coronavirus. Galli, per inciso, ultimamente ha anche ulteriormente inasprito le sue posizioni, rilanciando, ancora stamattina, l’idea della necessità di agire tempestivamente, «anche a costo di fare ulteriore danno all’economia». Una tesi bocciata e rispedita al mittente dal collega del San Raffaele, Alberto Zangrillo.
Zangrillo si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Il quale, in diretta dal talk condotto da remoto dalla Merlino e in studio da David Parenzo, replica picchiando durissimo. Prima dicendo: «Credo che sia apprezzabile una gradualità d’intervento che consenta al Cts di prendere misure coerenti e proporzionate alla realtà che stiamo attraversando – premette – Zangrillo. Quelli che sono più ottimisti. Che hanno dimostrato meno enfatizzazione in termine catastrofista, sono coloro che hanno un contatto più diretto con la realtà clinica». E qui, il prof assesta una prima bordata. Poi, non contento, a stretto giro aggiunge anche più seccamente: «Va detto, inoltre, che quello che noi stiamo vivendo e narrando è qualcosa che appartiene non solo all’Italia, ma all’Europa e al mondo. L’importante, allora, è affrontarlo in modo tranquillo, organizzato e responsabile».
Il collega Galli? «Un ex-sessantottino: e se ne vanta pure». L’aria che tira è più che surriscaldata. E infatti, di lì a poco, il medico del San Raffaele prosegue: «Tutti noi stiamo facendo del nostro meglio cooperando con le regioni di riferimento per mantenere una situazione che, per quanto di pressione, deve rimanere sotto controllo. Detto questo, per quanto concerne la mia persona e quello che è stato detto ieri sul mio conto, a me dispiace. Noto però che il professor Galli trova sempre tempo e modo di accusarmi velatamente, e nemmeno troppo velatamente… Io questo tempo non lo trovo. E anzi, ho sempre cercato di essere rispettoso nei suoi confronti». A questo punto, però inverte la rotta, quantomeno dal punto di vista dialettico.
«Galli può risolvere il suo problema: Mi denunci e finiamola». E dà al collega un consiglio “polemico”: «Questo accusare senza mai fare chiaramente il nome – tuona Zangrillo contro Galli – è probabilmente figlio della sua antica militanza sessantottina di cui lui si fa vanto. Il nemico veniva additato, senza nominarlo. Ma il professor Galli ha un modo molto semplice di risolvere il suo problema: fa una denuncia contro di me alla Procura della Repubblica, e la finiamo qua»… Poi dopo la guerra – almeno quella annunciata di querele e marche bollate – sul tema epidemia Zangrillo prova a tratteggiare uno scenario meno bellicoso di altri. E aggiornando sulla situazione dal suo osservatorio, dichiara: «I ricoveri in terapia intensiva sono una netta minoranza. Il 65% delle persone che si presentano nei nostri Pronto Soccorsi viene dimesso entro le 9 ore».
Ogni riferimento è puramente casuale? La conclusione, infine, non può che essere esplosiva e riaccendere la micca della discussione. «Forse la mia età non più verde – chiosa Zangrillo – mi permette di raccontare la verità senza eccedere né nell’ottimismo né nel catastrofismo. La realtà che osservo è quella di una situazione ben gestita dalle regioni di riferimento in cui si sarebbe potuto fare meglio e di più sul territorio». E ogni riferimento al ruolo del collega con cui sta duellando in tv è da considerarsi puramente casuale. Oppure no?
Massimo Galli contro Zangrillo: "Denunciarlo? Non posso, non esiste il reato di negazionismo in Italia". Libero Quotidiano il 28 ottobre 2020. Serrato botta e risposta tra Alberto Zangrillo e Massimo Galli, entrambi massimi esperti di coronavirus. I due medici, uno responsabile del reparto di malattie infettive del Sacco di Milano, l'altro prorettore del San Raffaele, sono al centro dell'ennesimo scontro mediatico sul Covid. Diverse, infatti, le loro posizioni sull'argomento. "Il professor Galli mi accusa velatamente, e nemmeno troppo. Mi denunci", ha detto Zangrillo ieri 27 ottobre a L'Aria che Tira. Galli, infatti, in un'altra occasione aveva parlato di una folle estate di liberi tutti, senza mai nominare il medico di Berlusconi, che però a maggio aveva definito il virus "clinicamente morto". Immediata la replica del primario del Sacco: "Denunciarlo? Non posso - ha detto la stessa sera a Cartabianca, su Rai3 -. Non posso querelarlo perché il reato di negazionismo e riduzionismo non esiste in questo Paese. Forse per fortuna". Aggiungendo: "Ciascuno è responsabile di quello che dice e delle basi scientifiche su cui parla. Non mi voglio iscrivere tra coloro che hanno sottovalutato la cosa neanche vagamente".
Alberto Zangrillo a Non è l'Arena: "Perché sono rimasto in silenzio", lezione ai colleghi che lo attaccano. Libero Quotidiano il 18 ottobre 2020. “Da che cosa è dettato il suo silenzio delle ultime settimane? Dallo scontro con i colleghi?”. A Non è l’Arena Massimo Giletti ha incalzato Alberto Zangrillo, che non si è affatto tirato indietro in diretta su La7. “Ho continuato a lavorare - ha risposto il medico di Silvio Berlusconi, tacciato di essere un "negazionista" in maniera insensata - ho cercato di non sovraespormi. Ho sentito la necessità di tutelarmi, cercando di fare una fotografia della realtà e di dare sempre meno spazio a delle previsioni che rischiano a volte di essere disattese”. Poi Zangrillo ha fatto il punto sull’attuale situazione epidemiologica dell’Italia: “Siamo di fronte a un numero di contagiati molto elevato, personalmente cerco di affrontarlo con i miei collaboratori con freddezza, lucida analisi del dato e soprattutto senza spingersi in considerazioni che rischiano di terrorizzate e quindi di rovinare un quadro che è difficilissimo da organizzare”. Infine Zangrillo ha sottolineato l’importanza di fornire informazioni corrette ai potenziali malati o a coloro i quali temono di diventarlo: “Se non vengono gestiti a casa il più possibile, questi si presentano tutti in pronto soccorso e così non ce la facciamo. Su 100 pazienti almeno il 50 per cento potrebbe ricevere assistenza domiciliare”.
Non è l'Arena, cannonata di Alberto Zangrillo contro Massimo Galli: "Che brutta roba...", la vendetta. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2020. A Non è l'Arena di Massimo Giletti sale in cattedra Alberto Zangrillo. Il medico del Cav è ospite in collegamento con La7 nella puntata in onda domenica 18 ottobre, proprio quando il governo di Giuseppe Conte presenta l'ultimo dpcm. un testo che Zangrillo, di fatto, promuove: "Un richiamo autorevole al senso di responsabilità", spiega. Secondo Zangrillo, insomma, è giusto far leva sulla responsabilità individuale dei cittadini: il medico si sfila dal coro di critiche di chi sostiene che sia stato fatto troppo poco. Ma nel corso del suo intervento, Zangrillo trova tempo e modo per assestare un colpo a Massimo Galli, l'infettivologo del Sacco di Milano al centro di numerose polemiche, anche e soprattutto con i colleghi, sul coronavirus. Come è noto, Galli segue una linea decisamente allarmistica. Ma tant'è, Zangrillo punta il dito: "Galli? Attaccare i colleghi non è un bell'esercizio", commenta sornione.
Zangrillo dà una lezione a Galli: "Non è un bell'esercizio..." Alberto Zangrillo, ospite di Massimo Giletti, ha ribattuto alle accuse ai colleghi mosse da Massimo Galli e fatto il punto sull'attuale situazione dei contagi da coronavirus. Francesca Galici, Lunedì 19/10/2020 su Il Giornale. La pandemia ci ha fatto scoprire le guerre intestine tra i medici. Nulla di nuovo sotto il sole per chi conosce l'ambiente scientifico e sa che al suo interno i coltelli volano con frequenza. Il coronavirus ha reso tutto questo pubblico, supportato anche dai media che, nel tentativo di fare informazione, cercano notizie, rassicurazioni e delucidazioni dagli esperti, com'è giusto che sia. Ma i medici sono tra loro divisi e così si può assistere anche a casi come quello che nelle ultime ore ha visto coinvolto Alberto Zangrillo, primario dell'unità operativa di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell'ospedale San Raffaele di Milano, e Massimo Galli, primario del reparto di malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano. Il professor Alberto Zangrillo è stato ieri ospite di Massimo Giletti nel suo programma Non l'Arena per commentare e analizzare i recenti dati del contagio e fare il punto su quella che a tutti gli effetti sembra essere la seconda, temuta, ondata. Nel corso del suo intervento, però, il primario del San Raffaele ha trovato anche il tempo di rispondere con fermezza al primario del Sacco. I due sono "schierati" su posizioni diametralmente opposte. Massimo Galli, infatti, sostiene da sempre la linea più dura e non manca di lanciare cannonate verso alcuni colleghi, colpevoli secondo lui di una "comunicazione minimizzante", con parole "eccessivamente rassicuranti o addirittura di negazione". Un attacco frontale seguito da un appello: "Se non andiamo tutti nella stessa direzione, andremo a sbattere". E la direzione da seguire si ipotizza sia la sua. "Non è un bell’esercizio attaccare i colleghi. Io non ho mai affermato nulla contro qualcuno, non parlo nemmeno più e mi difendo con la mia azione quotidiana che non devo giustificare", ha replicato Alberto Zangrillo a Non è l'arena. Il primario di rianimazione del San Raffaele ha difeso il sio lavoro e la sua linea di pensiero: "Il mio è un semplice tentativo di enunciare concetti fondamentali che serviranno a vincere contro la manifestazione clinica di questa epidemia, a cominciare dal rispetto assoluto delle regole". Alberto Zangrillo, in collegamento con Massimo Giletti, promuove l'ultimo Dpcm di Giuseppe Conte, considerandolo "un richiamo autorevole al senso di responsabilità". Sul nuovo scenario italiano, poi, il primario ha le idee molto chiare: "Se il sistema sanitario globale è composto da una serie di entità che non danno tutte il massimo, i malati o coloro che temono di diventare malati si presentano tutti in pronto soccorso e noi allora non ce lo facciamo. Nel mio ospedale, su 101 pazienti almeno il 50% potrebbero ricevere adeguate cure domiciliari".
Galli occupa le tv ma non accetta domande. Nicola Porro, 11 ottobre 2020 su Nicolaporro.it. Il professor Massimo Galli ha detto ai microfoni della Zanzara che sarei un “energumeno”. Questo perché mi sarei permesso qualche sera fa a Stasera Italia di porgli alcune semplici domande; tra queste se fosse vero che la quasi totalità dei positivi (circa il 95%) oggi siano asintomatici o “debolmente positivi”. Una tesi che il professore ha subito liquidato come “balla” per poi smentirsi il giorno dopo riportando lo stesso dato nell’ennesima ospitata televisiva. La mia video-risposta. Nicola Porro, 11 ottobre 2020
Alberto Zangrillo, appello a Massimo Galli: "Basta farci la guerra, mi provoca tanta amarezza". Libero Quotidiano il 31 ottobre 2020. Alberto Zangrillo sotterra l'ascia di guerra. Il primario di Terapia intensiva del San Raffaele di Milano ha deciso di lanciare un appello a Massimo Galli: "Non dobbiamo farci la guerra". I due da tempo sono al centro di un botta e risposta incessante con tanto di accuse reciproche. L'ultima? Il primario del reparto di Malattie Infettive dell'ospedale Sacco di Milano aveva dato al collega del "negazionista", dando vita a una querelle con tanto di minacce di denuncia. Nella puntata Accordi e Disaccordi, il programma in onda sul Nove condotto da Andrea Scanzi e Luca Sommi, Zangrillo ha fatto un passo indietro: "È una cosa che mi dispiace tantissimo, mi provoca tanta amarezza e mi dà tanti problemi. Immagino che tutti leggiate, sul web ognuno può dire la sua e a volte si va oltre. Io ho cercato di difendere la mia posizione. Sin dall'inizio si è pensato di dire che io guardavo il mio alberello e trascuravo la protesta, mi sono indispettito". Capitolo chiuso dunque anche se Galli deve ancora replicare.
Massimo Galli, indiscreto: ecco chi è disperato per il suo ritiro a tempo dalla televisione. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'1 novembre 2020. Addio tv. Il professor Massimo Galli, primario dell’ospedale Sacco di Milano e prezzemolino televisivo al tempo del coronavirus, non presenzierà più nei talk show. Ve ne avevamo già dato conto: addio "almeno per una settimana". Chiude la porta e dice bye bye. “Dovrò declinare gli inviti a partecipare a trasmissioni televisive per almeno una settimana, da lunedì 2 novembre in poi. La situazione non mi lascia più margini di tempo e ho una quantità di cose urgenti di cui dovermi occupare”, scrive Galli su Twitter. Esce di scena all’improvviso. Senza troppe parole. Ora, resta da vedere se riuscirà a rispettare il fioretto. La notizia fa il giro della Rete. Ma eccoci a quello che non sapevate: la comunicazione di mister Galli ha lasciato l’amaro in bocca a molti autori tv. Già, Galli "funziona", fa share. Insomma, per alcuni sarà una settimana televisiva meno semplice rispetto alle ultime.
Galli, virologo sessantottino che "okkupa" giornali e tv. Ecco chi è Massimo Galli, responsabile del reparto di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, con un passato nelle fila del movimento studentesco del '68. Francesco Curridori, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. “Io solitamente sto nel mio studio bunker e macino lavoro di vario tipo, sia chiaro, ma oggi sono già a 7/8 interviste”. È ciò che rivelava Massimo Galli, responsabile del reparto di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, in un’intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli nel maggio scorso. Da allora, a parte l’arrivo della seconda ondata di contagi da coronavirus, nulla sembra essere cambiato. L’infettivologo del Sacco che ha dedicata la prima parte della sua carriera a curare i malati di Hiv in sordina, ora continua a presidiare tutte le trasmissioni televisive, senza mai rinunciare agli annunci dal tono più che allarmistico. Intervenendo ad Agorà, ha chiarito che l’Italia si deve rassegnare. Ormai si tratta solo di capire "quando arriveremo alla situazione francese, non se vi arriveremo”. Insomma, secondo Galli il nostro Paese è destinato a vivere un secondo lockdown. E dai numerosissimi interventi pubblici delle ultime settimane, per Galli, la colpa di questa situazione è ovviamente degli italiani che, dopo tre mesi di quarantena, hanno vissuto una “folle estate del liberi tutti”, favoriti anche dai messaggi dei "negazionisti".
La lite tra Galli e Zangrillo. Tra questi, Galli annovera anche il professor Alberto Zangrillo, primario di anestesia e rianimazione dell'ospedale San Raffaele di Milano, che, differentemente da lui, tende a lanciare messaggi notevolmente più rassicuranti. Una diatriba che, negli ultimi giorni, si è riaccesa quando Zangrillo, ospite de L’Aria che tira, ha risposto a distanza alle continue insinuazioni del suo "antagonista": “Questo accusare senza mai fare chiaramente il nome è forse figlio della sua antica militanza sessantottina di cui si fa vanto; allora il nemico veniva additato senza nominarlo”.
Zangrillo attacca Galli in diretta: "Mi denunci e la chiudiamo qua". E ha aggiunto: “Lui ha un modo molto semplice per risolvere il suo problema ed è quello di presentare una denuncia alla procura della Repubblica contro il professor Alberto Zangrillo. Io non l’ho mai nominato né accusato”. Galli, ospite di Carta Bianca, ha replicato: "Non posso querelarlo perché il reato di negazionismo e riduzionismo non esiste in questo Paese. Forse per fortuna…”. E, non pago di questo, ha aggiunto: “Ciascuno è responsabile di quello che dice e delle basi scientifiche su cui parla. Se lui ritiene di essere stato attaccato, è un problema suo. Il mio problema non è occuparmi di questa persona o di altri che hanno passato l’estate a dire cose che puntualmente non si sono avverate”. Il classico ragionamento da sessantottino: o la pensi come me o sei contro di me. D’altronde, sempre alla Lucarelli, aveva confessato che, ai tempi dell’università, era “uno dei responsabili - per quanto si possa essere responsabili a 20 anni - del Movimento studentesco di medicina, alla Statale di Milano. Nasco sessantottino e non lo rinnego”. Ma non solo. “È ancora il mio orientamento, il “come vedo le cose”, aveva sottolineato con notevole orgoglio.
L'opinione degli esperti sulla diatriba Galli-Zangrillo. Sia Galli sia Zangrillo sono vittime della sovraesposizione mediatica di cui sono stati protagonisti un po’ tutti i virologi e gli scienziati da quando è scoppiata la pandemia. “Sicuramente dovrebbero stare più in ospedale, ma in una fase come questa è anche importante informare l’opinione pubblica senza eccessi. Personalmente non mi infastidisce il loro presenzialismo, ma di più il fatto che diano messaggi troppo contrastanti”, commenta l’esperto di comunicazione Klaus Davi che aggiunge: “Quando litigavano le soubrette come la Carrà e la Goggi o lady Gaga e Madonna ci facevamo una risata. Quando litigano loro sono cavoli perché disorientano l’opinione pubblica e questo è un problema”. Davi, entrando nel merito della disputa tra Galli e Zangrillo, dice: “Le diatribe tra scienziati ci sono sempre state. In questo caso ci sono due scuole di pensiero diverse: una più allarmista e una che tende più a ridimensionare. Entrambe, però, rispondono a due scuole di pensiero scientifiche perché pure Zangrillo parla in base ai casi che sta monitorando, non si inventa le cose”. Antonio Cassone, già Capo del Dipartimento Malattie infettive, parassitarie ed immuno-mediate dell'Iss, a differenza di molti suoi colleghi ha sempre privilegiato la comunicazione strettamente scientifica, e quando ha scritto articoli e commenti giornalistici lo ha fatto su materia di specifica sua competenza. “Il confronto quando è fatto nelle sedi opportune come le riviste scientifiche o i convegni fa bene alla scienza, i battibecchi in pubblico in tivù o in radio non fanno bene né alla scienza né alla medicina. I media – spiega - non dovrebbero far vedere, talvolta stimolandole certe sceneggiate fra esperti perché così si disorienta in maniera drammatica il pubblico che, poi, magari pensa che si dicano solo sciocchezze personalistiche e non segue i dettami corretti”. E poi aggiunge: “Ci sono esperti che studiano più il paziente ed esperti che studiano più il virus e ognuno dovrebbe parlare in base alle sue specifiche competenze”.
Nicola Porro contro Massimo Galli: "Il non necessario andrà tolto? detto da uno che militava nel movimento studentesco dovrebbe preoccupare". Libero Quotidiano il 18 ottobre 2020. Dopo la durissima battaglia in televisione della scorsa settimana, continua la "rissa" tra Nicola Porro e Massimo Galli, l'infettivologo del Sacco di Milano. Lo scontro ora va in scena su Twitter, si tratta in verità di un attacco unilaterale rivolto dal giornalista all'esperto. Nel mirino di Porro un'intervista di Galli al Corriere della Sera, in cui parlando dell'emergenza coronavirus e delle misure da adottare per contenerla ha affermato che "a breve il non necessario andrà tolto". Insomma, Galli come sempre si mostra pessimista. E Porro passa all'attacco. "Galli: a breve il non necessario andrà tolto, dice oggi il noto Virostar - premette il giornalista su Twitter -. Detto da uno che militava nel movimento studentesco e che considerava un pericolo le amministrative, dovrebbe preoccupare", picchia durissimo. Il doppio riferimento di Porro è alla militanza in gioventù di Galli e all'appello pre-voto a rimandare le elezioni. E la guerra continua.
Massimo Clementi contro Massimo Galli: "Quando lo vedo in tv cambio canale, non so perché dice quel che dice sul coronavirus". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2020. "Quando vedo Massimo Galli in tv cambio canale". Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia del San Raffaele di Milano, intervistato da Annalisa Chirico sgancia la bomba sul collega dell'ospedale Sacco di Milano. Galli incarna l'ala più pessimista ("terrorista", sostiene qualcuno) della lotta al coronavirus. mentre Clementi si sforza di tenere una linea prudente ma razionale e per certi versi ottimistica. "Io sono stato per lungo tempo amico di Massimo - spiega alla Chirico -, ho condiviso con lui anche le vacanze, ma negli ultimi tempi ho preso le distanze perché non trovo che il suo pensiero sia corrispondente alla realtà: essendo lui una persona intelligente mi domando perché dica ciò che dice". Il riferimento è anche alla clamorosa rissa in diretta tra Galli e Nicola Porro a Stasera Italia, con il professore che rintuzzato dal conduttore di Quarta repubblica ha anche minacciato di togliersi l'auricolare e lasciare il collegamento.
Dagospia il 10 ottobre 2020. Da ''la Zanzara''. “Qualche mio collega dice che devo informarmi di più. Se qualcuno si vuole ostinare a difendere alcuni interessi che ormai sono ben definiti e ben delineati…Come si fa a dire che non siamo in un problema serio? Qualcuno lo fa, anche tra i miei colleghi, ahimè”. A chi sta pensando, a Bassetti?: “Lo avete detto voi…”. Così il professor Massimo Galli, primario del reparto di Malattie Infettive al Sacco di Milano, a La Zanzara su Radio 24. Ancora: “Nicola Porro mi ha dato del poveraccio? La madre dei poveri di spirito è sempre molto fertile. Ma poi poveraccio de che? Quello che fa impazzire certe persone è che io non devo presentarmi in politica, non devo promuovere libri, né ottenere maggiori consulenze da questa o quella casa farmaceutica. Sono cose che non mi appartengono”. Poi definisce il conduttore di Mediaset “un energumeno”.
Lei chiuderebbe il campionato di calcio?: “Mi darebbe un grandissimo dolore, ma per come stanno gestendo le cose siamo lì. Alla fine senza voler per forza demonizzare i giovani, era il caso darsi una regolata ed evitassero il più possibile di esporsi all’esterno. Le squadre hanno subito infezioni prese all’esterno? Siamo qui a rischiare di non riuscire a imbastire una partita. E non è divertente lo spettacolo dei superstiti”.
Lei cambierebbe il protocollo? Con un positivo cosa deve succedere?: “Con un positivo per me bisogna mettere tutti gli altri in isolamento cautelare per almeno una settimana, poi fare un tampone e rimandarli a giocare. E ognuno non deve essere in contatto con gli altri, perché poi se si ripositivizza uno riparte la quarantena…”. “L’errore colossale – dice ancora - è stato incrociare tutto. Bisognava fare un blocco di campionato, un blocco di Champions, un blocco di nazionali, poi un altro blocco di campionato”.
Alberto Zangrillo, il professore che lo equiparò a Norimberga si scusa: "Un equivoco, non era mia intenzione mettere in discussione la professionalità e l'onorabilità". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2020. Retromarcia del professore che ieri, sabato 10 ottobre, aveva insultato Alberto Zangrillo e i suoi colleghi. La frase incriminata è quella di Michele Antonio Fino, associato di Diritto romano e Diritti dell’antichità all’Università di scienze enogastronomiche di Pollenzo che sui social scriveva: "Difficile non associare gente come Tarro, Gismondo, Zangrillo e Bassetti a un luogo. Tipo Norimberga". Il riferimento era chiaramente al tribunale in cui vennero impiccati i nazisti per i crimini commessi. Dopo le dure parole del direttore di Terapia Intensiva del San Raffaele di Milano, che aveva addirittura minacciato querela, ecco che Fino fa un passo indietro: "Nel mio post menzionavo i dottori Tarro, Zangrillo, Bassetti e Gismondo. E, quando ho appreso dalle agenzie di stampa che il dottor Zangrillo ha ravvisato nelle mie parole una lesione alla sua onorabilità, ho prontamente rimosso il post. Tuttavia, proprio perché non era in alcun modo mia intenzione mettere in discussione la professionalità e l’onorabilità delle persone che ho menzionato. Né tantomeno suggerire un parallelo tra il loro ruolo e quello di chi a Norimberga venne giudicato, sento la necessità di formulare qui, nel modo più ampio e incondizionato, le mie scuse". E ancora: "Ho certamente scelto parole che si sono prestate ad un equivoco e di ciò mi dispiace, nei confronti dei dottori Tarro, Bassetti, Gismondo e Zangrillo. Come nei confronti di chiunque abbia letto il mio post e ne abbia potuto trarre deduzioni sul loro conto assolutamente non da me volute". Insomma, la toppa sembra peggio del buco.
Coronavirus, il mistero della letalità che non scende. In Italia al 13%, a Wuhan era il 3%. Elena Dusi il 12 maggio 2020 su La Repubblica. I dati del resto del mondo sono in linea con il nostro Paese. Nonostante si sia alleggerita la situazione delle terapie intensive e qualche farmaco abbia dato segnali di efficacia, il rapporto fra decessi e contagiati rimane alto ovunque. I medici: “Miglioramenti nelle ultime settimane”. Purtroppo avevamo ragione noi. Erano i primi giorni dell'epidemia in Italia. Ci chiedevamo esterrefatti perché la letalità del coronavirus da noi fosse al 13% e in Cina del 3%. La stessa Organizzazione mondiale della sanità aveva avallato la percentuale cinese. Qual era dunque il problema del "malato Italia"? Popolazione anziana e terapie intensive piene sembravano non bastare, come spiegazioni. Abbiamo tirato in ballo l'ipotesi di un ceppo virale…
TG2 13:00 servizio n. 9 del giorno 15/05/2020. Prof Massimo Andreoni, dir. scientifico società italiana malattie infettive: «Vuol dire che in Italia abbiamo effettivamente selezionato pazienti più fragili, più gravi, perché abbiamo fatto pochi tamponi, quindi non abbiamo inserito in questo numero anche i pazienti poco sintomatici o del tutto asintomatici».
Insomma: più tamponi, mortalità più bassa.
Coronavirus, Italia record di contagi in Europa, Conte: “Perché controlliamo meglio”. Tiziana Mancinelli il 23/02/2020 su quintaepoca.it. Italia maglia nera in Europa per il numero di contagiati di coronavirus. I casi confermati in questo ore sono salti a 79, dislocati in 5 regioni: 54 in Lombardia, quella più colpita, 17 in Veneto, 2 in Emilia Romagna, 2 nel Lazio e 1 in Piemonte. La rilevazione della temperatura non serve a nulla, solo “il tampone può rivelare l’effettiva contaminazione da coronavirus”. La verità intuita da tanti italiani in questi giorni, è stata finalmente pronunciata. Si può essere postivi al coronavirus anche senza sintomi influenzali. Lo ammette, infine, candidamente anche il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per sottolineare che se l’Italia è il paese in Europa con più contagi è solo perché “i controlli sono stati più accurati, solo con il tampone si può rilevare il contagio. E noi ne stiamo facendo a centinaia“. Ora in molti si chiederanno che grado di sicurezza abbia, dunque, assicurato la rilevazione della temperatura agli aeroporti e ai porti. La scoperta del paziente zero che ha dato il via ai contagi, tuttora non identificato, contribuirà sicuramente a far luce anche su questo aspetto. Intanto Conte, alla conferenza stampa presso la sede della Protezione Civile, al termine di un consiglio dei ministri straordinario che ha condotto all’adozione di un decreto per il contenimento e la gestione dell’emergenza sanitaria, espone la sua tesi: “Molti si sono chiesti, come mai così tanti casi scoperti tutti in un tratto? Abbiamo adottato una linea di massima precauzione, siamo nell’ambito dei paesi occidentali dove gli standard delle prestazioni sanitarie della tutela della salute sono più elevate – spiega –Siamo il paese che ha adottato misure più garantiste più efficaci di massima sicurezza. Ricorderete che abbiamo subito disposto l’interdizione del traffico aereo “da e per” la Cina e il giorno dopo, siamo agli inizio febbraio, abbiamo dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Da allora abbiamo effettuato rigorosi controlli che nascondono un lavoro puntiglioso e meticoloso di verifiche a cura di personale sanitario che da noi è eccellente. Questi controlli, con questa linea di rigore e di massima cautela, ci consente oggi di svelare questi casi di contagi. È l’accuratezza di questi controlli che ci porta oggi a registrare questi numeri. Stiamo parlando di una sintomatologia che facilmente si confonde con una banale influenza, seppur particolarmente debilitante, o con un principio di polmonite. Solo con un controllo effettuato con il tampone è possibile riscontrare se una persona sia positiva al coronavirus o no. Stiamo effettuando centinaia e centinaia di tamponi, da qui il numero elevato di casi. Ora ci siamo resi conto di dover adottare misure di contenimento”. Ma la domanda principale, che potrebbe far luce veramente sulla gestione del rischio contagio nel Paese, ancora è sul tavolo senza risposta: “Chi sono i pazienti zero che hanno dato via al focolaio lombardo e a quelli che stanno spuntando in Italia?”
Coronavirus, perché si è diffuso in Italia e non in Europa.
Il presidente dell'ordine dei biologi spiega il perché del boom dei contagi in Italia rispetto agli altri paesi europei. Da notizie.virgilio.it il 25 febbraio 2020. Chi cerca, trova. È un po’ questo, in estrema sintesi, il pensiero dei virologi. Da Burioni alla Capua, i massimi esperti concordano nel dire che il contagio esploso in Italia sia frutto di tre fattori: test a tappeto, contagio negli ospedali e blocco dei voli dalla Cina. Fattori che hanno fatto del nostro Paese il primo per contagi e morti in Occidente. Ma perché in Europa la diffusione appare minima? In Francia, come riportato da La Repubblica, sono stati eseguiti 300 tamponi. In Italia, invece, si è arrivati a 3mila. Dato che molti di questi sono risultati poi ‘falsi positivi’, come nel caso del paziente di Sesto risultato negativo a un secondo test fatto all’ospedale San Raffaele di Milano, l’allarme è cresciuto. Di conseguenza, il panico e quindi l’intasamento delle strutture. Gli ospedali, presi d’assalto nei primi giorni, sono i luoghi in cui la trasmissione avviene più rapidamente. Ed è per questo motivo che in alcune zone, come in Piemonte, sono state installate delle tende all’esterno dei plessi, così da non concentrare in una stanza persone sospettate di contagio e pazienti accorsi in ospedale per altri motivi. Infine, i voli dalla Cina. Secondo Walter Ricciardi, medico dell’Oms, il blocco di quelli diretti si è rivelato un errore commesso dal governo, che contestualmente non ha impedito che i passeggeri facessero scalo in altri aeroporti per aggirare la misura. Seguire le indicazioni dell’Oms, contraria al blocco dei voli diretti, avrebbe permesso all’Italia di tenere traccia delle persone rientrate dal Paese di origine dell’infezione mettendole in quarantena.
Coronavirus poco diffuso in Europa: “Gli altri Paesi non lo cercano”. “Il coronavirus non è più grave di un’influenza. I nostri stessi morti erano ottuagenari o persone con malattie croniche di tipo cardiorespiratorio. Avrebbe potuto ucciderle anche un virus influenzale. Questa è la verità“. Così Vincenzo D’Anna, presidente dell’ordine nazionale dei biologi, ai microfoni della trasmissione ‘I Lunatici’ (Rai Radio2), che spiega il motivo della scarsa diffusione in Europa. “Nel continente non ci sono molti contagiati perché molte nazioni il virus non lo cercano“. “Mi aspetto che gli scienziati comincino a parlare – prosegue D’Anna -. Molti hanno paura di essere aggrediti, di essere tacciati come superficiali. Diciamoci la verità, non abbiamo degli scienziati molto coraggiosi in Italia. Mi auguro e spero che questa frenesia finisca, che la gente si cominci a rendere conto che contrarre il coronavirus è come contrarre un virus influenzale. Non possiamo sparare alle mosche con il cannone“. D’Anna quindi attacca gli scienziati, ma soprattutto i media “perché le brutte notizie sono sempre più gradite delle buone notizie, portano titoloni sui giornali. Bisognerebbe parlare alla gente in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia“. Le conseguenze economiche rischiano di essere gravissime. “La Borsa ieri ha bruciato circa 40 miliardi di euro. Ricchezza che se ne va. È tutto fermo, tutto paralizzato, per un virus che è poco più di un virus influenzale”. “Lasciamo stare la Cina. Lasciamo stare le smanie di mettere in quarantena migliaia e migliaia di persone, bisogna mettere in quarantena solo quelli per i quali esista un fondato sospetto di contagio. Ma si tratta sempre del contagio di un virus che ha una mortalità ancora più bassa di un virus influenzale”.
Alberto Zangrillo e virologi controcorrente scomunicati dal Pts: "Pericolose posizioni antiscientifiche". Libero Quotidiano il 23 luglio 2020. Un attacco ai virologi controcorrente. Alla vigilia dell'incontro sul "Covid-19 in Italia, tra informazione, scienza e diritti" organizzato da Matteo Salvini per lunedì 27 luglio in Senato, ecco che si scatena il putiferio. Proprio così perché presenti all'incontro saranno Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti, Maria Rita Gismondo, Giulio Tarro e tanti altri che non si sono fatti grandi problemi a raccontare la verità sul coronavirus. Ed è proprio contro di loro che si scatena la categoria. "Giammai si usi la scienza a fini elettorali", ammoniscono, secondo quanto riportato dal Giornale, i vertici del Patto trasversale per la scienza (Pts), che minacciano l'espulsione di chi aderirà al dibattito incriminato. Non tutti però cedono alla minaccia. Tra questi Massimo Clementi: "Sono sempre stato una persona libera e non ho necessità di suggeritori. Se questa mia partecipazione darà fastidio a qualcuno, mi dimetterò dal Pts, seguendo quanto già deciso pochi giorni orsono dal collega Matteo Bassetti". Ma nulla, al Pts poco importa: "No a iniziative in chiave chiaramente politica che vedano come guida o contributori soggetti che sono stati oggetto di querela o di diffida da parte del Pts, proprio per le pericolose posizioni antiscientifiche espresse durante l'epidemia". Intanto si attende lunedì prossimo con l'appuntamento confermato.
Convegno coi virologi in Senato. La scomunica su chi partecipa. Un incontro sul Covid-19 diventa il pretesto per l'anatema contro i medici non graditi alla sinistra. Nino Materi, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. L'immagine-fake da tempo circola sul web: l'«Album Virologi» con le «figurine Panini» di tutti i «campioni» (veri e presunti) che, dall'inizio del «campionato» Covid-19, sono in lizza per aggiudicarsi lo «scudetto» della visibilità mediatica. Per conquistare il trofeo, i presunti «esperti» non si fanno scrupolo di dire tutto e il contrario di tutto. Smentendosi reciprocamente. Gli italiani, ormai da mesi, assistono alle quotidiane «sfide» che hanno ottenuto come unico risultato far perdere credibilità alla scienza. La politica, per un certo periodo, è stata alla finestra, fidandosi dei «fuoriclasse» in camice bianco, ma poi, quando ha capito che pure tra medici e ricercatori regnava la confusione, ha iniziato anche lei a dire la sua; dividendosi in «squadre» e cominciando a «tifare» ognuno per il proprio «club» di appartenenza. Senza contare che già alcuni virologi che grazie al coronavirus sono diventati volti popolari, stanno già pensando di mettere a frutto la loro «celebrità» presentandosi alle prima possibile tornata elettorale. Per informazioni, rivolgersi all'epidemiologo Pierluigi Lopalco, novello candidato per il centrosinistra a Bari con la lista civica del presidente Michele Emiliano. Sta di fatto che ora perfino un convegno può trasformarsi in «derby». Emblematica l'aria da «ultrà» alla vigilia dell'incontro su «Covid-19 in Italia, tra informazione, scienza e diritti» organizzato da Matteo Salvini per lunedì 27 luglio in Senato. Risultato: rissa tra virologi di opposte fazioni. Roba da Daspo, più che da giuramento di Ippocrate. «Giammai si usi la scienza a fini elettorali», ammoniscono i capi della «curva» del Patto trasversale per la scienza (Pts), minacciando l'espulsione di chi aderirà al dibattito incriminato. E già fischiano le orecchie ai partecipanti: Armando Siri, Vittorio Sgarbi, Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti, Maria Rita Gismondo, Giulio Tarro, Massimo Clementi e molti altri. Alla «partita» era stato invitato pure Guido Silvestri che però, appena letti i nomi «Salvini» e «Sgarbi», si è messo in «fuori gioco». C'è però chi si rifiuta di sottostare al diktat in stile-Minculpop del Pts. Massimo Clementi, ad esempio, è andato giù duro: «Sono sempre stato una persona libera e non ho necessità di suggeritori. Se questa mia partecipazione darà fastidio a qualcuno, mi dimetterò dal Pts, seguendo quanto già deciso pochi giorni orsono dal collega Matteo Bassetti». Ma la dirigenza del «Patto» insiste: «No a iniziative in chiave chiaramente politica che vedano come guida o contributori soggetti che sono stati oggetto di querela o di diffida da parte del Pts, proprio per le pericolose posizioni antiscientifiche espresse durante l'epidemia».
CORONAVIRUS: LA BUFALA DEI TAMPONI. Lucio Leante il 05 marzo 2020 su L'Opinione. “Si trova quel che si cerca. Gli altri paesi europei hanno meno casi positivi che in Italia perché fanno meno tamponi”. In questa frase è racchiusa una grande bufala che corre da qualche settimana di bocca in bocca e viene diffusa da politici soprattutto di governo (ma anche, per malinteso “orgoglio nazionale”, dell’opposizione) e da giornalisti che non verificano - e si bevono allegramente - le balle diffuse dalla propaganda governativa. La bufala si è spinta fino a diffondere implicitamente il sospetto che il governo tedesco e quelli degli altri paesi europei, non facendo tamponi-test in proporzioni massicce - come invece farebbe il governo italiano sempre “all’avanguardia” - eviterebbero di mostrare le dimensioni reali dell’epidemia nei loro paesi e starebbero nascondendo la proverbiale “polvere sotto il tappeto”. All’origine della bufala troviamo il solito premier italiano Giuseppe Conte, che sin dai primi giorni dell’epidemia in Italia ha detto e ripetuto che in Italia sono stati trovati tantissimi casi di coronavirus perché, a differenza degli altri paesi europei, sono stati fatti “test di massa” per trovarlo.
E invece come si poteva leggere su “La Repubblica” del 3 marzo in una breve notizia della corrispondente dalla Germania Tonia Mastrobuoni: “La Germania ha eseguito 11mila test per il coronavirus soltanto nell’ultima settimana. Il dato è stato reso noto dall’Associazione federale delle casse sanitarie Kbv. Ed è un numero incontrovertibile - continua Mastrobuoni - che smentisce le bufale che continuano ad appestare il dibattito pubblico” (in Italia- è il sottinteso).
La stessa giornalista spiega poi che in Germania il sistema sanitario è misto, pubblico e privato ed è più difficile elaborare un dato complessivo dei tamponi i cui dati arrivano in ritardo perché non sono centralizzati. A radio radicale lo stesso 3 marzo Mastrobuoni ha aggiunto un dato: nella sola Baviera stanno effettuando 1200 test al giorno, per cui a conti fatti risulterà probabilmente che in Germania stanno effettuando molti più test che in Italia. Per la cronaca al 3 marzo i casi positivi riscontrati in Germania erano solo 223.
In Gran Bretagna secondo dati aggiornati al 2 marzo i test effettuati erano 13.525 con 40 positivi inclusi quattro inglesi sulla nave Diamond Princess.
In Francia, alla data del 3 marzo le autorità sanitarie francesi avevano effettuato 1.126 test, tra i quali 202 erano risultati positivi. Certamente molti meno che in Italia. Ma nella propaganda diffusa da governo e giornalisti distratti si nasconde il fatto che in Francia sin dall’inizio dell’epidemia si sono mandati in quarantena coloro che provenivano con voli diretti o indiretti e si sono fatti test solo sui pazienti sintomatici (come poi ha negli ultimi giorni deciso di fare lo stesso Istituto superiore di sanità italiano riconoscendo che in Italia ci sono troppi tamponi-test anche per ragioni propagandistiche.
Il governo sta cercando di mostrare che l’epidemia in Italia non è più grave che negli altri paesi europei, dove starebbero cercando di nascondere i veri dati. Così facendo cerca di attenuare le responsabilità del governo e del suo premier. Dai dati emerge infatti un fatto incontrovertibile: che laddove, come in Italia, il governo ha fatto la sciocchezza propagandistica (e in linea con l’antirazzismo ideologico della prima ora che diceva “abbracciate un cinese” e “dalli al fascioleghista che vuole le quarantene per i cinesi”) di bloccare i voli dalla Cina (privandosi della possibilità di controllare tutti coloro che di conseguenza avrebbero scelto voli indiretti), è scoppiata un’epidemia che al 4 marzo aveva fatto registrare 3.089 di contagiati (di cui 107 morti e 276 guariti). Laddove invece, come in Germania Inghilterra e Francia, quella stupidaggine non è stata fatta (e le autorità sanitarie hanno controllato con più ragionevolezza e meno propaganda gli arrivi diretti e indiretti e adottato le quarantene), siamo intorno a soli 200 casi positivi, come in Germania e Francia, e in Inghilterra solo 40. Una ragione ci sarà. Il governo italiano - in sostanza - nella sua prima fase propagandistica di antirazzismo ideologico (quando invece di contrastare il coronavirus si pretendeva di contrastare quello inesistente del razzismo e del fascioleghismo!) ha fatto “scappare i buoi” per cui, in seguito, ha dovuto inseguirli ed eseguire “tamponi di massa” (a oggi circa 25 mila) anche a tutti coloro che avevano avuto contatti con loro. Da quella sciagurata e dissennata scelta iniziale è poi derivata la tardiva e improvvisa decisione di “chiudere la stalla” accompagnata da drammatizzazioni e sovraesposizioni mediatiche personali del premier. I cosiddetti suoi “errori di comunicazione” sembrano in realtà un eufemismo che copre una cosciente linea propagandistica (e narcisista), che, a quanto pare, è l’ordinario e principale metodo di lavoro del premier Conte. Un uomo che sa di avere un deficit di legittimità e cerca disperatamente di acquistarla ad ogni costo con mezzi mediatici. Si spiega così perché la propaganda e la ricerca dell’immagine siano state per ben due mesi le sue uniche dimensioni politiche e le sue uniche possibilità operative.
Coronavirus, l'Italia cambia strategia: secondi al mondo per tamponi fatti. Nel rapporto tra test e popolazione solo gli Emirati arabi davanti a noi. Nel nostro Paese 1,75 milioni di prove: quelle giornaliere sono quadruplicate in un mese. Ricciardi e Brusaferro erano contrari, ma il modello Veneto si è dimostrato più efficace di quello lombardo. Riccardo Zunino il 27 aprile 2020 su La Repubblica. Angelo Borrelli, capo Dipartimento della Protezione civile, ha provato a dirlo nella conferenza di prima sera: “Siamo tra i Paesi al mondo che fa più tamponi”. Siamo anche qualcosa più, in verità. L'Italia è la quarta nazione al mondo in numeri assoluti, tra le quindici che hanno fatto più test. Ed è la seconda – seconda solo agli Emirati arabi uniti – per tamponi realizzati rispetto alla popolazione. Il sistema sanitario italiano per settimane – una delle tante contraddizioni nel suo avvio di contrasto a una malattia emergente – ha sostenuto che non serviva fare più tamponi, i test orofaringei, per scoprire i contagiati reali e vincere la battaglia del Covid (lo ha sostenuto a lungo Walter Ricciardi, per esempio, consulente del ministro Roberto Speranza e rappresentante italiano per l’Organizzazione mondiale della sanità). Lo ha ribadito lo stesso Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità: “Altre politiche sull’uso dei tamponi non sono state esaminate”, ha detto spiegando che i test andavano fatti solo a chi aveva sintomi chiari. Il ministro Speranza ha difeso gli espertoni pubblici fino a quando ha potuto: “Il tampone non è sufficiente, è la fotografia di un istante, la soluzione è l’isolamento”. Ma il 24 marzo scorso duecentonovanta rappresentanti della comunità scientifica nazionale scrivevano al premier Conte una lettera per far annettere nuovi laboratori, anche privati, alla rete di ricerca sul Covid-19 e per aumentare proprio i test orofaringei: “Le attuali strategie di contenimento basate sulla identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida dell’estensione del contagio”. Era chiaro, il documento: “Così pagheremo un prezzo altissimo, aumentare i test è necessario per interrompere la catena di contagio”.
Un ritardo che ha aumentato i contagi. Il prezzo è stato pagato: siamo terzi al mondo per contagi (sulla soglia dei duecentomila), secondi per decessi. E la mancata strategia del tampone ne è stato un elemento. Il biomedico statistico Enrico Bucci, autore delle indagini matematiche più seguite, lo aveva detto al Consiglio regionale della Regione Lombardia: "Il tampone è l'inizio di una strategia di riconoscimento del mondo del contagiato". Aggiunge adesso: “Va detto che in Lombardia, a differenza del Veneto, quando è esploso l’allarme il virus era probabilmente in giro da un mese e mezzo”. Ancora lo scorso 3 aprile una circolare del ministero della Salute aveva reso esplicito che “se la capacità dei laboratori che analizzano i test è limitata”, i tamponi vanno fatti solo ai pazienti che rientrano in alcune categorie prioritarie – i ricoverati, gli operatori sanitari a rischio e i pazienti più fragili – e che “tutti gli altri individui che presentano sintomi possono essere considerati casi probabili e isolati senza test supplementari”. Ecco, le indicazioni del ministero, insieme al parere di insigni scienziati, sembra essere stato condizionato dal problema esistente nell’organizzazione sanitaria italiana: non ci sono laboratori a sufficienza, non si riescono a fare tutti i tamponi raccomandati e, quindi, migliaia di casi sospetti non vengono testati. La Corea – ormai è letteratura – ha affrontato prima e meglio di tutti la sfida epidemiologica e oggi può vantare dieci nuovi casi soltanto in una giornata - ieri - perché, oltre ad allestire politiche di sanificazione ossessive, si è affidata subito a un mezzo, il tampone, che consente di individuare subito il contagio e avviare l’investigazione a ritroso: chi hai frequentato in questi giorni, con nome e cognome. Anche la Germania ha abbracciato il metodo e si è riproposta di fare 500 mila tamponi a settimana: non è mai arrivata a quei volumi e oggi, con l'insidia clinica sotto controllo, ha notevolmente limitato il metodo. L’Italia ha avviato le sue strategie, al solito con modalità divaricate: il metodo Lombardia (che oggi ha prodotto 72.889 casi e 13.325 deceduti) e il metodo Veneto (che, con i contagi diventati pubblici nelle stesse ore, il 21 febbraio, è riuscito a contenere i casi in un quarto e a contenere i decessi in 1.315). Oggi Lombardia e Veneto sui tamponi effettuati hanno numero simili (338 mila e 316 mila), ma la prima ha una popolazione doppia e in quei giorni di fine febbraio quando il contagio si manifestò il secondo mostrò una reazione più rapida e massiccia. Tutto è cambiato. L’Italia nell'arco di un mese ha quadruplicato i tamponi. Oggi abbiamo fatto un milione e 758 mila tamponi in sessantatré giorni. Prendendo come riferimento i "tamponi fatti" - nei siti internazionali che offrono queste misurazioni non esiste il dato dei "casi testati", visto che in alcune situazioni sono stati fatti due tamponi per una persona -, si scopre che l'Italia ha fatto 2,9 test ogni cento persone: è il secondo dato mondiale, abbiamo visto, dopo gli Emirati arabi (che sono al 10,6 per cento). Ancora il 18 marzo i test di giornata nel nostro Paese erano stati 16.884, il 25 aprile hanno toccato quota 65.387. Quattro volte tanto. In questa crescita rapida, e contraria alle parole degli espertoni pubblici, direttamente gestita da chi ne comprendeva sul territorio l’importanza, gli ospedali, ci si è scontrati con la rete dei laboratori certificati da allargare e il faticoso approvvigionamento dei reagenti chimici. In valore assoluto l'Italia viene dopo gli Stati Uniti (5,5 milioni), la Russia (2,9 milioni) e la Germania (oltre due milioni). Rispetto alla popolazione, però, siamo davanti a queste grandi nazioni. La Corea non ha avuto più bisogno di tamponi di massa e oggi è decima in questa classifica con 600 mila prelievi effettuati. La Cina non ha mai ufficialmente dichiarato i tamponi fatti. Australia e Corea hanno contenuto i positivi. C’è un altro dato interessante, e spiega perché nel nostro Paese i potenziali infettati sono di più. E’ il rapporto tra tamponi realizzati e contagi identificati. Tra i primi quindici Paesi per numero di test, l’Italia ha un contagiato ogni 8,9 tamponi. E’ un rapporto ancora alto, anche se in miglioramento (undici giorni fa era uno ogni 6,8). Se questa progressione fosse statisticamente applicabile a tutta la popolazione, significherebbe che nel Paese ci sono 7 milioni di contagiati (cifra sulla quale, tra l'altro, convergono diversi studi realizzati in discipline diverse). Per capire, tralasciando il dato del Venezuela di cui è difficile comprendere l’attendibilità (solo 325 casi dichiarati, un contagiato ogni 1.331 tamponi provati), negli Emirati arabi servono 102 tamponi per scoprire un positivo, in Australia 77, in Corea 56 e in Germania 13,1. Colpisce il disinteresse al metodo di avvistamento e previsione da parte della Francia, tredicesima al mondo per test eppure quarta sia per positività che per decessi. Uno dei sostenitori della politica del tampone è stato Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, a sua volta colpito dal Covid. Dice adesso: “Appena sono uscito dall'isolamento, guarito, ho detto: dobbiamo fare più test. Il Veneto ha scelto subito la strada giusta per un virus i cui sintomi sono subdoli. Per troppo tempo in molti, a casa, non hanno ricevuto tamponi e hanno infettato inconsapevolmente i familiari”.
"Sa cosa era lui?", "Virus c'è" È scontro Zangrillo-Crisanti. Non si placa la polemica tra il primario e il professore. Il primo ha ricordato di aver fatto la storia della medicina. Valentina Dardari, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Che Alberto Zangrillo e Andrea Crisanti non si amino particolarmente sembra ormai un dato di fatto. Non passa volta che tra i due non vi siano frecciatine. Durante la puntata di oggi di Omnibus è stato il turno di Zangrillo. La domanda di Alessandra Sardoni al primario del San Raffaele riguarda l’intervista che il professore dell’Imperial College ha rilasciato a La Stampa, durante la quale ha ribadito che non vi siano prove effettive che il coronavirus sia diventato più buono. Da parte sua, Zangrillo ha continuato a sostenere ciò che già da tempo asserisce: ora come ora non c’è malattia perché la carica virale e la capacità replicativa del virus non è in grado di produrla.
Il primario e il parassitologo. E parte la frecciatina: “Crisanti fino a qualche tempo fa faceva l’entomologo-parassitologo, e lo dico senza alcuna vena polemica, non ha mai raccolto il ramoscello d’ulivo. Preferisce fare una corsa da solista insolentendo dieci persone che, insieme a me, in questi giorni hanno fatto la storia della medicina per confutare le tesi di Remuzzi, Palù e Clementi che va a verificare la carica virale, vuole fare il fenomeno. Dica la sua verità, poi alla fine faremo le somme”. Non serve in questo momento creare terrorismo anche perché, come sottolineato dal primario del San Raffaele, questo modo di fare può anche essere più pericoloso del Covid-19.
Raccontare la verità agli italiani. Insomma, il concetto è che si devono raccontare le cose come stanno, essere chiari e non raccontare bugie alla popolazione. Proprio per questo, Zangrillo ha spiegato che il rischio ancora c’è e che le norme adottate fino ad oggi, quindi l'utilizzo delle mascherine e il distanziamento fisico, non devono essere per il momento tralasciate. Quello che preoccupa maggiormente l’esperto è che il virus possa rientrare dalla porta principale, ovvero portato da persone infette che entrano in Italia. Il secondo timore è che gli italiani possano pensare che il pericolo è ormai passato. Crisanti ha detto: “Si possono mettere sotto sorveglianza le persone che provengono da aree in cui la trasmissione del virus è particolarmente esplosiva come, ad esempio, Cina, India, Brasile e Stati Uniti. Ci sono i mezzi per tracciare gli spostamenti e le persone che arrivano devono essere monitorate, non soltanto con la temperatura che non serve a niente” . Il prodessor Palù, parlando proprio di Crisanti lo aveva definito sciacallo zanzarologo. Quale sarà il prossimo scontro?
Che confusione, virologi sull'orlo di una crisi di nervi. Paolo Guzzanti il 4 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. I virologi o sono impazziti o sono sull’orlo di una crisi di nervi e non si sa più se è il virus che ha dato una virata o sono loro che hanno perso la trebisonda. Ha cominciato l’illustre prof Alberto Zangrillo del San Raffaele di Milano il quale, nello sbalordimento generale, va a parlare da Lucia Annunziata su Rai3 per annunciare che «Il virus, dal punto di vista clinico, non c’è più». Una bomba. Tanto che lo stesso Zangrillo si spaventa: le sue parole hanno fatto impazzire la pubblica maionese, nel senso del comune sentire, perché finché il governo non ha dato – come ha dato, fra mille precauzioni – il liberi-tutti, ciascuno badi alla propria pelle e tanti auguri, il virologo istituzionale era una specie di “fratone della buona morte”, uno di quelli che qualsiasi cosa tu facessi ti avvertivano che potevi esporti al rischio mortale. Ciò è dipeso dall’imposizione mediatico-religiosa dell’esistenza del Virologo Unico. Secondo questa corrente di pensiero, sarebbe esistita una cosa a forma di cupola contente il Sacro Graal della “La Scienza”. Unica, granitica, indiscutibile. E non, badate bene, gli scienziati di un mondo che richiede tentativi, errori e successive correzioni; ipotesi da confermare e modificare, ma un malloppo vaticinante chiamato “La Scienza” che non aveva a che vedere con la variegata e cangiante comunità scientifica, ma con un comandamento divino, o governativo. Adesso tutto è cambiato. La vita deve riprendere anche a costo della vita e siamo stati rieducati a tirare un sospiro di sollievo quando – al momento del bollettino – ci dicono che ieri abbiamo avuto “soltanto” cinquanta morti. Che sarebbe come dire un aereo precipitato al giorno. Il dato adesso è da considerare confortante perché anche le opposizioni sono d’accordo col governo: questa pandemia del cavolo deve finire, piaccia o no al virus, il quale virus deve essere considerato e mostrato al pubblico come un cialtrone, una bufala, una patacca. E i virologi della profezia catastrofica? Che fine hanno fatto? Fino a ieri avevano soltanto potuto constatare che di come si comporterà questo grumo di RNA non si sa ancora nulla, che l’America Latina è sferzata dalla pandemia, e che se dovessimo temere il bis di quello che fece la famosa febbre Spagnola di un secolo fa, dovremmo prepararci alla seconda e la terza ondata. Alberto Zangrillo si rende conto del botto che ha fatto con le sue dichiarazioni e, in tutta onestà, spiega che lui non voleva proprio dire che il Covid19 è morto o che non è mai esistito, ma che è diventato “clinicamente irrilevante”. Che vuol dire? Vuol dire che i numeri calano, le terapie intensive sono meno affollate e che il mostro, l’alieno, il coso, la bestia, la carogna o come vi piace più chiamarlo, se l’è data a gambe. È credibile? Certo che lo è. Solo, che non lo sa nessuno. Ma i virologi – questo è un fatto – hanno virato. E Zangrillo, almeno dal punto di vista mediatico, ci sembra il comandante che ha ordinato la virata. E lo ha fatto, sottolinea, con la scienza e la conoscenza di uno che sul campo e vede che il diavolo non è più così malvagio come si diceva e che dunque si possono anche tirar via i sacchetti di sabbia. Onestamente ci sembra che l’insieme del messaggio sia miracolosamente cambiato in straordinaria coincidenza con l’agenda del governo e anche delle associazioni di categoria e del mondo produttivo, il che è anche un bene se la verità e l’incolumità saranno rispettate. Ma la verità è che nel bizzarro mondo dei virus e dei virologi nessuno, come nel gioco del Poker, può essere sicuro di avere il punto imbattibile: c’è sempre una scala reale che batte il poker d’assi e così in virologia. E in questo bizzarro e terrorizzante mondo rientra anche la mentalità, per non dire la psicologia che sarebbe troppo, del virus. Il virus, poveretto, non si può riprodurre sessualmente perché non ha l’attrezzatura, ma usa un sistema geniale: si presenta all’individuo umano e gli dice, permette? devo soltanto fare alcune fotocopie, lei non si agiti e io la lascio vivere perché avrò sempre bisogno di lei. E infatti la maggior parte dei morti di Covid19 non sono stati realmente ammazzati dal virus che si fa le fotocopie a tue spese, ma dall’esagerata reazione di autodifesa per cui crepi di polmonite suicida. L’interesse del virus è che la gente viva per seguitare a passeggiare tra la folla, ma la folla è anche la follia umana che tende a rompere il lockdown con urla belluine e mettersi i gilet arancioni antivax, visto anche noi in fondo siamo un’accozzaglia di virus. Ma dal punto di vista storico, la crisi del mondo dei virologi in questo inizio di giugno 2020 è qualcosa di inaspettato e stravagante. Nel senso che i virologi talebani che ci ricordavano nell’orecchio quanto vicina fosse la nostra fine, ora ammutoliscono, hanno mal di testa e prevale la tendenza dell’arcangelo di Castel Sant’Angelo a Roma, quello che rinfodera lo spadone perché la peste è stata sconfitta. Forse è una ritirata tattica: i virologi hanno chiesto in massa l’aiuto psicoterapeutico. Per ora, liberi tutti. Le esequie sono rimandate ma senza affollamenti.
Quei modelli tutti sbagliati sulla crescita del Covid. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Tra gli effetti collaterali del coronavirus ce n’è certamente uno: una vera e propria “epidemia” di modelli matematici per spiegare ogni aspetto della pandemia. Tra gli effetti collaterali del coronavirus ce n’è certamente uno: una vera e propria “epidemia” di modelli matematici per spiegare ogni aspetto della pandemia. Molti dei loro redattori non sono arrivati sulle pagine delle riviste scientifiche, molti altri sì. E non sempre sono stati utili come ci si aspettava, prospettando stime rivelatesi, poi, del tutto infondate. L’analisi di Donato Greco, ex direttore del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute (Cnesp) e la direzione editoriale del Ben all’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ed ex direttore generale della Prevenzione Sanitaria al Ministero della Salute, è chiara: i modelli prodotti sul Covid non sono stati capaci di offrire informazioni davvero utili alla battaglia contro la diffusione del virus. Tra gli esperti che si sono cimentati in studi, a far da padrone è sicuramente il gruppo dell’Imperial College di Londra, capitanato dal professor Neil Ferguson, i cui modelli sono stati sempre tra i più ascoltati da politici di tutto il mondo e, di conseguenza, tra i più impattanti sulla società alle prese con la pandemia. E uno di questi modelli ha riguardato anche l’Italia: uno studio trasmesso informalmente al Consiglio Superiore di Sanità a fine febbraio tramite Paolo Vineis, vice presidente del Consiglio e suo unico Epidemiologo. «Il modello – scrive Greco su QuotidianoSanità – prevedeva nel nostro Paese oltre mezzo milione di morti per Covid-19 se non fosse preso alcun provvedimento e “soltanto” 283mila decessi applicando, come di fatto è stato fatto, il più rigido Lockdown. Lo stesso modello stimava, in presenza di lockdown, fino a 30mila decessi in una settimana di picco con altrettanti ricoveri in terapia intensiva. Fortunatamente – continua Greco – questi numeri non sono stati raggiunti. Di fatto siamo a circa un decimo delle stime dell’Imperial».
Stime analoghe erano state fatte per Regno Unito e Usa, per le quali erano state predette, nello scenario migliore, cifre dieci volte superiori a quelle reali.
«Per il nostro paese le assunzioni su cui si è basato il modello Imperial si sono rivelate inesatte in parecchi punti – spiega Greco -, i più eclatanti dei quali sono stati l’assunzione che i bambini trasmettessero l’infezione come gli adulti e la non considerazione della grandissima differenza di pattern epidemiologico tra Lombardia, altro Nord ed il resto dell’Italia. Tre epidemie diverse con incidenza e mortalità totalmente differente».
Il modello Ferguson è stato, nelle ultime settimane, oggetto di critica da parte dei colleghi svedesi, ma anche da parte di fisici, matematici e medici di elevata credibilità scientifica. Non solo per gli scenari previsti, ma anche per il software usato per costruire tali modelli. Certo, ammette Greco, produrre modelli predittivi all’inizio di una epidemia, quando i parametri sono ancora incerti è molto coraggioso. E siccome l’incertezza è una caratteristica tuttora attuale della pandemia, ciò costituisce un ulteriore motivo «per considerare i risultati dei modelli indicazioni preliminari e non indicazioni strategiche».
Ma c’è un ma. «Il track record dei modelli di Ferguson negli ultimi dieci anni non lo onora – sostiene Greco -. Dai 150 mila morti previsti per la malattia del piede e della bocca dei bovini (Foot and Mounth Disease) ai 200 realmente avvenuti nel 2002 in Inghilterra, nello stesso anno, nello stesso Paese Ferguson aveva allertato il governo sull’arrivo di 50mila decessi per “mucca Pazza” Bse, con 177 avvenuti realmente. Non migliori le previsioni per l’epidemia di influenza aviaria del 2005, ove i modelli Imperial prevedevano fino a 150 mila morti nel solo Regno unito a fronte di 282 registrati nel Mondo. Non dissimile la pandemia di influenza Suina del 2009: la ministra della salute britannica dell’epoca, nell’agosto di quell’anno, annunciò la mobilitazione dell’esercito per la preparazione di fosse comuni capaci di ospitare i 65mila cadaveri: i morti veri furono 457».
È vero anche che «i modelli matematici non predicono numeri assoluti – spiega Greco -, ma offrono scenari modulati su assunzioni: dal peggiore al meno peggio. Inevitabilmente ed inesorabilmente i politici adorano gli scenari peggiori: fare scelte iperprecauzionali li protegge da inevitabili critiche postume. Inoltre, in tutto il mondo, il tema salute diventa il tema politico dominante perché riguarda tutti i cittadini, il senso di comunità del singolo non arriva a concepire un equilibrio tra salute e disastro sociale ed economico: il singolo guarda alla sua salute, ben dopo vengono considerazioni economiche e sociali e sono ben poche le società in cui il singolo apprezza il concetto di benessere della comunità composto sia della propria salute, ma anche del benessere sociale ed economico».
Ma questo delicato equilibrio non compare nei modelli. E meglio, sostiene Greco, ha fatto l’Iss, con gli scenari che hanno diretto le scelte della fase 2: «certo stavolta i modellisti hanno avuto il grande vantaggio di operare nella fase calante dell’epidemia, quando, molti parametri epidemiologici, incerti a febbraio, sono diventati evidenti. Ma anche in questo caso i margini di incertezza sono ampi ed appare azzardata l’applicazione pari pari dei suggerimenti del modello alle scelte strategiche. In particolare – sottolinea – la mancanza di un range di scenari che tenesse ben in conto i diversi pattern epidemiologici del Paese e l’indicazione dettagliata di scelte operative per specifici settori: i modelli suggeriscono, offrono scenari, non possono dettagliare decisioni strategiche che spettano ad altri».
Per prevenire le malattie la sorveglianza, la ricerca, l’esperienza delle precedenti epidemie, la sistematica raccolta di dati ed esperienze «costruiscono un baule informativo che la persona interpreta per determinare le scelte che ritiene opportuna». La cosiddetta “intelligence”, alla quale contribuiscono anche i modelli matematici. Molti sono stati i contributi di esperti, virologi, immunologi, laboratoristi, clinici direttori sanitari e tanti altri nelle scorse settimane: «purtroppo nei curricula di tanti speakers, oggi opinion leaders, non appare esperienza di epidemiologia di campo. Quanti di questi scienziati milanesi o romani, si sono cimentati con epidemie vere nel loro passato? Certo l’“Intelligence” include l’incertezza – conclude Greco -, i rischi, gli effetti collaterali, quindi l’assunzione di responsabilità pesanti. Per questo quanto più ricca sia l’Intelligence meglio sono le scelte appropriate, se l’intelligence è scarsa resta tutto lo spazio ai freddi dati dei modelli matematici».
Da Dr Jerome Massiani: Gentile Dott. Giangrande,
la contatto in merito al suo recente libro Coglionavirus.
leggo con interesse a pagina 129, riguardo alle previsioni dei modelli "Il modello prevedeva in Italia oltre mezzo milione di morti per Covid-19 se non si fosse preso alcun provvedimento, e “soltanto” 283 mila decessi applicando, come di fatto è stato fatto, il più rigido lockdown".
In merito al testo da lei citato abbiamo una serie di dubbi che Le comunichiamo. In particolare, la stima citata si riferisce a un documento dell'Imperial College del 5 marzo corrisponde a un intervento estremamente meno stretto di quello effettivamente applicato in Italia dal 7 e dal 10 marzo in particolare. Il lock down italiano include (a differenza dello scenario Imperial) :
la chiusura totale delle Università (ICL mantiene operatività per il 25%)
massiccia riduzione delle interazioni sociali degli studenti (ICL aumenta del 25%)
obbligo di isolamento per i casi sintomatici (anche non tamponati) più vincolanti (ICL solo 65% dei sintomatici, solo per 7 giorni, mantenendo 25% delle interazioni sociali al di fuori di casa)
obbligo generalizzato di "restare a casa" che diminuisce i contatti extra-familiari di tutti, incluso i sintomatici (ICL : solo 50% delle famiglie rispetta l'isolamento)
chiusura generalizzata dei commerci non alimentari (ICL chiusura solo di alcune categorie come cinema, bars, palestre e simili, non che di assemblee religiose).
chiusura degli uffici pubblici degli studi professionali (non contemplato in ICL)
chiusura dei cantieri e delle aziende non essenziali (non contemplato in ICL)
Infine il rapporto è estremamente chiaro nel dire che si tratta di una simulazione basato sui dati disponibili, e non di una previsione, cosa che pochi scienziati avrebbero pensato di fare per l'obbiettiva infattibilità
ci sembrava utile portare a sua conoscenza questi elementi in quanto la citazione cosi riportata, senza distanza critica, rischierebbe di compromettere la credibilità del suo testo che trovo invece per molti aspetti molto interessante e ben informato. Ringraziando per l'attenzione e un eventuale riscontro, invio i cordiali saluti.
Dr Jerome Massiani, premesso che il libro, formato da 10 parti, è in continuo aggiornamento senza soluzione di continuità, trovo contingente inserire la sua nota in calce all’articolo dal lei citato, al fine di rendere al futuro una testimonianza più veritiera ed attendibile possibile.
«PIÙ MORTI PER IL LOCKDOWN CHE PER IL COVID-19». Gli scienziati svedesi avvertono. Sin dall’inizio dei contagi bar e ristoranti aperti a Stoccolma. Federico Cenci il 19 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La Svezia ha optato per un approccio meno restrittivo della vita sociale. Uno spettro si aggira nelle menti degli italiani: che la crisi economica dovuta al lockdown e alle norme anti-contagio provochi più danni del coronavirus. A rendere oltre modo verosimile questo sinistro scenario giungono le parole di alcuni scienziati svedesi. Peter Nilsson, professore di medicina interna ed epidemiologia all’Università di Lund, è chiaro nel sostenere che la catastrofe economica causata dai blocchi causerà maggiori vittime della pandemia. L’opinione dell’accademico è in perfetta linea con la politica adottata da Stoccolma sin dall’inizio dei contagi: a differenza degli altri Paesi europei – in particolare dell’Italia, dove è stato decretato il lockdown più ferreo -, la Svezia ha optato per un approccio meno restrittivo della vita sociale. Bar e ristoranti sono rimasti aperti e gli studenti under 16 hanno continuato a frequentare le lezioni in aula. Soltanto sono stati vietati grandi raduni e scoraggiati i viaggi. Almeno finora, la scelta svedese sembra aver prodotto risultati: nel Paese scandinavo ad oggi sono circa 28mila i contagiati e 3.500 vittime (il 12,35%), mentre in Italia le persone affette sono quasi 180mila e i morti oltre 27mila (il 14,06%). Numeri ancora più impietosi nel Regno Unito, altro Paese che ha imposto misure severe: 233mila i contagiati e 33mila i decessi (il 14,42%). È presto per dire se la strategia della Svezia sarà stata la migliore. Tra gli scienziati vige comunque un certo ottimismo. Nilsson è sicuro che «si rivelerà una buona strategia a lungo termine». Egli sottolinea che tale metodo ha consentito al Paese di mantenere a galla l’economia evitando un picco di disoccupazione. «È importante capire che le morti di Covid-19 saranno molto inferiori alle morti che un blocco sociale totale avrebbe causato». Del resto, aggiunge il docente, «la disoccupazione e tutti i problemi sociali ad essa connessi» rappresentano un flagello. «Una cattiva economia farà molto male e ucciderà le persone in futuro», aggiunge. Sulla stessa lunghezza d’onda Mikael Rostila, professore presso il Dipartimento di Scienze della salute pubblica dell’Università di Stoccolma, il quale pone l’accento sull’immunità di gregge, che potrebbe rappresentare uno scudo protettivo in caso di seconda e terza ondata del virus. «La Svezia – dice – potrebbe raggiungere l’immunità di gregge prima di altri Paesi, il che significa che la diffusione del virus e il numero di decessi diminuiranno perché la maggior parte della popolazione sarà immune». Ma prima quando? Qualche studio sembra dare risposte incoraggianti. Per esempio quello del matematico dell’Università di Stoccolma Tom Britton: egli ha calcolato che l’immunità del 40% della popolazione della capitale svedese potrebbe essere sufficiente per fermare la diffusione del virus e che ciò potrebbe accadere già entro metà giugno. Se questo calcolo sarà corretto, tra un mese la Svezia potrebbe aver sconfitto il coronavirus, senza danni collaterali economici e sociali. Con buona pace dei lavoratori italiani per due mesi isolati in casa e ora sul lastrico.
Anticipazione da “Oggi” il 13 maggio 2020. Su OGGI, in edicola da domani, tre interviste a tre luminari impegnati sul fronte del coronavirus. Andrea Crisanti, 65 anni, ordinario di microbiologia all’Università di Padova e artefice dell’efficace strategia anti-Covid-19 del Veneto, dice: «Se sono preoccupato per l’autunno? Sì: dobbiamo provvedere con tamponi a tappeto ed eliminare subito gli eventuali focolai. Mi preoccupa la risposta della sanità pubblica. In più gli asintomatici sono come fantasmi: non hanno sintomi, non sviluppano anticorpi… sarebbe bello scoprire un marcatore che li identifichi. Intanto dobbiamo usare i malati come sentinelle: seguirli e identificare i contagi». Il professore esprime anche i suoi dubbi sulle modalità della Fase 2: «Le aperture sono state fatte senza dati a disposizione. A tutt’oggi non sappiamo quante persone hanno contratto il virus. Non facciamo abbastanza tamponi». Alberto Zangrillo, anestesista-intensivista di fama e fresco autore del libro In prima linea contro il coronavirus, racconta a OGGI le sue settimane in trincea: «La prima fase del Covid noi l’abbiamo subita, è un fatto… c’è stato un momento in cui l’onda d’urto che dovevamo fronteggiare era scomposta, disordinata». Poi parla della risposta del San Raffaele, anche grazie alla raccolta fondi di Chiara Ferragni e Fedez: «Siamo riusciti in 200 ore lavorative, equivalenti a dieci giorni di lavoro, a realizzare una terapia intensiva tecnologicamente avanzatissima per accogliere i malati più gravi». Quindi lancia una proposta: «In questo momento in cui dobbiamo ripartire non possiamo dare la caccia al numero in modo maniacale, la cifra che deriva dalla sierologia o dai tamponi. All'inizio, per esempio, il numero dei contagiati era assolutamente sottostimato… Io da anestesista, da intensivista, credo che la terapia intensiva sia da considerare il fallimento: noi non dobbiamo portarci i malati, dobbiamo fare in modo di proteggerli prima… Insieme al gruppo per il quale lavoro mi propongo di indicare una strada: lavorare sulla tutela delle persone più a rischio con una identificazione precoce di quelle contagiate, per fare in modo che una virtuosa triangolazione tra gli istituti clinici di riferimento (gli ospedali ad alta specialità), le Regioni e le agenzie della tutela della salute (Ats) sia punto di riferimento dei medici di medicina generale che hanno il contatto diretto col cittadino. È il protocollo che abbiamo chiamato POST: Prudenza, Organizzazione, Sorveglianza e Tempestività». Infine Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri: «Non possiamo creare illusioni. Ma forse il risultato è vicino. Stiamo sperimentando una nuova terapia e i risultati sono molto incoraggianti». E la spiega: «È il passo successivo alla trasfusione del plasma che stanno sperimentando a Mantova e Pavia. Curando una malattia delle reni, la nefropatia membranosa, Pier Luigi Ruggenenti, direttore della nefrologia e della dialisi del “Papa Giovanni”, i suoi collaboratori e i ricercatori del Mario Negri hanno messo a punto una macchina che toglie dal sangue gli anticorpi dannosi e hanno applicato questa tecnica per togliere ai donatori guariti dal Covid 19 solo gli anticorpi specifici che, trasfusi nei malati, neutralizzano il virus».
Da gazzetta.it il 13 maggio 2020. Il medico sociale della Lazio, Ivo Pulcini, ha criticato duramente il protocollo per la ripartenza intervenendo a Radio Radio: "Il Comitato Tecnico Scientifico non ha voluto sentire la voce del medico del calcio che vive sul campo e non vive dietro una scrivania. Vive dove non c'è la scienza pura ma, c'è la evidence based medicine, che cammina parallela a quella scientifica. Se si uniscono vanno a vantaggio della salute e della popolazione. La medicina non è una scienza; la medicina è un'arte. Per essere un artista purtroppo non basta la laurea. Altrimenti troveremmo tutto sui libri. Questo capita quando si fanno dei protocolli spesso dannosi. Se in qualche caso avessi usato il protocollo, il paziente sarebbe morto. Oggi la superficializzazione dei titoli è grave. Forse c'è il desiderio di creare questa confusione per dare spazio alle persone incapaci che occupano dei posti sbagliati, e se la domanda è sbagliata capite com'è la risposta". E ancora: "Sono d'accordo con il professor Castellacci. Se un ragazzo si ammala e ci denuncia ne dobbiamo rispondere noi, ma noi non possiamo arrivare a rispondere di tutto. Il CTS dice che se un giocatore o un membro dello staff è infetto deve andare in quarantena tutta la squadra? E' ridicolo, perché devo considerare malato chi non lo è? In questo caso la responsabilità me la prendo, io tutta la squadra in quarantena non la metto. Perché se io sono negativo devo essere considerato ammalato? E' ridicolo, così la Serie A non riparte". Infine, il medico sociale biancoceleste ha anche parlato dell'emergenza Covid: "Il Coronavirus sta morendo? Secondo me sì, perché la manipolazione ha prodotto un danno grave che riguarda non la letalità, perché la letalità come dice il Professor Tarro è dell’1% non è alta, il 90% delle persone affette guarisce spontaneamente; ma dalla contagiosità. L’elevata contagiosità che poteva far affluire nelle strutture sanitarie una quantità esagerata di persone. È difficile distinguere il codice rosso dal codice verde rischiando, come è successo purtroppo, di danneggiare le persone che avevano maggiormente bisogno proprio perché non avevano la possibilità. Per la legge dell’incompenetrabilità dei corpi, se un letto è già occupato non può essere occupato da un’altra persona".
CASTELLACCI: "MEDICI NON SCIOPERERANNO MA SI DIMETTERANNO"— Enrico Castellacci, presidente di Lamica ed ex responsabile medico della Nazionale italiana di calcio, attraverso i microfoni di Radio Punto Nuovo è tornato a parlare del protocollo per la ripartenza del calcio: "Quello che chiediamo è ciò che abbiamo sempre detto: protocolli rigidi, ma applicabili. Non esiste al mondo che si possano fare protocolli senza che si possano rispettare. Noi non abbiamo potuto proferire al tavolo in cui è stato deciso perché non siamo stati invitati, i protocolli vanno fatti in modo che possano essere applicabili, altrimenti non sono utili. I protocolli non vanno fatti solo per la Serie A, ma anche per la Serie B e la Serie C. I giocatori sono professionisti e come tali hanno il diritto e dovere di allenarsi, anche in caso di non conclusione del campionato. Anche i giocatori di C vogliono allenarsi, bisogna fare protocolli mirati a seconda delle Leghe. Sembra che la tendenza sia quello di cominciare a giugno il campionato, ma mettendo paletti rigidi come un solo infettato e tutti in quarantena, si fermerebbe di nuovo. I legali della Lamica sostengono che nessuno vuole non assumersi le sue responsabilità, ma di certo non vogliono assumersi responsabilità che non aspettano a loro. Ho ricevuto tantissime email da tantissimi medici della Serie B che minacciano le dimissioni. Scioperare? Non si tratta di scioperare, polemizzare, ma ragionare con buon senso. E' strano che non si sia capito che l'unico responsabile non può essere il medico sociale. E' ovvio che poi, giocoforza, i medici si dimetteranno dal loro incarico, non sciopereranno. Ho mandato una lettera alla FIGC senza ricevere risposte, il punto chiave è il medico del calcio ed ancora oggi non ci danno possibilità di parlare".
Gianluca Melegati, parla il medico sportivo: "Coronavirus? È più sicuro giocare a calcio che stare a casa coi familiari". Francesco Perugini Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. «Ripartire non è un dovere, ma si intravedono le condizioni per farlo». Parola di Gianluca Melegati, medico dello sport responsabile per dieci anni dello staff dell'Italrugby e con due esperienze alla guida dei sanitari del Milan (2010/11 e 2017/18).
Dottor Melegati, quali sono i rischi della ripresa per i calciatori?
«Su 500 giocatori, e 1.500 tesserati in totale, abbiamo avuto 13-15 positivi, un numero non grande. I calciatori di alto livello sono tra le persone più controllate: hanno a disposizione staff e competenze superiori ad altri lavoratori. E sono giovani, senza fattori di rischio».
Lo sforzo fisico, però, abbassa le difese immunitarie.
«In parte. Nel senso che ormai la durata degli allenamenti è calcolata, sono garantite le ore di riposo e c' è attenzione a prevenzione e alimentazione. Non ci sono rischi di iperaffaticamento».
C' è chi dice che il calcio non sia poi così importante...
«Personalmente, ritengo che i morti vadano sempre onorati col silenzio. C' è l' aspetto economico, ma anche il risvolto affettivo per il pubblico. Pensiamo solo alla gioia che potrebbe portare l' Atalanta ai bergamaschi».
Basterà il protocollo a proteggere la serie A?
«È un documento molto valido stilato con la collaborazione dei medici sportivi (Fmsi). Prevede una serie di esami e di situazioni da gestire in relativa sicurezza. Quella assoluta non c' è».
Quali sono i dubbi?
«Allenamenti individuali e confinamento in strutture chiuse permettono di gestire la fase degli allenamenti. Che cosa succede in caso di positività a campionato in corso? Si mettono in quarantena tutti i contatti, mettendo a rischio la stagione, o si sceglie la strada tedesca di isolare il singolo paziente?».
È su questo che si gioca la partita col governo...
«Il tempo comunque gioca a nostra favore: sono tra quelli che non escludono che la bella stagione possa attenuare il contagio, facendo scemare queste perplessità. Sono fiducioso sulla ripresa».
Intanto, i primi test per la ripresa hanno evidenziato positività inattese. Come se le spiega?
«A mio parere potrebbero non essere contagi recenti, ma soggetti mai guariti. Questa infezione è subdola, se non sviluppa sintomi non stimola l' organismo di produrre anticorpi».
In qualche modo tornare ad allenarsi tutela i giocatori?
«Paradossalmente sì. Dopo tamponi e test sierologici, con il gruppo-squadra blindato, si ritroverebbero in una situazione ideale. E poi, quando si tratterà di tornare in campo, affronteranno avversari altrettanto tutelati e "puliti" dal virus. Per questo non vedo facilità di contagio durante le partite. È quello che sta intorno - pullman, aereo, albergo, tifosi - che può rappresentare un rischio. Ma gli staff medici sapranno fare buona guardia».
Il caso Dybala ha accresciuto le preoccupazioni: i calciatori ci mettono più tempo a negativizzarsi?
«È qualcosa che vediamo spesso, soprattutto nei giovani. Proprio perché sono nella maggior parte asintomatici e ci mettono più tempo a smaltire l' infezione. Le persone che hanno subito una carica virale maggiore invece guariscono "meglio", nel senso che sviluppano anticorpi. Che sono immunizzanti, come ha dimostrato una recente pubblicazione su Nature».
C' è il rischio di subire strascichi a lungo termine?
«È il tema che preoccupa di più noi medici sportivi. Alcuni studi mostrano effetti a livello cardiaco e polmonare. Ecco perché tutti i soggetti infetti sono sottoposti a test (ecodoppler, test cardio-polmonare, Tac, risonanza cardiaca) che vanno a verificare l' eventualità - per fortuna remota - di una miocardite o di una fibrosi polmonare che può ridurre la capacità aerobica».
Al punto da renderli non idonei all' attività sportiva?
«Non lo sappiamo, nel senso che non ci risultano casi del genere tra gli atleti professionistici. Se dovesse succedere, c' è anche da dire che la vita riserva sempre sgradevoli eventi...».
Il Coni ha valutato la pericolosità delle diverse discipline. Ci sono sport più pericolosi di altri?
«Viene da pensare agli sport di contatto, ma in realtà dipende da moltissimi fattori. Su due piedi sembrano più rischiosi il rugby, la lotta, il basket e lo stesso calcio».
Lei ha lavorato a lungo con l' Italrugby. La palla ovale sta pensando a una versione senza contatti per tornare in campo. Potrebbe esserci un versione del calcio "snaturata"?
«Per carità, non voglio nemmeno pensarci da amante del rugby, del calcio e da medico».
Rosa Scognamiglio per ''il Giornale'' il 10 maggio 2020. Il Coronavirus sta diventando meno aggressivo? "Non sono state osservate mutazioni significative collegabili a differenza di patogenità, vale a dire, capacità di aggredire e di trasmissione", afferma Antonio Di Caro, responsabile del laboratorio di microbiologia dell'Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. Che il Covid-19 sia un virus potenzialmente letale e prepotente, è un dato di fatto. Ma che con l'arrivo della bella stagione possa diventare meno virulento o sopirsi è ancora tutto da vedere. Tante, forse troppe, congetture al riguardo e poche certezza. "La perdita di aggressività non è un criterio per ipotizzare un'origine non naturale. Nessuno ha mai trovato segni che dimostrino sia stato manipolato in laboratorio". Ad oggi, sono 77 gli esemplari di Sars-CoV-2 squenziati e depositati nei database internazionali, a cui si aggiungono altri 15mila messi in comune dai ricercatori di tutto il mondo. In Italia, il primo coronavirus fu isolato lo scorso febbraio proprio nei laboratori dello Spallanzani. Da allora, ne è passato di tempo e il patogeno che aveva aggredito il turista cinese in vacanza a Roma non sembra aver allentato la presa. "Tutti i gruppi internazionali stanno studiando il virus, non è mai stata messa in campo tanta forza - spiega Di Caro nel corso di una intervista al Corriere della Sera - Non appena viene individuata una mutazione consolidata, cioè presente in un migliaio di sequenze, viene fatta una verifica con studi su modelli cellulari o animali per verificare se queste differenze corrispondono ad una maggiore abilità dell'agente patogeno di moltiplicarsi e creare danni all'uomo". Dunque, il Covid-19 non mostrerebbe alcuna conformità con gli 'affini' - altri patogeni che rientrano nella famiglia dei coronavirus - ed è questa la caratteristica che lo contraddistingue dai suoi simili. "Fino a questo momento, l'unica certezza è che Sars-CoV-2 muta poco rispetto ad altri cugini, come virus influenzali ed Ebola. Appartiene come loro alla famiglia di virus a RNA di solito mutevoli perché sprovvisti del meccanismo che corregge gli errori della replicazione. In parole semplici, non ha il correttore di bozze. Abbiamo a che fare con un parente diverso che possiede anche questa particolarità". La risposta alle mutazioni del virus potrebbe essere contenuta nella cosiddetta 'proteina Spike' che il Covid-19 utilizza per penetrare le cellule dei tessuti nell'uomo: "Un cambiamento in questa parte specifica potrebbe tradursi in una più spiccata capacità di eludere i controlli del sistema immunitario e di legarsi più facilmente alle cellule - continua Di Caro - Ma ripeto, mai niente di questo è stato visto". Si è spesso parlato di ceppi virali, diversi, del patogeno. Ma quanti ce ne sono sul serio in Italia? "I virus italiani si dividono in 2 gruppi caratterizzati da minime variazioni non associabili a differenze di malattia. Stiamo studiando le evoluzioni del virus in uno stesso paziente per vedere se mostra differenze da quando lo si trova nei polmoni a quando lo si trova nella faringe. Ma non siamo ancora giunti a conclusioni". I dati relativi al trend epidemiologico mostrano un rallentamento dei contagi: "A me non risulta così - conclude Di Caro - La percentuale dei pazienti ricoverati in ospedale e di quelli trattati a domicilio è costante. Non mi sentirei di affermare che c'è minor aggressività. Il virus si è attenuato nella circolazione solo per via delle misure di contenimento".
Alessandro Ferro per il Giornale il 20 maggio 2020. Il Covid "visita" anche chi lo combatte in prima linea: in un'intervista esclusiva al Giornale.it abbiamo sentito il dott. Franco Carnesalli, Clinical Manager e Consulente Pneumologo presso l’Istituto Auxologico di Milano. Anche lui è stato colpito dal virus, fortunatamente in forma non grave. Ci ha raccontato in che modo colpisce i polmoni, dalle forme più leggere a quelle più gravi e spesso in maniera subdola, di come radiografie e Tac possono "scoprirlo" e qual è l'unico farmaco che potrebbe, addirittura, prevenirlo.
Quali sono i danni che il virus fa all’apparato polmonare?
"Parlando di polmoni, particolarmente sensibile è la mucosa dei bronchi, dove spesso Covid si attacca provocando una reazione infiammatoria comune anche ad altri virus respiratori ma in questo caso molto più cospicua. L'entità della reazione infiammatoria può dar luogo a forme leggere di bronchite o broncopolminiti senza particolari complicanze respiratorie, oppure può portare a broncopolmoniti interstiziali, che colpiscono i "muri" dell'albero respiratorio".
A tal proposito, il virus Sars-Cov-2 provoca spesso queste polmoniti interstiziali. Cosa sono?
"Immaginiamo di avere un albergo: l'ingresso è la trachea, i corridoi principali sono costituiti dai bronchi, i corridoi secondari sono i bronchi di primo e secondo livello. In fondo, abbiamo tanti piccoli corridoi che finiscono in mini 'appartamenti' con delle 'stanzette': la broncopolmonite, normalmente, colpisce queste stanzette, nel caso di quella interstiziale vengono colpite soprattutto le pareti, come se la tappezzeria si spogliasse ed il virus si infiltrasse fino a rompere questa parete. L'infiammazione, se molto forte, può portare anche ad un interessamento del circolo polmonare e dei piccoli vasi con le embolie polmonari, responsabili anche di alcuni decessi soprattutto in un fase iniziale in cui non si conosceva bene questo aspetto".
Quindi, Covid provoca anche le embolie polmonari?
"Le citochine sono delle proteine pro-infiammatorie che, quando sono prodotte in grossa quantità, oltre ad arrossamento e gonfiore sulla pelle, possono portare all'alterazione della coagulazione intravascolare. Si sono formano aggregati piastrinici che formano gli emboli, i quali si incastrano nei vasi periferici".
Quali sono i sintomi?
"Dipendono dal livello di aggressione e gravità del virus: alcuni sono simil influenzali come febbre, mal di testa, dolori articolari o tosse secca e si risolvono in pochi giorni. Man mano che si va verso un aspetto un po' più grave può comparire la broncopolmonite, con febbre elevata, mancanza di respiro, cefalea e dolori diffusi e tosse ma senza catarro. Ci sono dei pazienti che, in questi mesi, hanno avuto piccole influenze o raffreddori: a posteriori, si può immaginare che abbiano avuto il Covid. Se è vero che provoca broncopolmoniti, ha dato tutta una serie di manifestazioni simil influenzali, con le quali è stata confusa, che hanno colpito anche le alte vie respiratorie, come può essere il naso rispetto ai bronchi, che fanno parte delle basse vie respiratorie".
C’è una categoria di persone che colpisce maggiormente?
"Direi di no, il virus può colpire tutti: i bambini lo portano ma non lo diffondono, dai giovani in su tutti possono essere colpiti. Quello che conta è come lo si prende, sono morti anche 30enni, quindi non è soltanto un fattore d'età. Alcune fasce più a rischio possono essere costituite da portatori di handicap, epilettici, chi ha avuto la poliomelite. Sono un po' più fragili e potrebbero avere dei danni imporanti così come per chi è anziano, non si intende soltanto chi è avanti con gli anni ma anche il 60enne fumatore da tanti anni. Ma anche chi mangia male, chi ha un lavoro pesante perché hanno un fisico indebolito da altri fattori".
Sappiamo essere l’organo preferito dal virus, qual è la percentuale di casi riscontrati?
"Ho preso Covid anche io, l'ho sperimentato sulla mia pelle, per fortuna in una forma non grave. Per quello che ho potuto constatare anche con i miei colleghi, nel 90% dei casi i sintomi erano essenzialmente respiratori, da quelli più leggeri simil influenzali, via vai fino ai bronchiali per arrivare a broncopolmoniti e polmoniti".
C’è una terapia specifica per curare i polmoni?
"In tanti pazienti con le forme più leggere come febbre, cefalee, dolori articolari e tosse si curano con tachipirina e paracetamolo. Sono tanti, però, anche i pazienti che hanno la broncopolmonite: prima di tutto, è fondamentale indivuduarla magari con una radiografia o una tac. Nei casi più gravi, si può usare l'idrossiclorochina, un importante antifiammatorio reumatico che sembra aver anche effetti antivirali. Bisogna stare attenti, però, perché potrebbe avere implicazioni sul cuore e va monitorato con una certa attenzione. Nelle forme di broncopolmoniti più gravi, ai limiti del ricovero, ci sono terapie antibiotiche un po' più impegnative".
Ultimamente si parla dei casi Covid-like: pazienti negativi al tampone ma una tac rivela polmoniti intrerstiziali, cosa può dirci in merito?
"Uno studio pubblicato dai medici dell'Istituto Galeazzi di Milano mostra come, su 160 pazienti arrivati al pronto soccorso con sintomi come tosse e febbre, su 100 di loro c'era la presenza di broncopolmonite. Ciò significa che in molti casi non è stata diagnosticata, molti non lo sanno. In tanti soggetti studiati a posteriori, ormai guariti, con la Tac è stata evidenziata una broncopolmonite, nascosta dai quei sintomi leggeri. Anche se non c'è certezza che fossi Covid, si trattava sicuramente di broncopolminiti non diagnosticate. È sempre utile fare una Tac per vedere se è avvenuta o meno una completa guarigione".
Il danno polmonare che si vede con la Tac, è reversibile o permanente?
"È anche legato alle condizioni di partenza di un paziente, se è sano o deteriorato. E poi, dall'entità dell'infezione: se è leggera, normalmente sparisce; nei casi di rianimazione o di intubazione, quindi gravi broncopolmoniti, è difficile che sparisca tutto. Quei famosi danni alle pareti rimangono, radiologicamente si vedono esiti più o meno marcati. Molti pazienti devono fare una riabilitazione respiratoria per riparare l'apparato respiratorio che è stato danneggiato. E vanno seguiti nel tempo".
C’è un modo per prevenire le polmoniti?
"All'inizio non si sapeva nulla. Adesso si è detto che, nelle primissime fasi o addirittura come prevenzione, l'idrossiclorochina potrebbe essere utile, tenendo sempre ben presente gli effetti cardiologici. Non si può dare a tutta la popolazione ma bisogna identificare pazienti un po' a rischio dove si sospetta l'infezione, ed evitare i sintomi e l'infiammazione descritta prima. In ogni caso, il primo rimedio resta il distanziamento, non avere contatti con il virus. Prima cosa, non essere infettati. E poi, mica il farmaco si può prendere liberamente in farmacia, è il medico che lo decide o meno. Non è la tachipirina..."
Linda Varlese per huffingtonpost.it il 20 maggio 2020. Come finisce una pandemia? Quando, in altre parole, si può pensare davvero di tornare alla normalità come la intendiamo? Alle domande che, con la fine del lockdown e le recenti riaperture, tutti ci stiamo ponendo, hanno provato a rispondere alcuni storici della Medicina in un interessante articolo apparso di recente sulle colonne del New York Times. Dalle parole degli esperti, oltre alla ricostruzione storica di alcune delle più grandi pandemie del passato, emerge un interessante punto di vista che tende a distinguere fra una fine “medico-scientifica” del virus e una fine “sociale”. In altre parole, anche laddove non arrivi la notizia ufficiale della fine della pandemia dalla comunità scientifica internazionale, le persone avvertirebbero una stanchezza e un bisogno di riprendere la propria quotidianità che porterebbe automaticamente a non avvertire più né rischio né paura e di conseguenza a vivere come se la pandemia fosse finita, sebbene il virus circoli ancora. Uno spunto affascinante di cui abbiamo discusso con il professor Gilberto Corbellini, Professore ordinario di storia della medicina presso l’Università La Sapienza di Roma.
Sta succedendo questo anche in Italia?
«Sono scettico su questa lettura perché il fatto che un’epidemia possa spegnersi socialmente, cioè terminare perché la società a un certo punto decide di ignorare la minaccia, vale soltanto quando questa minaccia non è più percepita. Non esiste nella storia della medicina nessun caso di epidemia o pandemia che si siano “chiuse socialmente” in un momento in cui c’era un’alta mortalità e le persone avevano paura di morire. E’ chiaro che di fronte al lockdown e a tutti i disagi, di fronte al fatto che la mortalità non è così alta da arrivare alla percezione comune, possa verificarsi un abbassamento della percezione di rischio. E questo forse è il caso di Covid-19».
Sta dicendo che il Coronavirus non faceva paura neanche quando faceva paura?
«Parliamoci chiaro, nel mondo siamo arrivati se non sbaglio a 320 mila decessi da Covid-19. Nello stesso lasso di tempo, l’influenza Spagnola del 1918 ne aveva ammazzati già diversi milioni. Quindi è chiaro che la percezione di questa infezione nella società è legata alla comunicazione, al numero trasmesso in televisione di morti che scatena l’emotività, ma che non è un numero abbastanza alto da far sì che le persone nella maggioranza conoscono qualcuno che è morto o che di questa malattia abbiano paura. Un altro dato oggettivo, infatti, è che il covid uccide in prevalenza persone anziane che ci si aspetta che muoiano e quindi se parliamo di un’ipotesi di fine sociale è chiaro che la società non ha degli stimoli di rischiosità che siano tali da non dar spazio al desiderio di far finta di niente e di ripartire e andare oltre. Si è diffusa all’inizio una paura ingiustificata, sulla scia dell’emotività suscitata dalla comunicazione. E’ stato il virus più mediatizzato della Storia della Medicina. Se c’è una cosa di cui si può star certi è che questo virus non rappresenta una minaccia per la specie, come qualcuno ha detto. Quando guardo i numeri, mettiamo anche che siano 100 milioni di contagiati, mi viene da pensare: per l’Asiatica nel 1958, abbiamo avuto tra uno e tre milione di morti, con oltre 500 milioni di casi».
Si poteva fare a meno di questo terrore?
«Il rituale delle 18, numeri che parlano del nulla per spiegare il nulla, non ha fatto altro che accrescere la tensione sociale. Una gestione tra il terroristico e il paternalistico. Se questo virus non avesse fatto morire le persone dentro ai reparti e nelle terapie intensive e non avesse avuto questo impatto incredibile sul Ssn ce ne saremmo accorti, ma neanche tanto. Se avesse fatto il suo salto di specie nel 1920, non se ne sarebbe accorto nessuno perché la terapia intensiva non c’era, le persone di 75 anni e oltre con patologie pregresse sarebbero morte e basta. Guardiamo a come sono state affrontate altre grandi pandemia nella storia. Quando nel 1889 ci fu la pandemia russa che uccise 1 milione circa di persone, in prevalenza bambini e anziani, non suscitò grande paura: era normale in quell’epoca vedere morire i più piccoli, la mortalità infantile era molto alta, allo stesso modo gli anziani erano esposti. Differente il caso della Spagnola».
Ci dica.
«La spagnola spaventò perché uccideva i giovani-adulti, il virus scatenava tempeste citochiniche in persone con sistema immunitario robusto. E vedere persone di 25-30 morire era uno shock sociale spaventoso. Come se vedessimo oggi morire ragazzini di 18 anni. Ecco. Questo shock non c’è stato per il Covid-19. Per questo la paura e la percezione della minaccia non è così alta. E’ anche possibile che a un certo punto siano stati eliminati, con grande dispiacere e tristezza, s’intende, quei soggetti più a rischio e che quindi adesso i pazienti sviluppino una malattia meno grave, come qualcuno dice, perché ci sono meno polimorbidità, non sono così tanti anziani perché questi tengono le distanze o sono degli anziani più in salute».
Eppure molte persone dopo la recente riapertura, faticano a riprendere la vita di tutti i giorni. Quale sarà il decorso, anche guardando alle riprese dopo le pandemie del passato? Si può fare un confronto?
«Sul piano delle dinamiche socio-economiche qualche minimo confronto si può azzardare. Premessa. Noi abbiamo una risposta psicologica innata verso le epidemie e le pandemie: ci terrorizzano e scatenano una serie di reazioni che escono da qualsiasi controllo razionale. In questa situazione di paura che ormai circola, si crea un’ambivalenza nelle persone: da una parte un sentimento di pessimismo sullo scenario generale, si ha paura che l’epidemia riprenda o sia ha paura per il futuro. Ma sul piano individuale tendiamo ad essere ottimisti, pensando che in qualche modo ce la faremo sempre, per questo prendiamo anche più rischi di quelli che dovremmo. Tendiamo a uscire delle regole: questo è un fattore che influenzerà nei prossimi mesi le dinamiche epidemiologiche anche rispetto alla circolazione del virus. L’unico esempio che si può fare con le epidemie del passato è con la spagnola: nessuno sa perché si è spenta la spagnola, la ragione più probabile è che sia venuto fuori un ceppo virale meno virulento che prevalse su altri ceppi virali e che portò allo spegnimento di questa influenza da H1N1. H1N1 è andato sottotraccia, mai dando sfogo a manifestazione pandemiche fino agli anni ’70 e poi al 2009, quando l’Oms dichiarò una pandemia (suina) che non si verificò mai».
Come finirà la pandemia?
«Non lo so. Di base la pandemia finisce con l’adattamento reciproco tra virus e specie ospite. Il mondo umano è estremamente capace di adattarsi: se è vero che le forme che manifesta questa malattia adesso sono più lievi forse è anche perché i medici hanno imparato a curarle meglio, o il carico virale è inferiore grazie alle mascherine e al distanziamento. Di sicuro non ci sono prove che il virus sia cambiato al punto da far ritenere che abbia perso virulenza. Può darsi che accada. Ma al momento non ci son prove. Ci possiamo aspettare che piano piano la pandemia si spenga o mantenga focolai minori in Paesi con condizioni favorevoli al virus, temo per l’Africa o il Sud America. Possiamo sperare, poi, che attraverso la ricerca farmacologica e del vaccino venga fuori qualcosa che ci faccia vincere definitivamente. Ma se mi chiede cosa accadrà non lo so: potrebbe spegnersi come tornare con scenari peggiori».
Ha parlato però di adattamento dell’uomo al coronavirus, che è come dire imparare a convivere con il virus, non averne paura, tornare alla vita, come ipotizza il New York Times...
«E’ come dire fare come hanno fatto alcuni Paesi dall’inizio: non ricorrere a un lockdown così restrittivo come è stato fatto in Italia, ma raccomandare il distanziamento fisico e abbassare il metabolismo economico, ridurne il regime di funzionamento senza spegnerlo, ripartendo nel momento in cui l’emergenza l’ha consentito. Non penso solo alla Svezia, ma anche alla Germania, alla Svizzera. Noi in Italia ci siamo fatti dettare l’agenda dal virus e dalle condizioni del sistema sanitario, mettendo in atto misure di 100 anni fa. Come in tutte le epidemie e delle pandemie dove non si hanno metodi medici efficaci, farmaci e vaccini a disposizione, l’unico sistema da usare è quello storico, arcaico, indice di ignoranza che si chiama ‘quarantena’. E’ la cosa più facile di questo mondo: prendi le persone, le chiudi dentro casa, ne impedisce i contatti e fermi l’epidemia. Ma cosa succede all’economia? Cosa succede quando escono e il virus continua a circolare? Cosa succede nella percezione di chi deve governare e fare in modo che le attività economiche vadano a sostenere il Pil? Cosa succede nella percezione delle persone che non si possono muovere liberamente?»
Però in Svezia ci sono stati moltissimi morti. Prima di noi in Cina, in Corea del Sud, il lockdown totale ha dato ottimi risultati in termini di contenimento del contagio...
«Tanti morti in Svezia? La Svezia ha calcolato il rischio e adottato misure sulla base delle prove di efficacia, rifiutandosi di militarizzare il paese, trattando le persone come cittadini e non come sudditi. La Svezia ha una scuola di epidemiologia di tutto rispetto, che non sfigura con quelli dell’Imperial College. Che peraltro si sono rivelati dei gran pasticcioni. Quella svedese è stata una gestione razionale e non impulsiva, come quella italiana. Le prove che avevano a disposizione dicevano che era molto più saggio andare in quella direzione, rischiando di pagare con un certo numero morti, che sono stati più di quelli che si aspettavano e lo hanno riconosciuto. Sono anche intellettualmente più onesti dei nostri politici ed esperti. Hanno valutato che i danni sarebbero stati maggiori a trovarsi nella condizione di avere un lockdown dopo l’altro e strozzarsi davanti a un virus che peraltro ancora non si capisce quale letalità abbia davvero. In questa prima ondata questo virus, probabilmente ha avuto questa letalità perché ha contagiato e si è portato via le persone più a rischio, nella seconda, se ci sarà, potrebbe averne di meno».
Navighiamo a vista.
«Non ci sono prove che andando in una direzione si vada bene. Le politiche adottate sono state diverse nei diversi Paesi. Qualcuno l’ha voluto ignorare come Bolsonaro, in altri si è adottata la strategia della convivenza come gli svedesi, la Germania ne ha usate altre, l’Italia altre ancora, Cina e Singapore altre ancora. Vedremo come nei prossimi mesi le diverse risposte sociali daranno vita a dinamiche diverse non solo per quanto riguarda la ripresa economica, ma anche l’orientamento politico nei diversi paesi».
Coronavirus, Giuseppe Remuzzi: "Malattia mutata", il fattore "8 su 10". Tobia De Stefano su Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Quanti sono i misteri del virus che da due mesi e passa sta stravolgendo le nostre vite? Purtroppo tanti. Sono troppe le domande su origine, trasformazione e capacità di contagio del Covid 19 rispetto alle quali ci troviamo disarmati e senza risposte. Proprio per questo viviamo sul chi va là questa fase due (i più scommettono in una nuova ondata di infezioni) e tremiamo rispetto alle conseguenze economiche che avranno i loro effetti più acuti (aziende che falliscono, disoccupazione, nuovi poveri) nella fase tre. E così se il direttore dell'istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, Giuseppe Remuzzi, dà delle indicazioni, delle bozze di soluzione rispetto agli interrogativi di cui sopra vale la pena seguirlo. Il professore è riconosciuto per la sua serietà e affidabilità e per il fatto che non ama esporsi prima che le intuizioni della sua équipe siano corroborate dalla sperimentazione. Quindi vediamo.
La prima strada indicata riguarda la mutazione della malattia, che per fortuna starebbe diventando meno "cattiva" rispetto a come l' avevamo conosciuta all' origine. «I malati di adesso - spiega Remuzzi in un intervento alla trasmissione Piazza Pulita - sono completamente diversi da quelli di tre o quattro settimane fa, continuano a diminuire le terapie intensive e i ricoveri nei reparti normali. Prima arrivavano nei pronto soccorso 80 persone tutte con delle difficoltà respiratorie gravi, oggi ne arrivano dieci e otto le puoi mandare a casa. La situazione è cambiata ovunque, non solo a Bergamo e a Milano, ma anche a Roma e Napoli. Perché? Non so se è il virus a essere mutato o se a essere cambiata è la carica virale di ogni paziente, l' unica cosa che posso dire è che sembra di essere di fronte a una malattia molto diversa da quella che ha messo in crisi le nostre strutture all' inizio della pandemia». Insomma non è possibile sapere se il virus si è indebolito, sta di fatto che le persone che vengono contagiate oggi stanno decisamente meglio rispetto a quelle infettate due mesi fa.
Strada alternativa - Buona notizia. Che da sola però non basta. Perché ormai è una convinzione comune che fino a quando non verrà trovato un vaccino dovremo continuare a limitare la nostra libertà per provare a convivere e sconfiggere il virus. Ma anche su questo Remuzzi traccia una strada alternativa che parte dal plasma dei "guariti" dal quale creare gli anticorpi da iniettare nelle persone malate per farle a loro volta "guarire". «È un uovo di Colombo antichissimo - spiega il direttore del Mario Negri - si è fatto con la poliomelite e con la spagnola... quindi dei risultati ci sono e io sono molto ottimista sul fatto che il plasma funzioni. Noi abbiamo utilizzato un sistema innovativo che preleva dal plasma (della persona contagiata e guarita ndr) solo gli anticorpi che vanno poi iniettati negli ammalati... ma è meglio non parlare dei risultati fino a quando lo studio non sarà concluso.
Terminiamo la sperimentazione e solo allora - quando, come io penso, i test ci diranno che il plasma funziona - potremo pensare a renderlo accessibile a tutti». Ci troveremmo davanti a una scoperta importante, ma non risolutiva perché dipenderebbe anche dal plasma messo a disposizione da chi è guarito e nessuno potrebbe essere obbligato a donare il proprio sangue. «La nostra sperimentazione sarebbe un passo avanti - spiega ancora Remuzzi - per arrivare a costruire gli anticorpi in laboratorio. Ci sono già diverse compagnie che ci stanno lavorando e sono molto avanti. Ci arriveranno presto, secondo me prima del vaccino, e in quel caso saremmo realmente davanti a un uovo di Colombo perché non sarà più necessario avere un donatore». Da un lato il virus che sta diventando innocuo e dall' altro gli anticorpi creati in serie in laboratorio. Se queste intuizioni venissero confermate, il Covid sarebbe pressoché sconfitto e il vaccino diventerebbe quasi superfluo.
E’ normale che i virus mutino e si evolvano. Continua a cresce la disinformazione divulgativa. Gilberto Corbellini, ordinario di Storia della Medicina e docente di Bioetica presso la Sapienza Università di Roma, dirigente CNR, su Il Dubbio il 9 maggio 2020. Discettando di evoluzione della pandemia nei salotti televisivi sarebbe auspicabile che gli scienziati almeno evitassero di antropomorfizzare il comportamento darwiniano del virus. Attribuire intenzioni o scopi non solo ad altre persone, ma anche ad altri animali, a virus, alla “natura” o persino ad oggetti è un’inclinazione psicologica cablata nei nostri geni e che ha aiutato i nostri antenati a sopravvivere nelle foreste o nelle savane, dove le nostre strategie comportamentali si sono evolute per dare senso a un’esperienza caotica. Il bias teleologico o finalistico è pervasivo, malgrado Spinoza e Darwin ne abbiano fatta pezzi la fondatezza logica e scientifica. Spinoza definiva il pensiero finalista “asylum ignorantiae”[ rifugio dell’ignoranza, ndr], mentre Darwin e il darwinismo hanno dimostrato che l’evoluzione non tende verso alcunché, e anche che è infantile applicare categorie morali ai comportamenti di qualunque organismo vivente che non sia l’uomo, il quale ha ritrovato nel cervello il senso morale per selezione naturale. Il finalismo pervade però le discussioni sul SARS- CoV- 2: sta diventando più “buono”? Sono in corso processi mutazionali con lo scopo di cambiarne l’efficienza nel trasmettersi o la letalità, così da trovare conferma alle preferenze ottimiste o pessimiste di ciascuno? Nel merito di Covid- 19, le chiacchiere stanno a zero. Non esistono dati che consentano di dire qualcosa di scientificamente attendibile su come stia evolvendo il virus. Sono stati pubblicati studi, alcuni non controllati, per cui starebbe “mutando” in forme più infettive a parità di letalità, e studi per i quali si starebbe “indebolendo”. Dire che un virus muta è come dire che la Terra gira intorno al Sole: è un’ovvietà e non un problema. Le mutazioni avvengono a caso, cioè non con lo scopo di portare da qualche parte, e la selezione naturale avvantaggerà le variazioni che aumentano il tasso di riproduzione. Per i virologi esiste ancora un solo ceppo del coronavirus, e si vedono isolati virali, cioè variazioni che non consentono però di dire se il virus si comporti in un modo completamente diverso. Alcuni isolati sono stati trovati in uno stesso paziente, in sedi differenti, senza che mostrassero differenze significative. Il problema di come cambia nel tempo la dannosità nei rapporti tra parassita e ospite fu sollevato sin dagli anni Settanta dell’Ottocento e da allora si è discettato se ai parassiti convenga o meno ridurre la letalità, allo scopo di non danneggiare troppo l’ospite e avere così più probabilità di trasmettersi. Fino agli anni Settanta circa prevalse l’idea che tutte le infezioni evolvano verso la benignità e che la gravità di un’infezione sia indice di una relazione molto recente nel tempo. In realtà, a confutazione di questa regola, c’erano le infezioni da protozoi – leishmaniosi, tripanosomiasi o malaria – che sono molto dannose. Negli anni Ottanta si arrivò alla teoria cosiddetta del compromesso (trade- off), secondo cui i parassiti cercano attraverso la selezione naturale un compromesso fra trasmissione e letalità. Se non ci riescono spariscono. Se l’infettività è elevata, al virus non porta svantaggi essere letale: si pensi al vaiolo che era molto infettivo e molto letale. In questo senso, le infezioni che usano vettori culturali, come l’uso dell’acqua negli insediamenti urbani che può trasmettere il colera, possono più facilmente evolvere in una maggiore virulenza, cioè fare più danni all’ospite in quanto la trasmissione può essere anche più efficace se l’ospite sta molto male; si pensi a un malato di malaria grave che rimane a letto a farsi pungere e prelevare il parassita. Uno studio pubblicato circa un anno fa su Nature, analizzando una decina di infezioni virali umane e animali, ha mostrato primo che non è solo la virulenza a influenzare la capacità del virus di adattarsi a un nuovo ospite; secondo che non c’è una regola generale; e terzo che quando il parassita entra in una nuova specie si innescano una selezione positiva e una negativa che tendono a strutturare il fenotipo a vantaggio della sua diffusione. Ma, appunto, esempi di evoluzione della virulenza presi dal virus del Nilo occidentale, dal virus dell’influenza aviaria H5N1, dal virus della malattia di Marek, da HIV, dal virus di Ebola, dal virus Zika, dal virus della mixomatosi dimostrano diverse e locali strategie di modulazione dei fattori che aumentano l’adattamento del virus. Non che i virus col tempo diventano buoni o cattivi! Cosa significa tutto questo per Covid- 19? Il distanziamento fisico abbassa l’intensità di trasmissione e quindi potrebbe portare alla selezione di varianti meno letali. D’altro canto, le mutazioni potrebbero consentire l’evoluzione di qualche variante più aggressiva e avvantaggiata nel colpire la popolazione di giovani adulti. Ci si può sbizzarrire con diversi scenari evolutivi. Ma è presto per fare previsioni. In ogni caso, discettando di evoluzione della pandemia nei salotti televisivi sarebbe auspicabile che gli scienziati almeno evitassero di antropomorfizzare il comportamento darwiniano del virus. È diseducativo: rafforza le percezioni intuitive distorte dei processi evolutivi e quindi si fa della disinformazione divulgativa, che alimenta un pensiero più magico che scientifico.
Alessandro Trocino per il "Corriere della Sera" l'8 maggio 2020. «Ci vogliono almeno sette giorni, dieci se vogliamo stare larghi, per verificare l' impatto delle misure adottate il 4 maggio. Quindi ne sapremo qualcosa di più tra il 12 e il 14 maggio. Fino a quel giorno non sapremo davvero la nostra situazione». Il professor Franco Locatelli è uno degli esperti più noti del Comitato tecnico-scientifico, apprezzato per il rigore, la competenza e anche per l' uso di un eloquio tanto cadenzato nel timbro quanto scientificamente funambolico nel lessico.
Professore, per dirla con Fruttero e Lucentini, a che punto è la notte?
«Siamo a un punto marcatamente migliore rispetto a qualche settimana fa. Basti guardare qualche cifra».
Vediamole.
«I pazienti nelle terapie intensive sono 1.311: il 3 aprile erano 4063. I decessi sono passati dai 900 del 27 marzo ai 274 di oggi. I soggetti che hanno contratto la Sars-CoV-2 sono 1.400. Numeri clamorosamente migliori» .
C' è un «ma»?
«Il ma è che non bastano per dire che siamo usciti dal tunnel. Siamo ancora nell' epidemia. Sono numeri, però, che documentano l' efficacia del lockdown . Abbiamo frenato un contagio al Centro-Sud che sarebbe stato drammatico».
Il premier sta valutando di anticipare alcune riaperture e le Regioni scalpitano, esibendo i dati positivi.
«Sono scelte che pertengono alla politica. Da medico le dico che solo dopo il periodo di incubazione, il 12-14 maggio sapremo l' impatto delle misure. Se si prendessero altre decisioni, lo si farebbe sulla base dell' esistente al 4 maggio».
Alcuni Comuni riapriranno attività solo se l' Rt (l' indice di riproduzione) scenderà sotto lo 0,5. È una decisione saggia?
«L' importante è che l' Rt vada sotto l' 1. È chiaro che più è basso, meglio è. Perché consente di liberare le strutture sanitarie che sono andate in affanno».
Ci sono stati morti da Covid e morti da altre malattie, non curate in tempo.
«Ci può essere stata una mortalità indiretta. Le chiamate per gestire il Covid hanno negativamente impattato sui tempi di soccorso per i malati da sindrome coronarica acuta, ischemia miocardica, incidenti cerebrovascolari. Siamo stati travolti».
È cambiato qualcosa?
«I ricoverati sono diminuiti e siamo passati da 5.500 letti di terapia intensiva a oltre 9.000. Ora lo sforzo del ministro della Salute è quello di dare stabilità a questi posti».
Fare pochi tamponi non ha inficiato la validità dei dati?
«C' è stato uno sforzo importante: siamo a 2 milioni e 380 mila tamponi. Un numero tra i più alti mai raggiunti. È chiaro che sarà cruciale anche nella fase successiva, per implementare le strategie di contact tracing . Il corollario imprescindibile della app è il tampone».
Per riaprire, bisognerebbe stabilire parametri certi in ogni Regione: posti letto, personale, attrezzature, monitoraggio.
«È proprio quello che stiamo facendo. I posti letto, l' evoluzione epidemica e l' immediata reattività sono fondamentali».
Ma alle Regioni sembra importare poco. Guardi la Calabria.
«Noi diamo indicazioni, poi è la politica che decide».
Giunto a questo punto, lei è ottimista o no?
«Io curo oncopatologie dei bambini, ci mancherebbe che non fossi ottimista. Mi pare che gli italiani abbiano dato una prova straordinaria. Quindi guardo con un certo ottimismo al futuro».
Per essere più ottimisti servirebbe un vaccino. O almeno qualche risultato dal plasma.
«Sul plasma c' è un' attesa ansiosa della comunità scientifica. Aifa e Iss stanno attivando un protocollo di studio randomizzato. Mi lasci dire, e non ho confluenze d' interessi, che lo sforzo dell' Aifa è stato clamoroso. C' è stata una rivoluzione copernicana negli studi clinici di questo Paese. Parlandone con alcuni colleghi di altri Paesi ho sentito una grande ammirazione per quello che abbiamo fatto».
Il coronavirus? Come un raffreddore". Il professor Clementi sconcerta la Gruber: "Si sta svuotando, è mutato. E ora..." "Impossibile, non è vero". L'uomo di Zaia che ha contenuto il virus sbugiarda il governo in diretta: Formigli a bocca aperta. Libero Quotidiano l'8 maggio 2020. I risvolti di questo maledetto coronavirus. L'ultimo allarme riguarda la cosiddetta ipossia silenziosa, ovvero una pericolosissima condizione in cui i pazienti hanno tutti i segni clinici dell'ipossia (che comporta lesioni polmonari gravissime, scarso ossigeno nel sangue e compromissione potenziale di diversi organi) senza però avere alcun sintomo evidente di mancanza d'aria. Si tratterebbe di un "effetto collaterale" del Covid-19, di una sindrome legata alla pandemia e di cui può soffrire chi la ha contratta. La patologia è stata esaminata e rilevata da Richard Levitan del Littleton Regional Healthcare nel New Hampshire, che ha poi consegnato i risultati alla CNN. L'ipossia silenziosa, in particolare, colpirebbe i giovani, che spesso arrivano in ospedale quando è troppo tardi proprio perché non sono consapevoli del problame, di averla contratta. Il punto è che il coronavirus, quando si aggrava, come ben sappiamo si associa a gravi polmoniti e difficoltà respiratorie che rendono il paziente letargico e comatoso. Ma diverse fonti mediche hanno rivelato come per alcuni pazienti l'ipossia arrivi in modo silente: i soggetti, giovani, iniziano a manifestare difficoltà respiratorie quando i polmoni sono già molto compromessi e quando il livello di ossigeno nel sangue è già bassissimo. Circostanze che, come detto, comportano gravi compromissioni agli altri organi. Il coronavirus, insomma, è un nemico sempre più subdolo.
«Coronavirus, subito tamponi di massa». L’appello di Crisanti, Ricolfi e Valditara. Il Corriere della Sera il 5 maggio 2020. In undici punti le richieste dei tre professori, sottoscritte dai professori di Lettera 150: «Occorre cambiare rotta se non vogliamo che milioni di lavoratori perdano il posto. Incostituzionale bloccare a casa le persone sane». Se vogliamo che la imminente riapertura non sia effimera, se vogliamo evitare la chiusura di centinaia di migliaia di aziende, se vogliamo che milioni di lavoratori non perdano il posto di lavoro, occorre cambiare rotta. Bisogna iniziare subito a fare tamponi di massa. È necessario, ed è possibile. Ecco perché:
1 Finora nelle regioni italiane si è fatto un numero insufficiente di tamponi giornalieri per abitante e ciò è ancora più evidente quando si confronta questo numero con i casi positivi identificati.
2 Una recente comparazione internazionale mostra che il numero di tamponi giornalieri per abitante è inversamente correlato a quello dei morti: più tamponi, meno morti.
3 Gli studi epidemiologici collegano ormai una efficace strategia di contenimento del virus ad una campagna di tamponi di massa. Persino l’OMS ora caldeggia l’esecuzione di tamponi di massa.
4 Uno studio fatto dai professori Francesco Curcio e Paolo Gasparini ritiene che, utilizzando le esistenti strumentazioni di laboratorio, e con una efficiente organizzazione, ogni regione potrebbe processare già oggi un numero notevolmente superiore di tamponi.
5 Il costo per il processamento di un tampone, utilizzando reagenti almeno in parte prodotti nei laboratori di ricerca, è dell’ordine di 15 euro (inclusi il costo del personale tecnico, le utenze, il costo di ammortamento della strumentazione).
6 Risulta che molte imprese private, in diverse regioni italiane, si sono rese disponibili a pagare una campagna di indagini molecolari per i propri dipendenti e persino a finanziare laboratori che eseguano tamponi.
7 Macchinari di ultima generazione arrivano a processare fino a 10.000 tamponi al giorno.
8 La capacità di fare tamponi in grande numero permetterebbe di contenere ed eliminare prontamente la trasmissione del virus in caso di sviluppo di focolai epidemici, come effettuato con successo a Vo’.
9 Dopo 2 mesi di confinamento domiciliare esistono in Italia milioni di persone negative a Covid-19 che, adottando adeguati strumenti di protezione, potrebbero vivere nella pienezza dei propri diritti costituzionali invece finora conculcati. Una campagna di tamponamento può consentire a loro di riprendersi pienamente la libertà di movimento, e di riunione, la libertà religiosa, la libertà di lavorare, e quella di iniziativa economica, tutte attualmente e in vario modo compresse. Ovviamente, tutto ciò richiede che, sempre a scopo precauzionale, si osservi il distanziamento e si indossino obbligatoriamente le mascherine. È altresì auspicabile un efficace tracciamento con app.
10 Vietare a persone sane di circolare liberamente sul territorio nazionale, di lavorare o di intraprendere iniziative economiche è contrario ai principi costituzionali.
11 Senza una politica di tamponi di massa si avranno più morti, più danni alla salute, maggiori rischi di nuovi lockdown con conseguenze catastrofiche per la nostra economia.
Perciò invitiamo le autorità nazionali e regionali ad avviare una massiccia campagna di tamponi per contenere la diffusione di Covid 19, per difendere la vita, la salute, il lavoro, i risparmi degli italiani oltre ai loro diritti fin qui sospesi. Il tempo è poco, i rischi sono grandissimi: è ora di agire. L’appello è promosso dai tre professori firmatari, ed è stato sottoscritto dai professori di «Lettera 150».
Paolo Becchi contro il virologo Gallo: "Vaccino della polio contro il coronavirus? Ma sì dai, usiamone uno qualsiasi". Libero Quotidiano il 30 aprile 2020. Roba che soltanto nei giorni del coronavirus. Già, accade che il virologo Gallo, interpellato da Repubblica, si produca in una proposta che fin dal titolo fa strabuzzare gli occhi. Già, perché l'esperto afferma: "Non abbiamo un vaccino contro il coronavirus? Usiamo quello per la polio". Un tanto al chilo, insomma, un po' come viene. E la "proposta" viene stigmatizata da Paolo Becchi su Twitter. Il filosofo infatti rilancia il titolo del pezzo che dà conto delle proposte di Gallo, e ci aggiunge un suo commento: "Ma sì dai visto che non abbiamo un vaccino contro il virus vacciniamo tutti con uno qualsiasi. Tutto fa brodo", conclude Paolo Becchi.
Margherita De Bac per il ''Corriere della Sera'' il 9 maggio 2020. È ancora divisa in tre l' Italia, con le gradazioni di rosso che sfumano man mano che si scende verso il Sud a indicare una minore presenza di casi. La Lombardia resta contrassegnata dalla tinta più scura, ma la situazione continua a migliorare anche qui, commenta l' aggiornamento della situazione epidemiologia il presidente dell' Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro. «Stiamo andando verso un numero di casi molto basso un po' dovunque. La decrescita continua, è un segnale che prosegue. L' indice di contagiosità R0 a livello nazionale è tra 0,5 e 0,7». A cinque giorni dall' avvio della fase 2 non è possibile dare la misura di quanto le riaperture abbiano influenzato l' andamento della curva epidemica. La verifica con le Regioni ci sarà la prossima settimana. Se la probabilità di un aumento della circolazione del virus sarà bassa o molto bassa si porranno le premesse per successivi passi in avanti sull' ammorbidimento delle chiusure. Le immagini dei Navigli affollati di gente spingono al rigore: «Un rilassamento dei comportamenti individuali può facilitare un aumento dei casi - è il monito -. Siamo in una fase molto delicata, abbiamo aperto qualche attività perché è giusto che il Paese riparta. Il virus però non ha cambiato caratteristiche e modalità di contagio», dice Brusaferro, smorzando l' ottimismo di chi ritiene invece che il Sars-CoV-2 sia diventato più mite. Il Comitato Tecnico Scientifico sta valutando una serie di situazioni «a partecipazione limitata di persone in luoghi confinati, previo rispetto delle regole e con un percorso di garanzia. Tutti gli eventi, e dunque anche le cerimonie religiose, se regolamentati potranno essere organizzati». Arrivano richieste per la valutazione di protocolli di sicurezza. Come quello preparato da Federparchi che spinge per la ripresa delle visite guidate nelle aree naturali protette da organizzare su prenotazione obbligatoria, con obbligo di mascherine e gruppi di un massimo di dodici visitatori per le escursioni trekking. Nessuna decisione per ora, mentre tra le certezze c' è quella che riguarda gli avvenimenti sportivi. «Difficile immaginare di riempire gli stadi, troppo affollamento», esclude la presenza del pubblico durante le partite di calcio Brusaferro. La possibilità di trasferirsi da una Regione all' altra sarà valutata la prossima settimana tenendo a mente che è rischioso «aprire tante attività insieme». Brusaferro ha poi dato il via libera alle mascherine multistrato fai da te. «Possono essere confezionate in proprio - suggerisce il presidente Iss -. Assicurandosi che aderiscano attorno alla bocca e alle narici e facendo in modo che il respiro rimanga all' interno». Altro argomento affrontato dal presidente dell' Iss è stato quello degli stranieri. Sono stati diagnosticati 6.395 casi, il 5,1% del totale. Il virus ha colpito senza distinzione di nazionalità, quindi «va smentita la fake news sulla presunta immunità degli immigrati. Non è vero che si ammalano meno», ha chiarito Giovanni Rezza, nominato ieri a capo della direzione prevenzione del ministero della Salute. Al contrario, gli immigrati sembrano sfavoriti. L' apice dei contagi è arrivato dopo rispetto alla curva «italiana» forse per un ritardo di diagnosi. Più alto invece il rischio di ospedalizzazione.
Coronavirus, Brusaferro (Iss): "Curva decresce, RT minore di 1 in tutta Italia. Stessa tendenza tra immigrati e italiani". La Repubblica il 30 aprile 2020. La curva cala, il tasso di contagio è inferiore a 1, si riducono le zone rosse. Sono tutti fattori positivi quelli elencati il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss), Silvio Brusaferro, nella conferenza stampa organizzata dall'istituto sull'andamento dell'epidemia da SarCov2. Brusaferro ha specificato inoltre, anche in risposta alle fake news circolate nei primi giorni dell'epidemia sul fatto che gli immigrati non venissero contagiati, che la curva dell'epidemia di Covid-19 è analoga negli italiani e negli individui di nazionalità straniera, tra i quali sono stati rilevati 6.395 casi. "Ma i casi sono partiti con uno sfalzamento di 2-3 settimane", ha detto Brusaferro.
"Ecco perché gli stranieri vengono risparmiati", secondo Galli. Il direttore del reparto malattie infettive del “Sacco” di Milano avanza un’ipotesi sulla diffusione della malattia: la popolazione immigrata in Italia è mediamente più giovane e sana, ma il loro organismo sembra anche più difeso del nostro. Agi 25 marzo 2020. E gli immigrati? Quanti sono i contagiati e quanti i ricoverati, ad esempio al Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano? “Nessuno mi pare”, risponde in un’intervista a Libero Quotidiano il professor Massimo Galli che del Sacco di Milano è il primario. E il direttore sanitario osserva anche che “in ogni caso la percentuale è praticamente nulla”. Quanto alla spiegazione, il medico dice che “l’ipotesi, ma è ancora tutta da dimostrare anche se è verosimile, è che in alcune etnie di discendenza africana ci siano diverse caratteristiche e disponibilità per il virus”. Ovvero, uscendo dai tecnicismi, Galli dice che ciò significa che “queste persone potrebbero avere un fattore protettivo maggiore”, cioè è possibile “che abbiano le porte chiuse, o meglio, semichiuse nei confronti del Covid-19” mentre “le porte degli italiani sono invece spalancate”. Anche per il fatto che come italiani “siamo una popolazione molto vecchia, e questo ci espone più facilmente alle malattie” mentre “gli immigrati che risiedono in Italia sono per lo più giovani e in forze” e pertanto “hanno molti meno problemi di salute rispetto a noi”. “Il fattore anagrafico e la sana costituzione – osserva Galli – spiegherebbero anche il motivo per cui gli adolescenti e i bambini reagiscono molto meglio al Covid-19”.
Coronavirus, al Comitato tecnico scientifico finisce in rissa: "Siete dei servi sciocchi", "Ma chi ti ha autorizzato?" Libero Quotidiano il 22 aprile 2020. Un governo allo sfascio. A documentare una situazione irreparabile la lite avvenuta nel bunker della Protezione civile, dove si riunisce il Comitato tecnico scientifico. Proprio qui - in base a quanto racconta Il Fatto Quotidiano - sono volate parole grosse. Anzi, molto peggio, si è quasi sfiorata la rissa quando Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, ha accusato alcuni colleghi di essere "servi sciocchi". Il motivo? La contrarietà di questi all'idea che ai 150 mila cittadini che si presenteranno per sottoporsi al test sierologico venga chiesto di compilare il test psicologico utile a capire quanto la popolazione sia ancora in grado di sopportare il lockdown. Per molti questo potrebbe causare un effetto boomerang, scoraggiando i volontari al test. Ma questo non è stato l'unico motivo di scontro: Il Fatto parla anche di screzi sui test sierologici per i quali due degli scienziati devono affiancare il commissario Domenico Arcuri nella valutazione delle offerte che arriveranno oggi, sulle linee guida della Fase 2, sull'obbligo del vaccino influenzale per gli over 65. Insomma, un po' su tutto, anche se la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il via libera di Ippolito al test unico per verificare le misure della Fase 2 sulla popolazione che deve fare i conti con il rischio del contagio ma anche con lo stress accumulato. "Ma chi ti ha autorizzato a dire che vanno tenuti insieme?", è stata l'accusa. E pare che tra i più agguerriti ci sia proprio lui: Agostino Miozzo, uno dei dirigenti più alti della Protezione civile che coordina il tavolo del Comitato.
Dall'ombra alla ribalta, i 4 mesi dei virologi litigiosi. Adnkronos.com il: 19/04/2020. Sono passati 4 mesi dalle prime notizie che arrivavano dall'Oriente su un nuovo misterioso 'virus cinese' che stava iniziando a contagiare la popolazione e a preoccupare le autorità della provincia dell'Hubei, capitale Wuhan. Quattro mesi nei quali l'Italia si è aggrappata sempre più forte alle parole di virologi ed epidemiologi, categoria di cui la stragrande maggioranza degli italiani ignorava pure l'esistenza. In un primo tempo per capire cosa fosse questa minaccia ancora lontana e poi, una volta che l'epidemia avanzava veloce verso la pandemia, per definirne la pericolosità. Centoventi giorni in cui gli esperti, oggi più che mai 'registi' nella progettazione della cosiddetta 'fase 2' della crisi Covid-19, hanno assunto posizioni non sempre convergenti, spesso in contrasto con la politica, in accordo e in disaccordo sulle scelte degli esecutivi degli altri Paesi. Dopo una vita nell'ombra, ecco la ribalta mediatica, interviste su interviste, dall'alba al tramonto, giornali e televisioni, dichiarazioni a raffica sui social, un carico di responsabilità enorme che ha diviso l'opinione pubblica e diviso la politica che a un certo punto è sembrata farsi da parte. Parole rassicuranti e altre meno, disquisizioni scientifiche inattaccabili e scivoloni di vario tipo, incluse battute infelici sulla Roma o la Lazio, su Trump e via discorrendo.
Il virologo Roberto Burioni, notissimo per le sue battaglie contro i no vax, è stato uno dei primi a prendere di petto la questione nuovo coronavirus: il 21 gennaio scriveva che "il rischio virus Cina in Italia non è minimo. Al momento non sappiamo né quanto sia pericoloso (ovvero quanti degli infettati sviluppano sintomi gravi) e neanche quanto sia facile il contagio (anche se su questo punto i primi dati non autorizzano l'ottimismo). Non c'è da allarmarsi, ma bisogna alzare immediatamente la soglia di attenzione, perché al momento non abbiamo un vaccino (per la gioia dei cretini antivaccinisti) e neanche una cura efficace, per cui l'unico modo di combattere il virus è impedirne la diffusione". E già 27 gennaio evidenziava che "l'unica cosa oggi che può difenderci veramente è la quarantena, non c'è altro modo", oltre alla "diagnosi precoce" sulla cui importanza insisteva anche a febbraio.
Ancora prima, il 18 gennaio, a parlare era stata Ilaria Capua, che ricordava come questo fosse "il terzo coronavirus a fare il salto di specie dall'animale all'uomo in 17 anni". E a metà febbraio la virologa - 'cervello' italiano spinto a espatriare negli Stati Uniti dopo un'inchiesta giudiziaria che l'ha vista prosciolta "per mancanza dell'evento" contestato - con il suo monito "arriverà in Italia, le aziende si preparino con il telelavoro", scosse un Paese che ancora non immaginava l'imminente arrivo del 'paziente 1 di Codogno' e lo tsunami che ne sarebbe seguito. Tanto che il 9 febbraio anche Burioni diceva "in Italia siamo tranquilli. Il virus non c'è. E' lecito preoccuparsi solo per l'influenza".
Ed è stato proprio il confronto tra Sars-CoV-2 e influenza ad animare lo scontro più forte di questi mesi, scontro che ha finito per coinvolgere elementi di spicco della politica e delle istituzioni, ma anche opinionisti famosi, e i tanti tuttologi del web. Un dibattito culminato nella diffida legale che l'associazione Patto trasversale per la scienza (Pts) - co-fondatori Roberto Burioni e Guido Silvestri, patologo in forze negli Usa - ha annunciato il 22 marzo contro Maria Rita Gismondo, microbiologa dell'ospedale Sacco di Milano, per affermazioni come quella postata su Facebook il 23 febbraio: "Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale".
Posizione sulla quale Gismondo non si sentiva affatto sola: "La mia frase sul virus come influenza? Altri virologi, ad esempio Fabrizio Pregliasco, hanno detto la stessa cosa - replicava la specialista - e lo diceva anche il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). In quel momento avevamo un piccolo focolaio a Codogno e due casi dalla Cina. Si attacca solo me - protestava - quando invece c'erano altre persone che dicevano le stesse cose, fra cui" qualcuno tra "chi firma la diffida. Vale la fonte o il contenuto?".
Capitolo influenza archiviato, si è poi aperto il fronte ancora caldo della gestione di pazienti, contatti e casi sospetti. Ospedale o domicilio? Un botta e risposta in materia si è consumato sull'asse Veneto-Lombardia. Da Padova il virologo Giorgio Palù faceva notare che "in Lombardia hanno ricoverato tutti, esaurendo ben presto i posti letto. Il 60% dei casi confermati. Da noi, i medici di base e i Servizi d'igiene delle Asl hanno fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici, si è evitato l'affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio". E da Milano Pregliasco ribatteva: "Io non voglio sminuire il lavoro prezioso dei colleghi veneti, ma bisogna capire che la situazione non è paragonabile. Così come è sbagliato pensare di adottare in Lombardia le stesse soluzioni".
E poi i tamponi: quanti e a chi? A fine febbraio sul tema non tutti sono d'accordo. Massimo Galli, infettivologo del Sacco di Milano, in prima linea nell'emergenza Covid-19 e ospite frequente di molte trasmissioni televisive di approfondimento, prende di mira la scelta di eseguire i tamponi solo sui casi sintomatici: "Andrebbero fatti anche agli asintomatici, come ha fatto il Veneto", affermava in linea con altri colleghi, ma in controtendenza con le direttive ufficiali. Perché fin dall'inizio della pandemia gli esperti del Comitato tecnico scientifico nazionale per l'emergenza Covid, con in testa nomi fra cui quello di Walter Ricciardi, hanno sempre ribadito che il tampone va fatto solo se ci sono riscontri sui sintomi legati al coronavirus e non agli asintomatici.
Ancora, i test sierologici: quando e perché? Sull'argomento si possono ricordare due voci, quella di Fabrizio Perno dell'ospedale Niguarda di Milano e quella di Palù. Per Perno "il tampone naso-faringeo è l'unico mezzo che abbiamo oggi per misurare la presenza virale", ossia per diagnosticare l'infezione da coronavirus. "Gli anticorpi misurano la risposta dell'organismo all'attacco del virus", dunque "per definizione arrivano dopo". "Il posizionamento del test anticorpale non può che essere 'a valle', dopo che l'epidemiologia dell'infezione è andata avanti" per un certo periodo. Secondo Palù invece "quello di misurare gli anticorpi specifici contro il virus, quindi in grado di riconoscere Sars-CoV-2 dal virus della Mers, da quello della Sars e dai 4 virus del raffreddore che sono coronavirus umani con noi da migliaia di anni, è uno dei modi di fare la diagnosi". "La diagnosi in virologia si fa in modo diretto, cercando e isolando il virus e poi sequenziandolo, o i suoi antigeni, o misurando la presenza di anticorpi specifici".
Persino sulle mascherine la battaglia è apparsa lunga, partecipata e non senza contraddizioni anche da parte dell'Oms: "L'uso esteso di mascherine da parte di persone sane nell'ambiente della comunità non è supportato da prove e comporta incertezze e rischi - ribadiva l'Agenzia in un documento del 7 aprile - Non esistono al momento evidenze secondo cui indossare una mascherina (sia medica che di altro tipo) da parte di tutta la comunità possa impedire la trasmissione di infezione da virus respiratori, incluso Covid-19". Salvo poi leggere di David Nabarro, portavoce Oms, secondo il quale "questo virus non andrà via. Non sappiamo se le persone che l'hanno avuto rimarranno immuni e non sappiamo quando avremo un vaccino". Per questo "qualche forma di protezione facciale sono sicuro che diventerà la norma, almeno per dare rassicurazione alle persone".
Intanto in Italia Andrea Crisanti - docente a Padova, ideatore del sistema dei tamponi diffusi in Veneto e fra i primi ad ammonire sul rischio dei contatti intra-familiari - lanciava la proposta di tenerle sempre, anche a casa. Con Pregliasco che invitava a considerarle "cardine insieme al lavaggio frequente delle mani". Anzi di più: "Dobbiamo iniziare a considerarle come un vero indumento, perché le porteremo a lungo". E ancora Francesco Broccolo, università degli Studi di Milano, precisava che "il virus passa in tutte le mascherine, ma è comunque una prima barriera e ha una sua funzione primaria".
I tanti volti che gli italiani hanno imparato a conoscere ogni giorno in tv si sono espressi dunque con altrettanti voci. Fino ad arrivare a oggi, con la necessità di far ripartire il Paese definendo la fase 2 post-lockdown. Un momento delicato al quale lavora la task force guidata da Vittorio Colao e in cui tutti concordano: sbagliare è vietato. Il fronte dei virologi sembra essersi ricompattato adesso sull'invito alla cautela, a evitare passi falsi che potrebbero causare una nuova impennata di contagi. Burioni indica "prudenza" perché si "devono evitare ripartenze selvagge"; Ranieri Guerra dell'Oms predica molta attenzione perché "sono inevitabili nuovi micro-focolai"; Galli osserva che, seppure l'epidemia "ha perso vigore", allentare ora le restrizioni "sarebbe un grave errore". E ha fatto discutere il mondo dei social l'uscita, venerdì, del rappresentante italiano del board dell'Oms e consigliere del ministro della Salute, Ricciardi, che si è detto sicuro "di una seconda pandemia" in "assenza di un vaccino".
Lo stesso Ricciardi protagonista nelle ultime ore di una querelle sulla sua qualifica. E' Guerra, intervistato da Rainews24, a fare nel merito "una precisazione: il mio collega Walter Ricciardi non è dell'Oms". Contattati dall'AdnKronos Salute, i due chiariscono. "Walter Ricciardi è il rappresentante italiano presso il board dell'Oms - dichiara Guerra - Non ha niente a che fare con l'organizzazione. E' un supercampione della sanità pubblica nazionale, ma non parla a nome dell'Agenzia" delle Nazioni Unite per la Sanità. Ricciardi conferma: "Io sono il rappresentante italiano nel Comitato esecutivo dell'Oms, designato dal Governo per il periodo 2017-2020. Non sono cioè un dipendente dell'Oms", puntualizza l'esperto. "Credo - chiosa Guerra - che la confusione l'abbia fatta la stampa, non lui".
Sul tam tam di dichiarazioni che spesso hanno involontariamente disorientato l'opionione pubblica ha provato a riflettere Silvestri, ammettendo che sì, "gli scienziati a volte discutono, magari anche animatamente come si usa in accademia, ma parlano la stessa lingua e lo fanno sempre allo scopo di aumentare la conoscenza per ridurre le sofferenze dei nostri simili". "Uno sforzo" che medici e ricercatori fanno "volentieri, per dovere verso il pubblico". Altra cosa, ha avvertito l'italiano ad Atlanta, è "il pollaio degli esperti 'fai-da-te'", dove "starnazza gente che non ha mai lavorato su un virus in vita sua" e dove "rosiconi in cerca di visibilità social" cercano di "provocare diatribe pubbliche tra esperti. Gli scienziati, per fortuna, non ci cascano". Vanno avanti e lavorano, consigliano i decisori politici che a loro si affidano fra le accelerazioni delle Regioni e del mondo imprenditoriale. Mentre il 4 maggio si avvicina.
Claudia Guasco per “il Messaggero” l'8 maggio 2020. Forse nei prossimi mesi si troverà il vaccino, magari l'estate porterà a una tregua. In ogni caso non sarà un'impresa facile debellare il Covid-19. «La previsione è che si comporti come la pandemia di Spagnola a inizio 900, che è prima esplosa, si è attenuata durante l'estate e poi è tornata con forza ancora maggiore», afferma Giorgio Palù, docente emerito di Microbiologia all'università di Padova e professore associato di neuroscienze e tecnologia alla Temple University di Philadelphia, oltre che «virologo del modello veneto» chiamato come consulente dal governatore Luca Zaia. Con un crollo del Pil «tra l'8 e il 9% che significa bancarotta» rinviare le riaperture «è impossibile», dice. Ma va fatto «dando responsabilità alle regioni, perché soltanto in Lombardia il 5% della popolazione è stata esposta al virus, tutto il resto è terra di conquista».
Professor Palù, il fatto che il Covid stia mutando e si depotenzi un po' non rassicura?
«Tutti i virus a Rna mutano, questo però meno degli altri perché ha un enzima, 3'-5' esonecleasi, che corregge gli errori nell'incorporazione dei nucleotiditi che avvengono durante la replicazione del genoma virale. Il Covid muta dalle cinque alle sette volte meno dell'Hiv e dell'influenza, inoltre ha un'altra caratteristica che hanno solo i retrovirus, cioè si ricombina. Ci sono almeno sedici proteine non strutturali del virus che regolano la nostra risposta al Covid, alcune delle quali coinvolte nel bloccare la risposta immunitaria innata. Gli scienziati di Los Alamos si stanno concentrando su due mutazioni, G476S e D614G, ma non basta dire che ci sono, bisogna introdurle nel genoma ed è un lavoro molto lungo».
Quindi cosa ci aspetta?
«Due scenari. Che il virus si estingua come la Sars o la Mers in un anno, prima dell'estate 2013. Oppure che si ripresenti dopo l'estate, cosa più probabile. C'è stato un salto di specie. Per sbaglio l'ospite, cioè l'uomo, non ha sviluppato le contromisure per contrastare l'avanzata sfrenata del contagio. E così un virus che colpisce per la prima volta specie umana, la trova vulnerabile e infetta quattro milioni di persone, avrà tutto l'interesse a tornare l'anno dopo».
Non è un pericolo eccessivo riaprire al nord?
«Il rischio c'è. Sulla base dei primi studi sierologici prevediamo che gran parte della popolazione sia esposta al virus come a inizio epidemia. Tutte le regioni hanno l'R0 inferiore a uno, ciò che conta è la disponibilità di letti, di posti in rianimazione, il numero di tamponi eseguiti».
E avere una buona rete sanitaria sul territorio.
«Serve un sistema efficiente, che mandi i medici di medicina generale e del lavoro a fare controlli nelle fabbriche. Il modello Veneto, insomma. Qui abbiamo l'anagrafe sanitaria e biologica, sappiamo chi ha fatto il tampone e ha gli anticorpi al virus, c'è un record di tracciamento informatico di tutti i casi. Abbiamo condotto una ricerca che coinvolge oltre 60 mila dipendenti regionali e, nelle aziende della provincia di Padova, uno studio pilota di quindici giorni, diventato un protocollo da seguire. L'apertura non può essere procrastinata, ma è certamente un rischio perché siamo in una situazione del tutto simile all'esordio dell'epidemia, con il 95% della popolazione esposta al virus. Non dimentichiamoci infatti che i casi sub clinici e asintomatici ammontano a circa il 65%».
Le contromisure?
«Serve capacità di intervento rapido, controllo del territorio e monitoraggio dei pazienti come il servizio di sorveglianza biologica. L'approccio è quello di un'analisi rischi benefici, che mi sarei aspettato venisse attuata dal governo centrale. In ogni caso, con un debito pubblico di 2.600 miliardi non possiamo tenere chiuso. È il nord che produce il 60% del pil, il resto è turismo, settore più fragile perché l'aggregazione è elevata. Bisogna aprire, ma dobbiamo farlo con grande consapevolezza».
Coronavirus: in guerra contro il COVID-19 ma divisi su tutto. Le Iene News il 22 aprile 2020. È sufficiente una quarantena di 14 giorni, come ha affermato più volte la politica e la scienza, o serve più tempo, come suggerito dal caso del nostro Alessandro Politi? E le mascherine servono? Alcuni virologi e esponenti della Protezione Civile dichiarano pubblicamente di non usarle, ma poi la Lombardia le rende obbligatorie. Chi ha ragione? E perché il Veneto si è mossa contro il Covid-19 molto prima delle altre Regioni e con scelte diverse che sembrano vincenti? Se lo chiedono Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. L’Italia, da quasi 3 mesi, è in piena emergenza coronavirus, con oltre 24mila morti. Ma siamo sicuri che tutti, scienziati e politici, vedano questa emergenza allo stesso modo? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci parlano del “modello veneto” di risposta al COVID-19. Un modello che forse ha salvato molte vite e che si distingue dalle scelte fatte dal governo e da altre regioni italiane. Tamponi a tappeto a Vo' Euganeo, decisi dal governatore Luca Zaia, dove è scoppiato uno dei due primi due focolai italiani di Covid-19. Tamponi fatti su tutti i tremila abitanti, che ha consentito di individuare 66 positivi asintomatici, che sono stati messi tutti subito in isolamento. Se il Veneto non avesse disobbedito alle linee guida sanitarie dell’Oms e del governo italiano cosa sarebbe successo? Ma oltre ai tamponi degli asintomatici praticati a febbraio, con il prof. Andrea Crisanti dell’università di Padova il Veneto già a metà gennaio comprava i reagenti necessari per le analisi a basso costo, poi invece diventati introvabili. E ancora provvedeva all’acquisto di un macchinario speciale, oggi unico in Italia, che riesce ad analizzare fino a 9.000 tamponi al giorno. È per questo che il Veneto ha potuto scegliere la politica del tampone diffuso? Tampone obbligatorio per medici e infermieri, nelle case di riposo, per tutti i contatti di pazienti positivi e per tutti coloro che entrano negli ospedali, anche per un’appendicite o un piede rotto. Sarà un caso che il Veneto ha un percentuale così bassa (1,3%) di personale medico contagiato? E adesso il tampone verrà praticato in combinazione con i test rapidi qualitativi, sperimentati all’università di Treviso dal Prof. Roberto Rigoli che sta cercando il kit rapido più affidabile, oltre che a provare a fare in casa i reagenti necessari ai tamponi. Quello del “disobbediente” modello del veneto non è l’unica cosa che solleva dubbi sulla gestione dell’emergenza covid nel nostro paese. Partiamo dall’uso delle mascherine. Per la virologa Ilaria Capua non sono la priorità: "Io personalmente la mascherina non la porto”, ha affermato. Una tesi vicina a quella di Angelo Borrelli, Capo della Protezione Civile, che il 4 aprile dichiara: “Io non la uso la mascherina, rispettando quelle che sono le regole del distanziamento sociale”. Peccato però che pochissimi giorni dopo Regione Lombardia ne imponga l’uso obbligatorio per uscire di casa. Stessa divisione anche sui tamponi: andavano e vanno fatti solo a chi manifesta i sintomi gravi e ha avuto contatti a rischio o anche agli asintomatici? Per Roberto Burioni “il tampone lo possiamo usare nel momento in cui il paziente è malato” mentre Walter Ricciardi, rappresentante italiano all’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel corso di una conferenza stampa, spiega: "I tamponi vanno fatti soltanto ai soggetti sintomatici quindi tosse febbre congiuntivite e, che devono avere fattori di rischio o per contatto o per provenienza”. Di altro avviso ancora l’infettivologo Massimo Galli: "I tamponi a tappeto non riescono ad essere utili”. E sulla quarantena? Il caso della nostra Iena Alessandro Politi, senza sintomi ma positivo ancora dopo 28 giorni, lascia più di un dubbio. La politica però dubbi non ne ha: per il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio “dovrebbe durare circa 14 giorni”, una posizione sposata anche dal premier Giuseppe Conte, che così la pensava il 26 febbraio scorso, durante un intervento in Tv. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci guidano alla scoperta delle contraddizioni e delle divisioni, tutte italiane, sull’emergenza Covid-19.
Sgarbi contro “esperti del giorno dopo”: “Coronavirus? Non ci hanno azzeccato”. Ilaria Paoletti il 17 Aprile 2020 su ilprimatonazionale.it. Vittorio Sgarbi è sempre stato un bastian contrario rispetto al parere degli scienziati sul coronavirus, tanto che è arrivato in “scontro diretto” con il virologo Burioni e la sua associazione. Patto Trasversale per la Scienza (Pts), fondato da Burioni e da Guido Silvestri, presentò addirittura un esposto contro lo storico dell’arte “per le gravi affermazioni fatte”. Adesso, però, Sgarbi si toglie qualche sassolino dalla scarpa.
“Nessuno chiede scusa”. A fine marzo Vittorio Sgarbi fece una specie di “marcia indietro”, ammettendo di aver sbagliato a sottovalutare i rischi del coronavirus: “Mi scuso raramente perché raramente sbaglio, generalmente ho ragione. In questo caso io ho ascoltato svariati virologi che hanno, almeno sino al 9 marzo, stimato il pericolo del Covid-19 come relativo. Poi la situazione è stata valutata diversamente”. Ma già allora incluse un “però”: “Però è anche vero che io sono irresponsabile di quelle informazioni la cui responsabilità ricade sui competenti che le davano. E che non mi pare si scusino”.
Il greatest hits degli “esperti”. E oggi torna sul punto a gamba tesa, pubblicando su Facebook un video in cui riprende le dichiarazioni di vari “esperti” (virologi, infettivologi) che a gennaio e febbraio usavano dei toni a dir poco rassicuranti, minimizzando la pericolosità del coronavirus e sostenendo che mai sarebbe arrivato qui da noi in Italia. Nel greatest hits dei pareri accademici invecchiati male, Sgarbi inserisce il buon Burioni, la Gismondo, Ilaria Capua, Fabrizio Pulvirenti e Pregliasco.
“La scienza non sempre ci azzecca”. “Sì, ascoltiamo la scienza, giusto” scrive Sgarbi nel pubblicare il video. “Ma la scienza che ascoltiamo, non lo dobbiamo dimenticare, è quella che a gennaio e a febbraio diceva queste cose”, aggiunge. “Si può, dunque, ragionevolmente dire che non sempre la scienza “ci azzecca”? Perché a fare gli esperti del giorno dopo sono tutti bravi“, conclude. Ilaria Paoletti
"Virus debole", "mascherine inutili". Ecco tutti i clamorosi errori degli scienziati. Da Roberto Burioni a Ilaria Capua, per settimane e settimane hanno preso fischi per fiaschi. Il Tempo il 17 aprile 2020. Vatti a fidare degli scienziati. Il Coronavirus non ha mandato in confusione solo la classe politica, ma anche la comunità degli studiosi che, per settimane e settimane, ha continuato a ripetere delle verità "inattaccabili" che poi, allo stato dei fatti, si sono rivelate clamorosamente false. Ce n'è per tutti, da Roberto Burioni che parlava di "rischio zero" per l'Italia e di mascherine inutili, a Ilaria Capua che ridimensionava la potenza del nuovo virus, per arrivare fino a Fabrizio Pregliasco che definiva assai complicato il contagio da asintomatici. E ancora tanti tanti altri. In questo video una raccolta delle principali "topiche" degli scienziati. Che rappresentano un monito anche alla politica. Giusto fidarsi degli esperti. Ma occhio a non prendere tutto per oro colato...
Silvana De Mari per “la Verità” il 21 aprile 2020. Secondo uno studio scientifico, i cui risultati sono stati pubblicati domenica dal Corriere della Sera in un articolo di Elena Comelli, solo i primi 17 giorni successivi all' applicazione delle norme di contenimento dei movimenti e di chiusura (lockdown) determinano l' entità del contagio da coronavirus (Covid-19). Dunque, la diffusione del contagio sembrerebbe dipendere solo dai focolai sviluppatisi nei primi giorni e sarebbe indifferente al rigore del lockdown, superati questi primi 17 giorni. Nell' articolo ci si chiede se chiudersi in casa e fermare le industrie serva a qualcosa. Infatti lo studio, guidato da Stefano Centanni, ordinario di malattie dell' apparato respiratorio all' Università di Milano e direttore dei reparti di pneumologia degli ospedali San Paolo e San Carlo di Milano, suggerirebbe che qualsiasi misura restrittiva applicata dopo i primi 17 giorni incide poco o nulla sull' andamento dei contagi e sul numero delle vittime. Il team ha anche elaborato un modello matematico predittivo delle vittime che finora si è rivelato estremamente preciso, in tutti i Paesi analizzati: sia in quelli in cui, come il nostro, le misure di contenimento sono rigide, sia in quelli dove le industrie hanno continuato a lavorare e i movimenti dei cittadini non sono stati limitati, come Germania e Svizzera. La curva dei contagi, che si assomiglia in ogni Paese, è stata ricostruita a partire dai dati cinesi. Il 10 marzo scorso, data di partenza del modello, esso prevede per il 18 aprile in Italia 23.873 morti, indipendentemente dalle misure restrittive messe in atto. I casi registrati nella realtà sono 23.227, poche centinaia in meno, ma un dato molto molto vicino alla previsione. Le previsioni per fine maggio sono poco meno di 30.000 vittime e se il modello dovesse rispecchiare la realtà, come ha fatto finora, saranno i morti che piangeremo. Lo stesso successo previsionale si è avuto anche per Germania, Spagna e lo Stato di New York. Detto questo, non ha nessun senso prolungare la prigionia, distruggere il sistema immunitario, la psiche, il sistema scolastico, le relazioni umane, il futuro e ovviamente la religione della nazione. Questo permette di risparmiare il denaro pubblico che pagherà le consulenze delle task force, dei sedicenti esperti che esperti non possono essere perché questa è una situazione che mai è comparsa nella storia dell' umanità, quindi chiunque se ne dichiari conoscitore è un fiero zuzzerellone. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci liberi dai virologi che hanno invaso ogni trasmissione televisiva, che si dichiarano a loro volta esperti di un fenomeno nuovo, che non possono conoscere, tutti assolutamente incapaci di usare il condizionale. Difficilmente ci dimenticheremo del dottor Roberto Burioni, che il 31 gennaio, mentre il virus impazzava e uccideva da settimane, ha dichiarato sempre con il solo uso dell' indicativo, sempre con la sacra certezza di Giovanna D' Arco che ha appena parlato con San Michele Arcangelo, che «il virus non sta circolando». Un' affermazione così perentoria si può fare solo dopo aver fatto il tampone a 60 milioni di italiani. E noi, popolo italiano, riprendiamoci la libertà di uscire e quella di pensare, e piantiamola di farci ammaliare dalla parola «esperto». Dopo che ci hanno venduto come massimo esperto del clima una ragazzina svedese che va a scuola un giorno su due, impariamo l' arte della diffidenza.
L'intervista al professore del Pascale. Intervista a Paolo Ascierto: “Italia impreparata ha sottovalutato Wuhan, tra un anno il vaccino”. Bruno Buonanno su Il Riformista il 30 Aprile 2020. La “cura Ascierto” funziona a Napoli, in Italia e in Francia. La conferma arriva da centinaia di uomini e donne che – usciti dalla terapia intensiva per il Coronavirus – sono tornati a casa sani e salvi. Collaudata in Cina su un numero ridotto di pazienti, in Italia è stata messa a punto dal professore Paolo Ascierto, ricercatore del Pascale che con i colleghi dell’Istituto dei tumori e con gli specialisti del Monaldi, coordinati dall’oncologo Enzo Montesarchio, sperimenta il tocilizumab. Cinquantasei anni a novembre, moglie e due figli (di diciannove e diciassette anni) e due grandi hobby: il calcio e i fumetti che riportano il professore Ascierto nel mondo degli umani, anche se il Covid-19 ha modificato in parte la sua vita. “Sono un oncologo, un ricercatore e non avrei mai immaginato di ritrovarmi in prima fila nella ‘medicina delle catastrofi’, lontana dal mondo oncologico. Tutto è cominciato con i primi casi di pazienti contagiati dal Coronavirus e dal rapporto che il Pascale ha con i colleghi cinesi grazie agli scambi scientifici che portiamo avanti da tempo. I casi più gravi di polmonite presentavano aspetti di natura immunologica che, proprio come i tumori, colpiscono il sistema immunitario. Mi sono messo in contatto con i colleghi di Wuhan – spiega Ascierto – per avere notizie sui casi trattati con il farmaco che utilizziamo per l’artrite reumatoide. Abbiamo chiesto l’autorizzazione all’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) per cominciare una sperimentazione. I risultati ottenuti al Cotugno, al Monaldi e in altri ospedali italiani e francesi sono stati positivi”. Che scenario vivremo? È un Coronavirus passato da un animale all’uomo o, come alcuni sospettano, è stato creato in laboratorio? “Per quello che so – dice Ascierto – nella storia recente ci sono altre situazioni epidemiche come l’aviaria e la Sars passate dall’animale all’uomo. Si ritiene che il Coronavirus sia nato nei pipistrelli, anch’io credo a questa versione. Non so se si sono verificate altre situazioni. Lo scenario ci impone mesi di attesa per un vaccino che richiederà almeno un anno. Questo ci obbligherà a una vita diversa perché il rischio di contagi rimane alto. Si dovranno utilizzare mascherine, rispettare il distanziamento sociale ed evitare assembramenti. I problemi sanitari avranno ripercussioni forti sull’economia e sul turismo. Parlo per me – aggiunge il ricercatore – abituato a girare il mondo per convegni e ad avere contatti costanti con la comunità scientifica internazionale: invece di andare in altri Stati o in altri continenti useremo internet per confrontarci con i colleghi in videoconferenza”. Decreti e ordinanze hanno imposto settimane di quarantena, ma in maniera confusa. “Siamo arrivati impreparati, abbiamo sottovalutato quello che era successo a Wuhan perché in Italia nessuno sapeva nulla di questo Coronavirus comparso a novembre dell’anno scorso. Si è detto che le mascherine non servivano. Poi tutto il contrario, perché le mascherine fermano le goccioline che provocano il contagio. Si aspettava una positività sintomatica, poi si è capito che i grandi portatori sono gli asintomatici. Stessa cosa con i tamponi e con i test rapidi. Questa è la prima delle emergenze del futuro e, non sapendo nulla del virus da combattere, siamo andati avanti per step basandoci su alcune indicazioni giunte da Wuhan”. In Italia si è quasi scatenato un conflitto tra Nord e Sud, con polemiche tra addetti ai lavori: Galli contro Ascierto, Burioni contro Tarro. “Posso dire come la penso? Nella vita faccio il ricercatore, lavoro per aiutare con nuove terapie chi ha problemi oncologici. Della polemica con Galli – spiega a mezza voce Ascierto – quasi mi vergogno perché non sono abituato a queste cose. Quella storia mi ha permesso di consolarmi per le grandi dimostrazioni di affetto che ho ricevuto da tutti, colleghi e illustri sconosciuti. L’Aifa ha autorizzato la sperimentazione proposta dall’Istituto Pascale sul tocilizumab e questo è un dato di fatto. Non credo ci sia un conflitto Nord-Sud o viceversa. Giordano Beretta è il presidente della società di oncologia medica e può confermare che i rapporti tra addetti ai lavori sono stati sempre ottimi, com’è avvenuto in videoconferenza alla quale ho partecipato con colleghi di Milano, Padova, Lodi e Parma”. Serve un anno per il vaccino anti-Covid. Ma potrebbero essere vicini i tempi per la fase 2 degli ospedali. C’è tanta, troppa gente in lista d’attesa per terapie ed interventi chirurgici. “Tutto dipenderà dai numeri. Gli Stati Uniti contano più morti della guerra in Vietnam, la Germania ha provato a riaprire e si è ritrovata con un picco molto alto di contagi. C’è necessità di far ripartire l’attività chirurgica e medica, si potrebbe cominciare presto – aggiunge Ascierto – ma tutto dipende da come andrà la fase 2 per gli italiani”. Si ha quasi l’impressione che in Italia i numeri sulla pandemia siano inattendibili. “Sono sottostimati. Non quelli dei deceduti per i quali c’è un margine di errore che oscilla tra il 2 e il 3 per cento. Sappiamo invece poco dei contagiati perché i tamponi erano riservati a chi aveva i sintomi della positività, stessa cosa per gli asintomatici”. Una quarantena così lunga è condivisibile? “Sicuramente, lo confermano i contagi in calo. Ma parliamo dei pregi della sanità meridionale: abbiamo specialisti di valore come Fortunato Ciardiello, Cesare Gridelli, Giacomo Cartenì, Sandro Pignata e tanti altri che preparano linee guida nazionali e internazionali per affrontare importanti patologie”.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. «Siamo diventati un popolo di virologi, dove tutti parlano del virus. Peccato che in Italia, al contrario di Germania, Usa e altri, le ultime cattedre in virologia siano state assegnate nel 1982, e l' ultimo primariato risalga alla metà degli anni Novanta». Giorgio Palù non dice che una di quelle cattedre fu la sua, così come fu lui l' ultimo primario in quella specialità. «Poi tutto venne incorporato in Microbiologia. Certo, anche i virus sono microbi, ma la microbiologia si occupa di batteri, protozoi, parassiti, funghi, e poi anche di virus. Adesso vediamo quanto ci sarebbe bisogno di una unica e specifica disciplina in questa materia così particolare». Tra i suoi studenti era celebre per la franchezza, dote che sembra aver conservato. Uno degli studiosi italiani più considerati all' estero. Docente emerito di microbiologia a Padova, professore di neuroscienze a Philadelphia, presidente uscente causa pensione della Società europea di virologia, richiamato in servizio da Luca Zaia che gli ha affidato gli studi per isolare e sequenziare il virus. «Lavoro a stretto contatto con Azienda Zero, la struttura che organizza il sistema epidemiologico regionale. E oggi cominciamo uno studio sulla siero-prevalenza molto importante».
Perché lo ritiene tale?
«I benedetti tamponi ci danno la misura dei casi incidenti, ovvero quanti casi abbiamo al giorno in un determinato periodo. La prevalenza, un dato statistico che si ottiene attraverso l' esame del sangue, ci mostra invece la distribuzione del virus e può fornirci informazioni fondamentali».
Quali?
«Incrociata con altri dati, può permetterci di capire se esiste una immunità specifica al virus, cosa che al momento nessuno sa, quanto può durare, e può darci indicazioni su come proteggerci dal contagio di ritorno, che in futuro diventerà non un problema, ma "il" problema».
Vi state portando avanti?
«L' intenzione è quella. Ci servono, e parlo dell' Italia intera, dati che al momento non sono in nostro possesso. Dobbiamo mappare in fretta i soggetti asintomatici che sono o non sono venuti a contatto con il virus. In una fase di graduale ripresa delle attività, che spero venga presto, sono queste le cose da sapere, non altre».
Di coronavirus ci si riammala?
«Ci sono alcuni casi aneddotici di persone malate più volte. Ma non fanno statistica.
Però conosciamo la storia di questo virus».
Cosa potremmo imparare?
«Come la Mers e la Sars del 2012, e gli altri di quella famiglia che danno semplici bronchiti, si tratta di virus che mutano poco. Ma, per fare un esempio, capita di prendere il raffreddore più volte».
Quanto ci vorrà per avere una risposta?
«Dobbiamo attendere informazioni sulla variabilità della sequenza di questo specifico genoma. Al contrario di molti, non sono però pessimista. La Sars si è estinta in un anno, la Mers è ricomparsa in casi molto sporadici. Questo virus muta, ma poco».
Perché la Lombardia ha un tasso di mortalità che ha raggiunto anche il 14% mentre il Veneto è fisso sul 3,3%?
«Sono due regioni con una dimensione socio-morfologica molto diversa. Codogno e Lodi sono città dove si vive in condominio, Vo' Euganeo è un paesino sul Colli Euganei».
Esaurita la premessa?
«Il Veneto ha ancora una cultura e una tradizione della Sanità pubblica, con presidi diffusi sul territorio. La Lombardia, molto meno».
Sono stati fatti degli errori?
«Non sta a me dirlo. Ma in Lombardia hanno ricoverato quasi tutti, il 60% dei casi confermati, esaurendo presto i posti letto. Da noi, i medici di base e i Servizi d' igiene delle Asl hanno fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici si è evitato l' affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio».
In Lombardia, invece?
«Nessuno si è ricordato la lezione della Sars. Che è stato un virus nosocomiale, così come lo è il Covid-19. A diffusione ospedaliera. La scelta della Lombardia di trasferire i malati dall' ospedale di Codogno, che era il primo focolaio, ad altre strutture della regione, si è rivelata infelice».
Quanto?
«Molto. Perché ha esportato il contagio, senza per altro che venisse monitorato subito il personale medico. Hanno agito sull' onda emotiva. Tutti dentro. Invece dovevano tenerne fuori il più possibile. Qualcuno non ha capito che questa non è un' emergenza clinica e di assistenza ai malati, ma di sanità pubblica».
Ci spiega la differenza?
«Un nuovo virus, nei confronti del quale la popolazione è vergine, va affrontato in primo luogo con le misure preventive, con l' isolamento, bloccando il contagio. Non con l' automatismo Pronto soccorso-ricovero».
Una questione culturale?
«Anche. Una forma mentis . In Lombardia esiste da molti anni una sana competizione pubblico-privato. Dove si evince la maggiore efficienza di ognuno? Dalle persone accolte in Pronto soccorso. Ricoverando, si è voluto mostrare efficienza in ambito clinico. Ma così non si è fatto alcun argine al virus».
Giusy Caretto per startmag.it l'8 maggio 2020. “Altri 5 milioni di tamponi? Non vorrei che fossero i ‘bastoncini’”. Così il virologo Andrea Crisanti, che sta contribuendo alla lotta al coronavirus nella Regione Veneto presieduta da Luca Zaia, ha commentato l’annuncio del governo che ha promesso di inviare alle Regioni 5 milioni di tamponi nei prossimi due mesi. Crisanti (direttore del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova e del Laboratorio di Virologia e Microbiologia dell’Università AO di Padova) già dal 20 gennaio ha spinto l’azienda ospedaliera di Padova a muoversi per effettuare tamponi e non farsi trovare impreparata al momento del bisogno, sottolinea la grave carenza di reagenti fornita dalle istituzioni centrali. Andiamo per gradi. L’inizio della fase 2 non ha decretato la fine del virus: i tamponi servono ancora. Lo sa bene il governo, che ha promesso alle Regioni di inviare 5 milioni di tamponi entro i prossimi due mesi (tamponi che andrebbero ad aggiungersi ai test sierologici). “Cosa vuole dire 5 milioni di tamponi? Vuole dire due bastoncini con la garza assorbente per prendere il materiale dalla mucosa o sono tutti i reagenti che lo accompagnano?”, ha chiesto Crisanti, in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, mentre era in collegamento il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri (M5S). Ma Sileri ha confermato che il materiale finora arrivato non sempre affianca ai bastoncini (necessari a prelevare il materiale naso-faringeo) i corrispondenti reagenti (essenziali per portare a termine l’analisi). “Non è possibile, non è vero, c’è una carenza pazzesca di reagenti in Italia”, ha risposto. Facciamo un passo indietro. Cosa sono i reagenti? Sono delle soluzioni, come i composti Guanidina Tiocanato o Trizol, utilizzate per estrarre Rna virale. È questo, in pratica, il passaggio fondamentale dell’analisi dei tamponi molecolari. Reagenti, però, che in Veneto non sono mancati. Perché la regione se li è fatti in casa. “Già il 20 gennaio avevo fatto presente la necessità sviluppare un saggio diagnostico per identificare le persone positive al nuovo coronavirus. Abbiamo così iniziato a mettere a punto la metodica che è complessa. Il tampone è infatti solo un mezzo di prelievo, poi c’è la fase di estrazione degli acidi nucleici, una fase molto importante di distribuzione di reagenti e una fase di lettura”, aveva spiegato all’Adnkronos Crisanti. “Noi abbiamo scelto fin dall’inizio un metodo realizzato in casa, senza sistema chiuso e senza dover fare riferimento a fornitori. I risultati sono stati validati con l’Istituto Spallanzani di Roma”. Lo scoppio dell’epidemia ha indotto l’Ospedale di Padova a riorganizzare il lavoro e aumentare il numero di tamponi, definiti di Crisanti “uno strumento fondamentale, prima di tutto per spegnere il focolaio di Vo’”. Ad aiutare in questa impresa è stata la tecnologia. “Nella mia esperienza precedente all’Imperial College di Londra avevo visto in azione una strumentazione fantastica che, piuttosto che movimentare i liquidi (i reagenti, ndr) attraverso pipette lo fa con ultrasuoni a una velocità spettacolare. Ho chiesto l’acquisto e ringrazio l’azienda per la fiducia perché è una macchina che costa circa mezzo milione di euro. La strumentazione è arrivata e funziona benissimo: permette risparmi di tempo e di scala e introduce un parallelismo di processazione”, ha detto Crisantu. Se “prima si usavano piastre da 96 reazioni di tampone, ora da 384, quattro volte tante – ha spiegato Crisanti – La macchina precedente utilizzava circa un’ora e mezza, questa dieci minuti. Ancora, la strumentazione precedente necessitava di quantità di reagenti 5 volte tanto rispetto a quelli necessari con la nuova macchina. Significa che gli acquisti fatti tempo fa si moltiplicano per 2 milioni e mezzo di reazioni”. Il problema della carenza di reagenti per i Tamponi esiste ed è “un dato presente sul piano internazionale, perché un po’ tutti i Paesi stanno facendo test di questo tipo e quindi la capacità produttiva ha delle sue limitazioni. Però credo che ci sia un impegno attivo, sia a livello centrale sia a livello delle Regioni, proprio per superare questo tipo di carenza”. Così Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss), durante la conferenza stampa su Covid-19 all’Iss ha risposto sul caso tamponi. Premettendo che la questione investe più il commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri, e la sua struttura, Brusaferro ha precisato che “in realtà la difficoltà sta nel fatto che ci sono diversi test diagnostici che vengono utilizzati per fare questo tipo di analisi molecolare. E in base alla tipologia di test che possono essere presenti nelle diverse Regioni e nei diversi laboratori abilitati delle Regioni, ci possono essere differenze riguardo a queste carenze”. Tuttavia, “il dato se volete un po’ più confortante, in attesa di arrivare a numeri ancora più impegnativi – ha concluso – è che produciamo tra i 60 e i 70mila test ogni giorno”: un dato che pone l’Italia “tra i primi Paesi a livello internazionale come numero assoluto di test”.
Andrea Crisanti a Piazzapulita: "Il governo ha promesso 5 milioni di tamponi? Impossibile, mancano i reagenti". Libero Quotidiano l'8 maggio 2020. "Sono sorpreso dalla risposta del governo". Il virologo Andrea Crisanti, l'esperto che ha guidato la lotta al coronavirus in Veneto, in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita mette in guardia sulla propaganda di Palazzo Chigi, che ha promesso altri 5 milioni di tamponi a disposizione delle regioni per controllare l'epidemia durante la Fase 2. "Ma che vuol dire? - domanda polemicamente - Due bastoncini con la garza assorbente per prendere il materiale dalla mucosa o sono compresi i reagenti che li accompagnano?". "Si intenderà la capacità di farsi, reagenti, laboratorio...", abbozza Formigli. "Non è possibile, non è vero, c'è una carenza pazzesca di reagenti in Italia", lo gela Crisanti. "Ma voi in Veneto li avete trovati, i reagenti", puntualizza il padrone di casa. "Perché noi a gennaio, quando l'emergenza è scoppiata in Cina, ci siamo organizzati e i reagenti ce li siamo fatti in casa e abbiamo sviluppato un test praticamente identico a quello dello Spallanzani". Quindi conclude confermando l'equazione "più tamponi uguale meno morti": "Il Veneto ha fatto 23 tamponi per ogni caso positivo, la Lombardia ne registra 3. E questo non vuol dire che in Veneto li abbiamo sprecati. A Vo' abbiamo dimostrato che solo così si controlla l'epidemia".
Crisanti, il virologo che ha "salvato" il Veneto: “Non mancano i tamponi, ma la volontà di farli. Sbagliato riaprire tutti il 4 maggio”. Gea Scancarello su Business Insider il 22 aprile 2020. Andrea Crisanti è un cervello di ritorno: professore di parassitologia molecolare all’Imperial college di Londra, è rientrato in Italia come direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’Università (e azienda ospedaliera) di Padova, portando competenze preziose. In questi giorni è infatti noto soprattutto per essere l’uomo che ha guidato il Veneto fuori dall’emergenza coronavirus, risparmiando alla regione uno scenario catastrofico come quello lombardo e che è stato indicato da Ernesto Burgio come uno dei pochi se non l’unico vero esperto italiano. In controtendenza netta e isolata con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), Crisanti ha insistito per fare i tamponi a tutti i contatti dei presunti infetti, riuscendo a bloccare l’epidemia sul territorio prima che dilagasse negli ospedali. Eppure, dice, che ancora oggi “questa decisione strategica non è stata fatta propria da altre regioni”. Gli abbiamo chiesto allora di spiegarci il mistero dei tamponi che non si fanno e il nuovo fiorire di test sierologici (“Non servono assolutamente a nulla”).
Ci aiuta a capire una volta per tutte perché ancora ci sono malati o persone che chiamano con sintomi a cui non vengono fatti tamponi? Mancano i materiali? Non c’è la volontà?
«È un insieme di cose. All’inizio sicuramente i reagenti sono mancati, ma non credo che adesso siano più un grandissimo problema: penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli ai contatti e a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione. Se non si capisce l’importanza di questa strategia di fatto rimarremo sempre con queste polemiche…»
La strategia in Veneto ha funzionato, possibile che ancora gli altri non abbiano capito?
«Possibile, sì. In altre regioni si pensa che il tampone serva solo a fare la diagnosi. In realtà, se arriva una persona che sta male, da sette-otto giorni, con tutta la sintomatologia canonica e il quadro radiologico, il tampone non c’è nemmeno bisogno di farlo: dovrebbero farlo invece tutte le persone con cui la persona è entrata in contatto. È, insomma, essenzialmente una questione di decisioni strategiche».
Se non si cambiano queste decisioni strategiche corriamo dei rischi il 4 maggio, alla riapertura?
«I rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi».
Vengono raccontati però come fossero un successo.
«Certo, perché eravamo abituati ad altri numeri».
Dove ci si contagia oggi, quali sono i focolai presumibili?
«Principalmente a casa e nelle istituzioni, cioè nelle Residenze sanitarie per anziane (Rsa). E poi, ovviamente, nelle fabbriche o in altri ambienti di lavoro: ci sono anche tantissime attività produttive o commerciali che sono attive».
A questo proposito servirebbero informazioni più certe sul virus stesso. Molti dovranno per esempio riaprire gli studi professionali nei prossimi giorni, dovranno aprirsi al contatto col pubblico. Di cosa devono preoccuparsi, concretamente: disinfettare le superfici, mettere divisori in plexiglass o che?
«Se le persone usano le mascherine le possibilità che il virus si depositi sulle superfici è di fatto limitata. Certo, il virus resiste sulle superfici in determinate condizioni di temperatura e umidità, come è stato dimostrato in diversi studi: tuttavia, le mascherine aiutano anche in questo, perché bloccando il passaggio delle goccioline danno al virus meno possibilità di depositarsi. Detto questo, certo, anche i plexiglass aiutano».
Cosa sappiamo dell’immunità e di possibili riattivazioni, come quelle denunciate in Corea?
«Nulla, assolutamente nulla».
Quindi i test sierologi che ci apprestiamo a fare che valore hanno?
«Nessuno, soltanto, chiamiamolo così, un valore epidemiologico, per capire dove il virus si è diffuso in maniera più estesa».
Esistono però casi di persone che erano convinte di aver fatto la malattia, anche se in forma debole, a cui i sierologici non hanno rilevato nulla…
«Appunto, continuo a ripeterlo: non servono a nulla questi test».
Con queste pochissime certezze, a che estate andiamo incontro?
«È difficile da dire, onestamente non lo so. Stiamo affrontando questa cosa in maniera troppo caotica: ogni regione si sta organizzando in maniera diversa mentre ci vorrebbe invece una risposta unitaria».
Ma il governo sta cercando di stroncare le spinte regionali e riaprire con regole condivise il 4 maggio...
«Il punto è che aprire tutti il 4 maggio è sbagliato! Non tutte le regioni sono pronte, non si conosce l’incidenza della malattia per giorno, per regioni e per classi di popolazione… insomma, è un pasticcio. E d’altronde è sotto gli occhi di tutti: può la Lombardia essere paragonata alla Calabria o alla Sicilia? Sono regioni che hanno casi diversi e capacità di affrontarli diversi, e comunque né per l’una né per le altre sappiamo quali sono i contagi giornalieri. Io rimango basito. Queste sono le cose che non vanno bene: sa quante persone sono state abbandonate a se stesse in questo periodo? Non ne ha idea…»
Con chi dovremmo prendercela?
«Chiaramente l’epidemia era un evento in qualche modo imprevedibile, nel senso che non era successo in 80 anni: il fatto che non fossimo preparati è deprecabile ma può essere in qualche modo giustificato. Quello che non è giustificabile è riaprire essendo ancora impreparati: questo proprio non va bene».
Molti hanno seguito le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), ma si sono rivelate sbagliatissime. Perché l’Oms ha sbagliato?
«Perché non prevedevano il fatto che ci fosse un grande numero di asintomatici, essenzialmente. Si sono basati su studi cinesi e i cinesi non sono mai stati trasparenti, né sull’inizio della malattia né sul numero dei casi: parliamo di un Paese in cui la trasparenza non è un valore e tutte le informazioni che fornisce vanno prese come un certo scetticismo. Invece l’Oms le ha prese come oro colato e la ha trasmesse a tutto il mondo, con le conseguenze che stiamo vedendo».
E lei come ha fatto a decidere che l’Oms stava sbagliando?
«Noi ce ne siamo accorti facendo i tamponi a Vo’: ci siamo resi conto che c’era una percentuale grandissima di persone asintomatiche ma positive».
Aver insistito sui tamponi è stato essenziale, insomma. Ma voi lo avete detto a tutti gli altri per avvertirli?
«Certo. Lo abbiamo detto a tutti e si trattava inoltre di dati disponibili, forniti a tutti dal Veneto. Chi avesse voluto, avrebbe potuto vederli, capirli, usarli».
"Il modello Zaia funziona: bisogna fare più tamponi". Il dottor Sandro Michelini spiega perché fare tamponi è, da più punti di vista, la mossa più intelligente da mettere in campo. Serve il "modello Zaia". Francesco Boezi, Lunedì 27/04/2020 su Il Giornale. Il modello utilizzato dal presidente Luca Zaia è la strada giusta per gestire la fase di uscita dal guado. Sembra esserne certo il dottor Sandro Michelini, che si occupa da anni delle patologie del Sistema Linfatico. Michelini è stato Presidente della Società Europea di Linfologia, ma anche Presidente della Società internazionale di Linfologia. Ora come ora, Michelini ricopre la carica di Coordinatore nazionale dell’Associazione Scientifica ITALF ed è Coordinatore del Comitato Scientifico dell’Associazione di pazienti SOS Linfedema. Il modello Zaia, per il professore che abbiamo intervistato (Michelini è anche un docente universitario), funziona. E bisognerebbe che i tamponi effettuati sul territorio nazionale italiano aumentino di numero. Come disposto da Zaia, appunto. Altrimenti diventerà complesso capire a che punto siamo della pandemia.
Dottor Michelini, possiamo dirci preoccupati dalla fase2? Abbiamo capito qualcosa di questo Covid-19?
«Purtroppo, ad oggi, la cosiddetta Fase 2 presenta ancora molte incognite rispetto alla gestione dei comportamenti relazionali e sociali. Avrete senz’altro letto le molte interpretazioni di esperti virologi ed epidemiologici circa i comportamenti biologici del Virus; alcune di queste analisi sono agli antipodi l’una dell’altra. Come per tutte le sostanziali novità biologiche in cui la scienza s’imbatte, anche in questa circostanza possiamo dire che il responsabile della pandemia è stato identificato ma, circa i suoi comportamenti biologici, dobbiamo ancora scoprire molto. Si tratta di un agente talmente eterogeneo nelle sue manifestazioni cliniche - pur comportandosi nei meccanismi di azione esattamente come gli altri coronavirus nei quali ci siamo imbattuti in passato - che lo ribattezzerei Proteo-Virus, in memoria della figura delle mitologie fenicia, egizia e greca che lo descrivevano come un essere in grado di cambiare di continuo la sua forma».
In che senso?
«Forse questo è l’unico aspetto che, nella sostanza, ci fa pensare ad un futuro più sereno per noi. Quando cioè, l’entità biologica attuale, si trasformerà in una molto meno aggressiva ed andrà scemando. Ma non sappiamo quando ciò avverrà, secondo alcuni entro pochi mesi, secondo altri tra anni. E questo in assenza di algoritmi scientificamente dimostrabili allo stato attuale. La preoccupazione odierna per l’allentamento delle misure di isolamento che hanno ridotto le nostre attività ed i nostri diritti costituzionali deriva da questo e fanno riflettere sulla necessità di coordinare in maniera adeguata tutte le regole che avvieranno la rimessa in moto dell’Italia».
Ritiene che il modello Zaia abbia funzionato? In Veneto le cose sembrano andare meglio...
«Che il modello Zaia stia funzionando lo dicono i dati. Se pensiamo ad uno dei primi terribili focolai realizzatosi nel comune di Vo Euganeo, in cui gran parte della popolazione era stata interessata dal contagio, ed all’azione di monitoraggio capillare e tempestiva di studio con i tamponi cui sono stati sottoposti i cittadini.... Quell'azione ha portato ad una totale bonifica, in tempi rapidi, dell’intero territorio. Un'esperienza poi traslata gradualmente all’intera Regione Veneto (quella di Zaia, ndr) - . Con questo ci rendiamo conto di quanto sia importante, per una ripresa più sicura delle attività, il monitoraggio capillare della reale condizione dei singoli cittadini nei confronti della capacità di trasmissione del contagio».
Quindi servono più tamponi su scala nazionale?
«Il tampone per la ricerca del virus nella mucosa dei cavi orale e nasale (nonostante la minima percentuale di falsi negativi in funzione della viremia, cioè della concentrazione plasmatica del virus in quel determinato momento, verificata nella popolazione generale) rimane il test diagnostico attuale più attendibile. Il tampone supera, in questo senso, il cosiddetto test sierologico, che consiste nella individuazione nel sangue (prelievo ematico abituale da una vena del braccio) delle Immunoglobuline (anticorpi), Ig, che il soggetto può aver sviluppato nei confronti del virus se lo ha incontrato in maniera sintomatica o asintomatica».
Quindi come funziona un test sierologico?
«Se risultano elevate le Ig M, vuol dire che l’infezione è in atto o recente, se sono innalzate le Ig G, vuol dire che il soggetto è venuto in contatto con il virus ma in tempo passato (le Ig G sono gli anticorpi che rappresentano la memoria immunitaria dell’individuo). Questo, nel caso del Covid-19, tuttavia, non ci assicura - come ricordato anche ieri dall’OMS - che il soggetto sia immunizzato. Se il soggetto lo è, non ci dice quanto e per quanto tempo (tre mesi, sei mesi, un anno, a vita?). In alcuni soggetti, peraltro, sono stati riscontrati valori di Ig G talmente bassi che, se da un lato testimoniavano l’avvenuto contatto dell’individuo con il Virus, dall’altro non ci assicuravano circa l’immunità futura nei confronti di eventuali nuovi contatti; e forse questo aspetto ci spiega il perché in alcune persone si è assistito ad una ‘ricaduta’ nello stato infettivo - per nuovo contagio - a guarigione avvenuta e testimoniata dalla negatività di due tamponi eseguiti a distanza di 24 ore l’uno dall’altro».
I tamponi sono quindi la conditio sine qua non per poter riaprire?
«Di sicuro. Almeno allo stato delle conoscenze e considerando che non è dato sapere quando avverrà la realizzazione del vaccino - peraltro non scontatissima - . Non sappiamo neppure con che tipo di disponibilità verrà effettuato uno screening della popolazione in questo senso. In specie nell' ambiente sanitario, il tampone è razionalmente il tipo di azione preventiva (cosiddetta ‘Preparedness’ dall’Istituto Superiore di Sanità) e reattiva (Readness) più efficace per una riapertura in relativa sicurezza per tutti.
Cosa state facendo, in termini pratici, per coadiuvare i pazienti in questa fase?
«Come associazione ci stiamo adoperando per la tutela della salute dei nostri pazienti, sia per la prevenzione primaria che secondaria, considerando che questi, alla stessa stregua di tanti altri affetti da patologie croniche e disabilitanti, stanno vivendo un periodo nel quale, oltre al rischio del possibile contagio, sono privati delle terapie fisiche fondamentali - terapie non eseguibili che in pochissimi Centri organizzati dal punto di vista degli spazi e delle operatività - per il contenimento dei loro quadri clinici e per la prevenzione delle possibili complicanze soprattutto di tipo infettivo».
Qual è lo stato degli studi epidemiologici ed immunologici ad oggi?
«Come le dicevo, i dati epidemiologici sono in continuo rimodellamento. Ad oggi possiamo dire che circa il 75% dei pazienti si presenta ‘paucisintomatico’ o, addirittura asintomatico (ma in fase acuta ugualmente contagioso!), il 15% presenta quadri clinici più seri ma gestibili in Centri ospedalieri dedicati e, tra il 5 e 10% ì, presenta quadri di gravità clinica più elevata con serio coinvolgimento di più organi ed apparati. Purtroppo, molti di questi pazienti ancora oggi non riescono a superare la sfida biologica che il virus pone in atto. In considerazione dei numeri che sono girati - anche di quelli comunicati dalla Protezione Civile - è nostra opinione che l’incidenza del contagio è stata ed è numericamente molto più significativa di quella ufficiale. Il numero dei tamponi realmente effettuati sul territorio, ancora oggi, è insufficiente per avere una reale mappatura del contagio!».
E la questione della “seconda positività”?
«Le confesso che, nelle ultime settimane, ho personalmente preso per certi soltanto i valori che venivano comunicati in relazione ai ‘decessi’ ed ai posti occupati in terapia intensiva, attribuendo a tutti gli altri un valore assolutamente approssimativo. Dal punto di vista immunologico, come già detto, allo stato attuale non abbiamo certezza che un ex-malato o un ‘contagiato asintomatico’ possieda un' immunità futura contro il virus, né per quanto riguarda la sua intensità (e quindi efficacia clinica) né, tantomeno, per il periodo di presunta immunità (se lo sarà per quanto tempo lo sarà). Attendiamo con fiducia la possibile realizzazione di un ipotetico vaccino specifico».
Dagospia il 6 maggio 2020. Da I Lunatici Radio2. Il prof. Francesco Le Foche, immunologo clinico, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Sulla lotta al Covid-19: "Stiamo andando abbastanza bene. Abbiamo iniziato la fase 2, siamo nel secondo tempo di una partita. Nel primo tempo questo virus che si è presentato improvvisamente ha creato una pressione significativa sul nostro sistema sanitario nazionale, soprattutto in Lombardia, dove non c'è stato un territorio che ha ammortizzato un po' questa pressione. C'è stata una gestione ospedalocentrica della terapia e questo ha portato a una defaillance del sistema stesso, ma la situazione da affrontare era difficilissima. Comprendo i colleghi e tutte le strutture messe in campo in Lombardia, non sapevamo che portata avesse questa pandemia. Oggi vediamo delle sindromi meno importanti dal punto di vista clinico. Questo potrebbe essere dato da una riduzione della virulenza del virus. Io sono un clinico, sul campo vedo delle sindromi meno aggressive. E come me, sul campo, lo hanno visto altri colleghi. Come il prof.Bassetti o il prof.Muzzi, persone di alto profilo che hanno interpretato anche loro questa riduzione di casi clinici importanti. Riserviamo la terapia intensiva a casi rarissimi, nel resto dei casi ci troviamo davanti a delle sindromi meno aggressive". Le Foche, poi, ha parlato di una novità importante: "Questo virus ancora non ci dice con certezza se sviluppa anticorpi di protezione o meno. Dobbiamo essere molto cauti sull'interpretazione di questi test sierologici. Certo è che ci sono dei progressi importantissimi, come per esempio l'anticorpo chimera, il cui nome tecnico è 47d11, un anticorpo un po' particolare che ci dice essere sicuramente neutralizzante. Questa è una notizia importante. L'università di Utrecht, in Olanda, ha pubblicato su Nature, di aver sviluppato un anticorpo monoclonale. Un anticorpo fatto in laboratorio, che si può riprodurre continuativamente. Questo anticorpo si lega all'arpione del virus e non permette all'arpione del virus di agganciare la cellula. E' un anticorpo neutralizzante che non è un vaccino. Si chiama immunoterapia passiva. Oggi si parla molto del plasma, questa è una cosa simile, ma fatta in laboratorio e con gli anticorpi selettivi, che funzionano. Insomma, è stato trovato un anticorpo che potrebbe essere utilizzato per una terapia. Non è una cosa immediata, ma un progresso fondamentale perché può essere utilizzato come anticorpo neutralizzante ed essere attivo su questo virus, perché è specifico. Questo anticorpo era già stato studiato per la sars, si è visto che questo studio è stato messo in campo già all'epoca. Poi non è stato utilizzato perché la sars nel luglio del 2003 se ne è andata completamente. Probabilmente succederà anche con il covid 19. Spero non si utilizzi mai questo anticorpo, ma è un ausilio fondamentale. Il coronavirus sembra comunque ridurre la sua potenza virologica e dare delle sindromi meno gravi". Sulle prossime settimane: "Tutti i progressi di cui abbiamo parlato non devono far pensare a un tana libera tutti. Servono comportamenti consapevoli e responsabili da parte di ognuno. Se il nostro comportamento continua ad essere responsabile, nelle prossime due o tre settimane, e riusciamo a mantenere un calo dei contagi, probabilmente arriviamo ad un risultato importante, probabilmente superiamo una condizione per cui si è messa in crisi la salute pubblica, ma anche l'economia. Adesso la cosa importante è riuscire a curare di nuovo le patologie che abbiamo messo un po' all'angolo. Penso ai pazienti oncologici, a quelli che avrebbero dovuto fare degli interventi, a quelli che hanno patologie croniche. Bisogna rivalutare tutte le persone, non occuparci solo del Covid".
Coronavirus, virologo Broccolo: “Fine dei contagi? Spero per fine anno”. Laura Pellegrini il 29/04/2020 su Notizie.it. Il virologo Francesco Broccolo commenta l'aumento dei contagi in Germania e spiega come potrebbe evolvere la situazione italiana. Francesco Broccolo – virologo – è stato ospite in collegamento di Pomeriggio 5 con Barbara D’Urso e ha commentato i dati sui contagi da coronavirus. Mentre in Germania dopo l’avvia della fase 2 è stato registrato un aumento dei contagi, l’Italia procede con prudenza. Infatti, il premier Conte ha ribadito più volte che il rischio delle aperture è quello di generare nuovi focolaio e dunque occorre prudenza. Broccolo ha ricordato che quanto accaduto in Germania è successo anche a Singapore, dove con la fase 2, “in 48 ore” ci sono state “2500 persone contagiate”. L’Italia si appresta a cominciare la fase 2 e guardando alla Germania dove i contagi sono aumentati – teme possa replicarsi la stessa situazione. “Le previsioni – ha detto il virologo Broccolo commentando l’andamento del coronavirus in Italia – sono che se adesso molliamo definitivamente il lockdown torna la pandemia.
Dobbiamo aprire gradualmente, con tamponi a tappeto per circoscrivere la linea dei contagi positivi. Se ci comportiamo così, entro fine anno potrebbe finire tutto”. Parlando poi di come estinguere il virus e basandosi sulla studio per il quale scomparirebbe in due minuti se posto al sole a 24 gradi con l’80 per cento dell’umidità, Broccolo commenta le vacanze estive: “Al mare potremmo stare sulla sabbia e fare il bagno. Sono ottimista per il mare. La catena del contagio si riduce all’aperto. Sono meno ottimista per i locali. Ambienti chiusi e condizionatori sono il nostro nemico”.
Luciano Gattinoni a Senaldi: "Perché gli italiani muoiono di coronavirus più dei tedeschi". Modello Conte bocciato senza pietà. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 27 aprile 2020. «I tedeschi non sono più bravi di noi e lavorano di meno. Però sono organizzati, ognuno fa la sua parte, non si parlano addosso e amano obbedire. Rispettano le regole, avvantaggiati dal fatto che le loro sono chiare, e perciò si possono permettere di più rischiando di meno». Diagnosi del professor Luciano Gattinoni, luminare dell' anestesia e rianimazione, che infatti lavora a Gottingen, dopo essersi allontanato cinque anni fa il Policlinico di Milano. «Qui la Merkel sul Corona virus ha parlato tre volte. La prima per dire che il 70% dei tedeschi si sarebbe ammalato, la seconda per chiudere il Paese, la terza per riaprirlo affermando che, se la situazione peggiorerà nuovamente, farà retromarcia. Poche parole, chiare. Tutto il contrario di quanto avvenuto in Italia». Per questo i tedeschi possono permettersi di andare al fiume a gruppi la domenica, mentre se da noi uno prende il sole senza nessuno intorno nel raggio di mezzo chilometro, il drone lo fotografa e arrivano i carabinieri per fargli la multa. Oggi Berlino riparte, anche se non si è mai fermata in realtà, come dimostra il calo dei consumi elettrici nell' ultimo mese, solo -4%, contro il -25% italiano. A differenza nostra però, in Germania nessuno incrocia le dita e si raccomanda a Dio. Tantomeno c' è qualcuno che ha già aperto per i fatti suoi, nel vuoto di indicazioni generali. Noi ripartiamo sette giorni dopo i tedeschi, ma la sensazione è che non siamo pronti. Lo facciamo un po' perché dobbiamo, essendo circondati da Stati che tornano a girare a pieno regime, un po' perché, se dovessimo aspettare di essere pronti, non ripartiremmo mai. «L' Italia ha 500 esperti e un numero di commissioni ignoto, ma del loro lavoro non traspare nulla. Vive in un perenne talk-show. Manca perfino un' analisi della situazione che parta dai numeri. Nessuno parla di rischio sostenibile, non avendolo calcolato».
In Italia siamo in troppi a non decidere, professore?
«Se lei mette dieci medici intorno a un malato, questo non ha speranze, muore. Quando lavoravo a Monza, mi portarono il figlio dell' allora cancelliere tedesco Helmut Kohl. Aveva una difficoltà respiratoria importante, in seguito a un incidente automobilistico. La madre voleva trasportarlo in Germania. Arrivò il padre e mi disse: "Lei è e sarà la sola persona ad avere nelle mani la vita di mio figlio". Aveva capito che, se lo avesse rimpatriato, in Germania si sarebbe scatenata la competizione tra professori».
Quindi le nostre commissioni sono letali?
«In un gruppo allargato ognuno si sente in dovere di dire una cosa più intelligente di quella che ha appena ascoltato, e finisce con lo spararla grossa. Se ci sono più di cinque o sei persone a decidere, la commissione diventa inutile nel migliore dei casi, dannosa nel più frequente, perché l' accordo lo si raggiunge sempre al livello più basso».
Professore, abbiamo fatto bene a fare la quarantena più rigida di tutti?
«Se stanno tutti in casa, ci sono meno malati. Ma il virus non scompare. Quando esci, te lo ritrovi e sei daccapo; a meno che nel frattempo non si sia trovato il vaccino».
Quindi la quarantena è stata inutile?
«No, è servita a contenere il contagio e allentare la pressione sugli ospedali. È stata una prevenzione necessaria a non far collassare il sistema. Chi sta a casa però non sviluppa anticorpi, e quando esce non è più al sicuro di prima. Anzi...».
Perché ci sono stati più morti in Italia che in Germania?
«Se il Paese è disorganizzato, non si può pretendere che la sua sanità sia organizzata. Io però farei un' altra domanda: come mai si è morti così tanto in Italia?».
E come direbbe Marzullo, si dia una risposta, professore .
«Per esempio perché l' Italia ha ignorato l' allarme lanciato dall' Organizzazione Mondiale della Sanità tre anni fa, quando il pianeta venne allertato in merito alla probabilità dell' insorgenza di un' epidemia nel breve periodo. La Germania comperò mascherine e protezioni sanitarie. Noi, per quanto mi risulta, non abbiamo tenuto in considerazione la segnalazione. D' altronde, la prevenzione non crea consenso perché ha successo se non accade nulla, ma come fai a rivenderti politicamente il nulla?».
Ma la Lombardia, dove ci sono stati metà dei morti italiani, non è un' eccellenza medica?
«Per la terapia intensiva sicuramente. È allo stesso livello di Francia e Germania, superiore a Spagna e Regno Unito. Infatti il numero di morti che abbiamo avuto ha fatto scalpore nel mondo della comunità scientifica».
È finito sotto accusa il modello lombardo. Dicono che dia troppo spazio al privato.
«Qualcosa non ha funzionato. Sostenere, come fanno le autorità regionali, di non aver sbagliato nulla o che tornando indietro rifarebbero le medesime cose non è molto intelligente. Piaccia o no, i risultati hanno un peso».
Anche lei si scaglia contro la sanità privata lombarda?
«Occhio alla distinzione tra pubblico e privato. Le aziende private si fanno pagare il servizio dalla Regione, e quindi sono anche un po' pubbliche, mentre negli ospedali pubblici da anni la fanno da padrone i manager, che hanno cominciato a chiamare "aziende" le strutture sanitarie, importando una mentalità di profitto. In questo passaggio si è perso il senso della missione e si è dato via libera ai tagli, che non aiutano, perché peggiorano sia la qualità del servizio sia quella dei medici, che sono oberati di lavoro e non hanno più tempo per studiare e prepararsi. Mi lasci aggiungere che i grandi medici si formano nel pubblico, che un tempo non era ossessionato dalle spese, poi casomai passano al privato».
Il numero chiuso a medicina è stato un errore?
«Rientra nella filosofia dell' ottimizzare la sanità, slogan politico per giustificare il taglio dei fondi. Un posto di terapia intensiva però non è solo un letto. Sono sette infermieri ogni due pazienti e cinque medici ogni cinque pazienti. E quando parlo di medici, mi riferisco a specialisti che sanno quello che bisogna fare. Solo così si evitano le morti».
Questione di mancata prevenzione e tagli eccessivi se siamo finiti a terra, dunque?
«Le pare poco? Comunque è anche questione di metodo. Se in Germania hai dei sintomi di Covid-19 e vai all' ospedale, all' ingresso trovi un grande cartello che ti ordina di non entrare per nessuna ragione e ti invita a suonare un campanello. A quel punto esce un sanitario che ti prende in cura senza che tu metta piede nell' ospedale e decide se ricoverarti, in strutture riservate ai malati Covid-19, o mandarti a casa, dove viene ordinato al tuo medico curante di assisterti. Mi sembra che in Italia l' individuazione del virus sia appaltata al paziente, in autodiagnosi da casa, al telefono con il medico del territorio. Sempre meglio comunque di quanto avveniva nei primi tempi, quando i sintomatici erano accolti in pronto soccorso senza percorsi differenziati».
Come mai ora si muore meno e i malati sono meno gravi: il virus è diventato meno aggressivo?
«Il virus può essersi trasformato, ma noi non lo sappiamo. Certo non muta a seconda dei nostri desideri o umori. La sua forza resta la stessa, cambia la carica virale, e chi è colpito da più molecole contagiose se la passa peggio, e può cambiare la resistenza che incontra. Ecco, non direi che è diventato meno letale, piuttosto che siamo diventati più bravi noi a curarlo. Per le prime tre settimane i medici sono andati avanti a tentoni».
Mi sta dicendo che molta gente morta un mese e mezzo fa oggi si sarebbe potuta salvare?
«Decongestionare gli ospedali è stato fondamentale perché meno pazienti hai, meglio li curi. E poi certo, più conosci la malattia, più la terapia è efficace. Nei primi venti giorni i pazienti arrivavano con insufficienze respiratorie severe e veniva sparata aria nei polmoni a pressione alta. Poi si è scoperto che così la situazione peggiorava. Con il tempo abbiamo anche capito che era fondamentale che il sangue non si coagulasse e abbiamo iniziato a usare con ottimi risultati l' eparina. E' un percorso. La scienza procede per tentativi ed errori, e l' esperienza non è altro che l' analisi critica dei propri errori».
Quindi oggi sappiamo come curare il Covid-19?
«No, abbiamo imparato come arginarlo meglio. Ma finché non conosceremo bene tutti i meccanismi di replicazione del virus, non troveremo mai la terapia».
Si dice sparirà con il caldo.
«Non ci resta che aspettare. Può darsi che al caldo si trovi peggio che al freddo. Fatto sta che noi nel corpo abbiamo 36-37 gradi, e lui ci sta benissimo».
Quanto dovremo aspettare per il vaccino?
«Questo lo chieda ai virologi».
Colgo un filo di ironia, non li apprezza?
«Quando parlano del loro mestiere dicono cose interessantissime. Se però si allargano e iniziano a fare gli epidemiologi, e poi i rianimatori, i tuttologi e magari anche i politici, fanno scivoloni in abbondanza, come tutti. Ma qui mi fermo, perché non vorrei rientrare nel gruppo».
Ma no professore, giochiamo un po' ai filosofi, tanto tutti noi comuni mortali riconosciamo al medico il ruolo di santone
«Questo in Italia, dove siamo emotivi. Infatti abbiamo avuto la reazione più irrazionale e meno scientifica di tutti al virus».
Parla della politica e della società, non della scienza?
«Certamente».
L' epidemia è dolore, va di moda dire che ci renderà migliori. Sottoscrive?
«Bisognerebbe studiare la storia a quarant' anni, non alle elementari. Ci sono sempre state epidemie, sono sempre passate e l' animo umano non è mai cambiato. L' emergenza esalta gli istinti brutali. Buoni e cattivi. Poi quando passa, tutto torna come prima».
Professore, perché fremo per ripartire ma mi tremano le gambe mentre se fossi in Germania sarei più tranquillo?
«Forse perché riconosce alla Merkel un' autorevolezza superiore a quella che attribuisce a Conte. Se è così, penso che si debba al fatto che la Cancelliera ha parlato meno ma ha detto di più. La comunicazione del governo italiano è stata poco chiara, quasi fosse voluto. I cittadini sono stati bombardati di norme che cambiavano di continuo e a volte si contraddicevano».
Di conseguenza in Italia ciascuno ha fatto da sé.
«È mancato il manico e si è usato un tono apocalittico per essere ascoltati. Poi ci si è nascosti dietro il parere degli scienziati, solo che il virus era sconosciuto e ogni professore aveva la sua opinione. Si è creata una confusione non da poco, volendo andare dietro a tutti. Peccato che la medicina non è democratica: può essere che uno abbia ragione e il 99% torto».
Cosa dovremmo fare per ripartire tranquilli?
«Mantenere la calma e non ripetere gli errori. Osservare gli altri anziché proporsi come modello: guardiamo cosa succede dove si è riaperto, e se il contagio lì non riparte, copiamo. E poi bisogna fare un calcolo tra il rischio epidemico e il disastro economico che la chiusura comporta».
Dagospia il 21 aprile 2020. Corrado Formigli su Facebook: Questa fotografia è stata scattata alle ore 15 di oggi, sabato 18 aprile 2020, sulle sponde dell'Isar, nel cuore di Monaco di Baviera. È un'immagine che si presta a una serie di osservazioni. Innanzitutto notiamo che non ci sono anziani, i più fragili e vulnerabili. Le persone si raggruppano per nuclei familiari, per il resto si distanziano quel che serve. In sintesi, i cittadini si regolano sulla base del proprio senso di responsabilità, senza autocertificazioni cartacee. La presenza della polizia è molto discreta. Com’è possibile? È noto che la Germania ha saputo gestire il contagio piuttosto bene. I contagiati ufficiali oggi sono oltre 142 mila, i morti complessivi circa 4300. L'età media dei malati è molto più bassa che in Italia, secondo gli esperti per via della peculiarità della società tedesca dove i ragazzi vanno a vivere da soli presto e frequentano poco gli anziani (e dove il contatto fisico è molto meno accentuato che da noi). Inoltre, l'alto numero di tamponi eseguiti tempestivamente ha permesso di mappare rapidamente il territorio e isolare i contagiati con più efficacia. Per fare tanti tamponi, la Germania si è avvantaggiata di un piano pandemico ben organizzato e di ottime scorte di reagenti chimici, quegli stessi reagenti di cui l'Italia si trova drammaticamente a corto. Stesso discorso vale per i Dpi, i dispositivi di protezione, distribuiti efficacemente al personale sanitario, e per i respiratori, abbondanti in Germania dove ci sono alcuni dei più importanti produttori al mondo di ventilatori polmonari. A tutto questo aggiungiamo che la Germania aveva prima del contagio cinque volte i posti di terapia intensiva dell'Italia (con una volta e mezzo degli abitanti), numero ulteriormente aumentato durante l'epidemia. Insomma, i tedeschi non si sono mai lontanamente trovati con le terapie intensive esaurite come purtroppo è accaduto in Lombardia. Le aziende tedesche non sono mai state chiuse e i parchi sono sempre stati tenuti a disposizione dei cittadini pur nel rispetto delle regole di distanziamento. Ora, senza ombra di polemica, prima di sputare sui tedeschi additandoli come i "nipotini di Hitler" (come ha fatto uno sciagurato senatore della Repubblica che neppure è degno di essere nominato) e attribuire l'esplosione del contagio e il numero dei morti in Lombardia alla “sfiga” magari studiamo un po' meglio chi è stato più bravo di noi. Perché l'Italia sarà anche stata sfortunata. Ma la mancanza di Dpi, la scarsità di terapie intensive, la mancanza di scorte di reagenti chimici, il poco personale sanitario, l'insufficiente coordinamento fra Stato e Regioni, la mancanza di produttori nazionali di materiale sanitario cruciale in caso di epidemie, l’indebolimento dei presidi sanitari territoriali, ecco: quella non è sfiga. È il segno di un Paese preso enormemente alla sprovvista dal Covid 19 e che dovrà umilmente imparare molte cose da chi ha fatto meglio di noi. Se non altro, per rispetto delle 23 mila vittime di questo disastro.
Sul coronavirus non c'è partita: Italia - Germania finisce 0-4. I tedeschi hanno dimostrato di saper gestire meglio di tutti l'emergenza Covid 19. Grazie a una sanità che non ha rivali, una classe dirigente all'altezza e una catena di comando compatto. Il “modello italiano” invece arranca. E ora il match Conte-Merkel sugli eurobond. Emiliano Fittipaldi il 21 aprile 2020 su L'Espresso. A due mesi dall'inizio della pandemia, la risposta della Germania all'emergenza coronavirus sembra essere quasi perfetta. Almeno in confronto a quella messa in campo da altri paesi. Anche il “modello italiano”, rispetto a quello tedesco, è poca cosa. Nella gestione della crisi i nostri cugini ci hanno surclassato. Dimostrando un'organizzazione superiore nell'emergenza sanitaria, una classe dirigente all'altezza a livello nazionale e territoriale, e una catena di comando compatta. Fattori che oggi permettono a Berlino di pianificare con rapidità la “Fase 2”, quella del rilancio dell'economia nazionale. Molti gli elementi-chiave del successo tedesco. Ecco i quattro più rilevanti.
1) TEST, TERAPIE INTENSIVE E POSTI LETTO. Qualche settimana fa molti scienziati italiani spiegavano che tutte le nazioni europee avrebbero avuto, nessuna esclusa, una curva dei contagi e dei morti simile alla nostra. In Germania, invece, l'epidemia ha avuto una storia diversa. Se il numero accertato dei contagiati è di poco inferiore a quello italiano (181 mila contro 146 mila), il tasso di letalità del morbo tra i tedeschi è oggi fermo al 3,5 per cento, contro il 13 per cento del nostro Paese. In numeri assoluti, 24 mila morti contro 4.600. «La pandemia da noi è sotto controllo», può affermare soddisfatto il ministro della Salute Jens Spahn, sicuro che il Fattore R0, il tasso d'infezione, sia ormai sceso allo 0,7. Come si giustifica una difformità così marcata? La Germania, semplicemente, non era impreparata allo tsunami del Covid 19. L'Italia, sì. Al netto delle differenze sociali e culturali che hanno permesso ai teutonici di proteggere meglio gli anziani ( come spiegato dall'Espresso un mese fa ), i tedeschi hanno fatto un uso massiccio dei tamponi fin dai primi giorni della crisi - ben 350 mila a settimana in media - che hanno permesso di isolare subito i positivi e tracciare i contatti. L'Italia a oggi ne conta poco più della metà. Ma abbiamo recuperato solo ad aprile: nelle prime, decisive settimane ne abbiamo fatti troppo pochi, seguendo protocolli errati e tattiche obsolete. La Germania ha poi protetto meglio i suoi medici e infermieri attraverso una distribuzione massiccia di dispositivi di protezione di cui aveva fatto scorta in precedenza, e ha riconvertito alla svelta fabbriche nazionali per produrre mascherine in house. Dal prossimo agosto potranno distribuirne 200 milioni al mese, mentre in Italia dipenderemo ancora dai mercati esteri, diventati far west per speculatori. Gli ospedali tra Berlino e Monaco, inoltre, non sono mai andati al collasso: la telemedicina a distanza ha funzionato bene. Altro confronto impietoso è quello sul numero di terapie intensive, unica arma per salvare i pazienti Covid più gravi: all'inizio della crisi l'Italia (60 milioni di abitanti) ne aveva poco più di 5 mila, la Germania (83 milioni di abitanti) ben 28 mila, il sestuplo. Presto i tedeschi potranno contare su 40 mila unità salvavita, grazie alle industrie che producono ventilatori meccanici. In Italia ce n'è solo una, la piccola Siare Engineering. Appena 35 dipendenti e 120 pezzi prodotti al mese. Il governo ha mandato l'esercito per potenziare la produzione mensile, che – grazie all'aiuto di Ferrari e Fca – è arrivata a 500 pezzi. Troppo poco per il fabbisogno nazionale in caso di recrudescenza dell'epidemia.
2) FABBRICHE SEMPRE APERTE. In Germania il combinato disposto di investimenti massicci sul sistema sanitario nazionale, di tamponi a tappeto e di terapie intensive per ogni paziente ha permesso dunque di avere pochi decessi rispetto all'Italia. Ma, pure, di non bloccare del tutto l'attività economica. Così se il 95 per cento delle aziende tricolori che lavorano acciaio si sono dovute fermare, in Germania le aziende siderurgiche, e non solo, hanno continuato a lavorare (quasi) a pieno regime. Come ha dimostrato lo studio della Fondazione Edison sui consumi elettrici industriali delle due settimane centrali di marzo: le tabelle segnalano un calo del 25 per cento tra Lombardia e Sicilia, al 5 per cento nei lander tedeschi. Il lockdown totale all'italiana è stato evitato, e così anche il crollo dei consumi risulta essere meno drammatico: secondo uno studio di McKinsey gli italiani hanno tagliato la spesa del 40 per cento, i tedeschi del 20. Un contenimento consentito anche dal mostruoso scudo economico alzato dal governo federale: un ombrello da 1.500 miliardi di euro tra garanzie (oltre 1.200 miliardi) e nuovo debito pubblico, in modo da proteggere aziende, lavoro e salari. La recessione colpirà anche loro, ma secondo tutti gli istituti di ricerca l'impatto sarà meno devastante rispetto agli stati più colpiti.
3) COMPETENZA DELLA CLASSE DIRIGENTE. L'eccezione tedesca nel controllo del coronavirus, a due mesi dall'inizio della pandemia, è dunque un fatto assodato. Non dipende né da manipolazioni (complottisti ipotizzano che Angela Merkel nasconda le reali statistiche dei morti teutonici), né dalla dea bendata. Ma da abilità che altre nazioni, piaccia o meno ai nazionalisti, non hanno in dotazione. O, se le avevano, non hanno saputo usare. Date le circostanze e la eterogeneità della coalizione di maggioranza, in molti sostengono che Palazzo Chigi abbia fatto il massimo possibile. Che poteva andare anche peggio. Forse l'analisi è fondata. Ma è indubbio che davanti alla sfida del Covid la struttura amministrativa, la burocrazia e la qualità della classe dirigente italiana non reggono il confronto con quelle tedesche. Al netto dell'esistenza di un piano pandemico funzionale che noi non avevamo («siamo prontissimi», disse incautamente Giuseppe Conte il 27 gennaio scorso), le polemiche quotidiane tra Roma e i vari governatori sono un unicum europeo. Anche la guerra feroce tra le varie Regioni, combattuta sulle contrapposizioni Nord-Sud e destra-sinistra, è caratteristica nazionale di cui non andare fieri. In più, se in Italia non si capisce chi dispone e chi delibera, la catena di comando tedesca è sempre rimasta chiara e definita. La Germania è uno Stato federale, i lander hanno poteri e deleghe rilevanti, ma la responsabilità politica e l'onere del coordinamento finale è in capo al governo della Merkel, a capo di un partito conservatore che – non a caso – sta volando nei sondaggi verso il 40 per cento dei consensi. La baraonda di ordinanze locali è tipica della crisi Covid italiana: in Germania nessuna babele di regole ha creato confusione tra i cittadini. A Roma anche la comunicazione del rischio è stata caotica (vedi la fuga di notizie sul lockdown in Lombardia e il successivo assalto ai treni verso Sud, o le cangianti opinioni dei virologi). In Germania parla solo l'esecutivo e gli scienziati dell'Istituto Koch. La Merkel, inoltre, non ha creato tre-quattro task force diverse con centinaia di consiglieri , con conseguente contrasti di competenze e confusione decisionale. Così se in Italia i piani sulla riapertura sono ancora avvolti nel mistero (Conte ha annunciato che entro il wekeend svelerà il suo progetto), in Germania dopo un solo mese di lockdown sono già pronti. Tanto che le fabbriche strategiche, da quelle meccaniche all'industria dell'auto, sono ripartite. La Volkswagen ha riaperto ieri dopo solo un mese di stop, Audi seguirà a fine aprile. Gran parte dei negozi fino a 800 metri quadri hanno già rialzato le serrande. A sud delle Alpi la riapertura di aziende e uffici, ipotizzata i primi di maggio, sarà comunque zavorrata dalle scuole chiuse: gli studenti italiani torneranno in aula, se tutto va bene, a settembre. Quelli teutonici il 4 maggio saranno in classe a rispondere all'appello. Con i maestri in aula e le mense funzionanti, i genitori tedeschi potranno tornare al lavoro senza chiedersi a chi lasciare la prole. «La Germania ha riportato risultati parziali, serve estrema cautela. Ma la direzione è buona», ha spiegato la Cancelliera qualche giorno fa.
4) LEADERSHIP ECONOMICA. Nessuno, all'inizio della pandemia, aveva immaginato che la leadership economica e politica dei tedeschi in Europa si sarebbe confermata in tutta la sua evidenza anche nella battaglia al Covid 19. «L'Italia è due settimane avanti agli altri paesi europei, avranno tutti i nostri medesimi problemi», ripetevano da Palazzo Chigi e dal Comitato tecnico-scientifico. Per quanto riguarda la Germania, si sbagliavano. L'efficienza tedesca non sempre è applaudita come esempio virtuoso. Un pezzo della classe dirigente di M5S e della Lega soffia su italiche antipatie anti-tedesche da anni. Strategia populista agevolata da un complesso (d'inferiorità?) di una parte consistente del paese nei confronti dei ricchi e severi germanici. Per molti veri responsabili, insieme alla Ue, del declino economico dell'Italia degli ultimi vent'anni. A poche ore dal cruciale Consiglio europeo del 23 aprile, escludendo le fake news dei pasdaran grillini e dei seguaci di Matteo Salvini, molti osservatori di estrazioni diverse sono concordi nel sostenere che i tedeschi debbano adesso esercitare la loro egemonia nell'era del Covid con maggiore responsabilità rispetto a crisi recenti. Concedendo dunque una solidarietà fattiva ai partner più fragili del meridione, Spagna, Italia e Grecia in primis. In modo da salvare (e rilanciare) l'Europa unita, e l'economia comune. E proteggere, come sostiene pure l'ex cancelliere Gerhard Schroder e l'ex presidente del Bundestag Lammert, la stessa economia tedesca. Che prospera soprattutto grazie al manifatturiero, alle sue esportazioni e quel surplus commerciale citato da Conte in un'intervista polemica. La partita che si gioca nei prossimi giorni in merito agli eurobond o coronabond che dir si voglia, sul “surrogato” chiamato recovery fund, insomma sulla parziale mutualizzazione del debito e sugli aiuti per evitare il collasso delle frangibili economie mediterranee, sarà dunque decisiva. Per l'Italia, ma anche per la Germania. Vincere per 10 a zero e umiliare quelli i partner non conviene neanche ai più forti. I falli di reazione sono imprevedibili, e porterebbero conseguenze nefaste per tutti.
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 26 aprile 2020. «Il Lazio ha tenuto, è stato un modello di efficienza. La Lombardia ha sofferto per un'onda di grandi dimensioni e per una sanità poco presente sul territorio, molto concentrata su ospedali di eccellenza e tanto privato. Serve estrema cautela nel riaprire, ricordiamoci le lezioni delle epidemie del passato». Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma e membro del comitato tecnico-scientifico nazionale. Secondo un sondaggio è considerato il più attendibile degli scienziati che parlano del coronavirus («non dico mai nulla di cui non sono certo, bisogna avere anche il coraggio di non sapere e di dire che quello che diciamo oggi potrebbe essere smentito domani da nuove scoperte o dall'avanzamento delle conoscenze»).
Vi aspettavate una diffusione così massiccia del virus?
«Ci ha sorpreso la velocità, quando c'è stata la percezione di quello che stava accendo già circolava probabilmente da settimane nel mondo. Non solo in Italia. Si è sovrapposto alla circolazione dell'influenza. Molte sono sembrate polmoniti influenzali, ma forse erano polmoniti da questo virus. Ma nessuno ne sapeva l'esistenza, non abbiamo sbagliato nulla in particolare. Nel Lazio, poi, abbiamo avuto la fortuna di trovare i casi dei due turisti cinesi e di occuparci del ragazzo rimpatriato da Wuhan, oltre ad avere a disposizione una struttura come lo Spallanzani abituata da decenni ad affrontare le epidemie che ha avuto un grande supporto dalla Regione. È stata una grande occasione per mettere in piedi un modello di organizzazione e gestione, il modello Lazio. Una regione che ha avuto coraggio di chiudere interi territori quando i casi hanno superato una soglia critica o i virus è arrivato pesantemente in residenze per anziani».
Nel Nord questo coraggio non c'è stato.
«È difficile dire ora quale coraggio ci sia stato. Da noi la Regione ha sposato una metodologia di lavoro basata sui dati; ha confermato fiducia al sistema di monitoraggio del servizio regionale di epidemiologia delle malattie infettive, il Seresmi».
La Lombardia cosa ha sbagliato?
«È stata devastata da una ondata che non era quella che si aspettavano, penalizzata dallo spostamento di popolazione e soprattutto da un modello organizzativo con poca sanità sul territorio. Dovremo cominciare a pensare che la sanità è un bene pubblico e per tutti come dice l'articolo 32 della Costituzione. Non un mezzo per fare profitto. Se non consideriamo un modello di sanità pubblica, non verremo fuori da questa epidemia. Nel Lazio abbiamo avuto un efficace controllo di questa epidemia. Il numero di nuovi infetti sembra essere in flessione, ma non bisogna cedere a facili entusiasmi. E i guariti aumentano di giorno in giorno, la sanità del Lazio non ha nulla di invidiare a quella del Nord».
Regioni con più contagiati del Lazio chiedono di aprire prima.
«In questi giorni che ci separano dal 4 maggio bisogna riflettere: le regioni non devono aprire sotto la pressione dei media o dell'economia, che pure è essenziale, ma sulla base dei dati, senza cedere all'ottimismo del momento. Abbiamo ogni giorno più di 400 morti. Serve molta cautela, altrimenti avremo il rischio di una seconda ondata. E serve un coordinamento nazionale. Pensiamo agli spostamenti Nord-Sud che ci sono stati. Certo, il Lazio ha fatto un grande investimento su posti letto di terapia intensiva di qualità. Senza bisogno di interventi come gli ospedali in fiera».
Si riferisce all'ospedale alla fiera di Milano?
«Sembra non sia utilizzabile per mancanza di personale, sembra una cattedrale nel deserto, lontano da un ospedale vero, è difficile possa funzionare. Discorso differente per l'ospedale alla Fiera di Bergamo, per il quale sembra essere stato utilizzato un modello più integrato. Ma sono impressioni a distanza».
Aumentano i pazienti di Covid-19 che non necessitano di essere ricoverati in ospedale.
«Ne usciremo solo se si stabilirà un nuovo patto con i medici di medicina generale: bisogna definire il modello organizzativo della sanità, stando vicino ai malati perché non ci siano pazienti che non trovano un medico che li vada a visitare a casa. Questa malattia nell'85% dei casi non ha bisogno di nulla, ancora non c'è un farmaco efficace. Se portiamo inutilmente i pazienti in ospedale, i rischi aumentano».
Spaventa non avere un farmaco efficace.
«Abbiamo forse un farmaco efficace per l'influenza grave?».
S'indebolirà il virus con l'estate?
«Troppi parlano e si rischia di dare previsioni da maghi e numeri al lotto. Parliamo di fatti e scienza. Speriamo tutti di potere fare una vacanza al mare perché avremo utilizzato metodi diversi, perché speriamo che il virus circolerà di meno, perché saremo negli spazi aperti. Ma nel 1957, non dimentichiamolo, l'asiatica fece al mondo 20 milioni di morti e colpì il 20% della popolazione. Deve essere di lezione e invitarci a essere prudenti».
Teme di più le riaperture o una nuova ondata in autunno?
«Ovviamente non potremo rimanere chiusi per sempre, abbiamo bisogno di tornare a lavorare. Servirà senso di responsabilità dei cittadini e delle istituzioni».
Torneremo alla normalità solo con il vaccino?
«No, spero torneremo a qualcosa di simile alla normalità prima, ma mantenendo misure di distanziamento sociale: proteggendo gli altri proteggeremo noi stessi ed i nostri cari».
Da ilmessaggero.it il 17 aprile 2020. Una seconda ondata di epidemia in autunno, «più che un'ipotesi è una certezza. Fino a quando non avremo un vaccino ci saranno nuove ondate o, speriamo, tanti piccoli focolai epidemici che andranno contenuti. Per questo è molto importante non accelerare le riaperture: in caso contrario la seconda ondata invece di averla più avanti rischiamo di subirla prima dell'estate». Lo afferma Walter Ricciardi, rappresentante italiano Oms e consulente del ministro della Salute al giornale. Le scelte «azzardate di alcuni leader politici mondiali - ha spiegato Ricciardi - sono responsabili degli effetti sui loro popoli. Se ci sono stati più morti rispetto ad altri è perché le decisioni sono state prese o in modo tardivo o in modo sbagliato. L'esempio più eclatante è quello della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i governi non hanno ascoltato i consiglieri scientifici e hanno reagito in maniera estremamente ritardata». Di contro, «in paesi come la Corea del Sud, la Finlandia e la Germania, dove c'è una linea di comando unica e un rapporto diretto tra politica sensibile e istituzioni ben funzionanti, le cose vanno meglio». Fino a quando non registreremo una immunità di gregge provocata favorevolmente dal vaccino, ha avvertito l'esperto, «avremo una lunga fase di convivenza col virus. Speriamo che sia una convivenza di mesi e non di anni, ma ci troveremo di fronte a una nuova normalità». La misura più importante, ha rilevato, «sarà il distanziamento fisico, la distanza tra le persone che non sono certe del loro stato immunologico. Naturalmente questo stato potrà essere conosciuto e tracciato meglio attraverso una diagnostica più estesa e mirata e grazie all'uso delle tecnologie. Non c'è dubbio che i paesi che hanno reagito meglio sono quelli che hanno utilizzato meglio le armi della diagnostica e delle tecnologie. Su questo - ha concluso - ho invitato da diversi giorni i miei colleghi e i decisori ad agire con più rapidità rispetto a quanto fatto finora».
(Askanews il 18 aprile 2020. ) – “Le vacanze estive? In questa fase è troppo presto per poter rispondere. Dobbiamo pensarci: abbiamo detto di fare un passo alla volta, vediamo se stiamo sulla strada giusta, poi cercheremo di capire. Pensiamoci, ma facciamo un passo alla volta”. Lo ha detto il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, in una conferenza stampa all’Iss. “Meglio andare in montagna? Era una battuta – ha precisato Brusaferro – non uno spot. Certo il rischio in alcune condizioni è legato al rischio stesso delle attività che fai. Ma il virus non si esaurisce in una settimana o un mese, ci accompagnerà fino a quando avremo un vaccino disponibile in decine di milioni di dosi”. Per Brusaferro in ogni caso “qualsiasi azione di apertura va fatta con grande cautela: azioni caute, misurare, valutare l’impatto e fare passo dopo passo. Solo così siamo in grado di poter affrontare aperture e monitorizzare che non siamo di nuovo sopra R1”. “La regola generale – ha ribadito – è il distanziamento, protezioni o barriere dove non si può garantire. Va ripensata la nostra organizzazione di vita: dai trasporti al lavoro, dalla fase commerciale alle attività quotidiana”.
Margherita De Bac per corriere.it il 6 maggio 2020.
Silvio Brusaferro, riesce a dormire la notte?
«Sì dormo, ma certo il peso delle responsabilità te lo senti addosso», sogna il letto dopo un’altra giornata difficile il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
Possiamo tentare un bilancio di questo avvio di fase 2?
«Sul piano epidemiologico i segnali di come è andata li interpreteremo la prossima settimana. Dai dati capiremo se i i comportamenti dei cittadini sono stati virtuosi. La chiave del successo di questa sorta di sperimentazione risiede nella consapevolezza che ognuno di noi partecipa in prima persona e può fare la differenza. Siamo ancora dentro l’epidemia. Aperture sì, ma con estrema accortezza nel gestirle».
L’errore da non commettere?
«Pensare che il pericolo sia passato e dimenticare che potremmo ricaderci, quindi non usare le stesse cautele della fase 1. Mi sembra che tutti abbiamo imparato la lezione. Se continuiamo così potremo poi permetterci maggiori libertà e andare avanti con altre riaperture controllando la diffusione del virus».
Italiani promossi, allora?
«Sono fiducioso che il Paese continui a contenere epidemia e che, forte di questo successo, possa puntare su un lento, progressivo ritorno alla normalità».
Quali sono i rischi?
«I punti di fragilità sono le aggregazioni che possono crearsi ovunque, in autobus, al supermercato, al parco e in strada. Quindi non esiste un anello della catena più debole dell’altro».
Con le dovute precauzioni si potrebbe arrivare a riaprire tutto?
«Non sono pessimista, ma cauto. Non sono il signor no. Dateci il tempo di monitorare l’effetto di questi primi passi. Bisogna contare i nuovi contagi e verificare che non siano aumentati prima di pensare al dopo».
La Germania si prepara alla seconda ondata di contagi, affermazione del Robert Koch Institute, vostro omologo tedesco. E l’Italia?
«Il virus si comporta in modo uguale dappertutto, parla una sola lingua. Potrebbe riprendersi velocemente se non stiamo attenti. Anche se è difficile che l’epidemia possa ripresentarsi con la drammaticità che ha espresso in Lombardia. Oltre alle contromisure già in atto, esiste un piano organizzativo per intervenire con tempestività ed evitare situazioni estreme».
Il campionato di calcio riprenderà?
«Siamo in fase di valutazione, il parere del Comitato tecnico scientifico non è pronto. Tutti gli sport di squadra mettono insieme un certo numero di persone che possono variare a seconda delle discipline. Sono per definizione delle aggregazioni. Ci sono tante variabili in gioco».
E i musei?
«Va fatta una riflessione attenta. Tutte le possibili riaperture devono tener conto delle ripercussioni sui trasporti. È la filosofia di fondo: garantire il distanziamento sociale nell’intero percorso, da quando si esce di casa. Per i musei non è una questione di ampiezza delle sale ma di poter contare su una organizzazione che garantisca determinati standard di sicurezza».
Veneto ed Emilia Romagna mordono i freni per anticipare nuove aperture.
«La fase 2 richiede analisi anche a livello regionale, l’idea è quella di procedere in modo chirurgico tenendo conto che così come si adottano zone rosse si possano prevedere aree meno blindate, dove rilasciare qualche libertà in più».
Il vicepresidente della Lombardia Sala afferma che la sua regione ha un R0 inferiore alla media nazionale. Ha un senso rivendicare questo primato?
«Credo che il problema sia mantenere l’R0 (erre zero, il tasso di contagiosità del virus, ndr) sotto l’unità, comunque il più basso possibile. Come istituto superiore di sanità aggiorniamo queste informazioni ogni settimana e non stiliamo graduatorie. 0,5 o 0,7 hanno un significato relativo dal punto di vista epidemiologico. Conta il valore nazionale».
Non le sembra che tanti esponenti della medicina parlino a sproposito e in modo contraddittorio?
«Succede in tutto il mondo. Si chiama linfodemia, è un fenomeno globale, che ha la stessa diffusione del virus e fa parte delle epidemie moderne. Lasciamo perdere chi parla troppo e troppo spesso, facciamo riferimento alle fonti ufficiali».
Il 5 maggio è stata la giornata mondiale del lavaggio delle mani, intitolata “Non solo mascherine”. C’è un’esagerata attenzione per questa protezione?
«L’igiene delle mani è la misura più importante contro le infezioni. Il lavaggio delle mani impedisce la trasmissione dei germi. Le mascherine da sole non bastano. È sbagliato quindi sentirsi al sicuro semplicemente indossandole».
Margherita De Bac per corriere.it il 19 aprile 2020. Intervista a Silvio Brusaferro Presidente dell'Istituto superiore di Sanità.
Come sarà l’Italia delle riaperture?
«La parola chiave è convivere per mesi col virus e rispettare individualmente le regole per evitare il contagio. Nel tempo avremo più conoscenze su come si diffonde il Sars-CoV 2, più farmaci e più strumenti di diagnosi però non fasciamoci la testa. Lo batteremo solo con l’immunità gregge data dal vaccino che non arriverà prima di fine anno».
Che significa sul piano pratico?
«Vuole dire che ora il tasso di contagiosità,l’R0, è inferiore a uno e dunque la circolazione del virus è più contenuta. Con questa logica bisogna muoversi passo dopo passo misurando gli effetti della riapertura con cautela. Ogni azione andrà monitorata attuando anche sul campo il tracciamento dei casi e valutando qual é il numero di ricoverati compatibile con la disponibilità di posti letto. Due pilastri della ripartenza che richiedono investimenti su medicina territoriale e ospedali. Solo così la riapertura sarà sostenibile ed eviteremmo di tornare sopra l’R0 superiore a 1».
Come Comitato tecnico scientifico, di cui lei fa parte, frenate sulle fughe in avanti di alcune Regioni?
«Noi diciamo attenzione. Bisogna ricominciare dalle attività fondamentali del Paese sempre che ci siano condizioni di sicurezza. Convivere col virus significa riprogettare le giornate. No agli orari di punta in tutte le fasi vita quotidiana. Dimentichiamo strade e mezzi pubblici affollati».
I ragazzi faranno l’esame orale di maturità davanti ai loro professori come si augura Paolo Giordano nell’articolo pubblicato ieri dal Corriere?
«Quello della scuola è un tema che prenderemo in considerazione in un secondo momento. Prove orali maturità dal vivo? E’ una riflessione non fatta, ora l’obiettivo è immaginare da dove cominciare il 4 maggio in sicurezza».
Le Regioni più colpite, come Lombardia e Veneto, spingono per bruciare i tempi.
«Ci stiamo focalizzando sugli strumenti per affrontare la seconda parte dell’emergenza. Dovremmo avere un quadro generale del Paese, poi sta alla capacità dei contesti locali attrezzarsi con strumenti di monitoraggio adeguati per prevenire nuovi focolai. Tanto più li possiedi tanto più puoi compiere il passo successivo. Le riaperture non possono dipendere da quanto il virus ha circolato in una data area ma dalle capacità di intervenire sul territorio. Il presupposto è la velocità nell’intercettare rapidamente la ripartenza della curva epidemica, poi può entrare in gioco il criterio epidemiologico. Il presupposto è poter arrivare prima».
Lo sport deve restare chiuso?
«E’ giusto avere una prospettiva di normalità e immaginare che potremmo riprendere la nostra vita. Tenendo conto però che gli eventi di massa nei prossimi messi sono da evitare. Folle che si riuniscono è uno scenario inimmaginabile. Pagheremmo un prezzo molto alto. Ognuno deve rinunciare a qualcosa».
Ci metteremo in costume la prossima estate?
«Il sole si può prendere in tanti modi, anche in terrazzo. La mia è una battuta. La risposta seria è che non si può pensare ad aree affollate».
«I dati mostrano che sono i più fragili assieme ai malati cronici quindi vanno protetti nella mobilità e negli accessi ai luoghi pubblici specie nella fase iniziale senza limitare troppo la loro autonomia, ma supportandoli a casa con servizi a domicilio».
E’ tramontata l’ipotesi di patenti di immunità per i lavoratori positivi ai test rapidi sierologici?
«E’ un tema non attuale. Ora non disponiamo di test affidabili. Magari tra qualche tempo avremo nuove evidenze per prendere decisioni diverse».
Michele Bocci per “la Repubblica” il 27 aprile 2020. La definisce una ripartenza delicata, da fare passo dopo passo con gli occhi puntati sui dati, perché se i casi tornano a salire si torna indietro. In un processo del genere la scuola non può essere presa in considerazione, almeno per ora, perché ripartire con le lezioni sarebbe rischioso. Fino a settembre, come ha detto il premier Conte a Repubblica , non se ne parla ma anche su quel mese non ci sono certezze. Per decidere cosa fare infatti andranno analizzati i dati sulla diffusione del coronavirus nelle settimane estive. Silvio Brusaferro è un professore abituato a dosare le parole che si è trovato a guidare l' Istituto superiore di sanità e a partecipare al Comitato tecnico scientifico nel corso di una pandemia. Il problema epocale non gli fa perdere il suo stile. «Nella fase 2 bisogna agire secondo il criterio del "try and learn": si fanno dei passetti avanti, si misurano gli effetti, si dà il via libera alle mosse successive».
Professore, perché le scuole non vengono riaperte in questo anno scolastico?
«La scuola secondo i nostri modelli adesso rappresenta un rischio significativo rispetto alla circolazione del virus. In una fase delicata come quella che stiamo intraprendendo va fatto un passo alla volta».
Come faranno i genitori dei bambini, soprattutto i più piccoli, che ricominceranno a lavorare?
«Qualunque sia la misura che si adotta, all' inizio ci sono delle asincronie, nel senso che non tutto quello che ruota attorno ad un settore è allineato. Bisognerà che le autorità e i datori di lavoro trovino delle forme di flessibilità per superare questo problema delle famiglie. Io qui voglio ricordare che siamo ancora nel periodo epidemico e che viviamo una situazione eccezionale».
I bambini non sono colpiti dal virus, questo non dovrebbe rendere più semplice riaprire le scuole?
«Sono colpiti meno ma comunque i casi ci sono e contribuiscono alla circolazione del virus. Quando parliamo di scuole però non ci riferiamo solo alla presenza fisica di più persone tra le quali adulti come docenti e personale in un luogo confinato, fatto già di per sé pericoloso. Dobbiamo anche considerare quello che gira intorno, gli spostamenti da e per gli istituti di genitori, magari di nonni, e altri. È un po' il ragionamento che abbiamo fatto sul settore produttivo: non si valuta solo il rischio per la singola attività ma anche quello legato agli spostamenti dei lavoratori, cioè l' impatto in senso ampio».
E i centri estivi?
«Ad oggi non ci sono le condizioni per pensare di riaprirli quest' estate. Poi vediamo come evolvono i dati».
Le scuole ripartiranno a settembre?
«Anche per questo dobbiamo vedere come evolve la circolazione del virus.
Stiamo seguendo un modello simile a un puzzle, con tante tessere. Via via che ne inseriamo di nuove va trovato l' equilibrio rispetto al rischio di altri casi, prima di aggiungerne altre.
Adesso è presto per dire quale sarà la situazione a settembre».
Ci sono le prime riaperture, ogni quanto prevedete provvedimenti di questo tipo?
«Quando parlavamo delle chiusure, dicevamo che ci volevano almeno 15-20 giorni per valutarne gli effetti. La stessa cosa vale quando si riapre, del resto le modalità con le quali si diffonde il virus sono sempre le stesse. Se si decidono troppe riaperture insieme e tornano ad esserci molti casi non si capisce dove si è sbagliato e bisogna richiudere tutto. Meglio procedere un pezzo alla volta, senza scordarci che siamo il Paese pilota perché in Occidente nessuno ha affrontato questi problemi prima di noi».
Come si proteggono gli anziani?
«Sono i soggetti più a rischio, specialmente se colpiti da più patologie, quindi da una parte devono evitare di contrarre il virus e dall' altra devono fare quel minimo di attività che consenta di vivere bene la vecchiaia e controllare certe malattie. Potranno fare due passi ma in modo protetto ed evitando più degli altri tutte le condizioni di aggregazione sociale. Lo so, alcuni disagi ci sono ma vale la pena affrontarli».
Ci si potrà spostare da una regione all' altra?
«Per ora la logica dei piccoli passi esclude questi spostamenti. Certo, se si riapre una filiera deve muoversi tutto quello che le ruota attorno e i lavoratori quindi devono viaggiare e in questo caso potrebbero non contare i confini amministrativi. Ad esempio un professionista può spostarsi da una regione all' altra per andare al lavoro».
È possibile che ci sia una seconda ondata in autunno?
«In termini teorici potremmo averla anche tra un mese, se prendiamo sotto gamba le misure. Da autunno inizierà una nuova stagione influenzale e circoleranno altri virus con sintomatologia simile. Il brutto tempo farà stare le persone in luoghi confinati, aumentando i rischi. Andrà intanto fatta una campagna di vaccinazione molto efficace contro influenza ed altre patologie, per evitare che questa malattia si confonda con quella da coronavirus. Bisognerà essere attenti ma conto sul fatto che dopo tanti mesi determinate abitudini, come lavarsi le mani, mettere la mascherina, rispettare la distanza di sicurezza, si siano consolidate. Due mesi fa, del resto, non avremmo potuto immaginare di non darci la mano o di non abbracciare un familiare. Gli italiani sono stati veramente bravi ad adattarsi a un nuovo modo di vivere».
Enrico Bucci: «Non mi fido delle nostre élite. Confido nei cittadini per arginare Covid». Valentina Stella su Il Dubbio il 22 aprile 2020. Intervista al biologo: “I prossimi focolai potrebbero essere controllabili se ci fossimo dotati di quel che serve per intercettarli in fase precoce. Ma è così?” Tra i maggiori divulgatori scientifici che abbiamo imparato a conoscere a causa della pandemia del Covid- 19 c’è sicuramente Enrico Bucci, professore aggiunto alla Temple University di Filadelfia. Da anni si occupa di dati biomedici, frodi scientifiche e biologia dei sistemi complessi. È autore di circa 80 pubblicazioni peer- reviewed e di un libro divulgativo dedicato alla frode scientifica, Cattivi Scienziati, Add editore, Torino.
Nell’informativa al Senato, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha detto che dovremmo mantenere le distanze e indossare le mascherine finché non ci sarà un vaccino. Lei cosa ne pensa?
«Che in generale sia corretto; naturalmente, dalle parole però bisogna passare alla concretezza. Quali e quante mascherine saranno disponibili per i cittadini italiani, per esempio? Vorrei solo qui ricordare un recente articolo dell’Economist, dove si spiega chiaramente che la produzione di mascherine, proprio a causa del lockdown e della domanda eccessiva, al momento appare del tutto insufficiente rispetto alle necessità. Cosa sta facendo l’Italia per dotarsi di stock sufficienti, senza dipendere dal capriccio degli esportatori?»
Come interpreta i recenti dati sul numero dei contagi e dei morti? Il virus è destinato a sparire o dobbiamo aspettarci nuovi focolai?
«Il virus non sparirà e con la riapertura che immaginiamo a breve è inevitabile che ci saranno nuovi focolai. Questo potrebbe anche essere un problema controllabile, se ci fossimo dotati di quel che serve per intercettarli in fase precoce ( test diagnostici) e se dessimo ascolto ai medici, che indicano chiaramente come i pazienti debbano essere il più possibile seguiti a domicilio o comunque rinforzando la medicina territoriale. Al di là delle parole, cosa abbiamo fatto in questo senso? Siamo pronti a ripetere il modello ‘ Vo’ Euganeo’ per ogni nuovo focolaio italiano? Abbiamo la capacità di fare dappertutto ciò che ha fatto per esempio l’Emilia Romagna, per contenere l’intasamento degli ospedali in fase epidemica più avanzata?»
Secondo lei quali sono i criteri scientifici da utilizzare per gestire la fase 2?
«Distanziamento e dispositivi di protezione, monitoraggio stretto dei nuovi focolai, interventi rapidi di contenimento ( mediante zona rossa, ove necessario), team di medici sul territorio ben attrezzati e ben dotati. In una parola, gestione oculata. Che poi queste cose siano realizzabili in Italia, è un altro paio di maniche: sono pessimista, a questo punto, sulla possibilità di fare quanto serve, ma spero di essere stupito dall’iniziativa individuale dei nostri cittadini, che possono già fare molto cercando di evitare comportamenti a rischio».
In questi mesi si è scritto e detto molto sul virus, le sue origini, le possibili cure. Le persone sembrano aver perso fiducia nella scienza. Lei cosa pensa?
«Che le persone sono passate da aspettative irrealistiche alimentate dai media e da certi ricercatori ( il vaccino subito, per esempio) all’incomprensione di cosa succede, perché il dibattito scientifico, anche molto acceso, si è svolto e si svolge in pubblico, generando disorientamento. Serve che le persone capiscano come funziona la scienza, prima di interessarsi a ciò che dicono virologi, scienziati e anche ciarlatani. Il virus ha fatto esplodere la contraddizione tra un gran bisogno di informazione scientifica chiara e l’incapacità di comprendere anche le basi, dovuta alla sistematica mortificazione delle discipline scientifiche nelle scuole italiane».
Secondo lei sono stati compiuti degli errori da parte del governo italiano nelle prime fasi della diffusione del virus? E dopo?
«Non è mio compito alimentare il dibattito sugli eventuali errori del governo. Diciamo che l’élite italiana – e non mi riferisco solo al governo o alla politica – ha mostrato chiarissimi limiti nell’anticipazione, nell’interpretazione e nella gestione del fenomeno, e la polverizzazione del potere decisionale nelle nostre istituzioni ha fatto il resto».
Da ilmessaggero.it il 19 aprile 2020. Brusca frenata sullo stop alle restrizioni per il coronavirus. «E' assolutamente troppo presto per iniziare la fase 2: i numeri, soprattutto in alcune Regioni, sono ancora pieni di una fase 1 che deve ancora finire. E' assolutamente importante non affrettare e continuare». Lo ha detto a Sky Tg24 Walter Ricciardi, del comitato esecutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e consulente del ministro della Salute. «Stiamo facendo dei modelli che studiano quando presumibilmente ci sarà l'azzeramento dei contagi nelle prossime settimane o in certi casi nei prossimi mesi - ha aggiunto Ricciardi - e soltanto sulla base di quei numeri si potrà dare il via libera». Secondo l'esperto il piano che il ministro Speranza sta preparando la fase due «potrà partire, soprattutto in alcune Regioni, quando conteremo i nuovi casi sulle dita di una mano e non certamente con numeri a quattro cifre». Altrimenti, ha proseguito, può accadere che, come è avvenuto nel passato, nel momento in cui si allentano le misure di sicurezza la pandemia potrebbe riesplodere con una seconda ondata. «Non ce lo possiamo permettere -ha rilevato - perché significherebbe richiudere prontamente tutte le attività, risigillare tutti a casa in maniera forte e soprattutto esercitare quella pressione sul servizio sanitario nazionale che poi si traduce in malati, intubati e morti. Ô una cosa che non vogliamo si ripeta».
Cosa pensa invece della gestione Trump della emergenza sanitaria?
«Non mi pare che si possa parlare di gestione, quanto di gestioni multiple ispirate dall’umore del momento e dagli accadimenti. Trump è un prodotto del suo tempo, ed è assolutamente inadatto a fronteggiare questa o altre emergenze; i cittadini americani e del mondo hanno avuto modo di impararlo in molte occasioni a loro spese».
Paolo Russo per “la Stampa” il 28 aprile 2020. Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Speranza ed esperto di sanità pubblica di fama internazionale, inizia a spiegarci i perché di tanta prudenza nella ripartenza quando butta lì «poi vedremo a giugno quando con il caldo umido il virus potrebbe attenuarsi».
Aspetti un attimo professore, ci faccia capire.
«Uno studio presentato il 24 aprile dal sottosegretario alla sicurezza interna Usa alla Casa Bianca mostrerebbe che il virus soffre il caldo umido. Al chiuso, con 24° e 20% di umidità può resistere su una superficie per 18 ore, con 35°e un tasso di umidità dell' 80% la sua permanenza non supera l' ora. Se poi si è al sole bastano 24° e lo stesso livello di umidità perché scompaia in due minuti».
Significa che quest' estate potremmo mollare la presa?
«Assolutamente no, perché il virus circolerà lo stesso e dovremo continuare a rispettare le regole igieniche e sul distanziamento. Però potremmo conviverci meglio».
Uno studio del nostro Iss dice invece che solo il 4% dei contagi avviene nei luoghi di lavoro, il resto si verifica in Rsa, ospedali e in famiglia. Non era meglio concentrarsi lì?
«Sugli ospedali si è agito. Ora bisogna farlo in modo deciso nelle Rsa e consentire ai positivi non gravi che non sono nelle condizioni di restare in isolamento a casa di essere accolti in strutture idonee. Detto questo, oltre 100 simulazioni del Comitato scientifico mostrano che riavviare contemporaneamente la mobilità da lavoro e quella sociale avrebbe comportato un aumento esponenziale della curva epidemica. Il Paese chiedeva di poter tornare a produrre. Si è fatta una scelta».
Ma il 18 non rischiamo di trovarci punto e a capo senza la App per i tracciamenti, i dipartimenti di prevenzione delle Asl svuotati e 40mila medici di famiglia in panchina?
«L'Italia e devo dire anche il Piemonte, pagano anni di disinvestimenti in sanità, in particolare dei servizi territoriali. Il ministro Speranza ha pronto un piano di rafforzamento del territorio. Ma dovremo fare tesoro di questa esperienza per rifondare il nostro Ssn, a cominciare dai medici di famiglia e dai servizi territoriali che devono lavorare in raccordo con gli ospedali».
Come devono comportarsi gli italiani nelle loro uscite?
«I pilastri sono sempre quelli del distanziamento e dell' igiene personale oltre che ambientale. Se vado a trovare i parenti, soprattutto se anziani, devo evitare di toccarli e se non sono sicuro di mantenere sempre il metro di distanziamento meglio tirare su la mascherina chirurgica. Poi lavarsi le mani come si entra in casa. Ma niente assembramenti. In una stanza di 30 metri quadri più di quattro meglio non essere».
Ma in generale le mascherine quando vanno usate?
«Tutte le volte che si entra in un ambiente chiuso e si teme di non riuscire a mantenere la distanza di sicurezza. A passeggio in strada non servono. Ma meglio portarle sempre con sé».
E a che regole dovranno attenersi negozianti e clienti?
«Sempre le stesse, anche se dove possibile occorrerà separare porta di ingresso e di uscita, garantire il distanziamento all' ingresso e all' interno del locale. Certo, in un negozio di 25 metri quadri dovrebbero esserci solo un cliente e l' esercente. Poi dispenser con gel igienizzante all' ingresso. Con queste accortezze, l' igienizzazione periodica dei locali e le mascherine si può fare anche la prova vestito».
Si potrà tornare a messa?
«Subito non era possibile, ma in queste due settimane studieremo i modelli che garantiscano una ripresa in sicurezza. Come fedele sono il primo a volerci tornare».
Almeno a settembre i ragazzi potranno tornare a scuola?
«Per quella data troveremo delle soluzioni. Magari alternando lezioni in classe e a distanza. Nei più giovani gli esiti dell' infezione sono più benevoli, ma proprio perché con pochi o nessun sintomo rischiano di fare da volano alla diffusione del virus. Non riaprirle ora è stata una scelta dolorosa ma necessaria».
E il campionato di calcio?
«La Federcalcio sta elaborando un piano. Vediamo come sarà la diffusione dei contagi a giugno. Sono un tifoso anch' io, sa».
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 7 maggio 2020. I positivi vanno cercati con grande cura e tempismo sul territorio, lontano dagli ospedali. I tamponi vanno eseguiti nel giro di 24 ore. Anche perché è plausibile che in Italia almeno 3 milioni di persone abbiano avuto contatto con il coronavirus, sia pure con enormi differenze da regione a regione. Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Organizzazione mondiale della sanità e componente del Comitato tecnico scientifico, invita a non dare nulla per scontato in questa fase due: la battaglia contro Sars-CoV-2 è ancora in corso.
Cosa ci deve preoccupare nella fase due?
«Ci stiamo muovendo in un terreno che è poco noto e sulla base di modelli che devono essere validati. Il senso di una riapertura progressiva e del dare un intervallo di quindici giorni tra l'una e l'altra fase, serve proprio a capire cosa succederà. Mettere in moto quattro milioni e mezzo di persone non è uno scherzo».
Cosa ci aiuterà?
«Le misure di accompagnamento messe in piedi dal ministro Speranza: rafforzamento della capacità ospedaliera e potenziamento dell'azione sul territorio. La chiave è reagire immediatamente e circoscrivere un eventuale riaccensione dell'epidemia. Inoltre è importante la sorveglianza a livello delle strutture produttive, dove la gente va a lavorare. Abbiamo una batteria di risposte terapeutiche che in qualche modo funziona. I nostri sono i medici più bravi del mondo. E sono state incrementate le misure di protezione del personale sanitario».
Non si stanno facendo ancora pochi tamponi?
«Oggi abbiamo più materiale di laboratorio, più capacità di fare diagnostica. I tamponi andranno eseguiti a coloro che hanno una sintomatologia suggestiva che però rispetto all'inizio si è diversificata molto: mentre prima era una polmonite o una infezione polmonare, oggi invece la sintomatologia clinica per cui si ricorre al tampone è più ampia. Quello che importa però, oltre a fare una diagnosi precoce, è identificare i contatti. L'app sarà fondamentale. Il tampone di massa non è una soluzione, vanno fatti sulla base di un sistema di sorveglianza attivo che identifichi il positivo entro 24 ore, prima che vada in ospedale».
Non c'è il rischio che le regioni siano portate a programmare pochi tamponi per non avere un incremento dei casi positivi che fa scattare l'alert di uno dei 21 indicatori da cui dipendono nuove chiusure?
«Gli indicatori sono molti, non c'è solo quello. C'è il numero dei ricoveri, anche in terapia intensiva. Quanto più si riesce a intervenire sul territorio, tanto meglio è per tutti. Lo ripeto: sarà fondamentale essere rapidi nei tamponi, eseguirli entro 24 ore».
L'utilizzo dei mezzi pubblici la preoccupa?
«Beh, sì. Un ufficio o una fabbrica possono adattarsi alle normative igienico sanitarie, il servizio di trasporto è più pericoloso, potenzialmente, perché la gente si muove. Anche se è stato fatto un gigantesco sforzo sulla metro e sui bus per fissare i luoghi dove stazionare. Serve disciplina da parte degli italiani, quella che hanno dimostrato fino ad oggi. Non bisogna rilassarsi».
Il futuro sarà test a raffica in tutti i luoghi pubblici?
«Darei un'altra risposta. Il futuro sarà avere tutte le persone vaccinate. Ci sono un'ottantina di vaccini in valutazione, almeno cinque o sei estremamente promettenti che potrebbero darci uno strumento efficace entro il primo trimestre del prossimo anno. La piattaforma di studio per i vaccini è la stessa della Sars, la ricerca non è partita da zero. A livello di Oms ci stiamo cautelando perché il costo del vaccino, da chiunque sia sviluppato, sia gestibile. Non può essere riservato solo a chi se lo potrà permettere».
Siamo partiti con la fase 2 senza l'esito dei test sierologici e senza la app. Non siamo in ritardo?
«Abbiamo una modellistica molto avanzata e sofisticata. Lo screening con il test sierologico non è vincolato alla riapertura, ma ci permetterà di ricostruire la reale circolazione del virus».
Quanti positivi o ex positivi si aspetta?
«Non mi sbilancerei; stando ai dati della Cina, però, siamo nel giro di qualche milione. Anche più di tre milioni. Abbiamo regioni, molto popolose, che hanno avuto un attacco intenso del virus. Ma i valori saranno ovviamente molto differenti da regione a regione».
Non sappiamo quanto dura la protezione degli anticorpi e se c'è.
«L'esperienza sulla famiglia dei coronavirus dice che l'immunità dura uno o due anni. Questo è nuovo, per cui non ci sono certezze. Ma non abbiamo un caso al mondo di recidiva».
Quanto è importante la app?
«Molto, ma non è l'unica soluzione, s'integra con gli atri provvedimenti. Spero che gli italiani capiscano che è fatta per proteggere, non per invadere la privacy. Diamo la possibilità alle app di ricevere i nostri dati per portarci la pizza a casa, mentre qui stiamo parlando della difesa della nostra salute. Spero che i più giovani aiutano anche gli anziani a installare la app».
Paolo Becchi, dopo Burioni c'è Ricciardi: "Ci terrete chiusi in casa anche ad agosto con 30 gradi?" Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. "Ci terrete chiusi in casa anche ad agosto con 30 gradi?". Paolo Becchi, su Twitter, prosegue la sua crociata contro i virologi "terroristi", che dispensano verità incontestabili salvo poi tornare sui propri passi dopo qualche tempo. Dopo i titoli accademici di Roberto Burioni, l'editorialista di Libero prende di mira Walter Ricciardi, consigliere del Ministero della Salute. Il professore assicura: "Il coronavirus al sole a 24° e con alta umidità scompare in 2 minuti". "Un altro che come Burioni scopre quello che il professor Tarro dice da mesi", conclude Becchi caustico.
Walter Ricciardi si dimette da presidente dell’Istituto Superiore di Sanità : decisiva l’inchiesta sui conflitti d’interesse. Il Corriere del Giorno il 30 Aprile 2020. Secondo la redazione del programma Le Iene (Italia Uno) la decisione sarebbe scaturita proprio dalla loro inchiesta sui presunti conflitti d’interesse. Il quotidiano Libero ha reso noto ieri sera che Walter Ricciardi ha rassegnato le dimissioni da presidente dell’Istituto superiore di sanità. Dal primo gennaio non occuperà più questo ruolo e, secondo la redazione del programma Le Iene (Italia Uno) la decisione sarebbe scaturita proprio dalla loro inchiesta sui presunti conflitti d’interesse. Nel corso dell’ultima puntata, infatti, è emerso che Ricciardi ha dei “buchi” nel proprio curriculum e ha dei rapporti quantomeno sospetti con alcune case farmaceutiche e con una società di lobbying, tanto che un’associazione di consumatori ha presentato una diffida urgente all’ANAC, l’Autorità Nazionale AntiCorruzione in cui chiede di pronunciarsi con urgenza sulla “possibile incompatibilità” di Walter Ricciardi con il suo incarico pubblico. Secondo Le Iene, l’inchiesta potrebbe aver spinto Ricciardi alle dimissioni, dato che la questione dei conflitti di interesse è diventata di dominio internazionale dopo che è stata ripresa anche dal British Medical Journal.
Libero: “Ricciardi si dimette dall'Iss per Le Iene”. Ma è successo nel dicembre 2018! Le Iene News il 30 aprile 2020. Libero Quotidiano fa una gran confusione pubblicando come se fosse successa ieri una notizia del 19 dicembre 2018. Quando l’attuale consulente del governo e rappresentante italiano all’Oms, Walter Ricciardi, si dimise da presidente dell’Istituto superiore di sanità 10 giorni dopo il servizio di Roberta Rei sui suoi presunti conflitti di interesse. Walter Ricciardi, attuale consulente del governo per l’emergenza Covd e rappresentante italiano all’Oms, si trova di nuovo al centro delle polemiche e nel mezzo ci finiscono anche Le Iene. Ma questa volta noi non c’entriamo nulla. A creare parecchia confusione è Libero Quotidiano che pubblica la notizia, datata 29 aprile 2020: “Le Iene, Walter Ricciardi si dimette da presidente dell'Iss: decisiva l'inchiesta sui conflitti d'interesse” (cliccate qui per l’articolo, in linea ma non in homepage) in cui dà come successi oggi fatti accaduti a fine 2018 e mettendoci pure in bocca una sua interpretazione. Walter Ricciardi si è effettivamente dimesso dalla presidenza dall’Iss, l’Istituto superiore di Sanità, ma il 19 dicembre 2018 (comunicando che dal 1° gennaio 2019 non sarebbe stato più presidente). Non ieri, come scrive Libero Quotidiano. Ve lo avevamo raccontato il giorno stesso in questo articolo, ricordando come la decisione arrivasse dopo il servizio di Roberta Rei che vedete qui sopra della puntata del 9 dicembre 2018 in cui parlavamo dei presunti conflitti di interesse di Ricciardi. La nostra inchiesta era stata ripresa anche dal prestigioso British Medical Journal. “Tutto questo potrebbe aver spinto Walter Ricciardi a rassegnare le dimissioni?”, ci chiedevamo. Libero quotidiano racconta ieri questa storia come se fosse successa lo steggo giorno con questo articolo e attribuendoci la sua interpretazione così: “Walter Ricciardi ha rassegnato le dimissioni da presidente dell’Istituto superiore di sanità. Dal primo gennaio non occuperà più questo ruolo e, secondo Le Iene, la decisione sarebbe scaturita proprio dalla loro inchiesta sui presunti conflitti d’interesse. Nel corso dell’ultima puntata, infatti, è emerso che Ricciardi ha dei “buchi” nel proprio curriculum e ha dei rapporti quantomeno sospetti con alcune case farmaceutiche e con una società di lobbying, tanto che il Codacons ha presentato una diffida urgente all’Autorità nazionale anticorruzione in cui chiede di pronunciarsi con urgenza sulla “possibile incompatibilità” di Walter Ricciardi con il suo incarico pubblico. Secondo Le Iene, l’inchiesta potrebbe aver spinto Ricciardi alle dimissioni, dato che la questione dei conflitti di interesse è diventata di dominio internazionale dopo che è stata ripresa anche dal British Medical Journal”. L’errore sarà dovuto magari al clima di forti attacchi arrivati a Ricciardi dal centrodestra. L’account Facebook della Lega ha presentato sempre ieri il servizio di Roberta Rei così: “Ecco il servizio che fece dimettere per conflitto d’interessi Walter Ricciardi”. Anche Vittorio Sgarbi l’aveva duramente attaccato il 22 aprile durante Stasera Italia su Rete 4, dicendo addirittura: “Sia maledetto Walter Ricciardi, lui e il coronavirus”. Ricciardi era finito nel mirino dal leader leghista Matteo Salvini e non solo già il 19 aprile perché aveva ritwittato un video di Michael Moore in cui si vedevano pupazzi del presidente americano Donald Trump usati come pungiball. Il giorno dopo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva invitato con una nota a “evitare espressioni che suggeriscano che il professor Ricciardi lavori per l’Oms o che la rappresenti”. “Walter Ricciardi è il rappresentante italiano presso il board dell’Oms”, aveva detto anche il videcepresidente aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra. “Non ha niente a che fare con l’organizzazione. È un supercampione della sanità pubblica nazionale, ma non parla a nome dell’Agenzia delle Nazioni Unite per la Sanità”. E anche all’Oms Ricciardi ha omesso le doverose informazioni sulla sua dichiarazione di interessi. Per il suo ruolo di membro dell'European Advisory Committee on Health Research (EACHR) presso l'Organizzazione mondiale della sanità dal luglio 2012 al luglio 2014, Walter Ricciardi ha dovuto depositare la sua Dichiarazione di Interessi, in cui alla domanda "Negli ultimi 4 anni ha ricevuto una remunerazione da un'entità commerciale o altra organizzazione correlata con un argomento relativo all'oggetto di discussione dell'incontro o del lavoro?", sia nella barra "lavoro" che "consulenza" Ricciardi mette la croce su "no". E qual era uno degli argomenti di discussione del quinto incontro dell'EACHR tenutosi a Copenhagen dal 7 all'8 luglio 2014? Proprio i vaccini. E anche dal report dell'incontro, infatti, risulta che "Nessun conflitto di interessi è stato dichiarato”. Walter Ricciardi, anche in quel caso, non ritenne di dover comunicare le sue numerose consulenze con le case farmaceutiche dei quattro anni precedenti, soprattutto quelle relative ai vaccini, visto che l'ultima che aveva fatto risaliva a due anni prima per il meningococco B. Dichiarò quindi il falso?
Coronavirus, la destra all'attacco di Ricciardi: "Insulta Trump e non è dell'Oms. Deve dimettersi". Salvini, ma anche esponenti di Forza Italia e Fratelli d'Italia, chiedono le dimissioni del consulente del governo . Perché ha criticato il presidente americano e perché non è un dipendente dell'Organizzazione mondiale della Sanità ma solo il rappresentante italiano nel comitato esecutivo. Intanto l'Oms prende le distanze: "Le sue opinioni non rappresentano necessariamente il nostro punto di vista". La Repubblica il 19 aprile 2020. La destra italiana all'attacco di uno dei volti più familiari dell'emergenza coronavirus: Walter Ricciardi, medico, consulente del ministero della Salute, rappresentante italiano nel comitato esecutivo dell'Oms. Un'offensiva che si basa su due elementi: le critiche di Ricciardi a Trump e il reale ruolo del professore nell'Organizzazione mondiale della Sanità. A sferrare il primo colpo è Matteo Salvini, che attacca Ricciardi per aver ritwittato un post di Michael Moore in cui si vede un uomo far cadere a terra e prendere a bastonate un pupazzo con le fattezze di Donald Trump. D'altronde Ricciardi ha espresso più volte, sui social, la sua valutazione critica sulla linea scelta dal presidente americano per affrontare l'emergenza coronavirus. Ha messo nel mirino i manifestanti che chiedevano le dimissioni di Anthony Fauci - capo della task force della Casa Bianca contro il coronavirus, spesso in polemica con Trump - mentre ha rilanciato il celebre video in cui la cancelliera Merkel spiega ai cittadini tedeschi - con precisione scientifica - l'evoluzione dell'epidemia. Ma per Salvini questo è intollerabile. "Uno dei consulenti del governo mette i tweet insultando Trump... c'è un paese come gli Usa che dona decina di milioni di euro di aiuti all'Italia" e "un signore che lavora per il governo mette un tweet dove c'è gente che prende a pugni un pupazzo con la faccia di Trump". E, nel suo consueto intervento nel programma Non è l'arena di Massimo Giletti, conclude: "Dimissioni? Mi sembra evidente". Ma Salvini non è certo il solo, nell'opposizione, a lanciare l'attacco. E c'è anche un altro argomento utilizzato per l'offensiva. La precisazione fatta oggi in tv, su Rainews24, da Ranieri Guerra, direttore vicario dell'Oms. Che, rispondendo al giornalista Gerardo D'Amico che gli chiedeva cosa pensasse di una dichiarazione del "suo collega dell'Oms Walter Ricciardi" ha tenuto a precisare: "Il mio collega Walter Ricciardi non è dell'Oms". Ricciardi ha puntualizzato: "Sono il rappresentante italiano nel comitato esecutivo, non un dipendente". Ma questo non è bastato a frenare la valanga di accuse. Per Francesco Lollobrigida, di Fratelli d'Italia, "In una nazione normale uno come Ricciardi avrebbe dovuto fare le valigie e il ministro che lo ha nominato scusarsi. Lo pagano per fare dichiarazioni che imbarazzano l'Italia e pubblicare video violenti contro un capo di Stato straniero". Per Maurizio Gasparri, di Forza Italia, "questo Walter Ricciardi non si capisce bene chi sia e che cosa voglia. Il suo ruolo nell'ambito dell'Oms non è chiaro. Diffonde peraltro sui social dei video offensivi nei confronti di Trump. Ricciardi venga cacciato stasera stessa dai ruoli istituzionali che indegnamente ricopre. È un personaggio davvero inqualificabile". Insomma, la campagna contro Ricciardi è partita e non sembra destinata ad esaurirsi nel breve periodo. E intanto anche l'Oms prende le distanze dal professore: "Le opinioni di Ricciardi non rappresentano necessariamente il punto di vista dell'Oms e non dovrebbero essere attribuite né all'Oms né ai suoi organi".
Dagospia il 21 aprile 2020. Da “un Giorno da Pecora – Radio1”. Stefania Sandrelli, tra le più note attrici italiane, oggi è stata ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove ha risposto alle domande dei conduttori su un film nel quale aveva recitato con un attore molto particolare: Walter Ricciardi, l'attuale consulente per il ministro della Salute Roberto Speranza. Il film, del 1978, si intitolava 'Io sono mia'. Si ricorda di Ricciardi sul set? "Si, come no, sua madre si occupava della parte amministrativa del film. E poi una mia amica recentemente mi ha mandato due foto in cui eravamo su una spiaggia, Walter Ricciardi ed io”. Si ricorda che tipo di attore era Ricciardi? “Era molto carino, bellino, era divertente, la sua era una partecipazione. Ho un bel ricordo di quel film”, ha raccontato a Un Giorno da Pecora la Sandrelli. La Sandrelli ha poi spiegato che tra i modi in cui sta cercando di occupare il tempo durante questo lockdown c'è il ballo. “E' l'unica cosa che riesco a fare bene, per un'oretta”. Con quale musica? “Io sono una musicomane, non amo la musica retrò ma adoro Paul Anka, è talmente gioioso che mi dà sostegno, forza”. Quale canzone ama di più? “Ho una compilation che durerà 45 minuti, con tutte le sue hit. Pensavo di stufarmi dopo un po' di tempo, invece no, e ormai conosco tutti i suoi pezzi a memoria. In realtà però quei pezzi li conoscevo già bene, perché le ballavo con una gonnellina che mi aveva atto mia madre, corta a pieghe, e quasi la 'pattinavo' ”. Quando balla fa dei passi specifici o segue il suo istinto? “Seguo totalmente il mio istinto, ho un discreto ritmo”, ha spiegato l'attrice a Un Giorno da Pecora.
Chi è davvero Walter Ricciardi. L'uomo che imbarazza Conte. Gualtiero Ricciardi, noto col nome di Walter, l'esperto del governo con posizioni anti-sovraniste di cui non si conosce ancora l'entità del suo compenso. FdI: "Si dimetta". Francesco Curridori, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Attore, medico di fama mondiale e aspirante politico. Gualtiero Ricciardi, noto col nome di Walter, è una figura poliedrica finita al centro delle polemiche per un tweet a dir poco offensivo nei confronti del presidente Usa, Donald Trump. Finora nessun consulente del governo, sia di quello attuale sia dei precedenti, si era mai permesso di ingaggiare uno scontro politico con i leader dell’opposizione. “C’è un paese come gli Usa, che dona decina di milioni di euro di aiuti all’Italia" e "un signore che lavora per il governo mette un tweet dove c’è gente che prende a pugni un pupazzo con la faccia di Trump", aveva detto a Non è l’arena Matteo Salvini che invocava le sue dimissioni. Dopo quel tweet, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso le distanze da Ricciardi. Nel corso di un’intervista rilasciata a Rainews24 Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms, ha precisato che Ricciardi “è un supercampione della sanità pubblica nazionale, ma non parla a nome dell’Agenzia”. Il consulente del governo Conte ha dovuto, quindi, specificare meglio il suo ruolo: “Io sono il rappresentante italiano nel Comitato esecutivo dell’Oms, designato dal governo per il periodo 2017-2020. Non sono cioè un dipendente dell’Oms”. Una precisazione doverosa che ha posto fine a un fraintendimento durato mesi. “Credo che la confusione l’abbia fatta la stampa, non lui”, ha chiosato il collega Guerra. Ricciardi, però, ieri, sentito dall'Adnkronos Salute, si è difeso ulteriormente dagli attacchi arrivati dal centrodestra e ha detto: “È una fase in cui, se ci sono polemiche da fare, le faccio solo nell’interesse della salute dei cittadini”, ricordando inoltre che lo scorso 26 febbraio, pochi giorni dopo la nomina, aveva scritto un tweet per “evitare equivoci”. “Per ragioni di precisione chiedo a tutti i media italiani di definire la mia qualifica membro italiano del comitato esecutivo dell’Oms e consigliere del ministro Speranza per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali", aveva twittato.
I contrasti di Ricciardi con i "gialloverdi". Ricciardi non è nuovo a scontri politici. Il medico napoletano, che da bambino ha recitato nella serie I ragazzi di padre Tobia e da ragazzo in alcuni film accanto a Mario Merola, nel 2018 si è dimesso da presidente dell’Istituto Superiore di Sanità per contrasti con i membri del primo governo Conte e, in particolare, proprio con Salvini. “Quando un vicepremier dice che per lui, da padre, i vaccini sono troppi, inutili e dannosi, questo non è solo un approccio ascientifico. È anti-scientifico”, aveva detto nel corso di un’intervista al Corriere della Sera. Quelle dimissioni, in realtà, erano state presentate anche a seguito di un’interrogazione presentata dalla grillina Paola Taverna sulla base di un’inchiesta svolta da Le Iene su presunti conflitti di interesse con alcune case farmaceutiche. Che le idee politiche di Ricciardi fossero diametralmente opposte a quelle sovraniste della Lega o a quelle populiste del M5S era noto da tempo. Nel 2013, infatti, tentò di entrare in politica candidandosi con i montiani di Scelta Civica in quota Italia Futura, la fondazione di Luca Cordero di Montezemolo. La stessa fondazione da cui proviene anche Carlo Calenda, attuale leader di Azione, partito al quale Ricciardi si è avvicinato sin dalla sua nascita. Nel novembre dell’anno scorso, in occasione del lancio della nuova formazione politica, il medico napoletano intervenne per chiedere che si tolgano 13 miliardi da Quota 100 e Reddito di Cittadinanza per investire nella sanità. Insomma, Ricciardi, già professore ordinario della facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica, si è sempre contraddistinto per essere un liberal di sinistra. Lasciato l’Istituto Superiore di Sanità, nell’ottobre 2019 si è consolato con la nomina a Presidente del “Mission Board for Cancer”, un programma di ricerca e innovazione istituito dalla Commissione Europea per valutare i progetti di ricerca da finanziare in ambito oncologico. Ebbene, un luminare con un tale curriculum, stavolta, nel momento più cruciale della sua carriera sembra aver toppato non solo dal punto di vista comunicativo ma anche nel merito dell’emergenza coronavirus. Un’epidemia che il 6 febbraio scorso, intervistato dal Sole24ore, definì “meno pericolosa” dell’influenza stagionale e criticò, inoltre, la decisione del governo di bloccare i voli dalla Cina.
FdI all'attacco: "Qual è il suo compenso?". Lo stesso governo per il quale lavora attualmente, sebbene non sia ancora stato reso noto il suo compenso per l’incarico di consulente di Speranza. Nella sezione amministrazione trasparente del sito del ministero della Salute non compare ancora tale dato e da Fratelli d’Italia arriva la notizia dell’imminente presentazione di un’interrogazione parlamentare per far luce sulla faccenda. Il deputato Giovanni Donzelli, uno dei firmatari, sentito da ilGiornale.it, dice: “È ormai chiaro che il governo pensa solo alle poltrone e poco alla salute dei cittadini e al destino delle imprese e del lavoro. Hanno nominato così tanti esperti come consulenti per l'emergenza coronavirus - ad ora ci sono 15 task force composte da ben 450 collaboratori - e, guarda caso, si fa fatica a trovare sul sito del governo i loro curriculum e i loro compensi”. E maliziosamente aggiunge: “Chissà in quale cunicolo li avranno nascosti”. Secondo Donzelli “nonostante il momento di emergenza sarebbe opportuno non rinunciare alla trasparenza degli atti” e, pertanto, intende vederci chiaro sulla nomina del professor Walter Ricciardi “che ha millantato in tutte queste settimane di emergenza l'appartenenza diretta all'Oms, quando invece è solo il membro nominato dal governo italiano nel Consiglio esecutivo”. “Dopo una vicenda del genere avrebbe dovuto semplicemente dimettersi”, conclude il meloniano Donzelli.
Da corriere.it il 4 maggio 2020. «Consideriamola una sperimentazione. Va intesa così la fase 2. La riapertura graduale era improrogabile. Ci prendiamo dei rischi. Ora vediamo se funziona», ammette l’incertezza sui risultati, Giovanni Rezza, Istituto superiore di Sanità.
Qual è la maggiore preoccupazione?
«Si è cercato di regolamentare tutti gli ambiti della ripresa delle attività ma il fatto che si creino maggiori occasioni di contatto fra le persone è un elemento che favorisce la trasmissione del virus. Pensiamo ai trasporti dove per quanto si usino tutte le cautele possibili si creano inevitabilmente delle interazioni tra uomini».
L’anello debole?
«Lo scopriremo. Aver puntato sulla riapertura per gradi renderà più facile l’identificazione delle criticità. Ci sarà un monitoraggio costante, giornaliero, di che cosa succede. Capiremo se la gente ha compreso il senso di questo allentamento»
Qual è il senso?
«Non siamo assolutamente fuori dall’epidemia. Ci siamo ancora dentro. Non vorrei che venisse a mancare la percezione del rischio e che riprenda il naturale corso delle aggregazioni».
Che cosa vi aspettate?
«Siamo in trepida attesa. Dopo la Cina, l’Italia ha attuato il lockdown più intransigente del mondo occidentale, non paragonabile a quelli più soft di Francia e Spagna. Ci troviamo a sperimentare una nuova situazione. Avremmo preferito muoverci sulla base di altre esperienze».
Quali sono i segnali espliciti della ripresa del virus?
«L’aumento dei casi è immediatamente rilevabile. Crescono gli accessi al pronto soccorso, i ricoveri, i morti nelle residenze per anziani. A quel punto bisogna essere non pronti, di più. Il lavoro di intercettare il pericolo spetta a medici di famiglia e servizi di prevenzione sul territorio».
E se gli indicatori salissero?
«Tornare a un secondo lockdown nazionale sarebbe disastroso da tutti i punti di vista».
Tutti i bollettini della Protezione Civile Quale strategia di contenimento, allora?
«Fare chiusure frammentate, creare tante zone rosse anche di minima ampiezza. Blindare subito le aree regionali colpite da focolai in modo da soffocarli sul nascere. Nella fase 1 hanno funzionato. I blocchi a termine sono efficaci e più digeribili dalla popolazione».
Come mai le riaperture hanno una cadenza bisettimanale?
«È il tempo impiegato dal virus a uscire allo scoperto. Dal contagio ai sintomi passano 4-5 giorni massimo, quindi nell’arco di due settimane si dovrebbe capire se ha ripreso a circolare e se è necessario prendere delle contromisure. Non contiamo sull’aiuto dell’estate come stagione meno propizia alla circolazione virale».
Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 7 maggio 2020. È dall'inizio della pandemia che gran parte delle nostre speranze sono state riposte nell'arrivo della stagione estiva. Non solo per la controversa ipotesi di un «indebolimento» del virus per il caldo, ma anche per la diminuzione delle occasioni di assembramenti in luoghi chiusi. Tuttavia, rimane il grande timore dell'eventuale ruolo che potrebbe giocare l'utilizzo dell'aria condizionata in uffici, mezzi pubblici, ristoranti, bar, ecc. Timori a cui la scienza non sembra dare risposte univoche. «E' stato ipotizzato che l'aria condizionata possa aerosolizzare il virus e trasmetterlo a distanza ma questo non è assolutamente provato», dice Giovanni Rezza, direttore dipartimento malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss). I primi studi a ipotizzare un possibile rischio contagio a causa dell'aria condizionata sono stati condotti in Cina e in Corea del Sud. Il primo è l'analisi di una serie di contagi che si pensa siano avvenuti in un ristorante di Guangzhou, ex Canton. Sarebbe successo lo scorso gennaio quando una donna di 63 anni, andata al ristorante con la sua famiglia, è risultata positiva al Covid-19. Nelle due settimane successive, altri nove clienti di quello stesso ristorante sarebbero risultate positive. Non solo i restanti membri della famiglia della donna, ma anche altri 5 commensali. C'erano altri 73 commensali quel giorno sullo stesso piano del ristorante e loro non si sono ammalati. Nemmeno gli otto camerieri in turno in quel momento. Tutte le persone che sono state contagiate erano allo stesso tavolo della persona infetta o in uno dei due tavoli vicini sulla linea del condizionatore in una stanza senza finestre. Lo studio, tuttavia, presenta grossi limiti. I ricercatori, ad esempio, non hanno eseguito esperimenti per simulare la trasmissione aerea. Inoltre, i 6 campioni prelevati dal condizionatore d'aria sono risultati negativi. Lo studio in Corea del Sud, invece, è stato condotto in un call center situato in un palazzo di 19 piani. L'allarme è scattato alla diagnosi di un caso di Covid-19 in una persona che lavorava nell'edificio l'8 marzo scorso. Sono stati così testate 1.143 persone e identificati 97 casi positivi al Covid-19. Tra i positivi 94 lavoravano al call center dell'11esimo piano, che aveva un totale di 216 dipendenti e quindi un tasso di prevalenza del 43,5%. Non solo: tutti tranne cinque erano sullo stesso lato dell'edificio nella stessa porzione di open space. Da questi studi sono partiti i timori che l'aria condizionata possa aerosolizzare il virus. Secondo Rezza, però, al massimo può fare da «effetto vento e spingere goccioline di saliva all'interno di un ambiente chiuso», come dimostrerebbe uno studio pubblicato di recente sulla rivista Emerging Infectious Diseases. Dai risultati è emerso che, all'interno di un ambiente chiuso dove due famiglie erano sedute a circa un metro di distanza, l'aria condizionata ha fatto da vento, spostando le goccioline di saliva di poco più di un metro. «Ma si tratta di un caso eccezionale, non è stata l'aria condizionata in sé a trasmettere il virus», spiega Rezza. Concorda con questa analisi anche Pier Luigi Lopalco, epidemiologo, responsabile Coordinamento Regionale Emergenze Epidemiologiche Puglia. «I problemi potrebbero essere i flussi d'aria che vengono creati dai condizionatori perché potrebbero spostare le famose goccioline che contengono il virus molto più lontano dal famoso metro di distanziamento», dice. «Dipende dunque se l'aria condizionata crea dei flussi», aggiunge. Gli studi condotti finora, secondo il virologo Roberto Burioni, in vista dell'apertura di bar e ristoranti, dovrebbero spingerci a una «particolare cautela nella disposizione dei tavoli e nel loro distanziamento, specie in presenza di forti correnti d'aria dovute a condizionatori».
L'infettivologo Rezza: "Non arriveremo mai a casi zero a maggio". "Spesso si parla di nuovi contagi, ma si tratta in realtà di vecchie notifiche. Adesso è importante considerare la data della comparsa dei sintomi". Globalist il 17 aprile 2020. "Vediamo che c'è un trend alla decrescita nel numero dei casi se presentati per data di comparsa dei sintomi, ma il virus non sta scomparendo. Spesso si parla di nuovi contagi, ma si tratta in realtà di vecchie notifiche. Adesso è importante considerare la data della comparsa dei sintomi". Lo ha detto Giovanni Rezza, direttore delle Malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss) in conferenza stampa sull'emergenza coronavirus. "Non raggiungeremo casi zero a maggio, il virus probabilmente continuerà a circolare, anche se a bassa intensità. Non abbiamo raggiunto un vero e proprio picco, non c'è una massa di popolazione che si è infettata sufficiente - ha precisato Rezza - Abbiamo solo abbattuto i contagi con il "lockdown", ma la popolazione rimane ampiamente suscettibile e quello che è successo due mesi fa potrebbe riaccadere se non stiamo attenti". Rezza ha spiegato che "quello che non sappiamo bene riguarda gli ultimi contagi, quelli che sono avvenuti dopo il lockdown, dove sono avvenuti, perché e con quali modalità". In questo senso i casi tra "gli operatori sanitari ci dicono molto, perché vuol dire che ci sono stati focolai ospedalieri, focolai a livello di Rsa (Residenze sanitarie assistenziali, ndr) e Ra (Residenze assistenziali, ndr)". "Le Rsa - ha evidenziato l'esperto - sono indicatori dell'epidemia, ma anche degli amplificatori. Nel senso che, quando vediamo un focolaio in una Rsa, vuol dire che in qualche modo in quella zona il virus sta circolando ed è stato introdotto all'interno di quella struttura". Le strutture residenziali "sono degli indicatori di circolazione virale", ha aggiunto Rezza, osservando che "nell'ultimo periodo molte 'zone rosse' sono nate intorno a focolai che erano sorti in Rsa". Oltre a quelli nati nelle residenze assistenziali, "probabilmente la gran parte degli altri contagi insorti dopo il lockdown sono stati contagi intra-familiari. Ci sono i tedeschi che fanno un ottimo contact tracing e hanno molte informazioni - oltre a erogare un'ottima assistenza ospedaliera e ad avere tantissimi posti in terapia intensiva - e che hanno indicato come la gran parte dei contagi avvenga all'interno delle famiglie e di strutture sanitarie, quindi da contatto ravvicinato". "Su questo c'è bisogno di maggiori informazioni - ha precisato - e credo che proprio il progetto di contact tracing che il presidente ha presentato l'altro giorno nel Comitato tecnico scientifico vada a cercare di recuperare anche questo gap". "Adesso siamo ancora in fase 1, non c'è dubbio", ma in una futura "fase 2 dovremo mantenere delle misure di distanziamento sociale" che siano "strette e rigorose". Non solo: "Quando arriveremo a un momento in cui il virus circolerà meno rapidamente, sarà estremamente importante rafforzare soprattutto il controllo del territorio" e ritornerà attuale la definizione delle cosiddette 'zone rosse', secondo lo scenario descritto da Rezza. Nella fase 2 sarà cruciale "l'identificazione rapida dei focolai - ha spiegato l'esperto - Vuol dire identificazione rapida dei casi, diagnosi, isolamento, rintraccio dei contatti e loro isolamento, e azioni di contenimento". E anche se "può sembrare un paradosso", ha osservato, "se la circolazione" virale "si riduce, tanto più c'è bisogno di zone rosse" che non a caso "sono più frequenti nelle aree meno colpite". E' infatti "in quelle aree" che "è fondamentale attuare immediatamente un'azione di contenimento per ridurre la circolazione del virus nelle zone contigue". Quindi "quella delle zone rosse - ha ribadito l'infettivologo - tornerà ad essere una misura importante in una fase in cui non ci sarà più un lockdown completo Paese". "Sono un appassionato delle zone rosse, e mi sembra che fino ad ora, a partire da quella di Vo', abbiano sempre funzionato" ha detto Rezza, sottolineando come "di base si tratti di misure di isolamento e distanziamento sociale", imposte a località ben identificate, "per un certo periodo di tempo". Ci sono state diverse zone rosse, anche nel centro Sud, "spesso su iniziativa regionale", e dopo un certo periodo sono state riaperte perché "il focolaio è stato controllato".
Coronavirus, Bassetti: “Mascherina? All’aperto non la indosso”. Laura Pellegrini il 30/04/2020 su Notizire.it. Bassetti si oppone alla dittatura della mascherina e ritiene che indossarla all'aperto non costituisca la soluzione al contagio da Covid-19. Matteo Bassetti – infettivologo e direttore di Malattie infettive al Policlinico San Martino di Genova – si oppone a quella che ha definito “dittatura della mascherina”. L’esperto, infatti, ritiene che “l’obbligo della mascherina” sia lecito “quando non possiamo mantenere il distanziamento sociale”. Quando invece ci troviamo all’aperto, dunque, basterebbe mantenere la distanza sociale di almeno un metro. “Io non la metto se esco all’aperto – ha dichiarato Bassetti -, certo se vado al supermercato la indosso. Ma non deve far pensare che sia la soluzione al Covid-19″. Nella conferenza stampa del premier Conte sulla fase 2 è stato introdotto l’obbligo di indossare la mascherina “nei luoghi confinati aperti al pubblico inclusi i mezzi di trasporto”. Matteo Bassetti, però, si oppone alla “dittatura della mascherina” e ribadisce come questo sia un dispositivo certamente utile quando non si possono rispettare le distanza, ma al tempo stesso non costituisca la soluzione al contagio. Ospite nel programma di Barbara D’Urso, inoltre, l’infettivologo aveva chiarito quando è necessario indossare quel particolare dispositivo di protezione. “La mascherina – ha detto – va messa quando non si riesce a mantenere il distanziamento sociale. È obbligatoria quando si è in un luogo chiuso e non si può tenere la distanza: in ufficio, al supermercato, sui mezzi pubblici, va messa. Ma se si passeggia da soli, o si è nel proprio giardino, non serve metterla”. E infine conclude con un commento sulla fase 2: “Lasciare libertà di scelta alle regioni non è sbagliato”, aggiunge il professore, “perché l’epidemiologia è diversa in Italia”.
Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2020. Le notizie del giorno, a proposito di coronavirus, sono due. La prima: il virus sembrerebbe perdere la sua aggressività. La seconda: i vaccini «italiani» ci fanno ben sperare. Le commentano un clinico, Matteo Bassetti, infettivologo dell' Università di Genova, e un virologo, Carlo Federico Perno dell' Università di Milano.
Il virus ora è meno aggressivo?
«L' impressione che il virus sia meno "forte" - dice Bassetti - arriva dalla pratica clinica quotidiana. Vediamo meno ricoveri di casi gravi e ora il numero dei guariti è 6-7 volte più alto dei decessi. Grazie a terapie messe in atto precocemente, all' isolamento domiciliare che ha ridotto i contagi, al monitoraggio della saturazione di ossigeno (indice di compromissione polmonare, ndr ) in chi è venuto a contatto con gli infetti, che ha permesso di intercettare i casi prima che si aggravassero. Ciò, però, non significa la sparizione del virus che ci farà compagnia a lungo. Dove potrà sopravvivere? Negli esseri umani, che rappresentano il suo serbatoio privilegiato: può rimanere sotto traccia, senza dare sintomi, e riemergere quando si ripresenteranno le condizioni ambientali favorevoli».
Il caldo può aiutare a ridurre la circolazione del virus?
«La lezione della Mers, cioè la sindrome respiratoria acuta comparsa in Medio Oriente nel 2012 e sempre provocata da un coronavirus, non ci dovrebbe far ben sperare: lì è rimasta e ancora circolazione nonostante il clima caldo», dice Bassetti. Di diverso parere è Guido Silvestri, il ricercatore della Emory University di Atlanta che quasi quotidianamente posta i suoi commenti su Facebook, dove ha molto seguito: secondo lui il caldo ridurrà il contagio. Inoltre l' arrivo della bella stagione attenuerà gli «effetti collaterali» del freddo che paralizzano i sistemi di difesa dei nostri bronchi rendendoli incapaci di eliminare i microrganismi dannosi, come sostiene anche Perno.
Veniamo al vaccino. Due, fra i più promettenti hanno un marchio italiano. Uno è quello di ReiThera che dovrebbe essere sperimentato quest' estate in Italia sull' uomo. L' altro è quello di Advent-Irbm, che è stato appena somministrato a Londra a una ricercatrice, Elisa Granato. Quali prospettive hanno?
«Sono due vaccini che sfruttano virus "amici" (Adenovirus, di quelli che provocano banali raffreddori, ndr ) per veicolare nell' organismo proteine del coronavirus in modo da innescare una risposta immunitaria, cioè una produzione di anticorpi capaci di difendere l' organismo da questo corona: sono anticorpi che "attaccano" le proteine "spike" del virus, quelle che gli permettono di entrare nelle cellule umane», dice Perno.
Che cosa ci si può aspettare in tempi brevi?
«Bisogna distinguere fra vaccini e "candidati" vaccini. Il "candidato" vaccino è un prodotto che si deve sperimentare per provare la sua efficacia, fase che richiede almeno un anno - conclude Perno -. Poi, se funziona, va prodotto su larga scala, in quantità sufficienti per vaccinare la popolazione».
Il virologo Silvestri sfida il catastrofismo di Conte: “Il coronavirus si sta ritirando”. Marta Lima sabato 2 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. “Continua la grande ritirata di Sars-CoV-2 dall’Italia”. Parola del virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta (Usa), che commenta sui social gli ultimi dati della Protezione civile. E smentisce il catastrofismo del governo, che tende ad allarmare gli italiani per giustificare le sue confuse e incomprensibili misure di lockdown per arginare il coronavirus. Calano “i ricoveri in terapia intensiva per Covid-19 (ieri calo di altre 116 unità, da 1694 a 1578), ma calano anche i ricoveri ospedalieri (scesi di altre 580 unità, da 18.149 a 17.569) e ieri si è anche abbassato il numero dei decessi per Covid-19 (285 unità). Quindi barra a dritta e avanti tutta verso la fine del tunnel”, sottolinea Silvestri. Da Silvestri una ‘ricetta’ da Oltreoceano per una riapertura in sicurezza: “Guardando la regolarità con cui i numeri di Covid-19 in Italia continuino a scendere, è forte la tentazione di dire: Lasciamo che il virus sparisca senza cambiare la formula vincente. Ma mi rendo conto che la sofferenza economica e socio-sanitaria legata al lock-down ormai sta superando quella causata dal virus”, spiega il virologo elencando i suoi 3 punti per la riapertura. Con una precisazione: “Come sapete, io non faccio parte di alcun comitato consultivo ufficiale in Italia. Ed è giusto così perché il premier Conte ed il ministro Speranza sono circondati di ottimi consiglieri tecnico-scientifici, mentre i miei ruoli istituzionali sono negli Usa e non in Italia”. “Ma se ipoteticamente qualcuno che comanda mi chiedesse un opinione, gli direi che la nostra ricetta si basa su tre semplici principi: monitoraggio (sia delle infezioni che del livello di immunità, con test sierologici e virologici, ed anche con contact tracing), flessibilità (sia nel riaprire che, se necessario, nel richiudere, anche a livello loco-regionale), e coordinazione (a livello nazionale, tra regioni, ma anche internazionale, integrandosi con le strategie usate in Europa, Usa, Cina etc)”. Tre punti, dunque, uniti a un’ultima indicazione: “Almeno nelle prime settimane di apertura, con il virus che ancora circola, sarà cruciale – sottolinea Silvestri – usare molte mascherine, buon distanziamento sociale e tanta igiene personale”. “Presto, cari amici, torneremo tutti alla normalità, ne sono convinto. Ma dobbiamo gestirla bene questa transizione, non alla carlona, perché il rischio di andare a sbattere contro un altro muro non è per niente piccolo”, rassicura il virologo. “Quando si dice a questo virus non piace il caldo – continua Silvestri – non ci riferisce alla temperatura a cui il virus stesso viene disattivato dal calore, ma alle temperature che rendono instabili le goccioline di fomiti (saliva, starnuti, tosse etc) che trasportano il virus nell’ambiente”. “Questo meccanismo è noto ai virologi da decenni, e spiega perché tutte le infezioni virali respiratorie sono altamente stagionali con chiarissima predilezione per l’inverno”, aggiunge Silvestri. Lasciando aperta la finestra della speranza nell’effetto della stagione calda ormai alle porte sulla diffusione di Sars-Cov-2.
"È iniziata la "grande ritirata". Perché Covid non avanza più". Il virologo Guido Silvestri, docente all'Università di Atlanta, è molto ottimista sull'andamento della pandemia in Italia definendola "la grande ritirata di Sars-Cov-2" e spiega perché il virus soffre il caldo: "Le goccioline di saliva che trasportano il virus diventano più instabili" e, quindi, meno efficaci. Alessandro Ferro, Sab, 02/05/2020, su Il Giornale. A grandi passi verso la stagione estiva: la settimana prossima sperimenteremo i primi 30 gradi dell'anno sull'Italia e la notizia sul fronte Covid-19 non può che essere positiva. Più farà caldo, maggiori saranno le difficoltà del virus di diffondersi.
Il virus "soffre" il caldo. "Quando si dice a questo virus non piace il caldo non ci riferisce alla temperatura a cui il virus stesso viene disattivato dal calore, ma alle temperature che rendono instabili le goccioline di fomiti (saliva, starnuti, tosse etc) che trasportano il virus nell'ambiente". La risposta, chiara e precisa, viene fornita dal virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta (Usa), in un post sui social. "Questo meccanismo è noto ai virologi da decenni, e spiega perché tutte le infezioni virali respiratorie sono altamente stagionali con chiarissima predilezione per l'inverno", aggiunge Silvestri ad AdnKronos. Insomma, il virus può diventare meno letale perché le goccioline di saliva con le quali si trasmette perdono di efficacia in un ambiente più caldo come quello del trimestre estivo, limitando così il numero di contagi tra le varie persone, specialmente negli spazi aperti che frequenteremo maggiormente rispetto all'inverno.
Numeri più confortanti. Guardando ai numeri dati dalla Protezione Civile, "continua la grande ritirata di Sars-Cov-2 dall'Italia", commenta Silvestri perché diminuiscono "i ricoveri in terapia intensiva per Covid-19 (ieri calo di altre 116 unità, da 1694 a 1578), ma calano anche i ricoveri ospedalieri (scesi di altre 580 unità, da 18.149 a 17.569) e ieri si è anche abbassato il numero dei decessi per Covid-19 (285 unità). Quindi barra a dritta e avanti tutta verso la fine del tunnel", conclude Silvestri con una metafora marinaresca.
Tre basi per la riapertura. La tentazione di riaprire tutto e subito è molto forte ma Silvestri invita a mantenere la calma ed elenca i suoi tre punti necessari alla riapertura: "monitoraggio (sia delle infezioni che del livello di immunità, con test sierologici e virologici, ed anche con contact tracing), flessibilità (sia nel riaprire che, se necessario, nel richiudere, anche a livello loco-regionale), e coordinazione (a livello nazionale, tra regioni, ma anche internazionale, integrandosi con le strategie usate in Europa, Usa, Cina etc)", afferma il virologo, che non manca di sottolineare come "sarà cruciale usare molte mascherine, buon distanziamento sociale e tanta igiene personale". Infine, l'augurio di Silvestri è che "torneremo tutti alla normalità, ne sono convinto. Ma dobbiamo gestirla bene questa transizione, non alla carlona, perché il rischio di andare a sbattere contro un altro muro non è per niente piccolo".
Simone Canettieri per ilmessaggero.it il 28 aprile 2020. «La messa, seppur distanziata, crea momenti di concentrazione di persone che non possono essere paragonati per la qualità dell’esigenza a una partita di calcio o un concerto. Ma come qualità del pericolo sì. Sono uguali». Massimo Galli è il primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Da febbraio sta vivendo in prima linea l’andamento del virus in un territorio, la Lombardia, dove la curva dei contagiati fa ancora paura, dopo aver mietuto già oltre 13mila vittime.
Professor Galli, il comitato tecnico scientifico ha detto «no» alle messe a partire dal 4 maggio. Il premier Conte prima ha sposato l’indicazione degli scienziati, ma ora, sotto la spinta della Cei e di (quasi) tutta la politica, sembra voler tornare indietro. Cosa ne pensa?
«È una questione di grande delicatezza. Nessuno di noi ha voglia di fare dichiarazioni. Secondo la logica però siamo davanti a una realtà che implica cautela. A tutti i livelli».
Parliamo dei rischi, allora.
«Prima voglio una premessa, con la massima umiltà e senza voler urtare le sensibilità delle persone».
Prego.
«Come gli ammalati possono “partecipare” alle messe in tv se si trovano in ospedale, altrettanto dovrebbe accadere adesso in questa prima fase 2. Se l’adempimento del sacramento è considerato assolto per chi sta in un letto di ospedale in quanto è impedito ad andare in chiesa, allo stesso modo dovrebbe capitare adesso visto che c’è il forte rischio che si ammali».
Sta proponendo l’istituzionalizzazione delle messe in tv?
«Non spetta a me fare proposte. Al massimo posso fare dei ragionamenti, premettendo che capisco che si senta limitato nella propria libertà di culto. Però..».
Però?
«Mentre stiamo parlando, e in vista del 4 maggio, la messa non è una priorità tale da rischiare di creare squilibri».
Molto banalmente la popolazione che frequenta le chiese per le cerimonia religiose è in gran parte anziana e quindi più a rischio degli altri, giusto?
«Questo lo dice lei. E al massimo posso condividere quest’affermazione. Francamente, però, ci sono delle situazioni oggettivamente complicate durante una cerimonia religiosa».
Si riferisce all’Eucarestia e al momento dello «scambiatevi un segno di pace?».
«Sì. Anche perché, ma sto ragionando per paradosso sia chiaro, distribuire la comunione attraverso il plexiglass o vedere un sacerdote tutto bardato non sarebbero un grande spettacolo».
Insomma, servono ancora sacrifici. Per tutti.
«Sì, non ci siamo ancora. Non si può in questo momento consentire la libertà di culto. Lo dico da laico e ateo, ma con un profondo rispetto verso le sensibilità altri. Sto dicendo che qui mi pare che si giri un interruttore. Non si può passare da tutto chiuso a tutto aperto in pochi giorni. Non funziona così».
Vinceranno le pressioni della Chiesa o le ragioni della scienza?
«Vincerà la politica. Perché la decisione finale compete alla politica. Ci sono debolezze sul fronte della scienza: siamo davanti a un virus nuovo con molti aspetti ancora da definire. Vorrei portarle un esempio».
Sarebbe?
«Quando a febbraio stava per scattare la zona rossa di Codogno, molti di noi si consultavano dandosi speranza. Dicevamo: l’abbiamo scampata. Avevamo infatti l’esempio della Sars: 4 casi in tutto, tutti di importazione, una malattia scomparsa da poco. Con il senno di poi saremmo dovuti andare da chi ci governa per chiedere di bloccare subito Schengen, nonostante ci fosse stato già lo stop ai voli provenienti dalla Cina. Ma chi se la sarebbe mai sentita di attuare una proposta del genere? Adesso la situazione è ribaltata. Sappiamo che con una solo introduzione di un paziente zero c’è stata questa epidemia. Sappiamo che se dal 4 maggio uscisse di nuovo fuori controllo il virus, avremmo un’ulteriore diffusione del virus».
Bene e quindi?
«Se partissimo da un punto di vista del genere dovremmo bloccare tutto. Invece sappiamo che dobbiamo convivere questo virus, possibilmente però non in una maniera facilona».
Maniera facilona. Ovvero: cosa intende?
«Pensare che bastino guanti e mascherine e poi certo il distanziamento di un metro non basta. E’ un errore».
Saltare una messa val bene la salute. Vuole dire questo?
«Al di là della battuta, in un certo senso sì». Riformuliamo la domanda di prima: la scienza riuscirà a imporsi su una politica troppo condizionabile? «Spero che la scienza sia più forte non tanto della politica, ma dell’inerzia».
Francesco Rigatelli per “la Stampa” l'8 maggio 2020. Massimo Galli, 69 anni, primario di Malattie infettive al Sacco e professore ordinario alla Statale di Milano, non rinuncia a un bilancio sul finire del lockdown: «Bisogna uscirne gradualmente, mentre invece il segnale è di un liberi tutti».
Le Regioni scalpitano per la riapertura delle attività commerciali, esagerano?
«È un po' avventato, ma non si può fare un discorso nazionale. In alcune regioni il rischio è minimo, perché il contagio è stato poco diffuso. Mentre in Lombardia e in Piemonte servirebbe maggiore prudenza. Non ce ne rendiamo conto, ma stiamo vivendo un grande esperimento collettivo».
Cosa intende?
«Non esiste nella letteratura scientifica mondiale l' uscita da una pandemia ancora in corso solo con mascherine e distanziamento sociale, per questo la gradualità impostata dal governo ha senso».
Teme che le protezioni non bastino?
«In situazioni affollate esiste la possibilità che qualcosa vada storto. Capisco che si debba riaprire anzitempo per ragioni economiche, ma con una strategia e una verifica periodica».
E le messe?
«Io non ce l' ho con la chiesa, ma con qualsiasi attività che porti una concentrazione di persone e che non abbia urgenza assoluta. Mettere sullo stesso piano le messe, le partite e i concerti è brutto, ma dal punto di vista tecnico va fatto. Dunque, prudenza».
Rischiamo davvero un ritorno dei contagi?
«Non ho la sfera di cristallo, ma sono preoccupato. Il pericolo di nuovi focolai esiste, perché il virus è in grado di girare senza essere riconosciuto e l' unica barriera sono mascherine e distanze, ma non si sa quanto servano».
Si parla del caldo e del mutamento o indebolimento del virus, che ne pensa?
«Non credo a nessuna di queste ipotesi. È un virus nuovo con una prateria di gente da infettare. Questo è l' aspetto prevalente e se ora si è arginato lo dobbiamo solo alle chiusure».
Ma i nuovi contagiati non sono meno gravi?
«Sì, ma non c' entra il virus. Gli anziani più deboli sono già morti e i sopravvissuti si proteggono di più che all' inizio, inoltre noi medici per quanto non abbiamo una cura ne sappiamo di più».
E la seconda ondata?
«Potrebbe esserci in autunno con un virus un po' diverso da questo. Bisogna prepararsi, ma non è certa».
Tamponi e test?
«Un' arlecchinata all' italiana.
Regioni in ordine sparso, ritardi clamorosi, scelte incomprensibili. La moltiplicazione dei tamponi e dei test ci avrebbe aiutato e andava fatta prima della riapertura. Invece si sono moltiplicati i letti d' ospedale a scapito della diagnostica e dell' intervento territoriale. Pesano una visione miope e anni di svalutazione e tagli della medicina sul territorio».
Selvaggia Lucarelli per tpi.it l'11 maggio 2020. Intervistare Massimo Galli è un’impresa affascinante. I suoi incastri sono un’acrobazia temporale che ha del miracoloso: parla con il suo interlocutore e nel frattempo si sentono telefoni che squillano, persone che entrano nel suo ufficio annunciando novità o “Mi scusi, possiamo continuare tra un’ora che ho un impegno in ospedale?”. Alla fine, però, Galli si concede con generosità e piglio da “barricadero”, come amerà definirsi durante la chiacchierata, premettendo con ironia che una volta in un articolo ho scritto che porta cravatte a pallini, ma “quelle le porta il Cavaliere, sono indignato!”.
Quante interviste fa al giorno?
«Oggi un disastro. Io solitamente sto nel mio studio bunker e macino lavoro di vario tipo, sia chiaro, ma oggi sono già a 7/8 interviste».
Riesce a fare altro?
«In questi mesi ho pubblicato 8 lavori scientifici e i lavori scientifici che escono dal mio gruppo non vengono svolti senza che io me ne occupi, non è mia abitudine apporre la firma e basta».
Sta lavorando sull’indagine epidemiologica in Lombardia?
«Sì, sono uscito dal mio campo diretto dando anche qualche spallata, ma ero e sono molto arrabbiato per quel che riguarda la mancata diagnostica. La gente è a casa che chiede, non sa, telefona anche direttamente a noi perché vuole aiuto, vuole sapere quali siano le sue condizioni e non capisce cosa fare. Magari ha avuto indicazioni della serie: stai a casa e aspetta, ve bene così. Poi questa gente uscirà per andare a lavorare e possiamo solo affidarci a Santa Mascherina».
Mascherina che non tutti mettono.
«Non è mai stato fatto un esperimento analogo nel mondo. È la prima volta che si tenta di arginare un’epidemia dicendo: esci con la mascherina e osserva il distanziamento. Io le dico che non esiste un lavoro scientifico che provi l’efficacia certa di questa strada».
Siamo pionieri.
«Stiamo mandando fuori di casa un’intera popolazione senza mai aver sperimentato se queste regole funzionano. I comportamenti individuali saranno dunque fondamentali, ma basta che qualcuno sia incosciente per far saltare la catena di protezione».
Torniamo all’indagine epidemiologica, il cui precedente illustre è quella di Vo’ con Crisanti.
«In Veneto sono partiti subito e quasi quasi mi sento di dire “beati loro”. Sarebbe piaciuto moltissimo anche a me avere la possibilità di fare uno studio di questo genere. Loro arriveranno a pubblicare, ad avere informazioni molto prima di quanto riuscirò a fare io. Il kick off per l’indagine a Castiglione D’Adda parte lunedì prossimo. Devo raccogliere tutto il materiale che mi serve con le forze di cui posso disporre, non è semplice».
Cosa fate a Castiglione D’Adda?
«Faremo una rilevazione sull’intera popolazione, su base volontaria, partendo col test rapido e selezionando quelli positivi. Poi, a meno che non abbiano una storia documentata di infezione, i positivi al test faranno un tampone».
Lo farete solo a Castiglione D’Adda?
«No, lo faremo anche a Carpiano, un paese a sud di Milano. Poi a Vanzaghello, Suisio nella bergamasca e Borghetto Lodigiano. Mi scusi un attimo…dimmi Gabriele!»
Che succede?
«Ah ecco, che bello. Hanno appena approvato i 4 comuni. È ufficiale. A questo punto, se avremo i soldi per farlo, continueremo con queste ricerche anche in altri comuni. Dico “se” perché deve sapere che i tamponi mi tocca farli fuori dalla regione Lombardia».
La Regione non ve li supporta?
«Assolutamente no».
È una ricerca autofinanziata?
«Ci sono donazioni di privati che ci finanziano per fare ricerca».
Anche a Vo’, nella seconda fase della ricerca, c’è l’autofinanziamento.
«Sì, ma l’atteggiamento nei confronti di chi conduce la ricerca lì direi che è abbastanza diverso. Lei avrà intuito che tra me e la Lega non c’è alcun tipo di relazione nella mia storia personale».
D’accordo, ma in questa fase forse bisognerebbe pensare a un bene superiore, che è la salute dei cittadini.
«Io li trovo un po’ sciocchi, ad essere onesto. Lei si rende conto che il sindaco Beppe Sala deve andare a Grenoble, in Francia, per fare i test sui conducenti dell’Atm? Il problema è il funzionariato, ma non mi faccia dire altro, che qui faccio il barricadero».
Un po’ lo è.
«Mettiamola così: se non fossi stato: a) un universitario b) uno con qualche titolo, mi avrebbero fatto fuori nella maniera più certa ed assoluta. Non sarei mai arrivato alla mia posizione, non me l’avrebbero mai permesso».
È per questo che lei è fuori da ogni task force?
«Diciamo che l’infettivologo di riferimento della prima task force è un’ ottima persona ma molto periferica e poco ingombrante».
Con quale criterio avete selezionato i comuni in cui condurrete l’indagine epidemiologica?
«Dislocazione in punti diversi rispetto a Milano e tutti più o meno con lo stesso numero di abitanti. Vedremo quanto si è diffuso il virus in zone con lo stesso campione di popolazione».
Cosa insegna Vo’?
«La differenza tra circoscrivere un’epidemia e attendere che i malati arrivino negli ospedali a frotte».
Ma alla fine perché in Lombardia si son fatti così pochi tamponi lei l’ha capito?
«Mi creda, ancora oggi faccio fatica. Suppongo che, presa una strada, ci sia stato una specie di rifiuto di accettare l’errore e di assumere un’altra posizione. La gente è a casa arrabbiata, qualcuno dovrebbe rendersene conto e, a meno che non ci sia un rifiuto a priori di occuparsi di questa cosa, il tempo per recuperare l’impasse c’è. Sembrano intestarditi in un palese errore».
Oppure meno tamponi vuol dire far finta che il contagio sia meno diffuso e si salva la faccia.
«Questo implicherebbe una dietrologia troppo raffinata, troppo colta, abbia pazienza».
Si parla di vari ceppi del virus: uno diffuso al nord e uno al sud, più debole.
«Non c’è alcuna evidenza che si sia diffuso a livello epidemico alcun virus diverso da quello della Germania. Il virus è arrivato da lì, alla fine di gennaio».
Però dicono che i malati siano meno gravi adesso.
«Perché stiamo vedendo la coda dell’epidemia. E anche perché molti di quelli che si sono infettati in condizioni di grande fragilità sono già passati nei nostri reparti e sono anche spesso morti».
Chi sono i morti di oggi?
«Nelle Rsa continua a esserci una strage. Poi ci sono quelli che dopo una lunga battaglia non ce l’hanno fatta.
Avete dati certi sui morti di questi giorni?
«No, perché i dati non mi arrivano dalla Regione, ma da chi me li manda tra gli assessori per iniziativa personale. Non ricevo nulla ufficialmente».
A Report si gettava una luce sospetta sui tanti casi di polmonite registrati a dicembre e inizio gennaio in alcuni ospedali del Nord. Si è detto “i segnali c’erano tutti”.
«Questa è una fesseria colossale. Lei ha visto cosa ha combinato questo virus quando è entrato negli ospedali? Ce ne siamo accorti e in tre settimane i casi erano decine di migliaia. Se fosse entrato a dicembre nei pronto soccorso o nei reparti, in pochi giorni saremmo stati invasi nelle strutture ospedaliere e fuori».
Al Sacco si sperimenta la plasmaterapia?
«No. È stata una sperimentazione organizzata da alcuni medici che non ci hanno direttamente coinvolto. Il collega di Pavia è molto bravo, spero che funzioni ma finché non vedo i risultati definitivi non mi espongo».
Voi al Sacco a che punto siete con le terapie?
«Sono mesi che andiamo alla “spera in Dio”, talvolta anche lasciando perdere i principi cardine di una medicina basata sulle evidenze. Abbiamo tentato di tutto e di più anche sulla base di razionali davvero flebili, tanto è vero che abbiamo provato a usare il Lopinavir ritonavir ma è acclarato che non fa nulla, poi l’idrossiclorochina ma i dati sono sempre più desolanti. L’uso dei farmaci come il famoso Tocilizumab dà buoni risultati, in determinati pazienti è utile a far superare la fase peggiore. Attenzione, però, perché agisce su un sistema immunitario spesso già malridotto e in alcuni di questi pazienti ha effetti collaterali imponenti, soprattutto un possibile danno da infezioni intercorrenti. Rischiano di non morire di Covid ma di altro. E questo è il motivo per cui, non so se lo ricorda, ma una sera mi sono lasciato un po’ andare in tv con un collega».
Parla di Ascierto?
«Perché ero molto irritato con lui? Perché questa terapia non può essere spacciata come il toccasana che va bene per tutti e salva le persone. Se lo si dà in maniera indiscriminata provoca più guai che vantaggi. Ascierto aveva trattato la bellezza di due casi e già tirava conclusioni, altri medici attraverso contatti continui da vari ospedali in Lombardia e non solo, si consultavano tutte le sere condividendo le perplessità oltre che i possibili successi di questa terapia».
E quindi si è arrabbiato.
«Di Ascierto mi aveva preoccupato il fatto che una questione che merita un approccio di grande delicatezza, sia diventata un’occasione di presentazione quasi autoreferenziale con troppe certezze sulla base di evidenze fornite da due casi».
E questo cosa ha provocato?
«Che poi i parenti dei pazienti ci richiedevano questa terapia certi del successo».
Ne è stata fatta una questione Nord contro Sud.
«L’Italia è questa. Non si può assumere una posizione di dissenso senza che si scambi per una guerra tra campanili. È un peccato perché di rado qualcuno del nord si lamenta di essere maltrattato da colleghi del sud. Ci sono dei motivi che hanno a che fare con una suscettibilità e sensibilità particolare, ma questo del nord contro sud è un elemento confondente ed è un peccato».
Quindi non c’è una terapia buona per tutti ad oggi?
«No».
Come si esce da queste terapie?
«La malattia ha tre fasi diverse: quella in cui invade, quella in cui risponde il sistema immunitario e se risponde bene è fregato il virus, se risponde male può essere fregata la persona. Poi la terza fase in cui avviene la distruzione del polmone e la compromissione di altri organi e degli endoteli, spesso una fase senza ritorno. Quelli che se la sono cavata e sono sopravvissuti alla fase peggiore, spesso hanno una compromissione a livello polmonare temo non reversibile. Rischiano insufficienze respiratorie che andranno avanti per anni. Stiamo mettendo in piedi ambulatori post Covid perché dovremo prolungare la cura anche dopo “la guarigione”».
A parte con Ascierto, lei non battibecca molto mediaticamente con i colleghi.
«No, guardi, forse l’altra volta è stata quando in una radio mi chiesero cosa ne pensassi della storia legata a “è una semplice influenza”».
Parla della Gismondo?
«Anche. Lì mi è scappato di dire che avrebbero tutti dovuto ritirarsi in un dignitoso riserbo».
E la Gismondo non le ha detto niente?
«Mi sta facendo ogni genere di guerra in ospedale. Ma non da oggi».
Come mai non andate d’accordo?
«È una donna con cui non va d’accordo quasi nessuno».
Ma perché?
«Andiamo avanti. Sono il suo direttore di dipartimento, ufficialmente il suo superiore diretto in università, per fortuna ancora per pochi mesi perché il mio mandato scade.
La sua uscita quindi non l’ha stupita?
«Mi stupisce sempre invece. Quando si è alla ricerca di una mediaticità a tutti i costi, alcune persone hanno fatto sparate che pensavano potessero caratterizzarle. E parlo anche di persone con notevole pedigree che stanno all’estero. Ilaria Capua, per dire, di sciocchezze ne ha dette tantissime».
Le hanno dette anche molti uomini.
«Donne, uomini, non fa differenza. Qualche mio collega infettivologo che un virus non l’ha mai visto neanche col cannocchiale di sciocchezze ne ha dette più di una. Il partito dei riduttivisti che per motivi sconcertanti di “mediaticità” ha contribuito a dequalificare la categoria degli esperti, ha creato un problema».
È mediatico anche lei, però.
«Io mi ritrovo nella buffa situazione di essere mediatico senza averne assolutamente voglia, tanto è vero che non sembrerebbe, ma le garantisco che continuo a declinare inviti».
Mi dica una sciocchezza detta da un collega uomo.
«Le cito una sciocchezza detta da un collega che stimo molto, un amico del San Raffaele, il microbiologo professor Clementi: l’altra era se ne è uscito dicendo che il virus è diventato più buono».
È falso?
«Non è vero e non è provato. I malati che stiamo vedendo non sono più quelli di prima perché abbiamo persone che sono arrivate in ospedale ai primi sintomi, meno gravi. Gli anziani, poi, a parte quelli delle Rsa, a un certo punto si sono barricati in casa e abbiamo meno ricoverati tra coloro che sono più a rischio per età e patologie pregresse. Non è il virus più buono, sono cambiate le nostre capacità di cura perché non c’è più l’affollamento di prima. Fare un’affermazione del genere è pericoloso e a meno che lui nelle sequenze del virus abbia trovato qualcosa che non ci ha detto, queste sequenze non dimostrano una modificazione del virus tali da poterci far pensare a un indebolimento».
Quindi non possiamo sperare che il virus perda forza?
«Certo, questi virus tendono a diventare meno cattivi, ma in tempi non così brevi di regola. Affermare che questo stia accadendo, però, può incoraggiare i cittadini ad atteggiamenti meno prudenti, è rischioso».
Non avete detto troppo pochi “non lo so”, voi esperti?
«Sono d’accordo, ma se fa un elenco delle mie uscite i miei “non lo so” sono stati parecchi. Ma guardi, una cosa mi è rimasta sullo stomaco».
Cosa?
«La sera del 20 febbraio, quella in cui poi venne fuori il caso del paziente 1 di Codogno, io stavo di fronte a 100 medici di base per una conferenza. Dissi: “Abbiamo avuto i due turisti cinesi che non hanno lasciato strascichi, sono stati chiusi i voli diretti dalla Cina prima che in altri paesi, forse ce la siamo cavata. L’unica possibilità è che ci sia arrivato il virus triangolando di sponda senza che ce ne siamo accorti, ma mi sembra una visione troppo apocalittica”. Mentre dicevo quelle cose un collega di fronte a me riceveva una telefonata si scusava “Mi spiace devo schizzare via per un’emergenza”. Era per il caso 1 di Codogno».
Quindi il tutto ha colto di sorpresa anche lei?
«L’esatta situazione che avevo appena definito improbabile si era verificata».
Se l’è perdonato?
«Mi è rimasta sullo stomaco. Mi sono più volte chiesto se avessi potuto avuto avere un coraggio diverso per dire che bisognava prepararsi. D’alto canto la Sars, l’unico modello con delle analogie, in Italia aveva avuto 4 casi. Tutti guariti, nonostante i contagiati fossero arrivati in modo rocambolesco in ospedale».
Però l’ultima grande epidemia è di 100 anni fa, non mille.
«Sì, ma ragioniamo: lei con che faccia sarebbe andata dal ministro o dal presidente o dall’assessore dicendo che bisognava fare l’ira di Dio a fronte dell’esperienza pregressa della Sars con 4 contagiati? E in tutto il mondo con meno di 2.000 casi fuori dalla Cina? Mi avrebbero dato del matto. È stato il peggiore degli scenari possibili. E le dico un’altra cosa carina, forse».
Prego.
«Un altro dei personaggi che ha minimizzato di più è stato Vittorio Sgarbi, anche perché questo 2020 era il cinquecentesimo anniversario dalla morte di Raffaello ed è finito male. Se avessi modo di incrociarlo gli parlerei di un altro grande pittore che è Tiziano, morto nel 1576 indovini di cosa? Di peste, a Venezia. Credo che il grande pittore morendo abbia mandato a ramengo con grande vigore quei suoi governanti che avrebbero potuto limitare la diffusione e invece hanno preso la posizione negazionista. La paura di perdere introiti ha da sempre favorito le epidemie. “Peste e società a Venezia nel 1576” è un libro molto interessante sul tema».
È un appassionato di storia delle epidemie.
«Ho fatto la prolusione sulla peste nel congresso nazionale dei parassitologi poco tempo fa. L’avrei fatta anche per gli infettivologi se non mi fosse venuto un coccolone».
Cioè?
«Mi è venuta un’embolia polmonare grave in novembre».
Lei lavora troppo.
«Lavoro troppo e poi ho trascurato un incidente banale a una gamba di tre anni fa. Mi è venuta una trombosi venosa profonda.
Quindi avrà paura di prendersi il Covid.
«Io sono il classico soggetto perfetto per il Covid: quasi 69 anni, un’asma e problemi di salute recenti».
Fa il tampone?
«Lavoro come prima, i miei aiuti mi buttano fuori dalle stanze, ho fatto un tampone (negativo) e i test rapidi. Uno come me o si chiudeva in casa o continuava a lavorare. Comunque quando è scoppiata l’epidemia mi ero appena rimesso a lavorare dopo la malattia e dopo la pausa che mi avevano costretto a prendermi. Dopo un’ora di mascherina mi viene il broncospasmo, ma altri problemi non ne ho».
Che effetto le ha fatto assistere a tutto questo?
«Sono anni che ci si prepara a queste eventualità. L’Oms parla da tempo della famosa “malattia x” che potrebbe mettere in ginocchio il mondo. Ci siamo andati vicini, ma il Coronavirus è letale soprattutto per una componente della società che non rappresenta il clou della produttività e riproduttività, poteva andarci peggio.
Il Covid ha messo in discussione qualcosa di ciò che un esperto di lungo corso come lei era convinto di sapere?
«Ricevo lezioni ogni giorno dal 21 febbraio 2020. Anche su tutte le carenze che abbiamo nel nostro sistema sanitario. Spero che questa prova sia una crisi nell’accezione cinese dei caratteri della parola: pericolo e opportunità».
Che studente è stato Massimo Galli?
Ero uno dei responsabili- per quanto si possa essere responsabili a 20 anni- del Movimento studentesco di medicina, alla Statale di Milano. Nasco sessantottino e non lo rinnego».
Perché dovrebbe?
«È ancora il mio orientamento, il “come vedo le cose”».
Che voti prendeva?
«Mi sono laureato con lode con 3 o 4 voti sotto il 30».
Poi?
«Per 13 anni ho fatto il medico ospedaliero perché questo c’era nel segmento delle malattie infettive, sono stato uno stanziale. Nell’anno in cui potevo andare per un po’ all’estero è scoppiato l’Aids. La mia America è rimasta qua».
E infatti ha lavorato molto sull’Aids. Quando arrivò, c’era lo stesso sconcerto di oggi di fronte a una malattia nuova?
«Era molto diverso. C’era la posizione dominante nell’opinione pubblica della “peste gay”. In Italia poi abbiamo avuto il grosso dell’epidemia tra i tossicodipendenti e sono elementi che hanno fortemente caratterizzato il virus nella percezione pubblica qui: tra omofobia e giudizi nei confronti dei tossicodipendenti lo stigma si è venduto a chili».
Suoi ex studenti dicono che come esaminatore lei è terribile.
«Io sono buono e ho avuto un bel rapporto con gli studenti. Gli esami con me hanno sempre avuto un tasso di mortalità bassissimo. È che io non do meno di 24, nel caso la preparazione sia sotto quello standard, boccio».
Perché?
«Sto preparando gente che deve andare a fare un mestiere legato alla vita della gente».
Sua moglie che dice del suo successo mediatico?
«È tra il seccato e il divertito e continua a dirmi di dare un taglio alle mie comparsate tv».
Ma mi ha detto che ne rifiuta un sacco.
«Mi trattengo perché “tengo famiglia” e per famiglia intendo i miei collaboratori e allievi. Visto il clima politico, non voglio che vengano spazzati via o trattati a pesci in faccia non appena l’ombrello rappresentato dalla mia presenza verrà meno. So come vanno le cose, io sono un anziano signore a un anno dalla pensione, con la carriera che ha avuto e adesso anche con una visibilità mediatica ben al di sopra delle sue intenzioni. Spero di essere dimenticato, ma non credo, per cui il mio primo dovere è proteggere i collaboratori e non far loro subire le conseguenze delle mie esternazioni».
L’abbiamo interrogata tanto in questi mesi sulle questioni scientifiche, ma c’è qualcosa che l’ha commossa in questi mesi?
«Un collega coetaneo che è morto per il Covid. Mi telefonava chiedendomi “e adesso cosa faccio, secondo te?”. È morto nel “suo ospedale”, mi ha colpito tanto. Mi ha colpito la morte di un collaboratore deceduto da noi. Mi ha colpito vedere morti sempre, tutti i giorni, nel nostro reparto, mi ha riportato ai tempi dell’Aids. Non ci sono state le file dei camion, ma anche qui a Milano è stato terribile. E infine un’ultima cosa».
Cioè?
«La quantità spaventosa di lettere che ho ricevuto di gente che mi ringrazia. Mail lusinghiere più di quanto potessi sperare. Tanto affetto io non me l’aspettavo».
Me ne racconta una?
«Non ne ho mai parlato, ma mi è arrivata una lettera dal carcere di San Vittore. Era una giovane donna implicata in un terribile fatto di cronaca (Martina Lovato ndr), mi dice che lei e le sue compagne di reclusione hanno raccolto 300 euro e li donano al Sacco».
Trovo che sia bello.
«Ho deciso di considerarlo bello, sì, senza pensare a dietrologie».
Qualcosa di buffo?
«Beh, mi arrivano lettere anche da persone che si qualificano come poeti, ma forse la faccenda più incredibile sono le telefonate che ricevo».
La chiamano in ufficio?
«Sì, ogni tanto rispondo convinto che sia una chiamata importante e mi ritrovo ad ascoltare persone che mi suggeriscono come sconfiggere il virus. Uno mi ha detto: “Senta, visto che il virus a 63 gradi muore, se mettessimo tutti nella sauna?”. In pratica dovrei decidere per quanto tempo cuocere i pazienti. Un signore era arrabbiato perché lui utilizza l’essenza di timo sotto il naso e non si è mai ammalato, nessuno l’ha considerata una terapia efficace».
E lei attacchi il telefono.
«Mi creda, è difficile chiudere senza essere scortesi. Cosa che per giunta di solito mi riesce abbastanza bene.
Le riesce bene anche in tv quando le fanno una domanda che non le piace.
«Mi riesce perché non ho desiderio che mi richiamino, ma tanto poi mi richiamano lo stesso. Anzi, forse mi richiamano proprio per questo».
L'infettivologo Galli sul caso della Iena Politi: “I protocolli per la quarantena sono farlocchi”. Le Iene News il 30 aprile 2020. Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano e una delle più importanti autorità italiane in materia, ha detto in tv: “La vicenda di Alessandro Politi dice che le indicazioni attuali sulla quarantena sono farlocche. Il protocollo non è più attuale”. La Iena oggi, 49 giorni dopo primi sintomi e tampone, è finalmente negativo al Covid-19. Ripetiamo la domanda dell’ultimo servizio: qualcuno potrà essere ritenuto responsabile di non aver aggiornato quei protocolli? I protocolli per la quarantena da Covid? “Farlocchi”. Parola dell’autorevole infettivologo del Sacco di Milano Massimo Galli, intervenuto durante la trasmissione tv “Sono le Venti”, ai microfoni di Peter Gomez. Una sentenza lapidaria la sua, che non fa che confermare i dubbi che da settimane avanziamo anche noi, dopo avervi fatto conoscere la storia del nostro collega Alessandro Politi, che potete vedere qui. Alessandro, finalmente negativo ma dopo ben 49 giorni dal tampone e dall’inizio dei sintomi, dimostra che qualcosa non torna nelle indicazioni ufficiali dei protocolli per la quarantena. L’infettivologo Massimo Galli, parlando anche del caso della Iena, non ha dubbi: “Questo è uno dei problemi ovvi che dobbiamo affrontare se vogliamo riaprire, perché questa indicazione dei 14 giorni di quarantena mi verrebbe da dire che è un’indicazione farlocca. Come si fa allo stato attuale delle conoscenze a dire a una persona che può uscire dopo 14 giorni non ha avuto sintomi? Il protocollo non è più attuale. Le indicazioni sono state fatte inizialmente dall’Oms e in conseguenza i vari comitati presenti in questo Paese, sulla base degli elementi di conoscenza che man mano c’erano. Ma questa ormai è diventata una soluzione francamente non più di garanzia. Abbiamo valutato oggi i risultati di un questionario che si chiama Epi-Covid e da lì deriva che almeno il 6% dei pazienti con tampone positivo che non sono stati ricoverati in ospedale sono completamente asintomatici. Questo è certamente un numero sottodimensionato rispetto al vero. Quindi abbiamo un grandissimo bisogno dei test”. Seguendo la storia di Alessandro Politi, negativizzatosi dopo ben 49 giorni, abbiamo capito che il tempo necessario per liberarsi dal Covid-19 ed evitare di diffondere il contagio, può essere ben più lungo dell’ordinaria quarantena. Un tempo ben più lungo di quei 14 giorni dagli ultimi sintomi che gli stessi medici avevano indicato anche a Valentina, la fidanzata di Alessandro Politi, che ha avuto gli stessi sintomi della Iena ma che non ha potuto fare un tampone nonostante sia stata un contatto stretto di un malato di Covid-19, come potete vedere qui sopra anche nell’ultimo servizio di martedì scorso. E la cosa ancora più strana, oltre all’indicazione di potersi ritenere guarita e in grado di poter uscire dopo la quarantena dei 14 giorni, è stata che, come sostenuto dall’Agenzia di tutela della salute della Lombardia, nessuno sapesse che lei convive con un malato. Eppure l’Ats ha in carico tutti i casi di Covid-19: possibile che abbiano due liste, una con i malati e una con le persone in quarantena, che però non comunicano tra di loro? Se le cose stanno così, ci chiediamo anche: come fanno a fare la mappatura dei contagi? E quante persone infette possono uscire e inconsapevolmente infettarne altre? Ancora un’ultima domanda: chi dovrebbe aggiornare il protocollo ma non lo fa potrebbe essere considerato responsabile di un fatto colposo? È quello su cui lavorano nello studio legale Romanucci&Blandin di Chicago, negli Stati Uniti. “Il nostro studio sta investigando per conto di quelle persone a cui è stato detto di non essere infetti quando invece potrebbero esserlo”, ci dice il socio dello studio Antonio Romanucci. “Stiamo pensando sia a cause individuali che a class action”. In Italia le class action sono molto più complicate, ma cosa si potrebbe fare? “Non rivedere queste linee guida potrebbe essere un fatto colposo”, ci dice il professor Federico Tedeschini dell’università La Sapienza di Roma. “Un fatto colposo produttivo di responsabilità in capo alle amministrazioni che lo applicano a coloro che ne subiscono dei danni”. Nel frattempo, mentre il Codacons sta già lavorando a un maxi esposto, le parole dell’infettivologo Massimo Galli non fanno che confermare i nostri dubbi. Dubbi che, come abbiamo visto, emergono dalla cronaca quotidiana, che ci riporta anche il caso dell'attaccante juventino Dybala, ancora positivo dal 21 marzo, dopo 4 tamponi. Un caso che, secondo alcuni esperti, confermerebbe l'ipotesi che nei più giovani e asintomatici il Covid possa essere meno letale ma resistere più a lungo, anche fino a 50 giorni. Noi di Iene.it abbiamo raccolto anche le storie di Massimo e Fausto, entrambi positivi dopo 45 giorni.
L'infettivologo Massimo Galli: "La strategia più produttiva: i test rapidi". Mediasetplay.mediaset.it il 27 aprile 2020. Il primario del Sacco di Milano: "Servono per identificare chi ha già avuto contatti con il virus". Il responsabile del dipartimento malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, ospite in collegamento con Mattino Cinque, sottolinea l’importanza di effettuare test rapidi per capire se una persona contagiata da poco che non ha ancora incubato il coronavirus è infettiva, anche se il tampone è negativo. “L’ho ripetuto fino alla nausea: la strategia più produttiva per dare un supporto all’apertura è fare test rapidi pungidito per identificare chi ha già avuto contatti con il virus, anche se non tutti, per poi fare a quelle persone il tampone”. “Ma – chiarisce Galli – non è una patente di immunità”.
Dagospia il 25 aprile 2020. Da “Accordi e Disaccordi – Nove”. “Riaprire tutto in modo omogeneo entro il 4 maggio? Siamo in ritardo”. Così il direttore del reparto malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, durante la puntata di Accordi & Disaccordi, il talk politico condotto da Andrea Scanzi e Luca Sommi tutti i venerdì alle 22:45 sul Nove, ha commentato la possibilità di inaugurare la fase 2 entro la data prevista dal governo. “Riaprire tutte le regioni allo stesso modo è un errore? È un errore fare un provvedimento omogeneo che non abbia previsto la sperimentazione e l’organizzazione degli interventi di contenimento ancora da mantenere dopo l’apertura. Soprattutto legati ai luoghi di lavoro, ai luoghi di contatto sociale, ad esempio gli esercizi commerciali, che andranno comunque riaperti... Allo stato attuale dei fatti - ha concluso il professore - mi pare che si sia un pochino in ritardo”.
L’infettivologo Galli: “Focolai nelle case, ma da una settimana i casi sono meno gravi”. L’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano Massimo Galli: “I dati oscillano in base al numero dei tamponi e là fuori ci sono dieci volte i positivi accertati, che continuano a spargere il virus anche semplicemente tra i parenti durante le feste”. Ma secondo l’esperto ci troviamo di fronte a forme miti della malattia causata dal coronavirus e cala la pressione sugli ospedali. Susanna Picone su fanpage.it il 12 aprile 2020. Di nuovi focolai di coronavirus se ne creano di continuo a domicilio. A sostenerlo è Massimo Galli, infettivologo milanese dell'ospedale Sacco che in una intervista a La Stampa ha spiegato come, appunto, i focolai siano entrati nelle case ma anche come la malattia abbia perso forza. "I dati oscillano in base al numero dei tamponi e là fuori ci sono dieci volte i positivi accertati, che continuano a spargere il virus anche semplicemente tra i parenti durante le feste", così l’infettivologo nell’intervista. Di nuovi focolai – ha chiarito Galli – "se ne creano di continuo a domicilio, ma per fortuna portano a forme miti della malattia. Da una settimana i casi sono meno gravi e non portano pressione sugli ospedali". L’esperto dell'ospedale Sacco ha spiegato che non è cambiato il nuovo coronavirus, ma il modo di prenderlo: “All’inizio i malati erano gravi perché rimanevano a lungo in casa in un periodo in cui non si sapeva nulla della malattia mentre questa circolava. Ora con le misure di distanziamento tutti sono sensibilizzati e appena uno sta male corre in ospedale. Chi rimane in casa ha una forma leggera, ma può creare dei focolai che perpetuano il contagio". Massimo Galli ha detto che a suo parere, anche per ripartire dopo il lockdown di queste settimane, è necessario porre più attenzione all’isolamento in strutture dedicate o in alberghi: “I contagiati vanno quarantenati meglio, anche nell’ottica di una riapertura. Per convivere con il virus occorre aumentare la sicurezza sanitaria, che in ogni caso non sarà mai il 100 per cento". Susanna Picone
Coronavirus, i piccoli focolai saranno inevitabili in futuro: parla il virologo Federico Pregliasco. New Notizie il 14/4/2020. Dovremo convivere a lungo con il Coronavirus e, anche quando sarà passata la fase più acuta, assisteremo alla formazione di piccoli focolai. L’opinione professionale del virologo Federico Pregliasco. Federico Pregliasco, virologo e docente presso l’Università degli Studi di Milano, ha commentato l’ultimo bollettino diffuso ieri dalla Protezione Civile. La crescita dei contagi sta rallentando ma siamo ancora ben lontani dal punto di svolta, e sembra proprio che in futuro dovremo convivere con l’esistenza di piccoli focolai. L’esperto ha fatto un punto della situazione in un’intervista realizzata da Il Messaggero.
Il Coronavirus e cosa ci aspetta in futuro, più tamponi e situazione positiva in molte regioni d’Italia. In una lunga chiacchierata che Valentina Arcovio ha avuto con il virologo Federico Pregliasco, il virologo ha dato delle interessanti indicazioni su quello che sta succedendo in Italia e sull’ultimo bollettino diramato dalla Protezione Civile.
Calano i contagi, anche se i decessi sono aumentati rispetto al penultimo bollettino. E Valentina Arcovio chiede: con questo quadro, si può parlare di trend positivo?
“Sì è vero, i decessi sono aumentati rispetto a quelli registrati il giorno precedente. Ma queste morti– commenta il virologo- sono il segno di infezioni pregresse e non possono dirci molto su quale sia l’attuale trend di diffusione del virus. A parte la Lombardia, con Milano, Cremona e Brescia che continuano a registrare un numero abbastanza elevato di casi, nel resto delle regioni di Italia la situazione mi pare piuttosto positiva. I contagi rimangono bassi e stabili, anche nel Lazio. Non dimentichiamoci, inoltre, che nell’ultimo periodo vengono effettuati molti più tamponi rispetto a prima e questo consente di intercettare un numero maggiore di casi. Inoltre, credo che anche in quest’ultimo bollettino il dato più bello che possiamo leggere è la riduzione del ricoveri in terapia intensiva”.
Il medico ha anche spiegato a cosa servano le restrizioni prese dal Governo: non a fermare definitivamente il virus ma a ridurre il trend dei contagi, in modo tale di dare respiro agli ospedali e impedire che le strutture sanitarie collassino. Ovviamente, nel prossimo futuro dovremo convivere con il Coronavirus e non si esclude la formazione di altri piccoli focolai.
Il Coronavirus e cosa ci aspetta in futuro, spegnere subito i focolai di contagio non appena saranno individuati. Allentare le restrizioni è una fase che sarà decisa, dal Governo, sul numero dei ricoveri in terapia intensiva. Sembra questo il dato a cui si deve guardare, perché con meno ricoveri in terapia intensiva gli ospedali potranno garantire ai cittadini maggiori cure. Pensare ad arrivare al numero di zero contagi appare utopistico, ma l’importante- dice ancora Pregliasco- sarà essere bravi nella fase due e spegnere subito altri focolai non appena si individueranno.
Coronavirus, Pregliasco: “Manterrei il lockdown per mesi”. Alessandra Tropiano il 22/04/2020 su Notizie.it. Secondo il virologo Pregliasco, il lockdown per contenere il coronavirus dovrebbe durare ancora mesi. Mentre il governo procede verso la fase 2, c’è chi ancora ritiene sia troppo presto. Troppo presto per riaprire, per far uscire di casa le persone, per tornare a un briciolo di normalità. Per il virologo Fabrizio Pregliasco, il lockdown per fermare il coronavirus dovrebbe durare ancora mesi. Cosa che però, secondo il Conte bis, non si può fare. “Se dovessimo decidere solo noi scienziati, faremmo durare il lockdown ancora molti mesi. Ma quella del governo è una decisione politica, che considera l’interazione di molti altri fattori oltre a quello epidemiologico”. Fabrizio Pregliasco, virogolo dell’Università di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi, così afferma in un’intervista a La Stampa. Il virologo conferma, però, di rendersi ben conto che: “L’epidemia non causa solo decessi e contagi, ma anche una forte disgregazione sociale”. Per Pregliasco dovrà esserci un piano coordinato di riaperture: “È meglio di uno basato su riaperture diversificate da regione a regione, perché aprendo dobbiamo immaginare che apriamo anche tanti rubinetti diversi: le aziende agricole, il settore metalmeccanico, le fabbriche…”. Per il virologo è centrale la consapevolezza al momento della riapertura. “Dobbiamo essere consapevoli -continua- che ogni rubinetto che apre rischia di aumentare contatti e probabilità di nuove infezioni”. “Si devono fare scelte che comportino il minor rischio possibile, per esempio scegliendo un procedimento coordinato con delle restrizioni decise a livello regionale”. Così consiglia il virologo, per il quale: “È meglio attendere ancora un po’ ma, una volta stabilito di riaprire, che sia per loro una vera riapertura”.
Coronavirus, Lopalco a Fanpage.it: “Se il 60% ha gli anticorpi, si può scongiurare una nuova ondata”. Valeria Aiello su Fanpage il 17 aprile 2020. L’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, Professore di Igiene e Medicina Preventiva dell’Università di Pisa e Coordinatore scientifico della task force della regione Puglia per l’emergenza Covid-19: “Si sta parlando molto di test sierologici e patentino di immunità, ma la presenza di IgG non vuol dire necessariamente essere immuni. Per ripartire in sicurezza bisogna prevenire il contagio, non possiamo affidarci a sierologia e tamponi”.
Intervista al Dott. Pier Luigi Lopalco. Epidemiologo, Professore di Igiene e Medicina Preventiva dell’Università di Pisa e Coordinatore scientifico della task force della Regione Puglia per l’emergenza Covid-19. Sono ore di grande fibrillazione. Servono risposte urgenti per poter ripartire e passare alla cosiddetta fase 2. Nella battaglia contro il coronavirus alle spalle ci sono giornate terribili ma l’andamento discendente di decessi e nuovi contagi, seppur con numeri assoluti che in diverse regioni restano ancora alti, lascia intravvedere uno spiraglio di luce. Dati che la Protezione Civile fornisce ogni giorno e verranno presto affiancati dai numeri dell’analisi epidemiologica su scala nazionale che permetterà di sapere quante persone sono entrate in contatto con il virus senza però avere sintomi della malattia, consentendo così di identificare i soggetti che hanno sviluppato gli anticorpi contro il virus. La valutazione avverrà attraverso test sierologici che, come spesso accade in Italia, in alcune regioni sono già partiti in ordine sparso, dando però una parziale indicazione su chi ha sviluppato o meno l’immunità. Ma cosa si intende per immunità? E quali dovranno essere le percentuali per poter considerare il nostro Paese fuori pericolo? Lo abbiamo chiesto all’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, una delle personalità più autorevoli del mondo scientifico, professore di Igiene e Medicina Preventiva dell’Università di Pisa e Coordinatore della task force della Regione Puglia per l’emergenza Covid-19.
Quindi Professore, che cos’è l’immunità?
«La parola immunità, di per sé, ci dice poco, perché dobbiamo capire di cosa stiamo parlando. La risposta immunitaria è quella risposta che il nostro sistema immunitario mette in atto quando entra in contatto con un microrganismo che scopre essere estraneo, come un virus o un batterio. Si tratta di una risposta complessa perché si divide in diverse fasi, c’è una risposta innata, c’è una risposta immediata e c’è una risposta a lungo termine. Se parliamo della risposta immunitaria a questo virus, ad esempio, abbiamo ancora moltissime incertezze perché è particolarmente complessa e non è analoga a quella di tanti altri virus. Per tanti altri virus, la prima risposta a una nuova infezione sono le immunoglobuline M, le IgM, che sono i primi anticorpi ad essere sviluppati, e questa risposta scende molto velocemente. Nel frattempo si sviluppano le immunoglobuline G, le IgG, che poi rimangono più a lungo nel sangue e dicono che questo soggetto è stato in contatto con il virus in passato. Per la maggior parte delle infezioni, la presenza di IgG significa anche immunità, cioè non essere più suscettibili all’infezione, quindi anche protezione. Questa, che è la risposta normale a tante malattie virali e batteriche, per quanto riguarda il nuovo coronavirus sembra non essere quella canonica. Quindi, per esempio, la sola presenza di immunoglobuline di tipo G nel sangue non è di per sé un segno di immunità di infezione, per cui si capisce bene che questo complica molto tante cose».
I primi test sierologici, anche se per ora su piccoli campioni, sembrano indicare una percentuale che oscilla dal 3% al 10% di soggetti immuni.
«In questi giorni si è parlato molto di sierologia, del fatto di ricercare le IgG e di dare questo famoso “patentino” di immunità. Ecco, la semplice presenza di IgG non vuol dire avere questo “patentino di immunità” cioè un patentino di refrattarietà all’infezione. Non parlerei però di “soggetti immuni”, ma di soggetti che hanno sviluppato anticorpi, che è un’altra cosa. È importante utilizzare le parole giuste, perché un test positivo, che sia per IgM o per IgG, non vuol dire essere immune, ma vuol dire aver sviluppato anticorpi. Se poi, questi anticorpi effettivamente mi proteggono da una reinfezione, è tutto da vedere».
Quali dovrebbero essere queste percentuali per ritenersi al sicuro?
«Per ritenersi al sicuro da una nuova ondata pandemica, queste percentuali dovrebbero comunque salire almeno al 60%. Ci dovrebbe quindi essere una quota di popolazione molto alta per evitare una crescita epidemica della malattia perché, nel caso in cui ci sia un infetto nella popolazione, almeno più della metà delle persone con cui questo soggetto verrà in contatto ha sviluppato gli anticorpi, quindi non dovrebbe prendere la malattia. Per questo la quota dovrebbe essere molto alta. Fino a quando non avremo questa quota, la circolazione del virus l’avremo sempre. E non solo, con una quota del 10-15% ma anche del 20% il rischio di una nuova ondata pandemica è dietro l’angolo».
Quanto dura l’immunità? In Corea del Sud, ad esempio, un gruppo di 51 persone è risultato nuovamente positivo al test dopo essere guarito. Vuol dire che l’immunità ha una durata breve?
«Al momento non abbiamo un dato certo sulla durata dell’immunità. L’esempio della Corea del Sud, però, non credo abbia a che vedere con l’immunità. È più il caso di un gruppo di persone che ha un tampone negativo e poi, dopo qualche giorno, risulta di nuovo positivo al test. Segnalazioni di questo genere non sono rare, anche noi ne abbiamo quotidianamente, e le possiamo spiegare in due modi: o che questo tampone è un falso negativo, cioè che il virus c’era ma il tampone non l’ha rilevato, oppure che effettivamente, ad un certo punto, l’organismo ha in qualche maniera eliminato dalla gola e dal naso, cioè dai tessuti dove si va a cercare il tampone, la presenza del virus nonostante continui a rimanere comunque nel soggetto infettato. Poi, dopo qualche giorno, questa presenza diventa di nuovo manifesta. Non credo quindi che si tratti di reinfezione, e questa è l’opinione anche della maggior parte degli esperti. Parlerei più che altro di una riattivazione».
Cosa dobbiamo fare per ripartire in sicurezza?
«Per aprire in sicurezza bisogna continuare a mettere in atto delle misure di prevenzione del contagio. Non possiamo affidarci assolutamente né su sierologia né su tamponi negativi. Bisogna prevenire il contagio».
L’isolamento domiciliare dei positivi, nella stessa casa con familiari o conviventi che non hanno contratto il virus, è una misura corretta per prevenire il contagio?
«L’isolamento domiciliare deve essere prescritto là dove è possibile farlo, cioè l’isolamento domiciliare vuol dire che la persona sta a casa ma è isolato dal resto della famiglia, quindi avere una stanza propria e possibilmente avere un proprio bagno. Se queste condizioni non sono garantite, perché si vive in un piccolo appartamento, non si ha un doppio bagno, oppure l’appartamento è affollato perché il nucleo familiare è grande, bisogna prevedere altre modalità. Sono allo studio e in fase di implementazione i famosi alberghi, dove mettere le persone che non hanno bisogno di assistenza, perché sono senza sintomi oppure hanno appena un po’ di febbre. Così possono essere tenute separate dal nucleo familiare, messe in isolamento, in maniera che non contagino il resto della famiglia».
Lopalco: “Potremo andare in spiaggia, ma evitando gli assembramenti. Campionato di Serie A? Difficile che riparta”. L'epidemiologo, parlando ai microfoni di Radio24, ha spiegato che i numeri incoraggianti sulla curva del contagio non possono essere l'unico elemento da considerare per decidere eventuali riaperture. Il rischio è quello di fare scelte avventate che possono essere: "La speranza è quella di un vaccino entro fine anno". Il Fatto Quotidiano il 14 aprile 2020. Coronavirus, in vista dell’estate governo al lavoro: “Pensiamo al turismo di prossimità, ma chi ha una casa al mare potrà andarci”. Coronavirus, le prospettive per l’estate. Calo netto degli stranieri in vacanza. Come si andrà in spiaggia? Ipotesi mascherina, ombrelloni distanziati, app. “Ma regole subito o sarà tardi”. Riaperture graduali, ma solo se si possono garantire le distanze di sicurezza. È questa secondo Luigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza coronavirus che ha parlato ai microfoni di 24 Mattino su Radio24, la linea da seguire per avviare la Fase 2 che consenta all’Italia di ripartire. E per salvare la stagione balneare dice: “In una situazione in cui turisti stranieri probabilmente non arriveranno e sarà limitato lo spostamento anche da regione a regione in Italia, se pensiamo a un turismo prettamente locale io credo che le spiagge potranno essere gestibili. L’importante è mantenere un po’ di distanza e non avere assembramenti. Poi speriamo che per questa estate la situazione epidemiologica si sia tranquillizzata, ci sarà probabilmente anche l’estate in sé a rallentare la corsa del virus e stare in casa non sarà più così stringente e consigliato”. Se i dati degli ultimi giorni riguardanti la curva dei contagi sembrano essere incoraggianti, Lopalco vuole comunque specificare che questi non possono essere presi come unico metro per decidere eventuali riaperture: “Il bollettino quotidiano bisogna prenderlo per quello che è, un sistema di sorveglianza epidemiologica e in quanto tale non è un sistema completo – ha aggiunto – Deve dare l’idea dell’andamento dell’epidemia. Sapevamo dall’inizio che per ogni caso notificato ce ne sono probabilmente 3-4 non notificati. Potrebbero anche arrivare a 10 in una situazione grave come nel caso del picco della Lombardia, in cui non era oggettivamente possibile fare diagnostica a tutti”. Il rischio, affidandosi esclusivamente a questi numeri, è quello di prendere decisioni che possono rivelarsi affrettate e controproducenti, come nel caso di alcuni Paesi. Tra questi, Lopalco cita la Francia, con il presidente Emmanuel Macron che lunedì ha annunciato il prolungamento del lockdown fino all’11 maggio, anticipando però che per quella data verranno riaperte le scuole: “Non abbiamo termini di paragone e non sappiamo cosa succederà una volta riaperte le scuole in piena fase epidemica, perché di questo stiamo parlando. In questo momento la Francia si trova in fase epidemica. I rischi sono due, per gli insegnanti e per la diffusione del virus da scuola a casa. Questi sono rischi oggettivi, poi come maneggiare questo rischio dipende dallo Stato e dalla struttura sanitaria. Come minimizzare questo rischio? Non è semplicissimo. Riducendo il numero di studenti in classe, aumentando i turni, scaglionando gli ingressi. Si tratta di ristrutturare completamente le procedure e i processi educativi”. Sicuramente, dice l’epidemiologo, è da considerare impossibile la ripartenza del campionato di Serie A entro la fine dell’anno: “Sicuramente gli stadi non si possono riempire e su questo non si discute. I grossi assembramenti saranno gli ultimi a ripartire. Una partita di calcio a porte chiuse? Bisognerebbe comunque garantire la salute dei giocatori e di tutto lo staff che ruota intorno a loro, ma la vedo difficile”. La principale speranza e obiettivo da perseguire rimane quello di scoprire un vaccino il prima possibile: “La sperimentazione di un vaccino è una scommessa – conclude – Avere un prototipo funzionante prodotto su piccola scala a settembre sarebbe un grosso passo avanti, se questo vaccino funziona, e così si può sperare che per l’inizio del prossimo anno si potrà avviare eventualmente una produzione su larga scala”.
Ilaria Capua: "Il virus non si estingue, nella Fase 2 serve solo mitigare il contagio". Mario Fabbroni su Leggo il 17 aprile 2020.
Dottoressa Ilaria Capua, il prossimo 4 maggio in Italia potrebbe davvero finire il lockdown?
«Chi ha gli anticorpi al Covid-19 può uscire di casa, certo».
E gli altri?
«Con una griglia del rischio ben evidenziata, è inutile tenere tutta la popolazione chiusa in casa. Invece bisogna già andare a caccia degli anticorpi, rovesciando l’approccio alla pandemia. Gli ospedali non sono più al collasso come tre settimane fa, ora sono un punto di forza».
Direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, la virologa Ilaria Capua ha un’agenda degna di una star di Hollywood: telefonate, messaggi, mail e video chat con richieste che arrivano da tutto il mondo. Nota per i suoi studi sui virus influenzali e, in particolare, sull’influenza aviaria, la scienziata che lavora in Usa prova ad indicare all’Italia la strada migliore per uscire consapevolmente dalla paralisi.
La sicurezza sanitaria scatta quando ci sarà l’annuncio dei “contagi zero”?
«No. La parola d’ordine è “mitigare il contagio”, non certo puntare a bloccarlo in una fase come questa. Il virus non si estingue da solo, ha avuto una diffusione rapidissima anche grazie alla notevole mobilità umana. Potrebbe cambiare, magari diventare un’influenza: che, voglio chiarirlo, non è affatto una situazione banale per chi si ammala».
Mitigare il contagio vuol dire conviverci?
«Sì, facendolo uscire per tenerlo sempre più sotto controllo. Ecco perché la consapevolezza del rischio è un fattore fondamentale per la riorganizzazione della collettività. In una griglia del rischio va evidenziato che gli anziani, ma anche i soggetti giovani, sono più vulnerabili se hanno patologie intercorrenti».
Cioé?
«Una malattia che sopraggiunge durante il decorso di un’altra».
Qual è l’errore che si può commettere nella voglia di ripartire?
«Una volta messo in atto il lockdown, si deve andare a caccia degli anticorpi. Solo cercando gli anticorpi nelle persone entrate in contatto con il virus, si potrà tracciare la strada della nuova convivenza sociale»
Il test sierologico può essere utile per accompagnare le prime fasi della riapertura del Paese?
«Non conosco il tipo di test, meglio non esprimersi».
Proprio questo è il punto: ogni Regione annuncia un autonomo tipo di test, alludendo al rilascio di una “patente d’immunità”...
«Meglio sottoporre la popolazione ad un test unico, nazionale, scientificamente valido».
Lopalco, Pregliasco e altri per “diffusione di notizie false sui vaccini”. Rec News il 16/04/2020. Succedeva nel 2019. In una relazione di venti pagine i luminari pro-vax del mainstream venivano sconfessati dai colleghi per aver diramato “falsa scienza”. Un team di sette medici diffidò per iscritto Roberto Burioni, Walter (in realtà Gualtiero) Ricciardi, Pierluigi Lopalco, Fabrizio Pregliasco e Alberto Villani per la diffusione di “notizie fuorvianti, infondate ed errate sui vaccini”. Succedeva il 14 gennaio dell’anno scorso. In una relazione di venti pagine (in basso, nel le) contenente 73 tra rimandi alla letteratura scientifica di settore e dichiarazioni pubbliche, i luminari pro-vax del mainstream venivano sconfessati dai colleghi per aver diramato “falsa scienza”. Alcuni di loro fanno parte del comitato tecnico-scientifico designato da Conte per gestire “l’emergenza coronavirus“, altri del Patto per la scienza. E se già destavano preoccupazione i legami tra Bill Gates e il premier Conte (che il fondatore di Microsoft intimo di Epstein ringraziò pubblicamente per il suo sostegno al Global Fund), adesso il documento spolverato da Rec News desta una nuova luce inquietante su alcuni componenti del comitato tecnico-scientifico scelti proprio dal presidente del Consiglio. Non si tratta solo di quella che i sette medici nella lunga relazione definiscono “disinformazione sui vaccini”, ma del potere decisionale che Conte ha affidato all’organismo, che già in tempi di coronavirus è chiamato a prendere decisioni su tamponi, test, cerotti e vaccini.
Da Non è un paese per giovani - Rai Radio Due il 4 maggio 2020. A “Non è un paese per giovani”, condotto da Max Cervelli e Tommaso Labate su Rai Radio Due, oggi è intervenuto il professor Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Irccs di Milano.
Che situazione sta vivendo in questo momento?
«Siamo più sereni, gli arrivi in pronto soccorso si sono diradati, negli ospedali stanno riducendosi i malati».
Oggi abbiamo visto qualche suo collega un po’ perplesso su come è ripartita la fase 2. Lei oggi è più rasserenato o più preoccupato da quello che vede, dall’aria che respira in giro, rispetto a quello che vedremo tra due settimane?
«Gli Italiani sono usciti un po’ con i piedi di piombo (almeno da quello che vedo a Milano) ed è l’atteggiamento giusto da tenere. Forse siamo anche un po’ spaventati rispetto al fatto di uscire, visto che ormai è inusuale per una quota di popolazione. Mi è stato detto che non erano così intasate le metropolitane milanesi, che sono sicuramente una preoccupazione. Credo che il gioco in questi 15 giorni sarà doversi abituare a questa nuova normalità e adottarla in via sistematica. Spero che ciò che è stato fatto non venga volatilizzato da comportamenti incongrui. Io dico che questa non è una fase 2 ma una fase 1.5 cioè una situazione in cui si dice : cominciate ad aprire, cominciate a uscire e poi vedremo… E’ chiaro che sarebbe stato meglio avere una maggior chiarezza. Come al solito i documenti costruiti con grande velocità, con l’esigenza di tenere conto di particolari che a volte sfuggono hanno creato o possono creare dei dubbi. A mio avviso una partenza uniforme è necessaria, anche perché molte attività lavorative sono interregionali. E’ bene che siamo tutti ai blocchi di partenza uguali e poi magari aggiusteremo il tiro con micro zone rosse. Ma soprattutto due sono i fattori che giocheranno a favore in questa fase: il primo sicuramente è la responsabilità individuale di adottare nel lavoro e nelle situazioni pubbliche cioè il questo distanziamento sociale. Il secondo è la capacità di individuare casi che potranno esserci perché purtroppo questo succederà. Aumentando i contatti aumenteranno le possibilità di contagio».
Qual è il motivo per cui continuano a calare i numeri in terapia intensiva ma abbiamo ancora un numero alto di contagi?
«I contagi che ci sono oggi sono sicuramente più veritieri di quelli che rilevavamo nella prima parte dell’epidemia. Sicuramente sembrano non troppo minori del momento acuto, ma in realtà nel momento acuto a mio avviso erano sottovalutati di dieci volte rispetto al reale, un caso valeva 10! Ora un caso notificato vale 1, 2, 3 casi sommersi».
È possibile che il blocco delle attività e il distanziamento sociale abbiano ridotto anche la quantità di virus circolante. Quindi, in caso di contagio, grazie a una quantità di virus inferiore, ci troviamo di fronte a casi di minor gravità?
«No, purtroppo il virus non è cambiato anzi avendo avuto un maggior spettro di casi stiamo scoprendo cose nuove: i danni a livello cardiaco, il portatore convalescente (che è un aspetto legato alle possibilità di contagio) ovvero all’inizio avevamo dato 14 giorni di tempo di convalescenza ai soggetti che manifestavano i sintomi, oggi stiamo scoprendo (effettuando tamponi) che i pazienti possono essere ancora positivi dopo 30-40 giorni dalla fine dei sintomi, una situazione impegnativa dal punto di vista del controllo di sanità pubblica. Il virus per ora è stabile, varianti si sono viste in Corea del sud, ma dalla letteratura disponibile apprendiamo che non ha variazioni in termini di effetti o di gravità o di letalità. Sicuramente rispetto al passato visto che i casi comunque sono meno numerosi è possibile trattarli con maggior attenzione, si è anche capito come approcciare la terapia seppur con una non ancora definitiva decisione riguardo a quali antivirali usare, ma sicuramente tutta l’attività di assistenza respiratoria viene realizzata con maggior attenzione e soprattutto esperienza».
Quale altro elemento può subentrare nella nostra vita oltre a mascherine, gel disinfettante e distanziamento sociale? Ci saranno i test rapidi effettuati modello drive in?
«Serviranno a capire la diffusione del virus anche in contesti di attività lavorativa ma non possono dare la patente di immunità. Sarà uno strumento in mano al medico del lavoro, al medico di famiglia utilizzato come interpretatore».
Chi ha già avuto il virus sviluppa gli anticorpi, ma questi anticorpi rendono immune il soggetto contagiato o ci possono essere delle ricadute?
«È già una buona cosa che su una casistica abbastanza ampia si sia confermato che gli anticorpi ci sono. Dobbiamo aspettare un po’ di tempo per capire se questa protezione c’è. E’ vero che una gran parte delle malattie infettive una garanzia di protezione più o meno a lungo termine la danno. Guardando al virus della Sars e della Mers questa protezione anticorpale c’è e l’indicazione è che ci dovrebbe essere anche per questo virus».
Il 4 maggio del 2021 lei se lo immagina ancora con le persone che girano con la mascherina oppure no?
«Temo che delle attenzioni il 4 maggio 2021 dovremo ancora tenerle, sperabilmente la situazione dovrebbe andare a migliorare ma temo che questo virus diventerà endemico e ce lo terremo in conto tra i tanti virus respiratori, ce ne sono già 262 più i virus influenzali che fino ad ora sono stati i protagonisti delle stagioni invernali. Spesso si crede di aver avuto un’influenza e invece magari si avevano dei corona virus (non questa variante), che determinano una forma meno pesante della vera influenza. Questo virus si inserirà tra i tanti perché il suo lavoro cercherà di portarlo a termine, cioè di infettare quante più persone possibili. Ad oggi siamo arrivati ad un valore che nelle zone colpite raggiunge probabilmente il 20% della popolazione. Per un virus che ha questa capacità di contagio, i calcoli ci dicono che comincerà a frenare davvero quando avrà colpito il 60% o 70% della popolazione. Di lavoro ne ha, dovremo stargli dietro».
Davvero questo virus è stato creato in laboratorio come ha dichiarato Trump?
«Ciò che si sa ad oggi ne può evidenziare un’origine naturale, indagini genetiche, i confronti con le sequenze dei vari data base che contengono tutta una serie di isolamenti, caratteristiche degli RNA che si susseguono ci fanno pensare che si tratti di un’origine naturale. Non è facile immaginare quali possano essere state le manipolazioni, alcune supposizioni del prof. Montagnier che vedevano le sequenze del virus simile all’HIV in realtà sono sequenze che fanno parte del genoma comune a moltissimi virus. Rimane un’ipotesi da esplorare ulteriormente».
Dagospia il 20 aprile 2020 da Circo Massimo - Radio Capital. "Bisogna valutare giorno per giorno l'andamento epidemiologico. Le cose stanno migliorando, le terapie intensive si stanno leggermente svuotando, ma ancora ci sono almeno tremila casi al giorno. Rispetto a prima, dove non riuscivamo a intercettare tutti i casi, con una sottovalutazione di almeno dieci volte tanto rispetto al reale, ora siamo più capaci di individuare i casi. Però la situazione vede due regioni, Lombardia e Piemonte, ancora molto impegnate. La situazione dovrebbe migliorare nei prossimi giorni, ma più insistiamo più la fase 2 potrà partire con maggiore serenità". Ospite di Circo Massimo su Radio Capital Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università degli Studi di Milano, direttore sanitario dell'Istituto Galeazzi e presidente Anpas, commenta le varie ipotesi di riapertura. "Anticipare le aperture vuol dire aprire rubinetti di contatti, con possibilità di incontri e quindi di rischio di contagio. Sono ancora un po' pessimista sulla riapertura, tenendo anche conto dei due ponti del 25 aprile e 1 maggio. Dopo credo si arriverà a un livello di accettabilità del rischio tale per cui si possa ripartire. Sicuramente le attività strategiche, bar, ristoranti, dobbiamo mandarli molto avanti. Solo così riusciremo a ripartire". "In regioni dove il virus non è diffuso, tantissime persone sono ancora suscettibili, anche più che in Lombardia. La possibilità è che, aumentando gli spostamenti, possano nascere nuovi focolai - spiega Pregliasco - credo che il concetto di regionalizzazione ci sia in un'ottica di individuazione di zone a rischio. Bisogna fare monitoraggio continuo: tutti i cittadini devono avere ancora l'attenzione e la percezione del rischio come approccio alla convivenza civile. Il distanziamento dovrà essere un'abitudine anche nei prossimi mesi". Si è capito da dove arriva questo virus? "Questo virus è veramente perfido, è arrivato in Italia a dicembre -gennaio, il 21 febbraio c'era già un 3% di popolazione colpita a Vo' Euganeo, in un contesto fondamentalmente agricolo. Da qui è partita la diffusione, soprattutto a causa di soggetti asintomatici. Oggi il virus si diffonde nelle famiglie, tramite qualcuno che ha continuato a lavorare, e anche nelle RSA, dove ci sono le persone più fragili". Sui test sierologici, il prof. Pregliasco spiega che "c'è una grande attesa, con una speranza però che il test non può dare, cioè una patente d'immunità. Sono molto sensibili, hanno dei margini di incertezza rispetto soprattutto ai falsi positivi, quindi in caso di negatività c'è maggiore sicurezza del risultato. In caso di positività è necessario ripetere il test e complementarlo con un tampone per verificare se si sono già sviluppati gli anticorpi e se il soggetto è ancora portatore convalescente del virus e quindi contagioso. Sono più preoccupanti i risultati dei cosiddetti test rapidi. Hanno margini di errore che possono portare a situazioni non congrue, qui la falsa positività è ancora più evidente. I test servono non tanto per diagnosticare ma per capire regione per regione la diffusione reale del virus". Infine sulla riapertura delle scuole, secondo Pregliasco "la soluzione migliore è quella più protettiva, cioè rimanere chiusi fino a settembre. Riaprendo ci sarebbero milioni di bimbi, genitori, docenti e addetti alle scuole che si spostano, aprendo così un rubinetto di contatti che determinerebbe un gran numero di contatti. Non abbiamo un'indicazione scientifica, cioè non sappiamo ancora quanto e come aprire questi rubinetti, sono tutte stime che dipendono anche dal contesto sociale e dei territori. Sicuramente bisogna far ripartire le attività strategiche, la pandemia si porta dietro dolori psicologici e danni economici. L'aspetto sociale può essere un po' ritardato - conclude il virologo - richiudere, ricascarci, sarebbe devastante".
Burioni rallenta l’apertura: “Non siamo ancora pronti”. “Siamo alle prese con un’epidemia non ancora... inquadrata”. Cronaca di Verona il 16 Aprile 2020. “Ci sono 5 regole fondamentali – risponde il virologo Roberto Burioni pensando al futuro –. Misurazione della temperatura all’entrata, mascherine per tutti i lavoratori, gel igienizzanti e disinfettanti per superfici, distanziamento sociale evitando assembramenti in mense e spogliatoi, smart working”.
Quanto è alto il rischio che tra maggio e giugno, con le aziende quasi a pieno regime, l’Italia subisca una nuova ondata di casi di Coronavirus?
“Impossibile fare previsioni. Non conosciamo ancora bene questo virus, è arrivato tra noi tre mesi fa. Non sappiamo neanche se con la bella stagione il Coronavirus si trasmetta meno: tutti i patogeni respiratori fanno così”.
Le fa paura la riapertura completa degli uffici e delle fabbriche?
“Mi fa paura l’ipotesi di dover combattere contro il nemico senza armi. Non sono ottimista. Potrebbero verificarsi nuovi focolai e sarebbe un problema. Ho paura che le aziende non abbiano gli strumenti”.
L’Italia è pronta?
“La decisione di ripartire è politica, non ha niente a che vedere con la scienza: noi possiamo minimizzare il rischio. Io dico: bisogna sapere che dimensione ha l’epidemia. I numeri che ci danno non sono reali. Serve uno studio su un campione indicativo della popolazione per non navigare nel buio. È indispensabile, poi, un tracciamento digitale dei casi di contagio”.
Ci sono casi esteri da prendere come esempi virtuosi?
“Siamo i primi ad aver avuto l’epidemia, a parte la Cina che ha una situazione sociale molto diversa. Per questo dobbiamo porci noi il problema. Il Paese si è impegnato moltissimo, ma in molte aree non stiamo facendo abbastanza: non ci sono mascherine per i sanitari, non c’è l’isolamento”.
Con una seconda ondata di contagi è inevitabile un altro lockdown nazionale o è possibile lasciare le attività aperte?
“Spero che se si riapre, lo si faccia con giudizio e sicurezza. Un altro lockdown vorrebbe dire che sono stati commessi errori, non deve accadere”.
Si sta pensando di imporre alle aziende investimenti sulla sicurezza: dalle porte automatiche a un ampliamento degli spazi per il distanziamento?
“Chiedere di installare tutte queste cose è dura in 15 giorni, ma mettere a disposizione del gel igienizzante è già importante”.
L’ipotesi che il virus stia perdendo la sua carica virale è confermata?
“Il ceppo italiano non ha messo in evidenza mutazioni in grado di cambiare la contagiosità o la gravità della malattia”.
All’estero annunciano di riaprire le scuole. Perché a noi fa tanto paura?
“Noi abbiamo un’epidemia che non è sotto controllo”.
Coronavirus, bollettini non attendibili al 100%. Burioni: “Non lo capisco neanch’io”. Redazione TifosiPalermo.it il 17 Aprile 2020. Nei giorni scorsi vi abbiamo proposto un’analisi su quanto siano veritieri i dati del bollettino giornaliero della Protezione Civile, che ogni giorno alle 18 si presta a divulgarlo per il pubblico. Il dubbio rimane a tutti, anche chi è un po’ più esperto nel settore. Il numero di tamponi effettuati cambia ogni giorno e quindi è un duro lavoro stilare una serie di statistiche attendibili. E’ la domanda che fa Marco Lollobrigida, giornalista e conduttore televisivo di Rai Sport, al medico Roberto Burioni su Twitter. La risposta del professore può sconvolgere tutti: “Non lo capisco neanch’io perché non si riesce ad avere una statistica attendibile”. Da questa dichiarazione si può evincere benissimo che il numero dei positivi in diminuzione non è vero al 100%.
Burioni: “Eparina? L’AIFA consulta troppo whatsapp”. "Perché non dare credito alle fantastiche notizie che girano su whatsapp?". Fonte: The Social Post. Redazione.statoquotidiano.it il 17/04/2020. Dopo il caso Avigan, Roberto Burioni prende nuovamente di mira l’Agenzia italiana del farmaco. Stavolta si tratta del via libera dato ieri dall’Aifa allo studio dell’eparina a basso peso molecolare in 14 centri italiani contro il Covid-19. “Coronavirus, Aifa dà l’ok a studio su eparina – scrive infatti su Twitter il virologo condividendo un articolo sul tema -. Come per Avigan, decisiva per l’approvazione dello studio la circolazione su whatsapp di notizie senza fondamento“. E ancora: “Fare uno studio serve a capire se l’eparina funziona, non che l’eparina funziona. L’AIFA ultimamente consulta troppo whatsapp, secondo me”. In una serie di tweet successivi, il virologo pubblica e commenta gli screenshot di quello che sembrerebbe un lungo messaggio condiviso sui social – dal titolo ‘Coronavirus, mortalità non per polmonite interstiziale ma per trombosi’ – attribuito dall’autore sconosciuto a un ‘collega cardiologo di Pavia’. E attacca: “Con l’eparina – cita Burioni – ‘si esce da questo casino in quattro e quattr’otto’; con l’Avigan il Giappone era libero e bello: perché non dare credito alle fantastiche notizie che girano su whatsapp?“. E a chi gli fa notare che “c’è anche uno studio pubblicato sul BMJ sull’eparina e il COVID19” e che il farmaco viene utilizzato già da tempo in modo sperimentale da alcune strutture ospedaliere, Burioni replica: “Non critico l’approvazione, faccio solo notare il tempismo“. (ADNKRONOS)
FASE2, BURIONI PROSPETTA BAVAGLIO ALLA STAMPA? LORUSSO: «SCIENZIATI PENSINO AL LORO LAVORO». Redazione Napolitan.it il 17 aprile, 2020. «Mascherine per tutti e bavaglio alla stampa. Se questa è la fase due dell’emergenza immaginata dalla rivista online Medical facts, a direzione Roberto Burioni, va subito rispedita al mittente, almeno nella parte che riguarda gli organi di informazione. Pensare, come riferisce l’agenzia Askanews, che sia necessaria una “condivisione della strategia comunicativa con l’Ordine dei Giornalisti e i maggiori quotidiani a tiratura nazionale, nonché le principali testate radio-televisive pubbliche e private per evitare i danni potenziali sia dell’allarmismo esagerato che della sottovalutazione facilona o addirittura negazionista (utilizzando anche l’esperienza sul campo nel rapporto medico-paziente)” significa voler dettare la linea alla stampa italiana». Lo afferma, in una nota, Raffaele Lorusso, segretario generale della Federazione nazionale della Stampa italiana. «Così come nessun giornalista di buon senso si sognerebbe di mettere in discussione la competenza del professor Burioni e degli scienziati che collaborano con la sua rivista – prosegue Lorusso –, allo stesso tempo la comunità scientifica deve rispettare il lavoro e la libertà dei giornalisti e degli organi di informazione. Un conto è il contrasto alle fake news in ambito medico-scientifico, e su questo fronte il giornalismo professionale è in prima linea, un altro immaginare una regia unica dell’informazione, per giunta con la collaborazione di qualche organismo della professione. Sarebbe la negazione del pluralismo dell’informazione, del diritto di cronaca e di quella libertà di espressione che, comunque, non esimono i giornalisti dal rispetto della verità sostanziale dei fatti». «Dal professor Burioni e dai suoi collaboratori, peraltro presenti come non mai sui più importanti organi di stampa, ci si aspetta la moltiplicazione degli sforzi per arrivare alla scoperta di una cura e di un vaccino efficaci contro il Covid-19, non l’elaborazione di modelli che porterebbero al pensiero unico. Anche e soprattutto in tempi di emergenza – conclude il segretario FNSI – è bene che ciascuno faccia il proprio mestiere senza invasioni di campo».
La Gismondo ora smonta Borrelli: "Ecco la verità sui numeri in tv..." Maria Rita Gismondo fa chiarezza sui dati diffusi ogni giorno in conferenza stampa dal capo della protezione civile, Angelo Borrelli: "Sono vecchi di giorni". Michele Di Lollo, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. I numeri sono sballati. O, meglio, sono vecchi di giorni. Ecco tutta la verità sui dati trasmessi in televisione, più o meno puntuali, ogni pomeriggio alle 18, dal capo della protezione civile Angelo Borrelli. È quanto afferma Maria Rita Gismondo, direttore microbiologia clinica e virologa all’ospedale Sacco di Milano. In un articolo apparso oggi su Il Fatto Quotidiano la professoressa si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Complice magari la polemica che nei giorni scorsi l’aveva vista protagonista. L’associazione Patto trasversale per la scienza (Pts) aveva inviato alla Gismondo una diffida legale "per le gravi affermazioni ed esternazioni pubbliche sul coronavirus, volte a minimizzare la gravità della situazione e non basate su evidenze scientifiche". Sono passate settimane da quella questione. Magari la diretta interessata non se ne sarà curata neppure troppo, ma la questione sollevata dalla virologa è seria. In Italia si moltiplicano i tavoli contro il coronavirus, però i dubbi su questa malattia restano alti. "La politica ha giustificato il potere centrale con la governance di un’emergenza, poi ha dovuto cedere all’anarchia del sistema regionale", scrive lei. Con le relative conseguenze di caos e disordine. Siamo in una situazione difficile. La costernazione dei cittadini che attendono giornalmente i numeri da cui ormai dipende la propria vita arriva puntuale al cuore del problema. I provvedimenti presi e poi ridimensionati, nazionali e non regionali o viceversa, mischiano le carte. In tutto questo marasma è difficile mantenere un’attenta razionalità ed equilibrio mentale. Tutto è liquido. Tutto appare scivoloso alla comprensione umana. "In questa situazione non vorremmo assistere a scandali, inchieste. Vorremmo dimostrare a noi stessi che chi sta gestendo la nostra vita sta agendo solo per il nostro bene", scrive ancora la professoressa. "Vorremmo che fossero credibili loro e le loro azioni. E invece scopriamo che la conferenza stampa borrelliana delle 18 è inutile per lo scopo dichiarato di darci un aggiornamento della situazione, anzi confonde le idee". Non solo i numeri, come abbiamo più volte affermato, non rispecchiano la realtà (i positivi non rappresentano la popolazione e variano al variare della capacità dei laboratori a eseguire i test), ma sono anche non contestualizzati. Un’accusa grave della virologa. Quello che ogni giorno gli spettatori interpretano come la situazione del giorno precedente, deducendo che va bene o va male, è in realtà la situazione di circa 10-12 giorni prima. Il perché è presto detto. I numeri che vengono passati a Borrelli sono le notifiche dei casi da parte delle regioni che, non ci stupisce, ci mettono qualche giorno per recepirli dai laboratori, raccoglierli, controllarli (si spera) e inviarli al ministero della Salute. Ciò significa, appunto, che i dati arrivano al tavolo della conferenza dopo almeno 8-10 giorni da quando sono state eseguite le analisi. Non è che ci raccontino fandonie, ma una visione in differita della realtà. Esattamente la realtà di giorni addietro. Che non è affatto inutile, ma a patto che ce lo spieghino, anziché far intendere che si tratti degli indicatori dell’andamento giornaliero della pandemia in Italia. Insomma, la denuncia è chiara: le istituzioni devono essere limpide, trasparenti, nel loro lavoro. Milioni di italiani aspettano con apprensione quei numeri snocciolati in conferenza stampa. Ed è giusto essere informati su quando i dati sono stati raccolti.
La virologa Gismondo: "Ecco tutti i misteri sul coronavirus". "Nessuno può pretendere né mai saprà la verità”, sottolinea la direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano. Andrea Pegoraro, Martedì 31/03/2020, su Il Giornale. Da dove è arrivato il coronavirus? Virus naturale o costruito in laboratorio? “Nessuno può pretendere né mai saprà la verità”, sottolinea Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano. La virologa analizza la possibile origine dell’epidemia e come si è sviluppata, ma i dubbi comunque rimangono.
Origine del Covid-19. La virologa spiega che “l'ipotesi del complotto ha assunto un profilo ufficiale”, in quanto un funzionario governativo cinese ha accusato gli Stati Uniti di averlo portato in modo involontario durante i Giochi internazionali dei militari di Wuhan a novembre del 2019. Gismondo evidenzia poi che uno studio del Kusuma School of Biological Sciences dell’università di Delhi “ha evidenziato strane evidenze di inserti in coronavirus di proteine di Hiv” ma la ricerca 2è stata stranamente ritirata due giorni dopo la pubblicazione”. Una recente pubblicazione sulla rivista Nature ha invece avuto maggiore successo, almeno secondo quanto riportato dalla dottoressa. Nello studio si dimostra come il Covid-19 possa essere di origine naturale. “Comunque la si voglia pensare - ha precisato Gismondo - non esiste una proprietà transitiva che affermi virus naturale = virus non diffuso volontariamente o scappato dal laboratorio”.
Storia del virus. Su Il Fatto Quotidiano, la virologa ripercorre poi la storia del coronavirus. Le riviste scientifiche The Lancet e Nature hanno scritto che l’infezione ha iniziato a diffondersi nella primi metà di dicembre dello scorso anno. In quell’occasione si erano verificati 41 casi di polmonite a Wuhan, capitale della provincia dello Hubei in Cina. Questa polmonite non aveva una causa chiara. “Si era detto che probabilmente - ha proseguito la dottoressa -, visti gli usi di macellazione e di vendita di diversi animali in questi tipici mercati cinesi, come era avvenuto per il coronavirus della Sars, anche per questo nuovo virus l'origine fosse stata un mercato "umido" (mercati dove si vende e si macella ogni tipo di animale domestico e selvatico) della città di Wuhan”. La virologa precisa però che si è presto verificato come il primo caso registrato fosse una persona che non era andata al mercato ittico di Wuhan. E riporta quanto scritto su The Lancet, che fa risalire il primo caso al 1° dicembre: “Nessuno dei suoi familiari ha sviluppato febbre né altri sintomi respiratori” e inoltre "non ci sono legami epidemiologici fra il primo paziente e gli altri casi". Infine, una ricerca cinese dell'ospedale Jin Yin-tan di Wuhan ha studiato i primi 41 casi e ha scoperto che 27 individui, pari al 66%, erano stati al mercato a partire dal 10 dicembre, gli altri no. Le risposte agli interrogativi della Gismondo in questo momento non ci sono. Ma di fatto l'ipotesi al momento più accreditata nel mondo scientifico è che il virus sia di origine naturale.
Coronavirus, lo sfogo duro della Gismondo "Il test Event a cosa è servito?". La virologa chiede perché non siano state seguite le indicazioni riportate nei documenti stilati dopo le esercitazioni per le emergenze come quella del 2019 che simulava una pandemia da coronavirus. Gabriele Laganà, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. La direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale "Sacco" di Milano, Maria Rita Gismondo, sembra non avere più dubbi. Dopo le prime affermazioni sul coronavirus, che considerava essere una infezione poco più forte di una influenza, ora pare aver cambiato posizione. Già nei giorni scorsi, a seguito della lettera di diffida legale inviatale dal Patto trasversale per la scienza per le due dichiarazioni in merito alla malattia, la virologa aveva provato a difendersi affermando che anche altri colleghi avevano sostenuto una tesi simile. "Se chiedono a me di fare un passo indietro sulle mie dichiarazioni, devono farlo anche per quelle del virologo Pregliasco, di Ilaria Capua e del direttore dell'Oms. Non devo dimostrare nulla perché quello che ho detto è pubblicato ovunque. La Capua, ad esempio, ha detto che questo virus diventerà come un raffreddore". La stessa Gismondo aveva anche affermato di aver espresso un proprio parere, spiegando che Covid-19 è un virus ancora sconosciuto che potrebbe rivelarsi positivo o negativo. Ora, in una lettera al Fatto Quotidiano, invita tutti a far tesoro di quanto sta accadendo in questo drammatico periodo. Questa terribile esperienza, per la virologa, deve servire per prepararsi a quanto potrebbe accadere in un prossimo futuro. "Passata la pandemia Covid-19 comincerà il countdown verso la prossima pandemia. Se tutto andrà bene avremo otto, dieci anni di tregua: impieghiamoli al meglio. Non è stato così dall’ultima pandemia (la suina del 2009)", ha scritto la Gismondo. La virologa ha anche spiegato che, proprio per prepararsi a scenari di emergenza sanitaria, in passato ci sono state diversi "addestramenti": "Event 201 è l’ultima di quattro esercitazioni relative a uno scenario di pandemia. La prima, Dark Winter, si era svolta nel giugno 2001 (dopo l’allerta antrace); Atlantic Storm nel 2005 (dopo la Sars); e Clede X nel maggio 2018. Event 201 si è tenuta il 18 ottobre 2019 a New York (sic!) con una pandemia da coronavirus simulata". Tralasciando la casualità tra l’ultima esercitazione e la pandemia appena iniziata, la Gismondo si dice stupita che nei documenti redatti dopo il lavoro siano state sempre comprese alcune raccomandazioni da tener presenti per prepararsi ad una emergenza sanitaria. Fra queste vi è l’invito rivolto a tutte le nazioni di mantenere un adeguato stock pile, o scorta essenziale, che include i Ppi, le protezioni individuali come guanti, mascherine e camici monouso e i farmaci tra cui antidoti, antibiotici e vaccini. Inoltre, nello stesso documento si invitano i Paesi ad avere un piano di riconversione sanitaria che permette un rapido utilizzo dei posti letto in base all’emergenza. "Se queste esercitazioni non fossero rimaste documenti sulle scrivanie dei burocrati del mondo, non saremmo qui a elemosinare materiale necessario tra uno Stato e l’altro. Non avremmo decine di tavoli tecnici che si inventano (adesso) come organizzare l’emergenza sanitaria", ha scritto la virologa che, infine, ha aggiunto come l'emergenza sanitaria legata al coronavirus "che stiamo vivendo, fra le possibili pandemie ipotizzate, non è certo la più grave. Impareremo la lezione? Dobbiamo!".
Coronavirus: vaccino o terapia? Perché il contrasto tra scienziati. Giovanni Bernardi il 17/04/2020 su lalucedimaria.it. L’opinione controcorrente del virologo Giulio Tarro, che spacca ancora la comunità scientifica: l’attesa per il vaccino sarà inutile, serve piuttosto una terapia antivirale efficace. All’interno della comunità scientifica continuano le voci dissonanti su come fronteggiare il coronavirus: vaccino o terapia?
Tarro è un virologo di fama internazionale, primario in pensione dell’Ospedale Cotugno di Napoli che ha reagito in maniera pronta al virus, e già all’inizio della crisi sanitaria le sue opinioni, riprese anche dal critico d’arte Vittorio Sgarbi, hanno fatto discutere. Tuttavia, la sua idea non è cambiata molto nel corso delle settimane. A differenza di altri virologi, attacca Tarro, citando in particolare Roberto Burioni, che affermavano “che il rischio di contrarre il virus fosse zero perché in Italia non circolava, quando invece era già in giro da tempo”.
Tarro: inutile il vaccino, serve una cura. Per Tarro il coronavirus “potrebbe sparire completamente come la prima Sars; ricomparire come la Mers, ma in maniera regionalizzata o diventare stagionale come l’aviaria. Per questo serve una cura più che un vaccino. Il fatto che in Africa non attecchisca mi fa ben sperare in vista dell’estate”. In ogni caso, “né per la prima Sars, né per la sindrome respiratoria del Medio Oriente sono stati preparati vaccini, si è fatto, invece, ricorso agli anticorpi dei soggetti guariti”. Per la sua opinione, quindi, il vaccino potrebbe essere inutile, e per questo bisogna tornare al più presto alla normalità. “Se il virus ha come sembra una variante cinese e una padana, sarà complicato averne uno che funziona in entrambi i casi esattamente come avviene per i vaccini antinfluenzali che non coprono tutto”.
Il virologo di fama internazionale Giulio Tarro, spesso controcorrente riguardo alla cura per il coronavirus. Secondo lui non serve un vaccino.
La strategia di contrasto al virus e la crisi italiana. La soluzione starebbe nel preparare una terapia antivirale efficace. “Una cura che potrebbe arrivare anche per l’estate. Spero che la scienza e il caldo possano essere alleati. E confido che potremo andare a fare i bagni. Troppa gente parla del coronavirus senza avere il supporto dei dati scientifici e senza le giuste conoscenze”. La strategia di contrasto al virus ha infatti messo in crisi il governo italiano e l’intero sistema paese. I politici si sono affidati ai virologi delegando a loro ogni decisione. Tuttavia, questo si sono fortemente divisi al loro interni, facendo peraltro nel tempo affermazioni che venivano prontamente smentite. Nel frattempo, le regioni italiane procedevano in maniera asimetrica e spesso caotica per fronteggiare una grave emergenza che produce ancora nuovi contagiati e numerose vittime. E lo stesso si sta vedendo ora nel momento in cui si prova a decidere come ripartire, e quando.
La voce controcorrente del virologo Tarro. Il questo contesto si inserisce la voce del virologo Tarro che parla di esagerazione nella considerazione che si ha avuta per questo virus, che “fortunatamente non ha la stessa mortalità della Sars e neppure della Mers che uccideva un malato su tre”, ma che al contrario “non è letale per quasi il 96% degli infetti”. Il virologo Roberto Burioni è stato attaccato da Giulio Tarro. Inizialmente parlava di rischio zero, poi ha dovuto ricredersi, ha affermato Tarro. Le accuse del professore vanno ai tagli della sanità degli ultimi anni, che avrebbero messo in crisi il sistema specialmente in Lombardia, che inoltre “ha perso troppo tempo tra la dichiarazione dello stato d’emergenza del 31 gennaio e l’attivazione di misure ad hoc per fronteggiare l’emergenza”.
La reazione non adeguata al coronavirus. E soprattutto alla reazione non adeguata, secondo il professore, del governo italiano. “Francamente non si è capito quale sia stato l’approccio del governo e le misure di contenimento sono state prese in ritardo”, dice. “Perché quando abbiamo avuto le notizie dalla Cina, i francesi sono intervenuti subito sui posti in terapia intensiva e noi no? Abbiamo preferito bloccare i voli con la Cina: una misura davvero inutile. Per non parlare poi del caos mascherine. La verità è che all’inizio non le avevamo quindi si diceva che dovessero usarle sono medici e pazienti, poi siamo diventati produttori di mascherine e quindi diciamo che servono a tutti”.
L’errata comunicazione e la pretesa di oggettività che non c’è. Le stesse critiche arrivano anche per la strategia di comunicazione che è stata adottata. “L’allarme è fonte di stress e lo stress, paradossalmente, determina un calo delle difese immunologiche. Lo sanno tutti gli esperti, eppure ogni giorno assistiamo a questi inutili numeri che comunica la Protezione civile”. Diverse immagini vista al microscopio del coronavirus. Si cerca il vaccino ma per Tarro basta una cura adeguata. Ma i dati che arrivano ogni giorno non sarebbero utili. Il numero dei contagiati è inesatto, i dati reali sono molto più alti, quindi anche la percentuale della mortalità reale sarebbe molto inferiore. Tuttavia, resta alta la confusione e le contraddizioni che ogni giorno si propagano anche all’interno della comunità scientifica. Segno che la pretesa di oggettività che spesso viene rivendicata, in realtà, è molto lontana dall’essere tale. Giovanni Bernardi
TARRO: SI ALLA TERAPIA. IL VACCINO PUO’ ATTENDERE. Giovanni Coscia su Agropolinews.it il 17 aprile 2020. Le maggiori riviste scientifiche di tutto il mondo, a partire da quelle americane, sancirono e stabilirono, considerati i risultati ottenuti, che il Prof. Giulio Tarro, Virologo di fama internazionale e vanto Italiano, fosse anche per l’anno 2019, il PIU’ GRANDE VIROLOGO AL MONDO. Ne parlarono a caratteri cubitali, mettendo in risalto le grandi capacità professionali di un uomo che in questo silenzio forzato, o magari imposto, inizia a dare, forse, fastidio a qualcuno. E così, dopo l’intervista a Porta a Porta, il programma di Bruno Vespa, Tarro insiste sulle sue posizioni acclarando che la prima strada da percorrere è quella della terapia, nel mentre, i tempi di attesa del vaccino saranno molto lunghi. L’estratto della sua dichiarazione la riportiamo di seguito.
“IN QUESTO MOMENTO, NEL QUALE SIAMO IN PIENA EPIDEMIA, IL VACCINO E’ UN SISTEMA DI PREVENZIONE. PERCIO’ IL VACCINO, FRA L’ALTRO, PER LA ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ POTRA’ ESSERRE PRONTO TRA 18 MESI. ALLORA A QUESTO PUNTO E’ CHIARO CHE E’ MOLTO PIU’ IMPORTANTE RISPETTO AD UN VACCINO, INTERVENIRE CON GLI ANTI VIRALI, CON ALTRI SISTEMI TERAPEUTICI PER I PAZIENTI. PROPRIO SIA UNA COSA DI BUON SENSO. D’ALTRA PARTE PER IL VACCINO, NOI ABBIAMO AVUTO L’ESPERIENZA DELLA PRIMA SARS,IN CUI NON E’ STATO PRODOTTO ALCUN VACCINO! ABBIAMO AVUTO LA SECONDA SARS, CHE SAREBBE QUELLA DEL MEDIO ORIENTE, CON UNA ALTA MORTALITA’ UN TERZO DEI CASI E QUI SONO STATI TROVATI FORTUNATAMENTE, PRIMA GLI ANTICORPI MONOCLONALI UMANI, MA POI SOPRATTUTTO IL SIERO DEI PAZIENTI GUARITI PER INTERVENIRE CON NORMALI ANTICORPI IN AIUTO DEI MALATI. GLI ANTICORPI DIVENTANO UN FATTO IMPORTANTE PERCHE’ ABBIAMO L’ESPERIENZA CINESE E SAPERE IN QUANTITA’ QUANTO SERVE: OVVERO 200 ML (un quinto di un litro) DEL PLASMA DI QUESTI SOGGETTI GUARITI PER VENIRE INCONTRO ANCHE AI CASI PIU’ GRAVI, PRATICAMENTE. E’ UN FATTO COSI’ “NORMALE”. I TEMPI PER L’USO DI QUESTI ANTICORPI ED IL LORO USO? E’ BELLO E PRONTO. PRATICAMENTE DALL’OGGI AL DOMANI. ABBIAMO GLI ANTICORPI E SI SOMMINISTRANO, COME HANNO FATTO IN CINA.
Perché or dunque, continua un certo sistema o criterio a non prendere nella dovuta considerazione quanto affermato dal grande prof Giulio Tarro? Perchè non sperimentare quanto asserito dal più grande virologo del mondo? Perche’ si rema eventualmente contro? Proviamo con questa soluzione ennesima. Eppure Tarro è lo scienziato che isolò il virus del colera. E non solo. E’ lo scienziato che con Sabin, realizzò l’anti POLIO. Ma Tarro deve essere messo nelle condizioni di gestire questo momento difficile. Non dimentichiamo che sin dall’inizio, in molti sostennero che non v’era preoccupazione alcuna, ne tanto meno di una epidemia o pandemia. Vero Burioni? E come te tanti altri. Giovanni Coscia
TARRO: PERCHE’ NON TI DANNO ASCOLTO? Giovanni Coscia Agropolinews.it il 17 aprile 2020. Quanti sapientoni e quanti esperti, che sino ad oggi non hanno trovato soluzione alcuna per combattere il COVID19? A quale sistema, fa paura il virologo Giulio Tarro? La sua non è una voce fuori dal coro. E’ una chiara forma espressiva medica di uno scienziato, di una concezione differenziata dal sistema che all’unisono porta avanti una teoria, ma che sino ad ora, nulla ha risolto e promettono quell’orizzonte, che lo vedi, ma mai si raggiunge. E così gli SCIENZIATI, che attorniano i governi e che consigliano sul da farsi. Eppure tra le tante voci, quella del prof Tarro, sembra avere una sorta di epidemia, come se necessitasse tenere a distanza le sue dichiarazioni. Le ultime del virologo più famoso del mondo, ovvero, l’uomo-scienziato che isolò il virus del Colera, e non solo, forse, danno fastidio non a pochi ma a moltissimi. Addirittura a troppi, considerato che la soluzione proposta da Tarro, potrebbe risultare risolutiva ed in tempi ristrettissimi e questo potrebbe rappresentare la batosta o la morte lavorativa per molti medici o virologi, che sino ad ora insistono su come portare avanti la condizione del Coronavirus. Tarro, ha infatti dichiarato che “il vaccino è un sistema di prevenzione, però bisogna attendere almeno 18 mesi affinché l’OMS, organizzazione mondiale della sanità, possa prepararlo e diffonderlo definitivamente. Dunque,- ha dichiarato Tarro – bisogna intervenire con gli anti virali e con altri sistemi terapeutici. Per la SARS, non vi fu nessun vaccino. Quindi, – chiude il prof Tarro – bisogna intervenire con i normali anticorpi, che diventano un fatto importante considerata l’esperienza del passato su alcune epidemie. Serve infatti, per l’anti virale, una piccola parte del plasma dei soggetti guariti, circa 200 ml ed iniettarli nelle persone ancora affette dal virus. Si risolve dall’oggi al domani. Ecco cosa fa paura. Le parole di Tarro, rimbombano come un tuono a ciel sereno. Perché non danno seguito a quanto afferma il famoso virologo? Cosa accadrebbe se, nelle prove da lui esposte, realmente si guarisse? Che ne sarebbe di Burioni, che ha fornito gli attuali criteri al governo, per condurre questa pandemia? E pensare che lo stesso, aveva affermato nel mese di febbraio, che non v’era alcun pericolo e che il coronavirus, non rappresentava alcun rischio. Cosa accadrebbe quindi anche alla OMS? Cosa ai poteri forti? Chi gestisce la macchina del potere? E le case farmaceutiche? Quanti miliardi spesi in questi mesi? Per non parlare delle destabilizzazioni diplomatiche e politiche. E per non aggiungere i danni economici a milioni di aziende, p. IVA, artigiani, liberi professionisti ed altro. Ecco perché Tarro è la voce fuori dal coro. Metterebbe a nudo il RE. E per tutti sarebbe una sconfitta oltre che una vergogna. La verità forse fa male. Ma almeno provi il governo e l’ISS, (istituto superiore della sanità) a smentire Tarro. Leviamoci questo dubbio noi tutti. Sino ad oggi, pare, tutto sia andato a puttane. Il governo “sociale”, ha adottato un famoso detto: “ME NE FREGO”. Chissà perché in certi casi va bene ed in altri si è fascisti logori. Francamente non lo comprendo. Ma il governo sarà responsabile anche sulla scelta di non provare la teoria di una grande Virologo. Tarro darà dimostrazione a tutti, dell’inefficacia politica e gestionale. E troppi sapientoni, dovranno rimanere a casa e ripagare noi italiani, dei danni subiti. Magari la risposta o la risoluzione è meno difficile di quanti ti aspetti. Ma almeno proviamo la teoria di Tarro. Sarebbe un aiuto agli Italiani ed al mondo intero. Ci toglieremo dai coglioni, gli inefficienti politici e quanti sino ad oggi, stanno sperperando miliardi di euro, per chissà quale ragione inutile. Ma in Italia funziona così, sempre? Tutti alla ricerca della solidarietà? Cosa ha donato la solidarietà? Inoltre è inutile cantare dai balconi, non serve a un tubo e la canzone, non ha dato nemmeno speranza alla speranza. Giovanni Coscia
COVID 19 – LE RISPOSTE DEL VIROLOGO GIULIO TARRO. Lavocedellevoci.it il 10 Aprile 2020. Abbiamo chiesto al professor Giulio Tarro di dare una risposta scientifica ai tanti quesiti che assillano i cittadini di tutto il mondo ed in particolare gli italiani. Lo ringraziamo per questo prezioso “vademecum”, scritto per i lettori della Voce.
Fino a meno di 20 anni addietro i coronavirus rappresentavano una famiglia virale che durante il periodo invernale causava dal 10 al 30% dei raffreddori. Adesso il nuovo coronavirus COVID-19 da una malattia febbrile con impegno nei casi più severi di una polmonite che può avere la necessità perfino di un respiratore. L’epidemia in Cina è terminata. Come secondo paese spetterà a noi, purtroppo pagando un tributo maggiore di vittime soprattutto basato sulla confusione che regna tra i governanti, i tuttologi e l’informazione che non distingue la verità dalle fake news. Se guardiamo a Milano che è sempre stata il fiore all’occhiello della sanità italiana, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Noi dobbiamo sperare da una parte nell’ambiente, sicuramente l’ambiente è migliore e quindi contrario al virus. E soprattutto alle esperienze precedenti, in cui non abbiamo dato i numeri, nel senso che siamo riusciti a passare il colera, il male oscuro, la salmonellosi, l’inizio dell’Aids, e le varie influenze che si sono alternate, in cui a un certo punto abbiamo fatto più diagnosi degli altri, e quindi per questo avevamo più casi. Diciamo pure che l’anno scorso abbiamo avuto un’influenza per sei milioni di italiani, con 10.000 morti. Se l’Istituto superiore di sanità dice che praticamente il 98% dei morti sicuramente non muore per il coronavirus, c’è stato un concentrato di pazienti che hanno bisogno di terapie intensive, che ha fatto scoppiare il problema sanitario. Dobbiamo avere l’esperienza commisurata altrove. In Cina è iniziata a novembre-dicembre, ed è stata comunicata ufficialmente il 31 dicembre dall’Organizzazione mondiale della sanità. Abbiamo avuto un picco sicuramente che è stato a gennaio, sempre a crescere, e a febbraio. Poi è cominciata a scendere, e ora in Cina l’epidemia non c’è più. Perché noi dovremmo avere un aspetto diverso? Ponendo i dati su un grafico di coordinate cartesiane si vede benissimo che il numero dei nuovi casi è incominciato a livellarsi nella Corea del Sud, mentre i nuovi casi in Italia sono continuati a crescere in maniera esponenziale. Le misure restrittive imposte alla popolazione daranno il loro effetto quando questo picco comincerà la sua discesa come sembra avvenire dal 22 marzo e poi dal 28. D’altra parte l’epidemia in Cina è già terminata. Abbiamo un bollettino di guerra. Anziché dire cosa è successo e perché è successo, perché non hanno detto che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letti per la terapia intensiva, passati da 575 per 100.000 abitanti, a 275 attuali? Questo per una politica che ha sbagliato, a livello sanitario, dal 1997 al 2015. Ci si è messi in queste condizioni, come se venisse un terremoto e uno non sapesse cosa fare, perché non ha usato il cemento armato. E lo stesso vale nel nostro caso. Nemmeno quando è scoppiata l’epidemia attuale in Cina abbiamo fatto niente per raddoppiare i posti letto, come hanno fatto i francesi. Non è stato fatto niente. La Cina ha fatto tre ospedali in due settimane, noi stiamo ancora a fare distinzioni se dobbiamo soccorrere prima i giovani o gli anziani, che sono pieni di problemi. Abbiamo delle situazioni a livello non solo culturale, ma etico, proprio indecenti. Per permettere alle strutture sanitarie interventi mirati dobbiamo fare a meno di una informazione che provoca ansia e piena di falsi appelli “a non farsi prendere dal panico”, perchè a questo punto anche una influenza stagionale non dico dell’anno scorso, ma di quegli anni in cui effettivamente è stato notato un incremento dei casi – vedi l’aviaria, la suina, quella stessa di quest’anno – avrebbero potuto portare ad una simile emergenza. Napoli ha l’esperienza del colera, del male oscuro, delle salmonellosi, dell’inizio dell’AIDS quando non esisteva la terapia, delle influenze recenti, l’aviaria e la suina quando i valori dei contagiati e le stesse mortalità ne hanno fatto la prima regione italiana, distinguendosi però per la buona sanità, ossia una diagnosi vera rispetto al resto dell’Italia. Il periodo di incubazione esteso fino a 14 giorni rappresenta non solo il tempo necessario per la replica virale e quindi la sintomatologia, ma anche per stabilire la sua contagiosità. E’ un fatto che la libera circolazione del virus aumenta le possibilità di contagio ma anche l’immunizzazione e quindi la protezione dalla malattia. Se il virus circola produrrà un’infezione e l’infezione porterà anche la risposta dell’organismo con degli anticorpi, quindi questi soggetti saranno immuni. Il soggetto asintomatico è anche infettante, ma una volta prodotti gli anticorpi il virus viene neutralizzato e pertanto diventa guarito e non più contagiante. Un vaccino specifico che prevenga la diffusione di questa epidemia da COVID-19 deve essere preparato con tempi minimi che tengano presente la sicurezza del suo uso e quindi una etica di somministrazione con tempi indicati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) fino a 18 mesi, mentre un vaccino influenzale stagionale può richiedere soltanto alcuni mesi che permettono la protezione di un nuovo continente rispetto a quello dove è originata l’influenza epidemica. Il Remdevisir usato per l’Ebola, la Clorochina (Plaquenil) già come antimalarico adesso di routine in Francia, il Fapilavir (Avigan) prodotto dal 2014 in Giappone, inibitori delle proteasi del virus dell’AIDS come Ritonavir e Lopinavir, Vit C a grammi, Oseltamivir, antifluenzale. Tutti questi sono farmaci per via orale. In particolare l’Avigan nome commerciale del Favipiravir è un antivirale già in uso da alcuni anni nei riguardi di diverse famiglie virali. Il suo uso come antivirale precoce nelle infezioni influenzali ha avuto un riscontro positivo per quanto riguarda in particolare il Giappone dove è stato prodotto. Adesso in Italia verrà utilizzato nella regione Veneto e quella della Lombardia. L’ultima sperimentazione clinica con un prodotto difficile da maneggiare mi lascia perplesso, perché non può certo risolvere il 98% dell’epidemia, il TOCILIZUMAB l’immunosoppressore dell’artritereumatoide, è un prodotto poco malleabile. Non stimo che ne valga la pena, riducendo ulteriormente la risposta immune al virus del paziente e lasciandolo scoperto alla reinfezione. Professor Giulio Tarro
Giulio Tarro: “Coronavirus non è Ebola, il vaccino non serve. Sanità in crisi per colpa di chi ha dimezzato le terapie intensive”. Giuliano Balestreri il 14/4/2020 su it.businessinsider.com. L’attesa per un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere inutile: “Se il virus ha come sembra una variante cinese e una padana, sarà complicato averne uno che funziona in entrambi i casi esattamente come avviene per i vaccini antinfluenzali che non coprono tutto”. Giulio Tarro è un virologo di fama internazionale, discepolo di Albert Sabin – padre del vaccino contro la poliomelite – di cui ha diretto il laboratorio dopo la scomparsa. In Italia, invece, è molto discusso anche per i frequenti scontri a distanza con la star del web Roberto Burioni: “Non voglio fare polemica, ma è curioso – dice Tarro – che ancora si ascolti chi a inizio febbraio diceva che il rischio di contrarre il virus fosse zero perché in Italia non circolava, quando invece era già in giro da tempo”. La lotta al virus ha diviso gli esperti in fazioni con le parti che – spesso – tendono a screditarsi, ma Tarro, classe 1938, non sembra interessato alla voci: “Oggi ci si informa su internet, alla mia età e dall’alto della mia esperienza mi tengo alla larga. Ho isolato il vibrione del colera a Napoli, ho combattuto l’epidemia dell’Aids e ho sconfitto il male oscuro di Napoli, il virus respiratorio “sincinziale” che provocava un’elevata mortalità nei bimbi da zero a due anni affetti da bronchiolite”. Primario in pensione dell’Ospedale Cotugno di Napoli – l’unico secondo Ernesto Burgio ad aver “protezioni adeguate per i medici” – è stato in prima linea contro tante influenze e per questo ricorda che “né per la prima Sars, né per la sindrome respiratoria del Medio Oriente sono stati preparati vaccini, si è fatto, invece, ricorso agli anticorpi dei soggetti guariti”. Come a dire che la chiave di volta per tornare verso la normalità è nella messa a punto di una terapia antivirale efficacie, “una cura che potrebbe arrivare anche per l’estate. Spero che la scienza e il caldo possano essere alleati. E confido che potremo andare a fare i bagni. Troppa gente parla del coronavirus senza avere il supporto dei dati scientifici e senza le giuste conoscenze”. Tarro è convinto che intorno al Covid-19 ci sia molta esagerazione perché pur essendo “un virus un po’ particolare, fortunatamente non ha la stessa mortalità della Sars e neppure della Mers che uccideva un malato su tre. Oggi non lottiamo contro l’Ebola, ma il nostro nemico è una malattia che non è letale per quasi il 96% degli infetti”. Sarebbero dunque una serie di concause ad aver mandato in crisi il sistema sanitario lombardo: “Il problema – prosegue il professore – è nel restante 4% che si è scatenato contemporaneamente. In pratica in meno di un mese abbiamo avuto gli stessi malati di influenza di un’intera stagione. Un’ondata a cui era impossibile far fronte a causa dei tagli alla sanità degli ultimi anni. Secondo l’Oms, tra il 1997 e il 2015 sono stati dimezzati i posti letto in terapia intensiva. E, peggio, non siamo stati abbastanza veloci a riparare i danni”. Secondo l’esperto l’Italia – e la Lombardia in particolare – ha perso troppo tempo tra la dichiarazione dello stato d’emergenza del 31 gennaio e l’attivazione di misure ad hoc per fronteggiare l’emergenza: “Perché quando abbiamo avuto le notizie dalla Cina, i francesi sono intervenuti subito sui posti in terapia intensiva e noi no? Abbiamo preferito bloccare i voli con la Cina: una misura davvero inutile. Per non parlare poi del caos mascherine. La verità è che all’inizio non le avevamo quindi si diceva che dovessero usarle sono medici e pazienti, poi siamo diventati produttori di mascherine e quindi diciamo che servono a tutti. E’ incredibile, bisognava dire a tutti subito di usarle e di mantenere le distanze, invece, è stato fatto un pasticcio dopo l’altro. Si voleva blindare la Lombardia come la Cina e poi si è permesso a migliaia di persone di migrare al sud… Francamente non si è capito quale sia stato l’approccio del governo e le misure di contenimento sono state prese in ritardo”.
A non convincere l’esperto è anche la strategia di comunicazione: “L’allarme è fonte di stress e lo stress, paradossalmente, determina un calo delle difese immunologiche. Lo sanno tutti gli esperti, eppure ogni giorno assistiamo a questi inutili numeri che comunica la Protezione civile. Sono dati che non vogliono dire nulla: non conosciamo il numero preciso dei contagiati e di conseguenza ci ritroviamo di fronte a un tasso di mortalità altissimo. Se andiamo a vedere alcuni studi inglesi, però, scopriamo che gli infetti sarebbero molti di più: secondo uno studio dell’Università di Oxford addirittura il 60-64% dell’intera popolazione; per l’Imperial College almeno 6 milioni. Con queste stime il tasso di decessi si abbassa enormemente. Credo che arriveremo sotto l’1% come in Cina”.
In attesa di un antivirale efficace, l’esperto fa tre ipotesi sulla fine dell’epidemia: “Potrebbe sparire completamente come la prima Sars; ricomparire come la Mers, ma in maniera regionalizzata o diventare stagionale come l’aviaria. Per questo serve una cura più che un vaccino. Il fatto che in Africa non attecchisca mi fa ben sperare in vista dell’estate”.
Twitter. Roberto Burioni 15 nov 2018: "Sappia Tarro che se lui si è candidato al Nobel io mi sono candidato a Miss Italia. Se non vinco è per colpa dei poteri forti".
Burioni offende il virologo del colera: “Se lui candidato al Nobel, io a Miss Italia”. Redazione de Il Riformista il 19 Aprile 2020. Si è combattuto su Twitter il duello rusticano della domenica pomeriggio che ha messo uno di fronte all’altro due esperti virologi. Il casus belli è stato un post del deputato Gianfranco Rotondi che ha riportato alcune considerazioni del virologo Giulio Tarro sul coronavirus. Roberto Burioni, virologo dell’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, non si è però trovato per niente d’accordo e ha risposto senza badare troppo al politically correct. E mettendo piuttosto in discussione l’autorevolezza di Tarro, ex primario dell’Ospedale Cotugno di Napoli e già premiato dal Pnas Usa (Proceedings of the National Academy of Scienses) come miglior virologo dell’anno. Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia pubblica dunque un post su Twitter. “Il virologo Giulio Tarro, primario emerito del Cotugno (isolò il vibrione del colera), due volte candidato al Nobel, oggi scommette la sua reputazione dicendo che tra un mese il coronavirus ci abbandonerà come tutti i corona influenzali”, ha scritto Rotondi. Il virologo nato a Messina e napoletano d’adozione ha infatti dichiarato in diverse interviste – anche a Il Riformista – che con la stagione estiva, e l’aumento delle temperature, il virus potrebbe scomparire. “Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia”, ha replicato a quel punto Burioni, molto attivo sui social, con un tweet. Sulla risposta di Burioni si è imbastita così una vivace polemica social, che ha coinvolto tra gli altri Giampiero Mughini, intellettuale e scrittore, che ha osservato: “Credo che un po’ di rispetto sia più che dovuto … Non è il depositario della verità”. E il virologo ha risposto ancora: “No, ma siccome ho molto studiato questi argomenti riesco a individuare immediatamente le scemenze”. Rotondo a quel punto ha voluto chiarire la sua posizione: “Io non spalleggio né Tarro né altri. Riporto una tesi che alimenta speranza, punto. Dopodiché ricordo che Tarro da primario del Cotugno piegò il colera del 73, questi fin qui hanno fatto solo interviste”. Una questione di speranza, dunque, e di ottimismo, quella che evidenzia il deputato, che ha trovato d’accordo diversi utenti sul social. “Se lei è convinto allora tutto a posto, possiamo chiudere le terapie intensive e smettere di portare le mascherine”, ha replicato ancora Burioni a qualche utente. Prima che arrivasse la risposta di Tarro: “Su una cosa ha ragione (Burioni, ndr): lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca”.
Roberto Burioni a Che tempo che fa: "Abbiamo due settimane per la fase 2", occhio all'errore imperdonabile. Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Roberto Burioni è diventato una presenza fissa nello studio di Che tempo che fa, dove Fabio Fazio lo ha interpellato in relazione alla fase 2, che dovrebbe partire dal 4 maggio. “Abbiamo due settimane - ha avvisato il noto virologo marchigiano - dobbiamo cominciare a pensare alla fase 2, ci dobbiamo preparare con mascherine, test sierologici e test per la ricerca sul coronavirus. E serve l’isolamento, bisogna pensare a strategie che ci consentano di bloccare sul nascere eventuali nuovi focolai”. Dopo aver guardato al futuro, Burioni ha fatto il punto della situazione attuale: “Le cose stanno migliorando, vediamo meno morti e meno ricoveri. Non abbiamo però dati certi sull’incidenza di questa malattia. Non sappiamo quanti sono i contagiati. Noi dobbiamo sapere qual è la situazione per poter intervenire in caso di peggioramenti”. Insomma, per il virologo del San Raffaele di Milano è fondamentale farsi trovare pronti: “La nostra reazione all’epidemia è stata lenta, per la fase 2 non possiamo permetterci di farci prendere di sorpresa, non sarebbe perdonabile”.
Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. Virologi, infettivologi, esperti di qualsiasi virus: è diventata un po' una bolgia. Alla radio, in tv, sulle pagine dei giornali. Molti su Facebook e su Twitter. Quello che trovi ogni volta che cambi canale (e ti chiedi: ma questo quando lavora?). Quello confuso, tipo rischioso, il genere di persona che si addormenta a letto con la sigaretta accesa.
La scienziata Ilaria Capua: così autorevole, rassicurante. Il professor Guido Silvestri collegato da Atlanta. Selvaggia Lucarelli, sul Fatto , ha scritto che Massimo Galli, direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche dell' ospedale Sacco di Milano, è la rivelazione mediatica di questa triste fase storica. Piena però anche di tesi azzardate, supercazzole che nemmeno il Conte Mascetti in «Amici miei», mischioni polemici.
Il professor Roberto Burioni - accademico di fama, ordinario al San Raffaele di Milano, ospite fisso da Fabio Fazio, «e poi sì, certo, tifoso della Lazio» - c' è già finito dentro un paio di volte. L' ultima, pochi giorni fa: con il professor Giulio Tarro di anni 82, divenuto celebre ai tempi del colera a Napoli e poi tornato protagonista con interviste recenti, in cui ha detto cose tipo: «Il lockdown non ha senso. Per guarire, noi dobbiamo usare le armi di questo Paese: il sole e il mare» (pizza e mandolini, no: inutili). Scrive Burioni su Twitter: «Se Tarro è virologo da Nobel, io sono Miss Italia». Massimo Giletti ha invitato Tarro - che in effetti sostiene di essere stato candidato due volte al premio Nobel per la Medicina - a replicare.
Professor Burioni, allora?
«Guardi, ho fatto un voto e mi sono dato una regola».
Il voto.
«Non parlare della Lazio, e di calcio, finché questa terribile storia non finirà».
La regola.
«Parlare di Coronavirus solo da Fazio, la domenica sera».
Poi però apre Twitter e non resiste.
«Vuole togliermi anche Twitter?».
Ma con Twitter è un attimo, basta un niente.
«Lo so. Infatti con la mia collega virologa Maria Rita Gismondo, sbagliai. Era febbraio e lei sosteneva che stessimo scambiando un' infezione appena più seria di un' influenza con una pandemia...scrissi una cosa brutta».
Le ha già chiesto scusa in un' intervista rilasciata a Massimo Gramellini.
«Sì, però, mi creda: il rammarico resta».
Molti, sui social network, si chiedono se lei, professore, non provi rammarico anche per quella frase detta da Fazio - «In questo momento il rischio di contrarre il virus è zero» - la sera del 2 febbraio.
«È un giochino vergognoso».
Estrapolano una frase e...
«Infangano. Primo: io già l' 8 gennaio, su Medical Facts, il magazine online di informazione scientifica, avvertivo dei rischi del virus esploso in Cina. Il 22 gennaio, in un' intervista a Linkiesta, spiegai poi che ero in disaccordo con le autorità europee, secondo le quali il virus non sarebbe mai arrivato da noi. Quindi da Fazio, certo, dissi che i rischi di contagio sarebbero stati bassi, ma perché sembrava stessimo prendendo tutte le precauzioni».
Sembrava.
«Sappiamo com' è andata. Ma le dico che quando furono chiuse le scuole, e a migliaia furono lasciati andare sui campi da sci, io ordinai a mia moglie e a mia figlia di dimenticarsi la settimana bianca, già pagata, e di rifugiarsi in campagna, a Urbino».
Lei fu tra i primi ad invocare la quarantena.
«Però quando implorai di mettere in quarantena chiunque fosse di ritorno dalla Cina, fui accusato di essere un fascio-leghista. Io? Capito? Un fascio, io».
Parliamo del professor Tarro.
«No. Quelli con cui mi confronto sono il professor Lopalco, il professor Silvestri... Con Tarro, ci parli lei».
E allora telefoniamo al professor Tarro, che risponde dalla sua casa di Posillipo, a Napoli. Sugli appunti, alcune delle sue frasi più pittoresche: «Solo gli anziani vanno protetti, il virus andrebbe fatto circolare liberamente». «Nel giro di due mesi, saremo tutti in vacanza».
Professor Tarro, ma davvero?
«E certo! Con il caldo, il Coronavirus sparirà».
Come fa ad esserne così sicuro?
«È già successo con la Sars. Sono virus che al caldo se ne vanno».
Questo suo ottimismo, la comunità scientifica non ce l' ha.
«E che posso farci? Io ho la mia storia, mica sono Burioni».
Ecco, appunto: ma la candidatura ai due Nobel?
«Embé?».
No, mi chiedo: poiché i candidati - da regolamento - possono essere resi noti solo dopo 50 anni, lei come fa già a sapere di essere stato...
«Me l' hanno detto!».
Chi?
«Come chi? Gente che mi stima, che mi ha candidato, e che avrebbe voluto farmelo proprio vincere, il Nobel»).
Il professor Giulio Tarro, così. Il professor Walter Ricciardi, consulente del governo per il Covid-19, ha invece attaccato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (rilanciando un volgare tweet di Michael Moore e costringendo l' Oms a precisare che «Ricciardi è un supercampione della sanità pubblica, ma non parla a nome dell' agenzia»).
Scava scava nel curriculum, abbiamo così scoperto che Ricciardi, da giovane, recitò in certi film degli anni Settanta, genere «sceneggiata napoletana», in coppia con Mario Merola (okay: con il Coronavirus non c' entra niente, però almeno fa sorridere).
Roberto Burioni sbeffeggia il virologo del colera ma Rotondi lo asfalta. Il Tempo il 20 aprile 2020. Roberto Burioni al centro di una nuova polemica. Il virologo, che ieri era ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa, aveva attaccato Giulio Tarro, primario emerito dell'ospedale Cotugno di Napoli e protagonista della lotta al colera del '73. "Burioni scrive su Twitter: se Tarro è virologo da Nobel, io sono Miss Italia. Su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca", scrive Tarro ricordando la vicenda. Tarro all'epoca dell'epidemia isolò per primo il vibrione del colera e per questo fu due volte candidato al Nobel. Rexcentemente hanno fatto discutere le sue affermazioni sul Covid-19: "Il Coronavirus ci abbandonerà tra un mese, come tutti i corona influenzali". Ed è partita la polemica con il deputato Gianfranco Rotondi che ha twittato: "Io non spalleggio né Tarro né altri. Riporto una tesi che alimenta speranza, punto. Dopodiché ricordo che Tarro da primario del Cotugno piegó il colera del 73, questi fin qui hanno fatto solo interviste". Rotondi entra al centro del ring e contrattacca alle critiche del virologo: "Il professor Burioni, tra un’intervista e l’altra, trova anche il tempo di polemizzare con me, che ho solo ritwittato un’intervista al “Mattino” del prof. Giulio Tarro, secondo il quale tra un mese con il caldo il Coronavirus ci saluterà per conto suo. Naturalmente non sono in grado di confutare la tesi del prof. Tarro, ma spero vivamente che sia confermata dai fatti. Non permetto a Burioni di ironizzare sul prof. Tarro, eroe della lotta al colera nel 1973, primario vincitore di concorso all’ospedale Cotugno di Napoli, tuttora ospedale leader in campo infettivologico".
Paolo Becchi contro Burioni: "Ecco i grandi meriti accademici di chi critica Tarro perché gli fa ombra". Documento "imbarazzante". Libero Quotidiano il 25 aprile 2020. Attacchi a Giulio Tarro perché gli fa ombra? Paolo Becchi ha un malizioso sospetto su Roberto Burioni, che da qualche giorno è entrato in polemica diretta con il collega. "Lui è stato candidato al Nobel come io a Miss Italia", lo ha schermito con l'ormai celebre tono sprezzante. Ma Becchi rende giustizia a Tarro e soprattutto riporta Burioni e i suoi ultrà (molto, molto più insopportabili del virilogo, e soprattutto perniciosi) pubblicando il risultato di un concorso per un posto da docente all'Università La Sapienza di Roma datato 2010. "Ecco i grandi successi accademici di chi oggi critica Giulio Tarro perché gli fa un po‘ di ombra", commenta Becchi. "Il candidato Burioni Roberto non ha ottenuto voti", recita il documento ufficiale. Come dire: chi di Nobel ferisce, di Nobel perisce.
Luca Telese per tpi.it il 22 aprile 2020. TPI intervista il professor Giulio Tarro, 82 anni, virologo di fama internazionale, allievo di Albert Sabin (il padre del vaccino contro la poliomielite).
Professor Tarro, lei dice che si può riaprire.
«Assolutamente sí, e se vuole le spiego perché».
Pensa che non dovremo rinunciare alle vacanze?
«Al contrario, dovremo usarle per combattere il Covid».
Per questo motivo lei da due giorni è in polemica con Burioni, però.
«Io? No».
Come no? Battaglia su Twitter.
«Ah ah ah. È lui che è in polemica non me. Io non lo sono con lui, non lo conosco».
Burioni ha detto che lei è più papabile come aspirante Miss Italia che come un premio Nobel.
«È libero di pensare quello che vuole. Io mi sono semplicemente fatto una domanda».
Quale?
«Questo Burioni brillante polemista è forse lo stesso famoso virologo Burioni che il 2 febbraio disse: “In Italia non ci sarà nemmeno un caso di Covid?”».
Battuta perfida.
«No, semplice constatazione. Io tendo a non dare lezioni agli altri. E mi diverte molto chi vuole dare lezioni dopo aver fatto errori come e più degli altri».
Di più?
«Io non ho mai pensato né detto che non avremmo avuto vittime, anzi. Ero molto preoccupato».
Ma è vero che secondo lei il contenimento dovrebbe finire?
«Ne sono convinto.
Parlava di vacanze. È vero che pensa che la stagione estiva al mare non dovrebbe saltare?
«Noi dobbiamo usare le armi di questo paese, il sole e il mare, per aiutarci a guarire».
Ovvero?
«Invece di stare chiusi a casa ad ammalarci con il contagio familiare, usiamo il mare come una terapia».
Con le barriere di plexiglass tra gli ombrelloni?
«Per l’amor di Dio no! Questa è follia pura».
Spieghi perché, secondo lei.
«Perché più che camere di protezione quelle diventerebbero camere di cottura. E non solo».
Cosa?
«Il virus per diffondersi ha bisogno di spazi chiusi, scarsa ventilazione o sistemi di aria condizionata, temperature basse o umide. Il mare e la spiaggia sono l’esatto contrario di questo microclima propizio».
E pensa che questo passo si possa fare anche prima che arrivi il vaccino?
«Va fatto subito. Anche qui c’è un grave problema di analisi. Noi accademici in questo momento siamo tutti in attesa di questo benedetto vaccino».
E non è giusto?
«Bisogna farsi un’altra domanda. Ma il vaccino che cos’è? È un anticorpo. E noi abbiamo già un vaccino naturale negli anticorpi di chi non si è ammalato, malgrado il virus, e di chi ha contratto il virus, ma è guarito».
Lei sta dicendo anche come cura?
«Certo! Tutti a chiedersi quando arriveranno i vaccini, ma gli anticorpi dei guariti già ci sono! Bisogna usare il plasma dei guariti».
Con chi sta male?
««L’infusione di 200 millilitri di plasma è un aiuto enorme per qualsiasi malato. Si chiama plasmaferesi, e non l’ho certo inventata io».
Quindi quella è la prima terapia?
«I guariti andrebbero salassati, perché diventino donatori di anticorpi. Non trattati come appestati».
È una eresia?
«Ma per chi? Ho sentito dire che in via sperimentale questo tipo di cure sono già in applicazione a Pavia, a Mantova, a Salerno».
Non solo ventilazione, dunque.
«Ma ovvio. Tutti i medici stanno sperimentando. Non è normale – ad esempio – che si usi l’Eparina? A me pare una cosa scontata. È perfetto accompagnare queste terapie farmacologiche nelle terapie intensive.
Giulio Tarro, infettivologo di fama: napoletano, allievo prediletto di Albert Sabin (il padre del vaccino contro la poliomielite), virologo e primario emerito dell’ospedale Cotugno di Napoli. I suoi interventi in questi giorni sono diventati controcorrente rispetto alla linea scelta dal comitato medico-scientifico».
Cosa ha capito di questa malattia?
«Ho capito che una malattia relativamente grave controllabile è fuggita dalla stalla».
Chi ha affrontato meglio di tutti il Covid?
«Non mi piace dare giudizi frettolosi con una epidemia in corso. Ma non c’è dubbio che senza troppa enfasi, il modello isreaeliano abbia prodotto ottimi risultati».
Ovvero?
«Tracciare il più possibili gli infetti, isolare gli anziani e far circolare il virus tra i più giovani.
Ma i britannici e i danesi avevano provato qualcosa di simile, però non lo hanno portato fino in fondo.
«Lì credo che ci sia stato un grande errore di comunicazione: è una linea che si può sostenere senza enfasi e senza cinismo. Dire “preparatevi a salutare i vostri cari” non ha portato fortuna a Boris Johnson, ma soprattutto era un messaggio del tutto sbagliato».
Lei cosa avrebbe detto?
«“Preparatevi a difendere i vostri cari. Soprattutto gli anziani”».
Quale è secondo lei la prima misura per fermare il contagio?
«Lavarsi le mani. Indossare mascherine e guanti: quando sono venuti in Lombardia i cinesi sono rimasti stupiti che così pochi cittadini indossassero le mascherine. Si presta poca attenzione ai guanti. Ed è sbagliatissimo: il Coronavirus ha la sua porta di ingresso nella nostra bocca e nelle parti inferiori delle vie respiratorie».
Quindi?
«Quindi tenere le mani protette. Disinfettare la bocca con un collutorio ma anche con ingredienti naturali come il bergamotto e i chiodi di garofano».
E poi?
«Vedo che in tutto il mondo – a partire dalla Cina – si provvede a igienizzare gli spazi pubblici. Da noi non si fa».
I numeri del contagio la spaventano?
«Io guardo con molta attenzione i numeri e cerco di interpretarli alla luce degli studi che sono già disponibili».
Ad esempio?
«L’Istituto Superiore di Sanità ha studiato 909 casi di decesso, stabilendo che solo 19 morti sono ascrivibili unicamente al Covid. Quindi il primo problema sono le patologie concorrenti».
E i dati cinesi?
«Sono stati controllati anche da Fauci, il superesperto della sanità americana».
E questa percentuale torna?
«Su 1.092 pazienti, l’1 per cento è morto“solo” per il Covid. Questo non significa che dobbiamo ignorare le tantissime vittime italiane, ma che molti dei nostri dati devono essere letti meglio per circoscrivere le reali proporzioni dell’epidemia».
Ad esempio?
«Nelle statistiche cinesi il 14 per cento dei deceduti avevamo malattie cardiovascolari, il 7 per cento erano diabetici, eccetera…»
La colpisce la differenza con altri paesi?
«Non è possibile che in Germania siamo al 3 per cento di mortalità e in Lombardia al 18,7 per cento. È matematicamente impossibile».
E quale spiegazione immagina?
«Da noi i contagiati reali sono molti di più di quello che non dicano i tamponi. Solo che non li monitoriamo, per via del modo in cui facciamo i tamponi».
È un dato falsato?
«È un dato parziale: bisognerebbe parlare di numero di contagiati per tamponi effettuati».
Lo dice in modo induttivo?
«No, esiste uno studio su un caso particolare che però può essere preso a misura. Sul Corriere della Sera due ricercatori, Foresti e Cancelli, hanno usato come modello la Diamond Princess, la nave da crociera dove lo screening ha investito il 100 per cento della popolazione censibile».
La Diamond, infatti figura come un paese nella classifica mondiale dei contagi.
«Quello è l’unico luogo al mondo dove le percentuali di contagio sono “giuste” perché tutti sono stati monitorati uno ad uno con i tamponi. Il classico caso di scuola».
E cosa ne esce fuori?
«Se si proiettasse quel dato, a marzo nel periodo coevo, avremmo già in Italia 11 milioni e 200mila contagiati. Una enormità. Questo dato “reale” farebbe calare la percentuale di mortalità italiana. Perché se questa è la proporzione significa che il tasso di reale mortalità è più basso di quello apparente.
Quindi lei dice: fine del lockdown subito?
«Il virus può essere controllato con le normali misure igieniche e con la diffusione degli anticorpi: la dimensione del contagio verrà abbattuta dal cambio di clima indotto dalla stagione estiva, anche al nord».
Lo dice in via ipotetica?
«Il fattore climatico è senza dubbio fortissimo nella diffusione di questa epidemia».
Lo spieghi.
«Come si fa a non vedere che i numeri del contagio scendono drasticamente al sud? Il mare, il sole hanno difeso una parte d’Italia dal contagio. Ma non solo dai noi, anche all’estero. L’Africa – tocchiamo ferro – per ora risulta pressoché indenne. Poi ci sono gli altri fattori».
Quali?
«Il Coronavirus sembra aver colpito di più quelli che avevano fatto il vaccino anti-influenzale».
Lei ha posizioni No-vax?
«Ma si figuri. Io ho scritto un libro sui vaccini! Io ho combattuto il colera, e ho vaccinato migliaia di persone, come le racconterò. Parlo di un vaccino, non dei vaccini».
Da cosa trae la connessione?
«Questo che le cito è un dato che si reperisce facilmente in rete, non perché lo dica qualche complottista, ma uno studio dell’esercito americano».
E come lo interpreta?
«La scienza deve essere basata sul metodo scientifico sperimentale: se un dato documentato emerge, deve essere considerato un valore per i dati che lo sostengono, non per i problemi che eventualmente crea».
Perché secondo lei il mare avrebbe un effetto positivo?
«Lei hai mai visto gente con la sciarpa e il fazzoletto in spiaggia?
No.
«Ecco: questo perché i virus influenzali con il mare soffrono. Il Covid, pur con la sua specificità e la sua virulenza appartiene a quella famiglia. E soffre. Perché fatica a diffondersi. Il virus si replica a temperature basse e umide. Accade per il rinovirus, e spero che accada anche per il Coronavirus».
Lei crede all’idea di vaccinare per poter dare un accesso alle spiagge?
«Mi pare una follia. Ma non avendo il vaccino in tempi così brevi il tema non si potrà porre»».
Cosa ci insegnò l’epidemia di colera?
«L’errore di valutazione, anche lì. Inizialmente i pazienti non venivano idratati a sufficienza e morivano disidratati».
E poi?
«Poi iniziammo a farlo, per fortuna, e la percentuale di mortalità crollò».
E poi?
«La popolazione si mise in fila per le vaccinazioni, che furono effettuate, prevalentemente, con le pistole a siringa. Noi non le avevamo, ce le diedero gli americani».
Ci sono altre analogie?
«All’inizio non avevamo il vaccino per tutti. Poi arrivarono e il contagio finì».
Il contenimento funzionò?
«Dal 430 avanti Cristo con la peste di Atene, è il primo rimedio. Ma, come dice la parola stessa, è una misura contenitiva, che non può essere scambiata come una formula risolutiva di una epidemia».
Come si trovò in quell’emergenza?
«Ero primario di virologia in America, lessi la notizia sul Corriere della Sera. Presi il primo aereo utile per tornare ad aiutare».
Sapeva di rischiare?
«Arrivai a Fiumicino e chiesi di essere vaccinato appena messo piede a terra».
E lo fecero?
«Sì, come avrebbero dovuto fare d’ufficio con tutti. Invece accettarono perché ero medico e mi raccomandarono: “Non lo dica a nessuno!”. Buffo no?»
E a Napoli?
«Ero l’unico che poteva entrare ed uscire dall’ospedale perché non ero nei registri al momento in cui l’epidemia esplose».
E il paziente zero?
«Scoprimmo che il colera era sbarcato a Napoli con una partita di cozze tunisine. Ma quando si ritrovò il vibrione il paziente zero era già uno dei tanti morti nei nostri reparti».
Era il 1973: riusciste a domare l’epidemia e diventaste eroi nazionali.
«Fecero mettere la mascherina al presidente Leone che ci venne a visitare al Cotugno. Una scelta grottesca, perché tutto il mondo sapeva che il colera non si trasmette per via respiratoria».
Ma lei voleva fare il virologo da bambino?
«Io sono figlio di un anatomopatologo. Volevo fare il medico ma sono finito in laboratorio perché avevo un professore che aveva il pallino dei virus».
E cosa fece?
«Fu lui che mi mandò da Sabin, cambiando, per fortuna, la mia vita. Ma ho fatto tante altre cose, compreso il medico di guardia in neurochirurgia.
Quale è stata la prima lezione che ha imparato dal suo maestro, Albert Sabin?
«Massimo rigore in quello che si fa. Scrivere tutto. Soprattutto quello che ci pare irrilevante».
E cosa si imparava?
«Che quando rileggi le note scritte, sistematicamente, trovi sempre qualcosa che nell’immediato non avevi capito. Non è facile».
Perché?
«È una lezione di umiltà e sarà utile con il Coronavirus: non possiamo farci inibire dalle nostre convinzioni di partenza».
Traduciamola in una massima.
«Da quello che scrivi, con il senno del poi, spesso capisci quello che hai fatto, e magari non avevi capito».
Ha paura delle stroncature dell’Accademia?
«Ah ah ah. Francamente non me ne frega nulla. Mi hanno chiamato a curare Giovanni Paolo II, non mi posso certo far spaventare per i custodi del verbo».
Quindi Fase 2?
«Bisogna aprire. Ma con intelligenza, con attenzione. Con buonsenso. Ma aprire».
Cosa è cambiato rispetto a due mesi fa?
«Tutto. Prima non avevamo le mascherine: ma ormai siamo diventati produttori di mascherine».
Anche in Lombardia?
«Con più vincoli, più limitazioni, più accortezze: ad esempio con l’avvertenza di non saturare i mezzi pubblici. Il problema non è il virus, ma le opportunità di contatto, che vanno abbattute con protezioni e sanificazioni».
Servono regole eccezionali?
«Bisogna introdurre l’obbligo di guanti e mascherine, potremmo aprire anche lì».
E poi?
«Bisogna stare all’aperto e non negli spazi chiusi. Questa potrebbe essere una soluzione vitale, ad esempio per la scuola. Sanificare le aule, ma non chiudere le scuole».
E i suoi colleghi secondo cui sarebbe un rischio drammatico perché allentando il lockdown aumentano i contagi?
«Non so che dire di loro. Lo stanno facendo in tutto il mondo. Non chiedetevi perché da noi si faccia. Chiedetevi perché noi non lo facciamo mentre in tutto il resto del mondo si fa».
L’infettivologo che ha sconfitto il colera: “Requisire cliniche private in vista del picco”. Bruno Buonanno de Il Riformista il 20 Marzo 2020. Ottantadue anni a luglio. Giulio Tarro, il professore Giulio Tarro, è operativo come sempre. Lo inseguono da giorni i mass media di tutta Italia e lui, compiaciutissimo, ha risposte pronte per tutti. “Ho fatto la storia della Sanità, per questo mi assediano. Poco fa ero in collegamento con Sky, poi una diretta con Canale 5”. Ride e si compiace della meritata popolarità, anche se da un po’ di tempo ha modificato la sua vita. “Ora abito a casa di mio figlio che ha una villa sulla Cittadella. Ma esco ogni giorno, torno a Posillipo nel mio studio e continuo a lavorare”. È sempre stato in prima linea in tutte le emergenze sanitarie e segue, da scienziato, l’emergenza da Coronavirus. “Abbiamo comprato i catenacci per la stalla quando i buoi sono fuggiti o sono stati rubati. Ma va bene così. Meglio ora che mai. Per settimane abbiamo seguito in televisione quello che è successo in Cina e subito dopo in Corea. Ci saremmo dovuti preparare quando c’erano voli diretti per l’Italia. Invece misuravamo la temperatura a chi entrava senza obbligarlo alla quarantena. Subito dopo ci sono stati migliaia di rientri con scali in altri Stati e anche allora si controllava la temperatura e tutti potevano circolare tranquillamente”. Una, cinque, cento ipotesi su cosa fare per bloccare il nemico Covid. Le persone in fila in ospedale o a casa in attesa di un tampone confermano che le risposte arrivano tardi. Anche dopo due, tre giorni confermando che la potenza del coronavirus è ampiamente sottostimata. Giulio Tarro, grande saggio della Sanità, scuote la testa e avverte. “Quello del tampone dovrebbe essere un accertamento precoce: chi si sottopone a questo test dovrebbe sapere in giornata sapere se è positivo o negativo. Mi sembra che ci sia carenza di tamponi e che i diversi laboratori non siano in grado di fronteggiare la pressione del pubblico. Il tampone mi sembra superato – spiega il professore Tarro – perché c’è un nuovo kit diagnostico che misura con un esame del sangue gli anticorpi. È una metodica efficace messa a punto in Cina e ceduta ad Israele che può a sua volta autorizzare l’Italia e l’Europa ad utilizzarla. Con la ricerca degli anticorpi si possono individuare quelli precoci che si identificano come M o, per capirci, quelli IGG”. Lavora senza soste la task force sull’emergenza da Coronavirus, si succedono di ora in ora riunioni tecniche di addetti ai lavori. Il professore chiarisce: “Esiste un valido test sul siero che potrebbe essere utilizzato anche da noi. Se c’è bisogno della mia collaborazione possono chiamarmi”. Gli interrogativi su questo nuovo virus sono tante e senza risposta. La scienza non è in grado di dirci quanto e perché il Covid-19 si modifica, se è sensibile al freddo, al caldo, al vento o alla pioggia. “Abbiamo visto – ricorda Giulio Tarro – come si sono comportati in Cina e in Corea, distanziamento sociale, una lunga quarantena per milioni di cittadini e disinfezioni a tutto campo. Dobbiamo evitare che si verifichi una “sindrome da panico da virosi respiratoria” che diventerebbe inevitabile non rispettando la quarantena e con abitudini alimentari sbagliate. Molti politici hanno i loro consigliori, intanto tra il ’97 e il 2015 in Italia sono stati dimezzati i posti letto di terapia intensiva, lo confermano le difficoltà che hanno ora perfino in Lombardia. Ricordo che molte grandi epidemie sono sparite sotto forti piogge, pensiamo alle inondazioni di manzoniana memoria. Intanto lavoriamo”. Si riconvertono ospedali per offrire posti letto ai così detti “pazienti Covid”, ogni slargo disponibile accanto alle strutture sanitarie viene utilizzato per sistemare ospedali da campo. Tarro scuote la testa. “Siamo italiani, non cinesi che in dieci giorni costruiscono ospedali da mille posti per fronteggiare l’emergenza. Quelle strutture da campo possono essere una soluzione, ma sarebbe opportuno programmare la requisizione di case di cura e hospice che abbiamo in città e in provincia. Credo che quest’ipotesi sia stata prevista dal governo e, in un clima di collaborazione, potrebbe essere valutata pure in Campania”. Il curriculum scientifico del professore Giulio Tarro è ricco di successi: dal colera al male oscuro che colpiva i bambini da uno-due anni, epidemia che l’ex responsabile della virologia del Cotugno risolse in sette giorni lavorando su campioni prelevati dai piccoli pazienti del Santobono; studi sull’Aids quando per i primi casi non c’erano le terapie odierne (non a caso il professore Montaigner venne nella nostra città), senza trascurare l’epatite C curata con l’ipertermia o l’aviaria. Allievo di Albert Sabin, lo scopritore del vaccino per la poliomelite, Giulio Tarro ha ottenuto premi e riconoscimenti: “Il più bello – ricorda – è aver salvato tante vite”.
Coronavirus, scontro tra virologi: Burioni attacca la collega del Sacco. Ilaria Capua: "Non c'è da piangere né da ridere". Lo scienziato paladino dei social chiama "signora del Sacco" la collega che invita ad abbassare i toni sull'epidemia da Covid-19. La direttrice del One Health Center in Florida: "È una sindrome simil-influenzale, in Italia più casi perché li cerchiamo più attivamente". La Repubblica il 23 febbraio 2020. Mentre le istituzioni invitano alla responsabilità per contenere l'epidemia da coronavirus con i minori disagi possibili per la popolazione, volano parole grosse tra gli scienziati. Al centro di tutto il virologo Roberto Burioni, diventato punto di riferimento sui social per aver smontato fin dal 2016 le campagne no-vax. Da alcune settimane lo scienziato sostiene sia in atto una sottovalutazione del rischio coronavirus. In un video del 21 febbraio ha messo sotto accusa le "declamazioni tranquillizzanti di alcuni politici". Nel mirino di Burioni c'era in particolare il governatore della Toscana, accusato di non aver messo in quarantena i residenti tornati dalla Cina. In alcuni post delle scorse settimane, Burioni ha paragonato la mortalità potenziale del Covid-19 a quella dell'influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in tutto il mondo. "A me sembra una follia. Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri". A parlare è Maria Rita Gismondo, virologa in prima linea essendo la responsabile del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano, in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus. In un post su Facebook, in cui non cita mai Burioni, la scienziata scrive: "Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1!". Secondo Gismondo, che invita tutti ad abbassare i toni, "questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico". Un appello alla pacatezza che Burioni, interpellato su Twitter, non accoglie affatto: anzi, nel corso di una discussione poi rimossa, definisce la collega "la signora del Sacco", consigliandole riposo. E a chi gli fa notare l'indelicatezza con cui si rivolge a una collega impegnata in prima linea e che non l'ha mai criticato direttamente, risponde rincarando la dose: "Signora sostituisce un altro epiteto che mi stava frullando nelle dita". Su Facebook, alcuni commentatori accusano la dottoressa Gismondo di cercare solo visibilità per il suo prossimo libro sulle fake news del coronavirus. A rimettere al centro la barra prova un'altra illustre virologa italiana, Ilaria Capua. Sul coronavirus, dice intervistata a "In 1/2 ora" da Lucia Annunziata, "non c'è da piangere ma nemmeno da ridere, bisogna solo seguire pedissequamente quello che le organizzazioni internazionali ci dicono di fare". Secondo la scienziata, che negli Stati Uniti dirige il One Health Center of Excellence della University of Florida, "l'Italia sta vivendo una situazione più critica perchè sta cercando i casi più attivamente di altri". Una tesi confermata anche dal premier Conte, secondo il quale l'Italia è il paese europeo con più diagnosi perché è quello che ha effettuato più tamponi, oltre 4mila. Secondo la Capua, quella in atto è "una sindrome simil-influenzale causata da coronavirus" che potrebbe durare "fino a primavera inoltrata o prima dell'estate. Avremo a che fare con questo virus per un po' di tempo", avverte, "ma usiamo tutti il cervello ed evitiamo che girino notizie stupide che spaventano le persone più fragili". Se si tratti di pandemia, secondo la virologa, si potrà dire solo "quando avremo test diagnostici applicati in tutta Europa. Sono convinta", conclude, "che il virus farà il giro del mondo in tempi abbastanza rapidi, perché siamo tanti e il virus troverà tanti corpi, come batterie. Ma non vuol dire che ci saranno forme gravi, anzi molto probabilmente sarà sempre più debole".
Federico Vespa: «Sono stato bloccato da Burioni per avergli fatto una domanda». Laura Saltari il 10 Aprile 2020 su wondernetmag.com. Federico Vespa, giornalista, scrittore e conduttore su RTL, ha pubblicato un video dove afferma di essere stato bloccato su Twitter da Roberto Burioni per avergli rivolto una domanda. “Burioni immenso comunicatore”: è questo il titolo del video che Federico Vespa ha pubblicato poco fa sul suo account Facebook. Federico spiega nel video: «Un paio di ore fa mi è accaduto un fatto molto curioso. Da tempo seguo su Twitter il professor Roberto Burioni, un grande virologo che stimavo fino a poco tempo fa. Lo seguivo sostenendo la sua campagna pro vax. Oggi gli ho semplicemente sottoposto una dichiarazione del professor Giulio Tarro, abbastanza recente, che lo accusava velatamente di parlare di Covid-19 senza dati scientifici reali alla mano. Tra le molte cose che dice il professor Tarro c’è il fatto che il numero dei contagiati è infinitamente superiore a quello dichiarato. Se lo dividiamo per il numero delle vittime, l’incidenza del Covid-19 si assesta più o meno sull’1%. Ho sottoposto su Twitter questo quesito al professor Burioni il quale, anziché rispondermi, mi ha semplicemente bloccato. Ecco, io vorrei dire questo: da uno come il professor Burioni ci si aspetta un modo un po’ diverso di fare comunicazione. Perché così è davvero poca roba».
Federico Vespa, 41 anni, è figlio del celebre giornalista Bruno Vespa e di Augusta Iannini, ex magistrato. Dal 2007 conduce con suo padre “Non Stop News Raccontami”, un programma in onda su RTL il venerdì mattina dalle 8.00 alle 9.00, un confronto tra generazioni che si misurano sull’attualità, la politica, il costume e la musica. Ha condotto numerosi programmi tra i quali Non Stop News, Onorevole DJ, Password, Chi c’è c’è, chi non c’è non parla, Nessun Dorma. Ha condotto, sempre su RTL 102.5, il programma “Protagonisti” con Federica Gentile. È stato inviato, per la medesima emittente radiofonica, in numerosi eventi politici tra cui le elezioni politiche del 2008 e del 2013. Ha lavorato per Sky Sport come telecronista. Dal 2011 al 2015 ha commentato le gare di Serie A e Champions League per l’emittente televisiva Mediaset. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo libro, “L’anima del maiale. Il male oscuro della mia generazione”, edito da Piemme.
Il virologo Tarro: “come possiamo dare credito a tizi come Burioni e Capua?” Michele M. Ippolito il 15 Aprile 2020 su lafedequotidiana.it. “Rispettare sempre la sacralità della vita. Aprire gradatamente le attività”: lo dice in questa intervista che ci ha rilasciato il professor Giulio Tarro, virologo di assoluta fama, già candidato al Nobel.
Professor Tarro, fa capolino l’ idea che tutto sommato, per motivi di posti letto nelle sale rianimazione, si possano lasciar morire gli anziani senza speranza per salvare i giovani..
“E’ una barbarie medica e deontologica. Il medico ha il dovere di salvaguardare la vita umana di qualunque età. Lo dico da medico e da ex componente del comitato di bioetica”.
Perché si arriva a pensare a questo?
“Una cosa strana, da noi si amano bambini ed animali domestici e si fanno certi discorsi. Credo che dipenda dalla scristianizzazione del mondo occidentale nel quale la vita sembra contare poco. Lo affermo in qualità di medico e di cattolico. Naturalmente vale anche per l’aborto che, alla pari della eutanasia, è un omicidio ed un delitto abominevole compiuto su chi non può difendersi”.
Covid 19: si parla di possibili vaccini...
“Ci vuole tempo. Inoltre bisogna fare dei test, non è pensabile o ragionevole fare vaccinazioni a tappeto senza adeguata sperimentazione. Inutile sollevare facili entusiasmi. Occorrono almeno 18 mesi”.
In Italia dettano legge i virologi...
“Siamo un Paese strano. Ma come possiamo dare credito ad un tizio, Burioni che il due Febbraio sosteneva una cosa e adesso l’ opposto o alla Capua che ha una formazione veterinaria?”.
Bollettino delle sei del pomeriggio...
“Da non dare e soprattutto non vedere. E’ stressante ed è risaputo che lo stress abbassa le difese immunitarie. Lo stress causa adrenalina che a sua volta produce cortisone. Inoltre non si capiscono i criteri con i quali tale bollettino viene stilato. Non vengono messi in conto adeguatamente i tamponi compiuti. Inoltre, secondo dati ufficiali di autopsie dell’ Istituto Superiore della Sanità dunque non miei, su 929 morti, solo 19 sono causa diretta del Covid 19. Mi dicano quali competenze specifiche ha il dottor Borrelli che non è un medico. Trump ha scelto invece un fior di scienziato come Fauci. In Italia si è instaurata la dittatura dei virologi i quali hanno espropriato la politica. E vige la censura del pensiero unico”.
Farebbe uscire le persone di casa in modo più consistente?
“Con le dovute precauzioni, certamente sì, anche gli anziani ai quali una passeggiata senza contatti ravvicinati fa bene. Il moto fa bene al corpo. Del resto proprio noi medici non raccomandiamo specie a bambini ed anziani di prendere aria e sole che è utile alla vitamina D? Qui rischiamo di far impazzire la gente che si salverà dal virus, ma si ammalerà di testa”.
Riapertura attività?
“Gradatamente devono riaprire le attività, altrimenti si fa nera. Dal punto di vista sociale ed aggiungiamo emergenza ad emergenza”.
Messe senza popolo...
“Con adeguate misure ed accorgimenti io le avrei permesse ed insisto. Ma la gente è ossessionata dal pensiero unico. Mi ha impressionato quella Piazza San Pietro vuota segno della Chiesa che cede al mondo e ad uno scientismo dilagante”. Bruno Volpe
Coronavirus, parla il professore Giulio Tarro, virologo di fama internazionale. A Cura di Valentina Busiello il 3 marzo 2020 su salernotoday.it.
Nota - Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di SalernoToday.
Il Professore Giulio Tarro, Scienziato di Fama Internazionale, Virologo, selezionato dalla IAOTP International Association of Top Professionals. Presidente della Fondazione “Teresa e Luigi de Beaumont Bonelli” per le ricerche sul Cancro, e Chairman dell’Accademia Mondiale di Tecnologie Biomediche dell’UNESCO, responsabile del Comitato della Virosfera (la sfera dei virus), gli organismi presenti in maggior numero, nelle terre, acque e nell’aria. La Fondazione “Teresa e Luigi de Beaumont Bonelli”, nasce nel 1978 con la elezione in ente morale da parte dell’allora Presidente della Repubblica Leone, l’iniziativa vede la luce grazie ad un atto di liberalità della Marchesa Teresa Berger De Beaumont Bonelli, che alla sua morte, avvenuta in Roma nel 1973, istituitiva erede del suo patrimonio la costituenda Fondazione e ne nominava Presidente a vita il Professor Giulio Tarro, scienziato di fama internazionale. La Fondazione, che ha la propria sede legale in Napoli, nasce come momento aggregante di altri atti di liberalità ed ha come finalità quella di promuovere la ricerca sul cancro. Essa rappresenta nel nostro Paese un raro esempio di liberalità privata che concorre concretamente al sostegno delle ingenti spese necessarie alla ricerca oncologica. Attualmente la Fondazione dedica particolare attenzione ai giovani ricercatori con il finanziamento di borse di studio e mira a sensibilizzare e ad infomare il pubblico attraverso convegni su argomenti di settore e tavole rotonde. In quest’ottica, il Presidente, Prof. Giulio Tarro ricordando che secondo quanto previsto dallo Statuto fanno parte del Consiglio di Amministrazione il Prefetto di Napoli, ed il Presidente della struttura Ospedaliera, Universitaria o Accademica, dove si svolgono le Ricerche. Volge un appello a tutti coloro che consapevoli dell’impegno civile richiesto dalla lotta a questa tremenda malattia, intendano confluire, in spirito di servizio, a coinvolgere il maggior numero di persone nella complessa attività di sostegno alla ricerca scientifica che la Fondazione stessa da anni conduce, con l’obiettivo di rendere sempre più vicino un futuro sereno. Il Professore Giulio Filippo Tarro, nato a Messina è laureato con lode in Medicina e Chirurgia all’Università di Napoli, dove ha studiato con il Prof. F. Magrassi problemi di chemioterapia antivirale. Capitano di Corvetta della Marina Militare Italiana e successivamente di Fregata. Già professore di Virologia Oncologica dell’Università di Napoli, primario emerito dell’Ospedale “D. Cotugno”, è stato “figlio scientifico” di Albert B. Sabin. Per primi hanno studiato l’associazione dei virus con alcuni tumori dell’uomo presso l’Università di Cincinnati, Ohio, dove Giulio Tarro è stato collaboratore di ricerca presso la divisione di virologia e ricerche per il cancro del Children Hospital (1965-68) e quindi assistant professor di ricerche pediatriche del College of Medicine (1968-69). Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e del National Cancer Institute (USA) a Frederick, Maryland, è stato antesignano della diagnosi e della terapia immunologica dei tumori e coordinatore dell’ipertermia extracorporea in pazienti con epatite C per il First Circle Medicine di Minneapolis. Ha scoperto la causa del cosiddetto “male oscuro di Napoli”, isolando il virus respiratorio sinciziale nei bambini affetti da bronchiolite. Grande ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica, ha ottenuto numerosissimi riconoscimenti. Tra i molti ricordiamo: il premio Lenghi dell’Accademia dei Lincei, il conferimento delle medaglie d’oro da parte del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministero della Pubblica Istruzione e del Ministero della Salute, diverse cittadinanze onorarie italiane e lauree honoris causa all’estero. Nel 1996 è diventato giornalista pubblicista ed è iscritto all’albo dei giornalisti; ha ricevuto la “scheda di autorità” (autore) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali per le numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. Presidente a vita della Fondazione de Beaumont Bonelli (DPR 3-1-78) per le ricerche sul cancro e della Commissione sulle Biotecnologie della Virosfera, WABT (Accademia Mondiale di Tecnologie Biomediche) UNESCO. Professore aggiunto del Dipartimento di Biologia alla Temple University di Philadelphia, è stato presidente della Società Consortile della Regione Campania, Centro Tecnologie e Ambiente (CCTA) e della Lega Internazionale dei Medici contro la Vivisezione (LIMAV). Negli anni 1995-98 è stato membro del Comitato Nazionale di Bioetica dalla Presidenza del Consiglio. Nominato, con decreto del Ministro della Salute 20-05-2015, Componente del Comitato Tecnico Sanitario Nazionale nella sezione Lotta contro l’AIDS. Direttore responsabile del Journal of Vaccine Research and Development, Singapore. Laurea Honoris Causa in Medicina all’Univ. Cattolica di Albany (New York), in Immunologia nel 1991 presso l’Accad. St. Teodora di New York e in Bioetica nel 1996presso la “The Constantinian University”, Cranston (R.I.) USA; in Scienze sociali all’ Université de Bouaké, Abidjan, Costa d’ Avorio (2010). Professore ufficiale di Virologia Oncologica presso la I Facoltà di Medicina e Chirurgia di Napoli. Presidente della Lega Internazionale Medici Antivivisezione (LIMAV) dal 1992 al 2012 e Membro del Senato Accademico dell’Univ. Costantiniana di Providence, Rhode Island e dell’Univ.Pro Deo di New York. Accademico onorario dell’Univ. Sancti Cyrilli di Malta dal 2001. E’ Rettore onorario dal 2003 e Presidente dal 2013 dell’Univ. Ruggero II dello Stato della Florida negli USA. Nel 1997 è diventato Membro dell’International Informatization Academy delle Nazioni Unite. Coordinatore scientifico dell’ipertermia extracorporea in pazienti con epatite C per the First Circle Medical, Minneapolis, USA 2000-03. Già Presidente della Società consortile della Regione Campania “Centro Campano Tecnologia e Ambiente” (2004-2013). Il Professore Tarro ha un figlio che si chiama Giuseppe, e due bellissime nipotine, tra cui una si chiama Giulia.
INIZIO INTERVISTA
Professore Giulio Tarro, lei è un professionista Mondiale, che si è distinto a livelli Internazionali come Scienziato, Virologo, nella Ricerca, ma soprattutto per la sua brillante carriera nel settore dell’Eccellenza internazionale, ci parla degli sviluppi della Ricerca nel campo dell’Eccellenza e quanto è importante nel mondo, ma soprattutto di quanto sono importanti i rapporti di sinergia nel mondo insieme ad altri illustri professionisti del settore?
«E’ molto importante la sinergia tra professionisti, apprendere da importanti maestri nel mondo, citando nomi di fama internazionale. E’ un principio che ho appreso in particolare dal maestro Sabin, e la possibilità appunto di poter fare Ricerca con i vari gruppi, ovviamente moltiplicando le possibilità. E’ così con gli anni 60, con il Professore Sabin dopo l’aver scoperto l’antipolio, ci si è dedicati con i maggiori enti dei Centri Americani, per lo studio del rapporto fra Virus e Tumori. Nel 1911 per la prima volta il Professore Rous attraverso degli esperimenti riuscì a dimostrare che il sarcoma dei polli poteva essere generato con l'iniezione di un agente submicroscopico, denominato poi virus del sarcoma di Rous. L'intima connessione tra virus e cancro era stata finalmente scoperta. Nel 1966 riceverà il Premio Nobel per la medicina. Poi il microbiologo statunitense Joshua Lederberg, che conseguì nel 1958 il premio Nobel per la scoperta della sessualità nei batteri, suggerì una teoria basata sulla mutazione somatica. Ci siamo divisi i virus conosciuti in quel periodo, in particolare, ci siamo presi gli Herpes Virus, l’1 e il 2, il Professore Melnik, il Varicella-Zoster, il Cytomegalovirus, ed anche il virus di Epstein-Barr molto diffuso che provoca l'infezione conosciuta come mononucleosi, soprattutto nei ragazzi e adolescenti, tuttavia, non tutti si ammalano e alcune persone non manifestano alcun sintomo, poi c’è stato il Professore Hubner con i virus appartenenti alla famiglia degli Adenovirus, sono stati osservati per la prima volta nel 1953, isolati in un lembo di tessuto adenoideo umano. Insomma, bisognava dimostrare eventualmente se questi virus normali, avessero pure un aspetto oncologico, perchè i virus a DNA in particolare sono in grado di mettere il loro genoma e quindi direttamente in quello cellulare. E poi di mandare dei massaggi di malignità; potrebbe essere un messaggio di presenza i Biomarker, oppure eventualmente la trasformazione cellulare. Essendo un virus, si può fare un vaccino, non solo per la lesione cellulare, ma per la trasformazione, e quindi la crescita dei tumori. Successivamente si è visto un esempio, con i Virus dell'epatite sia B che C, che sono oncogeni del fegato. Per cui, già in prospettiva che stiamo nel 2020, possiamo dire che l’Italia avendo adottato nel 1990 l’obbligatorietà per il Virus dell’epatite B come vaccino, si è trovata avanti in questa prevenzione tumorale dei cancri del fegato. Siamo arrivati quasi a dimostrare un’associazione dell’herpes di tipo 2, poi diventato solo cofattore nei riguardi del Papilloma Virus (è la più diffusa tra le malattie sessualmente trasmissibili), che ha portato Zur Hausen Premio Nobel per questa Ricerca (ha condotto ricerche sul cancro alla cervice e ha scoperto il ruolo del papilloma virus nel suo sviluppo), e poi anche in particolare il vaccino che oggi protegge non solo dalla seconda causa di mortalità della donna, ad esempio il tumore al collo dell’utero, però è anche importante perchè ci sono altri tumori della sfera genitale, e nonchè tumori della testa e del collo che possono essere causati dallo stesso virus. Tra 200 virus del Papilloma sono una ventina oncogeni, e di questi il 16, e il 18, sono quelli maggiormente responsabili dei tumori».
Professore Giulio Tarro, chi ha scoperto il Vaccino contro la poliomielite?
«Il Professore Albert Bruce Sabin, medico e virologo statunitense, famoso per aver sviluppato il più diffuso vaccino contro la poliomielite. Sono stato il primo al suo laboratorio per la ricerca sugli antibiotici come antivirali, e poi chiaramente ho portato le conoscenze da noi in Italia, dove ho scoperto il “Male Oscuro” di Napoli che era legato al Virus Respiratorio Sinciziale, e quindi in particolare appunto alla bronchiolite dei bambini, che è un'infezione virale acuta che colpisce il sistema respiratorio dei bambini di età inferiore a 2 anni. Dopo un intervento di un giornalista che è stato in grado, diciamo così a stimolarmi, ad interessarmi del problema che fortunatamente si è risolto in pochissimo da quando con l’avallo non solo dell’Istituto Pasteur di Parigi, (è una fondazione francese che si dedica allo studio della biologia, dei microorganismi, delle malattie e dei vaccini) con il Professore Edlinger che allora era il direttore. Avevo scoperto questo virus, ma soprattutto l’importanza era legata al fatto che ben 7 responsabili dell’OMS(Organizzazione Mondiale della Sanità ), erano venuti prima a Roma all’Istituto Superiore di sanità, e poi ci siamo incontrati a Napoli per dirimere ogni dubbio ed avallare questa mia scoperta, sul Virus Respiratorio Sinciziale (RSV), che ripeto, è un virus che causa infezioni dei polmoni e delle vie respiratorie, è così comune che la maggior parte dei bambini sono infettati con il virus a 1 o 2 anni di età».
Professore Giulio Tarro, da buon Virologo di fama internazionale, tra i tanti virus che ci ha elencato, e sempre in tema di virus, ci spiega che cos’è questo Coronavirus?
«E’ giusta la sua domanda, anche perchè è di grande attualità, nel senso che, è conosciuta per essere solo una famiglia di virus, che danno il raffreddore come la famiglia del Rhinovirus (è un genere di virus che penetra per via aerodiffusa localizzandosi e moltiplicandosi nelle mucose nasali, questo perché necessita di una temperatura più bassa di quella corporea per riprodursi), il problema però è sorto all’inizio proprio di questo millennio. Nell’anno 2002-2003 c’è stata un’epidemia che è iniziata ad Hong Kong, già allora appartenente alla Cina, in cui si è sviluppata proprio la SARS (sindrome acuta respiratoria severa), che si è risolta in 6 mesi, 8.000 pazienti contagiati, 774 morti, e con un 10 per cento di mortalità. Parliamo in particolare della Cina, diciamo che e’ stato spesso anche perchè poi si è visto da allora ad oggi, si è poi focalizzata la Ricerca, che in quella zona della Cina Meridionale anche Occidentale, un esempio “se uno va a vedere nei contadini e negli agricoltori, hanno il 3 per cento degli anticorpi per il Coronavirus”. Questo già è una cosa importante, perchè se noi andiamo, come sono stati fatti degli studi dei colleghi Cinesi, almeno una cinquantina di Coronavirus vengono isolati dall’intestino dei pipistrelli, poi chiaramente infettano greggi, altri animali, e dopo passa dall’uomo, che con il 3 per cento hanno gli anticorpi, vuol dire che è nota una malattia un po’ mite o non diagnosticata, ma sicuramente c’è stato questo rapporto con il virus. Quindi è presumibile che certe mutazioni, come è successo nel 2002-2003 possono portare a forme più aggressive, come d’altra parte è successo nella SARS del Medio Oriente, che si chiama MERS, in cui ad un soggetto che si è ammalato e poi ha avuto un blocco renale ed è stato identificato un altro Coronavirus, come ci sono delle differenze con quelli già misurati dai pipistrelli, sono a livello genetico questi studi. E così attualmente anche nell’ambito dello stesso nuovo Coronavirus, Covid 19 (I coronavirus (CoV) sono un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi a moderate, dal comune raffreddore a sindromi respiratorie come la MERS). In caso particolare, questo è più vicino ai virus dei pipistrelli, gli originali che con la modifica della SARS è ancora più distante da quello più pericoloso della MERS, una malattia si può dire a macchia di leopardo, c’è stata pure un epidemia nel 2015 in Corea del Sud, gli studi e gia’ la SARS precedente e la MERS hanno portato agli anticorpi monoclonali funzionanti. Nel 2004 si sono bloccate le infezioni negli animali, nei furetti. Noi sappiamo che un animale molto vicino era lo zibetto di allora, che è quello che avrebbe trasferito il virus dal pipistrello all’uomo, come ad oggi si è pensato prima ai serpenti e poi soprattutto si parla del pangolino. Quattro gruppi di Ricercatori Cinesi hanno sequenziato il genoma di 6 diversi virus che sono stati trovati molto simili al Coronavirus della SARS. Ricercatori del centro infettivologico di Berlino hanno sviluppato una nuova metodica per diagnosticare il nuovo coronavirus e l’OMS ne ha pubblicato le linee guida. Professore Giulio Tarro, un suo consiglio sulla protezione attuale da questo Coronavirus, a tutti i nostri Italiani ? Consigliamo di effettuare delle protezioni in maniera intelligente, perchè non basta come è stato fatto di bloccare i voli per la Cina, se poi eventualmente si può arrivare da altre vie. Ancora, bisognerebbe fare come gli Americani, che hanno ripristinato la cosiddetta quarantena federale che negli anni 60 era utilizzata per il vaiolo e quindi attualmente dal 2 febbraio c’è bisogno alla frontiera sapere per chi viene, quali sono stati i suoi contatti, ed in base a questo chiaramente si possono effettuare controlli di sicurezza maggiore. Professore, nei casi di un soggetto con più patologie, questo Coronavirus può causare il decesso del soggetto? Non per niente per l’influenza normale si suggerisce di vaccinare, in particolare i soggetti broncopatici, cardiopatici, nefropatici, epatopatici, diabetici, tutti questi purtroppo sono dei catalizzatori».
Professore Tarro, ci spiega i virus influenzali, e quando sono di Gruppo A, B, e C, ci spiega il significato?
«Questi virus che si sviluppano all’interno della gola sono la causa principale della faringite, fra questi, principalmente il virus del raffreddore Rhinovirus. Un altro agente virale responsabile del mal di gola è il virus di Epstein Barr, appartenente alla grande famiglia degli Herpes virus e causa della mononucleosi acuta che colpisce principalmente bambini e ragazzi. Per quando si parla di un virus di Gruppo A e B, ci si riferisce all’influenza, che c’ha addirittura dei sottotipi che sono A, B, e C, perchè in particolare quello A causa le pandemie, dalla Spagnola del 1918 che ha causato più vittime della Prima guerra mondiale, all’asiatica del 1956 in cui esistevano già gli antibiotici. Ancora è arrivata quella da Hong Kong intorno agli anni 60, e poi ci sono quelle di questo millennio, hanno cominciato con la aviaria prima, e la suina dopo. La prima influenza nel 1918 è stata causata dal virus H1, N1, in particolare la neuraminidasi (appartenente alla classe delle idrolasi, che scinde il legame glicosidico tra un acido sialico, e uno zucchero nelle glicoproteine che costituiscono il muco, è detta anche sialidasi). La neuraminidasi è presente sulla superficie della membrana di numerosi organismi, nei virus influenzali di tipo A, in base a questo noi, poi li classifichiamo».
Professore Tarro, cosa ci consiglia per non ammalarci?
«Ovviamente i vaccini. Il vaccino varia anche di anno in anno, poi soprattutto abbiamo detto a livello di periodi storici, uno può essere protetto, ma non è protetto dal nuovo virus che circola. E quindi generalmente da un uccello acquatico, si spande per tutto il mondo, parte sempre dalla Cina. Ovviamente il vaccino potrebbe anche essere incontrollato, potrebbe avere degli effetti collaterali, in cui è stato visto soprattutto per i vaccini che sono stati preparati contro l’influenza degli anni 70, negli Stati Uniti».
Professore quanto è importante la Ricerca oggi?
«La Ricerca, ad oggi vista dal mio punto di osservazione, è quella che abbiamo accennato prima riguardante i gruppi in America per intravedere i virus responsabili dei tumori, e poi successivamente, utilizzando le metodiche della Virologia, noi abbiamo studiato in particolare con il Professore Augusto Pederzini di Mantova, proprio come Società Italiana di immunoncologia, in un periodo in cui si rischiava di essere eretici, parlando di immunoterapia dei tumori. In America, non vi sono più fondi per la chemioterapia, tutto il sostegno viene dato all’immunoterapia. Dopo la terapia chirurgica innanzitutto, quella radiante e quella chemioterapica, ma oggi abbiamo un’altra visione, tanto è vero che due anni addietro il Premio Nobel è stato dato a due Professori che si sono occupati di immunoterapia dei tumori, in particolare sul blocco dato dalle cellule tumorali nei riguardi delle cellule che producono anticorpi, sia umorali che cellulari, quindi diciamo che si parla ormai di anticorpi monoclonali, di sostanze prodotte da linfociti, c’è tutto un nuovo orizzonte che chiaramente ci fa’ molto sperare per la terapia. Proprio oggi viviamo di più se non andiamo incontro ai tumori. Abbiamo maggiore longevità, e quindi siamo più soggetti alla trasformazione cellulare legata alla riduzione della sorveglianza immonologica per l’anzianità. Attraverso la Ricerca c’è questa “speranza” di sconfiggere questa malattia dei tumori».
Professore Tarro, lei è un illustre del Premio Guido Dorso di cui ha ricevuto la targa del Presidente della Repubblica, ce ne vuole parlare?
«“In particolare, a parte i Premi, credo che quello che sia importante sono le vite che uno ha salvato “, questo è il Premio più importante che esista. Il Premio Nobel, ci sono alcuni aspetti che poi diventa uno dei tanti traguardi che ci sono, sicuramente è sempre un mezzo non un fine, come mi ha insegnato il Professore Sabin, attualmente fare una Ricerca che abbia però un senso umanitario, e deve essere obiettività sulla praticità. Sicuramente una medicina sociale, rivolta all’umanità».
Professore dove la troviamo nei prossimi convegni?
«A breve parto per Israele, quindi successivamente ci sono dei convegni nell’Oriente che con la situazione attuale che abbiamo non sò se riusciamo ad essere presenti. Sono un appassionato dei miei convegni in Cina, è una Nazione che per giunta ha una bella Rete intellettuale di Ricerca, molti sono Cinesi figli di Americani, quindi nelle Istituzioni, poi il Ricercatore viene riconosciuto per quello che fà, c’è la meritocrazia che è quella che viene poco considerata in Italia. Il prossimo convegno che sarà in Campania, vede la partecipazione dello scienziato, il Professore Norrby che edita il quarto volume sulla storia dei Nobel, per la genetica, per lo studio dei tumori, e quindi lui parlerà di questo, al Castel Capuano di Napoli, in data il 16 aprile in mattina. A Parigi, dovrei andare nel mese di marzo, perchè abbiamo un Meeting dell’Accademia Mondiale di Biotecnologie dell’UNESCO, e io sono Chairman della Virosfera, responsabile del Comitato della Virosfera ( la sfera dei virus), gli organismi presenti nel senso di numero, nelle terre, acque e nell’aria. Proprio di recente ho dovuto fare la monografia che mi ha suggerito, ed invitato il Professore Natale De Santo, per il bollettino Europeo dei Professori Emeriti».
Premiato negli Usa, snobbato in Italia. Italiano il miglior virologo al mondo. Criticò l'obbligo vaccini. Giulio Tarro, 2 volte candidato al Nobel, premiato all'Hotel Plaza come miglior virologo al mondo. Ma è tabù parlarne. Intervista di Antonio Amorosi su Affari Italiani Sabato, 15 dicembre 2018. In Italia di un virologo candidato al Nobel non sappiamo che farne. Sui vaccini nessuno ha voluto sentirlo parlare. Si chiama Giulio Tarro, allievo di Albert Sabin (l'inventore del vaccino contro la poliomielite), più volte candidato al Nobel per la Medicina, e questa sera riceverà il premio di virologo dell'anno dall'Associazione internazionale dei migliori professionisti del mondo (IAOTP). La cerimonia si terrà all'Hotel Plaza di New York, luogo di grandi celebrazioni istituzionali americane e set di film famosi, e una sua gigantografia capeggerà in Time Square, ma sui giornali italiani non ne troveremo traccia. Il professore napoletano, presidente della Commissione sulle biotecnologie della virosfera all’Unesco e autore di numerose ricerche presso le università statunitensi, tra cui alcune sul rapporto tra virus e tumori, sarà l'unico italiano insignito alla cerimonia. Oltre ad aver ricevuto innumerevoli riconoscimenti e incarichi durante la sua lunga carriera Tarro, con la sua biografia, verrà anche inserito nella rivista TIP (Top Industry Professionals) e premiato con l'Albert Nelson Marquis Lifetime Achievement Award dall’Associazione internazionale dei migliori professionisti, con la biografia pubblicata sul The Wall Street Journal. Forse la colpa di Giulio Tarro, che ricopre incarichi anche in Italia, è essersi espresso in passato con grande scetticismo sull'obbligo dei vaccini imposto dai governi italiani (Renzi-Gentiloni con ministro Beatrice Lorenzin). Così lo abbiamo sentito con Affaritaliani, come facemmo in esclusiva nel marzo scorso, quando in tema di vaccinazioni ci spiegò tra il serio e il divertito che “qualcuno pensa al nostro posto, il Grande fratello, Big Pharma”.
Professore, intanto congratulazioni, ma lei è sempre più un mistero... la premiano negli Stati Uniti, ha riconoscimenti in tutto il mondo e in Italia non le fanno dire neanche una parola sui vaccini!?
“Su questo tema non vengo contattato dall'Italia. Nessuno mi ha mai chiesto niente perché qui sui vaccini c'è una guerra ideologica, quindi che vuole che le dica (se la ride) la scienza e la realtà servono a poco in questi casi”.
Ma lei è spesso negli Stati Uniti, dove ha anche lavorato, è lì non c'è l'obbligo di vaccinazione...
“Qui si usa la persuasione e solo il 3% della popolazione non si vaccina. Un risultato ottimo. Veda un po' lei se funziona o meno. Forse noi italiani non sappiamo pensare e allora qualcuno deve farlo al posto nostro (ride)”.
Avanza una medicalizzazione estrema, nella nostra società!?
“Le cose non devono essere imposte. Ad esempio i virus non sono sempre cattivi. In alcuni emisferi servono a far crescere le piante. Ma in Italia tutta la questione è diventata ideologica e non trattata con le dovute cautele. Ma vediamo di cosa parliamo. Il vaccino è un farmaco e un mezzo di prevenzione per impedire o limitare l'azione di un virus. La prima richiesta sarebbe quella di fare un composto che deve fare solo bene. Cosa già più difficile perché parliamo comunque di farmaci. Diventa poi tutto ancora più arduo, visto che abbiamo a che fare con bambini e le sostanze che vi sono nei vaccini non devono avere effetti negativi su questi organismi ancora delicati. Chi riceve il vaccino deve essere controllato, risultando in buone condizioni di salute. Abbiamo cioè tutta una serie di variabili di non facilissima gestione e non controllabili al 100%. Per questo si preferisce la persuasione, spiegando come stanno le cose, e facendo un'anamnesi del paziente. Ma se si abbraccia la strada di una vaccinazione di massa questo non è possibile”.
E la famosa immunità di gregge?
“Ma bisogna arrivare al 95% della copertura e in quel caso sì, il virus circola meno, anche se resta un 5% della popolazione che vive a sbafo (ride, poi si fa serio). Resta solo una questione statistica. Su come intervenire bisogna sempre avere cautela e vedere caso per caso, se l'organismo è in salute o se nel soggetto vi sono delle immunodeficienze costituzionali, congenite o acquisite.”
Ma qual è il problema italiano?
“In generale e si riversa anche in questo campo, la mancanza di meritocrazia in tutto. E' il nostro grande gap. Ma per orientarsi nel mio settore basta tornare a Pasteur. Come diceva, 'l'organismo è tutto rispetto al microbo'. Noi possiamo sollecitare delle difese ma deve essere l'organismo a reagire.”
Cosa consiglia al nuovo governo? Cosa deve fare?
“Non consiglio nulla. Sta facendo. Il ministro è un medico e quindi ha una preparazione nel campo. Sui vaccini il nuovo governo si è mosso con grande saggezza”.
A proposito di scelte politiche. Di recente in Emilia Romagna vi è stata un violenta polemica perché la Regione vuole tenere solo gli infermieri sulle ambulanze del 118. Lei che pensa?
“Conosco la realtà americana è lì gli infermieri sulle ambulanze sono formati come fossero medici. In Italia, per quanto molto bravi, non siamo agli stessi livelli. Se raggiungessimo, in quel settore, gli standard americani si potrebbe anche fare così, ma per adesso non ha senso”.
E che pensa degli attacchi di media e istituzioni al presidente dell'Ordine dei medici Giancarlo Pizza che ha radiato l'assessore regionale che ha preso questa decisione?
“E' davvero un ottimo professore. L'ho conosciuto anni fa quando insieme ci occupavamo di immunoterapia. Oggi negli Stati Uniti non si parla d'altro, ma allora eravamo eretici. Sa, negli Stati Uniti la meritocrazia ha un valore importante. In Italia non mi sembra (ride)”.
Allora... buon premio e speriamo qualcun'altro si accorga di lei... anche per la nostra salute di italiani.
“Forse, quando mi assegneranno il premio di “Roccacannuccia”... (ride, sottovoce)”.
Dieci cose da sapere su Giulio Tarro. Giulia Corsini il 5 Febbraio 2019 su nextquotidiano.it.
1 – Giulio Tarro viene spesso presentato come “il miglior virologo del mondo” o come “il migliore virologo dell’anno”. Il virologo premiato negli USA ma snobbato in Italia. Nel 2018 ha effettivamente ricevuto un premio da un’associazione americana chiamata IAOTP (Associazione internazionale dei migliori professionisti) come”miglior virologo dell’anno”. Peccato che, come ha scoperto il noto sito di bufale BUTAC, la IAOTP sia una sorta di agenzia che vende onorificenze. In ambito scientifico questo tipo di premi sono noti come predatory prize, si tratta di premi che vengono assegnati a persone che in genere ricevono e-mail e telefonate scam di congratulazioni per spingerli a pagare grosse somme per targhe commemorative, copie di souvenir o premi.
2 – Chi parla di Giulio Tarro, spesso dichiara che sia stato candidato al Nobel una, due o addirittura tre volte. Il “Pluricandidato al Nobel”. Anche i Lions hanno festeggiato la sua candidatura nel 2015. Peccato che le candidature al Nobel in realtà vengano rese pubbliche solo dopo cinquant’anni dall’anno di una premiazione. Il fatto curioso è che le candidature non vengono divulgate a nessuno eccezion fatta per la commissione che deve valutare chi tra i candidati vincerà il prestigioso premio. Questo è stato ulteriormente chiarito dalla Fondazione Nobel in una mail in risposta ai quesiti dei Biologi per La Scienza.
3 – Facendo una ricerca su Giulio Tarro online notiamo che ha partecipato numerose conferenze internazionali. Esistono video, locandine e siti targati OMICS, Conference series e Pulsus. Si tratta di alcune delle aziende registrate sotto il nome del Dr. Srinubabu Gedela in India, USA, Regno Unito e Singapore insieme a molte altre (iMedPub, Allied Academies, Trade Sci, SciTechnol, e EuroSciCon.). I gruppi che fanno capo al dr. Gedela sono noti nel mondo scientifico per organizzare predatory conferences, ovvero convegni farsa che si spacciano per convegni scientifici, senza un vero e proprio controllo editoriale sulle presentazioni, che sfruttano i ricercatori traendo guadagno dalla presentazione e addirittura da un eventuale pubblicazione correlata su riviste associate (anch’esse predatorie, in cui non c’è un reale controllo editoriale) che può costare da qualche centinaio a qualche migliaio di dollari. Per questo motivo la Commissione Federale per il Commercio americana ha addirittura intentato una causa contro il gruppo OMICS, con l’accusa di “ingannare accademici e ricercatori rispetto alla natura delle pubblicazioni, e nascondere costi di pubblicazione che variano da centinaia a migliaia di dollari ‘e sempre per questo motivo nel novembre del 2017 la Corte Federale del Nevada ha condannato Srinubabu Gedela e i suoi gruppi.
4 – Giulio Tarro ha pubblicato in alcuni giornali seri ma anche in numerosissimi predatory open access journal, riviste farsa che non hanno un serio controllo editoriale e guadagnano facendo pubblicare i ricercatori, come Scholarena, SOAOJ, Sci Forschen, Scientific Research Publishing (SCIRP). Su Pubmed ha 67 lavori a partire dal 1961, di cui 29 su riviste in lingua italiana. Su Scopus 87 documenti con un totale di 344 citazioni ma un H index incredibilmente solo di 9. l’H index è un criterio che si usa per quantificare la prolificità e l’impatto scientifico di un autore ed è decisamente bassino per un pluricandidato al Nobel!
5 – Giulio Tarro dichiara di essere editor della rivista Journal of Vaccine Research & Development edita a Singapore, senza impact factor, talmente scalcagnata da non avere nemmeno un comitato editoriale. È anche editor di Journal of Clinical Microbiology and Antimicrobials e SciTechnol, riviste che appartengono al gruppo OMICS.
6 – Giulio Tarro è noto per la sua posizione critica nei confronti dell’obbligo vaccinale. Ha partecipato al convegno ‘Vaccinare in Sicurezza’ organizzato dall’Ordine Nazionale dei Biologi rappresentato da Vincenzo D’Anna. Tra i relatori erano presenti numerose figure di spicco del mondo no-vax. Nel 2017 avvenne la radiazione da parte dell’ordine dei medici del cardiologo, omeopata no-vax Roberto Gava, a causa delle sue continue esternazioni antiscientifiche sui vaccini. Giulio Tarro nel suo libro ’10 cose da sapere sui vaccini’ dedica un intero capitolo a Gava, prendendone le difese. Il capitolo si chiama – “Il caso Roberto Gava: colpevole o innocente?” Nel suo libro sostiene che la vaccinazione obbligatoria è “operazione di Big Pharma” dimenticandosi che la maggioranza assoluta degli scienziati sostiene che le vaccinazioni sono necessarie.
7 – Tarro afferma di essere stato docente ufficiale dell’Università di Napoli Federico II. Tralasciando il fatto che il titolo di “docente ufficiale” non esista e che si è professori universitari in base a vari inquadramenti (“di ruolo”, “associato”, “a contratto”); Tarro non compare nei registri online dell’Università di Napoli Federico II e in quelli accessibili da Cineca, il portale ufficiale per la ricerca dei docenti. Egli si dichiara Membro del Senato Accademico dal 1990 dell’Università Costantiniana di Providence, Rhode Island e dal 1994 dell’Università Pro Deo di New York, Accademico onorario dell’Università Sancti Cyrilli di Malta dal 2001 e Rettore onorario dal 2003 dell’Università Ruggero II dello Stato della Florida negli USA. La giornalista scientifica Sylvie Coyaud ha scoperto che si tratta di quattro false università che vendono diplomi e onorificenze al miglior offerente. Non compaiono infatti nel database pubblico degli istituti autorizzati a operare negli USA. Non si trova evidenza della Laurea Honoris Causa in medicina conferitagli dall’Università Cattolica Albany (New York) nel 1989. È presidente della Norman Academy (o Accademia dei Normanni) e dell’Università Popolare Tommaso Moro, sono università non accreditate e non riconosciute dal MIUR che distribuiscono dunque titoli che non hanno valore accademico.
8 – Giulio Tarro dichiara di aver isolato il Virus Respiratorio Sinciziale nei bambini ammalati durante l’Epidemia del “male oscuro” che ha colpito Napoli verso la fine degli anni Settanta. La sua prima pubblicazione sul tema risulta però essere del 1980 , invece il primo articolo pubblicato dai docenti dell’Università di Napoli del 1979 parla già di isolamento ed identificazione del virus sinciziale. Tarro non è tra gli autori e non compare citato neppure nelle fonti bibliografiche
9 – Nel 1969 il siero di Bonifacio ottenne un grande risalto nei giornali. Il siero che prende il nome dal suo ideatore Liborio Bonifacio era un composto a base di feci e urina di capra. Bonifacio credeva erroneamente che le capre non si ammalassero di cancro. Il risalto mediatico dato dai giornali alla vicenda spinse l’allora Ministro della Sanità, Camillo Ripamonti, ad autorizzarne la sperimentazione: essa interessò 16 pazienti, seguiti per un periodo che andò dai 23 ai 75 giorni, con risultati che la commissione giudicò deludenti (4 pazienti morirono durante la sperimentazione, nessuno mostrò miglioramenti). Tarro si appassionò a tal punto che condusse degli studi a riguardo. In quel periodo Tarro scopre la TLP (Tumor Liberated Protein). Un vaccino con questa proteina a suo dir stimolerebbe e potenzierebbe la risposta immunitaria dei malati di tumore. (Si, un vaccino). Nel frattempo un bancarottiere, Salvatore Cacciapuoti (Credito Campano) era stato condannato in Italia a 5 anni per bancarotta fraudolenta ed era fuggito in Svizzera, dove aveva fondato una società farmaceutica che si proponeva di sfruttare le ricerche sulla lotta ai tumori effettuate da Giulio Tarro (che secondo i giornali dell’epoca farebbe parte della società). Quando la messa in vendita sembrava imminente fu presentata la richiesta di estradizione da parte dei magistrati campani. Nel 1999 Tarro sostiene la falsa cura di Vasselliev, nota come “biocorrezione” e pubblica con quest’ultimo un articolo. Si tratta di una cura non scientificamente provata che potrebbe a seconda dei casi essere addirittura pericolosa. Come evidenziato da Medbunker (celebre sito di debunking che si occupa di medicina e false cure), Vassilliev promette di guarire da diverse malattie e sembra che i suoi “metodi” siano praticati in alcune cliniche in giro per il mondo soprattutto in Israele e che i costi sono vertiginosi: si parla di decine di migliaia di euro. Le ricerche sulla TLP vengono attualmente finanziate dalla Fondazione Teresa & Luigi de Beaumont, Bonelli Onlus, di cui Tarro è presidente a vita. Si tratta di un’associazione ben pubblicizzata dai giornali nazionali. Facendo una ricerca sulla TLP si trova che ne parla quasi unicamente Tarro nelle riviste predatorie sopracitate.
10 – Giulio Tarro è stato interrogato dalla magistratura per truffa ed estorsione ai danni della scomparsa Stefania Rotolo ammalata di cancro all’utero. Secondo l’accusa il medico avrebbe tentato di vendere un farmaco alla showgirl per 40 milioni di lire, un prezzo molto più alto di quello reale, una sostanza anticancro spacciata per Interferon. Tarro verrà assolto per mancanza di prove, invece il suo assistente il dr. Antonio Battista verrà condannato a sei anni.
Si ringrazia Biologi per la Scienza per l’importante contributo nella stesura di questo articolo.
Onorificenze a caso…. By maicolengel-Michelangelo Coltelli su butac il 31/12/2018. Chiudiamo l’anno con un articolo che non arriva per merito di una segnalazione. Durante il weekend sulla bacheca di un amico ho notato una notizia che ha stuzzicato la mia voglia di andare più a fondo di certe narrazioni. La notizia vista su Facebook era stata pubblicata da Affari Italiani il 15 dicembre 2018: Premiato negli Usa, snobbato in Italia. Italiano il miglior virologo al mondo. Il soggetto premiato è Giulio Tarro, autore di un libro decisamente critico nei confronti dell’obbligo vaccinale. Quel titolo mi ha incuriosito, ma davvero Tarro è considerato il “migliore virologo al mondo”? Il primo link dell’articolo mi rimanda a un’altra celebrazione, riportata da Il Mattino: I Lions festeggiano Giulio Tarro per la nomination al Nobel. Nell’articolo ci viene raccontato che: Il professor Tarro – spiega la promotrice della serata – ha ricevuto la nomination per Medicina e Fisiologia avendo speso una vita per la ricerca. È una nostra ricchezza da valorizzare sempre e da celebrare per il suo lavoro oltre che per questa attestazione. Come ben sa chi legge BUTAC una nomination ai Nobel non è qualcosa di speciale, sappiamo ad esempio che qualcuno ha tentato di nominare Fabio Volo, ma anche Vladimir Putin. Esistono decine di migliaia di soggetti nel mondo che possono proporre una nomina per i premi Nobel, senza che questo significhi che il comitato del Nobel le prenda in seria considerazione. Il dott. Tarro ha avuto il supporto di un Lions club che ha voluto proporre la sua nomination ai Nobel nel 2015, come ben sappiamo non ha vinto il Nobel, e se la sua nomination sia stata o meno presa in considerazione in qualche maniera lo sapremo tra 47 anni, quando saranno rese note le candidature del 2015 scelte dal Comitato del Nobel. E fin qui ci siamo, l’articolo de Il Mattino spiegava le cose in maniera un filo superficiale, nulla che non capiti spesso in articoli di quel genere. Ma veniamo al premio di cui parlava Affari Italiani il 15 dicembre. La prima cosa che trovo cercando in rete è che la stessa identica notizia è stata data dal sito dell’Ordine Nazionale dei Biologi il 15 ottobre 2018. Fatico a comprendere come mai una notizia vecchia di due mesi venga ripresa da un sito che ci tiene a dire di essere il “primo quotidiano digitale”: se i tempi di pubblicazione sono quelli direi che non pubblica notizie freschissime. Ma vabbè, passiamo oltre. La notizia sul sito dell’ONB e su AI è la stessa, ci viene spiegato che: Si chiama Giulio Tarro, allievo di Albert Sabin (l’inventore del vaccino contro la poliomielite), più volte candidato al Nobel per la Medicina, e questa sera riceverà il premio di virologo dell’anno dall’Associazione internazionale dei migliori professionisti del mondo (IAOTP). La cerimonia si terrà all’Hotel Plaza di New York, luogo di grandi celebrazioni istituzionali americane e set di film famosi, e una sua gigantografia capeggerà in Time Square, ma sui giornali italiani non ne troveremo traccia. Vediamo di rispondere al perché sui giornali italiani (quelli normali) della notizia non si trovi traccia. Il premio è dato da quest’associazione di nome IAOTP, che non è il comitato dei Nobel. Anzi, ad essere sinceri non è ben chiaro cosa sia. IAOTP sta per International Association Of Top Professionals, onestamente non ho mai sentito questo nome, ma magari è colpa mia. Una ricerca online mi riporta solo al sito dell’associazione stessa, ad articoli sullo stesso tono pubblicati da testate non particolarmente note o affidabili, e null’altro. Non esiste una pagina wiki, non esiste menzione di questo premio (americano) su testate note in nessuna parte del mondo. Decisamente un’associazione non particolarmente nota al mondo. Normale che le testate italiane non facciano menzione del premio in questione. Per curiosità guardo sul sito dell’associazione i premiati del 2018, per vedere se qualche nome mi risulta noto. Sul sito l’unico modo di accedere ai nomi dei premiati anno per anno è avere una password, ma non esiste modo di fare una registrazione allo stesso. Strano per un’associazione che sostiene di premiare i migliori professionisti al mondo, dovrebbero essere orgogliosi delle proprie liste di candidati. Una prima analisi mi fa capire che il favoloso premio esiste dal 2016, prima di allora non si trova traccia dell’associazione e dei suoi fondatori. Quindi si tratta di un’onorificenza che viene data solo da tre anni, comprendo perché sia poco nota. Una visita al profilo social dell’associazione mi mostra tante belle foto dei premiati del 2017, senza che riconosca un singolo viso, senza che riconosca un nome. Sì vero, tra i vincitori che non si sono presentati a ritirare il premio risultano anche un giudice americano e uno scienziato/professore universitario. Ma nessuno dei presenti al ritiro del premio è di alcuna notorietà, anche ricercandoli in rete. Oltretutto per poter parlare di “miglior professionista dell’anno” sarebbe interessante sapere quali siano gli altri candidati in ogni categoria, quelli che il premio non l’hanno vinto. Visto che i vincitori sono soggetti di scarsissima notorietà mondiale, per certificare la loro vittoria come best of vorrei sapere quali altri soggetti fossero stati proposti. Nella categoria virologi ad esempio mi aspetterei di vedere tra gli italiani il nome di Roberto Burioni, visto che lui – a differenza del vincitore – quest’anno è stato nominato su tante testate internazionali, ma non ne trovo traccia da alcuna parte. Ci sono tanti altri noti virologi in giro per il pianeta, non trovo traccia dei loro nomi né quest’anno né nelle precedenti edizioni, è strano. Qualcuno di cattivo potrebbe definire la premiazione come un “vorrei ma non posso”. Lascio a voi ulteriori considerazioni sul premio. Quello che però vorrei fosse chiaro è che di onorificenze farlocche è pieno il mondo, esistono centinaia di associazioni che inviano a potenziali candidati la notizia della candidatura a qualche premio. Unita alla candidatura c’è sempre una richiesta monetaria allegata, che serve per coprire le spese dell’evento. In pratica siamo di fronte a una semplice e geniale truffa, ben spiegata da un sito americano:
… honorees are often recruited via mass-sent “congratulations” emails or phone calls in hopes that ego-stroking or hard-sell tactics will elicit the spending of big bucks on “memberships,” commemorative plaques and/or souvenir copies.
Che tradotto: …i premiati vengono spesso reclutati tramite e-mail o telefonate di congratulazioni inviate in maniera massiccia nella speranza che stuzzicare l’ego o lo sfruttare tecniche di vendita aggressive li spinga ad accettare la spesa di grosse somme per “adesioni”, targhe commemorative e / o copie di souvenir. Sia chiaro, magari sbaglio, ma fossi in un giornalista di Affari Italiani non riterrei il “premio” dato a Giulio Tarro come prova che sia in effetti il miglior virologo al mondo. Ovviamente ognuno fa un po’ quel che gli pare finché nessuno controlla, verifica e chiede conto di come stiano le cose. Trovo decisamente più grave che la stessa notizia sia stata data dall’Ordine Nazionale dei Biologi, ordine che dovrebbe essere decisamente a conoscenza delle onorificenze farlocche in giro per il mondo. Una delle linee guida che suggerisco quando si parla di premi di questo tipo è: prima di pubblicare alcunché sul premio, chiedere informazioni approfondite all’associazione che ha scelto il vincitore.
Ad esempio:
Qual è il processo di selezione?
Come sono stati candidati i vincitori?
Sulla base di quali lavori?
Chi sono i votanti?
Che esperienza hanno nel settore del vincitore?
Deve pagare qualche cosa il vincitore?
Quanto?
Per cosa?
Basta poco per comprendere come stiano le cose. Se c’è da pagare per avere un trattamento speciale già sappiamo di essere di fronte a un premio truffa, perché i premi seri non fanno distinzioni tra premiati in base alle loro disponibilità economiche. Allo stesso modo se non sanno spiegare sulla base di che informazioni il candidato abbia vinto il premio è forte il rischio che si tratti di un premio fuffa. E così via.
Anche Oca Sapiens a suo tempo aveva notato le candidature al Nobel di Giulio Tarro… Non credo sia necessario aggiungere altro.
Chi è davvero Giulio Tarro, il virologo anti-Burioni e De Luca. Tra titoli inventati e bufale. Lauree honoris causa in strani istituti, pubblicazioni in riviste non riconosciute, sieri di feci di capra e autocandidatura al premio Nobel. Tutto quello che non torna nel curriculum dello scienziato amato dalla tv. A cui manca, forse per poco, solo la politica. Massimiliano Coccia il 24 aprile 2020 su L'Espresso. Uno spettro si aggira per l’Europa: il virologo. Magari già Premio Nobel o luminare non ascoltato in patria che sa tutto sul Covid. Ogni Paese ne ha uno e l’Italia non fa eccezione. Per noi a difendere i colori della categoria c’è Giulio Tarro, primario emerito dell’Ospedale Cotugno di Napoli, che ha più volte sostenuto che con il caldo il virus scomparirebbe e che in Italia il "lockdown è senza senso, perché dobbiamo usare le armi di questo Paese, il sole e il mare per aiutarci a guarire", quindi "andare in vacanza invece che rimanere in casa col contagio familiare", e che in "Africa la malattia non sta attecchendo perché fa caldo" - mentre un rapporto della Commissione economica delle Nazioni Unite per il continente nero avverte: la pandemia può fare 3,3 milioni di vittime. Tarro, che si definisce, "Miglior virologo al mondo" in virtù di un premio conferito da una agenzia americana, la IAOTP che crea siti internet, è stato ripescato prima dai media locali e poi da reti televisive nazionali dopo una lunga assenza dal panorama mediatico che non ha però sanato le incongruenze che il suo curriculum ci regala e nonostante questo non ha lesinato giudizi sprezzanti nei confronti di altri membri della comunità scientifica: "siamo un Paese strano. Come possiamo dare retta a due tizi come Roberto Burioni e Ilaria Capua?". Siamo un Paese strano è vero e si sa che il titolo di "Professore" non si nega a nessuno, dal medico di base fino all’insegnante di ripetizioni private è un fioccare di titoli ed è così anche per Tarro che non è mai stato docente come dichiara nel suo curriculum, anzi "docente ufficiale", perché i professori universitari hanno vari inquadramenti di ruolo, a contratto, associato, ordinario, mentre Tarro non compare nei registri online dell’Università di Napoli Federico II e in quelli accessibili da Cineca, il portale ufficiale per la ricerca dei docenti a livello nazionale; risultano invece alcuni brevi corsi tenuti negli anni ’70. Abbiamo saggiato nelle righe precedenti la passione di Tarro per i titoli "pezzotti" come si direbbe a Napoli, titoli onorifici alle volte a pagamento, che sopratutto negli anni ’80 e ’90 spopolavano: bastava avere un’associazione culturale statunitense situata in qualche sperduta landa dal nome roboante e con qualche centinaia di dollari si poteva avere un bel diploma di benemerenza honoris causa. Il metodo funzionava meglio quando non c’era la rete ma rimane ancora attivo: in pratica una istituzione culturale dà a pioggia gratuitamente titoli onorari a docenti, Nobel, deputati, senatori; titoli che non hanno nessuna valenza legale perché non riconosciuti, che però fanno gola a chi un titolo lo ambisce per prestigio personale, magari domestico, e che in questo caso è a pagamento. Le lauree honoris causa che Tarro dichiara di possedere provengono da entità pittoresche come l’Università Costantiniana di Cranston che lo ha insignito - scrive nel suo curriculum -di un "titolo honoris causa" in bioetica nel 1996, "Università" che fu al centro di una polemica proprio con Albert Sabin, il virologo che trovò il vaccino per la poliomelite di cui Tarro fu allievo. Da documentazione acquisita sul portale dell’Università di Cincinnati infatti è possibile reperire il carteggio in cui Domenic Vavala, rettore dell’ateneo inviò una lettera di scuse e spiegazioni per averlo messo senza la sua autorizzazione all’interno di un opuscolo che annunciava il conferimento di una "Laurea". Sabin, evidentemente alterato, scrisse anche all’Ambasciata statunitense a Roma per chiedere quale fosse lo status giuridico dell’Università e per tutta risposta gli venne ricordato che non si trattava di una università riconosciuta ma di un ente filantropico. Nel carteggio si fa riferimento a Giulio Tarro come tramite delle comunicazioni. Tarro compare anche nella didascalia del sito dell’università Costantiniana di Craston in cui Sabin ricevere una preziosa pergamena da Vavala niente di meno che al "Quirinale palace" nel 2001: peccato che quello non sembri proprio il Quirinale e soprattutto che Sabin abbia lasciato questa terra nel 1993. Degne di nota sono anche le lauree honoris causa conferite dalla sconosciuta St. Theodora Academy di New York nel 1991 in "Immunologia", quella in Tecnologie Biomediche dalla "prestigiosa" ASAM University di Roma (The Western Orthodox University, un ente simile all’Università Popolare). C'è anche un vessillo in Scienze Sociali in Costa d’Avorio, esattamente alla Bouaké University, che fu fondata nel 1992 come centro universitario, nel 1995 ricevette un riconoscimento giuridico e proprio nel 2010 a causa di disordini militari chiuse, ma fece in tempo a conferire un’altra laurea al pluridecorato Tarro. Oggi l’Ateneo ha cambiato nome e si chiama Università di Alassana. Una passione per i premi, quella di Tarro, che ha toccato il prestigioso Nobel, riconoscimento a cui sarebbe stato candidato per molte volte come sostenuto e mai smentito dal diretto interessato: circostanza inverificabile visto che, come confermatoci dalla stessa Accademia di Svezia, le candidature sono rese pubbliche cinquant’anni dopo il conferimento di un premio. Inventata è la "Commissione per la virosfera" presso l’Unesco di cui Tarro ha comunicato essere stato nominato presidente dopo anni di battaglie. Enrico Vincenti, Segretario Generale per la Commissione Nazionale Italiana dell’Unesco ci ha scritto: "da una verifica effettuata presso il Segretariato dell’Unesco a Parigi è risultato che all’interno dell’Unesco non esiste un comitato per la virosfera e che l’UNESCO non ha alcuna associazione con il Prof. Giulio Tarro". Una smentita che si aggiunge al fiume di altre che provengono dal mondo accademico dove ci suggeriscono che Tarro non salvò affatto Napoli dal "male oscuro" perché l’isolamento del virus respiratorio sinciziale avvenne nel 1979 da un pool di ricercatori composto dalla Cattedra di Virologia Ornologica, Istituto di Patologia Generale, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Napoli cattedra di Virologia e dal Laboratorio di Malattie Batteriche e Virali dell’Istituto Superiore di Sanità. Tarro pubblicò successivamente studi sul virus, ma non fu certamente colui che isolò in solitudine il virus e permise la salvezza dei bambini di Napoli, ma come spesso accade nella sua biografia ebbe una buona capacità comunicativa. Anche perché nel 1980 mentre Napoli combatteva col colera Tarro, come racconta anche il professor Roberto Burioni nel suo libro "Balle spaziali" (Rizzoli), incontrò Liborio Bonifacio, un veterinario che nel 1969, aveva inventato un composto a base di feci e di urina di capra, perché Bonificio aveva l’erronea convinzione che le capre fossero immuni al cancro. Nonostante la sperimentazione sia sulle capre che sugli esseri umani avesse fallito nei primi anni ’70, quasi dieci anni dopo Tarro si fece convincere da Bonifacio e accettò di provare nuovamente il siero e come scrive Burioni: "proprio in quel periodo lo stesso Tarro tira fuori un suo farmaco miracoloso (chiamato TLP, Tumor Liberated Protein) che a suo dire stimola e potenzia la risposta immunitaria dei malati di tumore. Bonifacio comincia a sospettare che il TLP non sia altro che il suo siero segreto sotto un falso nome (tra scienziati si intendono) e l’idillio finisce, ma non prima dell’organizzazione di un convegno a Saturnia intitolato «L’anticancro Bonifacio: riesame 1980» che si conclude con qualcosa di molto simile a una rissa". Ovviamente il TLP di Tarro scomparve dalla scena ma il siero di Bonifacio complici due medici siciliani vive ancora. D'altra parte Giulio Tarro ha da sempre il sogno di curare il cancro e può farlo grazie alla Fondazione per la ricerca sul cancro "Teresa e Luigi de Beaumont Bonelli" da lui fondata nel 1978 con il lascito della contessa Teresa: la fondazione ha il nobile scopo di finanziare borse di studio per la ricerca sul cancro. Ma anche qui la situazione appare poco chiara perché nella sezione "Cosa finanziamo" appaiono solamente lavori pubblicati consultabili su riviste definite "Predatory Publishers" ovvero riviste che prendono studi (senza revisionarli o senza un adeguato controllo) e li pubblicano, distorcendo il sapere scientifico e dando vita a campagne di disinformazione e speculazioni. Tarro inoltre dichiara di essere editor della rivista "Journal of Vaccine Research & Development" edita a Singapore, senza impact factor e senza comitato editoriale. Legato alle sue attività con la Fondazione c’è il sodalizio con laSbarro Health Research Organization, che esprime un consigliere direttivo nel cda della Fondazione e avrebbe aperto le porte a Tarro della prestigiosa Temple University che per un periodo è apparsa sul suo curriculum salvo poi essere rimossa. La Sbarro Health Research Organization ha una partnership con la Temple e sembra che il rapporto di docenza sia nato in seno ad un dipartimento per la Biotecnologia. La Temple contattata smentisce che Tarro sia mai stato autorizzato a parlare in nome e per conto dell’ateneo, anche se su internet è ancora visibile una video conferenza sui vaccini organizzata da una rivista predatoria, Omics International, che è stata multata dalle autorità statunitensi per la somma di 50 milioni di dollari per aver pubblicato studi scientifici non verificati. Tra le altre attività di Tarro vale la pena ricordare la Presidenza della "Società Scientifica per il principio di precauzione", un’associazione che pubblica studi antiscientifici, avalla teorie sull’esistenza del Covid ed ha come componente il senatore Vincenzo D’Anna, presidente dell'ordine dei Biologi, al centro di numerose contestazioni interne sull’atteggiamento tenuto sia su questa pandemia che sulle tematiche legate ai vaccini, noto anche per aver inventato la balla dell’attico a Manhattan di Roberto Saviano e per aver denunciato un gruppo di giovani biologi, "Biologi per la scienza", che hanno contestato le sue teorie. Nella vita di Giulio Tarro infine manca solamente un’esperienza politica di livello e chissà che qualcuno in queste ore non stia accarezzando il pensiero di candidarlo contro Vincenzo De Luca, dal curriculum, come si dice in gergo, sembrerebbe avere le carte in regola.
Società di immunologia contro Giulio Tarro: "Falso esperto, chi lo interpella controlli prima il suo cv". HuffPost il 24 aprile 2020. Documento della Siica dopo l'intervento del virologo a "Non è l'Arena", su La7. "Scienziato di modestissima caratura, con dubbia reputazione e scarso rigore scientifico, espulso già negli anni '80". La Società Italiana di Immunologia, Immunologia Clinica e Allergologia (Siica) ha redatto un documento, firmato dalla presidente Angela Santoni, in cui prende con forza le distanze da Giulio Tarro, recente protagonista di alcune dichiarazioni a “Non è l’arena”, su La7, che non possono trovare la minima condivisione nella comunità degli immunologi. Tarro viene definito “scienziato di modestissima caratura”, “falso esperto”, ricordando che già negli anni ’80 fu espulso dalla Società italiana di immunologia per lo scarso rigore scientifico dei suoi studi. Già nei giorni scorsi Roberto Burioni aveva attaccato Giulio Tarro sui social: “Se lui è stato candidato al Nobel - aveva scritto - io sono stato a Miss Italia”.
Questo il testo del documento della Siica: Fellini, oppresso dalla volgarità dei nostri tempi terminò “La voce della luna” con uno splendido “ci vorrebbe un po’ di silenzio”. Sarebbe il commento più adatto al bailamme mediatico che accompagna il dramma epocale di Covid-19, bailamme che non si è privato della comparsa di Giulio Tarro, scienziato di modestissima caratura, autoproclamatosi candidato al premio Nobel per scoperte ignote alla comunità scientifica, falso esperto che ha ad esempio infilato nella trasmissione “Non è l’arena” una serie di opinioni personali fra sciacallaggio e becero ottimismo. Chi cita le sue opinioni o lo interpella avrebbe il dovere di controllare il suo curriculum scientifico o almeno Wikipedia, dai quali sarebbe venuto a conoscenza che buona parte di quanto abbia detto risulta essere falso in tempi normali, ma notitiae criminis nel dramma che il paese vive! Avrebbe appreso che Tarro, pur “allievo” dello scienziato Albert Bruce Sabin (che ha sviluppato uno dei vaccini contro il virus della poliomielite), e con cui ha condiviso quattro lavori scientifici all’inizio degli anni ’70, ha pubblicato 68 lavori scientifici, molti dei quali su riviste italiane non “peer reviewed”, con un totale di 447 citazioni e un indice di Hirsch di 10. Questi indici bibliometrici sono appropriati per un ricercatore all’inizio del suo percorso scientifico, non certo per un senior autoproclamatosi candidato al Nobel. Ad esempio molti membri della nostra Società Scientifica hanno decine di migliaia di citazioni nella letteratura scientifica internazionale e indici H superiori a 50 o100. Con semplici verifiche avrebbe anche appreso che Giulio Tarro, negli anni recenti, ha partecipato solo a quelle che nella letteratura scientifica internazionale sono definite “predatory conferences” e ha ricevuto “predatory prizes”, l’equivalente insomma delle “fake news” in rete. Avrebbe anche appreso che Tarro ha sostenuto cure senza fondamento scientifico. Per questa sua dubbia reputazione e scarsa rigorosità scientifica, già negli anni 80, Giulio Tarro è stato espulso dalla Società Italiana di Immunologia, allora Gruppo di Cooperazione in Immunologia. Il “caso Tarro” è un’occasione per sottolineare ora come non mai, nell’emergenza Covid-19, quanto sia necessario che chi ha la responsabilità della comunicazione nei media verifichi l’affidabilità e correttezza della fonte, la correttezza delle affiliazioni e dei crediti scientifici, a salvaguardia del pubblico, dei pazienti, dei ricercatori e del personale sanitario in prima linea.
Le doti paranormali di Tarro, il virologo allievo di Nostradamus. Il medico, sedicente “candidato al Nobel” e presentato in tv come esperto di Covid, ha pubblicato su riviste predatorie che retrodatano a ottobre 2019 i suoi articoli fake sul “coronavirus di Wuhan”: tre mesi prima che sia accaduto, di Luciano Capone su Il Foglio il 25 Aprile 2020. Adesso davvero merita il premio Nobel. Perché è il primo ricercatore nella storia dell’umanità a scrivere un articolo scientifico su un evento prima che sia accaduto. Più che uno scienziato è un veggente. Altro che allievo di Sabin, è l’allievo di Nostradamus. Parliamo di Giulio Tarro, il medico presentato da tanti media come “virologo di fama internazionale” e invitato da Massimo Giletti a “Non è l’arena” a parlare in qualità di “candidato al premio Nobel”. Queste due qualifiche autoattribuite sono state già smentite dalla Società italiana di immunologia (Siica), perché Tarro più che famoso è famigerato. Secondo la società scientifica che riunisce circa 700 scienziati, è “uno scienziato di modestissima caratura, autoproclamatosi candidato al premio Nobel per scoperte ignote alla comunità scientifica, falso esperto che ha infilato nella trasmissione ‘Non è l’arena’ una serie di opinioni personali fra sciacallaggio e becero ottimismo”. Naturalmente l’asserita plurima “candidatura al Nobel” è falsa, perché è risaputo che le candidature vengono rese note dall’Accademia svedese solo 50 anni dopo l’anno di premiazione e, in ogni caso, per entrare in quella lista bisogna aver scoperto o inventato qualcosa. Tarro finora non ha inventato nulla di rilevante. Ma ora potrebbe ambire a quel premio perché è stato capace di scoprire il futuro. Il virologo napoletano, idolo del popolo no vax e di chi si oppone al “mainstream”, ha infatti pubblicato uno pseudo articolo scientifico dal titolo “The new coronavirus from the chinese city of Wuhan” (Il nuovo coronavirus dalla città cinese di Wuhan), su una sconosciuta rivista “predatoria” – di quelle cioè che all’apparenza sembrano una vera rivista scientifica ma in realtà non fanno alcun controllo o revisione sulle pubblicazioni – che si chiama “International Journal of Recent Scientific Research”. L’articolo, di una paginetta, non dice nulla di importante, riferisce di questa nuova polmonite in Cina, nella città di Wuhan, causata da un nuovo coronavirus. Data la rivista e il contenuto dell’articolo siamo già fuori dall’ambito scientifico, ma fin qui è tutto abbastanza normale. È guardando alcuni dettagli, ad esempio alla “article history”, che invece si entra nel paranormale. La rivista infatti scrive di aver ricevuto l’articolo di Tarro il “14 ottobre 2019”, di aver poi ricevuto una revisione il “29 novembre 2019”, di averlo accettato il “5 dicembre 2019” e infine di averlo pubblicato il “28 gennaio 2020”. I più attenti avranno notato che c’è un problema di date: infatti il virus responsabile della pandemia è stato identificato nei primi giorni di gennaio 2020 e il suo genoma pubblicato pochi giorni dopo, il 10 gennaio. Ma al chiaroveggente Tarro, quindi, era già tutto noto a ottobre! E lo sapeva nei dettagli: “Un focolaio di polmonite nella città cinese di Wuhan è stato segnalato all'OMS l’ultimo giorno dell'anno 2019 – scriveva a ottobre 2019 il prof. Tarro –. Un nuovo coronavirus (2019-nCoV) è stato identificato una settimana dopo. L’OMS ha stabilito una guida per tutti i paesi per prepararsi alla nuova infezione virale”. Non è la sola incongruenza ridicola che compare nell’articolo. Ad esempio, nel testo Tarro riporta il numero degli infetti (“20 mila casi con 425 decessi”) del “4 febbraio 2020”, ovvero una settimana dopo la pubblicazione del suo articolo, avvenuta il 28 gennaio. Non basta. Il prof. Tarro, nell’affiliazione, si presenta come “Chairman of the committee on Biotechnologies and VirusSphere, WABT – UNESCO, Paris France”. Ma all’Unesco non conoscono l’esistenza né di questo comitato né di Tarro. Non è per caso che Tarro preveda il futuro del mondo e della scienza. Più recentemente ne ha dato un’ulteriore dimostrazione. Sempre sulla stessa rivista predatoria, nel numero di marzo, ha pubblicato un altro “fake articolo scientifico”, sempre sul coronavirus, dal titolo: “Pathogenesis of Covid-19 and the body’s responses” (Patogenesi di Covid-19 e risposte del corpo). Anche in queste due paginette non c’è nulla di scientificamente significativo, a parte le date. Ancora una volta il prof. Tarro dimostra le sue doti paranormali: sottomissione dell’articolo “6 dicembre 2019”, sottomissione in forma revisionata “15 gennaio 2020”, accettazione “12 febbraio 2020” e pubblicazione “28 marzo 2020”. Il virologo napoletano è stato per la seconda volta capace di scrivere del coronavirus e della malattia Covid-19, con tanto di dati sulla letalità, a dicembre, cioè un mese prima che il mondo ne fosse a conoscenza. E il mago Tarro è talmente preveggente da riuscire a mettere nelle note un sacco di dati e articoli scientifici di marzo 2020, ovvero apparsi sulla faccia della Terra tre mesi dopo aver scritto l'articolo. Ora non ci sono più dubbi: bisogna dare immediatamente un Nobel per la chiaroveggenza a Tarro. E un Pulitzer ai giornalisti che gli danno credito.
Luciano Capone. Sono cresciuto in Irpinia, a Savignano. Sono al Foglio da 12-13 anni, anche se il Foglio non l’ha mai saputo, da quando è diventato la mia piacevole lettura quotidiana. Dal 2014 sono sul Foglio e stavolta lo sa anche il Foglio. Liberista sfrenato, a volte persino selvaggio.
Coronavirus, Porro su critiche a Giletti per Tarro a Non è l'arena: "La censura fa schifo". Nicola Porro nella sua Zuppa si è scagliato contro Il Foglio e le associazioni mediche che hanno criticato l'invito al virologo Giulio Tarro. Pasquale De Marte su Blasting News il 25 aprile 2020. Torna l'appuntamento quotidiano con la rubrica web Zuppa di Porro e Nicola Porro si scaglia con gli scienziati che si occupano di Coronavirus e Il Foglio. Li chiama 'virologi, ma in realtà a farlo andare su tutte le furie è un articolo del quotidiano in cui ci si allinea ad un pensiero diffuso dalla Società di Immunologia secondo cui l'invito a Non è l'Arena di GiulioTarro sarebbe stato fuori luogo. Un comunicato diffuso dall'associazione, non a caso, etichetta il virologo come "scienziato di modestissima caratura". Secondo Nicola Porro, contestare la scelta di Massimo Giletti di averlo avuto come ospite può essere equiparata ad un tentativo di censura. A ciò aggiunge una vena piuttosto polemica rispetto al fatto che chi si estranea dal pensiero scientifico comune viene quasi emarginato, nonostante un curriculum di spessore, come accaduto con il Nobel Luc Montaigner.
Con il coronavirus alcuni medici sono diventati volti noti per gli italiani. Non è un mistero che, al momento, gli italiani aspettino dagli scienziati previsioni sull'evoluzione del Sars-Cov2. C'è chi sostiene che la sua virulenza potrebbe, in qualche modo, acquietarsi nel tempo fino a farlo divenire innocuo come accaduto con Sars e Mers. Al momento il pensiero comune della maggior parte degli esperti della materia invita alla prudenza, esortando anche a prepararsi ad un possibile ma non sicuro arrivo di nuove ondate o alla necessità di convivere a lungo con il nuovo coronavirus. "Chi non la pensa come loro - tuona Nicola Porro - deve essere lasciato a casa". "E' incredibile - evidenzia - che il Foglio si prenda la briga di attaccare Giletti per aver invitato Giulio Tarro". Porro, nel corso della sua diretta, evidenzia come non si tratti dell'ultimo arrivato, eppure non trovi l'approvazione di molti colleghi che, in questo momento, vanno per la maggiore a livello mediatico. Porro ricorda alcuni fatti che hanno coinvolto gli scienziati. Secondo Nicola Porro, è inammissibile che non ci siano contestazioni se a parlare siano i vari Galli, Ricciardi o Lopalco, mentre si levino cori di dissenso se a dire la sua è uno come Tarro. "Si chiama - tuona il giornalista - censura di me...Caro Foglio, mi fa orrore che un giornale liberale possa prendere un'associazione di virologi e contestare un giornalista perché invita Tarro". A quel punto, pone l'accento sul fatto che nessuno tra le associazioni mediche abbia contestato fatti riconducibili ad altri esperti in materia. "Perché - incalza- non hanno detto a Lopalco che non si scrive in un tweet che la fortuna è cieca, ma il virus no quando Johnson se lo becca?". Ricorda il tweet in cui Walter Ricciardi fece vedere un manichino di Trump preso a cazzotti e ricorda anche una puntata di Che tempo che fa: "Quando Burioni - incalza - diceva a marzo da Fazio che non c'è nessun rischio che la malattia venga in Italia, tutti zitti perché fanno orrore". "La censura - ha chiosato - fa schifo".
GIULIO TARRO E ISAAC BEN ISRAEL: DUE VOCI FUORI DAL CORO. P.R. il 22/04/2020 su ilgiornalepopolare.it. Ho sempre avuto stima per Giulio Tarro, virologo di fama internazionale e allievo di Albert Sabin. L’ho conosciuto, tanti anni fa, durante un convegno nel quale si parlava di antitumorali naturali, fra questi spiccava la Capsaicina, la proteina “piccante” contenuta nel peperoncino. In quell’occasione il prof ne disse un gran bene dell’umile bacca descrivendone le caratteristiche biochimiche che, negli anni a venire, avrebbero dimostrato spiccata attività antineoplastica, antinfiammatoria e antiedemigena. Insomma una piacevole discussione che ebbe termine davanti ad un grande buffet con prodotti tipici tra i quali, manco a farlo apposta, troneggiava il Capsicum annuum in tutte le sue preparazioni gastronomiche. Da qualche mese Tarro è intervenuto, inevitabilmente, nell’accesa discussione scientifica sul Covid-19 che sembra aver monopolizzato i nostri pensieri, specie quelli più brutti, infondendoci un barlume di speranza escludendo il vaccino dalle nostre preoccupazioni:”… Se il virus ha come sembra una variante cinese e una padana – ha detto il prof – sarà complicato ottenere un vaccino che funzioni in entrambi i casi esattamente come avviene per i vaccini antinfluenzali che non coprono tutto… ”. E sino a qui nulla da eccepire e anche chi non mastica di medicina riesce a comprendere perfettamente l’assunto scientifico del noto virologo che rincara la dose: ”…Per tornare verso la normalità – aggiunge Tarro – si dovrà mettere a punto una terapia antivirale efficace, una cura che potrebbe arrivare anche per l’estate. Spero che la scienza e il caldo possano essere alleati. E confido che potremo andare a fare i bagni. Troppa gente parla del Coronavirus senza avere il supporto dei dati scientifici e senza le giuste conoscenze… Il virus un po’ particolare, fortunatamente non ha la stessa mortalità della Sars e neppure della Mers che uccideva un malato su tre. Oggi non lottiamo contro l’Ebola, ma il nostro nemico è una malattia che non è letale per quasi il 96% degli infetti. Il problema è nel restante 4% che si è scatenato contemporaneamente. In pratica in meno di un mese abbiamo avuto gli stessi malati di influenza di un’intera stagione. Un’ondata a cui era impossibile far fronte a causa dei tagli alla sanità degli ultimi anni. Secondo l’Oms, tra il 1997 e il 2015 sono stati dimezzati i posti letto in terapia intensiva. E, peggio, non siamo stati abbastanza veloci a riparare i danni… Perché quando abbiamo avuto le notizie dalla Cina, i francesi sono intervenuti subito sui posti in terapia intensiva e noi no? Abbiamo preferito bloccare i voli con la Cina: una misura davvero inutile. Per non parlare poi del caos mascherine. La verità è che all’inizio non le avevamo quindi si diceva che dovessero usarle sono medici e pazienti, poi siamo diventati produttori di mascherine e quindi diciamo che servono a tutti. E’ incredibile, bisognava dire a tutti subito di usarle e di mantenere le distanze, invece, è stato fatto un pasticcio dopo l’altro. Si voleva blindare la Lombardia come la Cina e poi si è permesso a migliaia di persone di migrare al Sud… Francamente non si è capito quale sia stato l’approccio del governo e le misure di contenimento sono state prese in ritardo…”.
L’allievo di Sabin critica, a ragione, anche una certa comunicazione martellante, subliminale e continua. Una sorta di lavaggio del cervello che ha nuociuto e continua a nuocere più del virus maledetto: ”…L’allarme è fonte di stress e lo stress, paradossalmente, determina un calo delle difese immunologiche – prosegue il prof Tarro – lo sanno tutti gli esperti, eppure ogni giorno assistiamo a questi inutili numeri che comunica la Protezione civile. Sono dati che non vogliono dire nulla: non conosciamo il numero preciso dei contagiati e di conseguenza ci ritroviamo di fronte a un tasso di mortalità altissimo. Se andiamo a vedere alcuni studi inglesi, però, scopriamo che gli infetti sarebbero molti di più: secondo uno studio dell’università di Oxford addirittura il 60-64% dell’intera popolazione; per l’Imperial College almeno 6 milioni. Con queste stime il tasso di decessi si abbassa enormemente. Credo che arriveremo sotto l’1% come in Cina… Il Covid 19potrebbe sparire completamente come la prima Sars; ricomparire come la Mers, ma in maniera regionalizzata, o diventare stagionale come l’aviaria. Per questo serve una cura più che un vaccino. Il fatto che in Africa non attecchisca mi fa ben sperare in vista dell’estate…”.
Grazie professore Tarro per la speranza. Ma se da un lato c’è lo scienziato candidato al Nobel, dall’altro risponde Roberto Burioni, anche lui virologo di fama mondiale, ma ancor più noto per le sue contraddizioni. Burioni ha scritto su Twitter che se Tarro è virologo da Nobel, lei sarebbe Miss Italia. Il prof del Cotugno di Napoli non le manda a dire e risponde a botta:”… Burioni su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca…”. A noi le polemiche non piacciono ma Burioni non è quello che sminuiva la virulenza del Covid per poi gridare al lupo, al lupo? Mamma mia che tempi e che persone ci sono in giro. Dall’altro capo del pianeta, in Israele, qualcuno sembra parlare la stessa lingua di Tarro. Non il dialetto partenopeo, ovviamente, ma la stessa lingua scientifica, più o meno: ”… Il virus raggiunge il picco di contagio entro 4/6 settimane – afferma il professor Isaac Ben Israel, scienziato ebreo – per poi cominciare una fase discendente che si concluderebbe intorno all’ottava/nona settimana, sviluppandosi nell’arco di 70 giorni. La diffusione del SARS-CoV-2 si esaurirebbe in 70 giorni, indipendentemente dalle misure restrittive adottate per contrastarlo. In altri termini, il patogeno sarebbe legato a una sorta di “ciclo epidemico“, che dopo i primi contagi, l’impennata della curva e il raggiungimento del picco, tenderebbe ad azzerarsi in poco più di due mesi. A partire dalla sesta settimana l’aumento del numero di pazienti in Israele si è ridotto, raggiungendo un picco nella sesta settimana con 700 pazienti al giorno. Da quel momento è in calo e oggi si parla di solo 300 nuovi pazienti. In due settimane si arriverà a zero e non ci saranno più nuovi pazienti… Nel mio Paese circa 140 persone muoiono normalmente ogni giorno. Avere chiuso gran parte dell’economia a causa di un virus cosi è un errore radicale che costa inutilmente a Israele il 20% del suo Pil. Blocchi e chiusure sono un caso di isteria di massa. Una semplice distanza sociale sarebbe sufficiente…”.
Nella grande confusione che regna sovrana e con il diffondersi di teorie e ipotesi contrastanti la gente ne ha piene le scatole. Sui social e nei sistemi di messaggistica girano audio e video di rivolta e di istigazione contro lo Stato di regime. Per la maggior parte si tratta di Fake ma alcuni di essi non sono da prendere sottogamba. Esasperare gli animi non serve, piuttosto sbrigatevi a prendere decisioni sensate e quando annaspate nel marasma ricordatevi della diligenza e del buon senso del padre di famiglia. Basta col prenderci per i fondelli.
Dott. Di Bella: “Shiva e Tarro dicono il giusto, diffidate da chi pontifica con supponenza”. Redazione radioradio.it il 19 Aprile 2020. L’intervista a Shiva Ayyadurai andata in onda sul canale americano ‘The Next News Network‘ ha visto una grande diffusione specialmente sui social media e qualora verificata potrebbe rappresentare la chiave di volta di quel che sta succedendo riguardo la pandemia in atto. E’ proprio su quel condizionale che si gioca tutto, su quel “potrebbe” si creano dibattiti spesso infuocati in cui non si fa a meno di schierarsi. Intervistato ai nostri microfoni il dottor Giuseppe Di Bella ha fornito come testimone privilegiato del dibattito dialettico in campo medico un’importante chiave di lettura. Di Bella rivede infatti molte situazioni a lui comuni (come a suo padre, il Professor Luigi Di Bella) nella bufera che si è creata intorno alla denuncia del dottor Shiva, ma al di là della storia personale, raccomanda tutti di affidarsi al metodo scientifico dell’inconfutabilità e della preparazione delle persone in discussione, tra cui elenca anche il Professor Giulio Tarro intervenuto ai nostri microfoni in numerose occasioni. Un consiglio da soppesare attentamente quello del dottor Di Bella per l’epoca che stiamo vivendo, dove regna la confusione su ciò che si può definire scientifico o meno. Ecco l’intervista concessa al direttore Ilario Di Giovambattista e Stefano Raucci.
“Shiva e Tarro sono inattaccabili”.
“Ho sentito la magnifica intervista del dottor Shiva che è di un interesse estremo, perché puntualizza gli aspetti fondamentali e l’altissima autorità morale, scientifica e culturale del professore. I concetti sono quelli, cioè la base è quella di rimanere radicati sul piano scientifico e per fare questo bisogna veramente essere illuminati dalla coscienza e dall’onestà intellettuale, che sono gli aspetti gravemente carenti nella nostra società. In tal proposito è stata particolarmente brillante anche l’intervista al professor Tarro, due personalità unite dal fatto che hanno una base logica inattaccabile, un criterio logico consequenziale e matematico. Non per nulla Tarro ha avuto una candidatura al Nobel e ha meriti scientifici importantissimi.
Il sistema immunitario, un elemento fondamentale. E’ ovvio che il sistema immunitario è un elemento fondamentale: si è sviluppato nell’evoluzione naturale quando degli esseri unicellulari che avevano un sistema di difesa potentissimo lo hanno trasmesso a dei batteri, che lo hanno passato alle nostre cellule. E’ un sistema di difesa per mutazione grazie al quale le cellule trattengono quel che gli serve per fronteggiare gli eventi avversi. Noi abbiamo un sistema immunitario estremamente articolato, per quale motivo? Perché la natura e la biologia sono estremamente complesse. Per questo bisogna pensare a una multiterapia che risponda a un concetto estremamente vario della vita in sé: un fenomeno di una complessità infinita.
Anche i virus sono bersagli mutevoli, non sono stabili. Bisogna prendere atto di questa realtà variabile e contrapporre delle misure che hanno le stesse caratteristiche, è come la scherma in cui non puoi fronteggiare il tuo avversario restando immobile. Noi sentiamo pontificare con una certa supponenza personaggi che ci vengono riproposti ossessivamente. Se si ascoltano il professor Tarro o il Professor Shiva si nota che non vogliono imporre determinate scelte, c’è sempre una certa prudenza e una certa cautela in quello che dicono e tutto è sempre documentato e verificabile.
“Come smentire chi diffama”. Al livello internazionale c’è un certo interesse nella cura Di Bella e segnaliamo che molti attacchi alla terapia possono essere smontati proprio con un termine internazionale: il file drawer.
Che cosa vuol dire: quelli che attaccano o che smentiscono o peggio ancora che diffamano, a sostegno di quel che dicono non hanno nessun documento con validità legale. Questa è una chiave di lettura per chi legge: andate a vedere se quello che dicono è documentato.
Coronavirus, cosa ne pensa Giuseppe Di Bella? Le caratteristiche strutturali biomolecolari di questo virus sembra che si differenzino: un conto il virus che si è sviluppato in Cina, un altro conto quello che si è sviluppato in Italia e un altro conto ancora in tutte le altre nazioni. Se prendiamo atto del fatto che il virus cambi, che la nostra immunità è quella, possiamo intervenire su elementi stabili cioè sull’immunità e attivarla indipendentemente dalle varianti del virus. Si chiama più precisamente omeostasi, dobbiamo mettere quest’aspetto della nostra esistenza nelle condizioni migliori per contrastare l’attacco: concettualmente è lo stesso filone della contrapposizione all’attacco del tumore.
Vitamine: una verità e un malinteso. Le vitamine sono state trattate finora nel loro aspetto fisiologico, cioè io devo dare quel che serve giornalmente per il fabbisogno dell’individuo. Noi parliamo del concetto farmacologico delle vitamine: aumentando alcuni dosaggi in un certo contesto io posso perseguire determinati obiettivi che possono essere antiinfettivi e antitumorali, quindi non parliamo più di quel che mi serve per il fabbisogno giornaliero, ma di quel che mi serve per raggiungere una certa finalità. Bisogna ricordare che le vitamine sono il punto di passaggio per energia e materia, che sono in rapporto costante. Ogni variante dello stato energetico corrisponde a un’alterazione dello stato materiale della produzione e della crescita del tessuto vivente, è un concetto farmacologico. Questo concetto non agisce solo sull’immunità, ma sull’omeostasi generale, sulla capacità globale non solo dell’immunità ma di affrontare ogni evento avverso, dalle malattie degenerative a quelle infettive“.
Critiche a Tarro, il virologo risponde: "Già depositate 3 querele, nel nostro lavoro c'è gelosia". Giulio Tarro, virologo, due volte candidato al Premio Nobel, è intervenuto a Kiss Kiss Napoli per commentare le ultime critiche ricevute. Redazione Tutto Napoli.net il 24 aprile 2020. Giulio Tarro, virologo, due volte candidato al Premio Nobel, è intervenuto a Kiss Kiss Napoli per commentare le ultime critiche ricevute nei suoi confronti: "Queste cose le lascio ai legali, già su questo aspetto ci sono tre querele depositate alla magistratura. Nel nostro mestiere esiste la gelosia, noi pensiamo solo al bene dei pazienti".
La battaglia diventa giudiziaria. Guerra tra virologi, Giulio Tarro querela Roberto Burioni per la battaglia sul Coronavirus. Redazione su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Non si ferma la battaglia tra i virologi Giulio Tarro e Roberto Buroni. I due, che si erano già “beccati” nelle scorse settimane, un duello rusticano e poco politically correct tra l’ex primario dell’Ospedale Cotugno di Napoli e il professore presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, sono passati alle vie legali. Tarro ha infatti incarico il suo legale, l’avvocato Carlo Taormina, di presentare querela nei confronti Burioni e di due giornalisti per “l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale”. Su Burioni Taormina scrive che il virologo “è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire”. Per quanto riguarda la querela ai giornalisti, uno ha “divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali”. Il secondo giornalista querelato, per entrambi non sono stati diffusi i numi, “si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici”, accusa Taormina. Ricordando il curriculum di Tarro, “docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite”, Taormina chiarisce quindi che “diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse”.
La denuncia del Prof. Giulio Tarro alle accuse di “Next Quotidiano” e “BUTAC”. Maurizio Blondet il 15 Aprile 2020. In risposta alle accuse diffamanti operate da “Next Quotidiano” e “BUTAC”, Tarro ci ha presentato la denuncia in 9 pagine in cui il virologo si difende dalle calunnie a suo danno atte a screditarlo, qui gli stralci più importanti
L’articolo di “Next quotidiano” ha cercato di screditare in maniera “eterodiretta” – come lo stesso Tarro afferma nella sua denuncia – la figura del virologo. Il “noto sito di bufale” BUTAC ha servito l’assist per questa diffamazione a cui è poi seguita la querela del Professore per tutelarsi. La denuncia di Tarro è articolata e ben risponde ad alcuni quesiti resi in maniera poco rispettosa dai due siti online che si sono occupati di infangare la persona e la professionalità del virologo. Ecco la sua denuncia presentata già nel febbraio 2019 alle autorità competenti: Lo scorso anno, dopo diverse sollecitazioni, ho scelto di collaborare attraverso la redazione di articoli per il Giornale dei Biologi e la partecipazione a vari convegni, alle attività dell’ONB, Ordine Nazionale dei Biologi. Questa mia scelta non è evidentemente piaciuta a quanti non condividono le scelte dell’ONB in materia di sicurezza dei vaccini e da allora, attraverso i social network, questi signori non hanno perso occasione per infangarmi ed in più di un’occasione di diffamarmi, costringendomi così a rivolgermi all’autorità giudiziaria per veder tutelare il mio buon nome. Si tratta di gruppi e singoli che non esito a considerare in molti casi eterodiretti che attraverso blog, giornali on line e social network, Facebook su tutti, alimentano un clima di odio nei miei confronti, arrivando ad accusarmi di nefandezze varie, violazione di legge, posizioni antiscientifiche. In merito alle affermazioni contenute nell’articolo di “Next Quotidiano”, a firma di Giulia Corsini dove si scrive: “Giulio Tarro viene spesso presentato come “il miglior virologo del mondo” o come “il migliore virologo dell’anno”. Il virologo premiato negli USA ma snobbato in Italia. Nel 2018 ha effettivamente ricevuto un premio da un’associazione americana chiamata IAOTP (Associazione internazionale dei migliori professionisti) come “miglior virologo dell’anno”. Peccato che, come ha scoperto il noto sito di bufale BUTAC, la IAOTP sia una sorta di agenzia che vende onorificenze. In ambito scientifico questo tipo di premi sono noti come predatory prize, si tratta di premi che vengono assegnati a persone che in genere ricevono e-mail e telefonate scam di congratulazioni per spingerli a pagare grosse somme per targhe commemorative, copie di souvenir o premi”. Tarro presenta ulteriori rimostranze e spiega nella denuncia: tale affermazione allusiva e denigratoria per ritenere integrata la fattispecie di cui all’art.595 cp, atteso che una simile presentazione, che va ben oltre il dileggio, lascia intendere al lettore che io mi presti ad operazioni poco trasparenti, addirittura pagando per ricevere onorificenze, come se alla mia età e con il mio curriculum avessi ancora bisogno di riconoscimenti o di celebrità. “Chi parla di Giulio Tarro, spesso dichiara che sia stato candidato al Nobel una, due o addirittura tre volte. Il “Pluricandidato al Nobel”. Anche i Lions hanno festeggiato la sua candidatura nel 2015. Peccato che le candidature al Nobel in realtà vengano rese pubbliche solo dopo cinquant’anni dall’anno di una premiazione. Il fatto curioso è che le candidature non vengono divulgate a nessuno eccezion fatta per la commissione che deve valutare chi tra i candidati vincerà il prestigioso premio”.
La denuncia del Prof. Giulio Tarro alle accuse di “Next Quotidiano” e “BUTAC”. Ylenia Petrillo su maurizioblondet.it il 2 Aprile 2020. In risposta alle accuse diffamanti operate da “Next Quotidiano” e “BUTAC”, Tarro ci ha presentato la denuncia in 9 pagine in cui il virologo si difende dalle calunnie a suo danno atte a screditarlo, qui gli stralci più importanti
L’articolo di “Next quotidiano” ha cercato di screditare in maniera “eterodiretta” – come lo stesso Tarro afferma nella sua denuncia – la figura del virologo. Il “noto sito di bufale” BUTAC ha servito l’assist per questa diffamazione a cui è poi seguita la querela del Professore per tutelarsi. La denuncia di Tarro è articolata e ben risponde ad alcuni quesiti resi in maniera poco rispettosa dai due siti online che si sono occupati di infangare la persona e la professionalità del virologo. Ecco la sua denuncia presentata già nel febbraio 2019 alle autorità competenti: Lo scorso anno, dopo diverse sollecitazioni, ho scelto di collaborare attraverso la redazione di articoli per il Giornale dei Biologi e la partecipazione a vari convegni, alle attività dell’ONB, Ordine Nazionale dei Biologi. Questa mia scelta non è evidentemente piaciuta a quanti non condividono le scelte dell’ONB in materia di sicurezza dei vaccini e da allora, attraverso i social network, questi signori non hanno perso occasione per infangarmi ed in più di un’occasione di diffamarmi, costringendomi così a rivolgermi all’autorità giudiziaria per veder tutelare il mio buon nome. Si tratta di gruppi e singoli che non esito a considerare in molti casi eterodiretti che attraverso blog, giornali on line e social network, Facebook su tutti, alimentano un clima di odio nei miei confronti, arrivando ad accusarmi di nefandezze varie, violazione di legge, posizioni antiscientifiche. In merito alle affermazioni contenute nell’articolo di “Next Quotidiano”, a firma di Giulia Corsini dove si scrive: “Giulio Tarro viene spesso presentato come “il miglior virologo del mondo” o come “il migliore virologo dell’anno”. Il virologo premiato negli USA ma snobbato in Italia. Nel 2018 ha effettivamente ricevuto un premio da un’associazione americana chiamata IAOTP (Associazione internazionale dei migliori professionisti) come”miglior virologo dell’anno”. Peccato che, come ha scoperto il noto sito di bufale BUTAC, la IAOTP sia una sorta di agenzia che vende onorificenze. In ambito scientifico questo tipo di premi sono noti come predatory prize, si tratta di premi che vengono assegnati a persone che in genere ricevono e-mail e telefonate scam di congratulazioni per spingerli a pagare grosse somme per targhe commemorative, copie di souvenir o premi”. Tarro presenta ulteriori rimostranze e spiega nella denuncia: tale affermazione allusiva e denigratoria per ritenere integrata la fattispecie di cui all’art.595 cp, atteso che una simile presentazione, che va ben oltre il dileggio, lascia intendere al lettore che io mi presti ad operazioni poco trasparenti, addirittura pagando per ricevere onorificenze, come se alla mia età e con il mio curriculum avessi ancora bisogno di riconoscimenti o di celebrità. “Chi parla di Giulio Tarro, spesso dichiara che sia stato candidato al Nobel una, due o addirittura tre volte. Il “Pluricandidato al Nobel”. Anche i Lions hanno festeggiato la sua candidatura nel 2015. Peccato che le candidature al Nobel in realtà vengano rese pubbliche solo dopo cinquant’anni dall’anno di una premiazione. Il fatto curioso è che le candidature non vengono divulgate a nessuno eccezion fatta per la commissione che deve valutare chi tra i candidati vincerà il prestigioso premio”.
L’articolo continua con le diffamazioni a scena aperta, e nella sua denuncia il professore si trova ancora una volta a doversi difendere così: … così si è fatto comprendere che la mia fama è non solo immeritata ma per certi versi inventata di sana pianta, dipingendomi dunque come una sorta di mistificatore capace di ingannare opinione pubblica, Lions e quant’altri hanno espresso parole di stima ed ammirazione nei miei confronti. Non paga di tanto fango la signora continua a descrivermi così: “ … Giulio Tarro ha pubblicato in alcuni giornali seri ma anche in numerosissimi predatory open access journal, riviste farsa che non hanno un serio controllo editoriale (…) dichiara di essere editor della rivista Journal of Vaccine Research & Development edita a Singapore, senza impact factor, talmente scalcagnata da non avere nemmeno un comitato editoriale…”, affermazione quest’ultima palesemente falsa e tendenziosa, sempre con il preciso obiettivo di gettare discredito sulla mia persona (cfr. All.). Non ultroneo sul punto sottolineare come la giurisprudenza di legittimità punisca anche le espressioni “insinuanti” ovvero la divulgazione di comportamento (vero o falso che sia; in questo caso palesemente falso) che incontri la riprovazione della “comune opinione” (cfr. Cass. 40359/2008). Il lungo e diffamatorio articolo continua così: “Tarro afferma di essere stato docente ufficiale dell’Università di Napoli Federico II. Tralasciando il fatto che il titolo di “docente ufficiale” non esista e che si è professori universitari in base a vari inquadramenti (“di ruolo”, “associato”, “a contratto”); Tarro non compare nei registri online dell’Università di Napoli Federico II e in quelli accessibili da Cineca, il portale ufficiale per la ricerca dei docenti. Egli si dichiara Membro del Senato Accademico dal 1990 dell’Università Costantiniana di Providence, Rhode Island e dal 1994 dell’Università Pro Deo di New York, Accademico onorario dell’Università Sancti Cyrilli di Malta dal 2001 e Rettore onorario dal 2003 dell’Università Ruggero II dello Stato della Florida negli USA. La giornalista scientifica Sylvie Coyaud ha scoperto che si tratta di quattro false università che vendono diplomi e onorificenze al miglior offerente. Non compaiono infatti nel database pubblico degli istituti autorizzati a operare negli Usa. Non si trova evidenza della Laurea Honoris Causa in medicina conferitagli dall’Università Cattolica Albany (New York) nel 1989. È presidente della Norman Academy (o Accademia dei Normanni) e dell’Università Popolare Tommaso Moro, sono università non accreditate e non riconosciute dal MIUR che distribuiscono dunque titoli che non hanno valore accademico”. A prescindere dalle modalità con cui la signora ha effettuato la ricerca giova in questa sede ricordare che all’inizio degli anni 70 diverso era l’inquadramento della docenza universitaria ed il 29 gennaio del 1971 ho conseguito la libera docenza in Virologia, docenza confermata con Decreto del Ministro della Pubblica Istruzione il 15.12.1976. Nel 1972, mi veniva conferito l’incarico di insegnamento di Microbiologia presso la scuola di specializzazione in Nefrologia Medica della prima facoltà dell’Università di Napoli dopo aver, il 24 gennaio dello stesso anno, ricevuto l’incarico dell’insegnamento di Virologia oncologica sempre presso la prima facoltà dell’Università di Napoli. Trovo paradossale dover spiegare tutto ciò, ma visto che la redattrice non ha avvertito il bisogno di chiedermi conto sono costretto a chiarire in questa sede.” Tra le accuse più infamanti c’è infine quella che così mi descrive: “Giulio Tarro dichiara di aver isolato il Virus Respiratorio Sinciziale nei bambini ammalati durante l’Epidemia del “male oscuro” che ha colpito Napoli verso la fine degli anni Settanta. La sua prima pubblicazione sul tema risulta però essere del 1980 , invece il primo articolo pubblicato dai docenti dell’Università di Napoli del 1979 parla già di isolamento ed identificazione del virus sinciziale. Tarro non è tra gli autori e non compare citato neppure nelle fonti bibliografiche.” Una affermazione tanto odiosa quanto ridicola: sul punto basti leggere le conclusioni della Commissione Giovanardi pubblicate sul Medical World News del 5 marzo 1979 ed il lungo reportage de L’Europeo del 15.2.1979 (cfr All.) Sorvolando sulle altre meschinerie contenute nell’articolo, che un Direttore prima di pubblicare avrebbe avuto il dovere di verificare, orbene non v’è dubbio che ci troviamo innanzi una violazione del mio diritto alla reputazione, intesa alla stregua di quella considerazione che un individuo gode nell’ambiente sociale in cui vive, atteso che le notizie diffuse sono non vere oltre che non pertinenti. Nella reputazione la dottrina fa rientrare anche il decoro professionale, ossia l’immagine che un soggetto ha costruito di sé nel proprio ambiente di lavoro (…) Al lettore distratto che ritenesse una mera critica quella testé descritta sovviene la interpretazione che, costante nel tempo, ci offre la suprema Corte di Cassazione che ricorda come in materia di diffamazione a mezzo stampa, non può riconoscersi l’esimente del diritto di critica storica se la ricostruzione dei fatti, contrastante con quella ufficialmente riconosciuta, si fondi su fonti anonime o non riscontrabili, ovvero su voci correnti. (Sez. 3, Sentenza n. 6784 del 07/04/2016 Presidente: Salmè G. Est./Rel.: De Stefano F. P.M. De Renzis L.) Ed invero, come precisato dalla Cassazione (nella ricordata sentenza 4897/2016 ma anche Cass 04/07/1997 n° 41 e Cass. 25/05/2000 n° 6877), per il legittimo esercizio del diritto di cronaca occorrono tre condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la correttezza formale nella esposizione (c.d. continenza). In questo caso mancano tanto la verità della notizia quanto la correttezza della esposizione.
Panzironi: “Il coronavirus? Si previene con le vitamine”. E l'Agcom spegne Life 120 Channel. Le Iene News il 29 aprile 2020. Per Adriano Panzironi il coronavirus si previene con le vitamine C e D. Così l’Agcom è intervenuta di nuovo nei confronti del giornalista spegnendo il suo canale Life 120 Channel. Lui intanto si dà al business del gel igienizzante per le mani. “Nessuno ha mai parlato di prevenzione del coronavirus”, dice Adriano Panzironi ospite da Massimo Giletti. Per il giornalista sembra però che serva assumere dosi massicce di vitamina C e D tramite integratori per combattere il Covid-19. Insomma sarebbe la stessa ricetta che propone dal 2013, quando è diventato famoso pubblicando il suo libro “Vivere fino a 120”. Per Panzironi, che vende integratori proprio di vitamina C e D, con questi ed eliminando tanti alimenti si possono eliminare i mali e vivere fino a 120 anni. “Dire che sia una forma di prevenzione è da criminali”, gli ha risposto il virologo Fabrizio Pregliasco, anche lui ospite di Non è L’arena. Non capiamo proprio perché Giletti che conosce le caratteristiche di Panzironi tanto da dire “che sa maneggiare la televisione”, continui a dargli spazio. Non ha certo bisogno di visibilità, le sue false notizie purtroppo girano già liberamente sul suo canale televisivo. Anche in questo articolo potete vedere quando ha parlato di “tutto quello che non ti hanno detto sul coronavirus”. Un titolo che è un programma in cui tramite un giro di parole ha detto: “La vitamina C protegge i tessuti polmonari dal rischio di insufficienza respiratoria nei malati di Covid-19”. Per fortuna è intervenuta anche l’Agcom che ha ritenuto “grave la condotta di Panzironi in ragione del momento drammatico del Paese”. Così l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha disposto la sospensione del canale Life 120 Channel e ha inviato anche una lettera di richiamo per Non è l’arena “per aver consentito a Panzironi di esprimere le stesse considerazioni per cui era già intervenuta”. Ha avviato anche procedimenti nei confronti di tutte le emittenti locali che continuano a ospitare le sue trasmissioni. La comunicazione è del 19 marzo, ma ci sono tante altre che sono state trasmesse in date successive. E ora i fratelli Panzironi si sono dati anche al commercio di gel igienizzanti.
12 Esperti che mettono in discussione il Panico da Coronavirus. Truman su Come Don Chisciotte.org il 2 Aprile 2020. Fonte: off-guardian.org. Qui di seguito la nostra lista di dodici esperti medici le cui opinioni sull’epidemia di Coronavirus contraddicono le narrazioni ufficiali degli MSM (Mainstream Media, i media ufficiali, NdT), e i meme così prevalenti sui social media.
Il dottor Sucharit Bhakdi è uno specialista in microbiologia. È stato professore all’Università Johannes Gutenberg di Magonza e direttore dell’Istituto di Microbiologia e Igiene medica e uno dei ricercatori più citati della storia tedesca.
Il suo parere: Temiamo che 1 milione di infezioni con il nuovo virus possa portare a 30 morti al giorno nei prossimi 100 giorni. Ma non ci rendiamo conto che 20, 30, 40 o 100 pazienti positivi ai normali coronavirus stanno già morendo ogni giorno. Le misure anti-COVID19 del governo sono grottesche, assurde e molto pericolose […] L’aspettativa di vita di milioni di persone si sta accorciando. L’orribile impatto sull’economia mondiale minaccia l’esistenza di innumerevoli persone. Le conseguenze sulle cure mediche sono profonde. Già i servizi ai pazienti bisognosi si riducono, le operazioni vengono cancellate, le pratiche sono vuote, il personale ospedaliero diminuisce. Tutto questo avrà un impatto profondo su tutta la nostra società. Tutte queste misure stanno portando all’autodistruzione e al suicidio collettivo basato su nient’altro che un fantasma.
Il dottor Wolfgang Wodarg è un medico tedesco specializzato in Pneumologia, politico ed ex presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nel 2009 ha chiesto un’inchiesta sui presunti conflitti di interesse relativi alla risposta dell’UE alla pandemia di influenza suina.
Il suo parere: I politici sono corteggiati da scienziati…, scienziati che vogliono essere importanti per ottenere denaro per le loro istituzioni. Scienziati che si limitano a nuotare nel mainstream e vogliono la loro parte […] E quello che manca in questo momento è un modo razionale di vedere le cose. Dovremmo porci domande come: “Come avete scoperto che questo virus era pericoloso?”, “Com’era prima?”, “Non abbiamo avuto la stessa cosa l’anno scorso?”, “È qualcosa di nuovo? Manca questo.
Il dottor Joel Kettner è professore di Scienze della salute della comunità e Chirurgia all’Università di Manitoba, ex responsabile della salute pubblica della provincia di Manitoba e direttore medico del Centro internazionale per le malattie infettive.
Il suo parere: Non ho mai visto niente del genere, niente di simile. Non sto parlando della pandemia, perché ne ho viste 30, una ogni anno. Si chiama influenza. E di altri virus delle malattie respiratorie, non sempre sappiamo cosa sono. Ma non ho mai visto questa reazione, e sto cercando di capire perché. […] Mi preoccupo del messaggio al pubblico, della paura di entrare in contatto con le persone, di stare nello stesso spazio delle persone, di stringere loro la mano, di fare incontri con le persone. Mi preoccupo di molte, molte conseguenze legate a questo. […] A Hubei, nella provincia di Hubei, dove si è registrato di gran lunga il maggior numero di casi e di decessi, il numero effettivo di casi segnalati è di 1 ogni 1.000 persone e il tasso effettivo di decessi segnalati è di 1 ogni 20.000. Forse questo potrebbe aiutare a mettere le cose nella giusta prospettiva.
Il dottor John Ioannidis è professore di Medicina, di Ricerca e Politica sanitaria e di Scienza dei dati biomedici alla Stanford University School of Medicine e professore di Statistica alla Stanford University School of Humanities and Sciences. È direttore dello Stanford Prevention Research Center e co-direttore del Meta-Research Innovation Center di Stanford (METRICS). È anche redattore capo dello European Journal of Clinical Investigation. È stato presidente del Dipartimento di Igiene ed Epidemiologia della Facoltà di Medicina dell’Università di Ioannina e professore aggiunto presso la Tufts University School of Medicine. In qualità di medico, scienziato e autore ha contribuito alla medicina basata sull’evidenza, all’epidemiologia, alla scienza dei dati e alla ricerca clinica. Inoltre, è stato pioniere nel campo della meta-ricerca. Ha dimostrato che gran parte della ricerca pubblicata non soddisfa i buoni standard scientifici delle prove.
Il suo parere: I pazienti che sono stati testati per la SARS-CoV-2 sono sproporzionatamente quelli con sintomi gravi. Poiché la maggior parte dei sistemi sanitari ha una capacità di test limitata, la distorsione della selezione potrebbe addirittura peggiorare nel prossimo futuro. L’unica situazione in cui è stata testata un’intera popolazione chiusa è stata la nave da crociera Diamond Princess e i suoi passeggeri in quarantena. Il tasso di mortalità dei casi è stato dell’1,0%, ma si trattava di una popolazione in gran parte anziana, in cui il tasso di mortalità della Covid-19 è molto più alto. […] Il tasso di mortalità nel caso Covid-19 potrebbe essere così basso? No, alcuni dicono, indicando l’alto tasso di persone anziane. Tuttavia, anche alcuni cosiddetti coronavirus di tipo mild o common-cold-type, noti da decenni, possono avere tassi di mortalità dei casi fino all’8% quando infettano le persone anziane nelle case di cura. […] Se non avessimo saputo di un nuovo virus là fuori, e non avessimo controllato gli individui con i test PCR, il numero di decessi totali dovuti alla “malattia simile all’influenza” non sembrerebbe insolito quest’anno. Al massimo, avremmo potuto casualmente notare che l’influenza in questa stagione sembra essere un po’ peggiore della media. – Un fiasco in corso? Mentre la pandemia di coronavirus prende piede, stiamo prendendo decisioni senza dati affidabili”, Stat News, 17 marzo 2020.
Il dottor Yoram Lass è un medico, politico ed ex direttore generale del Ministero della Salute israeliano. Ha anche lavorato come decano associato della Scuola di medicina dell’Università di Tel Aviv e negli anni ’80 ha presentato il programma televisivo scientifico Tatzpit.
Il suo parere: L’Italia è nota per la sua enorme morbilità nei problemi respiratori, più del triplo di qualsiasi altro Paese europeo. Negli Stati Uniti circa 40.000 persone muoiono in una normale stagione influenzale e finora 40-50 persone sono morte a causa del coronavirus, la maggior parte in una casa di cura a Kirkland, Washington. […] In ogni paese, il numero di persone che muoiono di influenza normale è maggiore rispetto a quello delle persone che muoiono di coronavirus. […] …c’è un ottimo esempio che tutti noi dimentichiamo: l’influenza suina nel 2009. Si trattava di un virus che è arrivato in tutto il mondo dal Messico e che fino ad oggi nessuni è stato vaccinato contro di esso. Ma cosa? A quel tempo non c’era Facebook o forse c’era, ma era ancora agli inizi. Il coronavirus, invece, è un virus con le pubbliche relazioni. Chi pensa che i governi pongano fine ai virus si sbaglia. – Intervista a Globes, 22 marzo 2020
Il dottor Pietro Vernazza è un medico svizzero specializzato in Malattie infettive presso l’Ospedale cantonale di San Gallo e professore di Politica sanitaria.
Cosa dice: Abbiamo dati affidabili dall’Italia e un lavoro di epidemiologi, che è stato pubblicato sulla rinomata rivista scientifica “Science”, che ne ha esaminato la diffusione in Cina. Questo chiarisce che circa l’85% di tutte le infezioni si è verificato senza che nessuno se ne sia accorto. Il 90 per cento dei pazienti deceduti ha un’età superiore ai 70 anni, il 50 per cento ha più di 80 anni. […] In Italia, secondo i risultati della pubblicazione Science, una persona su dieci a cui è stata fatta la diagnosi muore, cioè statisticamente una su mille persone infette. Ogni singolo caso è tragico, ma spesso – come nella stagione dell’influenza – colpisce persone che sono alla fine della loro vita. […] Se chiudiamo le scuole, eviteremo che i bambini diventino rapidamente immuni. […] Dovremmo integrare meglio i fatti scientifici nelle decisioni politiche. – Intervista a San Gallo Tagblatt, 22 marzo 2020
Frank Ulrich Montgomery è un radiologo tedesco, ex presidente dell’Associazione Medica Tedesca e vice presidente dell’Associazione Medica Mondiale.
Il suo parere: Non sono un fan dell’isolamento. Chiunque imponga una cosa del genere deve anche dire quando e come riprenderla. Dato che dobbiamo presumere che il virus rimarrà con noi per molto tempo, mi chiedo quando torneremo alla normalità. Non si possono tenere chiuse scuole e asili fino alla fine dell’anno. Perché ci vorrà almeno quel tempo prima di avere un vaccino. L’Italia ha imposto l’isolamento e ha l’effetto opposto. Hanno raggiunto rapidamente i loro limiti di capacità, ma non hanno rallentato la diffusione del virus all’interno dell’isolamento. – Intervista in General Anzeiger, 18 marzo 2020
Il Prof. Hendrik Streeck è un ricercatore tedesco di HIV, epidemiologo e sperimentatore clinico. È professore di Virologia e direttore dell’Istituto di virologia e ricerca sull’HIV dell’Università di Bonn.
Il suo parere: Il nuovo agente patogeno non è così pericoloso, è ancora meno pericoloso del Sars-1. La cosa speciale è che Sars-CoV-2 si replica nella zona superiore della gola ed è quindi molto più contagioso perché il virus salta di gola in gola, per così dire. Ma anche questo è un vantaggio: poiché Sars-1 si replica nei polmoni profondi, non è così contagioso, ma arriva sicuramente ai polmoni, il che lo rende più pericoloso. […] Bisogna anche tener conto del fatto che i morti di Sars-CoV-2 in Germania erano esclusivamente persone anziane. A Heinsberg, per esempio, un uomo di 78 anni con precedenti malattie è morto di insufficienza cardiaca, e questo senza il coinvolgimento del Sars-2 polmonare. Da quando è stato contagiato, appare naturalmente nelle statistiche di Covid 19. Ma la domanda è se non sarebbe morto comunque, anche senza Sars-2. – Intervista a Frankfurter Allgemeine, 16 marzo 2020
Dr Yanis Roussel et al. – Un team di ricercatori dell’Institut Hospitalo-universitaire Méditerranée Infection di Marsiglia e dell’Institut de Recherche pour le Développement, Assistance Publique-Hôpitaux de Marseille, ha condotto uno studio tra pari sulla mortalità da Coronavirus per il governo francese nell’ambito del programma “Investimenti per il futuro”.
Il loro parere: Il problema della SARS-CoV-2 è probabilmente sovrastimato, dato che 2,6 milioni di persone muoiono ogni anno di infezioni respiratorie rispetto a meno di 4000 morti per la SARS-CoV-2 al momento in cui si scrive. […] Questo studio ha confrontato il tasso di mortalità della SARS-CoV-2 nei Paesi OCSE (1,3%) con il tasso di mortalità dei coronavirus comuni identificati nei pazienti AP-HM (0,8%) dal 1° gennaio 2013 al 2 marzo 2020. È stato eseguito il test Chi-squared e il valore P è stato pari a 0,11 (non significativo). […] …va notato che studi sistematici di altri coronavirus (ma non ancora per la SARS-CoV-2) hanno rilevato che la percentuale di portatori asintomatici è pari o addirittura superiore alla percentuale di pazienti sintomatici. Gli stessi dati per la SARS-CoV-2 potrebbero essere presto disponibili, il che ridurrà ulteriormente il rischio relativo associato a questa specifica patologia. – “SARS-CoV-2: paura contro dati”, International Journal of Antimicrobial Agents, 19 marzo 2020
Il dottor David Katz è un medico americano e direttore fondatore del Centro di ricerca sulla prevenzione dell’Università di Yale.
Il suo parere: Sono profondamente preoccupato che le conseguenze sociali, economiche e di salute pubblica di questo quasi totale tracollo della vita normale – scuole e attività commerciali chiuse, raduni vietati – saranno durature e disastrose, forse più gravi del tributo diretto del virus stesso. Il mercato azionario si riprenderà col tempo, ma molte aziende non lo faranno mai. La disoccupazione, l’impoverimento e la disperazione che ne deriverà saranno piaghe di salute pubblica di primo ordine. – La nostra lotta contro il Coronavirus è peggiore della malattia?“, New York Times 20 marzo 2020
Michael T. Osterholm è professore reggente e Direttore del Center for Infectious Disease Research and Policy dell’Università del Minnesota.
Il suo parere: Considerate l’effetto di chiudere uffici, scuole, sistemi di trasporto, ristoranti, hotel, negozi, teatri, sale da concerto, eventi sportivi e altri luoghi a tempo indeterminato e di lasciare tutti i loro lavoratori disoccupati e disoccupati a tempo indeterminato. Il probabile risultato non sarebbe solo una depressione, ma un completo collasso economico, con innumerevoli posti di lavoro perduti in modo permanente, molto prima che sia pronto un vaccino o che si diffonda l’immunità naturale. […] L’alternativa migliore sarà probabilmente quella di lasciare che le persone a basso rischio di malattie gravi continuino a lavorare, mantengano l’attività commerciale e produttiva e “gestiscano” la società, consigliando al tempo stesso agli individui a più alto rischio di proteggersi attraverso l’allontanamento fisico e di aumentare la nostra capacità di assistenza sanitaria nel modo più aggressivo possibile. Con questo piano di battaglia, potremmo gradualmente costruire l’immunità senza distruggere la struttura finanziaria su cui si basa la nostra vita. – “Affrontare la realtà covid-19: Un isolamento nazionale non è una cura“, Washington Post 21 marzo 2020
Il dottor Peter Goetzsche è professore di Progettazione e analisi della ricerca clinica presso l’Università di Copenhagen e fondatore della Cochrane Medical Collaboration. Ha scritto diversi libri sulla corruzione nel campo della medicina e sul potere delle grandi aziende farmaceutiche (tra cui “Medicine letali e crimine organizzato, n.d.t.).
Il suo parere: Il nostro problema principale è che nessuno si metterà mai nei guai per misure troppo draconiane. Finiranno nei guai solo se faranno troppo poco. Quindi, i nostri politici e coloro che lavorano con la sanità pubblica fanno molto di più di quanto dovrebbero fare. Durante la pandemia influenzale del 2009 non sono state applicate misure così draconiane, e ovviamente non possono essere applicate ogni inverno, che dura tutto l’anno dato è sempre inverno in qualche altra parte del mondo. Non possiamo chiudere il mondo intero in modo permanente. Se si dovesse scoprire che l’epidemia svanirà in breve tempo, ci sarà una coda di persone che vorranno prendersi il merito di questo. E possiamo essere dannatamente certi che le misure draconiane saranno applicate anche la prossima volta. Ma ricordate la battuta sulle tigri. “Perché suoni il clacson?” “Per tenere lontane le tigri.” “ Ma qui non ci sono tigri.” “Hai visto che funziona!” – “Corona: un’epidemia di panico di massa”, post del blog su Deadly Medicines 21 marzo 2020
Covid-2019. Altri 10 esperti che criticano il panico da Coronavirus. Rugge su Come Don Chisciotte.org il 5 Aprile 2020. Fonte: off-guardian.org. Seguendo la nostra precedente lista, ecco altre dieci voci esperte, annegate o ignorate dalla narrazione tradizionale, che offrono la loro opinione sull’epidemia di coronavirus.
La dott.ssa Sunetra Gupta et al. sono un gruppo di ricerca di Oxford che sta costruendo un modello epidemiologico per l’epidemia di coronavirus, il loro lavoro non è ancora stato sottoposto a una revisione paritaria, ma l’abstract è disponibile online. Il dottor Gupta è professore di Epidemiologia Teorica all’Università di Oxford con un interesse per gli agenti delle malattie infettive che sono responsabili di malaria, HIV, influenza e meningite batterica. Ha ricevuto il Sahitya Akademi Award, la medaglia scientifica della Zoological Society di Londra e il Royal Society Rosalind Franklin Award per la sua ricerca scientifica.
Ciò che dicono: È importante sottolineare che i risultati che presentiamo qui suggeriscono che le epidemie in corso nel Regno Unito e in Italia sono iniziate almeno un mese prima della prima morte segnalata e hanno già portato all’accumulo di livelli significativi di immunità del gregge in entrambi i paesi. Esiste una relazione inversa tra la percentuale attualmente immune e la frazione della popolazione vulnerabile alle malattie gravi. – I principi fondamentali della diffusione dell’epidemia evidenziano l’immediata necessità di indagini sierologiche su larga scala per valutare lo stadio dell’epidemia di SARS-CoV-2, 24 Marzo 2020. La ricerca presenta una visione molto diversa dell’epidemia rispetto alla modellazione dell’Imperial College London […] “Sono sorpreso che ci sia stata un’accettazione così incondizionata del modello Imperial”, ha detto il dottor Gupta. […] I risultati di Oxford avrebbero fatto sì che il paese avesse già acquisito una sostanziale immunità grazie alla diffusione non riconosciuta della covid19 per oltre due mesi. Anche se alcuni esperti hanno messo in dubbio la forza e la durata della risposta immunitaria umana al virus, la prof. Gupta ha detto che le prove emergenti la rendevano fiduciosa che l’umanità avrebbe costruito l’immunità del gregge contro Covid19. – “Il Coronavirus può aver infettato metà della popolazione”, Financial Times, 24 Marzo 2020
La dott.ssa Karin Mölling è una virologa tedesca la cui ricerca si è concentrata sui retrovirus, in particolare sul virus dell’immunodeficienza umana (HIV). È stata professore ordinario e direttore dell’Istituto di virologia medica dell’Università di Zurigo dal 1993 fino al suo pensionamento nel 2008 e ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi per il suo lavoro.
Cosa dice: Ora vi viene detto ogni mattina quanti sono i decessi della SARS-Corona 2. Ma non vi dicono quante persone sono già state contagiate dall’influenza quest’inverno e quanti morti ha causato. Quest’inverno l’influenza non è grave, ma circa 80.000 persone sono infette. Questi numeri non vi vengono dati affatto. Qualcosa di simile è accaduto due anni fa. Questo non è inserito nel contesto giusto. […] Ogni settimana a Berlino una persona muore a causa di germi multiresistenti. In Germania ciò equivale a 35.000 all’anno. Non se ne parla affatto. Credo che abbiamo avuto più volte situazioni come questa e che ora le misure siano state adottate in modo eccessivo. Sono dell’opinione che forse non si dovrebbe fare così tanto contro i giovani che fanno feste insieme e si infettano a vicenda. Dobbiamo costruire l’immunità in qualche modo. Come è possibile senza contatti? I giovani gestiscono molto meglio l’infezione. Ma dobbiamo proteggere gli anziani, e proteggerli in un modo che possa essere controllato; è ragionevole quello che stiamo facendo ora, allungare l’epidemia in un modo che quasi paralizza l’intera economia mondiale? […] Le cifre sono fornite dall’Istituto Robert Koch. Poi ti siedi lì come ascoltatore o spettatore: 20 morti di nuovo, che cosa terribile! Sapete quando inizierei a farmi prendere dal panico? Se ce ne fossero 20.000. Allora ci avvicineremmo a quello che è successo in silenzio due anni fa. L’epidemia di influenza del 2018, con 25.000 morti, non ha mai sconcertato la stampa. Le cliniche hanno dovuto affrontare altri 60.000 pazienti, il che non è stato un problema neanche nelle cliniche! […] Questa è la paura principale: la malattia si presenta come una malattia terribile. La malattia in sé è come l’influenza in un normale inverno. È ancora più debole nella prima settimana. – Intervista a Anti-Empire.com, 23 Marzo 2020
Il dottor Anders Tegnell è un medico e funzionario pubblico svedese che dal 2013 è Epidemiologo di Stato dell’Agenzia di Sanità Pubblica svedese. Il dottor Tegnell si è laureato in medicina nel 1985, specializzato in malattie infettive. In seguito ha ottenuto un dottorato di ricerca in scienze mediche presso l’Università di Linköping nel 2003 e un MSc nel 2004.
Cosa dice: “Tutte le misure che adottiamo devono essere praticabili per un periodo di tempo più lungo”. Altrimenti la popolazione non accetterà più l’intera ”strategia corona”. Le persone anziane o con problemi di salute precedenti dovrebbero essere isolate il più possibile. Quindi niente visite ai figli o ai nipoti, niente viaggi con i mezzi pubblici, se possibile niente shopping. Questa è l’unica regola. L’altra è: Chiunque abbia dei sintomi dovrebbe rimanere a casa immediatamente, anche con la minima tosse. “Se si seguono queste due regole, non sono necessarie ulteriori misure, il cui effetto è comunque molto marginale”. – “The World Stands Still…Except for Sweden”, Zeit.de, 24 Marzo 2020
Il dottor Pablo Goldschmidt è un virologo franco-argentino specializzato in malattie tropicali e professore di Farmacologia Molecolare all’Università Pierre et Marie Curie di Parigi. È laureato alla Facoltà di Farmacia e Biochimica dell’Università di Buenos Aires e alla Facoltà di Medicina del Centro Ospedaliero di Pitié-Salpetrière, Parigi. Attualmente risiede in Francia, dove ha lavorato per quasi 40 anni come ricercatore in laboratori clinici per lo sviluppo di tecnologie diagnostiche.
Cosa dice: “Le opinioni infondate espresse da esperti internazionali, replicate dai media e dai social network, ripetono il panico inutile che abbiamo sperimentato in precedenza. Il coronavirus individuato in Cina nel 2019 ha causato niente di meno che un forte raffreddore o un’influenza, senza alcuna differenza con il raffreddore o l’influenza, per quanto sappiamo finora,” […] Le condizioni virali respiratorie sono numerose e sono causate da diverse famiglie e specie virali, tra cui il virus respiratorio sinciziale (soprattutto nei neonati), l’influenza, i metapneumovirus umani, gli adenovirus, i rinovirus e vari coronavirus, già descritti anni fa. Colpisce il fatto che all’inizio di quest’anno siano stati attivati allarmi sanitari globali a seguito di infezioni da un coronavirus individuato in Cina, COVID-19, sapendo che ogni anno ci sono 3 milioni di neonati che muoiono nel mondo di polmonite e 50.000 adulti negli Stati Uniti per la stessa causa, senza che siano stati lanciati allarmi. […] Il nostro pianeta è vittima di un nuovo fenomeno sociologico, la molestia dei media scientifici, scatenata da esperti solo sulla base dei risultati delle analisi di laboratorio di diagnostica molecolare. I comunicati provenienti dalla Cina e da Ginevra sono stati replicati, senza essere affrontati da un punto di vista critico e, soprattutto, senza sottolineare che i coronavirus hanno sempre infettato l’uomo e hanno sempre causato diarrea e quello che la gente chiama un banale raffreddore o un raffreddore comune. Sono state estrapolate previsioni assurde, come nel 2009 con il virus dell’influenza H1N1. […] Non ci sono prove che dimostrino che il coronavirus del 2019 sia più letale degli adenovirus respiratori, dei virus influenzali, dei coronavirus degli anni precedenti o dei rinovirus responsabili del comune raffreddore. – Intervista a Clarin.com, 9 Marzo 2020
Il dottor Eran Bendavid e il dottor Jay Bhattacharya sono professori di medicina e salute pubblica all’Università di Stanford.
Cosa dicono: Le proiezioni del numero di morti potrebbero essere plausibilmente troppo alte […] Il vero tasso di mortalità è la percentuale di persone infette che muoiono, non i decessi per i casi positivi identificati.
Quest’ultimo tasso è fuorviante a causa delle distorsioni di selezione nei test. Il grado di distorsione è incerto perché i dati disponibili sono limitati. Ma potrebbe fare la differenza tra un’epidemia che uccide 20.000 persone e una che ne uccide due milioni. […] Una quarantena universale può non valere i costi che impone all’economia, alla comunità e alla salute mentale e fisica individuale. Dovremmo intraprendere passi immediati per valutare le basi empiriche delle attuali misure di quarantena. “Is the Coronavirus as Deadly as They Say?”, Wall Street Journal, 24 Marzo 2020
Il dottor Tom Jefferson è un epidemiologo britannico, con sede a Roma. Lavora per la Cochrane Collaboration, dove è autore e redattore del gruppo di infezioni respiratorie acute della Cochrane Collaboration, oltre che membro di altri quattro gruppi Cochrane. È anche consulente dell’Agenzia Nazionale Italiana per i Servizi Sanitari Regionali.
Cosa dice: Quindi non posso rispondere ai miei dubbi assillanti, non sembra esserci niente di speciale in questa particolare epidemia di malattia simile all’influenza. Ci sono, tuttavia, due conseguenze di questa situazione che mi preoccupano. La prima è la mancanza di credibilità istituzionale percepita dai miei amici. Si va dai vigili del fuoco, ai poliziotti e persino a un medico di base – non il tipo di persone che si vorrebbe alienare in caso di emergenza. Il proprietario di un ristorante mi ha detto che non si sarebbe mai denunciato all’autorità sanitaria, perché ciò avrebbe significato almeno due settimane di chiusura e la sua attività sarebbe andata a rotoli. La seconda è che, una volta che le luci della ribalta si saranno spostate, ci sarà un serio e concentrato sforzo internazionale per capire le cause e le origini delle malattie simili all’influenza e il ciclo di vita dei suoi agenti? La forma passata mi dice di no, e torneremo a spingere l’influenza come una piaga universale sotto il tetto della serra degli interessi commerciali. Notate la differenza: l’influenza (causata dai virus A e B dell’influenza, per i quali abbiamo autorizzato vaccini e farmaci), non malattie simil-influenzali contro le quali dovremmo lavarci le mani tutto l’anno, non solo ora. Intanto non posso ancora rispondere alla domanda di Mario: cosa c’è di diverso questa volta? – “Covid 19—many questions, no clear answers”, British Medical Journal, 2 Marzo 2020
Il dottor Michael Levitt è professore di biochimica all’Università di Stanford. È Fellow della Royal Society (FRS), membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze e ha ricevuto il Premio Nobel per la Chimica 2013 per lo sviluppo di modelli multiscala per sistemi chimici complessi. Nel febbraio di quest’anno, ha correttamente modellato la fine dell’epidemia in Cina, prevedendo circa 80.000 casi e 3250 morti.
Cosa dice: Non credo ai numeri in Israele, non perché siano inventati, ma perché la definizione di un caso in Israele continua a cambiare ed è difficile valutare i numeri in questo modo…C’è molto panico ingiustificato in Israele. Non credo ai numeri qui, tutto è politica, non matematica. Mi sorprenderei se il numero di morti in Israele superasse i dieci, o addirittura i cinque ora con le restrizioni. […] Per mettere le cose in proporzione, il numero di morti per coronavirus in Italia è il 10% del numero di morti per influenza nel Paese tra il 2016-2017. Anche in Cina è difficile guardare al numero di pazienti perché la definizione di “paziente” varia, quindi guardo al numero di decessi. In Israele non ce ne sono, quindi non è nemmeno sulla mappa del mondo per la malattia”. – “Nobel laureate: surprised if Israel has more than 10 coronavirus deaths”, Jerusalem Post, 20th March 2020. Levitt ha analizzato i dati di 78 paesi che hanno segnalato più di 50 nuovi casi di COVID-19 ogni giorno e vede “segni di ripresa” in molti di essi. Non si concentra sul numero totale di casi in un paese, ma sul numero di nuovi casi individuati ogni giorno – e, soprattutto, sul cambiamento di quel numero da un giorno all’altro. “I numeri sono ancora rumorosi, ma ci sono chiari segnali di rallentamento della crescita”. “Quello di cui abbiamo bisogno è di controllare il panico”, ha detto. Nel grande schema, “andrà tutto bene”. – “Why this Nobel laureate predicts a quicker coronavirus recovery: ‘We’re going to be fine’”, Los Angeles Times, 22nd March 2020
German Network for Evidence-Based Medicine è un’associazione di scienziati, ricercatori e professionisti medici tedeschi. La rete è stata fondata nel 2000 per diffondere e sviluppare ulteriormente concetti e metodi di medicina basata su prove [evidence-based] e orientata verso il paziente [patient-oriented] nella pratica, nell’insegnamento e nella ricerca, e oggi conta circa 1000 membri.
Cosa dicono: Nella maggior parte dei casi, COVID-19 assume la forma di un leggero raffreddore o è addirittura privo di sintomi. Pertanto, è altamente improbabile che tutti i casi di infezione siano registrati, a differenza dei decessi che sono quasi completamente registrati. Questo porta ad una sopravvalutazione del CFR. Secondo uno studio su 565 giapponesi evacuati da Wuhan, che sono stati tutti testati (indipendentemente dai sintomi), solo il 9,2% delle persone infette è stato rilevato con il monitoraggio attualmente utilizzato orientato ai sintomi di COVID-19 [5]. Ciò significa che il numero di persone infette sarà probabilmente circa 10 volte superiore al numero di casi registrati. Il CFR sarebbe quindi solo un decimo circa di quello attualmente misurato. Altri presuppongono un numero ancora più elevato di casi non registrati, il che ridurrebbe ulteriormente il CFR. La disponibilità diffusa dei test SARS-CoV-2 è limitata. Negli USA, ad esempio, un’adeguata struttura di test finanziata dallo Stato per tutti i casi sospetti è disponibile solo dall’11.3.2020 [6]. Anche in Germania si sono verificati occasionali colli di bottiglia che contribuiscono a sopravvalutare il CFR. Man mano che la malattia si diffonde, diventa sempre più difficile identificare una sospetta fonte di infezione. Di conseguenza, i comuni raffreddori nelle persone che inconsapevolmente hanno avuto contatto con un paziente con COVID-19 non sono necessariamente associati a COVID-19 e le persone colpite non vanno affatto dal medico. Una sovrastima del CFR si verifica anche quando si scopre che una persona deceduta è stata infettata dalla SARS-CoV-2, ma questa non è stata la causa del decesso. […] Il CFR dello 0,2% attualmente misurato per la Germania è inferiore al CFR dell’influenza calcolato dall’Istituto Robert Koch (RKI) dello 0,5% nel 2017/18 e dello 0,4% nel 2018/19, ma superiore al dato ampiamente accettato dello 0,1% per il quale non esistono prove affidabili. […] Al di là delle conclusioni (piuttosto discutibili) tratte dall’esempio storico, ci sono poche prove che le NPI per COVID-19 portino effettivamente a una riduzione della mortalità complessiva. Una Cochrane Review del 2011 non ha trovato prove solide dell’efficacia dei controlli alle frontiere o del distanziamento sociale. […] Una revisione sistematica a partire dal 2015 ha trovato prove moderate che le chiusure delle scuole ritardano la diffusione di un’epidemia di influenza, ma a costi elevati. L’isolamento in casa rallenta la diffusione dell’influenza, ma porta a un aumento dell’infezione dei membri della famiglia. È discutibile se questi risultati possano essere trasferiti dall’influenza a COVID-19. Non è assolutamente chiaro per quanto tempo le NPI debbano essere mantenute e quali effetti si possano ottenere a seconda della loro durata e intensità. Il numero di decessi potrebbe essere posticipato solo in un momento successivo, senza che il numero totale cambi. […] Molte domande rimangono senza risposta. Da un lato, i media ci confrontano quotidianamente con le notizie allarmanti di un numero esponenzialmente crescente di malati e morti in tutto il mondo. Dall’altro lato, la copertura mediatica non considera in alcun modo i nostri criteri richiesti per la comunicazione del rischio basata sull’evidenza. I media stanno attualmente comunicando dati grezzi, ad esempio, finora ci sono state “X” persone infettate e “Y” decedute. Tuttavia, questa rappresentazione non riesce a distinguere tra diagnosi e infezioni. – “Covid19: Where is the evidence?”, statement on their website, March 20th 2020
Il dottor Richard Schabas è l’ex Chief Medical Officer dell’Ontario, Medical Officer di Hastings e del Prince Edward Public Health e capo del personale all’Ospedale Centrale di York.
Cosa dice: Ci sono molti più casi in giro di quanti ne vengano segnalati. Questo perché molti casi non hanno sintomi e la capacità di test è stata limitata. Finora sono stati segnalati circa 100.000 casi, ma, se si estrapola dal numero di decessi segnalati e da un tasso di mortalità presunto dello 0,5%, il numero reale è probabilmente più vicino ai due milioni – la stragrande maggioranza lieve o asintomatica. Allo stesso modo, il tasso effettivo di nuovi casi è probabilmente di almeno 10.000 casi al giorno. Se questi numeri sembrano grandi, però, ricordate che il mondo è un posto molto grande. Da una prospettiva globale, questi numeri sono molto piccoli. In secondo luogo, l’epidemia di Hubei – di gran lunga la più grande, e una sorta di scenario peggiore – sembra essersi attenuata. Quanto è stato grave? Beh, il numero di morti è stato paragonabile a una stagione influenzale media. Non è che non sia niente, ma non è nemmeno catastrofico, e non è probabile che travolga un sistema sanitario competente. Neanche lontanamente.
[…] Non sto predicando l’autocompiacimento. Questa malattia non andrà via a breve; dovremmo aspettarci più casi e più epidemie locali. E COVID-19 ha ancora il potenziale per diventare un grande problema sanitario globale, con un onere complessivo paragonabile a quello dell’influenza. Dobbiamo essere vigili nella nostra sorveglianza. […] Ma dobbiamo anche essere ragionevoli. La quarantena appartiene al Medioevo. Risparmiate le maschere per rapinare le banche. State calmi e andate avanti. Non rendiamo i nostri tentativi di guarigione peggiori della malattia. – “Strictly by the numbers, the coronavirus does not register as a dire global crisis”, Globe and Mail, 11 Marzo 2020
Un altro ringraziamento va a Swiss Propaganda Research per l’eccellente lavoro svolto, nonché a tutti i commentatori che hanno fornito nomi e suggerimenti BTL sul pezzo precedente. Non sono tutti inclusi, per vari motivi, ma sono state tutte informazioni utili. Riconosciamo anche le voci di altri settori, siano essi filosofi o giuristi dei diritti umani, che hanno criticato la risposta all’epidemia, ma abbiamo deciso di limitare queste liste ai soli esperti di medicina o di scienze biologiche.
Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di Ruggero Arenella
· Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.
Tutti gli scienziati del Carroccio. Salvini presenta il suo CtS: Zangrillo, Bassetti e Palù nel team del leghista. Giovanni Pisano su Il Riformista il 5 Novembre 2020. Matteo Salvini non vuole sentire ragioni. Il governo è “indegno”, secondo il segretario della Lega. Mosso magari non da “malafede, piuttosto da incapacità”. È se era stata troppo tardiva la proposta dell’esecutivo di avviare un tavolo con l’opposizione, è inaccettabile anche la suddivisione del Paese in differenti fasce di chiusura. L’ultimo dpcm, al leader del Carroccio, non è andato proprio giù. I governatori bisognava seguire, a cominciare dai provvedimenti omogenei e non diversificati da prendere. “Mi fido di tutti ma non di quello che arriva dal governo. Chi gestisce quei dati?”, ha insistito in un’intervista al Corriere della Sera Salvini. Risposta: il ministero della Salute, le stesse Regioni, la Protezione Civile, il Comitato Tecnico Scientifico. Ed è proprio qui che insiste il leader del Carroccio: ne serve uno nuovo – non è l’unico: anche Andrea Crisanti, ideatore del “modello Veneto” e vicino al Partito Democratico, ha criticato duramente il Comitato – un Cts alternativo, formato in seno al Parlamento. Che quello che c’è è troppo Roma-centrico, come qualcuno ha denunciato, e poco coinvolgente, nei confronti dell’opposizione naturalmente. Nelle parole del leader leghista: “Il Parlamento deve nominare un Comitato tecnico scientifico di sua fiducia. I consulenti del governo non ne hanno azzeccata una”. E da chi dovrebbe essere formato? “Facciamo spazio ai Palù, Zangrillo, Bassetti”. I profili non sono una sorpresa: l’emergenza non è mai stata estranea a pieghe ideologiche e politiche anche a livello scientifico. Anche se i virologi che gli italiani hanno imparato a conoscere hanno tutti dei tratti in comune: litigano tantissimo e sono onnipresenti in tivù. Salvini nel suo personalissimo Cts ha nominato i suoi: Giorgio Palù, Alberto Zangrillo e Matteo Bassetti. PALU’ – Giorgio Palù è ordinario di microbiologia e virologia dell’Università di Padova oltre che Past President della Società italiana ed europea di virologia. Si è parlato molto di alcune sue dichiarazioni nelle scorse settimane. Per esempio quelle rilasciate a Tv7: “Positivo non vuol dire malato, positivo vuol dire contagioso”. Diversi studi (Oms, The Lancet) dimostrano però che anche gli asintomatici possono trasmettere il virus ma soprattutto subire lesioni polmonari a causa dell’infezione. E poi in un’intervista al Corriere della Sera: “Il 95% non ha sintomi e quindi non si può definire malato, punto primo. Punto secondo: è certo che queste persone sono state ‘contagiate’, cioè sono venuti a contatto con il virus, ma non è detto che siano “contagiose”, cioè che possano trasmettere il virus ad altri”. Dichiarazioni che avevano scatenato una guerra tra virologi, come Roberto Burioni: “BASTA BUGIE! Gli asintomatici sono il 56%, i paucisintomatici il 16%, i lievi il 21%e i severi/critici il 7%”. Le ultime parole di Palù: “Nessuna pandemia è durata più di due anni”.
ZANGRILLO – Ha curato l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, guarito dal coronavirus, e Flavio Briatore, tra i tanti pazienti. Del leader di Forza Italia è da anni il medico personale. Alberto Zangrillo è primario di anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Raffaele di Milano ha definito la situazione descritta dai media diversa dalla realtà. “In questo momento noi abbiamo una situazione che è completamente diversa da quella che state, stanno, tutti narrando”, ha detto al Tg4 paragonando la situazione a quella di una nave sulla quale da diversi punti si urla all’allarme e il capitano abbandona la nave. Fu proprio lui a definire il Cts troppo Roma-centrico. Se è ormai noto a telespettatori e lettori è però soprattutto per le dichiarazioni di giugno: “Nessuna seconda ondata: perché sappiamo cosa fare”; “Tra poco potremo buttare via le mascherine”; e soprattutto: “Il virus, da un punto di vista clinico, non esiste più”.
BASSETTI – Si dice ottimista più che negazionista. Però, il professor Matteo Bassetti, molti lo ricordano per le dichiarazioni lanciate via social lo scorso giugno quando scrisse quanto gli dispiacesse per “i catastrofisti e i pessimisti, di cui l’Italia è stata ed è ancora piena” ma “credo che non ci sarà una seconda ondata simile a quella di marzo”. E molti altri ancora lo ricordano per la sua partecipazione al convegno Covid-19 tra informazione, scienza e diritto che si tenne al Senato – “convegno negazionista” titolarono i quotidiani – e che ha diviso gli scienziati, bandito per diverse ore le mascherine e accusato i media di terrorismo mediatico. Bassetti, direttore del reparto Malattie Infettive al San Martino di Genova, si trovò d’accordo con l’aria di eccessivo allarmismo intorno all’emergenza. Al convegno partecipò anche Salvini, in un’estate piena di accuse di immobilismo e di incapacità al governo, oltre che di abbracci, strette di mano, selfie con i suoi supporter. Il leader leghista, in quell’occasione, rifiutò di mettere la mascherina nonostante gli inviti dei funzionari di Palazzo Madama e definì il saluto con il gomito “la fine della specie umana”.
Dagospia il 24 ottobre 2020.
Dall’account twitter di Roberto Burioni: BASTA BUGIE! Gli asintomatici sono il 56%, i paucisintomatici il 16%, i lievi il 21%e i severi/critici il 7%.
Dall’account twitter di Lorenzo Pregliasco: Oltre un certo livello, la colpa è di chi fa informazione. Informazione non è mettere il microfono davanti agli esperti e trascrivere quello che dicono acriticamente. È andare a controllare i dati e verificare le cose che dicono. Basta, davvero. Cita Tweet.
Dall’account twitter di Lorenzo Ruffino: Ma perché il Corriere intervista questo tizio permettendogli di dire cose palesemente false? Basta andare a pagina 20 del bollettino dell'ISS. Gli asintomatici sono il 55%, i paucisintomatici il 17%, i lievi il 24% e i severi/critici il 4%.
Coronavirus, Matteo Bassetti: "Epidemia ingigantita. Morti per complicazioni respiratorie nel 2020? Simili al 2018". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 10 novembre 2020. «È successo tutto talmente rapidamente che neppure me ne rendo conto. Vedo che in strada la gente mi riconosce, e può far piacere, ma l'altro giorno a mia moglie confidavo che, se potessi, vorrei tanto tornare indietro. La notorietà è bella solo quando la gente ti stima, perché le critiche invece fanno molto male, sia quando arrivano dall'opinione pubblica sia se te le fanno i politici. Ho dedicato gli ultimi otto mesi della mia vita ai malati e agli italiani, sacrificando il mio tempo, la mia famiglia, lo stare dietro a mia madre che sta molto male, per poi sentirmi dare del negazionista da persone che non saprebbero neppure fare un'iniezione. L'Italia è una terra di invidiosi e di talebani: se qualcuno non è d'accordo con te, anziché ascoltarti ti dà del fascista. Un approccio poco scientifico. Negli ultimi giorni poi da una certa parte dell'opinione pubblica e della politica ho ricevuto attacchi indegni per un Paese civile e democratico perché ho avuto alcuni ruoli da Roma». Parole e musica di Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell'Ospedale San Martino di Genova, presidente della Società Italiana di Terapia Antinfettiva nonché fenomeno medico-mediatico della collezione primavera-estate-autunno-inverno 2020, anno bisesto e funesto. Il camice bianco del Covid più telegenico d'Italia e dal linguaggio semplice e chiaro, quasi avesse fatto un corso intensivo di comunicazione prima della pandemia, si è infilato in un tunnel fatto di corridoi ospedalieri, sale di rianimazione e telecamere che lo inseguono ovunque e vive in una dimensione parallela, con il virus al fianco e nella testa 24 ore su 24, al tempo stesso un nemico, una sfida, un rebus, un lavoro, una missione. Ma non un incubo, perché il segreto è non farsi terrorizzare. È questa la principale «Lezione da non dimenticare» dell'epidemia, come il professore ha voluto titolare il suo libro su questi mesi, che uscirà giovedì 12 novembre, scritto con la giornalista Martina Maltagliati per Cairo Editore.
Rimpiangere l'anonimato e poi scrive un libro: gli atti non fanno a cazzotti con le intenzioni?
«Non ci trovo nulla di male, anzi. Questo non è il mio primo libro. Ci ho lavorato in estate. Ho ritenuto importante raccontare alla gente dalla prima linea quel che è davvero successo la scorsa primavera».
È chiaro che adesso la attaccheranno ancora di più: non lo teme?
«Ormai mi attaccano anche se metto i calzini blu, per dirmi che sarebbe stato più consono portarli neri. Insultarmi e denigrarmi è diventato uno sport nazionale».
E come mai?
«Perché non sono allineato al pensiero unico dominante. E in Italia, se la pensi un po' diversamente da come sta bene, diventi un nemico».
Si sarà chiesto il perché «Perché in Italia si fa un uso politico di tutto.
«il Covid è diventato una via di mezzo tra politica e medicina».
Qual è la lezione da non dimenticare del virus?
«Che non bisogna farsi trovare impreparati. Servono più medici, più infermieri e un piano anti-pandemico che consenta di curare a casa i malati non gravissimi e di aumentare rapidamente i posti letto in ospedale».
Allora noi la lezione non l'abbiamo imparata.
«Certe cose le abbiamo imparate, come lavorare in squadra tra eccellenze delle diverse specialità; oppure a non trascurare le altre malattie. Durante i tre mesi primaverili dedicati solo alla cura del Covid abbiamo sbagliato, abbiamo dimenticato le altre patologie, con il risultato di un aumento della mortalità per infarto, ictus, tumori, problemi cardiaci. Oggi affrontiamo la seconda ondata senza perdere di vista gli altri malati».
Medici e infermieri però sembrano propensi a gesti di eroismo e abnegazione.
«Dopo nove mesi sulla breccia e tante promesse dal governo non mantenute, sta subentrando un po' di stanchezza e qualche collega di altre specialità si mette più difficilmente al servizio. Ma nel complesso non si può dire che i medici si stiano tirando indietro; semplicemente, difendono anche i loro malati, e questo è un bene».
Però diciamolo, alla seconda ondata non ci siamo preparati.
«Non è il momento delle accuse. Certo, questa estate si poteva fare di più, ci si poteva preparare meglio. Il Paese si è un po' seduto sui risultati della prima chiusura».
Il Paese o il governo?
«Questa è una domanda da fare a un politico, quindi non a me».
Abbiamo perso tempo?
«Sì, ma la colpa non è del governo o delle Regioni. È il sistema Italia che non aiuta, la burocrazia porta alla paralisi: prima di comprare un ventilatore devi analizzare quattro preventivi, poi indire una gara, approvarla, verificare i risultati. Siamo perdenti per la lentezza del nostro sistema».
Abbiamo un commissario straordinario del governo al Covid, Arcuri, e siamo in stato d'emergenza da inizio anno: questo non dovrebbe velocizzare la macchina?
«Anche questa sarebbe una risposta da politico; quindi non mia».
Sa di essere uno degli infettivologi preferiti da Salvini?
«Gli elogi fanno piacere, però io non ho etichette, non mi interessa al politica. Io lavoro per l'Università di Genova e il Sistema Sanitario Nazionale».
Salvini la vorrebbe nel Comitato Tecnico Scientifico.
«Ne sono lusingato ma sto bene dove sto».
Il viceministro Sileri, che è medico, sostiene che il Cts andrebbe allargato ad altri camici bianchi...
«Il Cts ha fatto cose ottime e cose meno buone. La sua composizione sarebbe stata da rivedere forse prima dell'esplosione della seconda ondata. Ha grandi professionisti, ma certo è un po' romanocentrico, e pertanto è composto da colleghi che non hanno combattuto il Covid sul campo a marzo e aprile. Forse innestare qualche medico ligure, lombardo, piemontese, emiliano o veneto sarebbe stata una buona idea».
Si candida a quinta colonna nordista nel Cts?
«No guardi, io sono apolitico. Salvini mi apprezza ma è stata Agenas, poco fa, a nominarmi coordinatore scientifico di un gruppo di lavoro per la gestione del Covid in tutta Italia».
Meriti televisivi o è grazie a Sileri, che a fine mandato andrà a lavorare da Zangrillo, al San Raffaele di Milano?
«Lei è un provocatore, ma non ci casco. Io ho fatto il mio lavoro di medico in corsia con il mio gruppo e mi danno del negazionista. Sarebbe come dare dell'ateo a un monsignore. Mi creda, la politica è nemica della medicina, si è visto prima del Covid e durante».
Questa me la spieghi meglio.
«Sono stati trent' anni di politica scellerata e di tagli selvaggi che hanno spogliato i nostri ospedali, la ricerca e le università. Noi medici ci stiamo caricando sulle spalle tutto il sistema e chi ci critica non si merita il livello di sanità che noi riusciamo ancora a garantire. Anche sul Covid, l'Italia quanto a pubblicazioni scientifiche è seconda probabilmente solo agli Stati Uniti, che hanno ben altre risorse».
E in che modo la politica è stata nemica della medicina?
«La comunicazione è stata sbagliata. Terrorizzare le persone può aiutare a farle stare in casa, ma a livello ospedaliero gestire una popolazione nel panico genera solo caos. Se oggi le strutture sanitarie rischiano il collasso è anche perché sono assediate da migliaia di persone asintomatiche o poco sintomatiche che si potrebbero tranquillamente curare a casa che invece prendono d'assalto i pronto soccorso, intasano i centralini degli ospedali, fanno perdere tempo ai medici. E tutto avviene perché sono state spaventate dalle istituzioni, che avrebbero invece dovuto tranquillizzarle. Il Covid è stato ingigantito: è il panico e la paura di finire intubato o di morire che fa esplodere il sistema sanitario, non i malati. Se ricevo cento telefonate al giorno da chi non sta male, come curo i malati veri?».
Cosa ci avrebbero dovuto dire?
«Andava detto che il Corona sta facendo danni enormi ma che la maggioranza dei positivi è asintomatica o poco sintomatica e che il virus ha una letalità inferiore all'1% e fa male soprattutto a pazienti anziani e con la salute già compromessa».
Poi però capita il cinquantacinquenne intubato, e che magari muore anche...
"Perché è una brutta infezione e concorrono tanti fattori: la genetica, le condizioni di salute, lo stato delle difese immunitarie nel momento del contagio, la carica virale introiettata. Ma già prima della comparsa del Covid, la polmonite contratta fuori dall'ospedale era la quinta causa di morte nel mondo, e uccideva anche cinquantenni e bambini».
La accusano di aver detto in estate che non ci sarebbe stata una seconda ondata: perché lo ha fatto?
«Non l'ho mai detto. Sono stato il primo a dire che bisognava convivere con il virus. Il che significava che avremmo avuto ancora tanti casi».
Davvero?
«Ho detto che non sarebbe stata come la seconda ondata della "Spagnola", con milioni di morti, perché abbiamo imparato a fronteggiarla. Chi mi accusa di aver negato la seconda ondata fa politica. Ma poi, parliamoci chiaro, è sbagliato parlare di ondate».
Perché c'è un'unica ondata?
«Il Covid ha il tipico andamento epidemico dell'influenza. Circola in autunno e inverno più che in estate».
E uccide di più...
«Uccide cinque-sei volte di più. Ma quello che deve spaventare non sono tanto i morti, perché vedrà che alla fine del 2020, su base nazionale, i numeri dei decessi per complicazioni respiratorie saranno simili a quelli del 2018. Bisogna guardare alla morbilità del virus, ovverosia quanta gente è malata ora: è il numero dei contagiati, non la loro gravità che può mandare in tilt gli ospedali».
Per questo chiudiamo tutto, per evitare il collasso?
«Esattamente. L'ultimo decreto del governo nella sua filosofia è corretto, anche se forse si sarebbe potuto evitare agendo meglio prima».
Continuare a cambiare regole non crea troppa confusione?
«Se cambi ogni settimana significa che non sei convinto di quanto hai deciso. Ma c'è un'attenuante: questa infezione è molto dinamica e la conosciamo ancora poco».
E quando se ne andrà?
«Se le dicessi che dovremmo conviverci per anni?».
Mi dispererei.
«E sbaglierebbe. Bisogna imparare a vivere con il Covid, gestirlo, creare reparti specializzati, e medici pronti, tracciare bene il territorio: si tratta di un'infezione virale brutta ma come ne abbiamo avute altre in passato».
Perché spaventa così tanto?
«Perché è arrivata all'improvviso, come uno tsunami. Alcuni testimoni dello tsunami non sono più tornati in mare. E poi perché ci è stata raccontata male: i media fanno vedere solo la parte negativa, i camion con le bare, gli intubati, e così trattiamo qualsiasi positivo come uno appena uscito dal reattore nucleaer di Chernobyl. Diamo il bollettino di guariti e dimessi, non solo di positivi, ricoverati e morti. Guardiamo anche il bicchiere mezzo pieno».
Se la gente si rilassa però, il contagio riesplode.
«Non se si dà un'informazione capillare sui focolai. Molto terrore e molti contagi sono generati dalla poca chiarezza».
Crede che il vaccino ci salverà?
«Ci aiuterà, ma non farà sparire il Covid. C'è anche il vaccino per l'influenza, ma non l'ha debellata. Comunque bisognerà attendere almeno sei mesi per avere numeri significativi sulla profilassi».
E il farmaco miracoloso tratto dal siero dei guariti?
«Si annuncia portentoso e può cambiare la storia, ma anche per lui dobbiamo attendere la primavera».
Tra Burioni e il San Raffaele volano parole grosse: «Basta bugie sul panico», «Non conosci la realtà». Lara Rastellino mercoledì 11 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Burioni nella bufera: dopo il post contro Bassetti si scatena l’inferno. E ora il San Raffaele lo scarica. E anche con poche moine. Il virologo dell’Università Vita Salute San Raffaele, super gettonato in tv dall’inizio della pandemia, sbotta su Facebook. E posta un commento che non può certo passare inosservato. Che testualmente recita: «Alcuni dicono che i pronto soccorso sono affollati da persone in preda al panico. E può essere vero. Ma quelle centinaia di persone che finiscono ogni giorno al cimitero a causa di Covid-19, sono spinte dal panico? Basta bugie. Basta bugie. Basta Bugie». Lo scrive su Facebook il virologo Roberto Burioni, dell’Università Vita Salute San Raffaele. Lo scontro tra virologi arriva al culmine. Il professore, a lungo ospite fisso da Fazio. Che al suo attivo ha pagine social molto seguite, si scatena in commenti durissimi sui social. Il riferimento è chiaramente all’allarme lanciato dal professor Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che aveva parlato di ospedali al collasso per colpa del panico. Secondo il professor Bassetti, infatti, la popolazione sarebbe terrorizzata da una comunicazione che, complice l’aumento esponenziale dei casi, generebbe un panico incontrollato, foriero solo di caos nei pronto soccorso divenuti ingestibili in tutto il Paese. Bassetti, infatti, negli ultimi giorni ha spiegato a più riprese il suo punto di vista. Sostenendo che le realtà ospedaliere sarebbero in pieno caos, «assediate da migliaia di persone asintomatiche o poco sintomatiche che si potrebbero tranquillamente curare a casa. E che, invece, prendono d’assalto i pronto soccorso. Intasano i centralini degli ospedali. Fanno perdere tempo ai medici». Burioni salta sulla sedia. E nel tentativo di ristabilire ordine di priorità e quella che, a suo parere, è la verità tra causa ed effetto, replica con il post che gli è valso la scomunica accademica. A stretto giro dalla esternazioni social, infatti, il San Raffaele interviene sul botta e risposta prendendo le distanze dal virologo. “In merito al tweet postato questo pomeriggio dal professor Roberto Burioni nel quale si fa riferimento ai pronto soccorso – scrivono l’azienda e l’ateneo – il Gruppo San Donato e l’Università Vita-Salute San Raffaele si discostano dal pensiero del professore, in quanto le sue considerazioni sono del tutto infondate. Dal momento che non è a conoscenza della realtà clinica che si vive nei pronto soccorso e nei reparti Covid». Non solo. Non ancora paghi, azienda ospedaliera e ateneo nell’ambito del quale il virologo insegna, non si limitano alla reprimenda. E pur «riconoscendo l’autonomia di espressione» del prof, invitano il virologo Burioni a «considerazioni più rispettose della verità e del lavoro altrui».
"Il 96% asintomatico", "Falso": ora è scontro tra i virologi. L’intervista del professor Palù ha sollevato polemiche. Roberto Burioni, Lorenzo Pregliasco e Lorenzo Ruffino hanno twittato le loro rimostranze. Valentina Dardari, Sabato 24/10/2020 il Giornale. L’intervista di Giorgio Palù, professore emerito dell’Università di Padova ed ex-presidente della Società italiana ed europea di Virologia, rilasciata al Corriere, ha sollevato qualche polemica sul web, soprattutto per il dato relativo agli asintomatici. Durante il suo intervento, il virologo aveva parlato dei casi positivi, dichiarando che “fra questi, il 95 per cento non ha sintomi e quindi non si può definire malato, punto primo. Punto secondo: è certo che queste persone sono state contagiate, cioè sono venute a contatto con il virus, ma non è detto che siano contagiose, cioè che possano trasmettere il virus ad altri. Potrebbero farlo se avessero una carica virale alta, ma al momento, con i test a disposizione, non è possibile stabilirlo in tempi utili per evitare i contagi”. Apriti cielo.
La polemica: " Il 56% è asintomatico, non il 96". Su Twitter non sono mancate le polemiche. Roberto Burioni, professore di Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha twittato: “BASTA BUGIE! Gli asintomatici sono il 56%, i paucisintomatici il 16%, i lievi il 21%e i severi/critici il 7%”. Anche Lorenzo Pregliasco, co-fondatore e direttore di YouTrend, ha invece scritto sempre sul social: “Oltre un certo livello, la colpa è di chi fa informazione. Informazione non è mettere il microfono davanti agli esperti e trascrivere quello che dicono acriticamente. È andare a controllare i dati e verificare le cose che dicono. Basta, davvero”. In questo modo Pregliasco ha risposto al tweet di Lorenzo Ruffino, che aveva chiesto ai navigatori perché Il Corriere avesse intervistato questo tizio, riferendosi al professor Palù, permettendogli di affermare cose palesemente false. Aggiungendo inoltre che basta andare alla pagina 20 del bollettino dell’Istituto superiore di sanità per leggere che gli asintomatici sono il 55%, i paucisintomatici il 17%, i lievi il 24% e i severi/critici il 4%. E come loro, molti utenti hanno attaccato la testata giornalistica affermando che non aveva controllato i dati scritti.
Palù: "C'è tanto allarmismo". Nell’intervista il professor Palù aveva inoltre detto che in questo momento c’è tanto allarmismo, anche se è chiaro che siamo davanti a una seconda ondata della pandemia. Infine Palù aveva spiegato che il dato veramente da tenere sotto controllo è quello relativo alle terapie intensive, sostenendo che “è questo numero che dà la reale dimensione della gravità della situazione. In ogni caso questo virus ha una letalità relativamente bassa, può uccidere, ma non è la peste”.
Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 24 ottobre 2020. «Confusione»: se si dovesse riassumere, in una parola, la situazione Covid-19 in Italia oggi, questa sarebbe la più indicata, almeno nella testa della gente. Come uscirne? Intanto partiamo dalle impressionanti cifre dei bollettini giornalieri: ieri si parlava di 19.143 «contagi» o, in alternativa, di «casi» oppure di «positivi», tutti intercettati con i famosi tamponi. In crescita esponenziale. Ma che cosa questi termini nascondono in realtà? Lo chiediamo al professor Giorgio Palù, un' autorità indiscussa nel campo della virologia, professore emerito dell' Università di Padova e past-president della Società italiana ed europea di Virologia.
Professor Palù, la gente è sconfortata e non sa più a chi credere. Come rispondere?
«C'è tanto allarmismo. È indubbio che siamo di fronte a una seconda ondata della pandemia, ma la circolazione del virus non si è mai arrestata, anche se, a luglio, i casi sembravano azzerati, complice la bella stagione, l' aria aperta, i raggi ultravioletti che uccidono il virus. Poi c' è stato il ritorno dalle vacanze, la riapertura di tante attività e, soprattutto, il rientro a scuola».
Risultato: i numeri dei «casi» sono in aumento. Come interpretarli correttamente?
«Ecco, parliamo di "casi", intendendo le persone positive al tampone. Fra questi, il 95 per cento non ha sintomi e quindi non si può definire malato, punto primo. Punto secondo: è certo che queste persone sono state "contagiate", cioè sono venuti a contatto con il virus, ma non è detto che siano "contagiose", cioè che possano trasmettere il virus ad altri. Potrebbero farlo se avessero una carica virale alta, ma al momento, con i test a disposizione, non è possibile stabilirlo in tempi utili per evitare i contagi».
Altri motivi per cui certe persone «positive» non sono «contagiose»?
«Perché potrebbero avere una carica virale bassa, perché potrebbero essere portatrici di un ceppo di virus meno virulento oppure perché presentano solo frammenti genetici del virus, rilevabili con il test, ma incapaci di infettare altre persone».
Allora, riassumendo: so che certe persone sono positive al tampone, so che sono asintomatiche, quindi non malate, so, però, che in una certa percentuale di casi (non è possibile stabilire quanto grande) possono contagiare altri. E, quindi, come comportarsi, visto che a Milano, per esempio, si è dichiarato il fallimento della possibilità di tracciare i contatti?
«Ci si dovrebbe attivare nel caso si individuino dei "cluster" (traduzione: raggruppamenti, ndr) : quando, cioè, il positivo è venuto a stretto contatto con altre persone in un ambiente di lavoro, a scuola o in famiglia. Allora si dovrebbero fare i tamponi a tutti».
Quindi, conoscere i dati giornalieri, come da bollettini, sui contagi/casi/positivi non è, in definitiva, utile?
«Quello che veramente conta è sapere quante persone arrivano in terapia intensiva: è questo numero che dà la reale dimensione della gravità della situazione. In ogni caso questo virus ha una letalità relativamente bassa, può uccidere, ma non è la peste».
A che cosa attribuisce l' attuale impennata di casi?
«Certamente alla riapertura delle scuole. Il problema non è la scuola in sé, ma sono i trasporti pubblici su cui otto milioni di studenti hanno cominciato a circolare. Tenere aperte le scuole è, però, indispensabile».
Lei è contrario o favorevole a nuovi lockdown?
«Sono contrario come cittadino perché sarebbe un suicidio per la nostra economia; come scienziato perché penalizzerebbe l'educazione dei giovani, che sono il nostro futuro, e come medico perché vorrebbe dire che malati, affetti da altre patologie, specialmente tumori, non avrebbero accesso alle cure. Tutto questo a fronte di una malattia, la Covid-19, che, tutto sommato ha una bassa letalità. Cioè non è così mortale. Dobbiamo porre un freno a questa isteria».
Parliamo adesso di quel 5 per cento di persone positive al tampone e con sintomi. Che fine fanno?
«Chi ha sintomi gravi (polmonite, ndr) viene ricoverato. Ma ci sono anche i "ricoveri sociali", mi informano i clinici. Persone che hanno disturbi lievi, ma non possono stare a casa perché sono soli o perché possono infettare altre persone in famiglia o perché sono poveri e non sanno dove andare».
Come funziona l'assistenza domiciliare delle persone positive?
«Se ne dovrebbero occupare i medici di famiglia, ma non esistono regole e protocolli che li orientino nella scelta delle terapie. Sono lasciati soli».
L’accusa di Crisanti: «Nel Cts non ci sono le migliori menti delle università italiane». Edoardo Valci lunedì 12 Ottobre 2020 su Il Secolo D'Italia. «C’è a mio avviso un problema di Cts, non tanto nella composizione quanto nella assenza. È possibile che non ci siano le migliori menti dell’università italiana?». Sono le parole del professor Andrea Crisanti a Mezz’ora in più. «In Inghilterra, con tutti gli sbagli che fanno, nei comitati scientifici ci sono persone che sono espressione politica del governo. Ma ci sono anche persone che sono espressione della cultura scientifica del paese. Io cerco di evitare polemiche personali. Il viceministro Sileri aveva fatto una proposta giusta e operativamente corretta per portare all’interno una serie di esperienze maturate sul campo. Era una proposta sensata, è stata ignorata», afferma.
Crisanti e la comunità scientifica. «Molti hanno sottovalutato tutto. Non scordiamoci la dialettica di giugno, luglio e agosto, quando si diceva che il virus era morto e clinicamente non più rilevante. Queste affermazioni hanno avuto un impatto», continua l’esperto. «Se la comunità scientifica fosse stata unita e solidale forse avrebbe avuto voce in capitolo in merito a determinate scelte. Se a giugno avessimo investito pesantemente in prevenzione e sanità pubblica, non ci troveremmo in questa situazione».
Il problema della Sanità pubblica. «Sono stati investiti soldi per le rianimazioni. Però l’epidemia è un problema di sanità pubblica e non di ospedali. Se non si investe in prevenzione e sorveglianza, i casi sono destinati ad aumentare. Mascherine e distanziamento da soli non fermano la trasmissione», incalza Crisanti. «Abbiamo dimostrato che se una persona convive con un malato le probabilità di difendersi dall’infezione sono bassissime. È molto difficile difendersi dal virus in casa se non si hanno doppie camere e doppi bagni, come non hanno le famiglie medie italiane».
Il piano di Crisanti. Crisanti ha proposto un piano da 3-400mila tamponi quotidiani. «Penso che sia ancora una cosa realistica con l’investimento giusto. Nel giro di 2-3 mesi si potrebbe arrivare a questa capacità. In assenza di vaccino e di una terapia, l’unico modo per spegnere la trasmissione è il ricorso al test per le persone vicine alla persona malata: familiari e colleghi. Sappiamo quanto tempo passa tra infezione e positività. Possiamo anche accorciare le quarantene: se una persona non si infetta a 3-4 giorni dal contatto, non si infetta più».
"Sparano c... in tv", "Coi malati" Lo scontro tra Zangrillo e Galli. L’infettivologo del Sacco di Milano ha commentato un tweet del professor Zangrillo rivolto forse ai colleghi. Valentina Dardari, Domenica 20/12/2020 su Il Giornale. Il professor Massimo Galli, anticipando di non aver intenzione di commentare quello che il professor Alberto Zangrillo ha tweettato ieri, ha in realtà fatto proprio questo. "Non ho intenzione di commentare quello che dice il professor Zangrillo, avrà i suoi motivi per fare le sue affermazioni. Io di malati ne vedo da 44 anni, sono un medico in ospedale" e aveva poi continuato, vedo "pazienti con patologie più affini a quelle che vede Zangrillo, occupandomi di malattie infettive" ha detto l’infettivologo Galli, responsabile di malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, all’Adnkronos.
Galli risponde al tweet di Zangrillo. Sotto accusa il tweet di Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione dell'ospedale San Raffaele di Milano, in risposta a un utente che lo ringraziava per aver migliorato il quadro clinico di una persona a lui vicina. Zangrillo aveva replicato: "Che figata salvare vite umane mentre gli sciacalli che non hanno mai tenuto la mano a un malato sparano cazzate in televisione". Qualcuno, Galli compreso, sembra aver letto in quelle parole uno stampo polemico rivolto ad alcuni colleghi che magari non lavorano in reparto come lui, ma in laboratorio. Fatto sta che da quel momento si sono accese polemiche sui social.
La stoccata di Zangrillo: "Troppi scienziati dell'ultima ora". Galli ha tenuto però a spiegare: "Non mi sento toccato da queste affermazioni. Sono anche stanco di alimentare contrapposizioni che sono diventate oggetto di satire tra me e il professor Zangrillo, mi sembra fuori luogo. Di contrappormi non mi è mai importato nulla". Ha tenuto a precisare, cara che qualcuno aveva magari interpretato male il motivo della sua risposta. Ad alcuni utenti non era proprio piaciuta la parola usata da Zangrillo all'inizio del tweet. Ma non è certo la prima volta che qualche espressione del professore del San Raffaele dà il via a qualche discussione. Anche quando aveva chiesto a virologi e stampa di smetterla con gli allarmismi.
Il professore ringraziato dall'utente. Nell’ultimo caso, l’utente aveva invece voluto ringraziare pubblicamente il medico ed esprimergli tutta la sua gratitudine per i miglioramenti della persona a lui cara: “Grazie Zangrillo. Sei sempre il migliore di tutti. Il tuo coraggio, la tua preparazione e la tua lucida follia siano di insegnamento per tutti noi”. Non è detto che nelle prossime ore anche Zangrillo non prenda al balzo l’occasione per rispondere a Galli. Un botta e risposta che ormai siamo abituati a leggere sui social o ad ascoltare in televisione.
“Il virus è morto”. “Anzi no, è vivo e colpirà ancora”… La guerra senza fine dei virologi. Il Dubbio il 27 luglio 2020. I virologi divisi e litigiosi. Lo scontro tra Burioni e De Donno e tra Zangrillo e il resto del “mondo”. Crisanti contro Zangrillo. Tarro contro Burioni. Ranieri Guerra contro Clementi. Critiche, insinuazioni, persino insulti. Dopo la tregua forzata causa lockdown, l’inizio della “nuova normalità” ha riportato in auge la “guerra” tra gli esperti, divisi ormai in maniera abbastanza netta in due fazioni: ottimisti e pessimisti. Una polemica inedita per toni e modalità, uscita dalle polverose aule accademiche per divampare sui social, sulle agenzie, sui giornali. E naturalmente, le due fazioni hanno il loro nutrito seguito di fan, che a loro volta si insultano tacciandosi, di volta in volta, di catastrofismo a tutti i costi o di ottimismo ottuso e immotivato. Con un interrogativo non sempre espresso ma onnipresente, magari sotto traccia: il governo ha fatto bene o sta sbagliando? E con i due fronti, scientifici e politici, che in qualche modo si sovrappongono e si sostengono a vicenda. La disfida insomma, da accademica è diventata politica. Inevitabile, quando si toccano argomenti che interessano l’intera popolazione. D’altra parte lo diceva già Thomas Mann: l’apoliticità non esiste, tutto è politica.
L’accusa di Alberto Zangrillo: “Il virus è morto”. A gettare il sasso nello stagno, come noto, è stato all’indomani delle riaperture Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffele di Milano, con la frase “il virus ormai è clinicamente morto”. Concetto contestato dagli esperti che potremmo definire, con una buona dose di approssimazione (elemento fondamentale in politica), del fronte “di sinistra”. A partire dai membri del Comitato tecnico scientifico, da Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, a Silvio Brusaferro, numero uno dell’Istituto Superiore di Sanità, fino a Gianni Rezza, passato nelle scorse settimane dall’Iss alla direzione del dipartimento Prevenzione del ministero della Salute. A pesare sulla polemica, inutile negarlo, la figura stessa di Zangrillo, medico personale di Berlusconi, esponente di punta del mondo della sanità lombarda “formigoniana”, insomma, si presume, non esattamente affine ideologicamente al governo in carica. Altra figura cara agli “ottimisti”, o al fronte affine al centrodestra, quella del virologo Giulio Tarro, storico esperto campano in prima linea 40 anni fa nella lotta al colera, anche lui convinto dell’esagerazione nella risposta al virus, sceso in polemica diretta e furibonda più volte con i colleghi, fino alla querela contro Roberto Burioni, reo di aver pronunciato la frase “se Tarro è stato candidato al Nobel io lo sono a Miss Italia”.
La querela di Roberto Burioni. E’ proprio Burioni, dopo le guerre all’arma bianca degli scorsi anni sul tema dell’obbligatorietà vaccinale, uno dei paladini del fronte dei “pessimisti”, o affini al centrosinistra, per proseguire sulla linea del doppio binario scientifico-politico. Sulla sua pagina Facebook “Medical Facts” sono immancabili le polemiche, con un fronte più estremo passato con disinvoltura dal credo “No vax” a quello “No mask”, e sfociato in iniziative più folkloristiche che politiche come quelle del generale Pappalardo. Inevitabile anche il servizio delle Iene su un presunto conflitto d’interessi del virologo rispetto agli anticorpi monoclonali, a cui Burioni ha risposto con la querela. Ed è certamente tra gli ottimisti Massimo Clementi, direttore del laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Ospedale San Raffaele, assertore della tesi, ancora non dimostrata, di un virus diventato in qualche modo “più buono”, e comunque con una carica virale attenuata. Tesi su cui si e’ registrato il furibondo scontro con Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms, che lo ha invitato poco cavallerescamente a “tornare nelle fogne”, anche qui con un richiamo non troppo sottile a disfide politiche di altri tempi. Non si è risparmiato neanche Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di virologia dell’università di Padova e “padre” del modello veneto, che ha consentito nei primi drammatici mesi di contenere l’epidemia a suon di tamponi e tracciamenti, contravvenendo anche alle catastrofiche indicazioni iniziali dell’Oms. Non solo contro i colleghi, a partire da Zangrillo, ma anche contro il governatore Luca Zaia, accusato di prendersi i meriti e nelle ultime settimane di aver cambiato linea dando retta ai suoi “virologi di fiducia che gli dicono che il virus non c’è più”. Ma che gli scienziati, diventati improvvisamente superstar, spesso utilizzino la visibilità per scopi personali, anche politici (nulla di male, ovviamente), è più che un sospetto.
De Donno e la polemica sul plasma. Giuseppe De Donno, primario di pneumologia a Mantova e massimo propugnatore della terapia con il plasma dei convalescenti, si è detto e scritto che l’intenzione ancora non dichiarata era addirittura quella di correre a sindaco della città lombarda (ipotesi finora smentita dall’interessato). Si è mormorato anche di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, sempre con posizioni molto prudenti (i detrattori le definirebbero "catastrofiste"), di cui ha fatto rumore l’intervento all’assemblea del Pd a fine febbraio, proprio mentre iniziava a infuriare la pandemia. Mentre è ufficiale la candidatura di Pier Luigi Lopalco, consulente di Emiliano in Puglia, proprio nelle fila del governatore Pd uscente in corsa in autunno per il secondo mandato. Scelta che lo ha indotto a dimettersi dalla presidenza del Patto trasversale per la Scienza, l’associazione che riunisce (o per meglio dire, riuniva) gran parte degli esperti italiani impegnati nella lotta al coronavirus. La dicotomia scienza-politica è diventata un tema non più eludibile, incrinando proprio l’unità del Patto, con il convegno di oggi promosso da Vittorio Sgarbi al Senato per presentare la nuova associazione ‘Osservatorio per i diritti fondamentali’, le cui tesi di fondo sono sostanzialmente che il virus non rappresenta più un grave pericolo e che continuare con lo stato d’emergenza è inutile e dannoso per l’economia e la società tutta, oltre che lesivo, appunto, delle libertà fondamentali. Facendo emergere l’impossibilità di convivenza tra i due “partiti”, quello dei virologi ottimisti (che un mese fa hanno lanciato un manifesto proprio per dire come il virus si sia indebolito, firmato tra gli altri anche da Matteo Bassetti, Giorgio Palù, Giuseppe Remuzzi, oltre a Zangrillo e Clementi) e quello dei pessimisti (ma loro si definiscono realisti), secondo cui questa tesi è molto pericolosa perchè, se frainteso, il concetto di “indebolimento clinico” del Covid può portare, come in effetti in parte è stato, a un eccessivo rilassamento rispetto alle misure di prudenza. L’opposizione, Salvini in primis, sposa convintamente la linea espressa dal manifesto, accusando il governo di voler mantenere forzatamente lo stato di emergenza per scavalcare il Parlamento. Mentre la maggioranza, con in testa il ministro della Salute Roberto Speranza che ogni giorno ribadisce la necessità di mantenere alta la guardia, continua a seguire la linea della massima prudenza dettata dal Comitato tecnico-scientifico. Dal convegno di oggi si è chiamato fuori Guido Silvestri, che insegna alla Emory University di Atlanta, che malgrado il grande successo della sua rubrica web ‘Pillole di ottimismo’ non si è sentito di partecipare a un’iniziativa, a suo dire, più politica che scientifica (è previsto anche l’intervento dello stesso Salvini). Il Patto per la Scienza (la cui definizione iniziale “trasversale” somiglia sempre più a un’utopia) ha emesso un duro comunicato che sintetizza tutte le difficoltà di conciliare i due aspetti: “Appare grave ed incomprensibile l’eventuale adesione da parte di importanti soci del PTS ad iniziative in chiave chiaramente politica ed elettorale che vedano come guida o contributori soggetti che sono stati oggetto di querela o di diffida da parte del PTS proprio per le pericolose posizioni antiscientifiche espresse durante l’epidemia di COVID-19, insieme ad altri che in moltissime occasioni hanno dimostrato la propria lontananza dal metodo scientifico”. Chi partecipa al convegno, spiegano i responsabili dell’associazione, è fuori. Ma se gli scienziati si accapigliano, anche la sfida tra regioni si accende, in base naturalmente al colore politico della giunta. Il governatore campano Vincenzo De Luca ha a più riprese attaccato la gestione lombarda, con uscite non sempre nei limiti del buon gusto, mentre di fronte alle critiche per il caso camici che ha coinvolto il governatore lombardo Fontana i suoi sostenitori contrattaccano ricordando il pasticcio delle mascherine acquistate e mai recapitate nel Lazio di Nicola Zingaretti, leader del Pd. E inevitabilmente, nel tritacarne finisce anche il tema divisivo per eccellenza, quello dei migranti, dopo i diversi casi di positività tra gli sbarcati, ma anche tra gli arrivi dal Bangladesh e ultimamente dall’Europa dell’Est (che hanno portato a blocchi e quarantene).
Lo stesso Lopalco ha chiarito su Facebook, dopo che qualcuno dall’opposizione si era spinto addirittura a parlare di un governo che fa entrare di proposito migranti infetti per tenere alta l’emergenza: “I virus sono individui esigenti: se proprio devono viaggiare, preferiscono farlo in aereo in prima classe piuttosto che sui barconi”. Con il consueto corredo di polemiche, di post e contro-post, che hanno spinto Lopalco a un ulteriore chiarimento, in cui ammette però il disagio della sua condizione ‘bifronte’: “Quando parlo, non so se parlo da scienziato o da politico. Ma quando dico che se la circolazione di coronavirus riparte non è certo per colpa dei barconi, so quello che sto dicendo”. Se c’è una cosa che il virus ha insegnato, insomma, è che anche la scienza è una materia “umana”, e quindi madre di continue contrapposizioni (per fortuna, altrimenti probabilmente saremmo ancora confinati in una caverna). E che Thomas Mann non poteva avere più ragione: tutto è politica.
Burioni o Gismondo? Indiscreto il 13 Marzo 2020. Roberto Burioni o Maria Rita Gismondo? Finalmente ci siamo arrivati, al "Di qua o di là" fra i due grandi partiti in cui sono divisi i tanti medici che in questi giorni occupano ogni programma televisivo. Partiti accomunati dal considerare grave il coronavirus più per il possibile collasso delle strutture ospedaliere che per il virus in se stesso, ma divisi sui numeri dell’epidemia e soprattutto sul tipo di comunicazione da dare al pubblico. Il primo partito, di cui possiamo considerare leader Burioni, professore al San Raffaele, è senz’altro più numeroso e forse si adatta meglio a ciò che media e politica in questo momento chiedono: sottolineare uno scenario di eccezionale gravità, per indurre nella popolazione una reazione concreta in mancanza di normale senso civico. Il secondo partito, di cui consideriamo leader la Gismondo, che dirige Microbiologia clinica e virologia all’Ospedale Sacco, sottolinea che la gravità del coronavirus dipende anche dalle patologie che incontra e che con questo metro i numeri dei decessi sono ancora inferiori a quelli dell’influenza stagionale. Dopo l’intervento della Gismondo a Rete 4 e la risposta su Twitter di Burioni si è divisa anche la gente, che purtroppo ha in questi giorni troppo tempo libero a disposizione. Visto che nessuno, nemmeno Burioni e Gismondo, può dare certezze sull’evoluzione dell’epidemia, il sondaggio è necessariamente ristretto al presente e onestamente, non essendo medici, a ciò che vogliamo sentirci dire. Burioni o Gismondo?
Coronavirus in Italia, le possibili responsabilità degli antibiotici. Beatrice Carvisiglia il 12 marzo 2020 su Notizie.it. L'Italia è il Paese con più alto numero di decessi per coronavirus. Il problema potrebbe essere correlato all'abuso di antibiotici. In Italia il coronavirus si è propagato con estrema velocità e forse, tra i responsabili, bisogna considerare anche gli antibiotici. Il nostro Paese è infatti particolarmente colpito dal Covid-19: molti decessi sono ricollegabili alla propagazione del virus. Il numero dei morti rispetto a quello dei contagiati è più alto in Italia che in qualsiasi altro Paese occidentale. Proprio per questo, scienziati ed equipe mediche si interrogano a fondo sulle cause e le responsabilità del contagio, individuando nuove possibili traiettorie.
Coronavirus, cosa comporta l’abuso di antibiotici. Per tale motivo, la virologa Ilaria Capua pone l’attenzione su un dato normalmente ignorato. In Europa, l’Italia è il Paese con più ceppi batterici antibiotico resistenti. L’antibiotico resistenza è un meccanismo naturale che porta all’evoluzione dei batteri. Utilizzando grandi quantità di antibiotico, i batteri si sono sviluppati in maniera più resistente a questa sostanza. Un fenomeno preoccupante che deriva da due semplici ragioni: l’abuso dei medicinali antibiotici e la non ottemperanza di alcune elementari regole igieniche, come il lavarsi spesso le mani. Questa particolare anomalia del nostro Paese conduce a una serie di gravi conseguenze. Per esempio, l’antibiotico resistenza può essere la causa di ulteriori complicazioni dopo interventi ospedalieri, spiega la virologa Ilaria Capua.
L’ipotesi. L’antibiotico-resistenza e la veloce propagazione del Covid-19 in Italia sono fenomeni correlati? Può darsi. Si tratta di un fenomeno sul quale occorrono ancora indagini, analisi più approfondite. Tuttavia, la presenza di superbatteri resistenti può essere alla base di una maggiore inclinazione alla vulnerabilità.
Roberto Burioni, l'ultimo avviso sul coronavirus: "In Cina sono morti 31 medici, non è un banale raffreddore". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Roberto Burioni continua a pubblicare video informativi sul sito Medical Facts in merito all'emergenza coronavirus che sta interessando gran parte dell'Italia. Il noto virologo in pochi minuti fa chiarezza sul significato clinico dei tamponi per la ricerca del Covid-19 e illustra la differenza tra infezione e malattia. "Quando un virus entra a contatto con un soggetto non immune - spiega Burioni - allora avviene l'infezione. Che può essere seguita da una malattia, che nel caso del coronavirus in tanti casi è molto lieve". Nonostante ciò, non va sottovalutato il Covid-19: il virologo infatti ricorda che "in Cina ha colpito e ucciso 31 medici. Quindi dobbiamo stare attenti perché non si tratta di un banale raffreddore". Burioni ha poi ribadito perché è importante rilevare i pazienti asintomatici: "Hanno comunque il virus nella saliva e quindi non siamo certi che non siano infettivi. Il tampone è fondamentale per distinguere un non infetto da un asintomatico, quest'ultimo non va curato ma isolato".
Coronavirus, la teoria di Ilaria Capua: "Circolerà camuffato. L'Oms alza il rischio? C'era da aspettarselo". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. La nota virologa Ilaria Capua parla all'Adnkronos Salute dell'emergenza coronavirus. In particolare commenta l'ultima decisione dell'Oms di alzare il livello di rischio di contagio globale da alto a molto alto. D'altronde solo nelle ultime ore il Covid-19 dall'Italia è arrivato in altri cinque Paesi: ""C'era da aspettarselo - commenta la Capua - il numero di casi di sindrome simil-influenzale causata dal nuovo coronavirus sta aumentando". A questo punto si possono formulare varie ipotesi, quella della virologa è la seguente: "Questo virus continuerà a circolare nella popolazione camuffandosi da influenza o virus respiratorio. La stragrande maggioranza delle persone non se ne accorgerà, alcuni ne risentiranno e per pochi avremo forme gravi". La Capua è prudente ma allo stesso tempo "cautamente ottimista che questo sia lo scenario più probabile. Non credo però che ci saranno cluster importanti di mortalità".
Coronavirus, lo sfogo della direttrice analisi del Sacco: «È una follia, uccide di più l’influenza». Burioni: «No a bugie». La responsabile della struttura ospedaliera milanese dove da giorni vengono analizzati i campioni di possibili casi di contagio: «Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale». Poi cancella il post. Al.Tr. 23 febbraio 2020 su ilsole24ore.com. «Sono stanca e disgustata. Il mio lavoro non è curare un profilo fb ma la salute della gente. Non seguirò né risponderò a commenti. Lascio ad altri questo hobby. Non posso permettermi di sprecare tempo. Il concetto rimane lo stesso. Anzi che seguire diatribe seguite i siti ufficiali di Oms e Ministero. La calma è l'educazione sono i migliori condimenti». È l’ultimo messaggio postato su Facebook dalla Maria Rita Gismondo, direttore responsabile del laboratorio di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano, la struttura in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di Coronavirus dopo la scoperta del focolaio in Lombardia. «Leggete! Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!», si era sfogata sui social - il post poi in serata l’ha cancellato - sollevando critiche e commenti. Ha linkato il rapporto della sorveglianza integrata dell'influenza, il report Who sulla situazione nel mondo.
Non scambiare un’influenza con una pandemia. «A me sembra una follia - aveva scritto la Gismondo - Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così». «Vi ricordo - aggiunge - che ad oggi i morti per Coronavirus in Italia sono 2 e 217 per influenza. Credo che nella comunicazione qualcosa non funzioni!», si sfoga la direttrice. «Guardate i numeri - avverte ancora la direttrice - questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico». «I miei angeli sono stremati, corro a portar loro la colazione» scrive ancora parlando di chi da giorni lavora nel laboratorio. E raccomanda: «Vi prego, seguite le raccomandazioni pubblicate dal ministero della Salute e abbassate i toni!».
Burioni: «Niente panico, ma niente bugie». Non si è fatta attendere la risposta del virologo Roberto Burioni, lo scienziato paladino dei social che ha chiamato “signora del Sacco” Maria Rita Gismondo, che ha poi ritirato i suoi post. «Niente panico, ma niente bugie. Attenzione a chi, superficialmente, dà informazioni - ha scritto sul sito Medical Facts - completamente sbagliate. Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal coronavirus sarebbe poco più di un'influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero».
Le precisazioni della Gismondo. Sul suo profilo Facebook, la Gismondo è poi nuovamente intervenuta facendo alcune precisazioni: «Mi tocca brevemente chiarire perché non credevo di scatenare il delirio:
1) pubblico solo e sempre dati Oms o Ministero Salute.
2) Le mie osservazioni vogliono solo essere e rimanere scientifiche.
3) Le misure governative non mi competono e, nel particolare, allo scopo di tranquillizzare la gente che ormai è nel panico, il nostro governo sta procedendo molto bene.
4) Adoro le critiche se in tono educato e costruttivo, detesto toni offensivi, soprattutto da colleghi dai quali mi aspetterei consigli e confronti costruttivi e per il bene della gente.
5) Continuerò a divulgare dati scientifici. Ho dedicato una vita alla ricerca ed alla salute della gente, non mi fermerà nessuno».
Capua: «In Italia più casi perché li cerchiamo attivamente». Ma la virologa Ilaria Capua, direttrice del One Health Center in Florida, afferma che si tratta di «una sindrome simil-influenzale, in Italia più casi perché li cerchiamo più attivamente». Sul coronavirus, ha detto ai microfoni di “In 1/2 ora” di Lucia Annunziata, che «non c'è da piangere ma nemmeno da ridere, bisogna solo seguire pedissequamente quello che le organizzazioni internazionali ci dicono di fare». E il fatto che circa il 20% dei pazienti sia in rianimazione, ha detto, «sono numeri che non hanno niente a che vedere con l’influenza (i casi gravi finora registrati sono circa lo 0,003% del totale). Questo ci impone di non omettere nessuno sforzo per tentare di contenere il contagio».
I commenti ai post. Tanti i commenti ai post della direttrice Gismondo, che da qualche giorno racconta l’attività frenetica del suo laboratorio - «abbiamo sfornato esami tutta la notte, in continuazione arrivano campioni, forniamo risposta in 3 ore» - e cita i numeri dei decessi dovuti all’influenza per dimostrare che non è in atto una pandemia. Stando ai «dati per influenza stagionale riferiti dall’Istituto superiore di sanità - scrive la direttrice - alla 7a settimana della sorveglianza sono stati segnalati 157 casi gravi di cui 30 deceduti» e «durante la 6a settimana del 2020 la mortalità (totale) è stata lievemente inferiore al dato atteso, con una media giornaliera di 217 decessi rispetto ai 238 attesi».
Ora fateci capire a chi credere. Carlo Fusi su Il Dubbio il 24 Febbraio 2020. Insomma a chi dobbiamo credere? Siamo passati nel giro di una manciata di ore da essere il Paese leader nell’adottare misure restrittive a quello con più contagiati d’Europa, addirittura il terzo al mondo. Dalla prontezza a bloccare i flussi dalla Cina alle accuse di aver sbagliato modi e metodi. Dai fasti sanitari per aver isolato il Covid-19 alla scoperta sconcertante di strutture sanitarie incapaci di diagnosticare la presenza del virus. Col risultato che ad ammalarsi sono stati medici e personale sanitario: un contrappasso inaccettabile. E’ giusto e doveroso che chi rivesta cariche pubbliche prenda misure anche drastiche e imponga quarantene per limitare il contagio. E che chi guidi strutture di tipo privato cauteli adeguatamente gli appartenenti. Tuttavia non è chiaro se un professionista che, poniamo, deve andare da Roma a Milano debba riempire la borsa di semplici fazzoletti e spray per il mal di gola oppure munirsi di tute asettiche e pacchi di mascherine (sempre che le trovi) per contrastare «la più grande emergenza sanitaria dal 1949», come ci fa soavemente sapere il presidente cinese Xi Jinping. Nelle emergenze sanitarie ci si rivolge agli esperti e ai competenti. Ci si fa guidare, cioè, dalla Scienza. Il problema nasce quando gli scienziati cominciano a battibeccare tra di loro; e quando tali dispute vengano amplificate, a volte strumentalmente, dai media e dai social. Anche perché, doverosamente, la Scienza si muove per tentativi ed errori. Tocca a chi ha responsabilità politiche assumere decisioni con equilibrio e saggezza. Accollandosi quel compito pedagogico che una volta svolgevano i partiti: finché non sono stati distrutti. Se siamo di fronte ad una sindrome che vale poco più di un raffreddore, meglio graduare con più flessibilità gli interventi (è complicato capire la ratio della chiusura alle 18 dei bar: perché non prima? O dopo?). Se invece l’epidemia, ancora sconosciuta nel profondo, è una minaccia vera e consistente, è bene che le precauzioni vengano allargate fin dove è sensato, per evitare conseguenze perniciose. Piangere sul latte versato è consolatorio. Colpevolmente.
Divisi e rissosi: così i virologi imitano i politici. Claudio Rizza su Il Dubbio il 24 Febbraio 2020. In piena emergenza Coronavirus i medici si dividono. Da Capua che minimizza a Burioni che enfatizza. E’ un brutto virus o un’influenza rognosa ma nulla di più? Nel momento in cui speravamo che i politici facessero un passo indietro per affidarsi finalmente e unicamente alla competenza e al rigore della Scienza, tacitando e smarcandosi dalla Babele mediatica del “siamo tutti virologi”, succede un fatto fastidioso seppur non inaspettato. Gli esperti sono divisi. Non sulla necessità di isolare in quarantena i contagiati o i viaggiatori presunti tali, su quello almeno c’è l’unanimità, ma sulla gravità del virus i pareri sono assai discordi. Basta ascoltarne tre o quattro. «Altamente trasmissibile e poco aggressivo», lo ha definito la celebratissima virologa Ilaria Capua. «Di solito, un virus molto aggressivo è anche molto poco contagioso», le chiedevano. La risposta della Capua: «E viceversa. Questo è esattamente l’opposto. Altamente trasmissibile e poco aggressivo». In coro si sono mossi altri esperti, la più citata sui media è stata la virologa dell’ospedale Sacco, eccellenza milanese, Maria Rita Gismondo, con le provette in mano: «Una follia scambiare un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale». Contro di lei si è schierato il notissimo eroe del web antivax, Roberto Burioni, seccamente polemico per la derubricazione del virus. Burioni aveva, fin dalle prime ore, consigliato la massima severità su chi tornava dalla Cina e l’imposizione della quarantena. L’ex presidente della Società europea e italiana di virologia, Giorgio Palù, però sta con la Capua: «Non sta arrivando la peste, né il vaiolo, né Ebola. È arrivato un virus molto meno letale: i microrganismi che si diffondo di più sono quelli che uccidono meno, ma sono appunto più contagiosi. E hanno tutto l’interesse a far sì che il loro ospite non muoia, perché in questo modo possono diffondersi di più”- Ma Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia, dissente: “Tra virologi abbiamo tutti le idee chiare: quelli che si spacciano per virologi sono un’altra categoria. Noi virologi siamo da sempre convinti che il virus sia molto serio e pericoloso, quindi dobbiamo prendere provvedimenti rapidi ed efficaci, anzi avremmo dovuto già prenderli. Cerchiamo di passare sopra a quanto fatto, di bene e di male, fino ad oggi”. E ancora: “Chi dice che e’ come una semplice influenza è un ignorante in materia, basta guardare i numeri che ci dicono che vi è una mortalità del 2,5% sui casi accertati, quindi una mortalità molto alta per un’infezione respiratoria. E’ più facile che questi virus attaccando un organismo già debilitato portino a conseguenze più drastiche, però non possiamo non notare che anche giovani, come il 38enne di Codogno, siano in rianimazione. Quindi non vuol dire nulla l’età, nessuno di noi può sapere se il proprio organismo reagirà bene al virus pur avendo un’età non avanzata”. Crescerà, si espanderà in Europa, queste le previsioni. Ma chi ha ragione? Se stiamo messi così, con tutto il rispetto, meglio non abbassare la guardia.
Ottimisti contro allarmisti: sul Coronavirus è scontro tra virologi. Il Dubbio il 23 febbraio 2020. Per la direttrice del Sacco il virus è meno letale del previsto. Ma Burioni: “Niente bugie. E Capua: “Troviamo malati perché abbiamo cominciato a cercarli”. “A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri” Parole di Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze dell’ospedale Luigi Sacco di Milano. “Questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico. I miei angeli sono stremati. Corro a portar loro la colazione. Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni! Serena domenica!».«Scusate, ma state calmi…forse sono davvero burned…questa settimana sono morti in Italia 2 pazienti a causa del Coronavirus e 24 per influenza. Rispettivamente 50 casi positivi e 656.000…mah! per me c’è un chiasso eccessivo…buonanotte. Dormo con un orecchio al telefono. Domani mattina alle 7 sarò in ospedale. Fate sogni d’oro!» Uno sfogo che ha fatto il giro del web e che ha immediatamente provocato la replica del virologo Roberto Burioni: “Niente panico, ma niente bugie. Attenzione a chi, superficialmente, dà informazioni completamente sbagliate. Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal coronavirus sarebbe poco più di un’influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero» scrive sul sito Medical Facts. D’altra parte sono giorni che va avanti una sorta di guerra sotterranea giocata a colpi di social, tra “ottimisti” e “allarmisti”. E forse sarebbe il caso di lasciare la voce alle autorità sanitarie ufficiali. A cominciare dell’Istituto superiore di Sanità. Parole tranquillizzanti arrivano anche da Ilaria Capua, la più nota e importante virologa italiana: “Mi si chiede come mai in Italia il virus stia colpendo in modo così aggressivo. È una domanda mal posta. Troviamo tutti questi malati in questo momento, perché, semplicemente, abbiamo cominciato a cercarli. Cioè abbiamo iniziato a porci il problema se certe gravi forme respiratorie simil-influenzali fossero o meno provocate dal coronavirus. Sino a due settimane fa non avevamo nemmeno a disposizione, negli ospedali cittadini, i test diagnostici per riconoscerlo. Mi si chiede come si è giunti sino a questo livello di emergenza”. L’ultima valutazione del Cnr parla di bassi rischi: “I dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva.Il rischio di gravi complicanze aumenta con l’età, e le persone sopra 65 anni e/o con patologie preesistenti o immuno depresse sono ovviamente più a rischio, così come lo sarebbero per l’influenza.”
Coronavirus, è un vescovo di 98 anni il paziente più anziano a guarire. Jacopo Bongini 20/02/2020 su Notizie.it. È un vescovo di 98 anni il paziente più anziano guarito in Cina dal coronavirus. L'uomo sta meglio grazie a un catetere per il drenaggio del torace. Arriva dalla Cina la notizia del paziente più anziano completamente guarito dal coronavirus; si tratta di un vescovo cristiano di 98 anni che è stato ricoverato presso l’ospedale centrale di Nanyang. L’ecclesiastico è monsignor Giuseppe Zhu Baoyu, a capo della diocesi di Nanyang, ed era stato sottoposto a cure mediche lo scorso 3 febbraio a causa di una polmonite provocata dal temuto coronavirus Covid-19. L’anziano presenta inoltre altre patologie oltre al virus, come aritmia e versamenti pleurici, ma è stato dichiarato negativo ai test nella giornata del 12 febbraio e totalmente guarito il successivo venerdì 14. Stando a quanto riportato dai media locali, il monsignore è stato curato con un catetere di drenaggio del torace che ne ha consentito la piena remissione. Guarigione che i medici dell’ospedale di Nanyang definiscono straordinaria, dato che la mortalità da coronavirus è estremamente elevata nei pazienti anziani con punte di oltre il 2o% nel caso di degenti con più di 80 anni. Quello di monsignor Zhu è diventato un piccolo caso mediatico in Cina, dove secondo le statistiche ufficiali diramate dal governo da alcuni giorni sarebbero in calo i nuovi contagi all’interno del Paese. Il Quotidiano del popolo gli ha infatti dedicato un articolo e un video per commemorare il particolare avvenimento. L’epidemia di coronavirus non cessa tuttavia di mietere vittime. Sono infatti stati registrati i primi due morti in Iran, nella città di Qom, e altri due sulla nave da crociera Diamond Princess.
Coronavirus, Walter Ricciardi: “Tasso di mortalità pari al 3%”. Laura Pellegrini il 24 febbraio 2020 su Notizie.it. Walter Ricciardi fa chiarezza sul coronavirus: la malattia ha tasso di mortalità pari al 3%, mentre l'influenza stagionale si ferma allo 0,2%. Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è tornato a parlare dell’emergenza coronavirus. Infatti, dopo aver ribadito la necessità di mettere in quarantena coloro che provenivano dalla Cina, il professore ha spiegato che “se il Coronavirus si diffonde come l’influenza stagionale, avremo migliaia di morti”. Il Covid-19 infatti, ha un tasso di mortalità superiore a qualsiasi altra influenza stagionale.
Coronavirus: Ricciardi chiarisce sulla mortalità. “Il Covid-19 non è come una normale influenza, ha un tasso di mortalità più alto”. Walter Ricciardi torna a fare chiarezza sul coronavirus, avvertendo i cittadini che la malattia passa da un tasso di mortalità pari allo 0,2% di influenza stagionale, a circa il 3% di possibilità di morire. Se non si interviene a monte e in tempi rapidi, quindi, si rischia il collasso. Negli ospedali i posti in terapia intensiva sono limitati e questo potrebbe costituire un grave rischio per le persone infette. Ricciardi ha comunque spiegato che nonostante il tasso di mortalità passi dallo 0,2% (influenza stagionale) al 3% (Covid-19) esiste un modo per diminuire il contagio. Con l’arrivo del caldo, infatti, la situazione potrebbe migliorare. Tuttavia, se il numero degli infetti dovesse aumentare fino a “diffondersi come un’influenza stagionale, avremo migliaia di morti”. In chiusura, il professore ammette di trovarsi di fronte a una sfida della società contemporanea: “Siamo di fronte a una sfida epocale – ha concluso -, è la prima epidemia del mondo contemporaneo“.
Le parole di Ilaria Capua. Ai microfoni di Fanpage, invece, la virologa Ilaria Capua ha affermato: “Tanto più cresce il numero delle persone infette – o meglio: tanto più scopriamo casi pregressi e passati inosservati – tanto meglio è. Perché vuol dire che il numero degli infetti è maggiore di quanto pensavamo. E il potenziale letale del virus, molto minore”.
VACCINO TRA PIU’ DI 6 MESI – Il vaccino contro il coronavirus “non è dietro l’angolo. Ci vorranno sicuramente più di sei mesi”. Lo ha detto la virologa italiana Ilaria Capua, che ora dirige lo One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, intervenendo in collegamento a "In mezz’ora in più" su Raitre. “A oggi – ha ricordato Capua – non c’è né cura né vaccino, ma sono stati fatti studi su altri virus molto simili a questo, tra cui il coronavirus della Sars, abbiamo del materiale di partenza per cercare delle soluzioni terapeutiche e per mettere insieme lo sviluppo di un vaccino, che non è dietro l’angolo”.
Da vocedinapoli.it il 27 febbraio 2020. Da quando lo scorso 24 febbraio, in merito all’emergenza scatenata dal coronavirus, il Ministro della Salute Roberto Speranza l’ha nominato Consigliere per le relazioni dell’Italia con gli organismi sanitari internazionali, il volto di Walter Ricciardi è ovunque. Il professor Ricciardi è un grande accademico. Medico e ricercatore, Ricciardi è stato Presidente dell’Istituto Superiore della Sanità in Italia. Ad oggi è membro esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Ma non tutti sanno che Ricciardi ha avuto anche un passato da attore. Una breve carriera, iniziata alla fine degli anni ’70 – quando era un ragazzino – e terminata nella metà degli anni ’80. Nato a Napoli 61 anni fa, Ricciardi ha lavorato con artisti del calibro di Giuliana De Sio, Alida Valli, Michele Placido, Stefania Sandrelli, Maria Schneider e soprattutto Mario Merola. Tra le sue interpretazioni, fin da bambino, si ricordano la serie televisiva I ragazzi di Padre Tobia e gli sceneggiati televisivi Dramma d’amore, Un eroe del nostro tempo, Nostra madre, La freccia nel fianco. I ruoli più interessanti, invece, sono stati quelli nel film Io sono mia (1978) di Sofia Scandurra, L’ultimo guappo (1978), Il mammasantissima e Napoli… la camorra sfida e la città risponde (1979) tutti diretti da Alfonso Brescia e interpretati – appunto – da Mario Merola.
Coronavirus, Walter Ricciardi: “I bambini sono protetti dalle vaccinazioni”. Laura Pellegrini ill 288 febbraio 2020 su Notizie.it. Walter Ricciardi fa chiarezza sul coronavirus: la malattia ha tasso di mortalità pari al 3%, ma il 95% dei contagiati va incontro a guarigione. Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è tornato a parlare dell’emergenza coronavirus. Infatti, dopo aver ribadito la necessità di mettere in quarantena coloro che provenivano dalla Cina perché il coronavirus ha un tasso di mortalità superiore a qualsiasi altra influenza stagionale, Ricciardi ha anche invitato a ridimensionare “ridimensionare questo grande allarme. Il 95% dei malati guarisce. Tutti i morti (11 le vittime accertate in Italia, ndr.) avevano già condizioni gravi di salute”. “I bambini reagiscono meglio al coronavirus perché sono protetti dalle vaccinazioni”, lo ha detto Walter Ricciardi dell’Oms alla Protezione civile. Infatti, sono stati segnalati 7 casi di minori contagiati da coronavirus nella giornata di mercoledì 26 febbraio. I bimbi sarebbero limitati alle zone comprese tra la Lombardia e il Veneto. Non sarebbero gravi. “Il Covid-19 non è come una normale influenza, ha un tasso di mortalità più alto”. Walter Ricciardi avverte i cittadini che la malattia passa da un tasso di mortalità pari allo 0,2% di influenza stagionale, a circa il 3% di possibilità di morire. Se non si interviene a monte e in tempi rapidi, quindi, si rischia il collasso. Negli ospedali i posti in terapia intensiva sono limitati e questo potrebbe costituire un grave rischio per le persone infette. Ricciardi ha comunque spiegato che nonostante il tasso di mortalità passi dallo 0,2% (influenza stagionale) al 3% (Covid-19) esiste un modo per diminuire il contagio. Con l’arrivo del caldo, infatti, la situazione potrebbe migliorare. Tuttavia, se il numero degli infetti dovesse aumentare fino a “diffondersi come un’influenza stagionale, avremo migliaia di morti”. In chiusura, il professore ammette di trovarsi di fronte a una sfida della società contemporanea: “Siamo di fronte a una sfida epocale – ha concluso -, è la prima epidemia del mondo contemporaneo“.
Le parole di Ilaria Capua. Ai microfoni di Fanpage, invece, la virologa Ilaria Capua ha affermato: “Tanto più cresce il numero delle persone infette – o meglio: tanto più scopriamo casi pregressi e passati inosservati – tanto meglio è. Perché vuol dire che il numero degli infetti è maggiore di quanto pensavamo. E il potenziale letale del virus, molto minore”. Cosa potrebbe essere successo. L’ipotesi è che all’inizio dell’epidemia i casi più lievi non devono essere stati rilevati.
Coronavirus, la virologa Ilaria Capua: “Quest’epidemia ci costerà tantissimo”. Laura Pellegrini l'01/02/2020 su Notizie.it. Virologa, ricercatrice e insegnante presso il One Health Center of Excellence, Ilaria Capua è stata intervistata sull'epidemia di coronavirus.
I rischi. Intervistata da Fanpage.it, la virologa Ilaria Capua ha rivelato alcuni moniti sull’epidemia di coronavirus che si sta diffondendo in tutto il mondo. “Questa – sostiene la donna – sarà un’epidemia che costerà tantissimo. Questo coronavirus finirà per fare il giro del mondo. Già oggi potrebbero esserci molti più infetti di quel che si crede”. Ilaria insegna e fa ricerca presso il One Health Center of Excellence , l’istituto delle malattie emergenti. Nella sua carriera professionale, però, emerge anche una partecipazione politica nelle file di Scelta Civica Infatti, venne eletta deputata tra il 2013 e il 2016. Di recente, infine, ha pubblicato un volume dal titolo Salute circolare.
Coronavirus, la virologa Ilaria Capua. “Ogni tanto emergono dei virus nuovi, delle malattie nuove”, ha constatato Ilaria Capua, virologa, parlando del coronavirus. “Molte di loro le conosciamo bene: la rabbia, ad esempio, è una di queste malattie che si trasmettono dall’animale all’uomo e la conosciamo da millenni. Altre volte, purtroppo, questi virus sono del tutto nuovi”. In un quadro generale, “se la gente arriva all’ospedale con sintomi simil-influenzali, generalmente i medici lo rimandano a casa. In questi casi, c’è un enorme difficoltà nel fare la diagnosi per primi”. Rispetto ai numeri del virus cinese, però, la virologa intende assicurare che “il numero di decessi è limitato, se si considera il numero totale degli infetti, che è molto elevato ed è stato inizialmente sottostimato”. Tuttavia, potrebbero esserci dei casi infetti di cui ancora non abbiamo notizia. Questo perché, prosegue Ilaria, “da Wuhan, prima che fossero messe in atto le misure di controllo, si sono mosse centinaia di migliaia di persone, forse milioni, per andare a trovare la famiglia nell’unico periodo di vacanza della Cina, il loro Capodanno. Se anche una minima parte di quelle persone fosse stata già infetta, vuol dire che le città sono state messe in sicurezza troppo tardi“. Come scoprirlo? “Se nei prossimi 3-4 giorni troveremo un aumento di casi significativo vuol dire che presto o tardi ne scopriremo parecchi anche fuori dalla Cina. I cinesi viaggiano tanto”.
La buona notizia. In questo panorama, però, c’è anche una bella notizia. “Il virus di Wuhan – sostiene Ilaria – sta facendo il giro del mondo, ma lo sta facendo più lentamente. L’influenza suina pandemica, dopo 5 giorni, era già in Nuova Zelanda. Questo virus è emerso ai primi di dicembre e ci ha messo un mese a diventare preoccupante e a farsi vedere da altre parti del mondo”. “Va detto anche – ha aggiunto ancora – che in genere la regola insegna più un virus si adatta e diventa contagioso, meno è virulento”. Parlando poi di pandemia ed emergenza globale occorre fare una netta distinzione: “se si parla di pandemia o emergenza globale, non si parla di una malattia che uccide tutte le persone, ma che ne infetterà tante”.
I rischi. Infine, non serve avere paura. “Dobbiamo essere consapevole di quali sono i rischi“. Il peggiore ad esempio, è che “si fermino i servizi essenziali”. In tal senso, “la comunità internazionale si sta muovendo e dando direttive non perché prevede che le persone moriranno in massa, ma perché è possibile che in presenza di un virus ad alta contagiosità, debba imporre una quarantena forzata a gran parte della popolazione. Una quarantena che impedirà loro di andare a lavorare. Il pericolo – quindi – è che si rallentino o si blocchino i servizi essenziali”.
«2019-nCoV», il terzo virus animale che infetta l’uomo. Perché i vaccini sono la nostra cintura di sicurezza. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 su Corriere.it da Alberto Mantovani. L’analisi del direttore sanitario dell’Humanitas University. Dal nuovo millennio è la terza volta che un virus animale della classe dei coronavirus fa il cosiddetto salto di specie infettando l’uomo. I precedenti sono stati i virus che hanno causato rispettivamente la Sars in Estremo Oriente fra il 2002 e il 2003 (SARS-CoV) e la Mers in Giordania e Arabia Saudita nel 2012 (MERS-CoV). Nello stesso periodo siamo stati a confronto anche con virus aviari —fra tutti H1N1 e H7N9 — e con altri patogeni che, seppur per lo più confinati in Africa o Sud America, sono arrivati a lambire il mondo occidentale: il West Nile Virus ed Ebola, ad esempio. Oggi il nuovo Coronavirus 2019-nCoV, tra realtà e leggende metropolitane, fa molta paura. Tre pubblicazioni scientifiche sul New England Journal of Medicine ci aiutano a capire meglio la situazione. Un grande merito va alla Cina e ai suoi scienziati: in tempi estremamente rapidi hanno isolato il virus, sequenziato il suo genoma e identificato il recettore (ACE2) attraverso cui interagisce con l’epitelio profondo del polmone causando la polmonite. Questo ha consentito di risalire alla sua origine: non si tratta affatto di un virus nato in un Centro di Ricerca. È molto simile al Coronavirus del pipistrello, dunque è verosimile che siano stati questi animali a trasmetterlo. Fra loro e l’uomo, un ospite intermedio, con tutta probabilità nel mercato del pesce. Nel caso di Mers, l’ospite intermedio erano stati i cammelli. La rapida identificazione del virus 2019-nCoV è una base importante da cui partire per mettere a punto tecniche diagnostiche molecolari per la diagnosi, tecniche sierologiche basate su anticorpi per valutarne la diffusione e identificare eventuali portatori sani. Soprattutto, questi studi pongono le basi per lo sviluppo di terapie antivirali e vaccini. La più grande arma per combattere questa nuova minaccia è costituita dalle misure di contenimento del virus, dalla condivisione e trasparenza dei dati e dalla Ricerca scientifica. Il nostro Paese, grazie alla qualità della ricerca e dell’assistenza sanitaria, può giocare un ruolo importante: peccato che Ilaria Capua, che ha dato un contributo fondamentale all’identificazione dei virus aviari, sia stata costretta a lasciare l’Italia. Ricerca e vaccini sono le armi più potenti che abbiamo contro microbi vecchi e nuovi. Lo confermano anche alcuni dei più prestigiosi premi scientifici al mondo assegnati nel 2019 (i Lasker Awards a Jacques Miller e Max Cooper, che hanno definito il ruolo di linfociti B e T, e il Robert Koch a Rino Rappuoli per le sue scoperte nel campo dei vaccini): un tributo al ruolo dell’Immunologia nel progresso della Scienza e nel miglioramento della salute globale. Anche il Lasker-Bloomberg Award, assegnato per la salute pubblica, ha premiato GAVI, iniziativa di salute globale attiva per diffondere nei paesi più poveri le vaccinazioni salvavita. Il mondo microbico cambia in continuazione, e questo inevitabilmente esporrà l’umanità a nuove minacce. Perciò i vaccini, oltre che un diritto per tutti i bambini del mondo, rappresentano una cintura di sicurezza per l’umanità, come ho recentemente scritto insieme ad Angela Santoni e Rino Rappuoli . Perché, come emerge con forza da 2019-nCoV, in un mondo sempre più globale patogeni nuovi o già noti attraversano frontiere e continenti con una velocità impressionante.
Coronavirus in Italia, Ilaria Capua: “È meno letale di SARS e MERS”. Cecilia Lidya Casadei 24/02/2020 su Notizie.it. Rispetto a sindromi respiratorie gravi come SARS e MERS, il Coronavirus è meno mortale. La virologa Ilaria Capua spiega perché. Sei decessi e oltre 200 contagi per Coronavirus nel Nord Italia. Secondo le stime e il parere degli esperti, tra cui la virologa Ilaria Capua, il virus di Wuhan sarebbe però meno letale della sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e della sindrome respiratoria mediorientale (MERS).
Coronavirus, l’opinione di Ilaria Capua. Secondo la virologa Ilaria Capua, direttrice della One Health Center of Excellence dell’University of Florida (Stati Uniti), nonostante l’Italia sembri essere uno dei Paesi con il più alto numero di contagi, il Coronavirus da noi è stato diagnosticato prima e con maggiore frequenza. “Mi convinco sempre più che l’infezione in Veneto e Lombardia abbia circolato prima del primo decesso, almeno per una ventina di giorni”, ha dichiarato la Capua. Paradossalmente, la crescita del numero di infetti accertati è un dato positivo ai fini di determinare la gravità del virus: più ce ne sono, dei quali non eravamo a conoscenza, meno mortale si rivela l’epidemia.
Un virus sottovalutato. Alla luce di queste riflessioni, la virologa ci porta all’amara presa di coscienza che, visto il numero crescente di casi accertati da tampone in questi giorni, probabilmente la presenza del virus nel nostro Paese è stata sottovalutata o meglio, diagnosticata come influenza. Lo stesso errore compiuto dal sistema sanitario cinese.
Questo però non deve scatenare una caccia alle streghe: “Fare di qualcuno un untore è agghiacciante da un punto di vista umano e professionale. Farlo in presenza di un virus che sa nascondersi molto bene dietro l’influenza tradizionale, lo è ancora di più”, ha commentato Ilaria Capua.
SARS e MERS: i numeri. Nonostante sia ancora presto per tirare le somme, secondo le statistiche cinesi finora sono morte circa il 2% delle persone alle quali è stato diagnosticato il Coronavirus, di cui la maggior parte dai 70 anni in su o affetta da pregressi problemi respiratori. Nel 2002-2003, invece, la SARS ha ucciso circa il 10% degli 8mila infetti mentre la MERS, scoppiata in Arabia Saudita nel 2012, il 35%. Le stime dell’influenza che noi tutti conosciamo sono altrettanto importanti: ogni anno meno dello 0,1% dei malati muore, ma la possibilità che ciò accada si aggira tra i 290mila e 650mila infetti.
Coronavirus, parla Ilaria Capua: «Cinesi efficienti e rapidi. Il pericolo maggiore è il panico». Valentina Stella il 28 gennaio 2020 su Il Dubbio. La virologa e direttrice del One Health Center of Excellence dell’University of Florida invita a diffidare delle teorie del complotto e delle migliaia di fake news che infestano il web. Nel giorno in cui l’Oms dichiara che per il coronavirus esiste un ‘elevato rischio a livello globale’ abbiamo contattato una delle massime esperte internazionali di virus e della loro diffusione: la virologa e ricercatrice Ilaria Capua, raggiunta telefonicamente negli Stati Uniti dove dirige il One Health Center of Excellence dell’University of Florida. L’Oms ha dichiarato che il rischio globale derivante dal coronavirus cinese è elevato, mentre qualche giorno fa lo definiva moderato. La gravità si comprende nel tempo. Si trattava già di una emergenza nazionale in Cina, dove inizialmente vi è stata una sottostima del fenomeno. Ora invece si sta trasformando in una emergenza internazionale. I dati che abbiamo al momento a disposizione ci dicono che stiamo andando incontro ad una pandemia. Si badi bene: lo scatenarsi di una pandemia non significa che il virus ucciderà ma che infetterà milioni di persone. I tassi di mortalità sono bassi adesso. Questo quadro ci fa pensare che potrebbe ripetersi un quadro analogo a quello che si verificò con l’influenza suina nel 2009.
Nel diffondere i dati sul coronavirus all’intera comunità scientifica la Cina è stata rapida e trasparente?
«La diffusione e la condivisione dei dati è stata rapidissima. Ciò in cui si è tardato è nel riconoscere di avere un problema molto serio. Questo ha comportato che la macchina per fronteggiare la diffusione del virus sia partita in ritardo. Bisogna comunque dare atto alla Cina di aver poi messo in atto delle misure per contrastare la diffusione, come l’interruzione ad esempio dei festeggiamenti del Capodanno cinese e la chiusura di aeroporti. E bisogna anche ammettere che il virus è nuovo quindi è occorso tempo per l’individuazione del virus».
In Italia dobbiamo preoccuparci?
«Occorre ragionare a con dati alla mano , evitare di diffondere fake news e vedere come evolve la situazione giorno dopo giorno per capire se ci sarà un aggravamento dei casi clinici. Ricordiamoci che le informazioni in primis provengono dall’Asia, dove hanno un modo molto diverso di concepire la cura del paziente. Una cosa è se ci sono 25 morti su 500 infetti, altra cosa è se i 25 morti su un milione di infetti: è necessario individuare il denominatore reale prima di esprimere una valutazione definitiva. Ora mi preoccupa che ci sia un caso addirittura in Africa. Ma occorre rassicurare i lettori che se il virus arriverà in Italia, cosa verosimile, vi sono tutte le strutture necessarie per far fronte al contagio».
Nelle farmacie di Roma sono terminate le mascherine.
«Una emergenza che provoca danni per 10 milioni, se subentra il panico provoca danni per 1000 milioni. L’unica cosa che si può fare è seguire quello che dicono le autorità; non intasare ad esempio i pronto-soccorso e ricordarsi che al momento è in corso anche la normale influenza stagionale. In sintesi occorre rispettare la salute come bene pubblico, nella consapevolezza che in questo momento le strutture sanitarie di molti Paesi subiranno uno stress-test, anche in termini economici».
Lei recentemente ha detto che essersi vaccinato contro l’influenza stagionale è una delle cose sagge da fare per limitare i danni di un eventuale contagio dal nuovo coronavirus cinese.
«Oggi sembra che i vaccini siano un hobby, invece sono una mano santa. Proteggersi è una mossa saggia di sanità pubblica ma anche di protezione personale: se si viene infettati dal coronavirus con già l’ influenza in atto il nostro corpo sarà sicuramente più debilitato per affrontare il nuovo virus. Viceversa è contrarlo essendo in piena salute. Quella dei vaccini è una importantissima battaglia culturale».
A proposito di battaglia culturale, aprendo il Suo sito ilariacapua.org in homepage troviamo un bellissimo video #Beautifulscience. Di cosa si tratta?
«C’è un grandissimo bisogno di avvicinare le persone alla scienza, soprattutto i giovani. Questa iniziativa, che viene diffusa grazie a questo video in cui Andrea Bocelli ha ceduto i diritti della sua canzone Vivo per lei, vuole raggiungere l’obiettivo di almeno un milione di visualizzazioni in un anno. Quello che vorrei è che gli insegnanti lo diffondessero nelle scuole perché se i ragazzi scoprono di avere passione per la scienza devono coltivarla e andarne fieri. Se vince la scienza vinciamo tutti».
Il Coronavirus salva il governo, l’emergenza spazza via ogni dissenso. Piero Sansonetti de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Per l’asiatica, nel 1958, morirono circa un milione di persone. Me la ricordo, ero piccolo, andavo a scuola e facevo la terza elementare. Me la beccai anch’io. L’asiatica era una influenza tosta. Ci volle un po’ di tempo per trovare un vaccino. Poi sparì. Non chiusero le scuole e non fu interrotto il campionato di calcio (lo scudetto andò alla Juve, come al solito, e John Charles vinse la classifica dei cannonieri). I treni e gli aerei continuarono a funzionare e nelle vie di Milano – dicono – la vita era intensa, laboriosa e allegra. Il pil volava. Certo che le cose oggi sono molto diverse, c’è una consapevolezza assai maggiore sia per il valore della vita umana sia per la difesa della salute. E dunque è giustissimo che le autorità intervengano per cercare di fermare o comunque di contenere l’epidemia. Quel che non mi convince è la solita logica dell’emergenza. Che da qualche decennio, qui in Italia, è diventata l’unica vera categoria politica. È solo l’emergenza a dettare le scelte del governo e dei partiti, a dominare l’economia, a influenzare le leggi. Mi ricordo l’emergenza lotta armata, l’emergenza mafia, poi la corruzione, gli omicidi stradali, le rapine in casa. Ciascuna di queste emergenze ha prodotto leggi e ha modificato l’andamento della vita civile. E anche dell’economia. L’emergenza Br, e poi l’emergenza mafia, hanno prodotto un pacchetto di leggi repressive e di riduzione dello Stato di diritto, che sono ancora lì. L’emergenza corruzione ha assetato un colpo micidiale alla nostra economia, che non si è mai ripresa, e ha prodotto nuove leggi repressive e illiberali. Adesso siamo all’emergenza virus, che ha bloccato la lotta parlamentare (dando il via libera a misure autoritarie volute dal governo) e che provocherà delle conseguenze gravi sull’economia. Perché succede questo? Davvero siamo dinanzi ad un’emergenza come quella dell’asiatica? Io mi fido poco dei politici e non sempre degli scienziati. Tendo però a fidarmi di alcuni scienziati che hanno sempre dimostrato grande sapienza. Ilaria Capua per esempio – quella che fu annientata da un errore dei Pm e da una vergognosa campagna stampa contro di lei, che ancora aspetta le scuse dei giornalisti – ci ha spiegato che ci troviamo di fronte a una ondata di influenza, appena un po’ più pesante delle normali influenze. Che va affrontata con rigore, saggezza, e senza panico. E allora? Cos’è che ha scatenato questo pandemonio, che probabilmente pagheremo caro? Io ho una idea. Questo pandemonio è una conseguenza inevitabile di una delle cose più preziose che ci siamo conquistati in questi anni: la libertà di stampa. La piena, assoluta, incontrollata libertà di stampa. La quale si esercita nei confini del mercato ed è condizionata dal mercato. Possiamo lamentarci dell’eccesso di libertà di stampa e di mercato? No, anche perché non risulta esistere niente di meglio sul vassoio delle libertà. Ma anche la libertà di stampa ha degli effetti collaterali che possono essere sgradevoli. E tra questi effetti c’è la cattiva informazione. La quale provoca un fenomeno molto conosciuto dai sociologi: l’allontanarsi della percezione di massa dalla realtà. Il divorzio tra percezione e realtà produce il grande allarme. Qui siamo noi. Non è la prima volta. Non sarà l’ultima.
Carla Massi per “il Messaggero” il 4 febbraio 2020. «Profondamente diversa» c'è scritto nel profilo Whatsapp della virologa Ilaria Capua. E profondamente diversa è la ricercatrice romana prima in Italia a lavorare sulla sequenza genica del virus dell'aviaria, poi per tre anni in Parlamento poi negli Stati Uniti dove dirige il Centro di eccellenza dedicato alla One Health dell'Università della Florida. Ha dovuto lasciare l'Italia nel 2016 perché coinvolta e poi prosciolta da tutti i capi d'accusa in un'inchiesta sul traffico di virus. Dagli Stati Uniti plaude il traguardo raggiunto all'Istituto Spallanzani di Roma e, ovviamente, segue passo passo la diffusione dell'epidemia del Coronavirus 2019-nCov.
Nel team dei ricercatori che hanno isolato il virus c'è anche Francesca Colavita trentenne precaria. Non è un caso raro, vero?
«In Italia sicuramente no. Nei laboratori non si contano i giovani, e meno giovani, che stanno lì a lavorare con contratti precari. Spesso senza alcuna certezza. E, purtroppo, nessuno si domanda perché».
Che vuol dire?
«Nessuno si chiede, per esempio, chi glielo fa fare?. Se fosse fatta questa domanda si scoprirebbe che si tratta di persone appassionate. Direi ispirate. Non si lavora nella scienza per ripiego o perché non si aveva altro da fare. E allora, perché non pensare a loro come una risorsa?».
Lei dice che «se vince la scienza vinciamo tutti»...
«Già, ma in Italia lo pensiamo solo noi che alla scienza abbiamo dedicato la nostra vita».
La ricerca da noi costringe ancora a fuggire?
«È sottofinanziata e la divisione dei fondi non è sempre assegnata in modo meritocratico. Basterebbe copiare gli altri Paesi europei, mettere il naso fuori casa, per copiare e fare come loro. Aprirsi davvero».
Pensa ad un mondo scientifico italiano chiuso?
«La scienza è mondiale. Il mio gruppo non è formato solo da americani ma da ricercatori di ogni parte del pianeta. In Italia ha mai visto a capo di un team qualcuno che non sia nato nel nostro Paese? Tutto è ingessato, la flessibilità non esiste. Per non parlare della parità tra uomo e donna. La diversità è solo ricchezza. Ma non lo si vuole capire».
Parla di parità di genere?
«Tante donne sono nei laboratori ma quante, nel mio Paese, arrivano ai livelli apicali?»
Siamo ancora in questa situazione?
«La prova è che vivo e faccio ricerca in America»
Eppure, fuori dai nostri confini, tutti dicono che i ricercatori italiani sono molto bravi...
«Lo dico pure io ma questo non significa che si deve andare avanti così. Non mettendo mai la scienza tra le priorità. Fino al giorno in cui scoppia l'orgoglio nazionale. Certi che nei laboratori c'è sempre qualcuno che, per passione, lavora giorno e notte».
I precari, per esempio?
«Appunto. Precari o no dietro l'isolamento di un virus, per esempio, c'è tanto tanto lavoro. Ma l'Italia non lo riconosce».
Quindi, dopo l'isolamento del virus, per lei non si è peccato di eccesso di trionfalismo?
«Assolutamente no. Il ricercatore italiano fatica, per mancanza di mezzi e troppa burocrazia, molto di più dei suoi colleghi europei. E quando raggiunge un traguardo va riconosciuto».
Torniamo al Coronavirus, per l'ipotesi vaccino si parla davvero di mesi?
«Credo proprio di sì. Non prima di sei mesi. Ora che il virus è stato isolato sarà, comunque, più facile trattarlo e bloccare la diffusione».
Lei pensa che la mutazione dei virus sia inarrestabile?
«Stiamo parlando del quinto virus che, in meno di venti anni, ha acquisito la capacità di trasmettersi da uomo a uomo. Ha fatto il cosiddetto salto di specie. Dagli animali che lo ospitavano è diventato in grado di infettare gli umani».
Tre Coronavirus, giusto?
«Sì, ormai siamo abituati a queste emergenze. Che, per noi, ormai devono diventare una nuova normalità. Le mutazioni sono legate ai cambiamenti dell'ecosistema. Se l'ambiente viene stravolto il virus si trova di fronte a nuovi ospiti. Dobbiamo prepararci. Facendo ricerca, ovviamente».
Scusi, ma lei ha paura del nuovo virus?
«No. Non bisogna farsi prendere dal panico. Ad oggi è un'infezione respiratoria di lieve o media entità e solo in alcuni casi può diventare davvero grave. Sono tranquilla».
Umberto Rapetto per infosec.news il 25 febbraio 2020. Al netto delle comprensibili preoccupazioni per la pandemia, ritengo di plaudire a chi – come la straordinaria virologa Ilaria Capua ancora oggi durante “Mezz’ora in più” di Lucia Annunziata – chiede di fermare la spirale vorticosa dell’inutile e dannoso allarmismo. Ho letto che il Coronavirus è meno pericoloso della SARS e – al pari di tanti altri quisque de populo come il sottoscritto – mi sono chiesto perché all’epoca non ci fu il clamore che invece oggi rimbomba in ogni dove ed amplifica iniziative e provvedimenti istituzionali e non. Quasi a far seguito a quel che ho scritto qui nel mio “Il calamaio alla griglia”, ho capito che la colpa è di WhatsApp. Il sistema di messaggistica istantanea di uso comune è tra i mezzi che hanno maggiormente contribuito a far crescere la tensione. Ai tempi della SARS (correva l’anno 2003) non c’era, perché ha cominciato ad annidarsi nei nostri telefonini nel 2009. Ognuno – nessuno escluso – ha sentito il dovere di informare parenti e amici ogni qual volta venisse in possesso di un dato, di una notizia, di un link, di un manuale di difesa, di un annuncio e di qualunque altra cosa potesse mai esser veicolata attraverso la comunicazione digitale. Ho voluto silenziare il mio smartphone e provare il brivido di catapultarmi in un’epoca meno “connessa”. Credo sia importante capire cosa sta succedendo nelle zone rurali della Repubblica Popolare cinese, lontano dalle futuribili megalopoli nella terra che fu del Gran Khan, a migliaia di chilometri di distanza dai gangli telematici dei colossi locali come Hauwei e ZTE, là dove ancora la comunicazione è “diretta”. E’ stata l’occasione per vedere come il Governo di Pechino ancora utilizza mezzi semplici e tradizionali per il tramite dei propri funzionari territoriali. Ho trovato una simpatica pagina web sul magazine digitale SupChina e mi si è aperto un universo inaspettato. Come in Blade Runner “ho visto cose che voi umani (occidentali, nda) non potete immaginare”, vedendo gli striscioni rossi con slogan aggressivi che erano particolarmente di moda ai tempi di Mao. Nelle aree rurali cinesi – alla faccia della multimedialità – ancora si confida negli slogan o biaoyu (??). Una immersione nella realtà forse ha il valore di un taumaturgico bagno di buonsenso.
Valentina Dardari per ilgiornale.it il 6 luglio 2020. Oggi per Ilaria Capua è un anniversario importante e ha voluto ricordarlo con un post su Twitter: "Oggi è il 5 luglio 2020. Sono passati quattro anni dal mio proscioglimento dall'accusa di procurata epidemia ed altri 11 reati penali". La direttrice dell'One Health Center alla University of Florida, ha poi aggiunto: "Per questo ho rischiato l'ergastolo. Per vergogna ed umiliazione ho lasciato l'Italia. Si erano sbagliati però. Non era vero". La virologa scrive dagli Stati Uniti, meta che ha scelto per scappare dal suo Paese, a causa della vergogna e dell’umiliazione che l’aveva assalita. Una scelta certo difficile ma comprensibile. Un modo per lasciarsi tutto alle spalle e cercare di cambiare vita.
Una delle scienziate più importanti. La Capua, 54 anni, in Italia era una delle scienziate più importanti, tanto da meritarsi il titolo di “mente rivoluzionaria”. Era stata la prima a isolare il virus H5N1 e nel 2006 aveva reso pubblica la sequenza genica dell’aviaria. Aveva lavorato a Parma per venti anni, preparandosi alla pandemia e studiando, aveva cercato di portare un approccio interdisciplinare allo studio del rapporto fra virus e ospite, alla Torre della Ricerca della Città della Speranza. Non venne poi fatto nulla e la virologa pensò per la prima volta di lasciare il suo Paese. Poi però, nel 2013 arrivò il premier Mario Monti che le chiese di entrare nella sua squadra di governo. E lei accettò, senza mai abbandonare i temi che ben conosceva: Ebola, influenza, virus, antibiotico.
L'accusa e l'assoluzione. Nel 2014 l’accusa improvvisa, un fulmine a ciel sereno, e l’indagine della procura di Roma. La Capua, insieme ad altri scienziati, viene accusata di essere una trafficante di virus e di arricchirsi grazie ad accordi con aziende farmaceutiche per produrre vaccini per la malattia della lingua blu e l’aviaria. Non molla e si batte per far emergere la verità ed essere scagionata. Intanto, decide di abbandonare il Parlamento e l’Italia per accettare una cattedra in America. Finalmente il 5 luglio del 2016 l’inchiesta viene chiusa. Il giudice decide il non luogo a procedere e la Capua, insieme ad altri dodici indagati viene pienamente prosciolta dall’accusa. Una lunga odissea giuridica che l’aveva ferita a vita. Con il coronavirus la paura era ritornata, tanto che aveva confessato: “I dati vanno condivisi e la trasparenza è fondamentale, ci mancherebbe. Ma io non parlo di rivincite. Anzi, sono spaventata dal fatto che tutta questa grande visibilità non mi si rivolga contro. Magari diranno che il coronavirus l’ho creato io. Per questo sto in guardia. Sono una guerriera, ma non mi illudo e aspetto la prossima sberla”. Oggi comunque è l’anniversario del giorno che le ha ridato la vita. Una data da ricordare: 5 luglio 2016.
La grande ira della Gismondo: "Italia madre ingrata". La virologa dell'Ospedale Sacco di Milano, Rita Gismondo, recrimina l'assenza di meritocrazia: "L'Italia è una madre ingrata. I miei ragazzi sono ancora precari". Rosa Scognamiglio, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. "Nessun grazie alla mia squadra che ha lavorato giorno e notte tra ricerca e 70mila tamponi processati". Parole amare, intrise di un percettibile risentimento, quelle che esprime la virologa Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di Microbiologia clinica, Virologia e Diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano, nel corso di una intervista all'Adnkronos. Il coronavirus sembrerebbe una pratica archiviata per alcuni virologi, tanto che adesso si cominciano a tirare le somme, a fare il bilancio di questi lunghi ed estenuanti mesi di pandemia. Lo sa bene l'esperta Gismondo, impegnata sul fronte della ricerca da quando il virus ha cominciato a dilagare nel Belpaese, che oggi reclama a gran voce un riconoscimento per il suo operato. Nel mirino della virologa ci finisce soprattutto la Regione Lombardia: "Sono stati - dice - giorni, mesi molto pesanti in termini lavorativi, ma anche di grande soddisfazione per i riconoscimenti avuti dall'estero e che mi danno la misura di quanto abbiamo lavorato. Dall'Italia non mi aspetto niente da tanto tempo e non mi interessa a livello personale. Ma per i miei ragazzi sì", assicura. "Abbiamo ricevuto per esempio zero ringraziamenti dalla Regione Lombardia. La squadra del mio laboratorio ha lavorato 24 ore su 24 a sfornare analisi di tamponi, ne abbiamo processati circa 70 mila, e avremmo dovuto averli i ringraziamenti, sia a livello governativo che regionale. Come è successo ad altri, ma siamo stati ignorati, e questo è molto triste". Da giovedì 9 luglio, Rita Gismondo sarà nelle librerie con 'Ombre allo specchio. Bioterrorismo, infodemia e il futuro dopo la crisi' (editore La nave di Teseo) - con prefazione del viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri - in cui traccia un quadro della pandemia, dagli antefatti fino all'eredità lasciata da questa esperienza. "Se avessi dovuto scrivere oggi questo libro avrei raccontato di un'altra soddisfazione appena vissuta: quella di essere stata invitata a Berlino, unica virologa, per parlare di coronavirus in occasione di un dibattito in ambito governativo. Per fortuna ci sono le altre nazioni, l'Italia è una madre ingrata". Nel libro ci sono anche sprazzi della vita nel laboratorio, mentre l'ondata di malati Covid travolgeva gli ospedali. Protagonisti i suoi collaboratori che la microbiologa celebra e ringrazia. Come Davide, ragazzo precario, che ha mandato compagna e figlio in Toscana dai nonni per potersi dedicare interamente al lavoro e quando ha isolato il virus, scrive Gismondo, "non è stato chiamato per nessuna conferenza stampa, non ha ricevuto le congratulazioni del ministro Speranza né, tantomeno, l'assunzione. C'è chi è diventato cavaliere, i miei ragazzi sono rimasti precari. Succede perché noi lavoriamo a testa bassa". Evidentemente amaraggiata, la virologa non le manda di certo a dire e, senza fare sconti a nessuno, tira una stoccata a destra e l'altra a manca. "Non esiste meritocrazia in questo Paese, - conclude - paga di più l'appoggio politico o farsi valere a livello d'immagine".
Ilaria Capua: "Ho rischiato pure l'ergastolo. Sono fuggita per la vergogna". Ha rischiato l’ergastolo e per la vergogna ha lasciato l’Italia. Era stata accusata di traffico illecito di virus. Valentina Dardari, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Oggi per Ilaria Capua è un anniversario importante e ha voluto ricordarlo con un post su Twitter: "Oggi è il 5 luglio 2020. Sono passati quattro anni dal mio proscioglimento dall'accusa di procurata epidemia ed altri 11 reati penali". La direttrice dell'One Health Center alla University of Florida, ha poi aggiunto: "Per questo ho rischiato l'ergastolo. Per vergogna ed umiliazione ho lasciato l'Italia. Si erano sbagliati però. Non era vero". La virologa scrive dagli Stati Uniti, meta che ha scelto per scappare dal suo Paese, a causa della vergogna e dell’umiliazione che l’aveva assalita. Una scelta certo difficile ma comprensibile. Un modo per lasciarsi tutto alle spalle e cercare di cambiare vita.
Una delle scienziate più importanti. La Capua, 54 anni, in Italia era una delle scienziate più importanti, tanto da meritarsi il titolo di “mente rivoluzionaria”. Era stata la prima a isolare il virus H5N1 e nel 2006 aveva reso pubblica la sequenza genica dell’aviaria. Aveva lavorato a Parma per venti anni, preparandosi alla pandemia e studiando, aveva cercato di portare un approccio interdisciplinare allo studio del rapporto fra virus e ospite, alla Torre della Ricerca della Città della Speranza. Non venne poi fatto nulla e la virologa pensò per la prima volta di lasciare il suo Paese. Poi però, nel 2013 arrivò il premier Mario Monti che le chiese di entrare nella sua squadra di governo. E lei accettò, senza mai abbandonare i temi che ben conosceva: Ebola, influenza, virus, antibiotico.
L'accusa e l'assoluzione. Nel 2014 l’accusa improvvisa, un fulmine a ciel sereno, e l’indagine della procura di Roma. La Capua, insieme ad altri scienziati, viene accusata di essere una trafficante di virus e di arricchirsi grazie ad accordi con aziende farmaceutiche per produrre vaccini per la malattia della lingua blu e l’aviaria. Non molla e si batte per far emergere la verità ed essere scagionata. Intanto, decide di abbandonare il Parlamento e l’Italia per accettare una cattedra in America. Finalmente il 5 luglio del 2016 l’inchiesta viene chiusa. Il giudice decide il non luogo a procedere e la Capua, insieme ad altri dodici indagati viene pienamente prosciolta dall’accusa. Una lunga odissea giuridica che l’aveva ferita a vita. Con il coronavirus la paura era ritornata, tanto che aveva confessato: “I dati vanno condivisi e la trasparenza è fondamentale, ci mancherebbe. Ma io non parlo di rivincite. Anzi, sono spaventata dal fatto che tutta questa grande visibilità non mi si rivolga contro. Magari diranno che il coronavirus l’ho creato io. Per questo sto in guardia. Sono una guerriera, ma non mi illudo e aspetto la prossima sberla”. Oggi comunque è l’anniversario del giorno che le ha ridato la vita. Una data da ricordare: 5 luglio 2016.
Ilaria Capua ricorda i 4 anni dalla fine della gogna di pm e stampa: “Per vergogna ho lasciato l’Italia”. Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2020. Non era una “Trafficante di virus”, come riportò in prima pagina il settimane L’Espresso, ma rischiò l’ergastolo nell’indagine aperta dalla Procura di Roma per corruzione, abuso d’ufficio e traffico illecito di virus, nella quale era sospettata di far partecipe di un mercato illegale dietro i vaccini. Ilaria Capua non può dimenticare quella vicenda ed oggi, 5 luglio, con un tweet ‘celebra’ i quattro anni dal proscioglimento. All’epoca dei fatti Ilaria Capua era già una delle migliori menti italiane e non solo, aveva isolato il virus H5N1 e nel 2006 aveva pubblicato la sequenza genica dell’aviaria, per poi accettare la candidatura con Scelta Civica di Mario Monti, venendo eletta alla Camera. Nel 2014 quindi il disastro mediatico-giudiziario che la travolge, con la decisione di lasciare il Parlamento e il suo Paese. L’indagine, trasferita poi a Verona, finirà con un buco nell’acqua: il giudice per l’udienza preliminare scaligero infatti decide per il non luogo a procedere, ma la virologa ha già fatto le valigie. Per quella umiliazione Ilaria Capua ha lasciato l’Italia per emigrare negli Stati Uniti, dove dirige il One Health Center all’Università della Florida.
Linciata e poi beffata. Storia di Ilaria Capua, la virologa messa alla gogna da pm e giornali. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Marzo 2020. Sapete chi è Ilaria Capua, no? In questi giorni si parla molto di lei perché è considerata, nel mondo, la più importante virologa italiana. Mario Monti la volle con sé in Parlamento e lei fu eletta alle elezioni del 2013. Ieri ha rilasciato una lunga intervista all’Ansa nella quale ci spiega per filo e per segno come funziona questo dannato virus, da dove è partito, in quanti ceppi diversi si presenta, per quali porte è entrato in Europa e in America, e ci ha anche tranquillizzato sul fatto che gli untori non siamo noi italiani. Oggi Ilaria Capua vive in Florida, dove è direttrice di un dipartimento universitario. Un giornale scientifico degli Stati Uniti l’ha messa nell’elenco dei 50 studiosi al top della scienza mondiale. Probabilmente, nel campo della virologia, è la numero uno in Europa. Qualcuno potrebbe chiedersi: perché è andata via dall’Italia, dove, oltretutto, era deputata? Per una ragione semplice: è caduta vittima di un linciaggio giornalistico-giudiziario, qualcuno potrebbe pensare persino che si sia trattato di un complotto, comunque è stata una congiura infame. È finita indagata per reati che avrebbero potuto portarla all’ergastolo, è stata riempita di fango fino al collo e ancora di più, è stata costretta a dimettersi dal Parlamento, la sua reputazione è stata fatta a pezzettini piccoli piccoli, e quando finalmente ha ottenuto giustizia in tribunale (ma solo parziale e comunque non sulla stampa) è voluta andare a vivere a ottomila chilometri dall’Italia. Credo, disgustata. La storia è semplice, e dimostra che esistono pezzi di magistratura e di giornalismo che prosperano del tutto privi di qualunque norma di correttezza (non parliamo nemmeno di etica) e che possono rovinare la vita a chiunque di noi senza doverne rendere conto a nessuno. Questo è il punto vero: senza doverne rendere conto a nessuno. C’è un pezzo di magistratura e un pezzo di giornalismo (quello che accetta di vivere in subalternità con la magistratura e al suo servizio) che dispongono di totale impunità. Avete presente quelli che dicono sempre che la legge deve essere uguale per tutti? Beh, in genere sono proprio quelli che invece dispongono del salvacondotto che li pone al di sopra di tutte le regole. Ecco in poche righe la storia del linciaggio della Capua. Nel 2010 la polizia avvia un’indagine su di lei. I reati che si ipotizzano sono spaventosi: non solo corruzione ma addirittura “diffusione di epidemia” (cioè, in pratica, di tentata strage), reato che prevede il carcere a vita. L’ipotesi della polizia è che la professoressa, d’intesa con alcune case farmaceutiche e pagata da loro, abbia creato e diffuso dei virus per poi vendere i vaccini pronti per curarli. Un disegno e un’anima assolutamente diabolici, un grado impensabile di perversione e cinismo. L’indagine resta per quattro anni ferma nel cassetto di un alto magistrato romano, Giancarlo Capaldo, il quale non muove un dito. Poi, improvvisamente, le carte – chissà come – finiscono nelle mani di un giornalista dell’Espresso – che da allora fa una brillante carriera e ora è vicedirettore del settimanale – il quale pubblica un bell’articolo presentato in copertina, a tutta pagina, con il titolo, terrificante, “trafficanti di virus”. La professoressa a quel punto ancora non sa niente dell’indagine della procura di Roma. Scopre dall’Espresso di essere una “trafficante di virus”, cioè un tipo di assassina seriale della peggior specie. Voi come avreste reagito a una simile follia? Come avreste provato a resistere, a non farvi travolgere? Io non lo so. Lei si dimise da deputata e iniziò a combattere. Capaldo, dopo l’uscita dell’Espresso, si limitò a confermare le accuse a a dichiarare chiuse le indagini. Per fortuna, per ragioni tecniche, il processo fu spostato a Verona, e la professoressa fu del tutto assolta. Le accuse erano assolutamente infondate e di pura fantasia. A quel punto iniziò l’ultimo capitolo di questa vicenda. Altrettanto paradossale e allucinante. Il ministero chiese che Capaldo fosse giudicato dal Csm, ma il Csm andò lento lento, e Capaldo riuscì a compiere 70 anni e ad andarsene in pensione prima del giudizio. Processo estinto. La Capua invece denunciò l’Espresso. Ma non è facile averla vinta, in tribunale, con un giornalista riconosciuto da tutti come un sostenitore militante della magistratura. E così il tribunale di Velletri volle aggiungere, nei confronti della Capua, la beffa al danno. Assolse l’Espresso. Disse che non c’è niente di male dare del trafficante di virus a una brava persona. E men che meno calunniare una grande scienziata. L’Espresso non ha mai chiesto scusa. Lirio Abbate ha fatto carriera. L’Ordine dei giornalisti non è intervenuto. Il Csm se ne è lavato le mani. Nessun magistrato, mai, ha preso pubblicamente posizione contro l’Espresso e Capaldo. La Capua ha lasciato il Parlamento e il Paese. E noi, che purtroppo facciamo lo stesso mestiere di quei colleghi che l’hanno sepolta, ridendo, nel letame, non possiamo fare altro che sentici anche noi un po’ in colpa verso di lei. Per non aver sollevato un pandemonio pazzesco e per non aver denunciato abbastanza il punto di bassezza che talvolta può toccare il lavoro della nostra categoria.
Ilaria Capua, la virologa che finì in “quarantena” per uno scandalo inventato da media e magistrati. Davide Varì il 16 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La scienziata che in questi giorni sta combattendo il Coronavirus fu accusata di “traffico di virus”. Fu assolta dopo una lunga odissea e il magistrato che l’accusò si gode la pensione. C’è stato un tempo in cui Ilaria Capua, la virologa che in questi giorni sta seguendo la diffusione e la mutazione del Coronavirus, era in quarantena assieme a suo marito. Una quarantena mediatico-giudiziaria cominciata nell’aprile del 2014, mese in cui l’Espresso fece un titolo da far rabbrividire anche Bonnie e Clyde: “Trafficanti di virus”. E poi, sempre più duri: “Accordi tra scienziati e aziende per produrre vaccini e arricchirsi, ceppi di aviaria contrabbandati per posta rischiando di diffonderli. L’inchiesta segreta dei NAS e dei magistrati di Roma sul grande affare delle epidemie”. E al vertice di quella presunta associazioni a delinquere composta da camici bianchi (l’Espresso parlò esplicitamente di “Cupola dei vaccini”) ci sarebbe stata proprio lei: Ilaria Capua. Almeno secondo le rivelazioni del settimanale dei De Benedetti, perché la diretta interessate di quell’indagine non ne sapeva nulla. Solo qualche mese dopo la virologa scoprì che era sotto inchiesta dal lontano 2005, ciò significa che se lei e la famigerata cupola stavano davvero infettando il mondo per arricchirsi attraverso un traffico illecito di vaccini, la procura decise misteriosamente (e con un filo di incoscienza) di lasciarla agire indisturbata per dieci lunghi anni. Fatto sta che nel 2015 i magistrati decisero di agire chiedendo il rinvio a giudizio per Ilaria Capua e altre trenta persone. Le accuse, raccolte dai Nas, vennero però analizzate da Science, una delle riviste scientifiche più importanti e autorevoli, e il giudizio sul lavoro dei Nas fu lapidario: “I documenti non sembra siano stati revisionati da esperti scientifici”. Del resto, nella relazione di Science, pesò inevitabilmente anche la reputazione di Ilaria Capua che per il mondo accademico era la scienziata che nel 2006, in piena emergenza Sars, decise di sfidare i colossi dell’industria farmaceutica depositando la sequenza genetica del primo ceppo africano di influenza H5N1 in GenBank (un database “open access”) e non in un database ad accesso limitato. Una scelta molto coraggiosa che diede il via alla condivisione trasparente dei dati medici in modo da mettere nelle migliori condizioni di lavoro i laboratori di virologia di tutto il mondo. Inutile dire che nel 2016 Ilaria Capua venne assolta perché “il fatto non sussiste”. Una vittoria netta e cristallina. Ma ancora più interessante è la relazione – pubblicata qualche giorno fa dal Foglio – degli ispettori ministeriali inviati a verificare il lavoro dei magistrati. Al termine di quella ispezione l’allora ministro della Giustizia Orlando scrisse al Csm che la condotta del dottor Capaldo, titolare dell’indagine, aveva determinato “una violazione grave, determinata da inescusabile negligenza”. E ancora: “Con tale condotta il dott. Capaldo – scriveva Orlando – si è reso immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, con compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario e dell’immagine del magistrato”. Il dottor Capaldo ora si gode la sua lauta pensione mente Ilaria Capua è tornata in trincea, stavolta in America, dove dirige il dipartimento dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida.
La Capua prosciolta ma vittima del metodo Espresso-Travaglio. Nei paesi normali la stampa dà notizia delle indagini della magistratura, descrive le ipotesi di accusa su vicende di interesse pubblico e ritorna sul tema quando arrivano le sentenze per spiegare cosa è successo e come si è conclusa la vicenda. Luciano Capone il 12 Luglio 2016 su Il Foglio. Nei paesi normali la stampa dà notizia delle indagini della magistratura, descrive le ipotesi di accusa su vicende di interesse pubblico e ritorna sul tema quando arrivano le sentenze – quindi dopo che accusa e difesa si sono confrontate ed è stato espresso un giudizio terzo – per spiegare cosa è successo e come si è conclusa la vicenda. In Italia invece succede che il processo mediatico coincide con le carte dell’accusa – prima di un giudizio, anzi prima del rinvio a giudizio, e molto spesso addirittura prima della chiusura delle indagini e dell’avviso di garanzia – si sparano in prima pagina intercettazioni e tesi dei pm che insieme racchiudono accusa, difesa, giudizio e condanna. Si tratta di un processo immediato più che mediatico, perché gli organi d’informazione non mediano nulla, ma si limitano a riportare le accuse, informative e brandelli d’intercettazioni. Quando poi arrivano le sentenze vere, che spesso smentiscono totalmente le ipotesi della procura, vengono completamente ignorate o comunque non ricevono lo stesso spazio e la stessa attenzione riservate alle carte degli accusatori. In questo senso la vicenda di Ilaria Capua è emblematica delle patologie della giustizia e dell’informazione. La virologa e deputata di Scelta civica, nota a livello internazionale per aver reso pubblica la sequenza genetica di un ceppo dell’aviaria umana senza brevettarla, era accusata dal procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo di essere al centro di un’associazione a delinquere che contrabbandava virus e causava epidemie in cambio di soldi in combutta con alcune multinazionali dei vaccini. Lo stesso Capaldo poi ha tenuto l’inchiesta nel cassetto per 7 anni, senza nemmeno fermare questa ipotetica associazione a delinquere che diffondeva virus ed epidemie pericolose per la salute pubblica. Di tutti questi limiti logici ha tenuto conto il processo vero, quello tenuto nelle aule di tribunale, che ha prosciolto dalle accuse la Capua e altre 15 persone. Ma sono cose di cui non si è occupato il processo mediatico e immediato che nel 2014, con la copertina dell’Espresso “Trafficanti di virus”, ha condannato per direttissima la scienziata. Quest’ultima, non avendo ricevuto all’epoca gli atti e la notifica della chiusura delle indagini, non ha avuto neppure la possibilità di difendersi dal processo di piazza in cui l’aveva trascinata l’“inchiesta” di Lirio Abbate. Eppure quel processo non è ancora finito. L’Espresso non solo non trova spazio in nessuna delle sue 102 pagine del numero in edicola per dare notizia del proscioglimento della donna che accusava in prima pagina, non solo non si scusa – come non aveva fatto con la finta intercettazione di Crocetta contro la famiglia Borsellino e con la fasulla inchiesta sull’acqua avvelenata di Napoli – ma continua a rimestare nel fango ricordando che la Capua è stata comunque prescritta per uno dei tanti capi d’accusa. E così fa anche Marco Travaglio che sul Fatto quotidiano continua a dedicare articoli alle accuse dei pm contro la ricercatrice. Scrivendo tra l’altro che il Foglio insulta i pm per le “intercettazioni a ciclo continuo”. Il direttore del Fatto spiega che è andato tutto a meraviglia: “Le indagini si fanno obbligatoriamente, per approfondire una notizia di reato” e per la Capua su un reato – la tentata concussione – è scattata la prescrizione. La prima cosa sorprendente è che per Travaglio le “intercettazioni a ciclo continuo” sono un insulto, la seconda meno è la scarsa comprensione del testo: il Foglio non criticava l’Espresso e Abbate per aver raccontato la vicenda, ma per l’esatto contrario. Per aver nascosto l’assoluzione e la fine che hanno fatto le accuse contro il mostro che avevano sbattuto in prima pagina. La sentenza del gup di Verona Laura Donati infatti fa a pezzi l’inchiesta di Capaldo, basata su un castello di intercettazioni senza riscontri oggettivi. Il gup segnala innanzitutto che molti reati erano già prescritti al momento dell’esercizio dell’azione penale, eppure l’accusa è andata avanti lo stesso. Poi evidenzia come per l’accusa di diffusione di epidemia “manca prima di tutto l’evento”: i sette ritenuti contagiati non avevano la malattia. Inoltre “manca la prova che i ceppi virali siano stati effettivamente e dolosamente messi in circolazione” e i pm hanno indicato come responsabile dell’epidemia un virus per un altro. E questo già era noto da un’indagine archiviata a Bologna: “E’ dunque evidente – scrive il gup – come gli inquirenti abbiano stravolto gli esiti dell’inchiesta bolognese archiviata per costruire accuse del tutto prive di fondamento”. Conseguentemente “sono inconsistenti pure le accuse di associazione a delinquere”. C’è poi un’accusa di corruzione, come tante altre, non provata perché “fondata solo sul tenore di conversazioni telefoniche non contestualizzate e prive di riscontri”. Tra l’altro, trattandosi dell’udienza preliminare il giudice non scende neppure nel dettaglio, semplicemente si limita a stabilire che le prove sono insufficienti e contraddittorie per sostenere l’accusa in giudizio. Solo su un capo d’accusa, quello prescritto per tentata concussione, il gup dice che ci sarebbero gli elementi per andare a processo. Si tratta di un’indagine finita in nulla e di questo i trombettieri dell’accusa non parlano. Preferiscono riflettere sulla prescrizione. Secondo Travaglio e l’Espresso, la Capua non sarebbe una vittima perché non ha rinunciato alla prescrizione. Dopo un’indagine durata 10 anni, dopo che l’inchiesta è finita su un settimanale prima dell’avviso di garanzia, dopo aver subito un processo mediatico senza conoscere le accuse e gli atti dell’indagine, dopo due anni di linciaggio personale, una vita politica finita, quella professionale ammaccata e quella privata distrutta, Ilaria Capua dovrebbe rinunciare alla prescrizione e continuare a pagare gli avvocati per dimostrare all’Espresso e a Travaglio di essere innocente. Questa è la tesi di chi ritiene che il garantismo – e i diritti e la civiltà che si porta dietro – sia un inutile gargarismo. C’è però un punto su cui Travaglio ha ragione: le indagini si fanno, obbligatoriamente, per approfondire una notizia di reato. Una notizia (di reato) c’è: la copertina dell’Espresso sui “Trafficanti di virus” è figlia di una fuga di notizie. Sa se per caso è stato obbligatoriamente aperto un fascicolo per individuare i responsabili?
Il Csm autorizza l'apertura di un fascicolo sui pm del caso Capua. Si valuterà "se sussistano profili di incompatibilità" del procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo e degli altri magistrati coinvolti nell'indagine. La ricostruzione dell'interminabile inchiesta. Redazione de Il Foglio il 14 Luglio 2016. Dopo che il caso della virologa Ilaria Capua si è concluso con un proscioglimento, il Csm aprirà ora un fascicolo sull’indagine. Su richiesta del consigliere laico Pierantonio Zanettin, il comitato di presidenza del Csm ha autorizzato l'apertura di una pratica in prima commissione, al fine di valutare "se sussistano profili di incompatibilità, sotto il profilo dell'appannamento dell'immagine di terzietà e di imparzialità" del procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, che avviò l'inchiesta su Capua, e degli altri magistrati requirenti che l'hanno proseguita. Come ha raccontato sul Foglio Luciano Capone, Ilaria Capua, una delle principali esperte di virologia in Italia e deputata di Scelta civica, era sotto indagine dal 2005. Ma la notizia dell’inchiesta esplose solo nel 2014, quando il giornalista Lirio Abbate dedicò la copertina dell’Espresso ai “Trafficanti di virus” (questo il titolo), inchiodandola nel ruolo di untrice. Il settimanale anticipava il contenuto dell’“inchiesta top secret della procura di Roma sul traffico internazionale di virus, scambiati da ricercatori senza scrupoli” e “pronti ad accumulare soldi e fama grazie alla paura delle epidemie”. L’indagine del procuratore Giancarlo Capaldo coinvolgeva una quarantina di persone, tra cui appunto Capua, accusati di associazione per delinquere, corruzione, ricettazione e diffusione di epidemia. Le prove consistevano unicamente nelle intercettazioni, puntualmente pubblicate sul settimanale. La notizia destò agitazione nel M5s, che chiese subito le dimissioni della Capua. L’onorevole Marialucia Lorefice dichiarò alla Camera: “Ci sembra lecito in questa sede chiedere le dimissioni da vicepresidente dalla Commissione cultura, ma anche da parlamentare della Repubblica italiana, della deputata Ilaria Capua, convinti che in una situazione del genere sia alquanto difficile riuscire a espletare al meglio il ruolo di non poco conto che si trova a ricoprire” perché “qualora venisse confermata la colpevolezza sia della deputata che delle case farmaceutiche che dei funzionari del Ministero, dovreste seriamente riflettere sulle persone alle quali è stato affidato il destino e la guida di questo Paese”. L’intervento fu poi postato sul blog del partito. La deputata grillina Silvia Chimienti pubblicava inoltre un post dal titolo “Ilaria Capua si dimetta!”, con tanto di foto della ricercatrice a cui si chiedeva “nel dubbio” di dimettersi. Alla fine, dopo dieci anni d’inchiesta e due di gogna mediatico-giudiziaria, in cui Ilaria Capua è stata definita “trafficante di virus” e ricercatrice “senza scrupoli”, la scienziata è stata assolta da ogni tipo di accusa. A questo punto il M5s ha negato di aver mai chiesto le dimissioni della Capua dalla Camera e la Chimienti si è subito affrettata a cancellare il suo post. Il partito non ha porto le sue scuse alla virologa, esattamente come L’Espresso che su 102 pagine non ha più pubblicato neppure un trafiletto riportante la notizia sull’assoluzione. Dopo tanto clamore sulle accuse, la conclusione dell’indagine è praticamente passata sotto silenzio. Ilaria Capua, ennesima vittima del linciaggio mediatico, ha visto la propria reputazione infangata e la propria carriera e vita privata distrutte, e ha perciò deciso di abbandonare l’Italia. Si è trasferita negli Stati Uniti, a dirigere un centro d’eccellenza, l’One Health della University of Florida. Così l’Italia, scriveva qualche giorno fa sul Foglio Claudio Cerasa, ha perso una ricercatrice di prim’ordine, mentre continua a tenersi stretta i cialtroni che hanno trasformato il garantismo in gargarismo promuovendo il sistema di sputtanamento collettivo.
Prosciolta virologa Capua, membro laico al Csm: ora si indaghi sul procuratore Capaldo. L'iniziativa di Pierantonio Zanettin, Forza Italia, perché si accerti la sussistenza di "profili di incompatibilità, sotto il profilo dell'appannamento dell'immagine di terzietà e imparzialità", a carico dei magistrati che hanno condotto l'inchiesta per "tentata epidemia", accusa da cui la ricercatrice è stata sollevata dopo più di dieci anni "di inferno, anche mediatico". La Repubblica il 7 luglio 2016. Aprire una pratica sul procuratore aggiunto della Procura di roma Giancarlo Capaldo e sugli altri magistrati che hanno proseguito l'inchiesta su Ilaria Capua, la virologa padovana prosciolta il 5 luglio dal gup di Verona dalle imputazioni di associazione a delinquere, epidemia e tentata epidemia "perché il fatto non sussiste". Lo chiede al Comitato di presidenza il membro laico del Csm Pierantonio Zanettin, di Forza Italia. Obiettivo, argomenta Zanettin nella richiesta, "valutare se sussistano profili di incompatibilità, sotto il profilo dell'appannamento dell'immagine di terzietà e imparzialità". Il membro laico ricorda i meriti della ricercatrice, "la prima ad aver isolato il virus HSN1", responsabile della "bestia nera dell'influenza aviaria", e di aver poi messo "gratis la sua scoperta a disposizione di tutti gli scienziati del mondo su GenBank". Dopo aver aiutato l'umanità e dato lustro alla comunità scientifica italiana, nel 2004 la studiosa venne coinvolta "all'improvviso" in un'inchiesta della procura di Roma su una presunta cessione illecita di virus ad aziende farmaceutiche, arrivata alla richiesta di rinvio a giudizio dieci anni dopo. E a carico di Ilaria Capua vennero ipotizzati "reati gravissimi: ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso, corruzione, zoonosi ed epidemia". Di qui l'inizio "dell'inferno, anche mediatico, dal quale è riuscita a liberarsi solo da pochi giorni con una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste del gup di Verona". Capua, ricorda infine Zanettin, "prostrata dalle lungaggini dell'inchiesta, ha deciso di abbandonare l'Italia" e di accettare la direzione di un Dipartimento di eccellenza dell'Università della Florida. In realtà, il recente proscioglimento definitivo di Ilaria Capua ha riguardato i reati di associazione a delinquere finalizzata alla concussione e alla corruzione. Dell'accusa più grave, la tentata epidemia per la quale avrebbe rischiato l'ergastolo, la ricercatrice era stata sollevata lo scorso 12 aprile, durante l'udienza preliminare a Verona, perché il principale filone dell'indagine era stato trasferito per competenza a Venezia. Era stata la stessa pm Beatrice Zanotti, con una retromarcia clamorosa, a chiedere il proscioglimento per Ilaria Capua e agli altri indagati, chiedendo invece al gup Laura Donati il loro rinvio a giudizio per gli altri reati contestati. Oltre a Ilaria Capua, tra gli indagati che hanno vissuto "l'inferno" evocato da Zanettin figurano il marito della studiosa, Richard John William Currie, funzionario della società Fort Dodge per conto della quale era incaricato della vendita del kit diagnostico dell’aviaria, Pierluigi Crippa e Paolo Candoli, rispettivamente amministratore delegato e manager dell'azienda produttrice di vaccini Merial spa, Giovanni Cattoli, dirigente del laboratorio di virologia del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria di Padova, di cui Ilaria Capua era la responsabile. Una grande ricercatrice, manager di primo piano dell'industria farmaceutica. Finiti nel fascicolo per una storia iniziata nel 1999, quando Candoli, iscritto all’Ordine dei Veterinari di Forlì-Cesena dal 1974 e manager italiano del colosso farmaceutico Merial, fu indagato negli Usa dall'Homeland Security. In aprile, un postino aveva bussato alla sua porta con un pacco al cui interno, secondo l'accusa, immerso in cubetti di ghiaccio, si trovava un ceppo di influenza aviaria altamente patogeno, denominato H9, proveniente dall’Arabia Saudita. Candoli non era in casa, ritirò il pacco sua moglie che, raggiunto il manager al telefono, su sua indicazione mise il pacco nel congelatore. Non esattamente, rilevavano gli inquirenti americani, procedure di sicurezza adeguate. Di qui, il sospetto di un traffico dalle finalità tutte da accertare. Gli Usa allertarono Roma, la Procura della Capitale nel 2004 avviò le indagini arrivando a formulare le sue accuse, cadute 12 anni dopo perché per il giudice mancano i presupposti per un processo. Senza un processo restano quanto meno senza risposta gli interrogativi sollevati dalle intercettazioni condotte dai Nas nel corso dell'indagine e l'impossibilità di fare definitiva chiarezza in merito a pratiche e relazioni su cui si era stagliata l'ombra di un conflitto, etico oltre che di interessi, particolarmente scabroso. Quello che può investire la ricerca e le grandi case farmaceutiche quando si declinano le emergenze sanitarie nel linguaggio del business.
Il Csm ora indagherà sul pm che ha rovinato la scienziata. La Capua prosciolta dall'accusa di essere una "untrice" scappa negli Usa. E gli inquirenti finiscono nel mirino, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 8/07/2016, su “Il Giornale”. Anni d'inferno, una vita «sfregiata». Ora la virologa Ilaria Capua è stata prosciolta dall'infamante accusa di essere un'«untrice», di trafficare in virus per provocare un'epidemia. Ma il suo cervello è intanto migrato negli Stati Uniti e nulla potrà ripagarla di quanto ha subito. I suoi accusatori, però, finiscono nel mirino del Csm. E il laico di Fi Pierantonio Zanettin chiede al Comitato di presidenza di Palazzo de' Marescialli di aprire una pratica sul procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, che ha avviato l'indagine penale e sui giudici che hanno proseguito il suo lavoro, culminato due giorni fa con la dichiarazione: «il fatto non sussiste». I reati ipotizzati erano gravissimi: ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso, corruzione, zoonosi ed epidemia. Per la Capura c'era il rischio di finire all'ergastolo. Ma il gup di Verona alla fine ha deciso che non c'era nulla di tutto questo. E ora, se il vertice del Csm darà l'ok, la Prima Commissione dovrà valutare se pm e giudici hanno agito in modo scorretto, «se sussistano profili di incompatibilità, sotto il profilo dell'appannamento dell'immagine di terzietà ed imparzialità», come scrive Zanettin. Tra l'altro, la ricercatrice in un'intervista ha dichiarato «di non essere mai stata interrogata da nessun magistrato». Ai vertici di Palazzo dei Marescialli il consigliere ricorda il profilo della Capua, nota per i suoi studi sui virus influenzali e, in particolare, sull'influenza aviaria. Proprio lei è stata la prima ad aver isolato il virus H5N1 eppure ha detto «no alle offerte milionarie delle case farmaceutiche per mettere gratis la sua scoperta a disposizione su genBank di tutti gli scienziati del mondo», sottolinea Zanettin. È stata la «prima donna e primo ricercatore sotto i 60 anni a vincere il Penn vet world leadership award, cioè il riconoscimento più importante del pianeta per le discipline veterinarie». Nel 2013 la virologa, responsabile del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale (Izs) delle Venezie, viene eletta deputato di Scelta civica e poco dopo le crolla addosso l'inchiesta della Procura di Roma su una presunta cessione illecita di virus ad aziende farmaceutiche. Un'inchiesta che ha radici lontane, cronologicamente e geograficamente. Le accuse partono infatti dagli Usa nel 1999 e da lì vengono allertati i pm di Roma, che nel 2004 avviano le indagini arrivando a formulare le accuse alla Capua, cadute 12 anni dopo perché per il giudice mancano i presupposti per un processo. Intanto la scienziata, scrive Zanettin, «prostrata dalle lungaggini dell'inchiesta, ha deciso di abbandonare l'Italia ed ha accettato la direzione di un dipartimento di eccellenza all'Emerging Pathogens Istitute dell'Università della Florida». Anche stavolta e per cause giudiziarie, «il nostro Paese ha perso un cervello di grande valore». Rimane, spiegano i colleghi della Capua, il rimpianto per non essere riusciti a trattenere questo talento della nostra ricerca, che ancora molto avrebbe potuto dare alla scienza e all'Italia. Da Sc applaudono l'iniziativa di Zanettin. «Ci auguriamo che il Csm voglia aprire al più presto una pratica su Capaldo - dice Giovanni Monchiero, il capogruppo alla Camera - È un caso emblematico e clamoroso di malagiustizia. Non neghiamo il diritto della magistratura di indagare chiunque ma i risultati delle indagini preliminari devono restare segreti, almeno fino a quando non si raccolgano indizi incontrovertibili di colpevolezza».
«Perchè il pm non ha interrogato la Capua?» Il Csm apre un fascicolo, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 luglio 2016 su “Il dubbio”. Il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Il Consigliere laico Pierantonio Zanettin ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione per valutare se sussistano “profili di incompatibilità” nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente “terza ed imparziale”. La vicenda è nota. Secondo i carabinieri del Nas di Roma, Capua e suo marito facevano parte di un’associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Per i magistrati, Capua, pur di arricchirsi, sarebbe arrivata a diffondere il virus negli allevamenti del Nord Italia in modo da causare una epidemia e aumentare così le vendite dei vaccini. Le indagini, inziate nel 2005 con ampio ricorso alle immancabili intercettazioni telefoniche, terminarono 10 anni dopo. Quando la Procura di Roma chiese il rinvio a giudizio per 41 tra ricercatori, funzionari del ministero della Salute e manager di case farmaceutiche. L’inchiesta ebbe, però, il suo momento di gloria un anno prima, allorquando l’Espresso pubblico, con le indagini preliminari ancora in corso. Tutte le carte del procedimento penale “top secret”. “La cupola dei vaccini”, il titolo dello scoop. Nel frattempo il procedimento era stato “spezzettato” per competenza territoriale fra diverse Procure, tra cui quella di Verona che l’altro giorno ha chiesto e ottenuto il proscioglimento degli indagati, fra cui Capua, perchè “il fatto non sussiste”. Appena si era diffusa la notizia dell’indagine, Capua, che era stata anche eletta in parlamento nella fila di Scelta Civica, divenne oggetto di un linciaggio mediatico feroce. Alcuni commenti? “Grandissima zoccola! ” o “Iniettategli a forza il virus! ”. I grillini gli avevano addirittura intimato di dimettersi. Travolta dalla gogna, “la signora dei virus” come venne definita da l’Espresso, lasciò il Parlamento e l’Italia. Trovando ospitalità negli Stati Uniti, dove da qualche settimana dirige un prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida. Una perdita per il paese che che ha visto andar via una delle migliori scienziate attualmente in circolazione, la prima sotto i sessant’anni a vincere il Penn Vet World Leadership Award, il riconoscimento piu importante del pianeta nell’ambito delle discipline veterinarie. Gli americani non si sono fatti influenzare dai carichi pendenti della Capua. Reati che in Italia gli avrebbero impedito di partecipare ad un qualsiasi concorso pubblico, anche ad una semplice selezione per un posto di bidello. La rivista Science aveva fin da subito fatto a pezzi l’indagine. “I documenti non sembrano siano stati revisionati da esperti scientifici”, scrissero. Il dott. Christianne Bruschke, scienziato esperto di patologie veterinarie presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità arrivò a definire le accuse contro Capua “ironiche”. Quando Capua, presentandosi all’università della Florida, disse che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, risposero che conoscevano le accuse e che erano talmente campate in aria da non essere di loro interesse. Evidenziando in questo modo grande considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana dal Corriere, Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, diciamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via il teorema accusatorio, costruito in anni di indagini costose. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Magari anche se abbia svolto “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”, come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua.
La virologa Capua e l'inchiesta rimasta nel cassetto per 7 anni. La scienziata fu interrogata nel 2007. Ecco come un'indagine è diventata un caso kafkiano, scrive Carlo Bonini l'8 luglio 2016 su “La Repubblica”. La vicenda giudiziaria della virologa Ilaria Capua e dei suoi trentanove coimputati accusati di aver trafficato in virus esponendo il nostro Paese a un'epidemia di influenza aviaria per assicurare un posto al sole a un cartello di società farmaceutiche nella corsa ai vaccini, è in una domanda cui, da martedì scorso, nessuno ha saputo o ha avuto voglia di rispondere. E che conviene riproporre. Perché ci sono voluti 12 anni per concludere che non esisteva materia per procedere vista "l'insussistenza del fatto" e, lì dove pure sarebbe esistita, prendere atto che, ormai, i fatti erano prescritti? Ieri, il consigliere laico in quota Forza Italia, Pierantonio Zanettin, ha chiesto al Csm l'apertura di una pratica per "incompatibilità ambientale" a carico del Procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, il magistrato che, di questa storia, è stato il solitario dominus inquirente. E, da ieri, il Procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ha ritenuto di non rendersi disponibile ad alcune domande di Repubblica.Bisogna dunque accontentarsi delle "carte" - circa 20mila fogli - e di qualche data certa. Abbastanza, come vedremo, per correggere qualche ricordo dei protagonisti non esatto e capire dove, come e quando questo affaire si è trasformato nella catastrofe giudiziaria ora sotto gli occhi di tutti. La faccenda ha il suo incipit il 18 marzo 2005. Quel giorno, Robert S.Stiriti, dell'Immigration and Customs Enforcement statunitense, agenzia appartenente all'Homeland Security, informa con una nota protocollata "RM 07PQ03PM0001 (EPA), al capitano Marco Datti, Comandante del Nas dei Carabinieri di Roma, che dall'attività di indagine svolta sull'azienda Maine Biological laboratories nell'ambito di un'inchiesta su un contrabbando di virus tra Stati Uniti ed Arabia Saudita, è emerso che, nell'aprile del 1999, un ceppo del virus dell'influenza aviaria, denominato H9, è stato spedito con corriere Dhl a un impiegato della ditta Merial Italia senza le prescritte autorizzazioni. Quel signore si chiama Paolo Candoli, è un manager Merial, divisione veterinaria del colosso farmaceutico Sanofi e, interrogato dagli americani, patteggia la propria immunità mettendo a verbale quanto dice di sapere sul contrabbando dei virus. I suoi verbali vengono trasmessi nella seconda metà del 2005 ai carabinieri del Nas. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo apre un fascicolo e, partendo proprio dalla figura di Candoli, chiede e ottiene che vengano disposte intercettazioni telefoniche. Il fascicolo prende il numero 24117/2006. Due anni di intercettazioni e indagini convincono i Nas prima e Capaldo poi di aver afferrato il bandolo di un'associazione a delinquere che traffica in contrabbando di virus per consentire ad un cartello di aziende farmaceutiche di acquisire posizioni di vantaggio nella sintesi e vendita dei vaccini. E che di questa associazione snodo cruciale sia Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie con sede a Padova. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota non solo per i suoi studi sul virus dell'influenza aviaria umana H5N, ma per aver reso pubblica, proprio nel 2006, la sequenza genetica del virus. Di più: l'indagine coinvolge il marito della Capua, Richard John William Currie, dipendente dell'altra azienda farmaceutica interessata alla sintesi di vaccini, la Fort Dodge Animal di Aprilia, e altri 38 indagati, tra cui tre scienziati al vertice dell'Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli), funzionari e direttori generali del Ministero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci), alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell'Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell'istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell'università di Milano, Santino Prosperi dell'università di Bologna), e Rita Pasquarelli, direttore generale dell'Unione nazionale avicoltura. Nel 2007, la vicenda, da un punto di vista investigativo, potrebbe dirsi chiusa. E la circostanza è tanto vera che, il 2 luglio di quell'anno, contrariamente a quanto sostenuto nelle interviste rilasciate nei giorni scorsi ("nessuno mi ha mai sentito"), Ilaria Capua viene interrogata da Giancarlo Capaldo, alla presenza dell'avvocato Oliviero De Carolis, che in quel frangente sostituisce l'avvocato Paolo Dondina (oggi l'Espresso pubblicherà sul suo sito il dettaglio di quell'interrogatorio, mentre ieri la Capua non ha dato seguito ai messaggi lasciati da Repubblica). È una circostanza che, al di là del merito della vicenda processuale, prova come, in quel 2007, il Procuratore aggiunto di Roma e gli indagati si muovano su un terreno di cui ormai è stato definito il perimetro. E per il quale è dunque possibile andare rapidamente a una conclusione dell'indagine. Che, invece, non arriva. Il procedimento 24117/2006 entra infatti in un letargo da cui i Nas dei carabinieri provano inutilmente a destarlo con un'ultima informativa nel 2010. Ma senza esito. Nel frattempo, la vita della Capua cambia. Nel febbraio del 2013 viene eletta deputata di Scelta civica. Della sua vicenda giudiziaria nessuno, tranne gli interessati, sa. E persino il nuovo procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ne rimane all'oscuro fino al 2014. Quando di quell'inchiesta, in aprile, dà conto nel dettaglio, anche temporale, il settimanale Espresso e la Capua decide di rivolgersi all'avvocato Giulia Bongiorno, nominata subito dopo la pubblicazione dell'articolo. La Bongiorno sollecita più volte Capaldo a una definizione del procedimento, che, di fatto, è ormai solo un processo di carte per giunta invecchiate di sette anni. Non fosse altro perché delle due l'una. O quelle accuse sono fondate e un'associazione a delinquere di quella pericolosità va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno liberati del fardello. L'avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L'udienza preliminare, nel maggio dell'anno successivo, vede il gup di Roma, Michela Francorsi, dichiarare l'incompetenza territoriale di Roma e "spacchettare il processo" in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l'archiviazione per prescrizione (il gup non si è ancora pronunciato). A Verona, dove la Capua è difesa dall'avvocato.
Traffico dei virus, Capua prosciolta. Ma le intercettazioni svelano il grande business. "Non luogo a procedere" per la virologa padovana. Ma l'inchiesta dei Nas mette in risalto gli affari e i conflitti di interessi celati dietro emergenze sanitarie. E racconta con dati di fatto quanto l’aviaria abbia arricchito Big Pharma, scrive Lirio Abbate il 5 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il giudice per l’udienza preliminare di Verona, Laura Donati, ha ordinato il «non luogo a procedere» per la virologa e deputata di Scelta Civica, Ilaria Capua, e altre dodici imputati accusati a vario titolo di traffico illecito di virus dell’influenza aviaria. L'inchiesta, avviata dai carabinieri del Nas e coordinata dalla procura di Roma, è stata poi trasferita a Venezia. Per i pm della Capitale la virologa doveva rispondere di aver promosso e organizzato con altre persone un'associazione che aveva la finalità di commettere «una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia», ed ancora «per aver utilizzato virus altamente patogeni dell'influenza aviaria, del tipo H9 ed H7N3, di provenienza illecita, al fine di produrre in forma clandestina, senza la prescritta autorizzazione ministeriale, specialità medicinali ad uso veterinario (quale è il vaccino dell'influenza aviaria), procedendo successivamente, sempre in forma illecita, alla loro commercializzazione e somministrazione agli animali avicoli di allevamenti intensivi». In questo modo gli imputati avrebbero «determinando la diffusione non più controllata del virus dell'influenza aviaria negli allevamenti avicoli del nord Italia, con grave pericolo per l'incolumità e la salute pubblica, che determinava, da un lato, il contagio di sette persone tra gli operatori del settore come accertato dall'Istituto Superiore di Sanità attraverso un'indagine epidemiologica, e dall'altro il grave pericolo per la salute derivante dal consumo della carne oggetto della vaccinazione indiscriminata, determinando, quale misura di prevenzione, l'abbattimento di milioni di capi di polli e tacchini, con un considerevole danno al patrimonio avicolo nazionale, calcolato dal Centro regionale epidemiologia veterinaria in 40 milioni di euro». Per il giudice non ci sono i presupposti per il processo chiesto dai pm. Ilaria Capua che tra il 2005 e il 2007 era responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria di Padova, ha lasciato la Camera per un incarico in Florida, insieme al marito Richard John Currie, anche lui imputato. Nell'inchiesta pubblicata da l'Espresso, veniva fuori il business che avrebbero fatto alcuni medici su virus e vaccini. A raccontarlo sono le intercettazioni di cui è protagonista la stessa Ilaria Capua. «Quando uno mi sta sul cazzo deve crepare!», diceva la virologa parlando di una ditta farmaceutica che criticava la sua invenzione, il “Diva”, la prima strategia di vaccinazione contro l’influenza aviaria. L’inchiesta dei pm di Roma in cui la veterinaria era coinvolta insieme al marito, partiva da un'informativa che tirava in ballo altre 36 persone, mettendo in risalto affari e conflitti di interessi celati dietro emergenze sanitarie, raccontando con dati di fatto quanto l’aviaria abbia arricchito Big Pharma. Le conversazioni registrate dai Nas dei carabinieri svelano, fra i tantissimi episodi, gli interventi di Capua sulla Intervet, filiale italiana di un colosso dei farmaci veterinari. I vertici di Intervet si erano mostrati critici sull’efficacia del sistema Diva. Ma la signora dei virus gli avrebbe fatto sapere che nell’Istituto zooprofilattico di Padova era in corso un esperimento su un vaccino prodotto da Intervet: il marchio però sarebbe stato menzionato nel suo studio solo se i responsabili della casa farmaceutica avessero assecondato le sue richieste, tra le quali quella di rivalutare il test Diva. E parlarne bene. E ai manager avrebbe fatto arrivare un messaggio chiaro attraverso un intermediario: «Lei (Capua ndr) non è una persona che si compra con quattro lire». Il ruolo principale nell'inchiesta lo rivestiva Paolo Candoli, manager della multinazionale Mirial, l’uomo al quale venivano aperte le porte del ministero della Sanità per ottenere autorizzazioni. È lui il manager delegato dalla sua ditta a parlare con Ilaria Capua. In particolare quando la Merial è alla ricerca di ceppi virali con i quali avviare la produzione di vaccini, prima ancora di ricevere l’autorizzazione del ministero. Uno dei colleghi della virologa, Stefano Marangon, anche lui coinvolto nell'inchiesta, avvisa Candoli due mesi prima del varo del programma di vaccinazione. Un modo per avvantaggiarlo sulla concorrenza. «Ho parlato con la Capua, non è escluso che lei ce l’abbia, cioè sai cosa fa quella lì comunque?», dice Candoli a una collega parlando di un ceppo virale. «Sicuramente se lo fa mandare lei e poi ce lo rivende a noi». Poi aggiunge: «Purtroppo con la Capua... c’è da pensare di seguire... di dar da mangiare alla scimmia». Il manager della Merial si rivolge alla virologa anche su indicazione di Marangon, perché lei è la responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria e quindi è nella possibilità di sapere con certezza con quale ceppo virale si preparerà il nuovo vaccino. Nello stesso tempo è una delle poche persone che in ambito internazionale ha la possibilità di farsi inviare, in breve tempo, un ceppo virale da altri istituti «senza la prescritta autorizzazione ministeriale». Ilaria Capua parla con un manager della Intervet e afferma che «le è venuto in mente un modo per far salvare la faccia a quelli della Intervet, in modo tale da prenderli “per le palle”». A tal proposito dice al manager di riferire ai propri capi «che a breve a Cambridge verrà presentato uno studio dove lei ha generato un H7-N5 e che l’H-N5 è la neuroamminidasi più rara in assoluto, quindi quelli della Intervet potrebbero salvarsi la faccia dicendo che sono interessati al virus per fare il vaccino, in modo tale poi da poter iniziare nuovamente a trattare sul test Diva, per il quale loro (Capua, Marangon, Cattoli) stanno per chiudere con la Merial e la Fort Dodge, nonché con il governo olandese». Poi prosegue dicendo che «in virtù di ciò lei inserirà il nome del vaccino della Intervet sullo studio delle anatre». Per gli investigatori Capua avrebbe utilizzato «lo studio da lei effettuato per indurre la ditta Intervet ad ammorbidire la propria posizione critica nei confronti del test Diva e che, in caso positivo, quale controparte, pubblicherà sul proprio studio il nome del vaccino della ditta Intervet». Quando i Nas arrivano nell’istituto per sequestrare un vaccino che non avrebbe avuto le carte in regola per entrare in commercio, e viene coinvolta la Capua, lei inizia a preoccuparsi dell’indagine. Il padre, stimato avvocato di Roma, le raccomanda espressamente di non fare riferimento alcuno al contratto stipulato con la Merial per lo sfruttamento del brevetto Diva. Ilaria Capua sostiene che «la vicenda dell’influenza aviaria è una storia molto complicata e anche se sono stata intercettata, le carte dimostreranno che è stato fatto tutto alla luce del sole». Da una delle registrazioni emerge uno spaccato degli interessi in ballo. Parla alla madre della proposta di lavoro ricevuta da una fondazione della Florida, all'epoca e pure oggi, e osserva che «sarebbe un problema perché la fondazione non ha finalità commerciali» mentre, al contrario, in quel periodo lei ha una parte attiva e ha «una buona attività commerciale per la vendita dei reagenti diagnostici che le consentono di guadagnare in un anno ben 700 mila euro». Per gli investigatori questa affermazione farebbe riferimento ai ricavi che Capua, insieme a Marangon e Giovanni Cattoli, stavano ottenendo dalla vendita del test Diva, per il quale è stato stipulato un contratto con le ditte Merial, Fort Dodge, e Paesi stranieri.
Il business segreto della vendita dei virus che coinvolge aziende e trafficanti. Ceppi di aviaria spediti in Italia per posta. Accordi tra scienziati e aziende. L'inchiesta segreta dei Nas e della procura di Roma ipotizza un vero e proprio traffico illegale. E nel registro degli indagati c'è un nome eccellente: quello di Ilaria Capua, virologa di fama e deputato. Che respinge le accuse, scrive Lirio Abbate il 3 aprile 2014 su “L’Espresso”. Dentro, in una confezione termica, alcuni cubetti di ghiaccio molto speciali: contengono uno dei virus dell’aviaria, l’epidemia che dieci anni fa ha scatenato il panico in tutto il pianeta. Quando il postino lo consegna, il destinatario è assente: è il manager italiano di una grande azienda veterinaria. La moglie lo chiama al telefono: «Cosa devo farci?». «Mettilo subito nel congelatore». Sembra il copione di un film apocalittico, con la malattia trasmessa da continente a continente scavalcando tutti i controlli. Invece è uno degli episodi choc descritti in un’inchiesta top secret della procura di Roma sul traffico internazionale di virus, scambiati da ricercatori senza scrupoli e dirigenti di industrie farmaceutiche: tutti pronti ad accumulare soldi e fama grazie alla paura delle epidemie. Questa indagine svela il retroscena dell’emergenza sanitaria provocata dall’aviaria in Italia. E si scopre che i ceppi delle malattie più contagiose per gli animali e, in alcuni casi, persino per gli uomini viaggiano da un Paese all’altro, senza precauzioni e senza autorizzazioni. Esistono trafficanti disposti a pagare decine e decine di migliaia di euro pur di impadronirsi degli agenti patogeni: averli prima permette di sviluppare i vaccini battendo la concorrenza. L’indagine è stata aperta dalle autorità americane e poi portata avanti dai carabinieri del Nas. Perché l’Italia sembra essere uno snodo fondamentale del traffico di virus. Al centro c’è un groviglio di interessi dai confini molto confusi tra le aziende che producono medicinali e le istituzioni pubbliche che dovrebbero sperimentarle e certificarle. Con un sospetto, messo nero su bianco dagli investigatori dell’Arma: emerge un business delle epidemie che segue una cinica strategia commerciale. Amplifica il pericolo di diffusione e i rischi per l’uomo, spingendo le autorità sanitarie ad adottare provvedimenti d’urgenza. Che si trasformano in un affare da centinaia di milioni di euro per le industrie, sia per proteggere la popolazione che per difendere gli allevamenti di bestiame. In un caso, ipotizzano perfino che la diffusione del virus tra il pollame del Nord Italia sia stata direttamente legata alle attività illecite di alcuni manager. Il traffico di virus è stato scoperto dalla Homeland Security, il ministero creato dopo le Torri Gemelle per stroncare nuovi attacchi agli Stati Uniti. Nel loro mirino è finita un’attività ad alto rischio: l’importazione negli States di virus dall’Arabia Saudita per elaborare farmaci, poi riesportati nel Paese arabo. Il presidente e tre vice presidenti della compagnia farmaceutica incriminata per l’operazione sono stati condannati a pene pesanti. Fondamentale per l’indagine è la testimonianza di Paolo Candoli, manager italiano della Merial, la branca veterinaria del colosso Sanofi: l’uomo ha patteggiato l’immunità in cambio delle rivelazioni sul contrabbando batteriologico. Ai detective ha descritto come nell’aprile 1999 si fece spedire illegalmente a casa in Italia un ceppo dell’aviaria tramite un corriere Dhl. A procurarlo era stato il veterinario statunitense di un allevamento di polli saudita, condannato negli Usa a 9 mesi di prigione e 3 anni di libertà vigilata per “cospirazione in contrabbando di virus”. Chiusi i processi, nel 2005 l’Homeland Security ha trasmesso i verbali di Candoli ai carabinieri del Nas. Gli investigatori sin dai primi accertamenti si rendono conto di avere davanti uno scenario da incubo. Infatti, sottolineano i carabinieri, l’arrivo del virus in casa Candoli coincide con l’insorgenza nel Nord Italia, a partire proprio dal 1999, della più grossa epidemia da virus H7N3 di influenza aviaria sviluppatasi negli allevamenti in Italia e in Europa. Già all’epoca le indagini condotte dal Nas di Bologna avevano evidenziato l’esistenza di una organizzazione criminale dedita al traffico di virus ed alla produzione clandestina di vaccini proprio del tipo H7: antidoti che in quel momento venivano somministrati clandestinamente ai polli degli stabilimenti italiani. L’inchiesta dell’Arma si allarga in poche settimane, seguendo le intercettazioni disposte dai magistrati di Roma. Candoli nella capitale sa come muoversi: sponsorizza convegni medici organizzati da professori universitari, regala viaggi e distribuisce consulenze ben pagate e questo gli permette di avere “corsie preferenziali” al ministero della Salute per ottenere autorizzazioni, riesce a far cambiare parere alla commissione consultiva del farmaco veterinario per mettere in commercio prodotti della Merial. Tra i suoi referenti più stretti c’è Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, attualmente deputato di Scelta Civica e vice presidente della Commissione Cultura alla Camera. È nota per i suoi studi sul virus dell’influenza aviaria umana H5N1: la rivista “Scientific American” l’ha inserita tra i 50 scienziati più importanti al mondo, “l’Economist” due anni fa l’ha inclusa tra i personaggi più influenti del pianeta. Fino all’elezione alla Camera, era responsabile del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale (Izs) delle Venezie con sede a Padova. E con lei anche altri suoi colleghi della struttura veneta sono finiti nel registro degli indagati. Il risultato degli accertamenti del Nas ha portato il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, a ipotizzare reati gravissimi. La Capua e alcuni funzionari dell’Izs sono stati iscritti nel registro degli indagati per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, all’abuso di ufficio e inoltre per il traffico illecito di virus. Stessa contestazione per tre manager della Merial. Secondo le conclusioni dei carabinieri, l’azione di Ilaria Capua con la complicità di altri funzionari dell’istituto di Padova avrebbe contribuito a creare un cartello fra due società, la Merial e la Fort Dodge Animal, escludendo le altre concorrenti, nella vendita di vaccini veterinari per l’influenza aviaria. Il marito della Capua, Richard John William Currie, lavorava alla Fort Dodge Animal di Aprilia, attiva nella produzione veterinaria. Anche Currie è indagato insieme ad altre 38 persone. Nell’elenco ci sono tre scienziati al vertice dell’Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli); funzionari e direttori generali del mistero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci); alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell’Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell’istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell’università di Milano, Santino Prosperi dell’università di Bologna); coinvolta anche Rita Pasquarelli, direttore generale dell’Unione nazionale avicoltura. I fatti risalgono a sette anni fa ma molti degli indagati lavorano ancora nello stesso istituto. CONTRABBANDIERI. Il capitolo più inquietante è quello del traffico di virus, fatti entrare in Italia nei modi più diversi e illegali. Le intercettazioni telefoniche dei Nas di Bologna e Roma sono definite allarmanti: secondo gli investigatori c’è stato il serio rischio di diffondere le epidemie. Oltre ai plichi consegnati a domicilio con il virus congelato in cubetti di ghiaccio, c’erano altri sistemi di contrabbando. Candoli ne parla con alcuni colleghi della Merial di Noventa Padovana. Fra i metodi per importare in Italia agenti patogeni, c’era anche quello di nascondere le provette fra i capi di abbigliamento sistemati in valigia: in questo modo, spiegano, «sembrano i kit del piccolo chimico» e non destano sospetti in caso di controlli. Il manager rivela inoltre che i virus non sono stati fatti entrare illegalmente solo in Italia, ma anche in Francia per la realizzazione di vaccini nei laboratori della Merial a Lione. «In Francia comunque non ci sono mai stati problemi per importare i ceppi», dice Candoli, e aggiunge che lì hanno fatto arrivare anche virus esotici. Un altro dirigente dell’azienda spiega al telefono: «Ascolta Paolo, noi facciamo delle cose, molto più turche nel senso di difficoltà logistica, tu sai che facciamo il Bio Pox con il Brasile per cui figurati se ci fermiamo davanti a un problema che è praticamente un terzo di quello che facciamo con i brasiliani». Secondo gli investigatori del Nas, anche la Capua e l’Istituto Zooprofilattico sono coinvolti nel traffico illegale: la scienziata sarebbe stata pagata per fornire agenti patogeni. In una conversazione registrata è la stessa virologa a farne esplicito riferimento, sostenendo di aver ceduto ceppi virali in favore di un veterinario americano. Per i carabinieri, da alcune intercettazioni “appare evidente come il contrabbando dei ceppi virali dell’influenza aviaria, posto in essere dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nelle persone di Ilaria Capua, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli, con il concorso del marito della dottoressa Capua, Richard William John Currie, costituisca di fatto un serio e concreto pericolo per la salute pubblica per il mancato rispetto delle norme di biosicurezza”. Mettere le mani sui ceppi patogeni nel modo più rapido possibile, evitando la burocrazia sanitaria e le misure di sicurezza, è fondamentale per essere i primi a inventare e commercializzare gli antidoti. Nel caso del virus H7N3 sulla base di un’intercettazione gli inquirenti ritengono che il ceppo sia stato fornito da Ilaria Capua. Una dirigente della Merial parla con Candoli e gli dice che sarebbe stato comprato a Padova, «lo pagai profumatamente come tutti gli altri ceppi che abbiamo comprato da quella... ». Per i Nas “testimonia in maniera esplicita la condotta corruttiva di Capua”. Gli interlocutori sottolineano spesso i modi decisi della scienziata nelle questioni economiche. E lei stessa non nasconde al telefono di aver effettuato in passato consulenze che le avrebbero fruttato un guadagno giornaliero oscillante fra i mille e i millecinquecento euro. La donna racconta che quando è andata in Giappone si è fatta pagare in nero quattromila euro al giorno, tutti cash, così si è comprata il divano e l’armadio. «L’ho fatto perché, ti spiego, un consultant normale prende tipo, dai mille ai millecinquecento euro al giorno, e io più volte l’ho fatto, tipo per le mie like...» Poi spiega che si è fatta portare in giro con l’aeroplanino e di essersi fatta pagare più volte. Contattata da “l’Espresso”, Ilaria Capua conferma di conoscere Candoli, «ma di non aver mai venduto ceppi virali. Sono dipendente di un ente pubblico e non vendo nulla personalmente». E spiega: «I ceppi virali che si isolano in istituto sono di sua proprietà e io non ho venduto nulla a nessuno». Subito dopo la produzione del medicinale, in provincia di Verona scatta la vaccinazione d’emergenza per l’aviaria: il ministero della Sanità autorizza proprio la Merial a fornire i farmaci. Gli investigatori fanno notare che pochi mesi prima, quando erano comparsi i focolai di un virus del tipo H7N1 negli allevamenti di polli di Lombardia e Veneto, il ministero aveva bloccato un’altra ditta, perché fabbricava il farmaco all’estero e non aveva spiegato l’origine del ceppo. Invece nessuno fa storie alla Merial, “nonostante questa avesse prodotto il vaccino in laboratori a Lione”. La Capua e i colleghi Marangon e Cattoli, lavorando all’Izs delle Venezie scoprono un sistema che permette di individuare gli animali infetti. È un risultato molto importante, che diventa la strategia di riferimento della Fao e dell’Unione Europea per contrastare l’influenza, che dopo i volatili sembra minacciare anche gli umani. Lo chiamano Diva e ne registrano il brevetto. Le intercettazioni rivelano che firmano un contratto di esclusiva per cederlo a Merial e Fort Dodge. Secondo la ricostruzione degli investigatori, intorno a Diva la Capua e i suoi partners riescono a costruire grandi affari, chiudendo accordi internazionali, compresi quelli con i governi di Romania e Olanda. Questo è un capitolo controverso dell’indagine. Per gli inquirenti i tre scienziati sono funzionari pubblici perché dipendenti dell’Istituto zooprofilattico e quindi stipulare un contratto con Merial “appare del tutto indebita”, come “indebita appare la registrazione del brevetto”, perché il kit per il test Diva è stato realizzato “nell’ambito di un’attività istituzionale”. Il contratto con le due aziende viene considerato “del tutto illecito e contrario ai doveri di ufficio”: il 70 per cento delle royalties andrà, attraverso lo Zooprofilattico di Padova, ai tre funzionari, mentre solo il 30 rimarrà all’Istituto. Inoltre la stipula del contratto tra le due aziende e l’Izs, con la cessione di tutti i diritti sul brevetto, per gli investigatori costituisce una sorta di cartello che taglia fuori le altre ditte farmaceutiche. Dice la virologa al suo avvocato: «Se il brevetto viene concesso, alle altre ditte, scusa la volgarità che non si confà a una signora, tanto più citata dal Sole24Ore, gli facciamo un culo che non la smette più». Adesso a “l’Espresso” spiega: «Abbiamo ceduto all’Istituto i diritti di sfruttamento del brevetto Diva e per questo, i tre inventori ad oggi non hanno mai preso alcuna somma di denaro. Le royalties sono negoziate dall’Istituto». Il giro d’affari che scaturisce da Diva è così forte che, come rivelano le conversazioni intercettate, spinge il marito della Capua a dedicarsi a tempo pieno a questa nuova attività, che chiamano “The Company”: l’uomo conclude affari in tutto il mondo, meritandosi il soprannome di “globale” e rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra la struttura pubblica veneta e le aziende farmaceutiche. Capua in una conversazione con Marangon sostiene che Richard gli ha detto di scrivere che «hanno la disponibilità di un baculo virus N1 italiano, mentre quello asiatico lo stanno “cloney”» ossia clonando ed appena sarà disponibile glielo daranno. Marangon replica: «Ma va bene, 50 mila per due, gli diamo il coso e buona notte al secchio». È una «svolta affaristico-commerciale»: «Ho parlato dell’affare con i romeni a Richard, il quale si è eccitato come una scimmia. Quando ha saputo che l’ordine era da un milione e 300 mila euro gli è venuta una mezza paralisi e ha detto che adesso svilupperà un business plan». L’emergenza aviaria avanza nei continenti, la paura passa dalle aziende di polli alla salute delle persone. E per la “Company” i contratti si moltiplicano. Marangon sembra preoccupato, dice che bisogna usare prudenza, lasciando intendere che “vi siano tra l’altro accordi paralleli e non ufficiali con alcuni personaggi delle autorità sanitarie romene”. Di questo sembra essere convinta anche Capua, che comunque vede un mercato in espansione «finché esiste gente come i romeni». La virologa afferma che ai romeni può essere data qualunque cosa: il timore dell’epidemia sta creando un mercato nuovo dove alcuni paesi come Romania, Turchia o stati del Medio Oriente e dell’Africa devono trovare a tutti i costi sistemi per contenere il rischio di contagio. E la struttura di Padova diretta dalla Capua ha le credenziali migliori: coordina progetti di ricerca finanziati dal ministero della Salute, dalla Ue e da altri organismi internazionali come la Fao. Uno dei capitoli più inquietanti dell’inchiesta condotta dai Nas ricostruisce la diffusione dell’allarme sul pericolo di contagio umano per l’aviaria nella primavera 2005. Gli inquirenti hanno esaminato i documenti ufficiali e le iniziative delle aziende, sostenendo che l’emergenza «sia stata un problema più mediatico che reale». Dietro il paventato rischio di epidemia per il virus H5N1 – scrivono i carabinieri – si potrebbe celare una “strategia globale” ispirata dalle multinazionali che producono i farmaci. Nel dossier investigativo vagliano il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, la massima autorità del settore, che in un documento del 2004 raccomandava di fare scorte di Oseltamvir (Tamiflu) prodotto dalla Roche. Dopo un anno anche in Italia cominciano a venire pubblicati articoli sull’epidemia in arrivo, “inevitabile ed imminente”. Si consiglia il vaccino per proteggersi comunque dall’influenza stagionale e l’uso di farmaci antivirali, incluso il Tamiflu, contro l’aviaria: in poco tempo le vendite del prodotto Roche aumentano del 263 per cento. Molte delle informazioni allarmistiche – sostengono i carabinieri – sono emerse da un convegno tenuto a Malta nel settembre 2005, sponsorizzato dalle aziende che confezionano vaccini contro l’influenza e farmaci antivirali. Due settimane dopo, c’è una correzione di tiro. L’Istituto Superiore di Sanità afferma che un ceppo virale di H5N1 “che potrebbe scatenare la prossima pandemia influenzale globale mostra di resistere al Tamiflu”, che tanti paesi cominciavano ad accumulare. Ed ecco la svolta, sottolineata da diversi articoli: «Fortunatamente, il ceppo virale non è però risultato resistente all’altro antivirale in commercio, Relenza della Glaxo». I carabinieri sostengono che l’allarme è stato alimentato nonostante di fatto non stesse accadendo nulla. Anche Candoli al telefono definisce la diffusione delle notizie «una forma di vero e proprio terrorismo informativo» ma poi commenta positivamente la vendita in un solo mese di un milione e mezzo di dosi di vaccino anti-influenza prodotto dalla sua azienda: «Anche certe industrie farmaceutiche che producono vaccini umani hanno un business mica da noccioline sebbene non ci sia nulla di diverso rispetto a sei mesi, un anno o addirittura cinque mesi anni fa. L’unica cosa di diverso è che adesso stanno ragionando sulla possibilità che vi sia una pandemia, che non è scritta da nessuna parte».
Maria Luisa Agnese per corriere.it il 22 maggio 2020. Ilaria Capua è una delle nuove protagoniste della comunicazione post coronavirus, con la sua competenza e il suo sorriso ha conquistato le folle incerte a cui regala piccole sicurezze pur ripetendo spesso: attenzione che ne sappiamo poco. Eppure già nel 2003 ai tempi dell’aviaria aveva fatto parecchio per distinguersi nel mondo della scienza e della virologia. Aveva per prima sparigliato le carte del chiuso mondo accademico e aveva detto che per progredire nella ricerca bisognava mettere i dati in comune. Creando parecchio sconcerto nella comunità accademica ma anche guadagnandosi una nomination come Revolutionary mind per la rivista americana Seed diventando già allora star internazionale. Poi erano venuti tempi difficili, e Ilaria per continuare la ricerca a modo suo ha lasciato l’Italia ed è andata in Florida, a dirigere il centro di eccellenza One Health dell’Università, inventandosi un progetto di Salute circolare con la mente sempre in cerca di nuovi stimoli. È da qui, dalla sua casa di Gainesville, che Ilaria risponde alle chiamate dall’Italia nel piccolo dehors davanti al quale ha costruito il suo orto immaginario: piante aromatiche da una parte, basilico, salvia, menta, rosmarino, peperoni, zucchine con fiore, limoncini, pomodori mediterranei dall’altra. Le erbe funzionano bene, e difatti la figlia le ha appena preparato una pasta con salsa trapanese (pomodori, aglio, mandorle e appunto basilico), mentre le altre stentano. «Gli ortaggi non mi vengono tanto bene, ma li raccolgo lo stesso e mio marito e mia figlia li buttano di nascosto. Lo curo mezz’ora al giorno, produce poco e non è perfetto. Ecco perché lo chiamo orto immaginario: è un work in progress, un gioco, e rilassa». E sempre dalla Florida licenzia le copie del nuovo libro, Il dopo. Il virus che ci ha costrettoa cambiare mappa mentale , in uscita in Italia per Mondadori editore, dove racconta in un puzzle quasi romanzesco le avventure di virus, pipistrelli e pangolini, e spiega come, se viene sconvolto il loro habitat, possano obbligarci a ripensare le nostre vite. Oggi tutti di fronte al Covid-19 applaudono e invocano, giustamente, la condivisione dei dati.
Una rivincita per lei?
«Certo i dati vanno condivisi e la trasparenza è fondamentale, ci mancherebbe. Ma io non parlo di rivincite. Anzi, sono spaventata dal fatto che tutta questa grande visibilità non mi si rivolga contro. Magari diranno che il coronavirus l’ho creato io. Per questo sto in guardia. Sono una guerriera, ma non mi illudo e aspetto la prossima sberla».
Anche perché l’ultima sberla non era stata leggera.
«Mi ero preparata per una vita, avevo studiato e lavorato per tanti anni, per far bene questo lavoro utile in emergenza di pandemia. Ho cercato di espandere questa visione a Padova, dove ho lavorato per oltre vent’anni. Volevo portare un approccio interdisciplinare allo studio del rapporto fra virus e ospite, alla Torre della Ricerca della Città della Speranza. Purtroppo non andò in porto. Ero pronta a lasciare il Paese. D’improvviso, proprio in quel periodo, mi telefona Mario Monti allora premier e mi chiede di entrare in Parlamento; io per spirito di servizio mi lancio ma restando sui miei temi, ricerca, Ebola, influenza, antibiotico, resistenza: sugli argomenti che conosco. Poi è arrivato l’ Espresso , che con un’accusa pesante e falsa mi ha strappato la reputazione di dosso, mi ha trasformato in un essere criminale. Ho dovuto gestire, difendermi, ricostruire e ricostruirmi».
Anche facendosi aiutare da psicologi e coach.
«Quando sei in quelle condizioni prendi sostegno dove lo trovi. Ti fai aiutare dalla gente. La mia coach, Luisa Bagnoli, l’ho incontrata a un evento della Deutsche Bank. Strana e imprevedibile la vita, proprio quando finalmente è arrivata la completa riabilitazione, io avevo già dovuto scegliere un nuovo Paese, dove ho inventato una nuova professione che non facevo in Italia, ho sviluppato un centro che ruota intorno alla Salute circolare. E ora, dopo 4 anni che sono negli Stati Uniti, mi ritrovo a fare quello che avrei dovuto fare se fossi rimasta in Italia. In ogni caso l’ho fatto perché ho capito che ce ne era bisogno. So bene che non c’è gloria che tenga. Siamo tutti fragili».
Come il nostro Pianeta? Abbiamo oltrepassato il limite e la Natura ci manda segnali? È un po’ come un intervallo, una messa in mora dell’Antropocene, l’età geologica di dominio dell’uomo sulla Natura?
«Certo, e Madre natura ci salverà, ci dice che non va più bene così e ci sta dando consigli per intervenire, per progettare il mondo nuovo. Dai che ci riesci, ci dice, c’è la tecnologia, è come se dicesse: “Vienimi dietro. Seguimi. Guardami, com’è cambiata l’aria, guarda le acque più pulite...”. Vedo quei grafici che mostrano l’area di Wuhan e li trovo bellissimi: Madre Natura si sta risvegliando, è come se si stesse stiracchiando. Con Ilaria Borletti, vicepresidente del Fai, stiamo lanciando un progetto per studiare la resilienza della natura, andiamo a misurare come la natura è più viva ora dentro le ville e i giardini storici, mettiamo delle telecamerine sulle spalle delle api, per capire i loro movimenti di pollinazione, ma anche la qualità del suolo, dell’acqua, anche per coinvolgere la persone che si interessino alla scienza e alla Natura che è loro Grande casa. Homo Sapiens non si è preso la responsabilità, ha trattato il suo ambiente come un interesse secondario e ha creato un sistema perfetto per la diffusione di questo patogeno in tutto il mondo. Ora bisogna rovesciare la prospettiva, non più sfruttare il pianeta ma esserne i guardiani. E chi lo deve fare se non l’Homo sapiens, che ha un cervello. Ci deve pensare il lombrico?».
È una crisi di cui è responsabile l’uomo.
«È una crisi biologica. È la pandemia che provoca uno stress test per l’economia, come avevo immaginato da subito con hashtag #PandemicsCost, ma nessuno mi ha dato retta. Homo Sapiens ha provocato tutto ciò con la sua noncuranza, arroganza, cupidigia, avidità, ingordigia. I credenti si fanno perdonare dal loro Dio. Se fanno del male, fanno peccato, poi chiedono perdono».
E noi come facciamo a farci perdonare da Madre Natura?
«La pandemia è la prova che non possiamo strafare e permetterci di “non essere perdonabili” da Madre natura, perché ci estingueremmo. Bisogna progettare con lei una coesistenza virtuosa, civile. Costruire una mappa mentale guidata da quello che Covid-19 ci ha forzato a fare. Un futuro meno di corsa, con meno macchine e meno aerei. Io per esempio non farò più 15 voli intercontinentali ogni due anni».
Aveva ragione Greta, dunque?
«Tutti noi viaggiatori ping pong sapevamo da tempo che avevamo sviluppato un sistema al limite della sostenibilità. Al di là di Greta che è stata una formidabile catalizzatrice, ora il problema è quello di nutrire il Pianeta, investire in risorse alimentari a misura non di uomo, ma del Pianeta. Il cambiamento climatico ed altre grandi sfide vanno viste nel loro insieme, non a pezzi. E per fortuna che abbiamo la tecnologia che ci tiene connessi. Cambiare mappa mentale vuol dire anche capire che faremo più call su Zoom, che sono più efficienti, non si perde tempo, si rispettano gli orari: è un altro modo di lavorare. Bisogna metterlo a fuoco e sfruttarlo al massimo. Tagliare, sostituire quello che è sostituibile. Meno movimento materiale, più connessione immateriale. Per esempio io oggi, 22 maggio, sarei dovuta essere in Italia, è stato cancellato il volo, ma sono lo stesso con voi che mi leggete. Sono le meraviglie che ci ha aperto la tecnologia. Si può telefonare gratis in tempo reale. Io ricordo ancora il duplex, e mia madre che telefonava a mio padre una volta al mese, quando lui era a New York. Mentre oggi fai una foto e la fai arrivare nella tasca di un altro in un’altra parte mondo. È vero, facciamo anche sapere tutto quello che pensiamo attraverso i nostri comportamenti sui social. In compenso tra un po’ ci scatteremo immagini del pensiero, credo».
Nella ripartenza, dunque, vita tutta nuova? Non tutti sono convinti.
«La pandemia ci ha dimostrato che lo possiamo fare. E che possiamo avere una vita professionale di livello anche con i pantaloni da yoga e mezzo trucco... Esiste un mondo di mezzi busti che prima non esisteva. È già tutto nuovo. Qui in Florida ormai tutta la ristorazione è take away, con tavolini fuori. Approfittiamone, visto che per fortuna non sarà un’ecatombe: Madre natura o il Padreterno non ci hanno mandato un virus altamente mortale che uccide i bambini, è un nemico che dobbiamo gestire insieme all’inquinamento, allo spreco, alla salute nel suo complesso. Insomma dovremo conviverci, come con l’influenza».
E sembra risparmiare di più le donne.
«Questo virus ci ha fatto scoprire nuove fragilità e dispiace che una generazione di personaggi che ci ha portati fin qui sta cadendo vittima di questo nemico invisibile. Mentre sembra che questa patologia colpisca in maniera meno aggressiva le donne - paradossalmente considerate da sempre più fragili».
Saranno loro le protagoniste della nuova stagione?
«Agili, le donne sono agili e smart di natura. Altrimenti Madre natura non le avrebbe rese cosi preziose da essere il vero collo di bottiglia alla perpetuazione della specie. Ovvero, non c’è tecnica artificiale che possa portare il prodotto del concepimento da una cellula a un bambino. Ci vuole l’utero materno. E poi sicuramente la resilienza aiuta, e le donne abituate a gestire organizzazioni complesse multilivello, in famiglia, sul lavoro e nello studio, con velocità e abilità facili, possono diventarlo, protagoniste. Se fosse la Natura a decidere ripopolerebbe almeno 50/50, perché sono meno a rischio di sviluppare la malattia grave dei loro coevi».
Più saggi e sagge a seguire la Natura anche qui.
«E noi dobbiamo seguirla con le nostre Intelligenze collettive. È un percorso che ho cominciato 15 anni fa, piantando semi e iniziative e credo che sia arrivato il momento di raccogliere. Oggi si sta risvegliando un movimento trasformativo dal basso, sto raccogliendo centinaia di ricercatori di altissimo livello e di diverse discipline, perché questa è una “malattia delle città”, legata ai trasporti e all’ambiente: a Milano e in Lombardia non sarà mica stata colpa solo del servizio sanitario. C’è tutta una Rete intorno alle città lombarde molto attiva, con una popolazione che si muove in continuazione. I raggruppamenti di massa sono a rischio perché prevedono la vicinanza fisica di persone che potrebbero essere infette. Ne basta una. Il coronavirus non ha le ali. Si sposta con le persone e qui ci è arrivato con gli aerei, non con una scatola di Amazon. Forse bisognerebbe studiare per rinnovare i treni con comparti difettosi, con tutta quella gente ammassata ogni giorno, e sarebbe una buona idea. E con questo movimento, che nasce in collaborazione con il Cern di Fabiola Gianotti (che mette a disposizione le infrastrutture e il potere di calcolo), sta partendo una meravigliosa sfida di ricerca. Direi che è una ricerca “populista” perché qui ognuno si mette in gioco in prima persona, e alla fine scavalca il barone. Qui uno vale uno. E pancia comanda».
Come è stata la quarantena dall’altra parte del mondo?
«Difficile, ma anche un tempo regalato in cui mi sono capitate due cose che voglio raccontare. Per me è stato fantastico poter seguire in questa convivenza stretta e imprevista mia figlia Mia che ha 15 anni, sta per compierne 16, a giugno. Un’adolescente che come tutti gli adolescenti da bruco sta diventando una pupa e uscirà da questa esperienza in uno stadio più avanzato di metamorfosi. È stato un dono».
E l’altra cosa?
«Il rumore per me magico della macchina per cucire, ta-ta-ta, il rumore dell’infanzia. Un’amica aveva un esemplare di cui doveva sbarazzarsi, io l’ho accolto volentieri, non sapendoci far niente ho cominciato con la cosa più semplice: le presine da cucina, indispensabili per non bruciarsi. Non sono brutte, anche se dovevano essere tonde e invece mi sono venute quadrate, rosse da una parte, viola dall’altra, gialle, blu... c’è anche un modello che ho chiamato signora di campagna, piena di fiori da entrambe le parti. Le ho chiamate rose quadrate, perché sono così, come tutte noi. Pilastri della società che hanno tirato fuori due marce in più».
Aggressivo e ignorante, uguale: giornalismo, scrive Piero Sansonetti l'8 luglio 2016 su "Il Dubbio". Magari voi non ci crederete e penserete che la mia furia garantista mi porta a vedere le lanterne dove invece ci sono solo delle piccole lucciole. E invece quella che sto per raccontarvi è la pura verità: sull’«Espresso» on line c’è un articolo, firmato dal giornalista Lirio Abate, nel quale si sostiene che la scienziata Ilaria Capua - totalmente prosciolta l’altro giorno dall’accusa di traffico di virus che le ha rovinato vita e carriera - in realtà è colpevole - esattamente come gli untori dei quali parla “La colonna Infame” di Manzoni - perché così dicono le intercettazioni. Dopodiché, se provate a leggere l’articolo di Abate, non è che si capisca niente, come spesso succede a chi si trova di fronte a questi articoli pieni di misteriose intercettazioni e vuoti di grammatica e sintassi. Si capisce solo che il giornalista, invece di chiedere scusa a una poveretta che è stata travolta dalle calunnie, ha speso molti soldi, ha dovuto rinunciare al seggio in Parlamento e a varie occasioni professionali. E poi è fuggita all’estero perché non sopportava più l’aria fetida del forcaiolismo italiano... invece di chiedere scusa e ammettere che quella copertina dell’Espresso di un paio d’anni fa («Trafficanti di virus», a caratteri cubitali) era una boiata, cosa fa? Insiste, denigra, infanga, con quel metodo da 007 deviati che proprio non fa nessun onore al giornalismo italiano. Non è la prima volta che da queste colonne poniamo il problema. Possibile che la casta dei giornalisti, che è forse la casta più arrogante (ma anche parecchio ignorante) che c’è in Italia, non possa mai essere messa in discussione? Possibile che di fronte a un infortunio professionale così grave, come quello di avere attribuito reati che non si era nemmeno sognata di commettere a una delle maggiori scienziate italiane, nessuno senta il dovere, almeno, di ammettere l’errore e di provare in qualche modo a riparare? Noi giornalisti ci sentiamo al di sopra di ogni sospetto, insindacabili, invincibili e mandati da Dio per sferzare i cattivi. E riteniamo di avere, più ancora dei magistrati, il diritto di sparare valanghe di escrementi contro chi ci capita a tiro. Che giornalismo è, e che credibilità può avere, se non è capace di rispondere dei suoi errori, e se considera la forma massima di letteratura la copiatura (senza neanche messa in bella) delle intercettazioni ottenute da qualche inquirente che ha voglia di ingraziarsi (o di rovinare qualcuno)? Purtroppo è così. I quotidiani italiani (sui quali una volta scrivevano Scalfari e Jannuzzi, Stille e Cavallari, Levi e Sciascia e Calvino, e Montanelli e Barzini) ora sono pieni di articoli lunghissimi realizzati esclusivamente con la copiatura della carte sgrammaticatissime e con la firma in fondo. Talvolta la firma è anche prestigiosa.
Vogliamo rassegnarci a questo? L’impunità (dei giudici) è l’origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti l'8 luglio 2016 su "Il Dubbio". Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo “Il Fatto”. E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la “chimica” (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due “elementi” così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell’indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il “Fatto” è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all’indipendenza che fonda quella autolimitazione dell’indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull’indipendenza dal potere la propria – volontaria - rinuncia all’autonomia, e cioè all’indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il “Fatto”. E si auto-colloca in una posizione di subalternità all’ideale - quasi religioso – del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l’hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l’Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell’aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). “Il Fatto” però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l’accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c’è assoluzione. Per capirci, c’è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all’imputato di rinunciare alla prescrizione e così si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi – ovviamente – si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c’era e dunque era doveroso svolgere l’inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa «Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi». In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell’indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell’obbligatorietà dell’azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent’anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l’unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il “Corriere della Sera” parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la “Stampa” ha calcolato in 7000 all’anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall’Anm?
Il caso Ilaria Capua: il merito di sapere chiedere scusa, scrive “Il Corriere del Giorno il 9 luglio 2016. Come fecero i radicali di Pannella nel caso Leone, ora i grillini dovrebbero ritrattare quanto hanno detto contro la scienziata ingiustamente perseguitata dalla giustizia. Storie di malagiustizia all’ italiana. Che accadono anche in Procura a Taranto….di Paolo Mieli. L’Italia ha scarsa considerazione per la scienza. Ne è prova l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus dell’aviaria e che, come ha raccontato ieri sul Corriere Gian Antonio Stella, di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte “al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia”. Dopo essere stata accusata praticamente di tentata strage, per ventiquattro mesi fu pressoché ignorata dai giudici. Per essere infine prosciolta perché “il fatto non sussiste”. Ilaria Capua ha subito un torto dal sistema giudiziario del suo Paese. E non solo da quello. Ma qui da noi se uno scienziato subisce un’ingiustizia, sia pure un sopruso più che evidente, nessuno, possiamo starne certi, si sentirà in dovere di chiedergli scusa. Forse — per come ne conosciamo la storia — farà eccezione il settimanale L’Espresso che due anni fa decise di inchiodare la Capua in copertina alla stregua di una “trafficante di virus”. Forse. Il periodico aveva evidentemente ricevuto le “carte” da qualche magistrato o da qualche altro inquirente e non ebbe esitazione a puntare il dito contro la ricercatrice che, per giunta, era adesso anche una parlamentare del gruppo facente capo a Mario Monti. La deputata “grillina” Silvia Chimienti ne chiese le immediate dimissioni. Cose che sono capitate anche ad altri negli ultimi decenni. Del che qualcuno ha fatto ammenda, qualcun altro no. E i no sono infinitamente di più. Nei confronti degli scienziati — forse per il motivo di cui all’inizio, forse perché sono più indifesi, forse perché, a causa delle loro rivalità, non formano una comunità coesa — si è in genere restii a riconoscere torti (nostri) e ragioni (loro). Anche quando sono entrambi evidenti. Ilaria Capua ebbe la vita devastata dal combinato mediatico giudiziario. I colleghi deputati la abbandonarono al suo destino, i giornali anche. L’inchiesta, come spesso accade, fu “spacchettata” e finì nel nulla. Recentemente un’università americana le ha offerto un posto di grande prestigio, lei si è dimessa dal Parlamento e si è trasferita in Florida. Infine il proscioglimento, anche per reati che nel frattempo avrebbero potuto essere prescritti. Nulla di ciò che le è stato imputato “sussiste”. Già questo fa una certa impressione. Ma un dettaglio non può non aver colpito chiunque abbia letto con attenzione l’articolo di Stella. Lo trascriviamo per intero. “Lei ha visto il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?”, domandava Stella. “Mai. O meglio, nel 2007(molti anni prima della storia del traffico di virus, ndr.) per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile”, rispondeva Capua. “Ma in questi due anni?”, insisteva Stella. “Mai”. “Altri magistrati, forse?”. “Mai”. “Quindi non è mai stata interrogata?”. “Mai”. Abbiamo letto e riletto queste parole. E speriamo che le abbia lette anche il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Piercamillo Davigo. Di modo che abbia modo di spiegare, se crede, come è possibile che questo sia accaduto. E qual è la cosa grave? Non già che possa configurarsi un errore giudiziario e nemmeno che sia stata avviata un’inchiesta forse doverosa: tutte eventualità che la giustizia deve contemplare come possibili. Ma non è di questo che dovrebbero dare spiegazioni i rappresentanti della corporazione togata. Bensì di come sia concepibile che all’imputata non siano stati concessi neanche trenta secondi per offrire la propria versione dei fatti. In un periodo di tempo lungo oltre due anni, due anni nel corso dei quali la sua reputazione è stata fatta a brandelli, non c’è stato uno solo dei magistrati chiamati a occuparsi del caso che si sia premurato di darle ascolto. Ilaria Capua si è vista costretta a lasciare il suo incarico in Parlamento e la sua attività scientifica nel nostro Paese senza che si sia fatto vivo un solo magistrato per chiederle la sua versione sui terribili fatti per i quali era finita alla loro attenzione. Sorge in noi perfino il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama internazionale. E che ci siano chissà quante persone che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro voce. Qualcosa di ben diverso, ripetiamo e sottolineiamo, da un errore giudiziario o da un’indagine che non porta a nulla. Un ultimo elemento di questa vicenda può offrire uno spunto di riflessione al mondo della politica. Ieri all’alba la parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui si è detto poc’anzi, Silvia Chimienti (quella che aveva chiesto le dimissioni immediate) ha telefonato oltreoceano alla Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione di oltre due anni fa. Lei lo ha fatto. Altri no. Nelle riflessioni che facciamo ogni giorno sulle evoluzioni politiche del nostro Paese e in particolare sulla natura degli appartenenti al Movimento di Beppe Grillo, forse questo minuscolo episodio è degno di considerazione. Nel senso che quelli capaci di chiedere scusa — come fecero a suo tempo i radicali di Marco Pannella in merito alla campagna che nel 1978 aveva portato alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone (anche allora, per una pura coincidenza, coprotagonista L’Espresso) — guadagnano titoli di merito che rendono le loro posizioni rispettabili. E più resistenti all’usura del tempo. Commento tratto dal Corriere della Sera.
( CdG ) Pierantonio Zanettin consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione (disciplinare) per valutare se sussistano “profili di incompatibilità” nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente “terza ed imparziale”. Quando la Capua, presentandosi per dirigere prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida, informò i vertici del prestigioso ateneo americano, che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, le venne risposto che conoscevano le accuse e che le ritenevano talmente campate in aria da non essere di loro interesse! Evidenziando in questo modo “grande” considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, la Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, pensiamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via un’insussistente “teorema” giudiziario accusatorio, costruito artificiosamente in anni di indagini costose. Il procedimento è lo stesso poi spacchettato nel 2015 e distribuito a varie procure in giro per l’Italia. L’ipotesi accusatoria – poi caduta – era che Ilaria Capua, responsabile del laboratorio di virologia dell’Istituto Zooprofilattico di Padova, centro di referenza nazionale, avesse collaborato alla cessione clandestina del virus H7N3 alla ditta Merial spa, una delle multinazionali di vaccini per animali. Ma c’è qualcos’altro di cui la magistratura deve chiedere scusa, e cioè di aver lasciato passare 9 anni prima di arrivare all’udienza preliminare, il 15 maggio 2015, davanti al Gup di Roma, dove il procedimento è stato scorporato per competenze diverse: un troncone è andato a Pavia, uno a Verona, il terzo a Padova. Pavia è scomparsa dai radar. A Verona il Gip Laura Donati ha deciso lunedì scorso per il proscioglimento, mentre a Padova, dove non figura Ilaria Capua, il pm Maria D’Arpa ha fatto la stessa richiesta ma il Gip non si è ancora pronunciato. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con “imparzialità” e “terzietà”. Magari anche se abbia svolto “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”, come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. La Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine giudiziaria ad uso mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua. A spese dei contribuenti e sulla pelle di una brava persona, di cui dovremmo essere fieri. Ma il Csm presto si dovrà occupare di un altro “caso”. Quello di Taranto, dove in presenza di ben 13 querele nei confronti di un giornalista la Procura non gli ha mai dato notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati facendogli eleggere domicilio e nominare un difensore. Ed adesso più di qualche magistrato della procura tarantina tornerà a “frequentare” la Procura di Potenza, anche questa volta come “indagato” c’è da augurarsi per il bene della giustizia, successivamente come “imputato”. Per una giustizia “giusta”!
Le mirabolanti avventure del pm Capaldo. Prima di dare dell’untrice alla scienziata italiana e averla indagata per “traffico di virus”, si era occupato per ben 32 anni del caso Orlandi, scrive di Giovanni M. Jacobazzi l'8 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Merita di essere riletta l’intervista che nel 2013 il dott. Giancarlo Capaldo rilasciò a margine della presentazione del suo libro “Roma Mafiosa, cronache dell’assalto criminale allo Stato”. L’allora potentissimo procuratore aggiunto di Roma, alla domanda di Affari italiani se fosse necessaria una riforma della giustizia partendo proprio dal codice di procedura penale, rispose: «A vent’anni di distanza questo Codice ha dimostrato di non funzionare più. Anzi possiamo dire che è tra le cause delle lentezze del processo e non garantisce, con i suoi formalismi, i diritti della difesa com’era nelle intenzioni del legislatore dell’epoca». Non contento, rincarò la dose: «La storia giudiziaria recente è una storia di troppe prescrizioni derivanti da una inutile lentezza del dibattimento che non avvicina ma allontana la verità». Parole condivisibili in toto. Già nel 1763 Cesare Beccaria, scrivendo “Dei delitti e delle Pene”, affermò infatti la necessità che il processo fosse il più rapido possibile. Senonché, nello stesso momento in cui Capaldo rivendicava tempi processuali in linea con il dettame costituzionale del giusto processo, teneva “in sonno” in qualche armadio della sua cancelleria le 40.000 pagine del procedimento penale 24117/2016. L’ormai celebre procedimento penale per i reati di epidemia dolosa che ha visto fra gli indagati la virologa Ilaria Capua ed alcuni fra i massimi vertici del ministero della Salute e di alcune università italiane. Conclusosi questa settimana con l’assoluzione degli imputati perchè «il fatto non sussiste». E sulla cui vicenda giovedì il Consigliere togato Pierantonio Zanettin ha chiesto al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura l’apertura di una pratica a carico proprio di Capaldo per «incompatibilità ambientale». Un passo indietro. Nel 2005 i carabinieri del Nas di Roma, seguendo una pista statunitense, si convincono di aver scoperto una associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Dopo due anni di intercettazioni disposte da Capaldo, gli inquirenti ritengono che Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie sia la figura di spicco del sodalizio criminoso. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota per aver isolato il virus H5N1, quello, appunto, dell’influenza aviaria. Nel 2007, quindi, l’indagine può dirsi conclusa. Ma, invece di chiedere come sarebbe normale il rinvio a giudizio, Capaldo inspiegabilmente “iberna” il fascicolo. Dopo 3 anni di silenzio e non avendo più notizie del fascicolo, il Nas di Roma nel 2010 sollecita, senza alcun risultato, Capaldo. Nel frattempo, a marzo del 2012, Giuseppe Pignatone è nominato nuovo procuratore di Roma. Ma il fascicolo che vede indagati i massimi vertici della sanità pubblica nazionale resta sempre sullo scaffale della cancelleria di Capaldo. Nell’aprile 2014, il momento di gloria dell’inchiesta. Scoop dell’Espresso: «La cupola dei vaccini», con pubblicazione delle carte del procedimento penale fino a quel momento “top secret”. A quel punto, pure gli avvocati degli indagati, fra cui appunto quelli della Capua, ormai esposta al pubblico ludibrio, chiedono a Capaldo una definizione del procedimento penale “stagionato”. Anche perchè, il ragionamento, o le accuse sono fondate e un’associazione a delinquere finalizzata ad avvelenare il Paese va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno subito affrancati dalla spada di Damocle giudiziaria. L’avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L’udienza preliminare, nel maggio dell’anno successivo, vede il gup dichiarare l’incompetenza territoriale di Roma, "spacchettando” il processo in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l’archiviazione per prescrizione (il gup non si è ancora pronunciato). A Verona, e siamo ai giorni scorsi, il gup pronuncia il non luogo a procedere perché "il fatto non sussiste" per la Capua. Il caso è chiuso. Dodici anni persi e milioni di euro spesi per attività investigative buttati. Ma Capaldo non è nuovo a perfomance del genere. A suo carico nel 2015 era stata già aperta una azione disciplinare da parte del Procuratore Generale della Cassazione Pasquale Ciccolo. L’Incolpazione: un figlio assunto alla Terna, società su cui Capaldo ha indagato e per cui non si è astenuto e ha pure chiesto l’archiviazione dopo 4 anni di “assoluta inerzia investigativa”. Un ritardo «senza svolgere qualsivoglia attività d’indagine e cagionando danno ingiusto agli indagati». Senza dimenticare l’indagine per la scomparsa di Emanuela Orlandi. La richiesta di archiviazione, dopo 32 anni di indagini, venne firmata l’anno scorso direttamente da Pignatone dopo che Capaldo aveva richiesto «la revoca dell’assegnazione del procedimento». Cosa altro aggiungere? Un desiderio. Che Capaldo, non più procuratore aggiunto e ormai prossimo alla pensione, si rilegga quando ha tempo la sua intervista.
Se non la capisci processala, scrive Vincenzo Vitale il 7 luglio 2016 su “Il Dubbio”. I casi di cronaca degli ultimi anni - da Ilaria Capua ai geologi e sismologi accusati di non avere previsto il terremoto dell’Aquila - parlano di un rapporto controverso. Negli ultimi anni si son verificate ipotesi abbastanza frequenti in cui Tribunali e Corti son stati chiamati a valutare il comportamento di scienziati di varia estrazione le cui omissioni o le cui inesattezze potevano in astratto costituire reato. L’ultimo in ordine di tempo quello della nota ricercatrice italiana Ilaria Capua, la quale, ben prima di essere assolta dalle imputazioni mosse dalla Procura in ordine all’uso di alcune sostanze ritenute pericolose (nella specie alcuni virus) aveva ben pensato di trasferirsi negli Stati Uniti. Ma non si tratta di un caso isolato. Qualche anno or sono, la Procura dell’Aquila mise sotto accusa alcuni scienziati – geologi e sismologi – imputando loro di non aver previsto con sufficienti sicurezza e anticipo, il grave terremoto che sconvolse l’Abruzzo. Ora, messa così la cosa, quale potrà mai essere il rapporto fra verità scientifica e verità processuale? Quale giustizia insomma potrà essere resa agli scienziati dei vari campi del sapere? Non si dice nulla di nuovo affermando che la verità scientifica è caratterizzata da alcuni requisiti che sono in sintesi:
1) oggettività: la verità scientifica è valida per tutti e ad ogni latitudine;
2) provvisorietà: la verità scientifica è sempre falsificabile, cioè suscettibile di essere sostituita da altra verità, vale a dire da altra teoria;
3) riproducibilità: la verità scientifica è riproducibile, vale a dire può essere riprodotta in laboratorio un numero infinito di volte, conducendo sempre allo stesso risultato.
Al contrario, la verità del diritto, cioè la giustizia è caratterizzata da diversi requisiti:
1) personalità: la giustizia viene sempre declinata a partire dalla persona che la amministri, per cui, come affermava Platone, un giudice ingiusto mai potrà rendere una sentenza giusta;
2) definitività: una decisione resa in termini di giustizia lo è in modo tendenzialmente indefinito, vale a dire che fa stato nel futuro in modo illimitato (tranne particolarissime eccezioni); 3) singolarità: una sentenza non potrà mai essere uguale ad un’altra in modo meccanico e pedissequo, dal momento che non esistono nel mondo umano, due casi assolutamente eguali.
Come si vede, sembra trattarsi di grandezze fra loro, per dir così, incommensurabili, tali da non poter essere in alcun modo ricondotte ad unità. In effetti, proprio questo sembra essere accaduto all’Aquila quando il Tribunale in prima istanza ebbe a condannare sismologi e geologi, colpevoli a suo dire di non aver previsto con maggior precisione il terremoto, consentendo alla popolazione di mettersi in salvo. Che dire di questa decisione? Semplicemente, che sembra non essersi fatta carico per nulla della reale consistenza della verità della scienza. In altri termini, i giudici non hanno in modo sufficientemente chiaro percepito che gli scienziati imputati non potevano in nessun modo, usando gli strumenti a loro disposizione, dichiarare lo stato di emergenza atto a scongiurare gli effetti mortali del terremoto, senza timore di prendere un abbaglio tanto grossolano, quanto pericoloso per la incolumità pubblica in termini di panico diffuso ed incontrollabile. Lo proibiva loro non già una qualche indefinibile remora, ma lo statuto epistemologico medesimo della scienza da loro praticata. Uno scienziato degno di questo nome non potrà mai ad ogni evenienza sospetta lanciare un allarme tanto generalizzato quanto scientificamente dubbio o addirittura infondato: ed infatti la Cassazione tempo fa ha confermato la loro definitiva assoluzione da ogni addebito. Il caso dimostra in modo chiaro che l’errore dei giudici di primo grado fu dovuto ad un mancato rispetto delle caratteristiche proprie della verità scientifica, ad una loro pericolosa sottovalutazione. Se i giudici di primo grado avessero infatti tenuto presente che le teorie scientifiche sono caratterizzate necessariamente dai requisiti sopra in modo sintetico menzionati, allora si sarebbero ben guardati anche soltanto dall’accusare gli scienziati di colpe in realtà inesistenti. Per converso, in senso speculare, gli scienziati hanno invece rettamente interpretato le caratteristiche proprie della verità del diritto - la giustizia - proponendo impugnazione dopo la condanna di primo grado. Così facendo, essi hanno mostrato di ben comprendere che uno dei caratteri fondamentali della giustizia è dato dalla persona che sia chiamato ad amministrarla e perciò essi ben sapevano che gli stessi elementi processuali, se valutati da persone diverse, avrebbero condotto alla loro assoluzione: cosa che si è puntualmente verificata. Insomma, mentre i giudici di prima istanza hanno gravemente equivocato sullo statuto proprio della verità della scienza, gli scienziati si son mostrati ben consapevoli dello statuto proprio della giustizia ed hanno agito di conseguenza. Ne viene che verità della scienza e verità del diritto risultano perfettamente compatibili – nonostante la loro strutturale diversità – sotto il profilo del reciproco rispetto loro dovuto da tutti e da ciascuno nell’ambito delle rispettive operatività. Se invece, come accaduto da parte dei giudici di prima istanza dell’Aquila, chi amministri la giustizia ignora quei requisiti o li sottovaluta, allora il rischio è commettere ingiustizia, perché il diritto non riesce a calibrarsi sulla verità della scienza. Le due verità stanno l’una di fronte all’altra. Debbono riconoscersi e rispettarsi a vicenda. E questo non sempre si comprende.
Pier Luigi Lopalco per medicalfacts.it il 21 febbraio 2020. Avere un estintore ci rende preparati in caso d’incendio. La speranza è di non usarlo mai, ma non si può correre il rischio di farsi trovare impreparati. Alla stessa maniera le nostre strutture ospedaliere devono attrezzarsi in caso di pandemia da coronavirus. L’estintore ha un costo sia di acquisto che di manutenzione. Nel 99,99% dei casi dovrà essere sostituto senza essere mai stato usato. Eppure è necessario e bisogna comprarlo prima che divampi un incendio. Dire a gran voce che è necessario dotarsi di un estintore non è allarmismo. Nè tanto meno vicinanza alla lobby dei produttori di estintori. È semplice buonsenso. Per un uomo di scienza è anche senso civico.
La situazione in Italia. L’Italia sta facendo un ottimo lavoro nella fase di contenimento dell’epidemia da SARS-CoV-2. Saremo altrettanto bravi nel malaugurato caso il coronavirus dovesse arrivare? Abbiamo pronto il nostro estintore? La Cina sta fornendo al mondo un’opportunità irripetibile: quella di mettere mano SERIAMENTE ai piani di preparazione pandemica. Piani che devono andare al di là di circolari ministeriali tecnicamente perfette e diligentemente riposte in un cassetto delle direzioni mediche degli ospedali. Prepararsi a una pandemia significa fare (già da ieri) esercitazioni e simulazioni in ogni ospedale. Significa prevedere spazi e percorsi per pazienti che necessitano isolamento respiratorio in terapia intensiva. Significa avere personale che ha e sa usare tutti i dispositivi di protezione individuale. E tanto altro. Negli ospedali italiani il controllo infezioni è una Cenerentola e prova ne è il triste primato europeo d’infezioni ospedaliere da batteri resistenti. Approfittare dell’emergenza legata alla COVID19 sarebbe una maniera intelligente per investire seriamente nel controllo infezioni. Soldi per un estintore ben spesi.
Coronavirus, ci ammaleremo tutti? È possibile che nel tempo diventi endemico. Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Il mondo scientifico dopo l’arrivo con prepotenza del coronavirus con focolai anche in Corea del Sud, Iran e Italia parla già di pandemia (cioé di diffusione dell’infezione che si propaga rapidamente in tutti i continenti) anche se l’Oms, in attesa probabilmente di capire se l’Italia sarà in grado di contenere i nostri focolai, non si è ancora sbilanciata. Le riviste scientifiche Science e Nature hanno raccolto i pareri di virologi ed epidemiologi, molti dei quali parlano di una nuova fase dell’epidemia in cui difficilmente potremo evitare una diffusione su larga scala. Ci ammaleremo tutti allora? «Tutti probabilmente no, ma se, come stiamo vedendo, la diffusione del virus non si estinguerà a livello mondiale, Sars-CoV-2 potrà diventare endemico, cioé circolerà nella popolazione e dovremo farci i conti ad ogni stagione, come succede con l’influenza e i raffreddori. È difficile credere che un virus così contagioso possa sparire da solo» prevede Pierluigi Lopalco, professore di Igiene all’Università di Pisa. Covid-19, è bene ricordare che a livello internazionale, nell’80-90% dei casi si manifesta con sintomi lievi, simili all’influenza; nel 15% dei casi è richiesta un’ospedalizzazione mentre tra 4-5% dei casi è indispensabile la terapia intensiva. Tuttavia dagli ultimi dati diffusi dalla Regione Lombardia emerge un rapido incremento delle ospedalizzazioni e di situazioni particolarmente gravi . Quel che preoccupa è piuttosto che la popolazione italiana, a differenza di quella cinese, ha un’età media più elevata: ci sono molti anziani, più suscettibili alla nuova malattia. Lo scenario più negativo lo ha esposto l’epidemiologo Marc Lipsith, direttore del Centro per le dinamiche sulle malattie trasmissibili dell’Università di Harvard negli Stati Uniti che sul sito Atlantic ha previsto come il prossimo anno circa il 40-70% della popolazione mondiale potrebbe essere contagiata dal nuovo coronavirus. «Ma questo non significa che avremo tutti gravi malattie, anzi è probabile che molti si ammaleranno lievemente o saranno asintomatici» ha precisato. «Quello descritto è lo scenario peggiore, ma le cose non stanno proprio così perché i modelli matematici utilizzati in genere non tengono conto delle misure di contenimento e prevenzione messe in atto prima dalla Cina e poi anche dall’Italia e in molte aree del mondo e neppure delle possibili mutazioni» precisa Carlo Signorelli, professore di Igiene e sanità pubblica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano all’ospedale San Raffaele di Milano. «Non sorprende però che fino al 70-80% della popolazione mondiale prima o poi si infetterà - aggiunge Lopalco - ma non succederà tutto in una stagione, più probabile che succeda in 9-10 stagioni». Insomma forse con questo coronavirus dovremo abituarci a convivere, proprio come l’influenza e il raffreddore o gli altri coronavirus che girano, uno dei quali provoca polmoniti. Nel 2009 una pandemia l’abbiamo già vista: H1N1 partita dal Messico. Ancora oggi circola ma ad ondate più tranquille ed è più facile da gestire. La Sars, che ci ha fatto paura nel 2003, si è praticamente estinta: «Ma è stato più facile contenerla perché era contagiosa solo nel momento in cui il paziente era altamente sintomatico. Questo nuovo coronavirus è più intelligente, si trasmette anche da asintomatici» commenta il professor Lopalco. Se tutti si impegnano mettendo in pratica le disposizioni suggerite come lavarsi le mani, evitare luoghi affollati, starnutire o tossire nel fazzoletto il rischio di contagio si abbassa. Sembrano banalità ma le misure che a molti possono sembrare eccessive sono quelle che potranno impedire che il sistema sanitario vada al collasso con troppi ricoveri da gestire contemporaneamente. Cosa succederebbe se tutti ci ammalassimo contemporaneamente? «Non ci sarebbero abbastanza posti letto adeguati per tutti, anche perché non esiste solo il coronavirus, ma tante altre emergenze come incidenti stradali, interventi di emergenza e di cardiochirurgia, le terapie intensive rischierebbero di essere intasate . Non possiamo permettere che succeda come a Wuhan, dove la gente è morta in casa perché non ha avuto la possibilità di essere curata. È importante distribuire gli eventuali pazienti nel lungo periodo: se i pazienti sintomatici sono curati bene, guariscono» riflette Carlo Signorelli. I problemi di questo virus sono quattro: si trasmette molto facilmente, si trasmette anche da persone asintomatiche o con sintomi lievi, la popolazione mondiale è scoperta, ovvero non ha anticorpi, non esiste per ora un vaccino, il che significa che prima o poi molte persone potrebbero contrarre il virus, a meno che l’epidemia non si estingua a livello mondiale, scenario che come detto, in questo momento, sembra di difficile realizzazione. «È molto importante spegnere i focolai quando esplodono per evitare la diffusione pandemica. Se tutti collaboriamo la situazione potrebbe migliorare drasticamente nelle prossime settimane» conclude il professor Lopalco. «Se però dovessero nascere nuovi focolai e non dovessimo essere in grado di fermarli allora la strategia operativa dovrebbe variare, lavorando molto di più sulla protezione in senso più ampio: ciascuno deve imparare a proteggersi e i casi positivi identificati andranno messi in isolamento».
Roberto Burioni e Nicasio Mancini per medicalfacts.it il 21 febbraio 2020. Il coronavirus replica bene anche in chi non ha sintomi. Lo dimostra uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine. Sin dall’inizio di quest’epidemia abbiamo ribadito che, prima di esprimere giudizi definitivi sulla sua reale gravità, è necessario conoscere nel dettaglio le caratteristiche del coronavirus che la sta causando. A partire dalla sua capacità di trasmettersi in modo efficace in assenza di sintomi evidenti. Una breve comunicazione, appena pubblicata sul New England Journal of Medicine, inizia a fare chiarezza su quest’ultimo aspetto, confermando purtroppo i timori che avevamo. In particolare, lo studio descrive l’infezione in 18 individui, di cui uno senza sintomi. La cosa interessante è che, per la prima volta, sono riportati in modo puntuale alcuni aspetti riguardanti il virus. Per ogni paziente, infatti, è stata rilevata la quantità di virus (in gergo si parla di carica virale) presente nel naso e nella gola, in vari giorni successivi alla prima comparsa dei sintomi. Per il soggetto asintomatico è stato fatto lo stesso, calcolando i giorni a partire dal contatto con un soggetto infetto.
Le analisi dei dati. L’analisi di questi dati ha dimostrato come la quantità di virus raggiunge il picco subito dopo la comparsa dei primi sintomi, con livelli più alti nel naso rispetto alla gola. I pazienti stanno ancora relativamente bene, ma hanno già livelli elevati di virus nelle prime vie respiratorie. Questo dato è drammaticamente diverso rispetto a quanti si osservava con la SARS, in cui il picco virale era raggiunto 10 giorni dopo la comparsa dei sintomi, quando il paziente stava già molto male o, nei casi più gravi, addirittura in rianimazione. E di conseguenza non poteva trasmettere l’infezione, se non a chi lo stava curando. Altro aspetto che emerge è che anche nel soggetto senza sintomi si raggiungono livelli di virus nel naso e nella gola paragonabili a chi i sintomi li aveva. Anche lui, quindi, aveva tutto per trasmettere l’infezione. Cosa concludiamo da questo studio? Una carica elevata di virus significa che una maggiore quantità di virus può, attraverso il muco o la saliva, raggiungere un individuo sano. Ovvero che è più alta la possibilità di infettarlo. Questa probabilità è resa ancora maggiore dal fatto che livelli così alti sono raggiunti quando il soggetto infettato sta ancora relativamente bene (o addirittura non ha sintomi), ed è quindi ancora in contatto con gli altri, con il resto della società. Lo ripetiamo, quindi: questo studio dimostra senza ombra di dubbio che anche chi non ha sintomi può trasmettere l’infezione. L’unico modo per evitarlo è impedire che chi ha avuto contatti con le aree a rischio entri in contatto con il resto della popolazione. Questa è ormai una certezza.
Roberto Burioni e Nicasio Mancini per medicalfacts.it il 21 febbraio 2020. Due recentissime comunicazioni scientifiche confermano i timori che, sin dall’inizio dell’epidemia, vi stiamo presentando sulle pagine del nostro sito. Siamo stati fra i primi a seguire l’andamento di quest’epidemia di coronavirus, sin da quando i casi si limitavano a poche decine. Quando i primi dati sulle caratteristiche cliniche e le modalità di trasmissione sono emerse, però, abbiamo subito fatto presente l’importanza di capire se il virus potesse essere trasmesso anche in assenza di sintomi. Due recentissime comunicazioni pubblicate su riviste scientifiche di primo livello (Journal of Infectious Diseases e New England Journal of Medicine) ribadiscono che il nuovo coronavirus può essere trasmesso anche quando i sintomi non sono ancora presenti, o lo sono in modo sfumato. La cosa interessante è che i due lavori affrontano quest’aspetto in due diverse aree del mondo: la Cina e, realtà molto più vicina alla nostra, la Germania.
Una famiglia a Shangai. Il primo è la descrizione di una serie di contagi a Shangai, quindi non proprio nell’epicentro dell’epidemia (la provincia dell’Hubei e, in particolare, il suo capoluogo Wuhan). Sono descritti quattro casi all’interno di un nucleo familiare, in cui due dei componenti provenivano da Wuhan. Niente di nuovo rispetto a quanto già descritto, potreste dire. Tutt’altro: la particolarità del caso in questione è che il primo a manifestare i sintomi dell’infezione è stato il più anziano del nucleo familiare che non aveva mai lasciato Shangai. Non si era mosso di casa nelle settimane precedenti, semplicemente perché era impossibilitato a farlo per problemi legati all’età. In altre parole, i due che erano stati a Wuhan non manifestavano sintomi chiari, ma, ciononostante, avevano trasmesso l’infezione in forma grave al più debole della propria famiglia. A conferma di questo, nel giro di qualche giorno, tutti e tre gli altri componenti della famiglia hanno poi manifestato i sintomi dell’infezione e sono stati ricoverati anch’essi in ospedale.
Il ritorno in Germania. Altro caso, molto più vicino alla realtà che stiamo vivendo in questi giorni nel nostro Paese: rimpatrio di connazionali dalla Cina e successiva quarantena. In particolare, il primo febbraio scorso la Germania ne ha rimpatriati 126 con un volo militare. Dieci di essi erano stati già isolati sul volo che li riportava a casa, per la comparsa di sintomi o per essere stati a contatto con casi accertati. Nessuno di essi risulterà positivo al nuovo coronavirus. Le restanti 116 persone sono state sottoposte a scrupolosissime visite mediche, che avevano permesso di identificare un altro possibile caso sospetto: anche questo risultato negativo al virus. Ciononostante, era stato offerto a tutti i restanti 115 soggetti di effettuare comunque il test. Dei 114 che avevano accettato di farlo, due sono risultati positivi al test diagnostico molecolare. Proprio così: niente sintomi, visite mediche superate alla grande, ma presenza del virus. Un altro dato è importante da sottolineare: da entrambi questi soggetti è stato possibile isolare il virus, ovvero farlo crescere in laboratorio. Questo conferma che il virus che si trovava nella gola di questi due soggetti, completamente sani, era in grado di infettarne altri. Anche qui il cerchio si chiude: niente sintomi, ma infezione e trasmissione possibili. La cosa ancora più preoccupante – ovviamente non per i due soggetti interessati – è che nessuno dei due ha poi sviluppato sintomi chiari (a parte un leggero mal di gola in uno). Cosa ci insegnano questi casi? Una cosa molto semplice: non dobbiamo scherzare con questo virus. La sua “minore gravità” rispetto, per esempio, alla SARS è un’arma a doppio taglio: meno rischio di morte per il singolo, ma, allo stesso tempo, maggior rischio di trasmissione. Il che equivale a dire che questo nuovo coronavirus è molto più pericoloso di quello precedente, perché molti più individui rischiano di essere infettati. Isolamento rigido sotto stretto controllo medico è quanto di più serio ed efficace possiamo fare in questo momento. Facciamolo. Continuiamo a farlo.
Luigi Mascheroni per pangea.news il 27 febbraio 2020. l peggior vizio degli scrittori è l’invidia. Il secondo la cattiveria. Poi c’è la connaturale tendenza a rinfacciare agli altri gli stessi limiti che non si è capaci di vedere in se stessi. Tipo: narcisismo, ossessione per le classifiche di vendita e ossessione propensione al marketting (con due “t”, come marchetta). Sandro Veronesi, per dire, scrittore di rara rognosità toscana, ieri appena ha visto Roberto Burioni annunciare su Twitter che il suo nuovo libro “Virus, la grande sfida” (Rizzoli) era entrato nella classifica dei titoli più venduti su Amazon, ha sbottato: “Ora però cerchiamo di evitare ‘Tutte le posizioni in classifica del libro di Burioni minuto per minuto’. Per la Madonna” (e il virologo, peraltro, ha subito risposto che non guadagnerà una lira: “Tutti i proventi saranno donati in beneficenza”). Ora, chiunque può sbagliare un tweet. Ma che a sbagliarlo sia uno scrittore che – parlando di virus – ci ha già ammorbato con 47 articoli sul Corriere della sera che parlano del suo romanzo Il colibrì e delle varie posizioni in classifica del libro, è perlomeno stucchevole (“Per la Madonna”, cit.). Negli scorsi mesi la collega del Fatto quotidiano Daniela Ranieri ha firmato sul suo giornale due articoli in cui raccontava, con un calcolo maniacale, tutti gli articoli che il Corriere della sera ha dedicato al libro di Veronesi (incidentalmente collaboratore del quotidiano) tra recensioni, interviste, riassunti, avvisi di appuntamenti, premi, eventi a tema… E possiamo solo immaginare quali cifre si toccheranno al momento dell’assegnazione dello Strega, premio al quale il romanzo di Veronesi – con il potente endorsement del Corriere della sera – partecipa, già sicuro di rivincerlo, si dice (accanto a lui sul podio ci saranno, secondo i ben informati, Gianrico Carofiglio e soprattutto Domenico Starnone, il quale insieme alla moglie Anita Raja e all’editore di e/o Sandro Ferri firma, a sei mani, i libri di Elena Ferrante). Senza dire poi – come invece qualcuno ha fatto sul sito Dagospia – del curioso conflitto di interessi, vizio di cui gli antiberlusconiani con la bava alla bocca di solito sono maestri, per cui la casa editrice La Nave di Teseo che pubblica il romanzo Il colibrì, e della quale è socio lo stesso Sandro Veronesi, ha tra i fondatori Piergaetano Marchetti il quale oggi è Presidente della Fondazione Corriere della sera, cioè il quotidiano (al quale Veronesi collabora) su cui sono usciti a oggi circa 50 articoli fra recensioni e segnalazioni del romanzo e che ha recentemente premiato Il colibrì “Libro dell’anno” del supplemento del Corriere della sera “La Lettura”… E non ci mettiamo a contare tutte le persone che ruotano attorno al Corriere e alla Nave di Teseo che hanno diritto di voto allo Strega (“Per la Madonna”, cit.). Luigi Mascheroni
NB: A gennaio, per aver semplicemente twittato (senza commenti) il primo articolo di Daniela Ranieri, Sandro Veronesi con raro senso dell’ironia e tignoso livore mi ha additato ai suoi follower con la battuta: “Bellissima la foto del profilo. Complimenti”. Grazie. Ricambio.
Da “la Verità” il 27 febbraio 2020. Se il vaccino per il coronavirus non è stato ancora trovato, ma arriverà, quello per l'egotismo dei competenti di turno scordiamocelo. La pulsione a vendere a noi poveri ignoranti dosi della loro sapienza è insopprimibile. Pochi giorni fa abbiamo accolto con sollievo l'annuncio del libro sul morbo della virologa dell'ospedale Sacco di Milano. Ora gioiamo nell'apprendere che anche Roberto Burioni, IL competente, sarà nelle librerie dal 10 marzo con il tomo nel quale ci insegnerà come (solo) «la scienza può salvare l'umanità». Il volume ci aprirà gli occhi, d'altra parte come non fidarsi di chi il giorno prima di Codogno diceva: «ha più senso preoccuparsi dei meteoriti che del virus in Italia»?
Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano” il 27 febbraio 2020. Eccolo lì, lo riconosceremmo da chilometri, splendente, adamantino, aurorale: è il paradigma di Arbasino, quello per il quale in Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di "bella promessa" a quella di "solito stronzo" perché soltanto a pochi fortunati l' età concede di accedere alla dignità di "venerato maestro". Niente è scritto, e forse proprio adesso, con l' epidemia in corso, è quel momento stregato in cui Roberto Burioni, Professore di Microbiologia e Virologia all' Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, può scegliere la seconda strada e avviarsi verso la gloria, confutando l'eccezionale potenza euristica di una legge che Edmondo Berselli, in Venerati maestri (sottotitolo: Operetta immorale sugli intelligenti d' Italia), decretava "infallibile". Burioni, già veemente portavoce della Scienza sui social, ai tempi del coronavirus ha sfondato il diaframma della Tv generalista e adesso è dappertutto, a tutte le ore: da Fazio, su Rai2, su Rai1, su La7, al Corriere Tv, a Circo Massimo, oltre che su Twitter e sul suo blog, a infondere Scienza al popolo con pochi semplici concetti: "Lavatevi le mani. Spesso, anzi spessissimo. Va bene il sapone comune, non serve quello antibatterico". È il Fleming dello zapping; il Padre Pio della bilocazione igienico-televisiva; il Dulbecco del collegamento, tanto che la televisione pubblica, anche per ragioni di economia mentale di parlante e destinatari, potrebbe trasmettere un messaggio di Burioni alla Nazione a reti unificate, tipo Juan Domingo Perón dell'Amuchina. Ieri, in piena pioggia gratificazionale, Burioni ha retwittato un articolo che Science gli ha dedicato il 2 gennaio, dove lo si chiama media star con la "chioma brizzolata, le sopracciglia a punta e il sorriso ironico" e si ricorda che Burioni è passato dall' essere un "avvocato della scienza" dopo aver combattuto nel 2016 in un talk show contro due temibili NoVax: il dj Red Ronnie e la presentatrice Eleonora Brigliadori. È questo il punto: Burioni ha studiato; è laureato; è competente; è uno scienziato. Nessuna persona sana di mente si sognerebbe di affidare il proprio bambino a un diplomato all' istituto alberghiero convinto che i vaccini causino l'autismo invece che a Burioni; eppure, per qualche strana alchimia socialara, a un certo punto la questione è diventata se di virologia ne sapesse di più Burioni (dottore di ricerca in Microbiologia a Ginevra etc.) o un troll dei social, con Burioni che più dava dei "somari" a carburatoristi di Rimini, estetiste della Magliana, tatuatori di Vicovaro e tolettatori di cani del viterbese, più diventava famoso e creava tifoserie opposte intorno alla non-questione, foriera di liti e insulti da querela, sollevata dall'apoftegma burioniano per antonomasia: "La Scienza non è democratica". Famoso vuol dire fagocitabile da Renzi: che lo voleva candidare, forse affascinato di aver trovato uno più indisponente di lui. E se sui vaccini Burioni è con la comunità scientifica (e ci mancherebbe!), sembra un contrappasso ironico che in tema Coronavirus Burioni sia più d' accordo con gli utenti comuni che con gli scienziati, alcuni dei quali non disdegna di "blastare" per insufficiente contezza della pericolosità del morbo, come la virologa Maria Rita Gismondo, chiamata "la signora del Sacco", come facesse la portantina, colpevole di aver declassato la peste da Covid-19 a infezione appena più seria di un' influenza, alla quale ha consigliato di "riposarsi" (magari twittando un po', invece di isolare virus e fare tamponi dalla mattina alla sera). Un' onorata carriera di titoli prestigiosi ribaditi su Twitter a utenti scuolesenti con pervicacia ossessiva: "Prima si prende una laurea in medicina, poi una specializzazione in immunologia, poi un dottorato in virologia molecolare, poi viene a dirmi cosa devo ritrattare nella materia che studio da 35 anni". Citiamo a memoria, un po' intimoriti di incorrere nell' accusa di scrivere "menzogne", come quella volta che raccontammo scherzosamente il siparietto comico tra il Professore e Renzi - che lo invitò alla Leopolda convinto che la comunità scientifica internazionale voterebbe Renzi - e dicemmo sbagliando che aveva "letto" dei tweet di utenti NoVax mentre invece li aveva recitati a memoria (il Prof. poi si dispiacque, in privato, di averci aizzato contro i fan, ma intanto: auguri di malattie mortali, parti bicefali, cancrene e lutti per famigliari decimati dal morbillo, da parte di quelli che amano la razionalità e la civiltà dell' immunologia). Ora, l' epidemia accelera il momento Arbasino, che in condizioni normali si verifica al ralenti. E poteva mancare Renzi, che col suo culto del Superuomo, o forse solo del Superman, vorrebbe fare di Burioni il Virologo d' Italia, legibus solutus, chiaramente in chiave anti-Conte e anti-governativa, con Luciano Nobili di Italia Viva che lo propone come una specie di Super Commissario di Salute pubblica, scavalcando l'Oms e l'Iss, per investitura twitterina: "Cosa aspetta il governo Conte ad affidare a @RobertoBurioni, l'unico che aveva previsto la situazione e aveva indicato le misure da adottare, la gestione commissariale della task force che sta fronteggiando l' emergenza coronavirus?". Burioni, che aveva consigliato la quarantena per chi veniva dalla Cina, ha ringraziato con modestia: "Penso di essere più utile al Paese continuando a fare il mio lavoro". Che stando a Renzi sembrerebbe quello del profeta, o dello scommettitore di partite: "Roberto Burioni non ha sbagliato un colpo", infatti Burioni aveva detto: "In Italia il rischio è zero. Il virus non circola", virus che al momento ha fatto 378 contagi. Ecco, se c' è una cosa che possiamo consigliare a Burioni, che ha un libro in arrivo proprio sul Coronavirus (tu guarda il caso), è di scappare a gambe levate dai social e da Renzi, espertissimo non di virologia, ma della già citata parabola da "brillante promessa" a "solito stronzo" (ma poi sai che onore: essere usato nel name dropping per farsi bello con gli sceicchi e i petromilionari nelle ski-trip in Pakistan: "Quello che ha sconfitto il Coronavirus l' ho inventato io").
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2020. Dopo avere letto il caffè che lo pizzicava per le battute sulla «signora del Sacco» e lo scioglimento della Roma, il professor Burioni ha chiamato per ringraziare. Ne è uscito un caffè più lungo del solito.
Di solito il bersaglio delle critiche si arrabbia. Lei invece sembra contento. Dove ho sbagliato?
«Sono io che ho sbagliato. Ho visto un post della dottoressa Gismondo che citava un numero palesemente erroneo. Non avrei dovuto reagire chiamandola in quel modo. Non avrei proprio dovuto risponderle in pubblico».
La dottoressa l' ha presa bene. Ha detto: «Burioni? Lasciamolo alla sua gloria».
«Avrei dovuto scriverle in privato e non l' ho fatto. O meglio, l' ho fatto poco fa. Le ho appena mandato una mail di scuse. Lei ha sbagliato un numero e io una parola. Ma sono giorni così, siamo tutti sotto pressione. Pensi che domenica non sono neanche riuscito a vedere la Lazio».
Eccolo, il luminare ultrà. A chi su Twitter auspicava che le fossero offerti i pieni poteri, ha risposto che per prima cosa avrebbe sciolto la Roma.
«Era solo una battuta per ribadire che non aspiro a incarichi pubblici. Sono laziale dai tempi di Chinaglia. Mi piace la rivalità calcistica, lo sfottò simpatico, la goliardia. Vede, fino a 52 anni ero un ricercatore e basta. Poi la polemica con i No Vax mi ha proiettato in un mondo per il quale non avevo ancora preso il vaccino. Ci sono cose che non posso più permettermi».
Per esempio?
«L' ironia».
La dottoressa Gismondo ha usato l' ironia per dipingerla come un narciso.
«Per tranquillizzare le persone bisogna raccontare quello che accade con chiarezza e con calma. Se dici che è solo un raffreddore e poi però chiudi le scuole, generi panico».
Che è un po' quello che sta succedendo.
«Mi lasci esprimere solidarietà a tutti i medici e gli infermieri che lavorano in prima linea. Io sono nelle retrovie, ma loro sentono fischiare i proiettili. Questa è una emergenza nazionale, perché non è limitata a una porzione di territorio come un terremoto. Perciò richiede un coordinamento».
Qualcuno ha proposto lei come commissario straordinario.
«È stato un politico, non ricordo nemmeno di quale partito. L' ho ringraziato per la stima, ma io sono più utile altrove».
Cioè in tv e sui social. «Anche. In un momento in cui serpeggia il panico, sento il dovere di usare i canali di fiducia che ho aperto con le persone in questi anni per compiere un' operazione di verità».
Chi l'ha delusa di più finora: il governo o gli enti locali?
«L'Europa. Sono cresciuto con il mito degli Stati Uniti d' Europa. Vedere che non riesce a gestire neanche questa emergenza… Il virus non è una questione divisiva come i migranti. Bastava fissare una linea comune - stesse regole a Parigi e a Milano - e ci si sarebbe tranquillizzati l' un l' altro. Non si possono chiudere frontiere che non ci sono più».
In Italia, dicono, la situazione è peggiore che altrove.
«Da noi è sfuggito il paziente zero. Ma se troviamo più casi è perché ne cerchiamo di più. Mi conforta che non stiano emergendo focolai secondari: significa che la crisi è circoscritta».
Lei crede alla storia dell' esperimento militare cinese che spopola sul web?
«Di questo virus sappiamo ancora pochissimo. Non sappiamo neppure se chi guarisce può infettarsi di nuovo. Ma non dobbiamo riempire i vuoti di conoscenza con le scemenze. Il virus è passato dal pipistrello all' uomo, questo è sicuro».
La prima malata cinese in Italia è guarita.
«Ma prima di guarire è stata ricoverata quasi un mese. A preoccuparmi è proprio la saturazione degli ospedali».
Le hanno dato del duro in un Paese di buonisti.
«L' isolamento non ha nulla a che vedere con il razzismo, è solo un mezzo per tranquillizzare le persone».
La paura le fa paura?
«La paura è un virus e il suo vaccino è l' informazione. Se un bambino teme che nella stanza ci sia un mostro, bisogna accendere la luce. Io sono il primo a dire che il coronavirus non è un raffreddore. Ma questo non significa che sia la peste».
Però ci stiamo comportando tutti come se lo fosse.
«I virus sono maledetti perché per spostarsi usano quanto di più bello esista: i baci, gli abbracci, la vicinanza tra le persone. Dobbiamo fare uno sforzo culturale: trasmettere affetto al nostro prossimo rinunciando alla fisicità».
Anche al sesso?
«Non esageriamo. Alludo ai rapporti ravvicinati con gli estranei. Più del sessanta per cento delle infezioni passa dalle mani. Lavarsele serve a ridurre i numeri del contagio. Ho letto sul Corriere il bellissimo articolo dello scrittore e fisico Paolo Giordano sulla matematica dell' epidemia. Ha ragione, saremo fuori pericolo quando i potenziali "spanditori" del virus contageranno meno di una persona a testa. Avvenne lo stesso con la Sars».
Il vescovo di Torino si è lamentato delle restrizioni imposte ai fedeli. Le chiese sono vuote e i supermercati pieni, ha detto.
«Durante la Spagnola un vescovo organizzò una processione e tutti baciarono la statua di San Rocco, protettore dei contagiati: la mortalità in quella diocesi triplicò. Meglio pregare il Signore a casa propria. Detto questo, è una follia svuotare i supermercati, facendo addirittura incetta di acqua potabile!».
Lei predica l' isolamento. Ma come si vive in quarantena?
«La tecnologia viene in aiuto. Possiamo connetterci, telefonare, fare le videochiamate».
Magari aprire un libro, nei ritagli di ansia.
«Il miglior antidoto è leggere i Promessi Sposi . Specie il capitolo sulla peste, e specie la pagina dove un medico viene maltrattato perché dice la verità».
Quindi, ha promesso: basta battute sulla Roma finché il coronavirus non sarà debellato.
«Se vinciamo il virus, sarò così felice che abbraccerò»
Francesco Totti.
«Non lo conosco. Diciamo che inviterò a cena Totto Franceschi, un laziale che mi scrive sempre su Twitter» .
Simone Di Meo per “la Verità” il 25 febbraio 2020. Poche idee e confuse, direbbe l' inimitabile Ennio Flaiano. Non solo per descrivere quel che sta avvenendo a livello politico, con provvedimenti nati sull' onda dell' improvvisazione e del politically correct che di fatto hanno proiettato l' Italia al vertice della non certo invidiabile classifica dei Paesi occidentali con più contagiati, ma anche per tratteggiare come sta vivendo il mondo della scienza questo particolarissimo momento storico. In cui studiosi, non meno indecisi e inclini al battibecco dei politici, si sfidano sul ring delle competenze per affermare la propria visione delle cose e per assurgere a ruolo di guida nazionalpopolare. Dimenticando che una battaglia del genere, seppur a colpi di master e lauree, combattuta in pubblico, e per di più sui social network, rischia solo di rendere più torbide le acque e di creare inutili allarmismi. Il virologo Roberto Burioni, recentemente insignito da Science di un editoriale di ben quattro pagine per la sua benemerita battaglia contro i no vax, è ormai un fenomeno mediatico a più dimensioni: spazia con disinvoltura dalla carta alla tv ai social, suo campo d' elezione in particolare. Sul coronavirus è stato facile profeta, e non perde occasione per ricordarlo. «Mi hanno dato dell' allarmista, addirittura del fascioleghista, perché dall' inizio ho sostenuto che l' isolamento delle persone provenienti dalla Cina fosse l' unico modo efficace per evitare il diffondersi del virus. Sottolineo: persone, non cinesi», ha detto qualche giorno fa riferendosi alla richiesta dei governatori del Nord di attivare la quarantena per i soggetti a rischio. E, con la solita dose di humor, Burioni ha rincarato la dose: «Due settimane di quarantena non sono mica 10 anni di carcere duro». A dire il vero, però, in precedenza aveva sostenuto la tesi opposta, e lo aveva fatto con la medesima certezza. Nel corso della trasmissione Che tempo che fa, aveva infatti chiarito: «In Italia il coronavirus non circola. Il rischio contagio è zero». Ma come? Quindi non corriamo alcun pericolo? «In Italia possiamo preoccuparci dei fulmini ma non di questo», aveva aggiunto senza alcun tentennamento. Poi, evidentemente, ha cambiato idea e, purtroppo per noi, ha avuto ragione. Vien da chiedersi, dunque: per i maggiori esperti italiani, coronavirus è pericoloso o no? Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze dell' ospedale Luigi Sacco di Milano da giorni sta minimizzando l' impatto dell' epidemia di Wuhan sulla popolazione. «Mio bollettino del mattino. Il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni. A me sembra una follia. Si è scambiata un' infezione appena più seria di un' influenza per una pandemia letale. Non è così», ha scritto sulla sua pagina Facebook. «Guardate i numeri. Questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico. I miei angeli sono stremati. Corro a portar loro la colazione. Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni! Serena domenica». Concetti espressi anche in un' altra appassionata arringa social. «Stanchezza... si lavora più per arginare le notizie false che per la vera emergenza... che in Italia non c' è!». Questo lo scriveva il 30 gennaio scorso, ma perché tutta questa fretta di andare controcorrente e cercare di giocare d' anticipo sulla naturale evoluzione delle cose? La smentita dei fatti non si è fatta attendere. Tra un post dedicato ai partigiani e uno alle tangenti a Bettino Craxi, tra un anatema nei confronti della neo governatrice della Calabria Jole Santelli e la condivisione di articoli contro la Lega di Matteo Salvini, la scienziata milanese ha trovato anche il tempo di pubblicizzare il suo ultimo libro. Indovinate su che cosa? «Prima di riposare... vi annuncio che è quasi pronto il mio libro Coronavirus, fake news vere e verità false». Vediamo che cosa pensa un' altra celebre virologa, Ilaria Capua, direttrice del centro «One Health» dell' università della Florida che invece ha vaticinato settimane sempre più complicate sul fronte della prevenzione. Lo ha fatto, a onor del vero, non sui social ma in diverse interviste. «Il fatto più importante è che ci sono migliaia di guariti in Cina» e quanto si è visto finora dell' epidemia è sufficiente, ha dichiarato la virologa, per dire che «non ci aspettiamo scenari apocalittici, non ci sono migliaia di morti. Siamo di fronte a un' infezione altamente contagiosa che sta circolando in un Paese molto grande come la Cina». L' infezione, ha aggiunto, «continuerà a circolare e ci saranno inevitabilmente nuove infezioni»: è una «situazione in evoluzione, ma non c' è nessun motivo di allarme. È una situazione di crisi e un' emergenza, ma Italia ed Europa hanno gli strumenti per gestirla». A chi credere, allora?
Coronavirus, ci vuole un commissario scientifico: “Pieni poteri a Burioni”. Deborah Bergamini de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Sia chiaro: quella di dare “pieni poteri” a Roberto Burioni nella gestione dell’emergenza Covid19 è una provocazione, niente più. Ma è altrettanto evidente che non può essere la politica a gestire e a comunicare una crisi che ha bisogno di competenze specifiche e forse, ancor di più, di una voce autorevole del mondo scientifico. Nelle situazioni di emergenza servono pochi messaggi chiari, regole condivise, trasparenza e credibilità. Prospettare “Milano come Wuhan” se la situazione dovesse degenerare (cit. Attilio Fontana, governatore leghista della Lombardia) è un grave errore di comunicazione che non ci si può permettere nello scenario attuale. Insomma: la politica ha il dovere di decidere, ma non necessariamente l’obbligo di straparlare. A lei spetta decidere la rotta, ma poi deve essere un pilota abilitato a guidare l’aereo, comunicare con i passeggeri e condurli a destinazione. In questa emergenza del Coronavirus alcuni rappresentanti politici hanno parlato molto, lasciando poco spazio agli scienziati. Scienziati che, per carità, avranno pure detto la loro in tutte le salse (interviste, tweet, talk show, etc.) ma che non lo hanno fatto in nome e per conto dello Stato italiano. Scienziati che in alcuni casi hanno parlato con voci diverse anziché con una voce univoca, istituzionale, condivisa. In questo senso viene da chiedersi: cosa aspetta il governo – con il consenso di tutte le opposizioni – a nominare un commissario scientifico ad hoc per gestire la crisi del Coronavirus? Perché non c’è ancora uno scienziato di chiara fama, meglio se bravo a comunicare, che possa parlare per tutta la comunità scientifica italiana? E perché nessuno nel governo ha valutato di chiedere a Guido Bertolaso o Roberto Burioni o Ilaria Capua o ad altri di ricoprire questo incarico? Molto spesso il consenso si costruisce sulle paure delle persone. Paure che vengono alimentate facendo leva sull’incertezza e sulla confusione. Certi politici (non solo quelli a cui state pensando voi) sembrano più bravi a governare le inquietudini e ad egemonizzare le preoccupazioni che a governare un Paese. Il problema – e qui torniamo all’emergenza del Coronavirus – è che una paura ingovernata, o addirittura alimentata da decisioni prese in ordine sparso, può produrre danni incalcolabili. E finché non saremo in grado di declassare la paura di oggi a preoccupazione consapevole, correremo il rischio di effetti per la salute pubblica potenzialmente più pericolosi dello stesso virus.
Coronavirus, la commissione del governo senza virologi: al posto di Burioni e Gismondo, un ginecologo. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Da qualche giorno l'Italia è entrata nel podio dei Paesi più contagiati dal coronavirus; tuttavia il premier, Giuseppe Conte, anziché riflettere sull'inadeguatezza delle misure prese, sostiene che "abbiamo più casi degli altri, perché siamo stati bravi scoprirlo". Il direttore de Il Tempo, Franco Bechis, parte da questa constatazione per evidenziare il pressappochismo con cui il governo sta fronteggiando il coronavirus. Il 30 gennaio, ai primi due casi di contagio, Conte elogiava la chiusura dei voli da e per la Cina. Misura rivelatasi poi insufficiente, poiché i cinesi rientravano in Italia da altri Paesi e coloro che avevano trascorso le ultime settimane in Cina non erano obbligati alla quarantena. Comportamenti che Il Tempo ha raccomandato al governo fin dall'inizio dell'emergenza. Adesso quelle misure di quarantena, in Italia tacciate come xenofobe e razziste dai detrattori di Salvini, vengono adottate dagli altri Paesi contro di noi. La situazione è esasperata se si pensa che nel comitato scientifico contro il coronavirus non siede alcun virologo, bensì solo laureati in medicina con nessuna competenza specifica rispetto ai virus e con alle spalle carriere in Asl o al ministero. Il tema sollevato da Bechis inficia la credibilità delle istituzioni governative in materia di Sanità, soprattutto se consideriamo la somma stanziata dal governo per fronteggiare l'emergenza: solo 20 milioni di euro, "spiccioli con cui fare poco o nulla", conclude il direttore del quotidiano romano.
Virus in Cina, Roberto Burioni: "Dati poco convincenti. La situazione potrebbe già essere fuori controllo". Libero Quotidiano il 23 Gennaio 2020. La Cina ha sottovalutato l'epidemia e rallentato le contromisure. A Wuhan hanno bloccato aerei e treni. "Una decisione senza precedenti, a memoria. Potrebbe significare che la situazione là è fuori controllo, spero di sbagliarmi. Una scelta presa tardi", spiega il virologo Roberto Burioni in una intervista a Il Giorno. "È accaduto un fatto grottesco: uno dei massimi esperti di Pechino aveva detto di non preoccuparsi e ha contratto il virus. La Cina non è una democrazia libera: già nel 2003 c'è stata una mancata condivisione dei dati sulla Sars. La Cina parla di 4-500 casi, ma l'Imperial College di Londra ne stima 4mila", continua. Soprattutto, non sappiamo "quanto è grave la malattia. I dati sembrano tranquillizzanti, ma non possiamo fidarci troppo. E il virus può mutare, diventando capace di un'infezione più pericolosa". E all'Italia conviene prepararsi perché un vaccino ce lo possiamo dimenticare, "non lo avremo in tempo utile. Dovremo imparare la lezione che tanti coronavirus hanno fatto il salto di specie da animale a uomo. E investire per nuovi vaccini, così da essere pronti al prossimo nuovo virus. Il vaccino ora scordiamocelo, arriverà tardi: combatteremo il nemico senza". Spiega Burioni che la vaccinazione per l'influenza stagionale "non fornisce protezioni per questo nuovo coronavirus". Il contagio, sottolinea il virologo, "avviene da secrezioni respiratorie, come per l'influenza. Ma non sappiamo per quanto tempo un paziente è infettivo o se è infettivo prima di sviluppare la malattia".
Dagospia il 28 gennaio 2020. Da I Lunatici Radio2. Roberto Burioni è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il professore di microbiologia e virologia al San Raffaele di Milano ha parlato del Coronavirus: "E' qualcosa di nuovo che dobbiamo guardare senza panico, senza paura, ma con grande attenzione. Una comunicazione non corretta rischia di spiegare male alla gente cosa è successo e cosa sta succedendo. Quello che è accaduto in Cina è che verso la fine del 2019 è saltato fuori un nuovo virus, derivato dal passaggio all'uomo di un virus animale. Contro questo virus non abbiamo un vaccino o una terapia specifica. Possiamo solo ostacolarne la diffusione, come stanno facendo i cinesi, anche se forse con un po' di ritardo. All'inizio, secondo me, hanno sottovalutato il pericolo. Ora però hanno preso delle misure molto importanti, la quarantena per 51 milioni di persone non ha precedenti nella storia dell'uomo".
Burioni ha proseguito: "Ci sono persone che hanno contratto il virus, eliminano il virus, non hanno sintomi ma sono infettivi durante la parte finale dell'incubazione. Questo è un elemento che renderebbe più difficile la battaglia contro questo virus. Bisogna comunicare solo le notizie certe. Altrimenti si corrono due rischi: mettere in allarme la popolazione quando l'allarme non c'è. Se ogni volta che c'è una persona che torna dalla Cina con una sindrome respiratoria parliamo di caso sospetto mettiamo in allarme la popolazione. Non c'è motivo di comunicare il sospetto di un caso. Se c'è il sospetto di un caso si fanno le analisi, si capisce e si comunica solo quando si sa come stanno le cose".
I comportamenti da adottare nella vita quotidiana: "In questo momento un italiano deve fare una sola cosa, tassativamente. Non andare in Cina. Questa è la mia opinione. In questo momento non c'è motivo per andare in Cina".
Roberto Burioni, poi, motivando il suo pensiero, ha aggiunto: "Un eventuale viaggio di lavoro deve essere rimandato. Le aziende più attente hanno già rimandato i viaggi in quelle zone. Gli italiani che tornano dalla Cina devono starsene a casa, non girare molto, e stare attente ad eventuali disturbi respiratori. In presenza di disturbi respiratori bisogna chiamare il 118, che arriva, fa le analisi e chiarisce tutto. Non esiste nessun motivo per evitare i cinesi, i ristoranti cinesi o i quartieri cinesi. Una di queste sere andrò a mangiare al ristorante cinese, non ha senso evitarli".
Coronavirus, Roberto Burioni smentisce il direttore dello Spallanzani: "Contagi pure da persone asintomatiche". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. La notizia è rimbalzata su tutti i giornali: "Il coronavirus non si trasmette da persone asintomatiche". Proprio così. "I cittadini devono stare tranquilli", ha detto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto Spallanzani di Roma alla trasmissione Circo Massimo su Radio Capital, "perché il rischio reale di trasmissione si verifica con persone sintomatiche e appena i due turisti hanno avuto i sintomi sono state seguite tutte le procedure. Siamo quasi del tutto tranquilli che non ci siano stati altri contagi". Informazioni assolutamente false secondo Roberto Burioni che sul suo profilo Twitter ha postato il titolo di un articolo che uscirà domani 1 febbraio sulla rivista scientifica Medical Facts e che parla della trasmissione del coronavirus da una persona asintomatica in Germania: "Dedicato a quelli che, volendo scimmiottare i cinesi, dichiarano in televisione che 'Il virus non si trasmette da pazienti asintomatici'. Domani i dettagli su Medical Facts".
Burioni smentisce Conte: "Bimbi cinesi a scuola? Ha ragione la Lega". Il virologo, circa l'emergenza coronavirus, difende la richiesta di Veneto, Lombardia, Trentino e Friuli di isolare i bimbi tornati dalla Cina. Alberto Giorgi, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. "Giusta la richiesta di alcuni Presidenti di Regione della Lega di avere maggiore attenzione prima di riammettere bambini provenienti dalla Cina nelle nostre scuole". Così Roberto Burioni difende a spada tratta l'iniziativa di quattro regioni del Nord Italia – Veneto, Lombardia, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia – che nella giornata di ieri, lunedì 3 febbraio, per fronteggiare al meglio l'emergenza del coronavirus, hanno scritto una lettera al ministero della Sanità chiedendo che il periodo di isolamento per le persone tornate dal Paese del dragone si applicato anche ai piccoli che frequentano le scuole. Ancor prima che si levassero le faziose proteste del centrosinistra, Luca Zaia aveva precisato che "non c'è la volontà di ghettizzare nessuno, ma di dare una risposta alle tante famiglie preoccupate che hanno i loro figli che nell'età dell'obbligo vanno a scuola". Le parole del presidente veneto non sono neanche state prese in considerazione e prontamente sono arrivate le critiche alla missiva e agli stessi esponenti del Carroccio. Il premier giallorosso Giuseppe Conte ha respinto la richiesta e ha puntato il dito contro Attilio Fontana, Massimiliano Fedriga, Arno Kompatscher e Luca Zaia, chiedendo loro "di fidarsi di chi ha specifica competenza". Il presidente del Consiglio, ricacciando al mittente la lettera, ha aggiunto: "Ci dobbiamo fidare delle autorità scolastiche e sanitarie…". Ecco, benissimo, però oggi allora il sedicente avvocato del popolo si dovrebbe fidare se Roberto Burioni, noto virologo, sposi in pieno l'iniziativa dei governatori del Settentrione. E anche Walter Ricciardi ha espresso un parere sulla stessa linea, sostenendo anch'egli che chi è tornato dalla Cina non dovrebbe rientrare in classe. Su Faceook, infatti, il Burioni ha scritto: "Giusta la richiesta di alcuni Presidenti di Regione della Lega di avere maggiore attenzione prima di riammettere bambini provenienti dalla Cina nelle nostre scuole". E ha aggiunto: "Ha fatto benissimo il Ministro della Salute Roberto Speranza ad attivarsi tempestivamente e per lo stesso motivo la richiesta di alcuni Presidenti di Regione della Lega di avere maggiore attenzione prima di riammettere bambini provenienti dalla Cina nelle nostre scuole, secondo noi, è giustificata". Roberto Calderoli, vicepresidente leghista del Senato, ha allora tirato le orecchie all'inquilino di Palazzo Chigi: "Dopo le parole di illustri esperti come Ricciardi e Burioni, vediamo se la proposta dei Governatori verrà presa in considerazione, come il buon senso suggerisce di fare. Adesso che due illustri esperti in materia di virus hanno detto di appoggiare la richiesta di buon senso dei quattro Governatori di Lombardia, Veneto, Trento e Friuli di monitorare per un breve periodo lo stato di salute dei bambini di ritorno dalla Cina prima di farli tornare sui banchi di scuola, cosa diranno dal governo e dalla sinistra che avevano blaterato di sciacallaggio e allarmismo infondato?".
Roberto Burioni e Nicasio Mancini per medicalfacts.it il 6 febbraio 2020. Serviva un colpo di fortuna per avere una speranza nell’emergenza coronavirus e forse il colpo di fortuna c’è stato. Molto spesso, parlando di farmaci e vaccini, abbiamo detto che sarebbe stato meglio rassegnarsi al fatto di dovere affrontare quest’epidemia di coronavirus senza alcun aiuto, a meno di un colpo di fortuna: intendendo con colpo di fortuna il fatto che un farmaco utilizzato per un altro virus (o per un altro motivo) si fosse dimostrato efficace contro questo. Ebbene, abbiamo una buona notizia, c’è un minimo di speranza.
Cos’è l’isolamento di un virus. Prima di procedere, è opportuno ricordare cosa s’intende per isolamento di un virus. Ne avete sentito parlare soprattutto negli ultimi giorni dopo che il nuovo coronavirus è stato isolato dai due turisti cinesi ricoverati a Roma. Di cosa si tratta? In parole semplici, è la procedura che permette di far replicare il virus in laboratorio, a partire da un campione biologico di un paziente. Nel caso specifico del nuovo coronavirus, il muco e la saliva di un paziente infetto sono stati messi a contatto con cellule contenute in un recipiente. Una procedura standard, ma che non garantisce sempre alte probabilità di successo, soprattutto nel caso di virus che non si conoscono come quelli in questione. In caso di successo, però, quali sono i vantaggi di avere il virus in laboratorio?
Vantaggi dell’isolamento. I vantaggi sono molteplici, ma possono esser riassunti semplicemente nelle poche parole seguenti: migliore comprensione delle caratteristiche del virus isolato. È un po’ come quando qualcuno ci dice che ha provato un piatto delizioso e originalissimo in quel tal ristorante. Una cosa è leggere la ricetta, mentre un’altra è provarlo di persona e, poi, magari provare a rifarlo per contro proprio. Fuor di metafora, l’avere il virus permette di capire i dettagli molecolari di come entra all’interno delle cellule che infetta, di come ne altera il funzionamento interno e di come, eventualmente, le distrugge. Informazioni fondamentali per provare a mettere in pratica misure efficaci per contrastarlo. Nell’immediato di un’emergenza epidemica, c’è anche un altro importante vantaggio pratico. Un po’ come quando di domenica ci si rompe a casa un tubo dell’acqua e non riusciamo a contattare un idraulico: dobbiamo tentare di risolvere il problema con gli attrezzi che abbiamo in casa per evitare o limitare eventuali allagamenti. Allo stesso modo, ancor prima di comprenderne i dettagli molecolari dell’infezione, l’isolamento di un nuovo virus permette di valutare subito la potenziale efficacia di farmaci antivirali che abbiamo già a disposizione. O che sono ancora in fase di studio per altre applicazioni.
I primi risultati con farmaci antivirali. Di questa natura sono proprio i dati pubblicati nelle ultime ore sulla rivista Cell Research, appartenente al prestigioso gruppo editoriale Nature, da ricercatori cinesi. I colleghi, fra i primi a isolare il virus, hanno valutato la potenziale efficacia nei suoi confronti di una serie di farmaci antivirali già in uso o in fase di sviluppo contro i coronavirus, che hanno causato le epidemie di SARS e MERS. Fra le varie molecole valutate due sembrano avere una potenziale attività nel bloccare l’infezione del nuovo coronavirus. Si tratta del remdesivir (una molecola in corso di valutazione è già testata contro altri virus come Ebola), e della clorochina (un farmaco efficace contro una malattia non virale – la malaria -, ma che si è visto avere un’attività aspecifica anche contro alcuni virus). È importante, però, ricordare come un’attività evidenziata in laboratorio non garantisce l’efficacia sui pazienti. Lo studio appena pubblicato e giustamente condotto in regime di emergenza non ha, inoltre, affrontato per stessa ammissione degli autori tutte le possibili variabili sperimentali che in altre situazioni sarebbero state valutate. Attenzione, quindi, ai facili entusiasmi. Mettiamola così: l’acqua ancora scorre, l’idraulico ha forse letto il nostro messaggio sul telefonino, ma probabilmente non si farà vivo. È meglio fare di tutto per limitare il danno, impedendo all’acqua che ha iniziato a bagnare il pavimento del bagno di arrivare nel corridoio e da lì nelle altre stanze della casa.
Coronavirus, Roberto Burioni a L'aria che tira: "Cosa sta succedendo in Cina? La situazione pare molto grave". Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. Il coronavirus non è da prendere sotto gamba. Per Roberto Burioni si tratta di "un'epidemia molto grave, pericolosa che ancora però non nuoce all'Italia". Il virologo, in collegamento con Myrta Merlino all'Aria Che Tira, parla di due sostanziali problemi: sopravvalutare il virus o sottovalutarlo. Entrambi per Burioni hanno lo stesso effetto, ma "sottovalutare il problema - come è stato fatto - è ben più grave". E ancora: "Non sappiamo cosa stia succedendo in Cina, la situazione sembra molto grave". Parole pesantissime, quelle di Burioni, secondo cui insomma nessuno dovrebbe abbassare la guardia. "Se si sottovaluta il Coronavirus muoiono delle persone - spiega -. La Cina lo ha dimostrato, non ha lasciato libertà di parola, ha aggredito i medici che davano l'allarme: questo ha fatto perdere tempo prezioso". Poi il chiarimento sulle mascherine che genera diversi e controversi dibattiti: "Non è efficace per proteggersi, è utile per quelli che stanno male". Infine come poteva mancare il plauso alle ricercatrice dello Spallanzani che hanno isolato il ceppo del virus, dimostrando "che la scienza è di vitale importanza".
Coronavirus, i cinque giorni in cui il quadro clinico degrada: l'ultima evidenza nello studio. Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. Il coronavirus fa sempre più paura. Anche in Italia. Necessario, dunque, mettere in chiaro alcune cose. In primis come la fascia più a rischio sia quella 55-60 anni, come evidenzia il virologo Roberto Burioni commentando i risultati di uno studio pubblicato su Jama che descrive le caratteristiche cliniche di 138 pazienti ricoverati a Wuhan. Ma dallo studio, come riporta Il Tempo che cita le parole di Burioni, emerge un altro aspetto decisivo e inquietante. "È interessante notare come in media erano 5 i giorni che passavano dai primi sintomi più lievi a quelli più importanti, mentre erano 7 i giorni dai primi sintomi al ricovero in ospedale. Questo sicuramente è un fattore che ha favorito la diffusione del virus a Wuhan e nello Hubei durante le prime settimane dell'epidemia". Insomma, se l'incubazione è lunga - circa 14 giorni - poi il peggioramento è repentino: cinque giorni in cui il contagio da coronavirus può precipitare. Per quel che riguarda i sintomi, i più comuni sono spossatezza e tosse secca. Dunque il rifiuto del cibo, dolori muscolari, difficoltà respiratorie, mal di gola, diarrea e nausea.
Da liberoquotidiano.it il 24 febbraio 2020. Tiziana Ferrario, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, attacca duramente il virologo Roberto Burioni dandogli di fatto del "bullo" e del "sessista". Il medico sarebbe "colpevole" di aver criticato una collega dell'ospedale Sacco di Milano, dove sono ricoverati alcune persone risultate positive al test del coronavirus. "Esempio di maschilista: Burioni che usa il termine 'Signora' del Sacco per parlare di una scienziata come Maria Rita Gismondo che dirige il laboratorio di virologia al centro dell’emergenza coronavirus", scrive l'ex volto del Tg1. Quindi l'affondo finale della giornalista contro Burioni: "Quanto ancora bisogna fare per combattere il virus del sessismo e del bullismo".
Da corriere.it il 24 febbraio 2020. «In questo momento c’è un possibile contagio: senza panico, senza paura, senza comportamenti insensati come svuotare i supermercati, dobbiamo far sì che questo contagio diminuisca. Questi provvedimenti vanno in questa direzione. Alcuni che sembrano esagerati, come la chiusura delle scuole, sono sacrosanti, purtroppo. Sono sincero, mia figlia non l’avrei mandata a scuola. Sono molto contento che il presidente Fontana abbia preso questa decisione. I bambini non sono particolarmente a rischio, si ammalano ma in modo lieve, ma questa è un’arma a doppio taglio, vanno a scuola malata e poi contagiano altri bambini”. “La differenza del Corona virus con un virus normale è questa: questo virus è completamente nuovo, mentre il virus influenzale invece è una variante di quello dell’anno precedente, quindi ognuno ha un certo grado di immunità. (...) Questo virus è nuovo quindi nessuno ha anticorpi, non abbiamo medicine o vaccini. Inoltre questo virus ha la tendenza a scendere più in profondità del nostro apparato respiratorio, quindi va a toccare quella parte delicatissima dei nostri polmoni che ossigena i nostri corpi. Per questo la malattia può essere così grave. Questa è una malattia che nel 10% dei casi almeno provochi un ricovero, il 4/5% dei casi manda in terapia intensiva, mentre nell’1% dei casi il paziente non ce la fa”. “Un’epidemia come questa può non finire mai: il virus può incominciare a trasmettersi nella popolazione e piano piano diventare più buono. Ci sono da dire due cose: possiamo sperare che il virus circoli di meno con l’arrivo della bella stagione e che con il tempo diventi più buono, ci sono stati altri Coronavirus nella storia dell’uomo con il tempo diventati virus e raffreddori”. “Se prendessimo tutti questo virus sarebbe una tragedia. Dobbiamo fare l’impossibile per interrompere il contagio”. Così il virologo e divulgatore Roberto Burioni ospite a Che Tempo Che Fa su Rai 2.
DAGONEWS il 20 febbraio 2020. Alcuni ceppi del nuovo coronavirus sopravvivono nell'intestino e sono stati trovati in Cina in campioni di feci di pazienti contagiati dalla sindrome da COVID-19. La possibilità di trasmissione oro-fecale è molto probabilmente il motivo per cui il virus si sta diffondendo a macchia d’olio sulla Diamond Princess con 2.666 passeggeri e 1.045 membri dell’equipaggio: al momento i contagiati sarebbero più di 630. Il sistema di fognature di una nave crociera è chiuso e questo avrebbe aumentato la possibilità di contagio tra i malati che aumentano di ora in ora. Una circostanza che, se verificata, potrebbe portare centinaia di persone a fare causa contro il governo giapponese che li ha privati della libertà personali, lasciandoli su una nave trasformata in enorme lazzaretto dove la trasmissione è risultata molto più veloce rispetto a un altro luogo. «Questo virus ha molte vie di trasmissione, il che può spiegare in parte la sua rapida diffusione - affermano dal Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie – Il virus può essere trasmesso anche per via oro-fecale. Ciò significa che campioni di feci possono contaminare mani, cibo, acqua». L'agenzia ha raccomandato di rafforzare le misure igienico-sanitarie per prevenire la trasmissione oro-fecale nelle aree dell’epidemie. «Consigliamo di bere acqua bollita, evitare di mangiare cibi crudi, lavarsi spesso le mani, disinfettare i servizi igienici e prevenire la contaminazione di acqua e cibo con feci dei pazienti».
Tamponi rettali. Quel che è ancora più inquietante è che solo adesso si è scoperto che si può arrivare a individuare il virus attraverso tamponi rettali ancor prima rispetto ai normali test fino ad adesso utilizzati. Lo rivelano medici che combattono il virus a Wuhan aggiungendo che un tampone rettale può rilevare la presenza del virus anche quando il tampone faringeo risulta negativo. Non solo: i ricercatori hanno aggiunto che l'attuale strategia utilizzata per diagnosticare i casi di Covid-19 "non è perfetta". Nel 2003 si scoprì che anche la SARS si poteva trasmettere per via oro-fecale grazie a un campione di feci di un paziente infetto. Solo le misure igieniche possono aiutare a evitare la trasmissione: le mascherine servono a ben poco.
Dagonews il 25 febbraio 2020. Buone notizie per i petomani cinesi: il coronavirus non si diffonde con le scorregge! A dirlo è nientemeno che il centro per la prevenzione e il controllo delle malattie del distretto “Tonghzhou” di Pechino, che è stato costretto a intervenire su WeChat per rispondere alle domande, sempre più insistenti, degli utenti. Il Global Times riporta la notizia, precisando che i peti, anche quelli più tossici, non rappresentano un vettore per il virus Covid-19, “a meno che qualcuno non dia una sniffata diretta da un paziente senza mutande”. Molti cinesi sui social avevano espresso la loro preoccupazione per il fatto che il contagio potesse avvenire tramite le scorregge, soprattutto dopo la diffusione dei risultati di una ricerca guidata dal medico Zhong Nanshan sulla trasmissione tramite feci e urine. Era partita anche una petizione che invocava la produzione di massa di mascherine con filtro simile a quelle facciali ma fatte apposta per il sedere. Non dite ai cinesi che ci sono già e si chiamano mutande! Ma ora che è arrivata la voce ufficiale degli esperti, tutti più tranquilli (di fare puzzette).
Coronavirus, il direttore del laboratorio dell'Ospedale Sacco: "Follia, hanno scambiato un'influenza per una pandemia". Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze del laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano critica chi parla di pandemia per il coronavirus e ringrazia i colleghi per il grande lavoro di questi giorni. Gabriele Laganà, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Un invito ad abbassare i toni allarmistici in merito all’epidemia di coronavirus che sta creando paura in Italia arriva da Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze del laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano, struttura presso la quale vengono analizzati i campioni di possibili casi di contagio. "A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così", ha scritto sulla sua pagina Facebook la Gismondo. La dottoressa, sempre sul social, ha poi raccontato che "il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni". La Gismondo, per gettare acqua sul fuoco, ha voluto sottolineare anche quanto sta accadendo nel mondo non può essere considerata una pandemia aggiungendo che "durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!". Attraverso un altro messaggio, la dottoressa ha voluto ringraziare i colleghi che sono sottoposti ad un duro lavoro: "I miei angeli sono stremati. Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni! Serena domenica!". Come spesso accade in situazioni simili, queste affermazioni hanno dato il via ad un dibattito sul social, con gli utenti che si sono divisi in diverse fazioni. C’è chi concorda con le parole della Gismondo, non molti, e chi ha una posizione decisamente più critica e ricorda quanto sta accadendo in Cina e le misure estreme che non si sono mai adottate per una semplice influenza. Sia come sia, è inutile negare che l’avanzata del coronavirus non spaventi gli italiani. Ad ora sono 132 le persone risultate positive: di queste, ha spiegato il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, 89 sono in Lombardia e 24 in Veneto. Tra loro 25 sono ricoverate in terapia intensiva. Lo stesso Borrelli ha aggiunto che stati effettuati 3mila tamponi, ma che non è ancora stato individuato il "paziente zero". Il Capo della Protezione civile ha anche affermato che sono già disponibili "migliaia di posti letto" in decine di strutture militari in Italia nel caso in cui fosse necessario mettere i cittadini in quarantena, specificando che l'Esercito ha messo a disposizione 3.412 posti letto in oltre mille camere mentre l'Aeronautica ne ha dati circa 1.750. "Abbiamo fatto inoltre una ricognizione con le regioni per gli alberghi e siamo pronti a utilizzarli". Intanto Il Nord si "blinda". Nelle città del focolaio è scattato il divieto di ingresso e allontanamento. Scuole chiuse per una settimana a Milano dove si ipotizza di cancellare delle manifestazioni. In forse i festeggiamenti per il Carnevale a Venezia.
Coronavirus, l'Oms: "Un mistero i contagi in Italia". Hans Kluge, direttore dell'Oms in Europa, ha parlato della situazione italiana: "Non tutti i casi registrati sembrano avere un legame con viaggi in Cina o contatti con altri casi già confermati". Federico Giuliani, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Ai piani alti dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) c'è preoccupazione per quello che sta accadendo in Italia. Hans Kluge, direttore dell'Oms in Europa, ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano La Repubblica in cui ha espresso tutte le sue perplessità in merito a una situazione da monitorare con estrema attenzione. “Quello che preoccupa della situazione italiana – ha esordito Kluge - è che non tutti i casi registrati sembrano avere una chiara storia epidemiologica, cioè un legame con viaggi in Cina o contatti con altri casi già confermati”. Ed è proprio questo particolare a far salire l'allerta perché per isolare l'epidemia è fondamentale sia capire come si sono svolti gli eventi e che identificare i contagiati. “Gli sforzi delle autorità italiane sono ammirevoli – ha proseguito Kluge – Noi ci siamo offerti di lavorare insieme per dare il nostro supporto per il bene dei cittadini italiani e della comunità internazionale”. Lo scenario del nostro Paese, nonostante desti particolare apprensione, “non è una sorpresa”. Il motivo è semplice: qualcosa del genere era già stato osservato dall'Oms anche in altri Paesi diversi dalla Cina.
La finestra si sta restringendo. A proposito delle misure adottate da Roma, Kluge puntualizza un aspetto: “Gli spostamenti globali delle persone sono ormai tali che c'era da aspettarsi casi anche in altre aree del pianeta, Europa compresa. Ora dobbiamo limitare la trasmissione da persona a persona, attraverso misure di mitigazione. Il che significa una maggiore igiene delle mani e delle vie respiratorie”. Riguardo la preoccupazione degli italiani, il direttore dell'Oms in Europa invita tutti a informarsi: “Non dobbiamo dimenticare il contesto ovvero che il 98% dei casi sono in Cina, in più dell'80% dei casi le persone infettate hanno avuto sintomi lievi, mentre meno del 15% sono in condizione serie e solo nel 5% dei casi si registra una patologia grave. Al momento osserviamo una mortalità di poco sopra il 2%, la maggior parte persone anziane con patologie pregresse”. Kluge ha poi parlato della differenza che esiste tra l'influenza, “una malattia stagionale per la quale le persone più a rischio possono essere protette adeguatamente”, e il coronavirus, “un virus nuovo” per il quale non vi è ancora alcun vaccino. “Anche se i casi al di fuori della Cina restano relativamente bassi – ha concluso il direttore – cominciamo a essere preoccupati per il numero di contagi che non hanno un chiaro legame con viaggi dalla Cina o con persone già malate. Questo sta restringendo la finestra. Il contenimento però è ancora possibile”.
Coronavirus, l’infettivologo Galli: «L’epidemia è partita da un ospedale. Ecco perché tanti casi in Italia». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Perché proprio in Italia tanti casi di Covid-2019? Anche in altre nazioni europee ci sono stati casi ma non un contagio così esteso. «Non è affatto detto che in altri Paesi non possa capitare la stessa cosa» risponde Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco di Milano. «Da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione. Chi è andato all’ospedale di Codogno non era stato in Cina e, fra l’altro, la persona proveniente da Shanghai che a posteriori si era ipotizzato potesse averla contagiata è stato appurato non aver contratto l’infezione. Non sappiamo quindi ancora chi ha portato nell’area di Codogno il coronavirus, però il primo caso clinicamente impegnativo di Covid-19 è stato trattato senza le precauzioni del caso perché interpretato come altra patologia».
Che cosa è accaduto dopo l’entrata del virus nell’ospedale di Codogno?
«L’epidemia ospedaliera implica una serie di casi secondari e terziari, e forse anche quaternari. Dobbiamo capire ora bene come si è diffusa l’infezione e come si diffonderà. Che poi la trasmissione sia avvenuta inizialmente davvero in un bar o in un altro luogo andrà verificato quando avremo a disposizione una catena epidemiologica corretta. Quello che si può dire di sicuro è che queste infezioni sono veicolate più facilmente nei locali chiusi e per contatti relativamente ravvicinati, sotto i due metri di distanza».
In che modo si può pensare sia penetrato il virus in Italia: quali «strade» ha percorso?
«È verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione, abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro Paese con un quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone. Se l’avessimo fermato alla frontiera avremmo anche potuto non renderci conto della sua situazione. D’altro canto in Francia un cittadino britannico proveniente da Singapore ha infettato diverse persone pur arrivando da una zona non considerata ad alto rischio».
Perché tutti questi casi proprio in Lombardia e in Veneto e non altrove?
«Probabilmente perché Lombardia e Veneto sono le regioni in cui sono più intensi gli scambi con la Cina per ragioni economiche e commerciale, e in cui c’è inoltre un’importante presenza di cittadini cinesi. Non è detto che il primo a portare il virus in Italia sia stato un cinese, potrebbe essere stato anche un uomo d’affari italiano di ritorno da quel Paese».
Stupisce che l’epidemia sia esplosa in una cittadina di provincia. Non era più logico che accadesse da subito in una grande città, dove gli scambi sono più numerosi?
«Tutto il territorio intorno a Milano costituisce una grande area metropolitana, che vive in modo simbiotico. Moltissimi sono coloro che si spostano da un capo all’altro di questa zona. Un’epidemia come quella di Codogno sarebbe stata possibile anche altrove. Possiamo sperare che, dopo quanto accaduto, in qualsiasi Pronto soccorso d’Italia chiunque arrivi con certi sintomi sia trattato con un’attenzione specifica».
Possiamo aspettarci che con l’arrivo della stagione calda i casi diminuiscano?
«Mi auguro di sì ma per un virus nuovo non ci possono essere certezze. In Cina, nel 2002-2003, la Sars è scomparsa verso giugno-luglio. È però difficile dire se sia accaduto per l’arrivo del caldo, per la riduzione delle aggregazioni in luoghi chiusi o per gli interventi messi in atto. Anche le analogie con le epidemie influenzali sono possibili soltanto fino a un certo punto perché alcune di esse non si sono attenute in modo rigoroso all’andamento stagionale».
Perché si insiste tanto sull’importanza della diffusione di un test per gli anticorpi? Non basta la ricerca diretta del virus?
«Il riscontro diretto del virus da un secreto corporeo è fondamentale per identificare le persone che hanno l’agente patogeno in quel momento e quindi possono diffonderlo e potrebbero aver bisogno di cure. La ricerca degli anticorpi serve invece a dirci se si è già venuti in contatto con il virus, ed è utile, per esempio, in casi come quelli dell’ipotetico “paziente zero” di Codogno per stabilire se poteva essere davvero tale, oppure per condurre studi epidemiologici a posteriori, che fanno capire quante persone si sono infettate e non ce ne siamo accorti, oppure per l’identificazione di ambiti di particolare rischio. Questo coronavirus è nuovo e quindi il kit per la determinazione degli anticorpi non poteva ovviamente essere trovato in commercio, il suo allestimento è stato possibile grazie all’isolamento del virus».
Qual è la reale letalità di questa infezione. Si parlava all’inizio del 2%. È confermata?
«Per adesso, se dobbiamo parlare in base ai dati relativi alla provincia di Hubei, in Cina, la letalità è del 3,8%, lievemente salita rispetto all’inizio perché tiene conto dei decessi avvenuti successivamente. La letalità è più bassa se si considerano i casi fuori della Cina perché ci sono stati meno morti. È comunque più alta fra gli ultrasessantacinquenni, perché hanno un fisico meno idoneo a combattere l’infezione».
Qual è il momento in cui un malato è più contagioso?
«Nella Sars la massima diffusione del virus si verificava svariati giorni dopo l’inizio dei sintomi respiratori. Speriamo che sia così anche per questo virus, ci sono elementi che ce lo possono far supporre».
Che armi abbiamo contro Covid-19?
«Per curare i malati abbiamo possibilità solo di tipo sperimentale in uso “compassionevole”, cioè non all’interno di uno studio controllato, bensì in utilizzo diretto per vedere se la cura funziona. In questo modo, però avremo poche informazioni sull’efficacia o meno della terapia perché se il decorso dovesse essere infausto non potremo dire in assoluto che il farmaco non funziona, se invece fosse buono non potremmo essere sicuri che sia per merito del farmaco. Allo stato attuale si ragiona sul ricorso all’associazione Lopinavir/Ritonavir a lungo utilizzato contro l’Hiv, però non abbiamo prove con studi in vivo che funzioni davvero anche su questo coronavirus. Un’altra opzione presa in considerazione è il Remdesivir. La prima soluzione è un inibitore delle proteasi, agisce cioè verso un enzima che assembla le proteine virali, una sorta di “sarto”. Il secondo farmaco agisce invece inserisce una “tesserina” sbagliata nella catena dell’Rna del virus in modo che non possa più replicarsi».
Ci sarà un vaccino? E se sì quando?
«Il precedente dell’Hiv, per il quale stiamo ancora aspettando il vaccino dovrebbe indurre a prudenza nelle previsioni. Tuttavia l’Hiv è un virus molto diverso da questo coronavirus, che ha invece caratteristiche tali da farci pensare che si potrebbe disporre di un vaccino in tempi non lunghissimi. Vale la pena fare due annotazioni per comprendere però in quale terreno ci si muove. La prima è che siamo ancora solo ai primi passi sperimentali per il vaccino contro la Mers, che pure circola dal 2012 in una nazione ricca come l’Arabia Saudita. Una seconda considerazione è che per la Sars l’interesse a realizzare un vaccino c’è stato ma è subito scemato perché la malattia è sparita in fretta. Nel caso di Covid -19 l’infezione sta interessando tutto il mondo e quindi lo sforzo della ricerca è molto più robusto e diffuso. Va infine ricordato che nella produzione di un vaccino entrano tante variabili che rendono difficile fare previsioni. Sarebbe più facile realizzare un vaccino per un virus pandemico influenzale perché le modalità di produzione per quel tipo di vaccino sono ampiamente sperimentate. Intanto sarebbe opportuno imparare a vaccinarci contro l’influenza. I dati di adesione, anche fra gli ultrasessantacinquenni sono ancora troppo bassi».
Che cosa fare ora, come comportarsi come singoli cittadini?
«Condurre la propria vita normalmente attendendo disposizioni da parte delle autorità preposte e rispettarle».
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 27 febbraio 2020. «Dobbiamo prevenire un'altra zona rossa», sottolinea il professor Massimo Galli, docente di malattie infettive e primario dell'ospedale Sacco di Milano: è giusto informare i cittadini sull'andamento del contagio perché la priorità è limitare la diffusione del coronavirus.
Comunicando in tempo reale il numero dei contagiati non abbiamo alimentato il panico?
«Ci sono state molte critiche alla Cina perché non avrebbe detto tutto e subito. E ora qualcuno salta su dicendo che, essendo capitato da noi, è scorretto e pericoloso informare la popolazione. Siamo un paese democratico ed evoluto, in cui senza fare allarmismo è giusto che tutti sappiano. È il male minore o il bene maggiore, veda lei. Non serve un atteggiamento paternalistico».
Come va gestita questa fase?
«Ti devi aspettare una reazione emotiva, carica di negatività, nella gente che purtroppo anche nella civile Milano, la città mia e dei miei avi, va a svuotare i supermercati. L'epidemia scatena da sempre negli esseri umani paure e alcuni dei peggiori istinti. Noi abbiamo avuto, in fondo, solo una pallida dimostrazione. Ma è importante informare, suscitare e mantenere fiducia. Va fatto capire che si sta facendo lo sforzo massimo».
Questa scelta di fare i tamponi in modo massiccio è stata giusta?
«Stiamo affrontando una circostanza senza precedenti. Che è la conseguenza probabilmente di un singolo episodio. Qualcuno è arrivato, chissà da dove, durante la seconda metà di gennaio, al massimo ai primi di febbraio, e ha portato il contagio nel Lodigiano. Mentre tutti eravamo convinti che in Italia non ci fosse circolazione del virus, in quell'area stava circolando alla grande. Si sta giusto rilevando quanto l'ha fatto, scoprendo i già infettati mediante i test attuati nei contatti dei casi riconosciuti per primi. La differenza tra il numero dei casi riportato ieri e quello di oggi non è rappresentata da nuovi contagi degli ultimissimi giorni, ma in maggioranza dello sforzo di identificare anche chi si è infettato da due settimane o più. In altre parole, aumentano i riscontri, non i contagi nelle ultime ore. Per capire come andrà in prospettiva dobbiamo vedere quali risultati avremo una volta che avremo finito di fare il test nei contatti dei primi casi. Non possiamo non fare i tamponi».
Perché?
«Senza questi controlli così diffusi non riusciremo a circoscrivere e contenere il focolaio. Non sappiamo se quello nel Veneto è un focolaio autonomo o un satellite del Lodigiano, ma i casi di Piemonte, Liguria, Emilia e altri in giro per l'Italia sono probabilmente da ricondurre a contatti con la zona rossa. E va bene così, altrimenti avremmo a che fare con molti focolai e molte più difficoltà nel contenerli».
Se anche Francia e Germania avessero svolto lo stesso numero di test, avrebbero avuto molti casi positivi?
«Le Monde ha parlato di tre casi autoctoni in Francia. Spero di no, ma non è impossibile che eventi analoghi possano manifestarsi anche in altre aree».
Ma è così importante trovare il paziente zero a Codogno?
«Una rigorosa indagine epidemiologica va sempre fatta, risalire all'origine ci permetterebbe di tracciare una linea temporale: un prima e un dopo l'inizio dell'epidemia».
Il Consiglio superiore della Sanità dice: ora i test solo a chi ha i sintomi.
«Già per fare i tamponi a tutti quelli che hanno sintomi occorre uno sforzo immane del personale di laboratorio e una disponibilità di materiale adeguata, non è tutto così ovvio. Sarebbe impossibile per qualsiasi paese, perfino per gli Stati Uniti, eseguire in breve tempo una grande massa di test. Questa è l'epidemia zero del terzo millennio. Una situazione di questo genere nell'Europa del Duemila non si è mai verificata. Sia chiaro, questa non è l'epidemia che cancellerà l'umanità: la grande maggioranza delle persone colpite sviluppa sintomi modesti, il decorso nei bambini è blando, anche se possono avere una funzione importante come amplificatori del contagio».
Ma dobbiamo continuare a indagare per limitare il focolaio.
«Non possiamo avere una seconda Codogno. Senza gettare la croce sui colleghi, dobbiamo tenere conto di ciò che è già capitato ed evitare si ripeta. L'ospedale ha fatto da amplificatore, purtroppo un caso di scuola, come è successo altrove per la Mers e per la Sars. Ma ovviamente l'epidemia si è generata fuori dall'ospedale. E i medici non potevano sapere che il paziente con cui avevano avuto a che fare fosse da considerare sospetto. Le indicazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità non lo identificavano come sospetto: non risultava che fosse stato in Cina, né a contatto con persone infette. Dobbiamo però evitare altri casi simili, essere maledettamente attenti. Chi dice che facendo troppi tamponi rischiamo di screditarci all'estero non si rende conto della situazione. Dobbiamo contenere il contagio senza se e senza ma».
Coronovirus, il professor Menichetti: virus tecnicamente "inarrestabile". Il dato sui focolai autoctoni. Libero Quotidiano il 22 Febbraio 2020. La verità è che il contagio da coronavirus è "inarrestabile". A chiarirlo subito è Francesco Menichetti, docente di Malattie infettive all'Università di Pisa, che con il Quotidiano nazionale commenta l'esplosione dell'epidemia in Lombardia e in Veneto che ha portato alle prime 2 vittime. Il coronavirus ha un valore di R0 compreso tra 2,5 e 2,8 e "questo significa che ciascun infetto può generare circa 2-3 ulteriori soggetti infetti". Il valore entro il quale l'Oms valuta come "contenibile" un'epidemia dev'essere inferiore a uno. L'unico modo per rispondere alla polmonite virale è imitare la Cina, dove "hanno messo in quarantena 60 milioni di persone, con un grande sforzo economico e sociale. L'Europa e l'Italia non possono essere da meno: chi è stato in Cina, non solo nell'area di Wuhan, ma in tutto il Paese, deve essere messo in quarantena. Qualunque sia la nazionalità. Bisogna che stiano a casa 14 giorni e contattino i servizi". Sarebbe "prematuro", spiega ancora il professore, "stimare quando finirà l'allarme. È successo ciò che si era già verificato in Francia e Germania, ma speravamo non succedesse". Ora la battaglia è contro i "focolai autoctoni": servono "decisioni energiche e rapide, dando segnali chiari senza spargere panico ma anche senza sottovalutare l'emergenza". Le precauzioni per i cittadini sono quelle classiche, valide per ogni tipo di influenza molto aggressiva: mascherina protettiva, specialmente "sui mezzi pubblici e in ambienti chiusi e affollati come stazioni, palestre, scuole, sale d'attesa". Consigliabili anche un paio di occhiali per le congiuntive oculari, oltre ovviamente al lavaggio frequente delle mani con sapone e disinfettante. Su treni, autobus e metropolitana se possibile mantenere un metro di distanza, evitando di toccarsi occhi, naso e bocca con le mani sporche e quando si starnutisce, meglio un fazzoletto usa e getta o l'incavo del gomito al posto delle mani.
LUCA FRAIOLI per repubblica.it il 23 febbraio 2020. "Quello che preoccupa della situazione italiana è che non tutti i casi registrati sembrano avere una chiara storia epidemiologica, cioè un legame con viaggi in Cina o contatti con altri casi già confermati". Hans Kluge, direttore dell'Organizzazione mondiale della sanità in Europa, sta seguendo minuto per minuto l'evoluzione della crisi da coronavirus in Lombardia e Veneto. Ieri ha parlato con il ministro Roberto Speranza e con il direttore generale della Sanità del Veneto Domenico Mantoan. Inoltre l'Oms ha organizzato una teleconferenza con gli esperti del ministero della Salute e della Regione Lombardia. "Gli sforzi delle autorità italiane sono ammirevoli", dice il numero uno dell'Oms nel continente. "Noi ci siamo offerti di lavorare insieme per dare il nostro supporto, per il bene dei cittadini italiani e della comunità internazionale".
Come valuta l'esplosione di casi di Covid-19 nel Nord Italia?
"Non è una sorpresa. Lo abbiamo già osservato in altri paesi diversi dalla Cina. Però ora è molto importante capire come si sono svolti gli eventi, identificare e tracciare i contagi: occorre che le autorità sanitarie italiane si focalizzino su questo aspetto".
Pensa che qualcosa sia andato storto nelle misure adottate finora per limitare la diffusione del coronavirus dalla Cina all'Europa e in particolare all'Italia?
"La Cina ha adottato una strategia di contenimento nell'epicentro dell'epidemia, inclusa una grande enfasi sui controlli di chi esce dall'area. Il risultato è impressionante: solo il 2% dei casi totali è stato registrato fuori dalla Cina. Tuttavia gli spostamenti globali delle persone sono ormai tali che c'era da aspettarsi casi anche in altre aree del pianeta, Europa compresa. Ora dobbiamo limitare la trasmissione da persona a persona, attraverso misure di mitigazione. Il che significa una maggiore igiene delle mani e delle vie respiratorie".
Cosa si sente di raccomandare agli italiani?
"Capisco la loro preoccupazione. È la stessa di mia moglie e delle mie figlie. Per questo invito tutti a documentarsi sul Covid-19 su canali informativi affidabili, quelli del Ministero della Salute, dell'Istituto superiore di sanità, dell'Organizzazione mondiale della Sanità. Sicuramente non ci proteggerà dal contagio la discriminazione di chi ha un'origine diversa dalla nostra. È il tempo della solidarietà e della cooperazione. E poi non dobbiamo mai dimenticare il contesto: il 98% dei casi sono in Cina, in più dell'80% dei casi le persone infettate hanno avuto sintomi lievi, mentre meno del 15% sono in condizione serie e solo nel 5% dei casi si registra una patologia grave. Al momento osserviamo una mortalità di poco sopra il 2%, la maggior parte persone anziane con patologie pregresse. Detto questo, nelle aree italiane colpite il rischio di infezione può essere alto e per questo i residenti devono seguire le raccomandazioni delle autorità, compreso il non frequentare luoghi affollati".
Ci si può mettere in viaggio, per esempio su un treno affollato?
"Nei luoghi affollati, oltre all'igiene delle mani, è sempre bene tenere una distanza di uno o due metri tra gli individui per evitare il contagio".
L'influenza fa centinaia o migliaia di morti ogni anno in Italia. Perché allora il Coronavirus preoccupa così tanto gli esperti che oggi lo considerano il nemico pubblico numero uno?
"Lo prendiamo molto sul serio perché è un virus nuovo: questo significa che nessuno di noi è immune. L'influenza invece è una malattia stagionale per la quale le persone a più rischio posso essere protette adeguatamente. Eppure fa 50mila morti ogni anno in Europa. Tuttavia il vaccino esiste e funziona, e noi lo raccomandiamo agli anziani, alle donne in gravidanza, ai malati cronici e al personale sanitario. Covid-19 è un virus nuovo e noi stiamo facendo ricerca per arrivare a una cura e per predisporre un vaccino. Che però richiederà del tempo. Dunque dobbiamo puntare su misure di salute pubblica che possono essere adottate già oggi per salvare delle vite".
Cosa intendeva dire il direttore generale dell'Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus quando ha dichiarato: "Si sta chiudendo la finestra che avevamo per contenere i focolai"? Stiamo perdendo la battaglia col coronavirus?
"Intendeva dire che il basso numero di casi al di fuori della Cina ci ha finora offerto l'opportunità di contenere la diffusione internazionale. Ora, anche se i casi in altri paesi restano relativamente bassi, cominciamo a essere preoccupati per il numero di contagi che non hanno un chiaro legame con viaggi dalla Cina o con persone già malate. Questo sta restringendo la finestra. Il contenimento però è ancora possibile. A patto che ci si prepari adeguatamente, soprattutto nei paesi con sistemi sanitari vulnerabili. Ma la comunità internazionale non sta ancora agendo in questa direzione".
Stefano Rizzuti per fanpage.it il 23 febbraio 2020. Per il virologo Roberto Burioni il Coronavirus non può essere definito “poco più di un’influenza”. In un intervento sul suo sito Medical Facts Burioni sembra rispondere a Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano che analizza i campioni di possibili casi di coronavirus Covid-19 in Italia. Burioni avverte: “Attenzione a chi, superficialmente, dà informazioni completamente sbagliate. Leggete i numeri”. Maria Rita Gismondo aveva scritto su Facebook: “A me sembra una follia. Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale. Non è così”.
Burioni: coronavirus come influenza è scemenza gigantesca. Il virologo spiega che l’obiettivo del suo sito, Medical Fact, è stato sin dal primo momento “il tentare di informare nella maniera più corretta i nostri lettori. Mai allarmismi, ma neanche si possono trattare i cittadini come bambini di 5 anni. Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal Coronavirus sarebbe poco più di un’influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero”. Burioni ricorda che “in questo momento in Italia sono segnalati 132 casi confermati e 26 di questi sono in rianimazione (circa il 20%). Sono numeri che non hanno niente a che vedere con l’influenza (i casi gravi finora registrati sono circa lo 0,003% del totale). Questo ci impone di non omettere nessuno sforzo per tentare di contenere il contagio. Niente panico, ma niente bugie”.
Le parole di Ilaria Capua su Fanpage.it. Negli scorsi giorni è intervenuta su Fanpage.it la virologa Ilaria Capua, parlando proprio di come va affrontata e definita l’emergenza Coronavirus: “Chiamiamo le cose con il loro nome – scrive Capua – questa che stiamo vivendo oggi, con sedici casi finora accertati in un giorno solo, è un’emergenza sanitaria che possiamo chiamare sindrome influenzale da Coronavirus. Influenzale, già. Perché questa infezione provoca nella stragrande maggioranza dei casi sintomi molto lievi e solo in pochi casi provoca effetti gravi. Esattamente come ogni normale influenza”.
Coronavirus, la direttrice del laboratorio Sacco: «Non esagerate, state calmi, una follia che farà male». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 da Corriere.it. Maria Rita Gismondo Nel laboratorio di analisi dell’ospedale Luigi Sacco di Milano, punto di riferimento per il Nord Italia per effettuare gli esami dei tamponi che rilevano la positività al coronavirus, si lavora giorno e notte, senza sosta. Arrivano migliaia di campioni (stimati 3000), la stragrande maggioranza sono negativi. Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, in un momento di tranquillità si sfoga su Facebook: «Mio bollettino del mattino. Il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni. A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri. Questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico. I miei angeli sono stremati. Corro a portar loro la colazione. Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni! Serena domenica!». E poi ancora: «Leggete! Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!» Sabato un altro aggiornamento. «Fino a quando il virus non sarà sconfitto, faremo la staffetta di 5 ore per coprire h 24 le necessità diagnostiche. Forniamo risposta in 3 ore. Sono fiera dei miei angeli. Sto accanto a loro, non solo per aiutarli ma anche per proteggerli... State tranquilli. Leggete il mio post sull’influenza ed il Coronavirus vi apparirà nella sua più realistica realtà. Buon pranzo... a voi. Dormo 2 ore». E i suggerimento per tutti: fate riferimento alle raccomandazioni del ministero della Salute. «Scusate, ma state calmi...forse sono davvero burned...questa settimana sono morti in Italia 2 pazienti a causa del Coronavirus e 24 per influenza. Rispettivamente 50 casi positivi e 656.000...mah! per me c’è un chiasso eccessivo...buonanotte. Dormo con un orecchio al telefono. Domani mattina alle 7 sarò in ospedale. Fate sogni d’oro!»
Fabrizio Caccia per corriere.it il 23 febbraio 2020.
Ha letto, Roberto Burioni, cosa ha dichiarato Matteo Renzi?
«Vi prego, basta con le polemiche e le divisioni. Qui siamo tutti sulla stessa barca: destra, centro e sinistra. Il virus è democratico e infetta tutti. Perciò benissimo ha fatto il ministro Speranza a prendere ora dei provvedimenti assolutamente necessari. Ma Renzi che ha detto, scusi?».
Che lei sul coronavirus «non ha mai sbagliato un colpo, anche quando veniva attaccato».
«Eh lo so, mi hanno dato dell’allarmista, addirittura del fascioleghista, perché dall’inizio ho sostenuto che l’isolamento delle persone provenienti dalla Cina fosse l’unico modo efficace per evitare il diffondersi del virus. Sottolineo: persone, non cinesi».
Niente razzismo.
«Per carità! Ma io non m’offendo mai, lascio correre, anzi querelo solo se mi danno del romanista, data la mia risaputa fede calcistica laziale. Però sono un virologo che studia la materia da 35 anni e se m’hanno chiamato a insegnare al San Raffaele di Milano, forse un motivo ci sarà, no? Però adesso niente panico e remiamo tutti nella stessa direzione. Mi appello soprattutto alla responsabilità dei cittadini italiani».
Che vuole dire?
«Dico: niente panico, perché davanti a 16 casi, 14 in Lombardia e 2 in Veneto, l’Italia può benissimo reagire e contenerli».
Ma come?
«In primis bisogna individuare tutte le persone entrate in contatto con questi malati. E sarà meglio, secondo me, isolarne 20 di più che 20 di meno. Due settimane di quarantena non sono mica 10 anni di carcere duro! Si tratta di un piccolo sacrificio che tutti questi cittadini, ne sono sicuro, sapranno affrontare per il bene pubblico. E lo stesso deve valere, senza alcuna eccezione, per chi viene in Italia dalla Cina facendo scalo in altri aeroporti. Quarantena per tutti! Perché davanti a un virus così pericoloso è il momento di non pensare più al profitto individuale o al proprio tornaconto politico. Anzi, spero che chi sta cercando di sfruttare ora la situazione per guadagnare consensi, venga un giorno punito severamente dagli elettori».
Lei lo scrisse già l’8 gennaio scorso, in tempi non sospetti, sul suo sito Medical Facts Ma non le diedero molto retta...
«Sì, scrissi così: in Cina c’è un guaio... E poi il 25 gennaio sempre sul sito proposi la quarantena per tutte le persone che tornavano da là. Invece mi criticarono, dandomi del bugiardo, perché sostenevo pure la possibilità che i pazienti asintomatici potessero trasmettere l’infezione. Ebbene, purtroppo, tutto questo è successo: il coronavirus ora è in Italia e ci è arrivato con un individuo proveniente dalla Cina che, praticamente asintomatico, ha infettato un italiano che poi ha contagiato altre persone. A questo punto, però, bisogna evitare altre due cose».
Quali?
«La sopravvalutazione e la sottovalutazione del virus. Sopravvalutarlo può creare forti disagi nella vita dei cittadini. Guai però a sottovalutarlo: perché si può morire».
Da Circo Massimo - Radio Capital il 26 febbraio 2020. Burioni spegne le polemiche con "la signora del Sacco". Il virologo aveva criticato le posizioni sul coronavirus di Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio Diagnostica Bioemergenze dell'ospedale milanese. Lei oggi gli risponde: "Lasciamolo alla sua gloria". A Circo Massimo, su Radio Capital, Burioni chiede scusa per i toni: "Mi dispiace per la mia frase in cui ho definito la collega Gismondo 'la signora del sacco', è stata una frase sfortunata. La collega ha sbagliato a riportare un dato, che per me poteva generare pericolo: ha preso un numero, la mortalità generale al giorno in 19 città campione, pari a 217 morti, e l'ha attribuita all'influenza", spiega il professore dell'Università San Raffaele, "Questo vorrebbe dire 80mila morti all'anno, è evidente che non è vero. Uno può avere il proprio punto di vista personale sul fatto che una certa cosa sia grave o no, ma alla fine ci sono i numeri". A questo proposito, Burioni ribadisce la sua posizione: "Ho sempre invitato a non avere panico, ho sempre detto con chiarezza che non c'era motivo di perdere il controllo, e sono rimasto stupito quando ho visto i supermercati depredati. Allo stesso momento, questo virus non è come un'influenza: è un virus contagioso, che può essere pericoloso. Non è la peste nera, ma non è un'influenza. Dobbiamo combatterlo, va arrestato il contagio nel più breve tempo possibile. E non è il momento delle polemiche: bisogna essere tutti uniti nell'affrontare questo problema". Il virologo poi avverte: "Per i calcoli più accurati, la mortalità è l'1%. Ma quello che rende pericolosa la malattia per la nostra sanità è che non è irrilevante, rispetto all'influenza, il numero di persone che finiscono in terapia intensiva. Questo potrebbe saturare il nostro sistema sanitario e aumentare la mortalità per altre malattie. Pensiamo a una persona colpita da infarto che non trova posto in rianimazione. I numeri ci dicono che siamo di fronte a un contagio che va interrotto. E credo che su questo nessuno possa essere in disaccordo". Eppure, il disaccordo regna, in particolare sulle misure previste. Misure che Burioni promuove: "Io non penso che l'Italia stia sbagliando. Penso che abbia avuto un approccio molto severo a questa malattia. L'unico rammarico è che l'Europa poteva muoversi in un modo omogeneo e non l'ha fatto. È stato un peccato". Promossa anche la chiusura delle scuole: "Credo che sia stata una buona idea. I bambini non sono particolarmente in pericolo, perché in loro sembra che questa malattia sia particolarmente lieve. È una cosa molto positiva, però allo stesso tempo questa notizia ha un lato negativo: se i bambini si ammalano in maniera lieve, magari vanno a scuola ugualmente e il contagio potrebbe diffondersi in maniera incontrollata. Si può pensare a una rinuncia dolorosa, ma io penso che sia una scelta che ha senso". Burioni poi nota come "le notizie più brutte non siano arrivate: temevo che ci fossero altri focolai, e invece sono sostanzialmente due. L'aumento dei casi in questo momento non ci deve preoccupare: le malattie di oggi sono i contagi di sei giorni fa, vedremo gli effetti dei nostri sacrifici fra qualche giorno. Ma il fatto che non ci siano altri focolai diffusi è un dato molto positivo. Sottolineamolo, perché vuol dire che forse il sistema sta funzionando". Per le sue posizioni, Burioni ha attirato molte critiche, e in molti lo tacciano di arroganza: "Ho sempre tentato di fare capire alle persone che numeri e fatti hanno una loro forza. 2+2 fa 4, chi lo dice conosce la matematica, non è arrogante", dice, "Per me la vera arroganza è quella di persone che parlano di argomenti complicati come la virologia senza aver studiato. Di virologi della domenica ce ne sono tanti anche adesso. E forse sono più pericolosi degli antivaccinisti. Tento di proporre il valore dello studio, della competenza, del fatto che io stesso quando devo montare una presa elettrica chiamo l'elettricista, perché fare l'elettricista è una cosa complicata e io non lo so fare". Critiche anche per il tweet in cui il professore, tifoso laziale, ha scritto "se avessi pieni poteri, per prima cosa scioglierei l'AS Roma": "Sono giorni difficili e siamo tutti sotto tensione, ho fatto questa battuta per sdrammatizzare. Non voglio pieni poteri: il governo ha scelto come consulente Walter Ricciardi, un amico e una persona capace, una scelta ottima. Farà lavoro ottimo, sicuramente migliore di quello che avrei fatto io. E anche Ricciardi è della Roma... fra l'altro, è il momento in cui alcune partite vanno giocate a porte chiuse e per noi tifosi è un sacrificio, ma in questi momenti qualche sacrificio è necessario".
Burioni chiede scusa alla “signora” del Sacco. E sul virus: “Ne sappiamo ancora poco”. Il Dubbio il 27 febbraio 2020. Dopo lo scontro con la virologa Gismondo di Milano il medico-divulgatore corregge il tiro: “Mi preoccupa la saturazione degli ospedali”. “Io sono il primo a dire che il coronavirus non è un raffreddore. Ma questo non significa che sia la peste”. In un’intervista al Corriere della Sera, Roberto Burioni, medico ed esperto virologo, dice che “la paura è un virus e il suo vaccino è l’informazione” e “se un bambino teme che nella stanza ci sia un mostro”, la prima cosa da fare è “accendere la luce”. Ed è forse per questo motivo che ha polemizzato con la collega dell’istituto ospedaliero Sacco di Milano, la dottoressa Gismondo, “che citava un numero palesemente erroneo”, ma oggi attraverso le colonne del quotidiano di via Solferino Burioni fa ammenda e si scusa: “Sono io che ho sbagliato. Non avrei dovuto reagire chiamandola in quel modo. Non avrei proprio dovuto risponderle in pubblico”. A lei, Burioni, si è riferito come “la signora del Sacco”. “Avrei dovuto scriverle in privato e non l’ho fatto. O meglio, l’ho fatto poco fa. Le ho appena mandato una mail di scuse. Lei ha sbagliato un numero e io una parola. Ma sono giorni così, siamo tutti sotto pressione”, si giustifica il virologo. Burioni esprime tutta la propria “solidarietà a tutti i medici e gli infermieri che lavorano in prima linea”. “Io sono nelle retrovie – afferma -, ma loro sentono fischiare i proiettili. Questa è una emergenza nazionale, perchè non e’ limitata a una porzione di territorio come un terremoto. Percò richiede un coordinamento”. Coordinamento che forse e’ mancato, e infatti Burioni se la prende soprattutto con l’Europa, sulla quale dice: “Sono cresciuto con il mito degli Stati Uniti d’Europa. Vedere che non riesce a gestire neanche questa emergenza Il virus non e’ una questione divisiva come i migranti. Bastava fissare una linea comune stesse regole a Parigi e a Milano e ci si sarebbe tranquillizzati l’un l’altro”. Poi l’affondo: “Non si possono chiudere frontiere che non ci sono più”. Quindi Burioni entra nel merito e dichiara: “Di questo virus sappiamo ancora pochissimo. Non sappiamo neppure se chi guarisce può infettarsi di nuovo. Ma non dobbiamo riempire i vuoti di conoscenza con le scemenze. Il virus è passato dal pipistrello all’uomo, questo è sicuro” e se la prima malata cinese in Italia è guarita, aggiunge il medico, “prima di guarire è stata ricoverata quasi un mese. A preoccuparmi e’ proprio la saturazione degli ospedali”.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2020. Burioni è stato simpatico finché non ha fatto nulla per esserlo. Gli italiani lo conobbero ai tempi del precedente contagio, l' uno-vale-uno-virus, quando la sua voce autorevole si alzò contro l' egualitarismo da operetta che pretendeva di mettere sullo stesso piano i Nobel e gli Ignobel. Fu un periodo breve ma devastante, di cui portiamo ancora le conseguenze. Infuriava la polemica sui vaccini e appena il virologo Burioni osò intimare a uno scienziato del web «quando parlo io, tu stai zitto e prendi appunti», gli dedicai una ola in cuor mio. Questo pregiudizio positivo mi ha reso parziale nei suoi confronti. Se un politico avesse irriso la direttrice del laboratorio milanese in prima linea contro il coronavirus, chiamandola «la signora del Sacco», sarei rimasto nauseato da tanto becero maschilismo. Poiché invece il maschilista era Burioni, ho glissato. Ieri però su Twitter ha scritto: «Se avessi i pieni poteri, per prima cosa scioglierei la Roma», essendo lui della Lazio. Una battuta per sdrammatizzare, immagino. E molto meno grave della precedente. Ma l' effetto cumulativo mi costringe a ricordargli che ci sono momenti nella storia in cui i competenti non possono permettersi il rischio di passare per macchiette. Vi immaginate Churchill che finisce il discorso «lacrime sudore e sangue» gridando «abbasso il Liverpool»? Burioni adesso è il nostro piccolo Churchill. Al suo ego incoronato non fa bene sconfinare nel tifo, l' unico campo dello scibile dove davvero uno vale uno.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 26 febbraio 2020. Sarà anche vero che gli italiani danno il meglio di sé nelle emergenze. Ma stavolta gli italiani che danno il meglio di sé nelle emergenze si vedono poco, impallati come sono da quelli che danno il peggio di sé: migliaia, anzi milioni di sedicenti virologi sbucano in ogni dove, ormai più numerosi dei commissari tecnici della Nazionale di calcio. Utilissimi, fra l' altro, per sopperire alla penuria di virologi certificati, visto che i pochi esistenti sono sequestrati da giorni in tutti gli studi televisivi, inclusi quelli del Segnale orario e di Protestantesimo, per parlare di Coronavirus h 24. Io, che virologo non sono né mai sarò, lascio volentieri a costoro il compito di spiegarmi chi è il vero paziente zero, quando arriva il vaccino, perché l' Italia ha più morti e contagiati degli altri Paesi europei, cos' avrebbe dovuto fare il governo per averne di meno. Nel frattempo, da semplice spettatore preoccupato, ho già visto cose che voi umani...
Ho visto un vero virologo, il borioso Burioni, brutalizzare una vera virologa, la meno boriosa Gismondo (rea di avergli rotto il giocattolo dell' allarmismo dicendo la verità, e cioè che ne ammazza più l' influenza che il Coronavirus), chiamandola "la signora del Sacco", precisando che "signora sostituisce un altro epiteto che mi stava frullando nelle dita", ma non specificando quale sarebbe il grazioso e frullante epiteto. Boriosa? Burina? Buriona?
Ho visto Burioni ordinare gli italiani di "non ascoltare i virologi della domenica". E proprio nella giornata di domenica.
Ho visto tre infettivologi di chiara fame - Feltri, Sallusti e Belpietro - discettare di coronavirus con la stessa enciclopedica competenza con cui disquisivano di bunga bunga e Ruby nipote di Mubarak, per giungere alla stessa conclusione: che anche il Coronavirus, come le toghe, è rosso.
Ho visto rinviare il processo Ruby-ter perché il pm ha notato in Tribunale un eccessivo assembramento di imputati (28, incluso B.), avvocati (il doppio) e magistrati (tre giudici e un pm) "in contrasto con la circolare della Corte d' appello sulle situazioni ambientali a rischio di contagio" da mazzettavirus.
Ho visto Conte, tra una D' Urso e un Giletti, telefonare a Salvini e trovare occupato perché quello stava chiacchierando con la Madonna di Medjogorje, o chi per essa.
Ho visto, con rispetto parlando, Pietro Senaldi spiegare a Conte come si fa il premier ("Conte inetto, Paese infetto"), ma minacciarsi "pronto a collaborare" col governo, come se il virus non facesse già abbastanza danni da solo.
Ho visto Renato Farina, in arte Betulla, titolare sulla prima di Libero "Accogliamo tutti, anche il virus: si spalancano i porti per 274 migranti", sorvolando che quelli giungevano dal Maghreb e non dalla Cina, con una lievissima confusione non fra Stati, ma addirittura fra continenti, che fa quasi rimpiangere i bei tempi in cui il nostro era il ventriloquo di Pio Pompa, spione senz' altro al corrente della differenza fra Asia e Africa.
Ho visto la giunta forzaleghista della Regione Liguria annullare per sicurezza tutte le manifestazioni affollate da domenica sera e Salvini presenziare domenica sera a Genova una manifestazione affollata da 1500 persone per accusare il governo di lesa sicurezza.
Ho visto Salvini sostenere che "il governo deve chiedere scusa agli italiani perché l' Italia è il terzo Paese al mondo per contagi, davanti persino al Giappone, che confina con la Cina" anche se è un arcipelago e confina col mare.
Ho visto il governatore leghista della Lombardia, Attilio Fontana, forse confuso dalle orecchie che gli fischiavano mentre Salvini denunciava il record negativo di contagiati in Italia, quasi tutti in Lombardia, annunciare di aver "individuato due persone che potrebbero essere i pazienti zero", senza peraltro escludere che i pazienti zero possano essere pure una dozzina.
Ho visto il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, annullare il Carnevale di Venezia appena in tempo per il Mercoledì delle Ceneri e l' inizio della Quaresima.
Ho visto l' Innominabile, oscurato dall' epidemia e in astinenza da interviste, sciogliere Italia Viva e fondare Italia Virus.
Ho visto inviati dei giornali indaffaratissimi a domandare se per caso qualcuno dei 222 infetti non percepisca il Reddito di cittadinanza.
Ho visto la Rai vietare ai suoi giornalisti di viaggiare da Milano a Roma per non infettare i colleghi romani, anche se i primi casi di infezione si sono registrati proprio a Roma.
Ho visto noti zozzoni perdere il vizio diffuso di andare allo stadio e acquistare quello più raro di lavarsi col sapone.
Ho visto cinesi tenersi alla larga dal Nord Italia per paura di beccarsi il virus cinese.
Ho visto nel Sud Italia i primi cartelli "Non si affitta ai settentrionali".
Ho visto una deputata di Fratelli d' Italia entrare in aula con la mascherina per passare a Italia Viva senza vergognarsi troppo.
Ho visto parlamentari di centrodestra diventare "responsabili" di centrosinistra a volto scoperto, senza mascherina e senza vergognarsi affatto.
Ho visto parlamentari leghisti chiedere la chiusura delle Camere per migliorare lo score di presenze di Salvini.
Ho visto ignoti sciacalli citofonare alle vecchiette per svaligiare le loro case con la scusa dell' esame del tampone.
Ho visto un noto sciacallo citofonare random a tutti i lodigiani (prima di passare ai padovani): "Scusi, lei è paziente zero?".
“Burioni? Lasciamolo alla sua gloria, io mi occupo di scienza e dico: non siamo in guerra”. Il Dubbio il 26 febbraio 2020. La dottoressa Gismondo, direttrice del centro di virologia dell’ospedale Sacco attaccata da Burioni, spiega che gli allarmi peggiorano la situazione. “Burioni? Lasciamolo alla sua gloria”. Risponde così la dottoressa Maria Gismondo, la direttrice di Virologia dell’ospedale Sacco di Milano che, nei giorni scorsi, aveva dovuto subire una ramanzina social da parte del noto divulgatore scientifico. La colpa della dottoressa Sacco, secondo Burioni, è stata quella di aver sottovalutato il virus relegandolo a normale “influenza”. Apriti cielo: Burioni a quel punto ha usato tutta la sua forza mediatica per rimproverare la dottoressa Sacco la quale, invece di reagire, era tornata in corsia a lavorare h24: “In queste settimane sono andata a casa a dormire, due-tre ore a notte. La mia famiglia sono due figlie e una nipotina di 9 anni. E un cane femmina Nala, quella del Re Leone”. E la dottoressa Gismondo oggi, in un’intervista a Repubblica, continua sulla sua linea: “No allarmismo, molta attenzione e molto lavoro da parte nostra. Spiegare le cose alla gente, informare, dicendo onestamente che le cose possono cambiare in bene o in peggio. Ma dire le cose vere con molta obiettività. C’è un bombardamento di notizie che fomentano la paura, c’è stato un lavaggio del cervello collettivo. Sembra che siamo in guerra. Ma non siamo in guerra”. E poi: “Chi si interessa di salute ha il dovere di spiegare. Così tutti i papà e le mamme si tranquillizzano. Se invece li invadi con video di città deserte, ambulanze a sirene spiegate eccetera, crei il panico. Tutte le misure adottate possono sembrare un’esagerazione, dal punto di vista scientifico. Ma bisogna dare risposte alla gente. Poi, spesso la salute viene strumentalizzata a livello politico. E qui mi fermo. Ma è inaccettabile”. E alla domanda quanto ancora durerà il virus, la dottoressa Gismondo replica: “Non penso che la settimana prossima si possa non parlare di coronavirus. Tra l’altro, a me non piacciono i virus, preferisco i batteri. Però, quando tutto questo sarà finito, mi farò fare un ciondolo d’oro a forma di coronavirus, che è bellissimo. Poi me lo metto al collo. Sarà il mio trofeo”.
Coronavirus, la virologa Gismondo e le notti in laboratorio: "Ma non siamo in guerra". Intervista alla direttrice del laboratorio di Microbiologia clinica, Virologia, Diagnostica bioemergenze del Sacco che lavora senza pause da due settimane: "C'è un bombardamento di notizie che fomentano la paura, c'è stato un lavaggio del cervello collettivo". Brunella Giovara il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Una stretta di mano? "E certo, tanto poi ce le laviamo". E la mascherina, lei non la porta. "La mettiamo quando esaminiamo i campioni. E i pazienti infetti, certo. Ma per il resto... meglio una maschera di Carnevale". Maria Rita Gismondo è una ragazza di 66 anni, una di carattere brusco, una che va di fretta. Ha troppo da fare, il laboratorio di cui è direttore - Microbiologia clinica, Virologia, Diagnostica bioemergenze del Sacco - lavora senza pause da due settimane. Nel suo ufficio al terzo piano tiene una riproduzione del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo. Cioè la gente, cioè noi, alle prese con il Covid-19, la paura, e anche la psicosi.
Professoressa, il governatore Fontana ha detto che questa "è poco più di una normale influenza".
"Bene. Significa che mi stanno ascoltando".
Lei è stata attaccata, quando ha chiesto di abbassare i toni, tre giorni fa. Burioni, ad esempio.
"Lasciamolo alla sua gloria".
Cosa dobbiamo fare, allora.
"Aspettare. No allarmismo, molta attenzione e molto lavoro da parte nostra. Spiegare le cose alla gente, informare, dicendo onestamente che le cose possono cambiare in bene o in peggio. Ma dire le cose vere con molta obiettività. C'è un bombardamento di notizie che fomentano la paura, c'è stato un lavaggio del cervello collettivo. Sembra che siamo in guerra. Ma non siamo in guerra".
Forse la gente non ha capito. Lei come spiegherebbe il virus a una famiglia? Lei ha famiglia o vive sempre qua dentro?
"In queste settimane sono andata a casa a dormire, due-tre ore a notte. La mia famiglia sono due figlie e una nipotina di 9 anni. E un cane femmina Nala, quella del Re Leone. Siamo un gineceo".
Quindi, cosa ha detto alla nipote?
"Mi ha vista in televisione e ha detto "la nonna ha il coronavirus!". Mia figlia le ha spiegato che studio il coronavirus. Allora mi ha chiesto "sei contagiosa, contagi anche me?"".
E lei?
"Le ho risposto no. Ma ai bambini servono spiegazioni. Non devi dire che non sta succedendo niente, devi dire che è vero, c'è un virus che può passare da una persona all'altra. E se si sta male con la tosse e la febbre, allora si sta a casa. L'ho tranquillizzata. Infatti, quando ha visto una mia foto con mascherina, mi ha domandato se mi ero travestita da microbiologa per Carnevale".
Ma queste mascherine, servono?
"No".
Anche agli adulti, servono spiegazioni.
"Chi si interessa di salute ha il dovere di spiegare. Così tutti i papà e le mamme si tranquillizzano. Se invece li invadi con video di città deserte, ambulanze a sirene spiegate eccetera, crei il panico. Tutte le misure adottate possono sembrare un'esagerazione, dal punto di vista scientifico. Ma bisogna dare risposte alla gente. Poi, spesso la salute viene strumentalizzata a livello politico. E qui mi fermo. Ma è inaccettabile".
Quante persone lavorano in laboratorio?
"Sei medici, ora saliti a otto. E 15 tecnici. Turni estenuanti, ma non chiudiamo mai, neanche la notte".
Come è cominciata?
"Quindici giorni fa, con poche richieste di analisi. Poi è scoppiato il caso Codogno. E sono arrivati centinaia di campioni".
Lei dove si è laureata?
"A Catania. Me ne sono andata perché non condividevo il modo di gestire la ricerca e i ricercatori".
Lei è associato di Microbiologia.
"Sì, ho fatto due volte il concorso per ordinario, una volta mi hanno detto che i miei lavori scientifici non avevano respiro internazionale. La seconda che avevano troppo respiro internazionale. Ma i giudizi delle commissioni sono insindacabili, e ho deciso di accettare. Però una volta ne ho fatto annullare uno a Palermo".
Ci racconti, allora.
"Sono stata bocciata con 25 pubblicazioni legalmente valide. Aveva vinto uno con quattro".
E come è finita?
"Concorso annullato. Ma la volta dopo ha rivinto la stessa persona".
Un bell'ambiente.
"Eh sì. Infatti più volte ho avuto voglia di andare via dall'Italia, anche di recente. Sono rimasta per non dimenticarmi di essere anche una mamma. E poi ho i miei giovani: borsisti, ricercatori, specializzandi.
Nella mia carriera ne ho avuti un'ottantina".
E che carriera hanno fatto.
"La maggior parte li ho aiutati ad andare all'estero. Londra, Commissione Europea, uffici della Nato... Quando un ragazzo mi chiede di frequentare, ho il cuore frantumato. Vorrei che si appassionasse alla ricerca, ma so com'è questo mondo".
Lei fa altro nella vita, oltre a occuparsi del laboratorio e del gineceo?
"Ah, mi piace cucinare, e scrivere. Ho scritto di donne disgraziate, ma anche un libro sulla mia famiglia a Catania, con le ricette di casa. Come lo scapece, piatto preferito da Federico II".
Quanto durerà questo virus?
"Non penso che la settimana prossima si possa non parlare di coronavirus. Tra l'altro, a me non piacciono i virus, preferisco i batteri. Però, quando tutto questo sarà finito, mi farò fare un ciondolo d'oro a forma di coronavirus, che è bellissimo. Poi me lo metto al collo. Sarà il mio trofeo. E si ricordi bene una cosa".
Dica.
"Si lavi le mani. Il bagno è la porta di fronte".
Quanto fa rumore il silenzio No Vax. Massimiliano Parente, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Che fine hanno fatto i no-vax? Spariti? Chiusi in casa per paura del contagio? Insomma, quanto basta poco per rendere evidenti posizioni irrazionali. Perché, finché si parlava in astratto o, meglio, si aveva l'impressione di parlare in astratto, perché il morbillo per esempio senza dati alla mano sembra non spaventare più di tanto, si davano un gran daffare. Non solo loro, non si sentono più neppure quei politici e ministri che, in nome della libertà di scelta, si schieravano disinvoltamente contro l'obbligatorietà del vaccino. Adesso basta andare in un aeroporto ed è come stare in un film di Emmerich: mascherine, controllo della temperatura, se hai gli occhi a mandorla tutti ti girano alla larga, se non li hai ti guardi allo specchio e te li vedi anche tu, prove generali di un'apocalisse zombi. Ci si guarda con sospetto, se ti invita a cena qualcuno che non conosci ti chiedi se per caso non sia tornato dalla Cina. Mia mamma su Whatsapp mi invia bollettini medici ogni giorno: un contagiato di qua, un morto di là, hai sentito? Eh, ho sentito, cosa devo fare? Io, tra l'altro, che sono ipocondriaco, mi sento già tutti i sintomi, ma in ogni caso il coronavirus sta portando a vari sintomi anche i non contagiati. Non febbre o tosse, ma sintomi mentali, ideologici, e saggi ravvedimenti, spesso senza rendersene neppure troppo conto. Pensate un po': a un insigne virologo come Roberto Burioni, che critica duramente la Toscana per la mancanza di quarantene, si dà del fascio-leghista. Viceversa, Matteo Salvini invoca misure dure, e raccomanda di ascoltare gli scienziati, sebbene lui, a differenza di Burioni, fosse a suo tempo per la tutela dei bambini non vaccinati. Nell'impazzimento generale in televisione si intervista chiunque, a caso, soprattutto non esperti, soprattutto chi parla per sentito dire, anche perché tutti, a meno di non essere esperti, parliamo per sentito dire. Chiunque ci sia, gli si chiede del coronavirus. Perfino a me, ospite l'altro giorno alla trasmissione Tagadà, la brava Tiziana Panella ha chiesto cosa ne pensassi di come parlano i media del coronavirus, se stiano esagerando o meno. Io le ho risposto cosa cavolo ne so, sono uno scrittore, non un virologo, al massimo posso dire che di certo non andrò mai più nei centri massaggi cinesi. Tuttavia non tutti i mali vengono per nuocere, forse. Se sopravviviamo, appena ci sarà un vaccino, correremo tutti a vaccinarci. Ma stavolta nessun obbligo direi. Lasceremo i no-vax liberi di non vaccinarsi (tranne i bambini, per carità), così ce li togliamo dalle palle una volta per tutte.
Cina, pazienti guariti risultano positivi: “Non sappiamo se sono contagiosi”. Federico Giuliani su Inside Over the world il 23 febbraio 2020. Una quarantena obbligatoria di 14 giorni da trascorrere in appositi luoghi designati dalle autorità per tutti i pazienti guariti dal coronavirus. È questo il nuovo provvedimento preso dall’amministrazione locale di Wuhan dopo che alcune persone sono risultate positive al Covid-19 anche dopo esser state dimesse. Ebbene, stando a quanto ha rifetito il centro di comando per il trattamento e il controllo del coronavirus della città su Weibo, da oggi tutte le persone ricoverate e dimesse devono trascorrere un periodo di isolamento sotto costante osservazione medica. Il South China Morning Post sottolinea come i nuovi accordi di quarantena siano arrivati dopo che i medici, in prima linea nella battaglia contro l’epidemia, hanno avvisato sull’eventualità che i pazienti guariti potessero ancora trasportare il virus ed essere quindi ancora contagiosi. Zhao Jianping, un medico a capo di una squadra operativa proprio nello Hubei, ha spiegato che ci sono stati casi in cui i pazienti si sono dimostrati positivi dopo che sembravano essersi ripresi.
L’incubo che ritorna. Le parole del signor Zhao sono state riprese dalla rivista Southern People Weekly: “Tutto questo è molto pericoloso. Dove si possono mettere quei pazienti? Non puoi rimandarli a casa perché potrebbero infettare gli altri ma non puoi nemmeno metterli in ospedale perché le risorse sono ridotte”. Resta da capire se quanto riscontrato possa essere ricollegato a una falla del sistema sanitario cinese, con pazienti dati per guariti quando invece erano ancora infetti, o se una condizione del genere sia da attribuire a una nuova e particolare proprietà del coronavirus. Xiang Nijuan, un ricercatore del centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha spiegato alla Cctv che il monitoraggio di coloro che hanno avuto stretti contatti con i pazienti dovrebbe essere esteso a un bacino di persone più ampio, proprio per il motivo appena spiegato.
“Non sappiamo se sono contagiosi”. A titolo esemplificativo, nella città di Chengdu, un paziente dimesso il 10 febbraio dopo aver soddisfatto lo standard per il recupero è stato riportato in ospedale nove giorni dopo, quando durante un controllo è risultato nuovamente positivo al virus. Un caso simile è avvenuto a Changde, nello Hunnan. Qui una donna è risultata positiva il 9 febbraio, cinque giorni dopo essere uscita dalla quarantena in cui si trovava. A Guangzhou, stando a quanto riferisce il South Metropolitan Daily, tracce di coronavirus sono state ritrovate nei campioni delle feci di un piccolo numero di pazienti dimessi. Cai Weiping, capo del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale n. 8 di Guanzhou, ha quindi rilasciato un’importante dichiarazione: “Può darsi che ci siano ancora virus o frammenti di geni virali nei pazienti dimessi. Non è ancora certo se siano contagiosi o meno. Questo è un nuovo agente patogeno e dobbiamo ancora capirne le dinamiche”. Ricordiamo che in Cina i pazienti contagiati possono essere dimessi solo se capaci di soddisfare quattro criteri: temperatura corporea normale per più di tre giorni, sintomi respiratori che migliorano significativamente, imaging Cat del torace che mostra un significativo miglioramento dei polmoni e risultati negativi in due test di acido nucleico a distanza di almeno un giorno l’uno dall’altro.
Il virologo Burioni insiste: "Avevo chiesto quarantena..." L'appello del virologo, che sostiene la necessità di mettere in quarantena chi rientra dalla Cina: "Lo chiedo dal 25 gennaio". Francesca Bernasconi Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. "Chi torna dalla Cina deve stare in quarantena". Ne è convinto il virologo, Roberto Burioni, che ribadisce la necessità di un periodo fi isolamento per le persone che tornano dai paesi in cui ha avuto origine l'epidemia. Dopo la notizia del 38enne lombardo positivo al coronavirus il livello di allerta si alza e la paura che il virus si diffonda in Italia aumenta. "Le ultime notizie mi portano a ripetere per l'ennesima volta l'unica cosa importante- scrive Burioni sulla sua pagina Facebook- Chi torna dalla Cina deve stare in quarantena. Senza eccezioni". E aggiunge: "Spero che i politici lo capiscano perchè le conseguenze di un errore sarebbero irreparabili". Secondo il virologo, la quarantena rappresenta "l'unica misura" ad oggi possibile per fermare il diffondersi del nuovo coronavirus. E ricorda ad AdnKronos Salute: "La chiedo dal 25 gennaio". Numerosi, infatti, gli appelli di Burioni, per inserire la quarantena tra le misure necessarie contro il Covid-19. Pochi giorni fa si era rivolto alla Regione Toscana, che inteva accogliere migliaia di persone di ritorno dalla Cina, senza sottoporle all'isolamento, dato che non presentavano i sintomi tipici della malattia: il rischio sarebbe stata "una pericolosissima catena di contagi". Burioni specifica: "La quarantena non è discriminazione o razzismo, ma l'unica difesa contro questo virus". Sul virus, spiega il virologo, "sappiamo due cose: gli asintomatici possono contagiare, e la quarantena è l'unica difesa". Proprio ieri, infatti, Burioni ha confermato la possibilità di contagio senza sintomi, citando due casi, studiati dai ricercatori. Nel primo caso era stata presa in considerazione una famiglia di Shangai, in cui la prima persona a manifestare in sintomi era stato il membro più anziano, che non si era mai mosso da casa: "I due che erano stati a Wuhan non manifestavano sintomi chiari, ma, ciononostante, avevano trasmesso l'infezione in forma grave al più debole della propria famiglia". Il secondo caso, invece, riguardava due persone rimpatriate dalla Cina in Germania, che avevano superato tutti controlli: "Il virus che si trovava nella gola di questi due soggetti, completamente sani, era in grado di infettarne altri. Anche qui il cerchio si chiude: niente sintomi, ma infezione e trasmissione possibili. La cosa ancora più preoccupante, ovviamente non per i due soggetti interessati, è che nessuno dei due ha poi sviluppato sintomi chiari". "Spiace avere ragione", conclude Roberto Burioni, che aggiunge: "Ma questo non proprio è il momento di fare polemiche. Occorre isolare chi torna dalla Cina, isolare i possibili contatti" dei soggetti risultati positivi "e bloccare chi arriva". Infine rassicura: "Niente panico. È il momento di agire. La quarantena è cruciale e la salute non è di destra o di sinistra".
Coronavirus, "Roberto Burioni aveva capito tutto", la congiura: hanno nascosto il virus. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 23 Febbraio 2020. Non avendo le treccine ed essendo maggiorenne, laureato e persino titolare della cattedra di Microbiologia e Virologia al San Raffaele di Milano, Roberto Burioni lancia allarmi inascoltati. Tipo questo: «Il virus in Italia non c' è, quello che bisogna fare è non andare in Cina o in altre zone in cui il virus è presente e verificare le persone che tornano dai luoghi contaminati». Dove la parola chiave era «verificare», ovvero sottoporre a stretto controllo. Lo disse il 29 gennaio, quando - appunto - in Italia il virus ancora non c' era, e se avessero dato retta a lui mai sarebbe arrivato. Suo quell' avvertimento, ripetuto decine di volte: «Chi torna dalla Cina deve stare in quarantena. Senza eccezioni. Spero che i politici lo capiscano, perché le conseguenze di un errore sarebbero irreparabili». Si è visto come andata.
«LA CONGIURA DEI SOMARI». Lui la chiama «la congiura dei somari», ai quali ha dedicato un libro. Sono coloro che pontificano su cose che ignorano «non intuendo che, quando si parla di argomenti tecnici, dell' opinione di uno che non sa nulla si può fare tranquillamente a meno». Il personaggio, infatti, ha un pregio che lo rende insopportabile all' Italia che adora i pensierini deboli e aborre le parole forti: è democratico e tollerante come Clint Eastwood nei suoi film migliori. Un estratto del Burioni-pensiero, giusto per capire il tipo: «La scienza non è democratica. La velocità della luce non si decide per alzata di mano. Una palla di ferro gettata in mare andrebbe invariabilmente a fondo, anche se un referendum popolare stabilisse che il peso specifico del ferro è inferiore a quello dell' acqua. Certo, quel ferro potreste pure farlo galleggiare: ma dovrete imparare a fonderlo, a lavorarlo, a saldarlo nella giusta posizione indicata nel progetto di una nave. E per completare con successo uno solo di questi compiti dovreste rendervi conto prima che non lo sapete fare, e poi che per imparare a farlo è indispensabile studiare o, ancora meglio, trovare qualcuno più esperto di voi che ve lo insegni. Nella vita reale, infatti, c' è gente che insegna». Ecco, quando si parla di virus lui è quello che insegna, alla faccia dell'«uno vale uno» e altre bischerate del genere. Tanti politici, invece, stanno nella categoria di quelli che parlano e fanno, ma non capiscono. I «somari». Inevitabile il suo disprezzo verso certi grillini, tipo la candidata (poi eletta alla Camera) Sara Cunial, che aveva definito le vaccinazioni «un genocidio gratuito». Ma ne ebbe anche per Matteo Salvini, quando da ministro dell' Interno disse che «dieci vaccini obbligatori sono inutili e in parecchi casi pericolosi». La spuntò Burioni. A merito di Salvini, commenterà poi, «va il fatto che, dopo che gli è stato fatto notare che erano sciocchezze, non le ha più dette, e questo è da apprezzare». L' uomo sa essere magnanimo, quando gli altri riconoscono le sue ragioni. Apprezza assai meno il governatore della Toscana, il compagno Enrico Rossi. La richiesta di mettere in quarantena «senza eccezioni» chi torna dalla Cina era rivolta innanzitutto a chi amministra le Regioni. I governatori di Veneto, Lombardia, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia l' avevano fatta propria, chiedendo al ministero della Sanità l' isolamento obbligatorio anche per i bambini di ritorno dalla Cina. Mossa che Burioni ha applaudito: «Giusta la richiesta di alcuni presidenti di Regione della Lega di avere maggiore attenzione prima di riammettere bambini provenienti dalla Cina nelle nostre scuole».
POLITICA SORDA. In una situazione «ancora incerta» (era il 4 febbraio), lo scienziato spiegava che «è immensamente meglio sbagliare sopravvalutando il pericolo, perché questo può significare disagio o danno economico; al contrario la sottovalutazione può portare alla morte di alcune persone». Il vecchio principio di precauzione, insomma, per cui, quando c' è di mezzo la salute, nel dubbio è meglio esagerare con le cautele. Quello che la sinistra invoca da decenni come scusa per bloccare la sperimentazione degli ogm anche se la scienza dice il contrario. Mentre questa volta, che sarebbe necessario adottarlo, il Pd lo respinge. Il viceministro all' Istruzione Anna Ascani ha bollato la richiesta dei governatori (e di Burioni) come «allarmismo che fa male alla scuola e anche alle famiglie, generando preoccupazione inutile e dannosa». E Rossi ha etichettato come razzista l' idea di isolare i ragazzi tornati dalla Cina, sostenendo che «chi ci attacca», come Burioni, «o non è bene informato o è un fascioleghista». Accuse che il virologo non può digerire. E siccome la pugna non lo spaventa (anzi), gli risponde per le rime: «Il presidente della Regione Toscana, che secondo me sottovaluta il rischio del Coronavirus esponendo a rischi evitabili i propri cittadini, afferma che chi lo critica o è male informato o è fascioleghista. Lo stesso presidente che nella sua regione offre l' omeopatia all' interno del Sistema sanitario nazionale. Complimenti davvero». Per non risparmiare nulla al governo, ieri Burioni ha richiamato l' attenzione sul surreale sito dell' Istituto superiore di sanità, che sino a metà pomeriggio, nella pagina «in costante aggiornamento» sulla nuova epidemia, dava appena quattro contagiati in tutta Italia. «Sembra che il sito sia chiuso per il weekend, speriamo che i laboratori siano aperti. In ogni caso non è questo il modo di confrontarsi con un' emergenza. La paura si combatte con una informazione puntuale», ha infierito Burioni. Anche perché, ormai, non c' è davvero più nulla da minimizzare e nascondere. «È inevitabile che nelle prossime ore il numero dei soggetti trovati positivi al Coronavirus aumenti», avverte la nostra Cassandra in camice bianco. Sta facendo più lui di Roberto Speranza e dell' intero ministero della Salute, costretti ad adottare ora, cioè troppo tardi, i provvedimenti che Burioni chiedeva un mese fa. Se solo gli avessero dato retta. Fausto Carioti
· Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.
I protocolli adottati e resi obbligatori hanno dimostrato gli errori criminali dell’OMS (Organizzazione Mondiale di Sanità) ed dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) e del Comitato Tecnico Scientifico consulente del Governo.
I tamponi non previsti per gli asintomatici ed i paucisintomatici hanno fatto sì che gli infettati contagiassero tutti coloro che, prima, erano liberi di muoversi, e, dopo, era permesso di muoversi.
L’uso non previsto delle mascherine e di ogni apparato di protezione ha permesso agli infettati di contagiare ed ai sani di essere ammorbati.
La politica ha pensato bene di prevedere uno scudo penale per la sanità e per i suoi pseudo esperti scientifici.
Ergo: di questo scempio mai nessuno renderà conto, se non a Dio.
Quanto valgono gli scienziati del Cts, il comitato tecnico scientifico. Misurare il valore o la competenza del gruppo di esperti scelti dal governo per dare indicazioni sulla pandemia non è semplice. Abbiamo consultato i loro punteggi secondo i principali parametri e database internazionali. E non mancano le sorprese. Paolo Biondani su L'Espresso il 20 novembre 2020. Di fronte alle drammatiche incognite dell’emergenza Covid, i politici più saggi si fanno consigliare dagli esperti: medici, tecnici e scienziati chiamati a studiare i problemi e suggerire soluzioni. Un ruolo importante e difficile, che in molte nazioni è al centro di polemiche di segno opposto, con governanti contestati perché ignorano la scienza e specialisti bollati come oppositori politici. Negli Stati Uniti gli attacchi negazionisti del presidente Donald Trump non hanno risparmiato neppure Anthony Fauci, indiscusso luminare delle malattie infettive. In Italia la cabina di controllo della pandemia è il Comitato tecnico-scientifico (Cts) del ministero della salute, creato nel febbraio scorso con una squadra di 20 esperti, poi saliti a 25. Anche nel nostro Paese non sono mancate critiche sulla scelta dei componenti, con gli stessi interrogativi che si pongono ovunque: chi sono i veri esperti? Quali virologi meritano di essere ascoltati dai governi? Come si misura il valore di uno scienziato? L’Espresso ha girato queste domande a diversi professori universitari e ricercatori indipendenti, senza coloriture politiche né incarichi ministeriali o regionali. Tutti rispondono che esistono vari sistemi oggettivi di valutazione, utilizzati a livello internazionale per misurare l’impatto degli studi di un certo scienziato.
Il critico d’arte, ospite a Quarta Repubblica di Nicola Porro. Alberto Giorgi, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Spieghiamo. Ospite del salotto televisivo di Quarta Repubblica, il programma di approfondimento politico condotto da Nicola Porro nella prima serata del lunedì di Rete 4, il critico d’arte ha commentato e ha criticato aspramente. Il deputato e sindaco di Sutri, infatti, Sgarbi se l’è presa anche con il noto virologo Roberto Burioni, parlando di una sorta di "dittatura degli esperti e della scienza": "Burioni? È un mio amico, ma ha deciso di sostituirsi anche al Papa dicendo che si può pregare anche a casa. Scopriremo che siamo sotto una dittatura della scienza che ha una posizione, ma non una soluzione ad oggi. Dio quindi è fuori tema, Dio. è morto".
"Dagli scienziati pretendiamo chiarezza". Da huffingtonpost.it il 14/04/2020. Il ministro Boccia: "Non ci possono essere tre o quattro opzioni su ogni tema. La politica per decidere deve avere certezze inconfutabili dalla scienza". Agli amministratori che riaprono? "Se ne assumono la responsabilità". “Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema. Chi ha già avuto il virus, lo può riprendere? Non c’è risposta. Lo stesso vale per i test sierologici. Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza. Noi politici ci prendiamo la responsabilità di decidere, ma gli scienziati devono metterci in condizione di farlo. Non possiamo stare fermi finché non arriva il vaccino”. La chiosa di una intervista che il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia ha dato al Corriere della sera. Che fa emergere un problema che c’è, strisciante tra la scienza che deve dare indicazioni e la politica che deve scegliere, presto e bene, verso la fase 2 di cui ancora non si vedono i contorni. Ma il ministro mette anche in guardia coloro tra i governatori di Regione che intendono prendere libere iniziative nelle pieghe dell’ultimo dpcm. “I presidenti che vogliono riaprire se ne assumono la responsabilità”, dice Boccia, che aggiunge: “Parlare di normalità vuol dire illudere la gente, perché se fai un errore distruggi settimane di sacrifici di tutti. A chi non ha colto l’insegnamento di questi 45 giorni perché annebbiato dal dio denaro, ricordo che l’Italia conta 160 mila casi e 20 mila morti. Chi pensa che il futuro sarà come il passato pre coronavirus, non ha capito in che fase del mondo siamo entrati”
Vittorio Macioce per “il Giornale” l'8 ottobre 2020. Qualcuno considera Pierpaolo Sileri una mina vagante nel governo. Non è detto che sia un difetto. Il viceministro della Salute non si nasconde dietro giri di parole. Non sembra un uomo di palude e questo gli sta creando parecchi problemi anche al ministero. Adesso sta diventando un vero caso politico. È martedì sera e Sileri è ospite su La7 di Floris. Non è la prima volta. Si parla di virus, delle strategie per contenere il contagio, di speranze e di ritardi. Cosa non sta funzionando? Sileri risponde: «Secondo me c'è troppa burocrazia nel comitato tecnico scientifico. Non si possono aspettare otto ore per i tamponi». La frase non passa inosservata. Tra i venti esperti del Cts c'è chi non la prende bene e parte un giro di telefonate. «Avete sentito cosa ha detto? Questa non possiamo farla passare». Arriva infatti subito la risposta del comitato. È un attacco frontale e ingiustificato. Viene convocata per il giorno dopo, cioè ieri, una riunione per affrontare la questione Sileri. Fanno sapere che stanno mettendo al servizio del Paese le loro competenze e lo fanno gratis. C'è chi suggerisce le dimissioni in massa. Calma. Prima bisogna parlarne con Conte, magari serve una sua presa di posizione pubblica. Il premier però non ha tutta questa voglia di ritrovarsi in queste beghe. Qualsiasi sua parola rischierebbe di accendere un fuoco. Sileri è un senatore dei Cinque Stelle e non è proprio il caso di aprire un altro fronte politico. I rapporti tra Sileri e il ministro Speranza sono sereni, nel senso che si evitano e se per sbaglio si incrociano si scambiano un saluto frettoloso. La collaborazione è zero. La maggioranza di governo si regge sul principio del non toccare nulla. Qualsiasi movimento minaccia gli equilibri già instabili. Conte così fa quello che sa fare meglio: smussare, sgonfiare, nascondere il problema. In questo caso la mossa è saggia. Diventa irresponsabile di fronte a questioni più gravi e profonde. Impone una parvenza di pace. «Ho parlato con Sileri e non c'è alcuna polemica. Ha sempre apprezzato il lavoro del Cts». All'esterno c'è chi, come Maria Stella Gelmini, parla di «scontro aggghiacciante» Alberto Villani, presidente dei pediatri italiani e componente del comitato, smorza sempre in tv, su Sky TG24, la polemica: «Noi non siamo arrabbiati con nessuno. Il viceministro è un esponente del nostro governo e come tale ha tutta la nostra stima». Poi conclude: «Siamo contenti che, soprattutto dal ministro Speranza, abbiamo ricevuto la stessa stima». Non serve neppure leggere tra le righe. Facciamo finta che, come in una vecchia canzone di Ombretta Colli, tutto vada bene. In studio, sempre su Sky, è presente anche Sileri. Non rettifica e non si scusa. Tiene il punto senza alzare la voce. «Ho letto anch' io sui giornali che il comitato tecnico scientifico sarebbe infuriato con me. Voglio sperare che non sia così. Le mie dichiarazioni di ieri sera erano solo domande. E non le mie personali domande, ma quelle degli italiani. Si tratta di dare delle risposte, che in questi mesi non ho avuto. E anche leggendo i verbali non ho trovato risposte». Non si ferma qui e mette sul piatto le domande: «Io sono un'autorità politica, prestata temporaneamente a questo ministero, che chiede risposte ad un organo che è deputato a darle. Ma le mie non sono curiosità, ma chiarimenti specifici come: possiamo ridurre la quarantena? Possiamo fare i test salivari a livello nazionale? Mi basta un sì o un no». La situazione al ministero della Salute di fatto è questa: c'è una frattura insanabile difficile da sopire. Conte proverà in tutti i modi a non affrontarla. Le domande del vice ministro vengono vissute dai consulenti tecnici come lesa maestà. Il virus rende tutti più permalosi.
Coronavirus: il “metodo Veneto” e la disobbedienza di Zaia. Le Iene News il 22 aprile 2020. Antonino Monteleone incontra Luca Zaia, presidente della regione Veneto, che sui tamponi alla popolazione ha “disobbedito” alla comunità scientifica internazionale. La sua scelta potrebbe aver salvato numerose vite umane? Esiste un posto in Italia dove hanno capito prima e meglio degli altri come combattere il Covid-19? Se lo chiedono Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, che analizzano il cosiddetto “metodo veneto”. Mentre l’Italia, con oltre 24mila morti, è ancora in piena emergenza Covid-19, i pareri su cosa fare e come combattere la pandemia sono i più diversi, con forti contrasti tra gli stessi scienziati e politici. A partire dall’uso delle mascherine. Se la Lombardia ne ha stabilito per legge l’uso obbligatorio, la virologa Ilaria Capua ha affermato: “Io personalmente la mascherina non la porto”. Stesso parere per Angelo Borrelli, Capo della Protezione Civile, che il 4 aprile ha dichiarato: “Io non la uso la mascherina, rispettando quelle che sono le regole del distanziamento sociale”. E sulla quarantena? Il caso della nostra iena Alessandro Politi, senza sintomi ma positivo ancora dopo 28 giorni, lascia più di un dubbio (guarda qui il video). La politica però dubbi non ne ha: per il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio la quarantena “dovrebbe durare circa 14 giorni”. Una posizione sposata anche dal premier Giuseppe Conte, che così la pensava il 26 febbraio scorso, durante un intervento in Tv. Anche sui tamponi non c’è parere unanime. La domanda sembra legittima: andavano e vanno fatti solo a chi manifesta i sintomi gravi e ha avuto contatti a rischio o anche agli asintomatici? Per il noto virologo Roberto Burioni “il tampone lo possiamo usare nel momento in cui il paziente è malato” mentre Walter Ricciardi, rappresentante italiano all’Organizzazione Mondiale della Sanità ha spiegato: “Vanno fatti soltanto ai soggetti sintomatici quindi tosse febbre congiuntivite e, che devono avere fattori di rischio o per contatto o per provenienza”. Di altro avviso ancora l’infettivologo Massimo Galli: “I tamponi a tappeto non riescono ad essere utili”. Proprio sul tema di test e tamponi, e sulla loro utilità, l’Italia sembra essersi divisa in due ed è qui che occorre approfondire il cosiddetto “metodo Veneto”, di cui ci parla Antonino Monteleone. Incontriamo il professor Andrea Crisanti, direttore di Microbiologia all’Università di Padova, che ci spiega: “Il 20 gennaio ho mandato una lettera all’amministrazione dell’ospedale, facendo un rapporto e spiegando che avevo iniziato a mettere a punto un test e che compravo i reagenti. Ne abbiamo comprati per 500mila test”. Tutto questo sarebbe avvenuto il 20 gennaio, cioè addirittura un mese prima della comparsa del “paziente 1” di Codogno. Questa scelta ha contribuito a salvare più vite umane rispetto alle scelte fatte da altre Regioni? Mentre istituzioni sanitarie internazionali e italiane frenavano sui tamponi di massa, c’era qualcuno, come il Governatore del Veneto Luca Zaia, che ha fatto una scelta controcorrente…Il Governatore racconta: “Decisi, di fare i famosi tamponi a tutti i tremila abitanti di Vo’ Euganeo. Tutti dicevano che non bisognava farli, ho avuto un sacco di attacchi nei giorni successivi, però pensai subito che siamo davanti a un virus che non conosciamo, abbiamo i primi due cittadini contagiati... Ne venne fuori un fatto straordinario… con i tamponi abbiamo trovato 66 positivi al coronavirus asintomatici, molti dei quali non conoscevano neanche i famosi primi due contagiati, ammesso e non concesso che fossero i primi due, a questo punto!! è stata una scoperta straordinaria perché se noi avessimo lasciato 66 persone a piede libero e non in isolamento fiduciario avremmo avuto degli untori inconsapevoli...”. Luca Zaia, racconta ancora ad Antonino Monteleone, era stato avvertito dal professor Crisanti: “Prima della fine della quarantena mi ha chiamato il professor Crisanti, e mi ha detto ‘guardi, voi avete dato vita a un’esperienza scientifica unica al mondo, avete fatto i tamponi a una comunità in quarantena’. E quindi dice ‘vorrei rifarli prima prima della fine della quarantena’. L’esperienza ci dice che bisogna trovarli, metterli in isolamento e si riduce il contagio!”. Insomma, se Zaia non avesse fatto subito quei 3.000 tamponi nel padovano e se non avesse scoperto i 66 positivi asintomatici, apparentemente sani, che storia avrebbe avuto l’epidemia in Veneto? Una scelta di ribellione, la sua, dichiaratamente contro le linee guida, sia dell’Oms che dell’Istituto superiore della Sanità, che non prevedevano tamponi di massa. Il governatore ancora oggi si meraviglia che le autorità sanitarie non abbiano mai detto a chi doveva affrontare l’emergenza coronavirus, alcune semplici cose: “ti consiglio di comprare mascherine, ti consiglio di comprare respiratori, ti consiglio di comprare tamponi...”. "Lei le ha sentite dire queste tre cose?", chiede Luca Zaia alla Iena. "Ma chi ha studiato il caso Wuhan, ste’ tre robe, che a me sembrano l’ABC no? perché noi non le abbiamo avute ste’ indicazioni?” E infine racconta del macchinario utilizzato. “Abbiamo fatto più o meno 210mila tamponi, ma consideri che noi adesso abbiamo una potenza per farli, con la nuova macchina che abbiamo acquisito e siamo gli unici in Italia ad averla, una macchina che ne fa 9mila da sola al giorno. Il professor Crisanti sapeva di questa macchina, che se non ricordo male costa 350mila euro ma fa 9mila tamponi al giorno…". “Abbiamo messo in linea tutte le microbiologie del Veneto, quindi tutti fanno tamponi, arriviamo verosimilmente dai 15 ai 20 mila al giorno”. La scelta di Zaia, forse, ha aiutato anche ad avere numeri molto contenuti, rispetto al resto del paese, per quanto riguarda operatori sanitari contagiati. “Non abbiamo fatto entrare nessuno in nessun reparto, anche se c’aveva l’appendicite, l’ictus, finché non era stato testato per coronavirus, perché non volevamo che infettasse gli altri pazienti e i medici nel reparto…”. Alla fine Antonino Monteleone si reca in un laboratorio d’analisi del Veneto, dove si sottopone a uno di questi test, fortemente voluti dal governatore Zaia. È un test che va a cercare la presenza di anticorpi prodotti dal sistema immunitario quando il paziente è venuto a contatto con il virus. L’esito, per la Iena, è confortante: negativo. Luca Zaia, soddisfatto di questa sua scelta, ha un rammarico, che esponenti del mondo scientifico abbiano sostenuto una cosa che lo stesso premier Conte, che però non è uno scienziato, aveva detto: “La prova tampone non è una cosa che va fatta diffusamente, non è che uno oggi qualcuno avverte di avere un'influenza, la febbre anche alta e fa la prova tampone. Assolutamente non sono queste le raccomandazioni della comunità scientifica”.
DAGONEWS il 5 giugno 2020. C’è già chi lo invoca “Santo subito”, come accade a certi Pontefici addirittura prima ancora che il Sacro Collegio apra il fascicolo per la causa di beatificazione. All’opposto, c’è invece chi lo piazza fra i “morti di fama scientifica”, la massa di scienziati che imperversano sulle televisioni ai tempi del coronavirus. Santo o peccatore, il professor Andrea Crisanti, direttore della microbiologia dell’Università di Padova, autonominatosi “il salvatore del Veneto”, in appena tre mesi è diventato per l’Italia intera il docente che avrebbe suggerito a Zaia le strategie di sanità pubblica che hanno portato il Veneto ad aver arginato con efficacia l’epidemia. Ma Crisanti è davvero un santo? Il sospetto non è venuto ai giornalisti ma ai vertici dell’Università di Padova (il rettore Rosario Rizzuto e il capo della prestigiosa Scuola di medicina, Stefano Merigliano) i quali, dopo aver ricevuto lamentele imbarazzate e proteste per le sortite di Crisanti contro tanti, troppi colleghi, ora temono che la bomba esploda. E il rettore, limitandosi per ora a dirsi costernato in privato, ha chiesto ai suoi collaboratori di estrarre il “dossier Crisanti” dai cassetti. Secondo le voci che corrono nella facoltà di Medicina, molti microbiologi starebbero fuggendo dall’Istituto “diretto” da Crisanti non volendo più collaborare con lui. E nelle stanze dell’Azienda Ospedaliera di Padova, il direttore generale Luciano Flor, che assunse a suo tempo Crisanti, ha davanti agli occhi il report che testimonia come i famosi kit per fare tamponi che Crisanti si vantò di aver portato dall’Imperial college di Londra contro quella che definisce una burocrazia italiana sorda e distratta, si sono rivelati inutili. Flor, per ora, l’ha buttata pubblicamente sul: “Erano poche centinaia di kit per avviare le sperimentazione...”. Ma è una scusa che potrebbe presto cedere il posto alla verità. Nel frattempo, la prestigiosa “Nature” continua tenere in archivio e non pubblicare lo studio su Vo’ Euganeo... Tuttavia c’è anche, da parte dell’Università, il timore di finire impantanati in grane giudiziarie. Soltanto nel 2019 (e soltanto per intervenuta prescrizione) Crisanti è infatti uscito indenne da una inchiesta per truffa e dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture inesistenti per un milione di euro che l’avrebbe altrimenti portato alla sbarra insieme all’ex rettore dell’Università di Perugia per il caso dei fondi Isrim, ente di cui Crisanti era presidente del cda. Ma la storia che ha fatto drizzare le orecchie a Rizzuto è la vicenda giudiziaria del doppio incarico di Crisanti. Con una sentenza giudicata rocambolesca (il giudizio appartiene all’ateneo di Perugia), nel 2010 il Consiglio di Stato reintegrò Crisanti nell’incarico universitario dal quale era stato espulso in seguito a sentenza del Tar. L’Ateneo umbro gli aveva contestato di mantenere due rapporti di lavoro a tempo indeterminato: uno all’Imperial college di Londra e uno all’università di Perugia.
LE COLPE DELL’OMS.
La verità dietro la commissione dell’Oms sulla pandemia. Lorenzo Vita il 10 luglio 2020 su Inside Over. L’Organizzazione mondiale della Sanità alla fine ah risposto in maniera affermativa. Dopo le pressanti richieste di alcuni Stati membri e degli Stati Uniti in particolare – che con Donald Trump hanno deciso direttamente id uscire dall’organizzazione – l’Oms di Tedros Adhanom Ghebreyesus ha deciso di dare il via a una commissione che indaghi sulla risposta offerta con la pandemia. Il tutto per “avviare una valutazione indipendente e globale delle lezioni apprese dalla risposta sanitaria internazionale al Covid-19”. La stampa internazionale l’ha definita forse la prima vera resa dell’Oms nei confronti di Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha più volte incalzato l’Organizzazione sul fronte della poca trasparenza interna accusando l’ente internazionale di non rispettare il fatto che fosse Washington il maggiore contribuente statale alle casse dell’Oms. Ma ha soprattutto chiesto più volte a Ghebreyesus di abbandonare i suoi legami alla Cina, con l’accusa di aver gestito male e non condannato realmente la Cina esclusivamente perché legato a doppio filo con i piani alti di Pechino. Un’accusa grave che non solo ha messo a rischio la credibilità internazionale dell’unica istituzione mondiale delegata a trovare una risposta armonica alla pandemia, ma che ha anche fatto deflagrare un vero e proprio incendio che si inserisce in quell’immenso fuoco che divide Cina e Stati Uniti. E in questo senso, l’idea che l’Oms abbia finalmente deciso di mettere le carte in tavola creando un “panel” di alto profilo per certificare la validità della risposta data con la pandemia, avrebbe dovuto essere il segnale di un cambiamento, un punto di rottura tra Oms e accuse di opacità. Tutto estremamente coerente? Fino a un certo punto. Perché la Cina ha subito un colpo ma è un gigante ferito. A Pechino non sono sprovveduti e sanno benissimo, come lo sa l’Oms, che è sempre meglio essere sicuri di non rischiare troppo da queste commissioni internazionali che partono con le migliori intenzioni e poi si ritrovano a scoprire o dover dire cose di cui pentirsi. Perciò tanto vale essere certi delle persone che formano la squadra. Per evitare certe sgradite sorprese che potrebbero intaccare, come accaduto altre volte, l’operato del dominus. Ed ecco che a questo punto, capire chi sono (davvero) le persone designate per questa commissione potrebbe essere molto utile per comprendere la profondità strategica di Pechino così come i veri interessi che sono dietro questo panel di esperti. Che a questo punto tutto potrebbe essere meno che una “resa a Trump”. Il primo nome voluto da Ghebreyesus è la ex premier neozelandese Helen Clark. Classe 1950, la Clark è stata premer della Nuova Zelanda dal 1999 al 2008. Fin qui nulla di rilevante, se non fosse per il fatto che la signora Clark, quando è stata premier a Wellington ha iniziato da subito a mostrare una certa apertura verso la Cina che non può essere considerata di poco conto se si considera che il suo Paese è ritenuto uno degli avamposti degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico e parte dall’alleanza di intelligence nota come Five Eyes (i cinque occhi) che fa capo a Washington. Era l’aprile del 2001 quando la premier Clark incontrò per la prima volta un altissimo vertice della Repubblica popolare cinese. Da poco più di anno alla guida della Nuova Zelanda, Helen Clark volò a Pechino per vedere Jiang Zemin e le cronache parlano di un incontro cordialissimo in cui Zemin accennò all’auspicio di stabilire “relazioni globali bilaterali a lungo termine” tra i due Paesi. Detto fatto, dopo pochi mesi la Clark si fece tra le grandi promotrici dell’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio e dopo due tre anni, la premier annunciò al suo Paese che era in fase di trattative con la Cina per un fondamentale accordo di libero scambio. Accordo che poi è stato raggiunto nel 2008, a chiusura del suo mandato, e che è divenuto un simbolo per la grande sfida politica cinese al mondo, visto che un accordo di questo tipo era stato il primo tra il gigante asiatico e una nazione del blocco “occidentale”. Un’amicizia confermata dallo stesso Xi Jinping quando si parlava della Clark per ruoli di vertice nelle Nazioni Unite, il leader cinese l’ha definita una vera “amica”, quasi a voler confermare il rapporto profondo che legava Pechino alla Wellington in mano a Clark. Discorso non troppo diverso per l’altra donna che co-presiederà il panel voluto da Ghebreyesus e cioè l’ex presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf. Di orientamento liberale e con ben due figli che vivono negli Stati Uniti, Sirleaf apparirebbe come la personalità meno legata all’influenza di Pechino, eppure è la sua carriera politica a dire che l’ex presidente liberiana non può essere considerata lontana dalle alte sfere cinesi. Presidente della Liberia fino al 2015, quando le successe George Weah, la Sirleaf è stata la presidente che ha confermato per più tempo e come pilastro della sua politica estera i forti rapporti con la Cina. È stata lei a ribadire di fronte al mondo che la Liberia avrebbe sostenuto apertamente la politica della “Una sola Cina”, cioè il principio che prevede Taiwan come parte della grande potenza di Pechino. Ed è sempre stata lei che nel corso di questi anni ha spalancato le porte liberiane agli investimenti cinesi con accordi che vanno dalla politica alla cultura fino al mondo militare. Tanto che, non va dimenticato, la Liberia è stata da sempre uno dei Paesi in cui sono stati coinvolti peace-keeper cinesi su mandato delle Nazioni Unite. Nell’ultima visita di Stato a Pechino, la Sirelaf ha confermato ogni tipo di legame esistente tra Liberia e Cina, ma ha anche firmato diversi tipi di accordi che hanno di fatto spinto il Paese nella grande sfera di influenza cinese, da quelli di tipo economico fino al campo culturale e sanitario. Tutto legittimo, sia chiaro. Ma chi parla di vittoria di Trump forse è il caso che ripassi la storia. Questa è una partita delicatissima in cui il presidente Usa può perdere anche l’ultima arma: incolpare Pechino di un disastro sanitario che sta devastando i suoi Stati Uniti a pochi mesi dalle elezioni.
Disorganizzazione mondiale. Report Rai PUNTATA DEL 11/05/2020 di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella. Nella gestione della crisi mondiale, innescata dalla pandemia del coronavirus, sembra che molti governi abbiano commesso errori. Report indaga sui comportamenti dell’Organizzazione mondiale della sanità per capire se ha emanato linee guida chiare e inequivocabili, che mettessero i singoli stati in condizione di valutare la gravità del problema sulla base di evidenze scientifiche riconosciute. L’inchiesta mette a fuoco il sistema di finanziamento dell’Oms, dalle donazioni volontarie dei singoli stati alla sempre più crescente dipendenza dai privati, primo fra tutti Bill Gates. In un contesto in cui le case farmaceutiche esercitano forti pressioni, che garanzie ci sono che il vaccino o le cure anti-covid siano trattati come beni pubblici a disposizione della popolazione mondiale e non blindati sotto i brevetti per realizzare enormi profitti? Report ricostruirà gli errori commessi sinora e le prospettive di riforma di un’organizzazione di cui il mondo avrà sempre più bisogno, se si dimostrerà efficace e indipendente.
Accuse shock al vertice dell’Oms: fu complice delle repressioni in Etiopia? Andrea Muratore su Inside Over il 15 dicembre 2020. Torture, omicidi, sequestri di persona. Ma anche repressioni di proteste, detenzioni arbitrarie e connivenza con un progetto politico di centralizzazione autoritaria delle decisioni. Di queste e altre accuse il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, è stato colpito su esplicita segnalazione dell’economista, attivista per la democrazia in Africa e candidato al Nobel per la Pace David Steinman. Steinman, riporta il Daily Mail, ha recentemente dichiarato che Tedros dovrebbe essere incriminato alla Corte penale internazionale dell’Aja per la sua condotta politica da Ministro degli Esteri di Addis Abeba (2012-2016) in una fase in cui il governo del suo partito, il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino, guidato da Haile Mariam Desalegn, si rese responsabile di un durissimo giro di vite contro le proteste e i tentativi di secessione o di ricerca dell’autonomia politica interni al territorio nazionale. Secondo Steinman, da titolare degli Esteri Tedros avrebbe fatto parte di un ristretto comitato di controllo sulle forze di sicurezza che ha glissato o addirittura ignorato il fatto che le problematiche sociali, politiche e etniche portavano i militari di etnia tigrina a calcare la mano contro i manifestanti o i ribelli di altre etnie (Amhara, Konso, Oromo e Somali). In particolare la regione dell’Oromia, la più grande dell’Etiopia, fu teatro di proteste di massa dal novembre 2015 e quella dell’Amhara dal giugno 2016 la seguì. In entrambi i casi le forze di sicurezza del governo colpirono manifestanti e proteste in larga parte pacifiche causando, secondo Human Rights Watch, oltre 500 morti.
Le accuse arrivano a poche settimane di distanza dallo scoppio delle dure schermaglie tra il nuovo governo centrale etiope, guidato da Abiy Ahmed, e il citato Flpt, che dopo l’estromissione dal governo nel 2019 ha voluto consolidare la sua roccaforte regionale nel Nord-Ovest dell’Etiopia, nella consapevolezza che la minoranza tigrina (6 milioni di abitanti su 110 milioni di etiopi), persi i controlli dei gangli vitali dello Stato occupati dopo la rivolta contro la dittatura militare conclusasi nei primi Anni Novanta, difficilmente avrebbe potuto riconquistarli. Gli scontri, degenerati presto in guerra aperta, hanno visto il governo etiope catturare la capitale tigrina di Mekelle il 28 novembre scorso e il Flpt dichiarare che la guerra sarebbe continuata. l capo dell’esercito etiope, Berhanu Jula, ha affermato addirittura che Tedros sarebbe impegnato nel fornire armi ai ribelli tigrini. Accusa, questa, priva di prove concrete a sostegno se non il ricordo di quando Tedros, da giovane medico e esule, sosteneva i ribelli nella madrepatria durante gli Anni Ottanta. Ben più dure le bordate dell’economista statunitense Steinman, che richiamano a episodi recente, mai chiariti e ben nascosti dalla biografia ufficiale di Tedros, divenuto figura di rilevanza globale in questo 2020 per l’esposizione mediatica e politica legata al contrasto al Covid-19. Una simile spinta a indagare nel passato politico di Tedros non si vedeva dai tempi della sua nomina alla guida dell’Oms, nel 2017. Allora l’Apu (Amhara Professionals Union), un gruppo di pressione con sede negli Stati Uniti che si sforza di fare pressione per promuovere la causa del popolo Amhara di fronte alle cancellerie internazionali, in una lettera aperta pubblicata ad aprile intitolata “Il dottor Tedros Adhanom è un individuo sospettato di crimini contro l’umanità”» elencò diversi casi di possibili connivenze tra il medico-politico e le repressioni, ma anche condotte ben più subdole, come il rifiuto di regolamentare la Khat, una sostanza psicotropa che avrebbe “devastato i giovani amhari” tanto da essere invece stata bandita nella regione del Tigré. Non esistono, tuttora, processi aperti contro Tedros nè pistole fumanti che certifichino queste accuse. Il direttore dell’Oms è sicuramente uomo ancora influente nel suo Paese natale, rampante “tigre” economica e politica ritrovatasi preda delle sue contraddizioni interne nel contesto di un equilibrio sempre più teso in Africa Orientale. Tedros, come Abiy, è nell’occhio del ciclone per la rilevanza della sua posizione, uno direttore dell’Oms, l’altro giovane premier Premio Nobel per la Pace, e entrambi hanno assunto il ruolo di figure divisive per gli stessi connazionali. Nel mosaico etnico e politico etiope, perturbato dall’escalation di violenze, accuse sotterranee e colpi bassi sono all’ordine del giorno. Staremo a vedere se le accuse di Steinman, le uniche veramente circostanziate, avranno seguito in un’indagine penale: le altre sembrano piuttosto voci ostili alla figura di Tedros fatte circolare per cause politiche interne all’Etiopia.
DISORGANIZZAZIONE MONDIALE. Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione: Alessia Marzi e Alessia Pelagaggi.
DONALD TRUMP PRESIDENTE STATI UNITI - CONFERENZA STAMPA 14 APRILE 2020 Oggi ho detto alla mia amministrazione di fermare i finanziamenti all’Organizzazione mondiale della sanità, mentre si sta facendo un report che valuterà il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità nel gestire male e coprire la diffusione del Coronavirus.
GIULIO VALESINI Ma dopo gli Usa il secondo donatore all’OMS non è uno stato ma Bill Gates. La sua fondazione versa più mezzo miliardo di dollari all’OMS ogni biennio. Di fatto stabilisce lui quali sono le priorità dell’organizzazione.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Bill Gates Sta uccidendo l'OMS e cerca di dimostrare al mondo che è un grande filantropo che si preoccupa della salute dell’umanità
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ Organizzazione mondiale della sanità, è l’agenzia dell’ Onu che si occupa di salute. È stata fondata dal dopoguerra e da allora ha una mission, quella di fa raggiungere alla popolazione mondiale il più alto livello di salute possibile. Dovrebbe essere un ente neutrale a servizio di tutti gli stati. Ma da qualche anno è in crisi di identità e la diffusione del virus ha evidenziato le sue criticità, le sue debolezze. Il 14 aprile scorso quello che è il più importante contribuente dell’ OMS, il governo degli Stati Uniti Donald, nella persona del suo presidente Trump, ha annunciato di voler chiudere i rubinetti. Ha accusato l’OMS di gravi errori nella gestione dell’epidemia e soprattutto di aver insabbiato informazioni utili che avrebbero potuto contrastare la diffusione del virus. Queste accuse sono mosse, alimentate dai pensieri obliqui che avvolgono la figura del direttore generale: Tedros. Ex ministro della salute ed ex ministro degli esteri del governo etiope. È uno dei leader del partito del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè che è e legato a doppio filo al partito comunista cinese e in particolare alla figura dell’attuale presidente Xi Jinping per via dei suoi pesanti investimenti nel paese etiope. Se Tedros è riuscito, primo nella storia come africano a salire ai vertici dell’OMS lo deve anche e soprattutto ai voti dell’ Unione dei Paesi africani, che si riuniscono in quella sede di Addis Abeba, che è stata costruita proprio dai cinesi, compresa la rete digitale, ma dentro ci avrebbero messo anche un regalo, gli spioni. Quello che emerge dall’inchiesta di questa sera è la catena di errori e di relazioni opache che avrebbero contribuito alla diffusione del virus. Scopriremo che manca un pezzo della storia della pandemia, qualcuno l’ha nascosto, e siamo anche andati a vedere nella pancia del nostro paese, nel ministero della salute: chi sono quelli che hanno la memoria corta. I nostri Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO É il 28 gennaio scorso. Il direttore generale dell’organizzazione mondiale della sanità Tedros Ghebreyesus è seduto accanto al presidente cinese Xi Jinping nella Grande sala del popolo di Pechino.
XI JINPING - PRESIDENTE REPUBBLICA POPOLARE CINESE Fintantoché rafforziamo la nostra fiducia, ci aiutiamo reciprocamente a controllare e prevenire il virus in modo appropriato e ad applicare i piani in modo preciso, certamente sconfiggeremo questa malattia.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il tema è la gestione del coronavirus. Tedros elogia apertamente il governo cinese. Ma non si sa su quali basi visto che l'OMS non ha ancora fatto una vera ispezione in Cina.
TEDROS ADHANOM GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Appena il virus è stato individuato, il genoma è stato condiviso immediatamente in modo che altri paesi possano usarlo. E fianco a fianco, avete intrapreso serie misure di salute pubblica, e davvero noi ne siamo orgogliosi. E l'altro elemento importante è l'impegno politico e la sua leadership personale, che noi abbiamo seguito. E anche la sua squadra, che contribuirà a fermare questo virus.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Hanno percepito la gravità, ma aspetteranno ancora 18 giorni, per recarsi in missione sul campo.
GIULIO VALESINI La Cina ha detto tutta la verità sul Covid-19?
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE C'è uno Stato che ha detto tutta la verità su Covid 19? Io dubito. All'inizio nessun governo vuole dichiarare un'epidemia a casa propria, nessuno, mai, perché questo confligge con il commercio e la Cina è l'HUb produttrice del mondo: quindi insomma non è così semplice.
GIULIO VALESINI Tedros è un personaggio politico.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE Come tutti quelli che arrivano a fare il direttore generale dell'OMS.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tedros è il primo africano che riesce a scalare i vertici dell’OMS. Nel suo paese, L’Etiopia è stato ministro prima della sanità, poi degli esteri in governi che non hanno esitato a usare la violenza contro le opposizioni. Il suo partito è il temuto TPLF: il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè.
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Durante le gestione del governo etiope, il TPLF è stato accusato di moltissimi episodi di corruzione. Tedros non solo era membro di quel governo, Tedros è una figura di primo piano del partito TPLF.
GIULIO VALESINI Che rapporti ha il partito, il TPLF con la Cina?
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Il TPLF, che era la forza principale di governo… è quello che ha aperto le porte dell’Etiopia alla Cina.
GIULIO VALESINI Tedros quanto è riconoscente alla Cina?
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Le voci voglio che lui sia molto riconoscente. Il TPLF ha legami molto forti con la Cina.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nella sua elezione a capo dell’OMS, Tedros ha avuto il sostegno di tutta l’Unione africana. Cioè di quel continente dove la Cina in questi anni ha investito un fiume di denaro per tessere la nuova via della seta. Nell’Etiopia di Tedros sono arrivati miliardi di investimenti, soprattutto in infrastrutture. Questa è la ferrovia che collega Addis Abeba a Gibuti, 756 km. Un’opera strategica per il continente, costata 4 miliardi di dollari. E un gran ruolo l’hanno avuto le banche cinesi.
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Le stime sono che la metà del debito etiope sia nelle mani dei cinesi.
GIULIO VALESINI Tedros è stato designato e appoggiato da tutta l’Unione Africana.
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Si GIULIO VALESINI L’Africa quanto si è legata dal punto di vista economico alla Cina in questi anni?
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Tanto e molti paesi africani oggi si accorti che questo abbraccio cinese verso il continente non era gratuito.
GIULIO VALESINI Cosa sono le clausole collaterali?
MASSIMO ZAURRINI - DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” I cinesi se tu non gli dai quell’infrastruttura, che sia un porto, un’autostrada, non rientrano dell’investimento fatto sugli accordi presi, si prendono la gestione diretta di quella infrastruttura.
GIULIO VALESINI Ti tengo un po’ in pugno così…
MASSIMO ZAURRINI DIRETTORE RESPONSABILE "AFRICA E AFFARI” Ti tengo in un po’ in pugno.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Molti segreti sono custoditi in questo palazzo dell’Unione africana: qui si riuniscono i 56 paesi dell’organizzazione. Un regalo da 200 milioni di dollari del governo di Xi Jinping, comprese le infrastrutture digitali per le comunicazioni, che secondo un’inchiesta di Le Monde, contestata dagli interessati, i cinesi hanno usato per spiare le attività dell’Unione Africana.
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES I dati che passavano per il quartier generale dell’Unione Africana venivano intercettati dal governo cinese all’interno di questa stessa struttura.
GIULIO VALESINI Quindi la Cina era in grado di conoscere i segreti dell’Unione Africana in maniera facile?
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES Sì, in maniera quasi diretta. La Cina ha rapporti molto stretti con i paesi più disparati: dal sud Africa, all’Angola fino alla Nigeria, Etiopia, ma c’è anche Gibuti dove la Cina ha nel 2017 creato la sua prima base militare all’estero.
GIULIO VALESINI Soldi, investimenti: è questo il filo che tiene legato in questo momento Tedros alla Cina?
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES Senz’altro...
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Quello che è certo è che l’OMS guidata da Tedros ha guardato con una certa indulgenza i ritardi delle comunicazioni cinesi sulla diffusione del Covid 19. È il 14 gennaio quando l’Organizzazione mondiale della sanità dal suo account ufficiale twitta che “dalle indagini condotte dalle autorità cinesi non emergono chiare evidenze di una trasmissione da uomo a uomo del virus. Le prime ammissioni arriveranno otto giorni dopo: il 22 gennaio, quando già si contano migliaia di contagiati.
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Noi ci abbiamo messo una settimana per capire che prima di tutto la presenza di persone sintomatiche non coincide con l'inizio della diffusione dell'epidemia. Perchè noi abbiamo avuto il primo caso sintomatico il 20 febbraio nel frattempo avevamo già un 3 per cento della popolazione infetta. Ora spiegatemi voi com'è possibile che c'è un caso sintomatico e il 3 per cento della popolazione infetta: questi come se lo sono presa?
GIULIO VALESINI L'Organizzazione mondiale Sanità non ha detto tutta la verità di quello che sapeva?
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso ad occhi chiusi senza fare tutte le verifiche quello che i cinesi hanno detto e le ha fatte proprie. I dati a nostra disposizione fin dall'inizio non combaciavano con i dati che avevano pubblicato i cinesi
GIULIO VALESINI Aspettare il 22 gennaio per ammettere il contagio da uomo a uomo è stato tardivo?
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Alla fine di questa epidemia l'Organizzazione Mondiale della Sanità probabilmente c’avrà delle spiegazioni da dare. Dovrà spiegarci se una struttura fatta di burocrati pagati profumatamente sia giustificata sulla base dei risultati di quello che è successo finora.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Andrea Crisanti è il virologo che ha gestito l’emergenza Covid in Veneto. È l'artefice del famoso modello “Vo’”: tamponi a tappeto, anche per gli asintomatici. Ha studiato le curve dei contagi comunicate dalla Cina. E si è accorto che manca qualcosa.
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Manca un pezzo della curva. Guardi la curva italiana, guardi la curva spagnola o anche quella americana: lei vede questa forma a y greco che sale così questa fase esponenziale che poi inizia questa curva a campana. La parte cinese manca tutta questa parte qui. Manca la cosiddetta fase esponenziale.
GIULIO VALESINI Che vuol dire questo secondo lei?
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Vuol dire che sicuramente… per lo meno io interpreto che manca un grosso pezzo della storia dell’epidemia.
GIULIO VALESINI Secondo lei quando è partita davvero questa epidemia.
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Tra fine ottobre e inizio novembre forse.
GIULIO VALESINI A noi ci mancano due mesi.
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Ci mancano due mesi e mezzo buoni.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mancano cioè quei due mesi che avrebbero potuto cambiare il destino del mondo. In uno studio dell’Università di Hong Kong – che collabora per ironia della sorte con l’OMS, viene pubblicato uno studio secondo il quale, il 20 febbraio, in Cina, ci sarebbero stati 232.000 casi di COVID-19 cioè quattro volte in di più di quelli dichiarati ufficialmente dal governo cinese. Ecco, è importante ripercorre alcune date sulla vicenda. L’8 dicembre si ha la notizia del primo contagio che poi risaliva al 17 novembre. Tra il 24 e il 27 dicembre alcuni laboratori di analisi avrebbero ricevuto campioni e isolato la sequenza del virus. Il 30 dicembre: il dottor Li Wenliang avvisa i colleghi e cittadini della presenza del virus e gli dice “fate attenzione e usate delle precauzioni" Ma la polizia lo obbliga a dichiarare che ha diffuso notizie false, è il medico morirà poi proprio a causa del virus. Ma lo stesso giorno, il 30 dicembre, anche la dottoressa Ai Fen responsabile del reparto di terapia d’urgenza dell’ospedale pubblico di Wuhan dichiara di aver letto chiaramente un referto dove si faceva riferimento alla patologia "Sars Coronavirus" dove era addirittura cerchiata la parola. Il 31 dicembre, secondo CitizenLab dell’Università di Toronto, sulle piattaforme social come WeChat sarebbe partita la censura, sarebbero state censurate 132 parole come autorità locali, epidemia, governo centrale, insabbiamento. Si tratta di date fondamentali perché è proprio in quel momento che la sta informando l’OMS, tuttavia non gli dice che c’è ancora una trasmissione uomo-uomo, parla di una “polmonite dalle cause sconosciute”. Il 3 gennaio la Commissione sanitaria nazionale cinese avrebbe ordinato di distruggere i campioni analizzati, ne dà notizia Caixin, il giornale che poi è stato censurato e che sostiene di aver visto quell’ordine. Il 9 gennaio è ormai ufficiale che l’epidemia è scoppiata, è a Wuhan, si dice appunto che è dovuta a un nuovo virus. Solo l’11 gennaio: viene confermata la prima vittima, 11 gennaio. Il 12 invece il laboratorio dello Shanghai Public Health Center viene chiuso. Un suo professore – Shang Yongzhen –aveva messo online la sequenza del virus. Ma i risultati risalivano ad almeno una settimana prima, data in cui sarebbero stati anche comunicati alla Commissione sanitaria nazionale. Il 18 e 19 gennaio secondo il Wall Street Journal e il Washington Post nonostante l’ufficialità dell’epidemia a Wuhan si sarebbe consumato il banchetto più ricco della storia. 40mila invitati, il più affollato al mondo. Il 23 Gennaio viene annunciato il lockdown di Wuhan ma il sindaco ammette in maniera disarmante che erano già uscite, nei giorni precedenti, 5 milioni di persone. Tuttavia l’OMS non dichiara ancora l’emergenza di salute pubblica di livello internazionale. Tra il 25 gennaio e il 1 febbraio: l’imprenditore Fang Bin carica su Facebook questo video dove si vedono otto cadaveri, ecco di questo imprenditore si sono perse le tracce. Poi il 30 gennaio finalmente l’OMS dichiara che è “emergenza sanitaria globale” per il COVID-19. Il 5 febbraio: La Cyberspace Administration cinese - agenzia governativa che regola il web - annuncia che saranno puniti tutti coloro che diffonderanno notizie che infondono paura sul web. Due giornalisti e attivisti, che avevano lanciato l’allarme sulla credibilità delle versioni ufficiali sono scomparsi dopo essere stati arrestati dalla polizia a inizio febbraio. Poi il 1 marzo viene arrestato il giornalista Li Zehua, l’Organizzazione cinese per la difesa dei diritti umani pubblica una lista che raccoglie 897 casi di repressione. Il 18 marzo la Cina invece ritira l’accredito stampa ai giornalisti di New York Times, del Wall Street Journal e del Washington Post. Ecco, in tutto questo invece c’è un paese che confina con la Cina e che a causa del virus ha contato solo 6 morti. Questo perché aveva intercettato quelle chat dei dottori cinesi poi censurati e ha preso immediatamente precauzioni.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Taiwan è una piccola repubblica di 23 milioni di abitanti. Lontana appena 180 chilometri dalla Cina. Eppure si è salvata dall’epidemia: a fine aprile ha contato 400 contagi e 6 morti. Non è riconosciuto come uno stato dalla Cina che ne rivendica la sovranità. E quindi è fuori anche da ONU e Organizzazione mondiale della sanità.
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES Fino al 2016 Taiwan è stata osservatore presso l’assemblea dell’OMS, dopo...
GIULIO VALESINI Quindi partecipava alle riunioni.
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES Esatto come osservatore in quanto non era riconosciuta come stato.
GIULIO VALESINI Però poteva dire la sua.
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES Dal 2017 questo non è stato possibile perché nel 2016 era stata nominata presidente a Taiwan Cai Yingwen che ha fatto capire chiaramente di essere contraria a una riunificazione tra Taiwan e la Repubblica Popolare.
GIULIO VALESINI Di fatto Tedros ha isolato Taiwan dall’Organizzazione mondiale della sanità.
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES È la Cina che ha escluso Taiwan da questo contesto. GIULIO VALESINI Ma Tedros si sarebbe potuto opporre eventualmente?
GIORGIO CUSCITO - ANALISTA LIMES Dopo essere stato nominato direttore generale OMS ha ribadito che bisognava rispettare il principio di una sola Cina quindi di fatto si è schierato con Pechino.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E se Tedros e suoi dirigenti hanno aspettato fine gennaio per ammettere al mondo che il virus si trasmetteva tra uomini, Taiwan non si è fidata delle comunicazioni ufficiali fin da subito. E si è salvata. Il 31 dicembre, il centro di controllo delle malattie di Taipei manda questa email all'Organizzazione mondiale della Sanità: vuole informazioni su una possibile contagiosità uomo-uomo di un nuovo virus. Il giorno stesso il governo inizia controllare eventuali sintomi nei viaggiatori che provenivano da Wuhan. Il 5 gennaio la ricerca si estende a qualsiasi passeggero arrivato da Wuhan negli ultimi 14 giorni.
ANDREA SING-YING LEE - AMBASCIATORE TAIWAN IN ITALIA Abbiamo avuto un forte dubbio che qualcosa ci fosse nascosto.
GIULIO VALESINI Avete avuto un’informazione informale di questo?
ANDREA SING-YING LEE - AMBASCIATORE TAIWAN IN ITALIA I medici di Taiwan, nella profonda notte, hanno visto dei post di medici cinesi, dicendo che “ci sono questo fenomeno che non si può divulgare perché il governo ha vietato, però fate attenzione che ci sono questi fenomeni”.
GIULIO VALESINI Cioè, è stato un rapporto tra medici?
ANDREA SING-YING LEE - AMBASCIATORE TAIWAN IN ITALIA Questi medici hanno riferito al governo nostro, al direttore del controllo delle malattie contagiose e questo stesso signore ha scritto all’OMS.
GIULIO VALESINI È un po’ un paradosso il fatto che l’unico grande paese – perché voi avete 25 milioni di abitanti – fuori dall’OMS è stato quello che ha gestito meglio la pandemia Covid-19.
ANDREA SING-YING LEE - AMBASCIATORE TAIWAN IN ITALIA La nostra impossibilità di contare sull’appoggio della OMS che ci ha reso forti e anche preparati. Noi siamo da settant’anni in rapporti stretti con la Cina: commercio, finanza, investimenti, turismo, matrimoni attraverso lo stretto di Taiwan. Sappiamo come è la Cina. Quando dicono che non c’è problema, c’è qualche problema; quando dicono che il problema non è grande, il problema è grande. Quando chiediamo alla Cina “cosa sta succedendo?” “mah, qualcosa c’è, ma non vi dovete preoccupare” noi siamo preoccupati.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche il professor Crisanti ha dubbi sulle informazioni giunte dalla Cina.
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Io di quello che dicono i cinesi non credo quasi a nulla.
GIULIO VALESINI Il problema è che l'Organizzazione mondiale sanità ha dato credito a quello che diceva…
ANDREA CRISANTI ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Ah molto bene! Sarebbe interessante a questo punto chiedere all'Organizzazione mondiale la sanità, che tra altre cose ha fatto un'ispezione lì, che dati hanno raccolto.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il medico che ha condotto la missione in Cina per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità è Bruce Aylward. Da anni copre ruoli strategici nell’organizzazione. A metà marzo per iscritto si era mostrato disponibile ad un'intervista con noi che poi è misteriosamente saltata. Ha però deciso di parlare con la collega Yvonne Tong della Tv di Hong Kong. E quando gli chiedono di Taiwan, che è la questione che avremmo voluto sottoporgli noi di Report, Bruce Aylward non riesce a nascondere il suo imbarazzo.
YVONNE TONG - GIORNALISTA RTHK L’OMS rivaluterà la appartenenza di Taiwan all’organizzazione? … Pronto?
BRUCE AYLWARD - SENIOR ADVISOR ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Mi spiace, non ho sentito la sua domanda Yvonne.
YVONNE TONG - GIORNALISTA RTHK Ok, la ripeto.
BRUCE AYLWARD - SENIOR ADVISOR ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ No, va bene. Possiamo passare alla prossima.
YVONNE TONG - GIORNALISTA RTHK Sarei curiosa di parlare con lei di Taiwan, del caso di Taiwan.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Cade la linea e la collega richiama il dirigente dell’OMS.
YVONNE TONG - GIORNALISTA RTHK Vorrei capire se vuole commentare un po’ sul come si è comportata fino ad oggi Taiwan riguardo il contenimento del virus.
BRUCE AYLWARD - SENIOR ADVISOR ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Beh, abbiamo già parlato della Cina, e sa, quando guardi le zone differenti della Cina, hanno fatto tutte un bel lavoro. E con questo, vorrei ringraziarla per averci invitato a partecipare e augurarvi buona fortuna con la vostra battaglia a Hong Kong.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Giusto alla buona sorte ha dovuto appellarsi chi vive nei Paesi che hanno osservato alla lettera le direttive dell’OMS. Come quelle diramate sull’uso delle mascherine. Si legge: “in ambienti comuni una mascherina medica non è richiesta”. Prescrizione volutamente ignorata da Taiwan.
GIULIO VALESINI Avete fatto esattamente il contrario di quello che diceva l'OMS.
ANDREA SING-YING LEE - AMBASCIATORE TAIWAN IN ITALIA Si esatto. Noi abbiamo diffidato dalla loro raccomandazione. Abbiamo cominciato a distribuire mascherine.
GIULIO VALESINI Voi a gennaio avete detto riconvertiamo la produzione industriale produciamo mascherine, e in un mese ne producete 15 milioni, al giorno?
ANDREA SING-YING LEE - AMBASCIATORE TAIWAN IN ITALIA Si da 1 milione e 500mila unità al giorno a 15 milioni.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Veneto il coronavirus ha fatto meno vittime rispetto alla Lombardia, all’ Emilia Romagna e al Piemonte. La parola d’ordine in Veneto è stata: test di massa. Anche agli asintomatici. Una strategia opposta alle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e riprese dall’ordinanza del ministro della Salute del 25 febbraio. Una scelta criticata anche da Walter Ricciardi, consulente scelto dal Ministro della salute Speranza e membro del comitato esecutivo dell’OMS.
ANDREA CRISANTI - DIRETTORE LABORATORIO DI VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Noi le evidenze scientifiche che supportavano queste direttive dell'OMS, e poi fatte proprie dal governo l’italiano, non le abbiamo mai viste anzi. Successivamente tutti gli studi che hanno investigato in dettaglio come si trasmetteva questo virus a partire da Vò, Taiwan e poi l'esperimento dell'Islanda hanno dimostrato esattamente il contrario. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sulla necessità di fare i test il segretario dell'Organizzazione mondiale della sanità Tedros cambia idea. Solo il 16 marzo.
TEDROS ADHANOM GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ - CONFERENZA STAMPA 16 MARZO 2020 C’è solo un messaggio per i nostri stati membri” testare, testare, testare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una volta scappati i buoi valli a riprendere. Comunque appare chiaro, che all’OMS avevano le idee poco chiare. Ma chi è che decide? Noi abbiamo cercato di capire quale fosse la ratio dietro la logica, dietro la strategia antivirus dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, abbiamo chiesto anche tutte le linee guida che sono state emanate, insomma a parte che non ce le hanno volute dare, però quelle che siamo riusciti a recuperare sono già abbastanza indicative. In meno di due mesi hanno cambiato ben cinque volte e mezza. Erano partiti anche bene il 15 gennaio: avevano indicato ai medici di verificare tutti quelli che avevano una sindrome respiratoria acuta, che venivano da Wuhan, ma di prestare attenzione anche a chi aveva un decorso inaspettato della malattia indipendentemente dal link epidemiologico. Poi il 21 gennaio cambiano idea e dicono “limitatevi ad analizzare, a testare solo chi proviene da Wuhan o ha avuto contatti con malati Covid o proviene da presidi sanitari ospedalieri a rischio”. Ma il 25 gennaio tornano sui loro passi e avvisano i medici di tenere le antenne dritte indipendentemente dalla provenienza del paziente. Ma solo tre giorni dopo il 28 gennaio di nuovo restringono il campo all’individuazione del paziente Covid esclusivamente, lo legano al link epidemiologico. Il 31 gennaio confermano questa linea però passano la patata bollente ai medici dicono, si però guardate, fate attenzione perché a vostro giudizio clinico testate anche qualche paziente sospetto che non ha il link epidemiologico. Bisognerà aspettare il 27 febbraio quando la situazione ormai è degenerata perché l’OMS indichi chiaramente “fate attenzione a tutti quelli che hanno dei sintomi sospetti”. Ecco, il nostro Ministero a differenza di Taiwan, ha rincorso con grande affanno queste linee guida, non faceva in tempo ad aggiornarle che già cambiavano. Addirittura abbiamo dovuto aspettare il 9 marzo perché si decidesse di fare attenzione a tutti i casi sospetti. Ma era già esploso il caso Codogno e si era scoperchiato il vaso di Pandora.
GIULIO VALESINI Questi sono tutti i vostri… come dire … adeguamenti.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Le nostre circolari, si.
GIULIO VALESINI Le vostre circolari. Allora quelle in verde scuro sono quelle che non hanno il link epidemiologico e quindi cercano in maniera un po’ più ampia il contagio, quelle invece in giallo sono quelle dove c'è il link epidemiologico quindi secondo noi sfuggono un po'.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Un po’ di confusione a mio avviso vi è stata almeno nel mese di gennaio per quanto riguarda la definizione di caso...
GIULIO VALESINI La cosa che mi stupisce che uno mano a mano che va avanti col tempo acquisisce maggiori conoscenze e quindi migliora. Voi invece avete fatto il contrario, l'OMS e voi di conseguenza. Siete partiti bene e avete proseguito male.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Noi abbiamo seguito le indicazioni chiaramente dell'OMS ma non ci sono solo quelle dell'OMS ma anche diciamo quelle del ECDC quindi, diciamo.
GIULIO VALESINI Quindi lei dice siamo stati aiutati a sbagliare.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Probabilmente io da medico, quindi in questo momento mi spoglio dal ruolo politico, io da medico forse avrei considerato un caso più ampio dall'inizio per poi restringerlo più avanti.
GIULIO VALESINI Noi comunque abbiamo notato una cosa, che, questo continuo cercare di inseguire l’ultima dell'OMS … a volte succedevano delle cose anche abbastanza paradossali cioè il ministero italiano aggiornava…
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Prima che me lo dice lei me ne sono accorto anch'io …
GIULIO VALESINI Cioè voi aggiornavate mentre l'OMS cambiava a sua volta.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Queste sono delle domande che anch'io mi sono posto che ho chiesto...ovviamente nella definizione di questo entrano fattori locali, task force, esperti, Consiglio Superiore di Sanità e ovviamente fattori internazionali che sono l'OMS. Le linee guida son quelle, e in effetti sono variate: il 15 dicevano una cosa, il 21 un'altra il 25 ritornano al 15 e poi se non ricordo male, il 31 ritornano al 21. Mi dica se ricordo bene le date.
GIULIO VALESINI Si ha studiato.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE E io mi sono posto lo stesso problema, l'ho fatto presente. Però se poi gli scienziati mi dicono “no è così … è così”.
GIULIO VALESINI Ma io ho soltanto la domanda secca questa la definisce scienza o confusione scusi, onestamente.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Questa è una bella domanda, nel senso che se parlo da medico è un po’ fuorviante.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il nostro Ministero della salute le indicazioni sulle mascherine dell’OMS le ha seguite alla lettera. Anche perché le mascherine non c’erano per tutti. È il 23 febbraio, e nell’ordinanza di intesa con le regioni colpite il Ministro Speranza sottoscrive: “usare le mascherine solo se si sospetta di essere malato”.
GIULIO VALESINI Per settimane il ministero della Salute italiano non ha raccomandato obbligatoriamente l'uso della mascherina per tutti, questa è la domanda.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Se lei mi dice prima del 20 di febbraio era necessaria una mascherina in tutta Italia? Beh, è difficile poterlo dire.
GIULIO VALESINI E dopo?
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Dopo sicuramente, almeno nelle zone… almeno le zone dove è dimostrata l'infezione è chiaro che riduce notevolmente.
GIULIO VALESINI Però su questo il Ministero non ha dato una comunicazione chiara però ministro scusi, o no?
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Perché non c'è un'evidenza scientifica.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Più che altro perché non ce le avevamo le mascherine. Il nostro piano pandemico risale al 2010 non è mai stato aggiornato, avrebbe contemplato lo stoccaggio delle mascherine, di quei dispositivi di protezione individuali che dovevano essere distribuiti a medici, infermieri, alle categorie più esposte come le forze dell’ordine a tutela di quelle più fragili come gli anziani. Avrebbe dovuto anche stabilire i protocolli per i presidi ospedalieri, e anche stabilire il fabbisogno delle terapie intensive. Ecco questo piano doveva essere attuato dalle regioni ma non è stato fatto. A coordinare il tutto doveva esserci, anzi c’è un ente, il CCM, il centro di controllo delle malattie, è un ente di raccordo tra Ministero della Salute e le regioni. A capo tra il 2014 e il 2017 c’era Ranieri Guerra, che era anche il direttore della prevenzione del Ministero della Salute: l’ente, la dirigenza da cui dipendono i piani pandemici. Ecco, non sono state fatte scorte di mascherine, né di dispositivi di protezione individuale, nonostante fossero caldeggiati dall’OMS. Quell’organizzazione dove Ranieri Guerra è stato chiamato a fare il direttore aggiunto proprio da Tedros.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da oltre un mese gli chiediamo invano un’intervista. Finché riusciamo a contattarlo telefonicamente.
GIULIO VALESINI Ma perché non vuole fare proprio l’intervista con noi? Che succede?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ (ride) Cerco di centellinare, cerco di centellinare più che posso.
DA TG1 SPECIALE DEL 18/04/2020 Abbiamo finalmente direi, Ranieri Guerra, dottor Guerra….
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non sembra, a giudicare dalle sue numerose presenze in video e sulla stampa di queste settimane.
DA IN MEZZ’ORA IN PIU DEL 22/03/2020 C’è un problema di preparazione di fondo da parte di tutti i paesi…
DA LA VITA IN DIRETTA DEL 17/04/2020 Chi non ha capito inizialmente, non ha capito qual è l’andamento di un’epidemia di questo genere.
DA CARTA BIANCA DEL 21/04/2020 Sono test su sangue venoso e non su sangue capillare…
DA SPECIALE RAI NEWS DEL 18/04/2020 Io credo che una valutazione immediata si sarebbe potuta fare…
DA TG1 SPECIALE DEL 18/04/2020 C’è una competizione interna tra stati…
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ranieri Guerra il 31 marzo, il giorno dopo la nostra prima puntata, dove aveva già declinato l’invito, partecipa alla trasmissione Agorà, e messo alle strette dalla collega Serena Bortone risponde così.
DA AGORÀ DEL 31/03/2020 SERENA BORTONE Report ieri dice che il piano pandemico italiano non è stato aggiornato dal 2010, lei professor Guerra era fino al 2017 Direttore generale per la salute preventiva del ministero della salute, quindi in qualche modo era anche responsabile di questo piano pandemico, è vero che non lo avete aggiornato dal 2010?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Non è così, Report può dire quello che vuole ma sa, ci sono anche dei livelli di confidenzialità che devono essere rispettati.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ranieri guerra non risponde in merito alle sue responsabilità sulla mancata applicazione del piano pandemico, alza una cortina fumogena ed evoca piani segreti che nulla hanno a che fare con quelli anti pandemici.
DA AGORÀ DEL 31/03/2020 SERENA BORTONE Mi scusi traduco, confidenzialità vuol dire che c'era un piano non pubblico che voi avevate?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Ci sono delle linee d'azione che vengono attivate nel momento in cui esplode un'epidemia di questo tipo.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Che non sono pubblicate ma che voi avete comunque.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Sono parzialmente pubblicate, sono pubblicate per quello che riguarda l'attivazione delle amministrazioni periferiche.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ranieri Guerra l’avevamo cercato perché era stato lui tra il 2014 e il 2017 il Direttore generale per la prevenzione del Ministero della salute. Era lui che avrebbe dovuto seguire l'aggiornamento del piano pandemico. Come direttore del CCM, era lui che avrebbe dovuto coordinare anche le regioni perché facessero proprio il piano contro le pandemie e fare le scorte di mascherine per proteggere medici, infermieri e i più fragili.
GIULIO VALESINI Io volevo sapere soltanto se Report meritava dieci minuti della sua attenzione per rispetto anche dei nostri telespettatori, insomma, tutto qui.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Voi state insistendo in una maniera veramente straziante.
GIULIO VALESINI Volevamo chiederle anche della sua esperienza di Direttore generale al ministero della Salute, quando dovevano essere aggiornati i piani pandemici e non sono stati aggiornati.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Non so nulla di quello che il Governo italiano ha fatto negli ultimi tre anni.
GIULIO VALESINI La domanda è molto semplice: lei lo sapeva o no che l’Italia non aveva stoccato mascherine e non era pronta rispetto ai piani pandemici?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Non lo so, non è la più pallida idea perché io non sono parte del Governo italiano. Non lo so. Ma mi scusi sono passati tre anni, in tre anni succedono tutte le cose del mondo. Lei mi sta facendo delle domande che sinceramente…
GIULIO VALESINI Lei in tre anni cosa ha fatto rispetto agli aggiornamenti dei piani pandemici? Noi abbiamo consultato tutte le regioni italiane, ci sono piani pandemici addirittura del 2006, 2007. Il nostro ultimo piano pandemico valido è del 2010. Lei è stato per tre anni dirigente di questo Ministero, lei dice “mi fa domande che non c’entrano niente”. Secondo me lei lo doveva sapere.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ La prego di chiedere al Governo italiano le cose che riguardano il Governo italiano, perché le chiede a me, io sono di un’altra amministrazione?
GIULIO VALESINI Lei che è stato per anni un alto dirigente del nostro Ministero, perché a gennaio, al Governo non ha detto “acquistate mascherine, riconvertite la produzione, siamo messi male”? Lei lo sapeva.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ No, io non lo sapevo. Lei sta scherzando? Io appartengo a un’altra amministrazione da tre anni.
GIULIO VALESINI Siccome noi abbiamo sentito l'ex Direttore generale del ministero che nel frattempo è diventato un alto dirigente dell'OMS. Ha detto lui è andato via tre anni fa e quindi nel frattempo ci doveva essere qualcuno al Ministero ci doveva pensare e adeguare le cose, magari lei lo sapeva insomma che cosa era successo nel frattempo, ci è stato detto rivolgermi a voi.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Io sono qui a darvi, io la faccia ce la metto, nel senso sto qui a darvi una risposta però è chiaro che io non posso rispondere... io posso rispondere per quello che faccio io.
GIULIO VALESINI Perché non sono stati aggiornati i piani pandemici?
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Il perché ovviamente va chiesto a coloro che erano qui prima di noi. Le stesse domande le ho già fatte anch'io e quindi ho chiesto alle varie direzioni, al segretario generale, in merito ai piani pandemici. E allora il piano pandemico attualmente in vigore è lo stesso del 2009, 2010. Quindi le stesse domande che voi vi ponete sono le stesse che mi sono posto io e ho già posto in attesa di risposte.
GIULIO VALESINI Sulle quali ecco esatto non ha ottenuto grandi risposte.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE Ho ottenuto alcune risposte però desirerei sapere chi è diciamo implicato nel nell'aggiornamento quindi nomi cognomi curricula. Dovrebbe esserci un draft che è stato completato a cavallo fra il 2016 e 2017 nel quale vi sono diversi gruppi di lavoro ministeriali, interministeriali e ovviamente serve l'aiuto anche delle regioni che poi saranno coloro che devono applicare il piano pandemico che prevede tantissime azioni e quindi si è in attesa di diciamo completare questo draft.
GIULIO VALESINI Il ruolo di coordinamento lo svolge un ente, si chiama CCM, che di solito è coordinato dal Direttore Generale della prevenzione di questo ministero.
PIERPAOLO SILERI - VICEMINISTRO SALUTE È la direzione di questo ministero, sì…
GIULIO VALESINI Che dovrebbe sapere a che punto sono le regioni, no, nell'attuazione di questi piani pandemici. Cioè regione a che punto sei? Hai stoccato? Sei pronto con le mascherine eccetera. A me mi sembra che qui eravamo impreparati.
PIERPAOLO SILERI VICEMINISTRO SALUTE I conti si fanno sempre alla fine, chi ha sbagliato è giusto che paghi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Giusto ma chi è che deve pagare? Il viceministro alla Salute Sileri ammette onestamente che il piano pandemico del 2010 non è mai stato attuato né aggiornato. Ma io sono arrivato da poco, ho chiesto spiegazioni all’interno del ministero ma non mi rispondono. Chi avrebbe potuto rispondere invece è l’ex direttore generale dimissionario da dicembre, poi andato recentemente via, Claudio D’Amario, e anche chi c’era prima di lui fino al 2017, Ranieri Guerra. Due illustri professionisti per carità, ma disattenti in questa vicenda. E Ranieri Guerra anche un po’ smemorato, perché sapeva benissimo che il piano pandemico doveva essere attuato e non è stato fatto. Sapeva benissimo come ha lasciato le cose. E poi noi abbiamo scoperto che l’unica cosa che girava che somigliasse a un piano pandemico era una bozza del 2016. Poi abbiamo anche provato a chiedere un’intervista a Tedros e il suo ufficio stampa però ci ha risposto criticando Report: dice “visto il vostro stile giornalistico, non vediamo l’utilità di partecipare”. Non gli piace il nostro modo di fare le domande. Ora ci verrebbe facile rispondere che neanche noi non siamo così entusiasti della loro gestione della pandemia. Tuttavia insomma noi non cerchiamo colpevoli, né responsabili, cerchiamo solo di capire dove si è sbagliato per non ricommettere gli stessi errori. E poi anche perché crediamo nell’OMS, crediamo nell’istituzione purché sia indipendente dalla politica e dalle pressioni delle lobby farmaceutiche. Ecco perché la storia ci dice che non è sempre stata così indipendente.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2009 il mondo era in allarme per un altro virus: l’H1N1.
TG AMERICANO GIORNALISTA La nuova influenza suina che infierisce in Messico ha potenziale pandemico, dice l'OMS.
TG AMERICANO GIORNALISTA L'influenza suina è in Europa. C'è un caso confermato.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Iniziata in Messico, l'influenza H1N1 in pochi mesi ha contagiato il mondo. L'11 giugno, per la prima volta in 40 anni, l'OMS dichiara la pandemia.
MARGARET CHAN - DIRETTRICE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ 2006 - 2017 Ho deciso di aumentare il livello di allerta all'influenza pandemica da fase cinque a sei.
JEAN PIERRE DOOR - RAPPORTEUR COMMISSIONE D’INCHIESTA PARLAMENTARE FRANCESE SULLA CAMPAGNA DI VACCINAZIONE Dall'attivazione del livello sei, si è innescato in effetti l'acquisto di vaccini. Bisognava contestare e non accettare? La Francia non poteva permetterselo, gli altri paesi hanno fatto la stessa cosa.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La dichiarazione di stato di pandemia presa dal comitato di esperti dell’OMS fece scattare gli obblighi di acquisto dei vaccini di tutti i paesi, Italia compresa.
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI I componenti erano segreti, nell'ipotesi che mantenerli segreti li proteggeva dall'influenza dell'industria.
GIULIO VALESINI Quindi sostanzialmente l'accusa fu che l'Oms dichiarò …
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI Dichiari pandemia e fai partire i contratti.
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI L’Italia era vincolata da un contratto con aziende farmaceutiche multinazionali ad un acquisto di vaccini, solo nel caso di una pandemia. Ha comprato mi sembra 24 milioni di dosi di vaccino…
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO German Velasquez per più di 20 anni è stato un alto dirigente dell’OMS: dirigeva proprio il programma sui farmaci. E oggi rivela alcuni particolari di ciò che accadde in quei giorni dentro l’OMS.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER All’epoca fu creata una Task Force di circa 20 persone, di cui facevo parte. Ma alla riunione con le industrie farmaceutiche che avrebbero prodotto i vaccini non potei partecipare. Quando arrivai l’usciere mi fermò sulla soglia, e disse “No. Lei non può entrare”. Io ero contrario alla dichiarazione di pandemia, il contagio avveniva molto velocemente, ma la mortalità era molto bassa. E dissi che se fosse stata dichiarata si sarebbe dovuto stabilire che i farmaci e i vaccini sarebbero stati di dominio pubblico. Questo approccio non è piaciuto. GIULIO VALESINI Secondo lei la dichiarazione di pandemia dell'Organizzazione mondiale della sanità favorì le grandi industrie farmaceutiche in quell'occasione?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Chiaramente, è stato il business del secolo.
GIULIO VALESINI Chi si vaccinò per il virus H1N1V, dentro l’OMS?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Io personalmente non mi vaccinai. E dei 2500 colleghi che lavoravano presso la sede dell’OMS a Ginevra non conosco nessuno che l'abbia fatto. E ti dirò di più: quattro mesi dopo l'uscita del vaccino in una conferenza stampa chiesero a Margaret Chan: "Signora direttore generale, lei si è vaccinata?" e lei rispose: "Beh, sono stata troppo impegnata, non ho avuto tempo”.
VOCE TG FRANCESE È un classico nelle campagne di vaccinazione, la Ministra della salute fa la puntura in diretta.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A conti fatti si vaccinarono pochi milioni di persone in Europa. Ma l'operazione costò ai paesi centinaia di milioni di euro. L’Italia pagò 24 milioni di dosi 184 milioni. Furono usate appena 900 mila dosi. Alla fine l'H1N1 fa meno morti di un'influenza stagionale. Il rischio pandemico si rileva infondato.
GIULIO VALESINI Rimanemmo con le scorte di vaccino che non servirono a niente.
EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI Si, ma non si che fine abbiano fatto. Credo che l'abbiamo poi donate a qualche paese in via di sviluppo che non so cosa se ne potesse fare.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche in Germania la campagna contro l'H1N1 fallì. Si vaccinò solo il 5% della popolazione. Dal 2009, Wolfgang Wodarg denuncia una pandemia contraffatta. Allora era presidente della Commissione per la salute europea. Secondo lui, gli esperti sapevano del basso rischio ma hanno scelto di favorire le finanze dei laboratori farmaceutici.
WOLFGANG WODARG - PRESIDENTE COMMISSIONE SALUTE CONSIGLIO D’EUROPA 2009 Nel 2009, non avevamo dati che dimostrassero la morbilità e la mortalità associata a una pandemia di fase sei e dichiarare questo livello di allerta. Quindi l'OMS aveva il dito sul grilletto, l'operazione era stata preparata a monte. L'OMS doveva dichiarare la pandemia, così gli stati impegnati ad assumere una certa quantità di farmaci in determinate condizioni, sarebbero andati avanti.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla fine l'OMS ha fatto mea culpa. Ma non sono mai emersi reati. NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Perché alcuni dei componenti del gruppo dell'Oms si scoprì che aveva anche un conflitto di interesse.
GIULIO VALESINI Quanto è presente la presenza e il conflitto di interesse di aziende farmaceutiche dentro l'OMS.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE L'OMS riflette le debolezze, le contraddizioni le incongruenze degli Stati che la compongono.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Viene il dubbio che rifletta le debolezze, perché quando un ente è molle è più facile penetrarlo da chi sa fare lobby. Nel caso della suina, dopo 40 anni viene dichiarata lo stato di pandemia. Si è scoperto che solo successivamente che quella dichiarazione era legata alla necessità di far rispettare i contratti che gli stati avevano con le case farmaceutiche. Quelle che riguardavano l’acquisto di un vaccino che poi si è rivelato una specie di flop, anche perché poi gli stessi membri dell’ OMS che avevano votato quella dichiarazione di pandemia non si erano vaccinati. Ecco, uno può alla fine, questo sa un po’ di ridicolo, può dire un osservatore, se questa è l’organizzazione vale la pena chiudere tutto. Noi non arriviamo a questo, anzi crediamo, continuiamo a credere nell’istituzione purchè si impari dagli errori del passato.
VOCE TG CNN L'OMS lavora per contenere la diffusione del temibile virus ebola diffuso in tre, forse quattro, paesi africani.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo l’H1N1 un altro virus ha colto l'OMS di sorpresa. Nel dicembre del 2013 emerge un nuovo ceppo di ebola. Si scatena il panico nell'Africa dell'ovest e in Canada. Una unità di crisi si riunisce più volte al giorno. Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'OMS partecipa alla riunione. Il dottor Hugonnet fa rapporto al rientro dalla Guinea Conakry, dove è iniziata l'epidemia.
STÉPHANE HUGONNET - ESPERTO SCIENTIFICO OMS. Tre aree hanno trasmissioni attive e generano casi. Il messaggio è che l'epidemia non è finita. Coinvolge tutto il paese, più di 1000 km coinvolti. È un'epidemia internazionale. Servono delle risorse straordinarie per comprendere e dominare questa epidemia.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È la prima volta che un caso di trasmissione avviene in una megalopoli di milioni di abitanti. Sul campo, l'OMS guida le attività di decine di esperti arrivati d'urgenza, tra cui Manuguerra dell’Istituto Pasteur.
JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR Dobbiamo sbrigarci perché l'epidemia può sfuggire, Bisogna sbrigarsi perché la reazione a catena può travolgere il sistema.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Conakry, Medici senza frontiere hanno costruito un centro separato dall'ospedale. Il villaggio ebola.
DONNA Chiamate se vi serve aiuto, io resto qui.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Senza vaccini né cure, i medici possono solo alleviare i malati e assistere i moribondi. Si devono anche isolare tutti i contagi sospetti. Si fanno prelievi per stabilire una diagnosi. Un laboratorio francese di Lione procedeva con l'analisi. Bisognava essere veloci per evitare il degrado dei campioni di sangue.
JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR Ora prenderemo una parte del campione del virus. Usiamo una parte per le analisi, prima lo disattiviamo, così possiamo estrarlo da qui. È un test sofisticato ma che funziona in modo semplice, con un risultato che si legge facilmente, vedete due campioni giallo fosforescente che indica la presenza di tracce di ebola.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Due casi confermati, uno negativo, il numero di test da fare diminuisce. A un mese dall'inizio, l'epidemia è in declino.
JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR A posteriori è facile dire: "Ci sono meno di 200 casi, "meno di 100 morti", non si sa mai come può evolvere la situazione.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo una stasi primaverile, l'ebola è ripartita a giugno. Senza capire come, Oularé Bakary, è uscito indenne.
OULARE BAKARY Vedevo i cadaveri quindi facevo domande, chiedevo da quanto fossero lì i malati. Erano venuti con me? Ero veramente preoccupato. Sarei morto, per me era finita. Ho visto un altro malato bagnarsi, perdere sangue, aveva la diarrea, vomitava sangue. C'erano i cadaveri pronti alla sepoltura. Aspettavo la mia ora, per me era finita. Mi hanno fatto un primo test, poi un secondo test, mi hanno detto che era negativo. Ero felice. Non sono più malato!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’accusa all’OMS, nel caso dell’Ebola fu quella di essersi mossa in colpevole ritardo. Sul campo per mesi a lavorare c’erano gli operatori di medici senza frontiere”.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Ebola è stato l'altra vicenda dove l'OMS ha rivelato molte debolezze per sua stessa ammissione. Dopo Ebola si creò nel 2015 questo fondo, questo Contingency Fund che dal 2015 a oggi, finanziato da 18 dei 194 Governi che finanziano, che partecipano e sono parte dell'OMS, ha raccolto 114 milioni di dollari.
GIULIO VALESINI In cinque anni. NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE In cinque anni quindi praticamente niente, briciole.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché di briciole alla fine si tratta. Quel fondo era stato istituito dopo l’epidemia ebola perché bisognava dotare l'OMS di risorse necessarie da investire in caso di una emergenza sanitaria, per la prima risposta, quella che serve forte, immediata, con determinazione per evitare che un’epidemia diventi poi una pandemia. Ecco hanno contribuito dal 2015 a oggi solamente 18 dei 194 stati membri che fanno parte dell'OMS. E hanno donato solamente 114 milioni. E da quel fondo l'OMS ha destinato in queste settimane 9 milioni a quei sistemi sanitari più deboli per fronteggiare l’emergenza del coronavirus. Ecco proprio sull’esperienza di ebola nel 2015 Bill Gates aveva riunito a Seattle la crema degli scienziati avendo alle spalle un virus che evocava in maniera incredibile il Covid19, annunciava quella che era la pandemia più annunciata della storia. Però se la prendeva con gli Stati, noi ne avevamo già parlato, ma poi ci siamo chiesti ma con chi ce l’aveva in particolare? E soprattutto è un sincero filantropo, Bill Gates?
BILL GATES – TED TALK, MARZO 2015 Quando ero ragazzo la catastrofe che più ci preoccupava era la guerra nucleare, ecco perché avevamo un barile come questo in cantina, pieni di cibo e acqua. Partito l’attacco nucleare dovevamo scendere, accovacciarci e mangiare dal barattolo. Oggi il rischio di catastrofe globale non è più questo. Invece è più simile a questo. Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso, piuttosto che una guerra. Questo perché abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, pochissimo invece su un sistema che possa fermare un epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia. Prendiamo l’ebola, il problema non era che il sistema non funzionava, il problema è l’assenza totale di un sistema. Non c’erano epidemiologi pronti a partire, per controllare la diffusione del virus. Le notizie sui contagi arrivavano solo tramite i giornali, messi online con ritardo ed erano anche imprecisi. Nessuno analizzava terapie e diagnosi. Un fallimento globale. Ma potrebbe anche andarci peggio: l’ebola è un virus che non si diffonde per via aerea, e quando i malati diventano contagiosi, non girano, stanno così male da essere costretti a letto e per pura coincidenza non è arrivato nelle aree urbane. La prossima volta potremmo non essere così fortunati e trovarci di fronte a un virus in cui si sta bene anche quando si è contagiosi, tanto da salire su un aereo o andare al mercato. Come l’influenza spagnola del 1918 che ha provocato la morte di più di 30 milioni di persone. Oggi abbiamo la tecnologia per contrastare un’epidemia. Con i cellulari possiamo raccogliere informazioni e trasmetterle, con le mappe satellitari possiamo vedere come la gente si muove. Gli strumenti li abbiamo, ma devono essere inseriti in un sistema sanitario globale. La banca mondiale stima che se ci fosse una pandemia di influenza la ricchezza globale si ridurrebbe di circa tre trilioni di dollari e ci sarebbero milioni e milioni di morti. Per questo bisogna essere pronti.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Chissà con chi ce l’aveva Bill Gates, perchè se parlava dell’impreparazione dell’OMS e di chi fa le scelte sulle politiche da adottare, allora bisogna anche vedere chi è che la condiziona, chi è che contribuisce alle sue entrate. Il suo bilancio ha totalizzato 5,6 miliardi di dollari lo scorso biennio. Ma nemmeno il 20% sono le quote fisse pagate dagli stati.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Oggi un'organizzazione che controlla più o meno il 20% del proprio budget è, come si può capire, un'organizzazione che è ingestibile. L'OMS si è trasformata in una specie di service provider.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’80% del budget è versato da stati e privati su base volontaria. Mettono i soldi e decidono per cosa si spendono.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER L’OMS negli ultimi 20 anni è stata privatizzata, l’operazione l’ha completata la direttrice Margaret Chan durante il suo mandato triennale.
GIULIO VALESINI Ma a chi ha fatto comodo trasformare la OMS di fatto in una agenzia privata?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Principalmente all'industria farmaceutica. E la verità, volendo essere un po' cinici è che i Paesi industrializzati fino a quattro mesi fa volevano un OMS senza molti poteri, per non danneggiare la propria industria.
GIULIO VALESINI Qual è il peso secondo lei, obiettivamente il peso delle aziende farmaceutiche dentro l'organizzazione mondiale della sanità, oggi?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER É molto, molto, molto, molto forte, perché oltre ad essere donatori si dà il caso che siano totalmente protetti dai paesi in cui si trovano. Non oggi, da diversi anni.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il primo donatore, gli USA, hanno annunciato pochi giorni fa di ritirare i fondi.
DONALD TRUMP PRESIDENTE STATI UNITI - CONFERENZA STAMPA 14 APRILE 2020 Oggi ho detto alla mia amministrazione di fermare i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della sanità. Mentre si sta facendo un report che valuterà il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità nel gestire male e coprire la diffusione del coronavirus. I contribuenti americani stanno pagando tra i 400 e i 500 milioni di dollari all’organizzazione mondiale della sanità ogni anno. La Cina contribuisce circa 40 milioni di dollari e forse anche meno.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma dopo gli Usa, il secondo donatore al mondo non è uno stato, ma Bill Gates. La sua fondazione versa più mezzo miliardo di dollari all’OMS ogni biennio. Di fatto stabilisce lui quali sono le priorità dell’organizzazione. Ad esempio investire sulla cura della polio, invece che della malaria. I fondi provengono dal trust di famiglia dove ci sono i proventi dei suoi investimenti nel campo sanitario: ha investimenti nelle industrie farmaceutiche. Report ha scoperto che il Trust di Gates ha investito in azioni nel campo sanitario per circa 320 milioni di dollari. E se Gates condizionasse da donatore su cosa l’OMS deve investire il conflitto di interessi sarebbe enorme.
ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Il trust fa soldi, investe e genera la massa di soldi che poi passa alla fondazione. Si tratta di cifre importanti, cioè oltre 5 miliardi di dollari. La fondazione a questo punto elargisce questi soldi.
GIULIO VALESINI Praticamente non è uno stato ma come se fosse una superpotenza. Come se fosse in realtà il 195esimo membro dell’Oms.
ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Ma in realtà forse il concetto di stato qui è addirittura superato. Quindi fa quello che vuole.
GIULIO VALESINI Quindi dice lei Bill Gates di fatto è diventato il proprietario dell'organizzazione mondiale della sanità.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Le faccio un esempio di qualcosa di molto scioccante che ho visto quando ero all'OMS. All'assemblea mondiale della salute Bill Gates è stato invitato dalla direttrice. Ha avuto 40 minuti per parlare con i ministri della salute. Nessun Ministro della sanità di qualsiasi paese del mondo, che si tratti di Francia, Italia o Inghilterra, ha più di cinque minuti per parlare all'Assemblea Mondiale. Quest’uomo può avere un sacco di soldi ma non è un esperto di salute pubblica. Bill Gates Sta uccidendo l'OMS e cerca di dimostrare al mondo che è un grande filantropo che si preoccupa della salute dell’umanità.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gates sta dando un contributo decisivo alla ricerca del vaccino e ha promesso che sarà accessibile a tutti. Ma visti i suoi investimenti sull’industria farmaceutica riuscirà a imporre un brevetto per così dire aperto?
ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Bill Gates nasce con in testa il concetto di brevetto cioè lui ha fatto un patrimonio con la logica del brevetto e soprattutto con la logica di protezione delle capacità e delle invenzioni.
GIULIO VALESINI Secondo lei l'OMS può imporre alle case farmaceutiche un vaccino con una proprietà intellettuale allentata, per rendere il farmaco disponibile a tutti, a prezzi accettabili?
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Legalmente l’OMS non può revocare un brevetto, ma potrebbe raccomandare fortemente a tutti i paesi di optare per la licenza obbligatoria, strumento grazie al quale ogni singolo stato paga una quota simbolica per avvalersi di un brevetto altrui. Ma questa cosa non la sta facendo.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO German Velasquez però porta avanti però una proposta ancora più coraggiosa e radicale.
GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Noi chiediamo che il direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il direttore dell'OMS Tedros, il direttore dell'Ufficio della Proprietà Intellettuale Mondiale, facciano una dichiarazione in tempi di pandemia davanti al mondo intero che dica “nulla di quello che sarà scoperto deve essere brevettabile”.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Magari. E invece chi produrrà il primo vaccino potrà sedersi al tavolo internazionale con la forza, con la moral suasion di avrà vinto una guerra. E invece il vaccino dovrà essere accessibile a tutti, per quantità di dosi e per accessibilità del prezzo. Ma quale è la strada da seguire? Una che potremmo percorrere è quella della GAVI, un’alleanza finanziata, che si occupa di vaccinazione e immunizzazione per l’intero pianeta ed è finanziata tra gli altri paesi, da Norvegia, Italia, Giappone, Gran Bretagna e anche da Bill Gates. Dovrebbe occuparsi di distribuire il vaccino nelle parti povere del paese, tra i governi più poveri, però non si è espressa sul brevetto del vaccino per il Covid19. Così come non si è espressa l’OMS. Che è guidata da Tedros. Tedros che è a capo di un’agenzia che è diventata sostanzialmente privata. Perché gli stati l’hanno voluta più debole per tutelare le proprie aziende farmaceutiche. E così l’80% dei suoi finanziamenti sono donazioni private, o di natura vincolata. Il numero uno, il finanziatore più importante privato è Bill Gates. Nell’ultimo biennio ha finanziato con circa mezzo miliardo di dollari, è il secondo in assoluto dell’OMS. Più di uno stato, più degli altri stati. È lui decide anche le politiche, le strategie dell’OMS, decide se investire su una campagna di vaccinazione per la poliomelite piuttosto che sulla malaria che provoca anche più morti. Ora lui ha detto mi sto impegnando nella produzione del vaccino per il Covid 19 e sarà accessibile a tutti. Sì, ma a quale prezzo? E poi brevetto, sarà un brevetto libero? Proprio lui che sui brevetti ha costruito la sua fortuna? Ecco lui i soldi li prende dal suo trust di famiglia e li mette nella fondazione, e dalla fondazione finiscono nell’OMS, ma i soldi che arrivano al trust, abbiamo scoperto noi di Report, arrivano anche da investimenti sul mondo sanitario. E parliamo di circa 323 milioni di dollari nel 2018 che avrebbe anche investito in case farmaceutiche tra quelle importanti, anche quelle che producono i vaccini, Novartis, Pfizer, Merck, Medtronic. E poi di questi 237 milioni invece li aveva investiti, almeno fino a un anno fa nella Walgreen Boots Alliance, la società che distribuisce farmaci all’ingrosso e al dettaglio in mezzo mondo. Poi tra l’altro Bill Gates aveva anche fatto un accordo attraverso Microsoft per costruire e gestire la rete informatica di questa società. Ecco, serve anche per accaparrare dati sanitari sulle prescrizioni? Per sapere quali farmaci vengono più venduti e di conseguenza per investire su quei farmaci? Ecco, il cerchio si chiude. Più soldi nel suo Trust, che poi soldi che partono nella sua fondazione, veste i panni da filantropo, li dona, risparmiando tasse, all’OMS. Determina quelle politiche sanitarie, le campagne di vaccinazione, o quelle cure farmaceutiche, magari prodotte da quelle multinazionali dove lui ha investito. Ecco insomma più che un conflitto, sembra una visione di un mondo. Chapeau Mister Gates. Però crediamo che la salute della popolazione mondiale meriti qualcosa di meglio.
Quarta Repubblica, Luca Ricolfi contro l'Oms: "Politica responsabile di un certo numero di morti". Libero Quotidiano il 5 maggio 2020. Non fa sconti, Luca Ricolfi. Ospite in collegamento a Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 4 maggio, il noto sociologo punta il dito. Lo fa sia contro l'Italia, per il numero di tamponi, ma anche e soprattutto contro l'Oms e i suoi errori. Senza giri di parole, Ricolfi afferma: "La maggior parte dei Paesi fa più tamponi che l'Italia, più tamponi si fanno e meno sono i morti". Dunque, nel mirino ci finisce l'Organizzazione mondiale per la Sanità, accusata in primis dagli Stati Uniti di essere troppo filo-cinese. Ma qui il tema è un altro, ossia gli errori nella gestione della comunicazione relativa alla pandemia da coronavirus: "C'è una responsabilità primaria dell'Oms, che ha determinato una politica responsabile di un certo numero di morti", conclude picchiando durissimo Luca Ricolfi.
Francesco Curridori per ilgiornale.it il 2 maggio 2020. Ritardi, indecisioni e indicazioni ondivaghe. A pandemia ancora in corso, l’Oms è già finita nel mirino per i suoi numerosi errori. Il Wall Street Journal non ha esitato a definire l’Oms come il “World Health Coronavirus Disinformation”, ossia la: “Disinformazione Mondiale della Sanità sul coronavirus”. L’ente guidato da Tedros Ghebreyesus ha dichiarato la pandemia solo l’11 marzo quando ormai vi erano già più di 100mila casi in tutto il mondo con oltre 4mila morti sparsi in più di 100 Paesi, mentre in Italia si contavano già 827 e 12mila positivi. Il capolavoro dell'Oms, come spiegato anche da Il Giornale, arriva con indicazioni totalmente fuorvianti e contradditorie sull’uso delle mascherine e sui test.
Inizialmente l'Organizzazione mondiale della Sanità consigliava di fare i tamponi “solo ai sintomatici” e ammoniva: “Non possiamo mettere a rischio i nostri medici e infermieri. Se non avete una persona malata a casa non avete bisogno della mascherina per favore non mettetela”. Poi, dal 16 marzo, c’è stata l’inversione di tendenza e la raccomandazione di fare “test, test, test” a tutta la popolazione, ma circa 20 giorni dopo, si ribadiva che l’uso delle mascherine non era indispensabile. In un documento dello scorso 6 aprile, infatti, l’Oms sosteneva ancora che la mascherina fosse uno strumento insufficiente per proteggersi dal coronavirus. “Attualmente non ci sono evidenze che indossare una mascherina da parte di una persona sana, anche in un contesto generale in cui si indossano universalmente, possa prevenire l'infezione di un virus respiratorio, compreso COVID-19", si legge nel documento. Una scelta che ha lasciato totalmente di stucco il virologo Roberto Burioni che, con un tweet, ha definito l’Oms "sempre più deludente” anche perché “l’autorevolezza si guadagna (e si perde) sul campo”, mentre l’epidemiologo Walter Pasini all’Agi, ha usato parole ancora più dure: “L’Oms non dà segni di leadership”. Per capire meglio i motivi di tali errori ilGiornale.it ha interpellato altri due esperti. “Sui test l’Oms poteva cambiare idea prima”, ci dice il professor Antonio Cassone, ex direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. Proprio Cassone, lo scorso 15 marzo, aveva scritto insieme al professor Andrea Crisanti un articolo pubblicato sul Guardian in cui sosteneva appunto la necessità di effettuare i tamponi anche agli asintomatici. Secondo lui, infatti, l’Oms è partito da una convinzione errata, ossia che “questa influenza fosse come la Sars del 2002-2003”. In quel caso “solo i malati trasmettevano l’infezione”, mentre oggi con il Covid-19 “anche gli asintomatici possono essere infetti e possono trasmettere il virus”. A questa considerazione, però, l’ente guidato da Ghebreyesus, è giunta soltanto a metà marzo. Se questa inversione di tendenza fosse avvenuta prima, molto probabilmente le cose sarebbe andate diversamente, come dimostra anche il caso del Veneto che è già entrato nella Fase 2. L’idea di effettuare tamponi a tappetto sulla cittadinanza di Vo’ Eguaneo, come suggerito dal virologo Crisanti, ha consentito di individuare gli asintomatici e frenare la diffusione dell’epidemia. “Attenzione, però, fare i tamponi a tappetto’non significa farli a tutti, ma solo a quegli asintomatici che sono entrati in contatto con una persona positiva”, ci spiega Cassone. Se, ormai, appare evidente la necessità di monitorare costantemente lo stato di salute del personale medico-infermieristico, poco o nulla si è fatto nelle Rsa e nelle strutture con dimensioni circoscritte. “Bisogna individuare tutti i potenziali contatti avuti da una persona positiva senza aspettare che qualcun altro si ammali”, sottolinea Cassone che, a supporto della sua tesi, porta il caso delle palazzine condominiali di piccole dimensioni. “Se, in un codominio di 20 famiglie, c’è un caso conclamato di coronavirus è bene che tutti gli inquilini di quel palazzo facciano il test, non soltanto i familiari del malato perché si presume che quella persona abbia potuto contagiare anche i condomini, magari con un incontro in ascensore”, spiega. È meno severo il giudizio sull’Oms espresso da Fabrizio Pregliasco, epidemiologo e direttore sanitario dell’istituto Galeazzi di Milano. “Quella del coronavirus è un’emergenza che si è evoluta in maniera inaspettata anche in Italia. L’Oms, poi, ha solo un compito di valutazione e supervisione, non di responsabilità e, a posteriori, è facile giudicare”, ci dice nel corso di una chiacchierata telefonica. “I test? Sì, ma con buon senso. Non si possono fare analisi tutti i giorni alle persone”, sentenzia Pregliasco secondo cui, ormai, la prospettiva è quella di puntare più sui “test sierologici da ripetere nel tempo per capire la situazione delle persone”. Su questo sta lavorando l’Istituto Superiore di Sanità che “sta valutando diverse tipologie di test visto che possono contenere un certo margine di errore”, dice l’epidemiologo. Capitolo mascherine. “Dobbiamo portarle perché dobbiamo considerarci tutti malati. Quelle chirurgiche evitano che le persone positive diffondano la malattia, ma serve il distanziamento sociale”, osserva Pregliasco. “La mascherina protegge solo in minima parte chi la indossa, ma di fronte all’estensione della malattia, è chiaro che anche protezioni limitate possono essere molto importanti”, gli fa eco Cassone. E, così, in vista della fine del lockdown, dovremmo abituarci a una vita diversa, fatta di mascherine, tamponi e test sierologici, anche a causa di alcune sottovalutazioni dell’Oms.
Dal Covid-19 ad Ebola, tutti gli errori dell'OMS. Stefano Graziosi il 25 aprile 2020 su Panorama. La crisi del coronavirus ha gettato più di un'ombra sull'Organizzazione mondiale della sanità. Le polemiche si susseguono, insieme alle accuse di aver colpevolmente tardato nella gestione dell'epidemia. Ritardi che, da più parti, si attribuiscono ora a negligenza ora ad agganci politici opachi con la Cina. Fondata nel 1948, l'Oms è un'agenzia specializzata delle Nazioni Unite, che si occupa di promuovere e tutelare la salute pubblica a livello internazionale. I 194 Stati membri inviano le proprie delegazioni all'organo decisionale dell'ente, l'annuale World Health Assembly, che – tra i vari compiti – si occupa di eleggere un direttore generale ogni cinque anni. E proprio l'attuale direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha respinto mercoledì scorso le accuse di ritardo nella gestione del coronavirus, sostenendo di aver dichiarato l'emergenza "al momento giusto". Sennonché, a ben vedere, non sembra che le cose siano andate esattamente così. Non dimentichiamo infatti che Ghebreyesus abbia proclamato l'emergenza sanitaria globale soltanto il 30 gennaio: un po' tardi, soprattutto alla luce delle informazioni che già all'epoca erano disponibili. Sotto questo aspetto, va rilevato che il nuovo virus in Cina fosse noto almeno dal mese di dicembre e – secondo alcuni – addirittura da novembre. A metà gennaio era inoltre chiaro che la situazione stesse velocemente peggiorando. Il 24 del mese si contavano in Cina, secondo i dati ufficiali, circa 1.000 contagi e una trentina di morti, mentre alcuni casi iniziavano a registrarsi anche al di fuori della Repubblica Popolare (come, per esempio, in Francia). In tutto questo, anziché prendere provvedimenti energici, Ghebreyesus ha temporeggiato, pur non rinunciando a elogiare il presidente cinese, Xi Jinping, per la sua gestione della crisi. Come sottolineato da un duro editoriale del Wall Street Journal a inizio aprile, se l'Oms si fosse decisa a suonare l'allarme una settimana prima, la comunità internazionale avrebbe guadagnato del tempo prezioso. Già il 25 gennaio, l'ex portavoce dell'Osce e dell'Unicef, Michael Bociurkiw, aveva d'altronde definito "sconcertante" il fatto che l'organizzazione guidata da Ghebreyesus non avesse ancora dichiarato l'emergenza globale. D'altronde, non si tratta della prima volta che l'agenzia incappa in errori di questo tipo. Nell'aprile del 2015, furono gli stessi vertici dell'Oms ad ammettere i propri colpevoli ritardi nella gestione della crisi sanitaria dell'ebola in Guinea, Liberia e Sierra Leone l'anno prima. Ashish Jha, direttore dell'Harvard Global Health Institute parlò non a caso, in quel frangente, di "fallimento eclatante" da parte dell'organizzazione. Controverso risulta poi anche il ruolo dell'Oms nella gestione dell'influenza H1N1 tra il 2009 e il 2010, quando l'agenzia venne tacciata da più parti di aver seminato indebitamente allarmismo, portando all'accumulo di vaccini e – come riportò Reuters – determinando accuse di sue connessioni opache con alcune grandi ditte farmaceutiche. Nell'aprile del 2010, uno dei principali esperti di malattie influenzali dell'Oms, Keiji Fukuda, ammise delle carenze in come era stata affrontata la situazione. Il problema, sotto questo aspetto, è quindi innanzitutto di natura strutturale. Come notava il Guardian lo scorso 10 aprile, l'Oms detiene di per sé un'autorità molto limitata, che risulta tendenzialmente in balìa degli Stati membri più forti o più abili nel perseguire il proprio interesse. Non a caso, più che a un leader o a un generale, la testata britannica ha paragonato l'organizzazione a un "allenatore sottopagato" che può solo blandire (o supplicare) i giocatori della propria squadra, affinché lavorino efficacemente d'intesa. Del resto, buona parte del budget dell'Oms è costituito da donazioni volontarie. Tutto questo, senza poi trascurare la progressiva crisi in cui, da alcuni anni a questa parte, stanno piombando le grandi organizzazioni sovranazionali, che risultano sempre più subordinate a interessi particolari. Ed è qui che veniamo alle strette connessioni che le alte sfere dell'Oms intrattengono oggi con la Repubblica Popolare cinese. Strette connessioni che è oggettivamente difficile negare. Vediamo nel dettaglio. In primo luogo, Taiwan ha dichiarato di aver avvertito l'organizzazione già a fine dicembre sulla possibilità che il nuovo virus potesse essere trasmesso da uomo a uomo: un avvertimento che tuttavia l'Oms avrebbe ignorato e – stando a quanto riportato dal Financial Times – evitato di far presente ad altri Paesi. Ricordiamo che Taiwan è esclusa dall'Oms proprio a causa dell'opposizione di Pechino, che non vuole minimamente derogare alla "politica dell'una sola Cina". Addirittura, dal 2018, a Taipei è stato vietato di partecipare alla World Health Assembly con lo "status di osservatore": status che l'isola deteneva da una decina di anni. In secondo luogo, non dimentichiamo che, pur avendo bollato come xenofobo il fatto che Donald Trump avesse definito l'attuale coronavirus un "virus cinese", l'Oms non abbia condannato egualmente Pechino, quando – nelle scorse settimane – ha cercato di scaricare la responsabilità del morbo su altri Paesi (tra cui l'Italia e gli Stati Uniti). In terzo luogo, non bisogna dimenticare la vicinanza dello stesso Ghebreyesus a Pechino. Nel 2017, costui è stato infatti eletto direttore generale, grazie al sostegno di un blocco di Paesi africani e asiatici (tra cui proprio la Cina). Senza poi trascurare che, nel governo etiope, ha ricoperto le cariche di ministro degli Esteri dal 2005 al 2012 e di ministro della Sanità dal 2012 al 2016: un lungo arco temporale, in cui l'Etiopia ha notevolmente rafforzato i propri legami economici e politici con la Repubblica Popolare. Sarà un caso, ma mentre l'attuale direttore generale ha finora sempre avuto parole di apprezzamento per Pechino, non altrettanto si può dire per quanto riguarda Taiwan, contro cui si è espresso molto duramente un paio di settimane fa. Infine, non sembra che la posizione accondiscendente dell'Oms verso la Repubblica Popolare sia cambiata, anche dopo che – lo scorso 15 aprile – l'Associated Press ha accusato Pechino – documenti alla mano – di aver atteso ben sei giorni (dal 14 al 20 gennaio) per ammettere la gravità dell'epidemia: sei giorni in cui, ha riferito l'agenzia di stampa americana, si sarebbero nel frattempo registrati fino a 3.000 contagi. Alla luce di tutto questo, si comprende per quale ragione Trump abbia annunciato il blocco temporaneo dei finanziamenti americani all'Oms (una strada che, in Italia, è stata recentemente ventilata anche dalla Lega attraverso un'interrogazione parlamentare). Non dimentichiamo che gli Stati Uniti risultino il principale contributore dell'agenzia. Secondo i dati riportati dalla National Public Radio, per il budget 2018-2019 Washington ha versato all'organizzazione un totale di 893 milioni di dollari, mentre Pechino si è fermata a poco più di 76 milioni. Eppure, nonostante questa disparità in termini di finanziamento, la Cina è riuscita – nel corso degli ultimi anni – a svolgere, rispetto agli Stati Uniti, una più efficace attività di lobbying in seno all'agenzia. Il senso della decisione di Trump può quindi essere duplice. Il presidente americano vuole innanzitutto mettere l'Oms davanti alle sue responsabilità tecniche per il ritardo con cui ha gestito la crisi e, in secondo luogo, punta a intensificare il confronto geopolitico con Pechino. Tutto questo, secondo una linea che, alcuni mesi fa, abbiamo già parzialmente visto in atto in riferimento all'Organizzazione mondiale del commercio: non è del resto un mistero che Trump non abbia mai visto troppo di buon occhio le istituzioni sovranazionali, da lui sovente considerate o eccessivamente lente e farraginose o dei cavalli di Troia usati da potenze estere fondamentalmente ostili (a partire proprio dalla Cina). Alcuni sostengono che proprio questo tipo di approccio sarebbe alla base dell'attuale debolezza dell'Oms nell'agire in modo concreto e risoluto: sennonché – come abbiamo visto – la crisi dell'agenzia si è manifestata chiaramente già nel 2014 e – secondo qualcuno – addirittura nel 2010: ben prima che Trump divenisse presidente degli Stati Uniti. Bisognerà adesso vedere se la Casa Bianca sia intenzionata ad abbandonare l'organizzazione oppure se la sua mossa sia in realtà funzionale a metterla sotto pressione, in vista di riforme drastiche. Nonostante le polemiche, in questa sua battaglia il presidente ha comunque trovato il netto appoggio del Partito Repubblicano: non soltanto il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha confermato le critiche all'Oms, ma svariati deputati repubblicani hanno anche invocato le dimissioni di Ghebreyesus. E' noto che, per la scelta di bloccare i finanziamenti, il presidente americano si sia attirato un numero incalcolabile di critiche: dai democratici a Bill Gates, dall'Onu alla Cina, dalla Russia all'Unione europea. Eppure, per dirimere queste polemiche e fare un po' di chiarezza, basterebbe forse limitarsi a rispondere a queste due semplici domande. E' vero o non è vero che l'Oms ha tardato nel dichiarare l'emergenza sanitaria globale? E' vero o non è vero che, all'interno dell'organizzazione, la Cina rivesta un peso politico tutt'altro che indifferente? Siccome – da quanto abbiamo visto – la risposta a entrambe le domande pare purtroppo positiva, non si capisce per quale ragione Trump debba far finta di nulla e continuare a foraggiare un'istituzione che ha oggettivamente mostrato negligenza, oltre a risultare opacamente accomodante verso Pechino. Insomma, non è detto che, in questa vicenda, il presidente americano abbia alla fine tutti i torti.
Paolo Mastrolilli per ''la Stampa'' il 10 maggio 2020. Isolare direttore generale e struttura per le emergenze dalle pressioni politiche; obbligare i membri a comunicare in modo tempestivo e trasparente ogni epidemia; creare un nuovo sistema a semaforo per dichiarare le crisi; tenere le limitazioni dei viaggi separate da quelle dei commerci; cambiare il finanziamento. Sono i pilastri della riforma dell' Organizzazione mondiale della sanità che gli Stati Uniti intendono proporre al prossimo G7, ospitato a giugno in formato virtuale, secondo una bozza del documento fatto circolare tra gli sherpa che La Stampa ha ottenuto. Trump ha bloccato i finanziamenti all' Oms, aprendo un' inchiesta su come ha gestito il Covid-19. L' accusa è complicità con la Cina nel nascondere l' epidemia, e lo scopo è politico, per scaricare la responsabilità della grave crisi negli Usa in vista delle elezioni di novembre. Dietro le quinte, però, i diplomatici di Washington stanno lavorando ad una vera riforma dell' Organizzazione, che ha effettivamente bisogno di essere migliorata. Il testo comincia così: «Il Covid-19 dimostra che l' Oms e i suoi Paesi membri non sono adeguatamente preparati per prevenire, identificare e rispondere a severe malattie infettive con potenzialità pandemiche». Quindi elenca le proposte di riforma. La prima riguarda il vertice, occupato da Tedros Adhanom Ghebreyesus: «La posizione del direttore generale è esposta a pressioni ed influenze politiche, che condizionano la capacità di agire e fornire una guida tempestiva ai Paesi». Come esempi cita «il ritardo dell' accesso in Cina per la squadra tecnica dell' Oms, le comunicazioni limitate sul rispetto delle norme da parte del Paese membro, la conferma senza verifica delle sue affermazioni, l' insufficienza delle risorse». Il rimedio proposto è isolare il direttore dalle pressioni, obbligandolo a denunciare subito le mancanze dei Paesi. A questo scopo, bisognerebbe creare un nuovo meccanismo per verificare e garantire il rispetto delle International Health Regulations da parte dei membri, la rapida comunicazione delle crisi, accesso delle squadre di risposta, e condivisione dei campioni. L' Health Emergencies Program, guidato ora dall' irlandese Mike Ryan, andrebbe reso indipendente dal direttore e rispondere solo all' Executive Board dell' Oms. Il sistema per dichiarare le emergenze internazionali prevede solo due opzioni: proclamarle, o no. Servirebbe invece un metodo più graduale, a semaforo: verde, per indicare che l' Oms segue una situazione, ma non raccomanda provvedimenti; giallo, quando sale la preoccupazione e bisogna preparare gli interventi; rosso, quando le misure devono entrare in vigore. Le limitazioni dei viaggi vanno separate dai commerci, che devono proseguire per non soffocare l' economia, e «l' Organizzazione non può elogiare le restrizioni draconiane domestiche, mentre condanna quelle rivolte a altri Paesi». Un riferimento al fatto che l' Oms ha favorito le quarantene interne, ma ha criticato lo stop dei voli dalla Cina voluto da Trump, perché complicava i controlli di chi arrivava. Il testo poi suggerisce di rafforzare la collaborazione col settore privato, potenziare le risorse, cambiare il sistema di finanziamento per avere più fondi disponibili per le emergenze, e valutare meglio le performance dopo le crisi. Francia, Germania e Canada hanno frenato, perché ritengono più appropriato proporre la riforma al G20. Il testo potrebbe ancora cambiare quando arriverà sulla scrivania di Trump, però è la base su cui si discute.
(ANSA il 7 aprile 2020.) - L'Organizzazione mondiale della sanità "ha sbagliato. Finanziata in larga parte dagli Stati Uniti è per qualche motivo Sino-centrica. Fortunatamente ho respinto il loro consiglio di tenere aperti i confini alla Cina all'inizio. Perché dare una raccomandazione così sbagliata?". Lo twitta Donald Trump, assicurando che guarderà attentamente all'Oms e ai finanziamenti americani.
Coronavirus, Trump ordina stop ai fondi Usa per l'Oms: "Ha insabbiato la diffusione del virus". Gli Stati Uniti non verseranno più una quota tra i 400 e i 500 milioni all'Organizzazione mondiale per la Sanità accusata di essere troppo filo-cinese: "I suoi errori sono costati vite umane". Federico Rampini su La Repubblica il 15 aprile 2020. Il presidente Donald Trump taglia i fondi Usa all'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), perché troppo filo-cinese. La ritorsione era nell'aria da tempo, dopo che tra l'agenzia sanitaria collegata all'Onu e la Casa Bianca si erano moltiplicate le tensioni. Trump ha accusato l'Oms di una gestione disastrosa della pandemia. In particolare non ha perdonato all'agenzia multilaterale di averlo attaccato quando mise un divieto sugli ingressi di viaggiatori dalla Cina. "Tutti sanno quello che sta succedendo là dentro - ha detto riferendosi all'Oms - e la disastrosa decisione di opporsi alle restrizioni di viaggio dalla Cina". Sotto accusa per le sue sottovalutazioni iniziali sulla pandemia, criticato da molti governatori di Stati Usa per le promesse di aiuti federali che non arrivano, Trump si è sempre vantato di aver agito prima di altri nel vietare gli ingressi di viaggiatori dalla Cina. Anche l'Italia fu tra i primi paesi a varare quel genere di restrizioni, e inizialmente venne criticata dall'Oms. I media americani, anche quelli più progressisti e critici nei confronti di Trump, non sono stati teneri nei confronti dell'Oms. Più volte è stato sottolineato che l'organizzazione internazionale attese un mese prima di dichiarare una pandemia. Il suo direttore generale si recò a Pechino ad omaggiare Xi Jinping, tacendo sui silenzi e le censure iniziali con cui il governo cinese nascose al mondo l'epidemia. È stato anche osservato come l'influenza cinese sia aumentata all'interno dell'Oms - e di altre agenzie Onu - benché gli Stati Uniti rimangano il finanziatore numero uno. Tuttavia molti osservatori americani indipendenti, per esempio il filantropo Bill Gates, sostengono che una delle lezioni di questa pandemia dovrebbe essere un rafforzamento della cooperazione internazionale.
Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 16 aprile 2020. La reazione globale contro Trump è stata quasi unanime: l' Organizzazione Mondiale della Sanità avrà pure commesso errori, ma questo non è il momento di tagliarle i fondi. Martedì il presidente ha bloccato i finanziamenti all' Oms, accusandola di aver aiutato la Cina a nascondere l' epidemia di coronavirus. Così ha azzoppato una gamba del sistema multilaterale, Onu e non, che lui e i suoi sostenitori più conservatori detestano da sempre. I critici però lo accusano di averlo fatto per trovare un capro espiatorio, su cui scaricare colpe molto simili alle sue. Il blocco è temporaneo, tra 60 e 90 giorni, mentre gli Usa conducono un' indagine sul comportamento dell' Oms e la volontà di riformarsi. A seconda dell' esito però potrebbe diventare definitivo, orientando i finanziamenti verso realtà alternative. Il segretario generale dell' Onu, Guterres, ha commentato così: «Tutti vogliamo chiarire cosa è successo, per evitare che una pandemia così possa ripetersi. Questo però è il momento dell' unità nella battaglia globale per respingere la pandemia di Covid-19 e farla retrocedere, non è il momento di tagliare le risorse dell' Oms, che sta guidando e coordinando gli sforzi della comunità globale». Il responsabile della politica estera della Ue, Josep Borrell, ha aggiunto: «Siamo profondamente rammaricati per la decisione degli Usa. Non c' è ragione che la giustifichi, nel momento in cui gli sforzi dell' Oms sono necessari come mai per contenere e mitigare la pandemia». Unione Africana, Cina e Russia hanno espresso preoccupazione, ma anche un alleato come il premier australiano Morrison ha notato che, pur simpatizzando con alcune critiche avanzate da Trump, «questo non è il momento di buttare via il bambino con l' acqua sporca». Bill Gates, che con i suoi soldi è il secondo finanziatore dell' Oms dopo gli Usa, ha bocciato così il presidente: «Il loro lavoro sta rallentando la diffusione del Covid-19, se viene bloccato nessun altra organizzazione può rimpiazzarla. Il mondo ha bisogno dell' Oms ora più che mai». Il direttore dei CDC Redfield, nominato da Trump, ha ammesso di aver lavorato bene con Ginevra, mentre il direttore della rivista The Lancet, Richard Horton, ha scritto che la mossa del capo della Casa Bianca equivale ad un «crimine contro l' umanità». Non c' è dubbio che il Covid-19 sia esploso in Cina, che ha almeno due torti: primo, le condizioni in cui si è sviluppato il virus; secondo, la mancanza di trasparenza con cui ha gestito la crisi, che forse avrebbe consentito di salvare molte vite. Secondo Trump l' Oms è stata complice, aiutando la Repubblica popolare a nascondere il coronavirus, e criticando la sua decisione di bloccare i voli il 31 gennaio. Fonti dell' organizzazione rispondono che è stata Pechino a ritardare la comunicazione dei dati di oltre un mese. E' vero poi che il direttore Tedros ha dichiarato l' emergenza solo il 30 gennaio, e la pandemia l' 11 marzo, ma lo ha fatto perché doveva seguire un protocollo sempre adottato in questi casi. Non aveva attaccato pubblicamente la Cina perché non sarebbe servito a nulla, esacerbando lo scontro proprio mentre era invece necessaria la collaborazione per fermare i contagi. Quanto ai voli, continuarli poteva aiutare ad identificare i malati in arrivo, che invece saranno giunti passando da altri Paesi. Anche accettando tutte le colpe rinfacciate da Trump all' Oms, i critici si chiedono in cosa siano differenti dalle sue. Il presidente ha deciso il blocco dei voli perché rientrava nella sua retorica sovranista, ma ha elogiato Xi. Poi ha ritardato le misure di mitigazione interna e sottovalutato l' emergenza, forse nel timore che il blocco del paese avrebbe compromesso la sua rielezione. Ora Trump spera che l' epidemia si fermi prima di novembre, e l' economia riparta a maggio, per presentarsi alle elezioni come il salvatore del Paese. I critici però lo accusano di cercare capri espiatori, come l' Oms, da incolpare se non riuscisse a risolvere la crisi prima del voto.
Anna Guaita per “il Messaggero” il 16 aprile 2020. «Indagini preliminari non hanno trovato prove chiare che il coronavirus sia trasmesso da persona a persona». Raramente, nella storia della medicina, è stato compiuto un errore più grave. L'errore di valutazione, che risale allo scorso 14 gennaio, era stato comunicato dalla Cina. Ma a diffonderlo nel mondo è stata l'Organizzazione Mondiale della Sanità, e l'imprimatur dell'Oms è di una importanza difficile da esagerare. Solo sei giorni più tardi la Cina ammetteva che il contagio poteva avvenire fra umani, ma doveva passare un'altra settimana prima che l'Oms dichiarasse l'emergenza mondiale. Di errori poi in questi mesi l'Oms ne ha fatti altri, meno tragici, e spiegabili in buona parte con la confusione che una nuova malattia può generare, come loro stessi si difendono: «C'è una confusione comprensibile quando comincia un'epidemia - ha detto Michael Ryan, direttore delle politiche di Emergenza dell'Oms - Dobbiamo stare attenti a non criticare come disinformazione quello che era solo mancanza di informazione». L'Organizzazione è comunque sulla difensiva, dopo la decisione di Donald Trump di interromperle i finanziamenti e compiere una «revisione» del suo operato. Ma in realtà è da tempo che l'Oms è sotto tiro, poiché come tutte le 17 agenzie Onu, anch'essa soffre di elefantiasi burocratica e di poca trasparenza. E sono decine i Paesi, gli Usa in primis, che vorrebbero riformarla. Gli Stati Uniti poi sentono di avere più voce in capitolo, poiché sono stati coloro che ne hanno voluto la creazione nel 1948 e ne sono anche i principali finanziatori, con il 15 per cento del bilancio annuale di cinque miliardi di dollari. Tuttavia la decisione di Trump è stata giudicata inopportuna, cadendo proprio nel momento in cui la crisi del covid-19 è al massimo. Anche Bill Gates, che con la moglie Melinda è il secondo finanziatore dell'Organizzazione con il 10 per cento del bilancio, ha sostenuto che tagliare i fondi adesso è «pericoloso», perché l'Oms «aiuta a ritardare la diffusione del virus e senza l'Oms non ci sarebbe nessun altro che può farlo». È l'Oms infatti che distribuisce ai Paesi più poveri gli aiuti per combattere il virus, che manda i propri medici, e comunica i protocolli di cura da seguire. A tutt'oggi, 95 Paesi hanno ricevuto aiuti contro il covid-19, e proprio ieri un aereo dell'Oms è partito carico di aiuti per i Paesi africani affetti dal virus. Dunque, l'Oms è piena di difetti, ma se non ci fosse, oggi bisognerebbe inventarne un'altra per combattere «tutti uniti» contro il covid-19. Simili commenti sono venuti dall'Unione Europea e dal segretario dell'Onu Antonio Guterres, oltre che da vari altri governi. Anche coloro che danno ragione a Trump per le sue lamentele, come il primo ministro australiano Scott Morrison, assicurano che da parte loro continueranno a finanziare l'Oms, perché in questo momento «fa un lavoro importante». Trump, che sta cercando di scrollarsi di dosso le accuse di lentezza nelle sue reazioni al virus, accusa l'Organizzazione e il suo direttore Tedros Ghebreyesus di aver ripetuto a pappagallo le rassicurazioni dei cinesi, che a loro volta stavano tentando di nascondere la gravità del contagio nella città di Wuhan. Effettivamente, all'inizio della crisi, l'Oms ha ripetuto quasi alla lettera le dichiarazioni del governo cinese. Ma va ricordato che - come tutte le agenzie Onu - anche l'Oms non ha poteri sui propri membri: «L'Oms deve navigare in un mondo di Stati sovrani - conferma Richard Haass, che fu nell'Amministrazione di George Bush - E può essere buona solo quanto questi Stati le consentono di essere».
Ecco come viene finanziata l’Oms. Francesco Boezi su Inside Over the world il 15 aprile 2020. “Gli Stati Uniti sono stati amici generosi, speriamo che continueranno ad esserlo”. La dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità segue di poche ore la decisione comunicata da Donald Trump: il presidente degli Stati Uniti ha deciso di dare un taglio netto ai fondi che ogni anno Washington destina all’Oms. Non sono bruscolini: si parla di una cifra che può variare dai 300 ai 400 milioni di dollari. Le critiche progressiste sono piovute addosso al tycoon, che tira dritto. L’ideologia può raccontare poco di questa storia. La questione è anche se non soprattutto geopolitica. Se non altro perché Cina, Russia e Iran hanno manifestato più di qualche perplessità attorno alla scelta operata dall’inquilino della Casa Bianca. Anche la Germania, a dire il vero, non è sembrata convinta dell’atteggiamento assunto dal capo della Casa Bianca. La disamina di Pechino è tanto cristallina quanto rilevante: “La decisione americana indebolirà le capacità dell’Oms e minerà la cooperazione internazionale contro l’epidemia”. Questo il commento del governo cinese, che mira al multilateralismo quale chiave di volta per la battaglia del quadro pandemico. Nella disamina trumpista, invece, l’Oms avrebbe sbagliato tempi e modi di avvertire sul fenomeno in arrivo. Il Covid-19 ha colto alla sprovvista il mondo occidentale. E negli States ci si continua ad interrogare anche sulle eventuali responsabilità dell’esecutivo di Pechino, che respinge al mittente ogni considerazione basata su presunte omissioni o su presunti ritardi nel comunicare ad esempio le statistiche inerenti al Covid-19. Questa premessa è necessaria per comprendere quale sia il clima politico creatosi attorno all’Oms. Un’organizzazione che Trump non ha evitato di recente di definire “filo-cinese”. Ma quali sono le modalità tramite cui l’Oms riceve dei finanziamenti? E quali sono i principali attori che sostengono l’attività dell’agenzia speciale dell’Organizzazione delle nazioni unite? Per comprendere quale sia il peso specifico esercitato da Stati e donatori all’interno dell’organizzazione, è utile approfondire quanto riportato dall’Agi: gli Stati Uniti, prima della stroncatura del leader del Partito Repubblicano, erano soliti inoltrare cifre ingenti. Per quel che riguarda il bilancio dello scorso anno, per esempio, vale la pena sottolineare come i fondi federali statunitensi rappresentassero il 15% del bilancio. Ma dagli Stati Uniti, in qualche modo, arrivano anche altri soldi. Anche Bill Gates è del resto un americano. Nello specifico, il fondatore di Microsoft è di Seattle, mentre la moglie Melinda è di Dallas, dunque è texana. Bene, il 10% dei finanziamenti dell’Oms deriva dalla loro Fondazione. Queste sono alcune delle voci principali da tenere in considerazione. La filantropia di Bill Gates – com’è noto – è concentrata in questa fase sul fronte dei vaccini contro il nuovo coronavirus. E la Cina? Leggendo sul Mirror, si apprende che la Repubblica popolare cinese investe nella Oms 33 milioni annui. E questa con gli Stati Uniti è una differenza che Donald Trump ha rimarcato nella conferenza stampa in cui ha annunciato di avere intenzione di limitare il gettito americano. Poi c’è la fetta di torta più spessa: i finanziamenti che derivano dalle tasse corrisposte da ogni Stato membro. E le nazioni che fanno parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità sono 198. Tra questi Paesi, c’è ovviamente anche l’Italia. Il dibattito sull’Organizzazione mondiale della Sanità sta interessando le cronache internazionali. Trump non è mai stato molto convinto della utilità delle agenzie speciali dell’Onu. Nel corso di questo suo primo mandato, il tycoon ha avuto modo di attaccare più di un ente di questa tipologia. “Ci dispiace per la decisione del presidente degli stati Uniti che ha ordinato la sospensione dei finanziamenti all’Oms”, ha detto il direttore generale dell’agenzia Onu. Ma Trump non ha alcuna intenzione di tornare indietro sui suoi passi.
Da startmag.it il 7 aprile 2020. “Di tutte le istituzioni internazionali, l’Oms dovrebbe essere quella meno politicizzata, dal momento che la sua missione primaria è quella di coordinare gli sforzi internazionali contro le epidemie e fornire un onesto orientamento alla salute pubblica. Se invece diventa solo la Linea Maginot politicizzata contro le pandemie, allora è più che inutile e non dovrebbe ricevere più finanziamenti dagli Stati Uniti”. E’ la conclusione choc di un editoriale del Wall Street Journal a latere della pandemia Covid-19 contro l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Una conclusione dal sapore trumpiano quello dell’editoriale del quotidiano finanziario americano del gruppo che fa capo a Rupert Murdoch. Non solo: il quotidiano statunitense attacca frontalmente il direttore generale dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, ritenendolo “responsabile della maggior parte degli errori commessi dall’Oms in questa epidemia”. Ecco tutti i dettagli. Il Wall Street Journal auspica dunque una riforma dell’Oms: “La pandemia di coronavirus offrirà molte lezioni su cosa fare meglio per salvare più vite e fare meno danni economici la prossima volta. Ma una cosa è già certa: per far sì che le future pandemie siano meno letali bisogna riformare l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)”, si legge nell’editoriale sul ‘Wall Street Journal’, che in proposito ricorda come la settimana scorsa il senatore della Florida Rick Scott abbia chiesto un’indagine del Congresso sul “ruolo dell’Agenzia delle Nazioni Unite nell’aiutare la Cina a coprire le informazioni riguardanti la minaccia del coronavirus”, avanzando un’istanza per sospendere i finanziamenti all’Oms. “Il marciume all’Oms – prosegue duro l’editoriale – in realtà va oltre la ‘combutta’ con Pechino, ma questa vicenda è un buon punto di partenza”. “L’epidemia di coronavirus – ricostruisce l’editoriale del WSJ – è iniziata in Cina, a Wuhan, probabilmente in autunno, forse a novembre, e ha poi accelerato nel mese di dicembre. E, secondo la piattaforma digitale economica cinese Caixin Global, i laboratori cinesi avevano sequenziato il genoma del coronavirus entro la fine di dicembre, ma i funzionari cinesi hanno ordinato di distruggere i campioni e non pubblicare le loro ricerche. Il 30 dicembre il dottor Li Wenliang ha lanciato un allarme ai collegi cinesi, e alcuni giorni dopo le autorità locali lo hanno accusato di mentire e di arrecare grave disturbo all’ordine pubblico”. “Funzionari taiwanesi hanno avvertito l’Oms il 31 dicembre – prosegue la ricostruzione del WSJ – di aver avuto prove che il virus potesse essere trasmesso da uomo a uomo. Ma l’agenzia dell’Onu, ‘inchinata’ di fronte a Pechino, non ha invece una buona relazione con Taiwan. Dunque il 14 gennaio l’Oms ha twittato: ‘Le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo”. E ha impiegato un’altra settimana per invertire questa disinformazione”. “Il 22 e 23 gennaio il comitato di emergenza dell’Oms – ricorda il WSJ – ha discusso se dichiarare Covid-19 ‘emergenza sanitaria globale’. Il virus si era già diffuso in diversi Paesi, e fare tale dichiarazione avrebbe preparato meglio il mondo. Avrebbe dovuto essere una decisione facile, nonostante le obiezioni di Pechino. Eppure il direttore generale Tedros Ghebreyesus – si osserva nell’editoriale – ha rifiutato di farla ed è volato in Cina. Alla fine l’emergenza globale è stata dichiarata il 30 gennaio, perdendo una settimana di tempo prezioso, con il forte sospetto che il viaggio a Pechino fosse più di carattere politico che incentrato sulla salute pubblica. Intanto il Dg dell’Oms si congratulava con il governo cinese per le misure straordinarie adottate, per l’assoluta trasparenza tenuta da Pechino, la velocità con cui ha sequenziato il genoma del virus e lo ha condiviso con l’Oms e con il mondo”. “La pandemia è stata dichiarata solo l’11 marzo”, ricorda ancora il Wall Street Journal, criticando anche altri statement diffusi nel tempo dall’Oms. Ma l”affondo’ del quotidiano statunitense è un attacco personale a Tedros Ghebreyesus, ritenendolo “responsabile della maggior parte degli errori commessi dall’Oms in questa epidemia” e affermando che “è un politico più che un medico”. E ancora: “come membro del Fronte di Liberazione del Popolo Tigray, di sinistra, è arrivato ad essere nominato ministro della Salute e poi degli Esteri dal governo autocratico dell’Etiopia”. Il WSJ fa notare anche che, “dopo aver assunto la carica di direttore generale dell’Oms nel 2017, ha cercato di far nominare il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe come ambasciatore di buona volontà dell’Organizzazione Onu”. Il WSJ si chiede poi: perché l’Oms “sembra molto più spaventato delle ire di Pechino che di quelle di Washington? Solo il 12% dei contributi assegnati all’Oms dagli Stati membri proviene dalla Cina, laddove gli Stati Uniti contribuiscono con il 22%. Gli americani nominati all’Oms in genere sono leali – sostiene il quotidiano Usa – mentre i cinesi mettono gli interessi cinesi al primo posto o comunque subiscono l’influsso di Pechino”. Dunque, secondo il WSJ, “gli Stati Uniti avranno molti alleati nel tentativo di riformare l’Oms”. Non a caso il vicepremier giapponese ha chiamato l’Oms ‘Organizzazione cinese della sanità’ e, secondo quanto riferito, il primo ministro britannico Boris Johnson sta ripensando i rapporti tra Regno Unito e Cina per la mancanza di trasparenza dimostrata in questa epidemia”.
Coronavirus, ora finisce sotto accusa l’Oms: «Ha fatto disinformazione, ora va riformato». Redazione de Il Secolo D'Italia lunedì 6 aprile 2020. La caotica gestione dell’emergenza Coronavirus finisce per mettere sotto accusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Accusata di disinformazione. E di essersi inchinata ai diktat di Pechino. È un durissimo editoriale del Wall Street Journal, il quotidiano finanziario più autorevole a puntare il dito contro l’Oms. “La pandemia di Coronavirus – scrive il Wsj – offrirà molte lezioni su cosa fare meglio per salvare più vite e fare meno danni economici la prossima volta”. ”Ma una cosa è già certa. – avverte l’editoriale – per far sì che le future pandemie siano meno letali bisogna riformare l’Organizzazione mondiale della Sanità”. Il Wall Street Journal ricorda, in proposito, come la settimana scorsa il senatore della Florida Rick Scott abbia chiesto un’indagine del Congresso. La questione riguardava il “ruolo dell’Agenzia delle Nazioni Unite nell’aiutare la Cina a coprire le informazioni riguardanti la minaccia del Coronavirus“. E le conclusioni sono devastanti per l’Oms. Scott chiede di sospendere i finanziamenti all’Oms. Il Wall Street Journal non ci va più leggero. “Il marciume all’Oms – prosegue duro l’editoriale – in realtà va oltre la ‘combutta’ con Pechino. Ma questa vicenda è un buon punto di partenza”. “L’epidemia di Coronavirus – ricostruisce l’editoriale del Wsj – è iniziata in Cina, a Wuhan, probabilmente in autunno, forse a novembre. E ha poi accelerato nel mese di dicembre”. ”Secondo la piattaforma digitale economica cinese Caixin Global – ricorda il Wsj – i laboratori cinesi avevano sequenziato il genoma del Coronavirus entro la fine di dicembre. Ma i funzionari cinesi hanno ordinato di distruggere i campioni. E non pubblicare le loro ricerche”. ”Il 30 dicembre il dottor Li Wenliang ha lanciato un allarme ai collegi cinesi. E alcuni giorni dopo – continua l’editoriale – le autorità locali lo hanno accusato di mentire e di arrecare grave disturbo all’ordine pubblico”. “Funzionari taiwanesi hanno avvertito l’Oms il 31 dicembre – prosegue la ricostruzione del Wsj – di aver avuto prove che il virus potesse essere trasmesso da uomo a uomo”. Insomma, a quel punto l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva in mano tutte le informazioni per muoversi con largo anticipo. “Ma l’agenzia dell’Onu, “inchinata” di fronte a Pechino, non ha invece una buona relazione con Taiwan. Dunque il 14 gennaio l’Oms ha twittato: ‘Le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo“. E, così, ha impiegato un’altra settimana per invertire questa “disinformazione”. “Il 22 e 23 gennaio il Comitato di emergenza dell’Oms – ricorda il Wsj – ha discusso se dichiarare Covid-19 emergenza sanitaria globale”. A quel punto, tuttavia, “il virus si era già diffuso in diversi Paesi. E fare tale dichiarazione avrebbe preparato meglio il mondo. Avrebbe dovuto essere una decisione facile, nonostante le obiezioni di Pechino”. “Eppure il direttore generale Tedros Ghebreyesus – rileva l’editoriale – ha rifiutato di farla. Ed è volato in Cina”. ”Alla fine l’emergenza globale è stata dichiarata il 30 gennaio, perdendo una settimana di tempo prezioso. Con il forte sospetto che il viaggio a Pechino fosse più di carattere politico che incentrato sulla salute pubblica. ”Intanto – conclude polemico il Wsj – il Direttore generale dell’Oms si congratulava con il governo cinese per le misure straordinarie adottate, per l’assoluta trasparenza tenuta da Pechino”. E per “la velocità con cui ha sequenziato il genoma del virus e lo ha condiviso con l’Oms e con il mondo”.
Da informazionecorretta.com. Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/04/2020, a pag. 14, la breve "L'idea di Trump: sospendere i fondi all'Oms"; a pag. 21, con il titolo "Ritardi ed errori, il fallimento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità" l'analisi di Gianni Vernetti. Mai perdere una occasione per criticare Trump, il pessimo il riassunto non firmato a proposito della sua idea di sospendere i fondi americani all'Oms, un'organizzazione non solo inutile ma dannosa, visti i ritardi nella gestione della pandemia. La breve di pag. 14 è però contraddetta dall'accurata analisi di Gianni Vernetti, che chiarisce i motivi del fallimento dell'Oms.
Ecco gli articoli: "L'idea di Trump: sospendere i fondi all'Oms". Trump sta considerando di bloccare i fondi all'Organizzazione mondiale della sanità perché l'accusa di essere "sinocentrica", di aver aiutato la Cina a nascondere il Coronavirus e di aver criticato la sua decisione di bloccare a fine gennaio i voli dalla Repubblica Popolare. L'Oms risponde che è stata Pechino a ritardare la pubblicazione dei dati, mentre lei ha dichiarato la pandemia appena possibile. Gianni Vernetti: "Ritardi ed errori, il fallimento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità" di Gianni Vernetti. Si è fin qui discusso molto delle inefficienze e dei ritardi da parte di molti Stati e governi nella risposta alla pandemia, parole spese dimenticando il clamoroso fallimento dell'organismo mondiale preposto alla "governance" globale della salute: la "World Health Organisation" (Organizzazione Mondiale della Sanità). Dopo l'esplosione dell'epidemia di Sars nel 2002, e in seguito alle molte inefficienze allora rilevate nella gestione della crisi da parte delle autorità di Pechino, vennero ridisegnate le regole internazionali per migliorare il contrasto delle future pandemie. Il primo provvedimento adottato fu la revisione nel 2005 della "International Health Regulations", lo strumento giuridicamente vincolante del diritto internazionale, progettato per sostenere i singoli Stati membri delle Nazioni Unite nella tutela della salute globale. Tale revisione assegnò all'Organizzazione Mondiale della Sanità poteri straordinari per colmare le lacune dei singoli Stati, spesso riluttanti ad adottare provvedimenti radicali di contrasto delle epidemie, molte volte per ragioni politiche ed economiche locali. Un insieme di regole e di nuovi poteri che avrebbero permesso all'Organizzazione Mondiale della Sanità di svolgere non solo un ruolo di leadership nel contrasto della pandemia, ma anche di denunciare e mettere in mora gli Stati che non avessero applicato adeguatamente le direttive internazionali (tracciamento dei contagi, restrizioni negli spostamenti, ecc...). Non solo tutto ciò non è successo, ma l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha contribuito direttamente e in modo decisivo a ritardare la risposta globale alla pandemia. E' sufficiente osservare la cronistoria degli eventi chiave della diffusione del coronavirus. Nonostante i primi casi rilevati a Wuhan a dicembre e la denuncia di diversi medici cinesi il 1 gennaio (fra cui Li Wenliang, poi arrestato per aver diffuso «informazioni allarmistiche» e in seguito deceduto per il virus) e nonostante i ripetuti "warning" lanciati dal governo di Taiwan fin dal mese di dicembre, il 14 gennaio il Direttore generale della Oms/Who, l'etiope Tedros Ghebreyesus, ha preferito rilanciare le posizioni "minimizzanti" del governo cinese dichiarando che non vi fossero «prove di trasmissione da uomo a uomo del coronavirus da poco identificato. In più il direttore generale Ghebreyesus ha dichiarato il coronavirus come emergenza sanitaria solo il 30 gennaio, quando il contagio aveva già raggiunto 19 Paesi e infettato oltre 8.000 persone, ed ha atteso fino all'11 marzo per dichiarare quella del Covid-19 una pandemia globale, quando oramai il contagio aveva raggiunto 114 Paesi. Purtroppo l'eccesso di deferenza nei confronti della Cina da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità ha rallentato la risposta globale alla pandemia, legittimando in molti Paesi (inclusa l'Italia) quell'insieme di posizioni minimizzanti e persino negazioniste, che hanno fatto perdere settimane preziose nella lotta al virus. Nel mondo dopo il coronavirus cambieranno molte cose, e fra queste andrà ripensata in modo radicale anche la "governance" della salute globale.
Gian Micalessin per ''il Giornale'' il 9 aprile 2020. Prendere in giro Donald Trump, anche in Italia, rende molto e non costa nulla. Ma «ciuffo dorato» talvolta racconta quello che nessuno osa ammettere. Come martedì quando uno dei suoi tweet al fulmicotone si è abbattuto sull'Oms (Organizzazione Mondiale della Sanita), l'agenzia dell'Onu finanziata in gran parte grazie ai fondi degli Stati Uniti, ma sempre pronta a prendere ordini dalla Cina. Ordini diventati veri diktat con lo scoppiare del coronavirus. Per capire cosa intendeva dire l'inquilino della Casa Bianca bisogna tornare al maggio 2017 quando al Palazzo di Vetro si sceglie il nuovo direttore generale dell'Oms. Su indicazione della Cina 50 paesi africani totalmente allineati a Pechino votano per Tedros Adhanom Ghebreyesus, un ex-ministro della sanità e degli esteri etiope. Oltre a esser un microbiologo anziché un medico come tutti i suoi predecessori, Tedros Adhanom è anche sospettato d'aver insabbiato tre epidemie di colera scoppiate durante il suo mandato. Ma poco importa. A suo favore giocano il ruolo di politico di punta in un'Etiopia conosciuta ormai come la piccola Cina dell'Africa Orientale e la militanza quarantennale nel «Fronte di Liberazione del Popolo del Tigri», un'organizzazione marxista-leninista appoggiata da Pechino sin dagli anni Ottanta. Non a caso uno dei primi atti ufficiali di Tedros Adhanom è proporre come ambasciatore «di buona volontà» dell'Oms per l'Africa Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbawe accusato di molteplici violazioni dei diritti umani. Il peggio arriva con lo scoppio del coronavirus. Il 14 gennaio, a epidemia ormai largamente conclamata, l'Oms non si fa scrupoli a diffondere un tweet in cui ricorda come le indagini preliminari condotte dai cinesi «non dimostrano la diffusione tra umani». Come dire «non c'è contagio». Fedele alla linea l'Oms si guarda bene dallo spendere mezza parola in difesa del medico Li Wenliang messo alla berlina e praticamente condannato a morte - per aver denunciato l'epidemia. Il totale allineamento diventa ancor più evidente il 30 gennaio quando dopo un incontro a Pechino con il presidente cinese Xi Jinping Tedros spiega che «la Cina sta effettivamente definendo nuovi standard per la lotta alle epidemie». Nel frattempo i comunicati dell'Oms elogiano «la dedizione delle autorità e la trasparenza dimostrata». Il giorno dopo in compenso parte la crociata dell'Oms contro gli Usa accusati di alimentare «paura e stigma» per aver bloccato l'arrivo dei voli dalla Cina. Ma è ancora nulla rispetto alla piaggeria del comunicato di metà febbraio con cui gli «esperti» dell'Oms , reduci da un farsesco sopralluogo in Cina, elogiano Pechino per aver «dispiegato il più ambizioso agile e aggressivo sforzo di contenimento della storia». E fedeli alla linea si guardano bene dal dichiarare la pandemia fino all'11 marzo quando il virus, tanto brillantemente contenuto, sta già facendo strage in Italia e si prepara ad aggredire il resto dell'Europa.
Coronavirus, Ap: Cina ritardò informazioni, Oms era preoccupata. (LaPresse/AP il 2 giugno 2020. ) - Dopo che il coronavirus è stato scoperto per la prima volta in Cina, gli scienziati del Paese si sono affrettati per identificarlo. L'Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicamente elogiato la trasparenza della Cina, ringraziandola per aver "immediatamente" condiviso la sequenza dei virus con il mondo, ma in realtà i funzionari cinesi hanno tenuto segreto il genoma per oltre una settimana. Sebbene l'Oms abbia continuato a elogiare la Cina, registrazioni delle riunioni interne per tutto il mese di gennaio, email e interviste ottenute dall'Associated Press mostrano che i funzionari erano in realtà preoccupati che la Cina non condividesse abbastanza informazioni per valutare il rischio rappresentato dal nuovo virus, il che è costato tempo prezioso al mondo. Le nuove informazioni non supportano la narrativa sull'Oms né degli Stati Uniti, che ha accusato l'organizzazione di essere filocinese, né della Cina, con il presidente Xi Jinping che ha sempre sostenuto comunicazioni "tempestive" e "trasparenti". L'agenzia AP ha scoperto che, piuttosto che colludere con la Cina, l'Organizzazione mondiale della sanità è stata in gran parte tenuta al buio, poiché il Dragone ha fornito solo le informazioni minime richieste. Ma l'agenzia ha tentato di ritrarre la Cina sotto la luce migliore, molto probabilmente per convincere il paese a fornire maggiori dettagli sull'epidemia.
I dossier segreti dell’Oms: “La Cina ha nascosto i dati sul virus”. Federico Giuliani il 2 giugno 2020 su Inside Over. Emerge una nuova verità sul rapporto tra l’Organizzazione mondiale della Sanità e la Cina in merito alla gestione dell’emergenza provocata dal Covid-19. Secondo quanto riferisce Associated Press, alcuni documenti segreti svelerebbero tutta l’irritazione dell’Oms nei confronti di Pechino. In particolare, lo scorso gennaio, il governo cinese non si sarebbe dimostrato subito partecipativo nel condividere le informazioni su quanto stava accadendo nella provincia dello Hubei. In quei giorni il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus era volato in fretta e furia in Cina per incontrare, faccia a faccia, Xi Jinping, elogiandolo per la trasparenza nella gestione del Covid. Quei complimenti, affermano le prove su cui si basa l’indiscrezione dell’AP, facevano parte di un’operazione diplomatica per spronare il Dragone a collaborare di più. Non solo: sembrerebbe che i funzionari dell’Oms abbiano passato intere settimane a pretendere da Pechino informazioni utili per stoppare sul nascere la pandemia di Covid-19. Sempre in privato, gli uomini di Ghebreyesus si sarebbero più volte lamentati per i ritardi mostrati dai cinesi; ritardi che avrebbero potuto cambiare in meglio la storia del contagio.
Informazioni condivise in ritardo? A quanto pare l’Organizzazione mondiale della Sanità non sarebbe affatto filo cinese, come ha più volte ripetuto Donald Trump al punto da rescindere ogni legame tra gli Stati Uniti e l’Oms. Al contrario, aggiunge l’AP citando materiale audio e documenti interni, l’istituto specializzato dell’Onu sarebbe irritato con la Cina per aver indugiato a condividere immediatamente i dati sul genoma del virus – tenuti segreti per più di una settimana – e sulla capacità di diffusione dello stesso. Nella prima fase dell’epidemia il lavoro dei funzionari dell’Oms sarebbe stato ostacolato dal Dragone. Il motivo di un simile atteggiamento? “Un ferreo controllo sull’informazione e dalla competizione interna al sistema sanitario cinese”, aggiunge ancora AP. Gli effetti di un simile tira e molla avrebbero peggiorato lo scenario sanitario globale. Già, perché il virus è stato codificato per la prima volta lo scorso 2 gennaio mentre l’Oms ha dichiarato l’emergenza mondiale soltanto il 30 gennaio. Cioè quando l’epidemia era cresciuta di 100-200 volte.
L’impotenza dell’Oms. L’11 gennaio viene diffuso il genoma del Covid mentre soltanto il 20 dello stesso mese le autorità nazionali parlano per la prima volta di un agente patogeno in grado di trasmettersi anche tra gli esseri umani. Passano altre due settimane, evidenzia AP, ma l’Oms non riceve ancora le informazioni che richiedeva. Il più importante rappresentante Oms in Cina, il dottor Gauden Galea, si sarebbe addirittura lasciato scappare una frase inequivocabile: “Ci danno le informazioni un quarto d’ora prima di annunciarle sulla tv pubblica”. Il quadro che emerge dalle rivelazioni di AP, in definitiva, appare in contraddizione sia con le affermazioni del presidente cinese, Xi Jinping – che ha sempre difeso l’operato della Cina come “tempestivo” e “trasparente” – sia con il punto di vista del presidente Usa Donald Trump, che ha accusato l’Oms di essere “sino-centrica”. Alla scarsa trasparenza cinese si unisce, invece, una sorta di impotenza dell’Oms che non ha poteri ispettivi e non può indagare in maniera indipendente all’interno dei Paesi membri. La frustrazione dell’Oms era apparsa chiara già nella seconda settimana di gennaio, prima dell’impennata di casi a Wuhan del 20 gennaio scorso. Il direttore delle emergenze dell’Oms, Michael Ryan, aveva lamentato che la Cina non stava collaborando come avevano fatto in passato altri Paesi e che era necessario esercitare maggiore pressione sulla Cina per una maggiore trasparenza.
Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 3 giugno 2020. Un mese, trenta lunghissimi giorni passarono da quando un laboratorio privato cinese isolò la sequenza di un nuovo coronavirus responsabile di gravi polmoniti a Wuhan, il 27 dicembre, al momento in cui l'Oms dichiarò che c'era un'urgenza mondiale. L'allerta avrebbe potuto scattare prima, le misure di protezione alzarsi in tempo e molte vittime forse avrebbero potuto essere evitate se le autorità sanitarie cinesi avessero collaborato in modo più trasparente con i responsabili dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. È quanto emerge da una serie di documenti scritti e audio che l'agenzia Associated Press si è procurata e ha lungamente raccontato ieri sul suo sito. Ufficialmente, durante quel lungo mese di gennaio, l'Oms continuò a lodare «la cooperazione» dei cinesi, ma dietro le quinte, i funzionari dell'Organizzazione mostravano frustrazione e preoccupazione per i ritardi e le reticenze delle autorità, rispetto all'allarme che continuava a salire nella comunità medica e scientifica. I documenti «segreti» rivelati dall'AP non danno a ragione a Trump, che ha tagliato i fondi all'Oms accusandola di «complicità» con la Cina, ma rivelano piuttosto l'impotenza dell'Organizzazione sanitaria a spezzare l'omertà delle autorità cinesi e il costante sforzo di non rompere i ponti con Pechino per poter comunque accedere alle informazioni e non recare danno ai medici al lavoro sul campo, che invano continuavano ad allertare. Da Pechino, le autorità hanno sempre smentito qualsiasi reticenza: «Dall'inizio dell'epidemia abbiamo condiviso le informazioni con l'Oms e con la comunità internazionale in modo aperto, trasparente e responsabile», ripete Liu Mingzhu, della Commissiona Nazionale della Sanità. Ieri la Cina ha preferito annunciare che ormai Wuhan è «città pulita». Una campagna a tappeto di test (più di dieci milioni) ha rivelato secondo le autorità zero malati e trecento casi positivi ma asintomatici. Secondo le decine di registrazione, mail e documenti interni tirati fuori dai cassetti dell'Oms dalla AP, lo stretto controllo esercitato dalle autorità sanitarie cinesi e anche la concorrenza interna in seno ai laboratori di ricerca hanno colpevolmente ritardato l'invio al mondo del segnale di allarme sulla nuova epidemia. Se pubblicamente lodavano la Cina per il suo spirito di collaborazione, in privato i funzionari dell'Oms, già nella prima settimana di gennaio, denunciavano la scarsezza di dati per valutare la letalità e la contagiosità del nuovo virus. «Sappiamo troppo poco, non ci basta per pianificare» si sente dire il 6 gennaio a Maria Van Kerkhove, oggi responsabile tecnica per l'Oms per Covid-19. «Ci ritroviamo ad avere i dati un quarto d'ora prima che siano annunciati al telegiornale cinese» commenta, sempre a inizio gennaio, Gauden Galea, il più alto funzionario Oms in Cina. Intorno al 10 gennaio è Michael Ryan, capo delle emergenze sanitarie dell'Oms, ad accusare la Cina di non collaborare come fanno gli altri paesi» e di precisare che «il Congo» aveva per fortuna cooperato molto di più di fronte all'epidemia Ebola. Dai dati emerge che la Cina ha ritardato nel comunicare la sequenza del genoma del nuovo coronavirus, isolata già il 27 dicembre dal laboratorio privato Vision Medicals. Seguono le conferme di altri tre laboratori ma il 3 gennaio le autorità ordinano a tutti di distruggere i campioni. Ufficialmente per «garantire la sicurezza dei laboratori». Gli scienziati sanno già che il virus si trasmette da uomo a uomo e quale proteina usa per duplicarsi, ma ufficialmente il virus è ancora «misterioso». Se un documento interno all'Oms indica che «dovrebbe essere contagioso attraverso le vie respiratorie», ufficialmente l'Organizzazione sostiene che non ci sono prove di «trasmissione significativa inter-umana» e non raccomanda misure specifiche per i viaggiatori. Soltanto dopo un articolo pubblicato dal Wall Street Journal la Cina annuncia la scoperta di un nuovo coronavirus, ma divulgherà il genoma solo il 12 gennaio, quando si contano già i primi morti e il virus viaggia già dovunque. E soltanto il 20 gennaio si ammette ufficialmente il contagio per via respiratoria. In quel momento, l'Oms non ha però ancora nessuna notizia sugli «alberi di trasmissione» e continua a parlare di «bassa contagiosità». Altri dieci giorni passeranno prima di far scattare l'emergenza sanitaria. Quattro mesi dopo, il mondo conta sei milioni e mezzo di casi e 380mila morti.
SULLE MASCHERINE.
Coronavirus, le accuse all’Oms. Dalla pandemia dichiarata con 100 Paesi interessati all’uso delle mascherine: “Ai sani non servono”. Solo il 10 febbraio, dopo settimane di studi in loco, i responsabili dell'Organizzazione Mondiale della Sanità hanno iniziato a considerare un fattore determinante la diffusione da uomo a uomo anche tra asintomatici. Sull'uso delle protezioni, il cambio di rotta è avvenuto solo il 4 aprile. E il Wall Street Journal accusa il direttore generale Ghebreyesus di aver favorito il governo cinese. Gianni Rosini il 7 aprile 2020 su Il Fatto Quotidiano. “World Health Coronavirus Disinformation”. Tradotto: “Disinformazione Mondiale della Sanità sul coronavirus”. Con questo titolo il Wall Street Journal attacca l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, accusandola di mala gestione della pandemia di coronavirus fin dalla sua comparsa in Cina. Diversi gli elementi presi in esame dall’articolo, come ad esempio il fatto che “la pandemia è stata dichiarata solo l’11 marzo”, quando ormai si registravano oltre 100mila casi in tutto il mondo, con oltre 100 Paesi colpiti e più di 4mila morti. Una risposta tardiva che può aver ritardato i provvedimenti dei governi e favorito la diffusione del virus. Ma l’attenzione del quotidiano finanziario americano si concentra sulle questioni politiche e al centro dell’attacco c’è il direttore generale dell’organizzazione: Tedros Ghebreyesus, “responsabile della maggior parte degli errori commessi dall’Oms in questa epidemia, un politico più che un medico”. Secondo il quotidiano, il direttore generale si è dimostrato “più spaventato dalle ire di Pechino che di quelle di Washington“. Dunque, secondo il Wsj, “gli Stati Uniti avranno molti alleati nel tentativo di riformare l’Oms” che, in quanto Agenzia delle Nazioni Unite, rappresenta un punto di riferimento sulla gestione delle questioni sanitarie per i Paesi di tutto il mondo. Le accuse di lassismo riguardo all’operato della Cina devono però essere contestualizzate: nelle settimane in cui gli esperti e osservatori dell’Oms si complimentavano con Pechino per i risultati ottenuti, team di scienziati dell’organizzazione collaboravano a stretto contatto, in loco, con le autorità della Repubblica Popolare proprio nel tentativo di studiare il nuovo coronavirus, i suoi effetti e la sua pericolosità. Inoltre, un atteggiamento simile, nel tentativo di instaurare una più stretta collaborazione, è stato tenuto anche più tardi nei confronti dell’amministrazione Trump: quando negli Usa iniziavano a comparire i primi casi e il presidente respingeva qualsiasi proposta di restrizione, accusando proprio l’Oms di tenere un atteggiamento di favore nei confronti di Pechino, l’organizzazione plaudiva all’atteggiamento di Washington, nonostante il Paese fosse già considerato il nuovo possibile epicentro della pandemia globale. Diversa questione sono gli atteggiamenti dell’Organizzazione su tre questioni di primaria importanza per il contrasto alla diffusione del coronavirus: la trasmissione, la dichiarazione di pandemia globale, e l’uso di mascherine e tamponi.
Trasmissione, a febbraio dicevano: “Quella dai casi asintomatici è rara”. Dai primi studi effettuati, l’Oms si era sentita di escludere la possibilità di trasmissione da uomo a uomo. Ma secondo alcuni scienziati il fatto che il virus, che allora aveva provocato due morti, fosse stato “esportato”, faceva pensare che il focolaio di partenza fosse molto più ampio, circa 1700 casi. Un focolaio di questa potata fece pensare alla possibilità di trasmissione da uomo a uomo. Il 20 gennaio anche gli scienziati cinesi confermarono le previsioni dei colleghi, tra cui Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. Il comitato di emergenza dell’Oms sul virus venne convocato però solo il 22, poi rimandato al 23. L’Organizzazione pensò però che fosse “troppo presto” per dichiarare un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale, visto che “esiste una trasmissione da uomo a uomo in Cina, ma per ora sembra limitata a gruppi familiari e operatori sanitari. Al momento, non ci sono prove di trasmissione da uomo a uomo al di fuori della Cina”. Tre giorni dopo, però, il 26 gennaio, si registrò il primo caso non importato in Vietnam e, con 44mila casi a Wuhan, l’Oms decise, il 27 gennaio, di fare marcia indietro: dichiarò che il rischio globale era “elevato”, ammettendo un errore nei suoi precedenti rapporti in cui riferiva “erroneamente” che il rischio fosse “moderato”. Tanto che, il 30 gennaio, il direttore generale decise di dichiarare l’emergenza globale, ma nonostante ciò l’Oms “non raccomanda di limitare i viaggi, il commercio e il movimento (della popolazione) e si oppone persino a qualsiasi restrizione di viaggio”.
Il 1 febbraio, quando il virus era ufficialmente comparso in 24 Paesi, nel suo bollettino quotidiano l’Oms scriveva che “il mezzo principale di trasmissione sono i casi sintomatici. L’Oms è a conoscenza della possibilità di trasmissione del virus da persone infette prima che sviluppino i sintomi. Pertanto, la trasmissione da casi asintomatici probabilmente non è uno dei mezzi principali di trasmissione”. Informazione che si è poi rivelata falsa appena 10 giorni dopo, quando Ghebreyesus è costretto ad ammettere che “ci sono stati alcuni casi preoccupanti sulla diffusione del Covid-19 da persone che non hanno fatto viaggi in Cina” e quindi i casi fuori dal Paese potrebbero essere solo “la punta dell’iceberg”, come dimostrato nelle settimane successive. Il primo, vero, cambio di rotta dell’Oms si registra però solo il 16 marzo, quando Ghebreyesus arriva a dire che si tratta di “una malattia grave. Anche se le prove che abbiamo suggeriscono che gli over 60 sono a maggior rischio, sono morti anche giovani, compresi i bambini”. Così, solo il 1 aprile l’organizzazione ha ritenuto necessario comunicare che era arrivato il momento di “sorvegliare anche gli asintomatici”.
Il virus si diffondeva, ma la pandemia globale è stata dichiarata solo l’11 marzo. Anche sull’allarme da lanciare ai governi mondiali l’Oms ha ricevuto molte accuse di scarsa velocità. Il focus è sulle tempistiche per dichiarare il coronavirus una pandemia globale. Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia è la diffusione in tutto il mondo di una nuova malattia e generalmente indica il coinvolgimento di almeno due continenti, con una sostenuta trasmissione da uomo a uomo. I primi casi in Europa si sono registrati tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, anche se l’aumento esponenziale si è registrato solo dalla fine del mese. La dichiarazione di pandemia implica che ogni Paese metta a punto un piano pandemico e che lo aggiorni costantemente sulla base delle linee guida dell’Oms al fine di frenare l’avanzata del virus.
Il 4 febbraio, quando la malattia era comparsa in 24 Paesi, l’Oms dichiarò che non c’erano elementi per dichiarare la pandemia, semmai una “epidemia con focolai multipli“. Stessa cosa il 24 febbraio, quando i casi fuori dalla Cina erano oltre 2mila, i Paesi coinvolti 28 e i morti fuori dallo Stato asiatico 23. Nello stesso briefing, Ghebreyesus disse comunque che “dobbiamo contrarci sul contenimento e allo stesso tempo fare ogni cosa possibile per prepararci a una potenziale pandemia“, pur lasciando le valutazioni ai singoli Paesi, senza fornire linee guida.
E mentre il capo missione dell’Oms in Cina, Bruce Aylward, il 25 febbraio diceva che “il mondo non è pronto a fronteggiare il coronavirus”, Walter Ricciardi, sempre dell’Oms, in conferenza stampa a Roma diceva che era necessario “ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, solo il 5% muore, peraltro sapete che tutte le persone decedute avevano già delle condizioni gravi di salute”. Solo il giorno dopo vennero registrati più nuovi casi fuori dalla Cina che dentro al Paese.
Il 28 febbraio l’Oms alza il livello di minaccia mondiale a “molto alta”, con più continenti interessati, ma il 2 marzo ribadisce che ancora non era considerabile come pandemia e che con le giuste misure il virus si poteva ancora contenere. Solo nove giorni dopo, l’11 marzo, con oltre 100mila casi registrati, 100 paesi interessati e 4mila morti, arriva l’annuncio: “Il coronavirus è una pandemia globale”.
“Mascherine? ai sani non servono”. Anche sulle linee guida riguardanti le misure di prevenzione e diagnosi, nel tentativo di evitare allarmismi, l’Organizzazione ha agito con notevoli ritardi. Già il 25 febbraio si era iniziato a parlare dell’uso delle mascherine per tutta la popolazione allo scopo di frenare il diffondersi del virus. Ma, da parte di Ricciardi arrivò una risposta secca: “Le mascherine alla persona sana non servono a niente, servono alla persona malata e al personale sanitario”. Tesi ribadita da diversi membri dell’Oms il 1 marzo e anche il 20 marzo, quando ormai la pandemia era diffusa e i metodi di contagio più chiari: “Le mascherine servono a chi lavora in prima linea, se non ne avete bisogno per favore non indossatele”, insistevano. “C’e’ un dibattito in corso sull’uso delle mascherine a livello di comunità, l’Oms raccomanda l’uso di mascherine mediche per le persone che sono malate e per chi si prende cura di loro”, insisteva ancora Ghebreyesus il 1 aprile. Il 3 aprile, con la pubblicazione di uno studio del Mit di Boston sulla diffusione via aerea della malattia anche oltre il metro di distanza, l’Organizzazione inizia a pensare a una revisione delle linee guida. Il giorno dopo, il 4 aprile, una tiepida ammissione: “Ci sono delle circostanze nelle quali l’uso di mascherine all’interno di una comunità può aiutare nella risposta complessiva a questa malattia”.
MASCHERINE, LA RETROMARCIA DELL'OMS: DANNO UNA FALSA SENSAZIONE DI SICUREZZA. Mauro Evangelisti per “il Messaggero” l'8 aprile 2020. L'Organizzazione mondiale della sanità dice che le mascherine rischiano di essere controproducenti perché «possono creare un falso senso di sicurezza nella popolazione»; i sindaci di Viterbo e Nardò, solo per fare due esempi, le rendono obbligatorie. La Lombardia impone a tutti di indossarle, lo stesso farà la Toscana tra sette giorni ma solo sui mezzi pubblici o nei negozi, misura simile a quella del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Era già successo sui tamponi e sui test sierologici, ogni regione, a volte perfino ogni comune, sceglie una strada differente sul tema delle mascherine, ma in questo caso ci sono due aggravanti: anche l'Organizzazione mondiale della sanità sembra fare passare messaggi ondivaghi e ogni decisione rischia di essere messa in crisi da un deficit di approvvigionamento. Per la fase due, quando ci saranno parziali riaperture, l'obbligo di mascherina potrebbe essere generalizzato e il commissario per l'emergenza, Domenico Arcuri, spiega: «Se sarà deciso un obbligo di mascherine avremo bisogno massicciamente della loro produzione». Ancora: «Con gli accordi firmati negli ultimi giorni abbiamo una disponibilità aggiuntiva, nelle prossime settimane, di 650 milioni di mascherine». Sulle nuove indicazioni dell'Oms, il virologo Roberto Burioni commenta: «Che delusione». Gianni Rezza, direttore di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità: «Errare è umano e anche l'Organizzazione mondiale della sanità è fatta da uomini. Non è detto che ci abbia sempre azzeccato. Ma il tema delle mascherine è molto complesso, lo stesso comitato tecnico scientifico non ha ancora preso una posizione definitiva e anche l'Oms tende a cambiare opinione». Secondo l'assessore alla Sanità del Lazio (dove non sono obbligatorie), Alessio D'Amato, «bisogna essere cauti fino a quando non si produrranno mascherine riutilizzabili». Sulle mascherine c'è un mondo diviso in due, con i paesi asiatici che guardano con estremo scetticismo, per usare un eufemismo, la scelta degli occidentali di farne a meno. Ma cosa dice esattamente l'Oms? «Non esistono al momento evidenze secondo cui indossare una mascherina (medica o di altro tipo) da parte di tutta la comunità, possa impedire la trasmissione di infezione da virus respiratori, incluso Covid-19». In pratica: può essere utile la mascherina per limitare il contagio da parte degli asintomatici che la indossino (ma secondo l'Oms sono un numero molto limitato di casi), ma è molto più importante il mantenimento delle distanze e il lavaggio frequente delle mani (è la stessa posizione sostenuta l'altro giorno dal capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, per la quale era stato bersaglio di critiche). Aggiunge l'Organizzazione mondiale della sanità: «L'uso di mascherine può creare un falso senso di sicurezza e il rischio di trascurare altri elementi essenziali». Quattro giorni fa il dottor Mike Ryan dell'Oms aveva però detto che «ci sono delle circostanze nelle quali l'uso di mascherine - anche fatte in casa e di tessuto - all'interno di una comunità può aiutare nella risposta complessiva a questa malattia». Aveva precisato che tutelano non chi la indossa, ma chi è vicino. È pur vero, a livello logico, che se tutti sui proteggono, si riducono le possibilità che un asintomatico involontariamente diffonda il coronavirus. Rezza dell'Iss: «Se vado per strada e non c'è distanziamento sociale tendo a utilizzarla e ho piacere che altri la utilizzano, ma la misura principale rimane il distanziamento sociale».
Test, mascherine, rischio globale, pandemia. Quanti errori dell'Oms: incerta e in ritardo. È mancata una leadership mondiale forte durante la tempesta Covid 19. Francesca Angeli, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Il rischio pandemia Covid 19? Moderato. Anzi no: elevato. Le mascherine? Non servono. O meglio servirebbero ma è meglio lasciarle ai medici. È inutile indossarle per fare la spesa. I test? Solo ai sintomatici. No meglio a tutti. I dati dalla Cina? Trasparenti. Pechino è in grado di contenere l'epidemia: gli altri paesi non devono allarmarsi. No, è pandemia. Queste in sintesi estrema le indicazioni contraddittorie che l'Organizzazione Mondiale della Sanità è riuscita a collezionare da quando il 31 dicembre dello scorso anno le autorità sanitarie cinesi hanno notificato un focolaio di casi di polmonite ad eziologia non nota nella città di Wuhan. Giorno dopo giorno Sars Cov 2 ha messo il mondo in ginocchio anche perché è mancata una risposta tempestiva ed univoca. Per battere il coronavirus è evidente che occorre un strategia comune globale. E se è vero che i singoli paesi hanno responsabilità individuali per le scelte fatte è pure vero che le indicazioni dell'Oms sono state spesso carenti, poco chiare e anche tardive. L'Oms ha ammesso di aver commesso qualche errore. Sono molti di più quelli ancora non riconosciuti. Il 23 gennaio l'Oms dichiara che il rischio globale derivante dal coronavirus cinese resta «moderato» come aveva scritto negli ultimi rapporti. Eppure già una settimana prima uno studio dell'Imperial College londinese avvertiva che i conti di Pechino non tornavano. I 50 casi dichiarati a Wuhan dovevano essere almeno 1.700 visto che erano stati già rintracciati casi «esportati» all'estero. Il 27 gennaio infatti l'Oms riconosce l'errore e cambia il livello del rischio che sale nel giro di 4 giorni a «molto alto in Cina, alto a livello regionale e alto a livello globale». Non solo: passano altri tre giorni e l'Oms si decide a dichiarare il Covid 19 «emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale». Ma proprio per non mettere in difficoltà la Cina in quegli stessi giorni, il 28 gennaio, il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, incontra a Pechino Xi Jinping e dichiara di apprezzare «la serietà con cui la Cina sta affrontando questo focolaio e la trasparenza che ha dimostrato». Con i dati oggi a disposizione frutto del dilagare dell'epidemia tutti gli esperti ritengono impossibile che le cifre sui decessi fornite da Pechino siano realistiche. E la dichiarazione di pandemia arriva incredibilmente soltanto l'11 marzo, quando in Italia siamo già oltre i 12mila casi e le vittime son 827. Il capolavoro dell'Oms però arriva con le indicazioni sulle mascherine e i test. Inizialmente l'Oms lancia un appello: «non possiamo mettere a rischio i nostri medici e infermieri. Se non avete una persona malata a casa non avete bisogno della mascherina per favore non mettetela». Eppure proprio dalla Cina era arrivata l'indicazione dell'utilità della mascherina anche per chi non ha sintomi perché comunque dimezza la possibilità del rilascio delle goccioline, droplet, che potrebbero veicolare il virus. «Il grande errore commesso da Usa ed Europa è il mancato uso delle mascherine», aveva ammonito George Fu Gao, virologo e immunologo e direttore del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie. E sembra che ora l'Oms possa cambiare idea anche sulla necessità delle mascherine. Inversione di rotta anche per i test diagnostici: da «solo ai sintomatici» a «test, test, test» per tutta la popolazione.
GARBAGNATI AL TG4 UN MESE FA: ''NON MI INTERESSA COSA DICE L'OMS. TUTTI DEVONO INDOSSARE MASCHERINE, SUBITO''. L'ONCOLOGO GARBAGNATI: IL DISASTRO DELL'OMS ORMAI È CHIARO A TUTTI, NON SOLO A ME. DAGO-INTERVISTA il 7 aprile 2020. Torniamo a parlare con il dottor Francesco Garbagnati, oncologo dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che per primo in Italia lanciò l'allarme sulla necessità di indossare tutti delle mascherine, anche fatte in casa (ma fatte bene e con i materiali giusti) e soprattutto, per primo ha rotto il silenzio dei medici e delle istituzioni italiane, schierandosi apertamente contro l'Organizzazione Mondiale della Sanità».
Dottore, come mai questa sua critica così forte all'OMS?
«Ho assistito incredulo alle prime conferenze stampa dei suoi vertici, non credevo alle mie orecchie. Il presidente dell'istituzione, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il 28 gennaio scorso incontra Xi Jinping a Pechino, e il giorno dopo in conferenza stampa dice che in Cina va tutto bene, e si diceva soprattutto preoccupato per i paesi che non hanno i sistemi sanitari in grado di rispondere al coronavirus. Ma come? Abbiamo visto che nessuno era pronto per il coronavirus, neanche i paesi più ricchi e attrezzati».
Avrebbe dovuto mandare un messaggio più forte?
«Ma io dico, Ghebreyesus torna da un paese che ha appena isolato oltre 40 milioni di persone nella regione dell'Hubei, un paese il cui presidente si è mostrato con la mascherina a colloquio con i vertici del governo, e non dice al mondo di predisporre piani simili, né di dotarsi di dispositivi di protezione, di separare i pronto soccorso normali da quelli Covid-19, e così via?»
Cosa l'ha spinta a parlare in pubblico?
«Le folli linee guida dell'OMS: dire che le mascherine non doveva portarle nessuno se non gli operatori sanitari – e solo quelli che avevano in cura malati di coronavirus, cosa ancor più folle visto che già si sapeva che molti contagiati erano asintomatici. Per questo prima ho contattato la Rai, ma nessuno mi ha dato ascolto, e poi Mediaset: al Tg4 e a ''Stasera Italia'' ho spiegato che tutti dovevano proteggere se stessi e gli altri con mascherine, anche fatte in casa».
Eppure l'OMS ancora oggi ha ribadito che le mascherine vanno usate solo se si ha a che fare con malati accertati, in contesti sanitari.
«L'OMS è in ritardo, probabilmente non vuole ammettere i suoi clamorosi errori che hanno peggiorato il contagio e dunque il numero dei morti. Sono felice che molti colleghi, da Crisanti a Rezza fino a Burioni, ormai abbiano abbandonato ogni timore e parlino apertamente del disastro compiuto da questa organizzazione. L'articolo del Wall Street Journal spiega anche le ragioni geopolitiche che ci sono dietro, e che molti di noi conoscevano già: il presidente etiope Ghebreyesus deve il suo posto (e forse la prossima presidenza del paese) al sostegno della Cina, che in Etiopia ha investito miliardi di dollari di fatto ''comprandosi'' il controllo economico e politico di una intera nazione».
Ma gli altri dirigenti dell'OMS non potevano fare qualcosa?
«Lei ha sentito il numero due, Mike Ryan, e la numero tre, Maria Van Kerchove, e i messaggi che hanno mandato in queste settimane? Errori sulla letalità e sul fatto che solo gli anziani potevano morire di questo virus. Ancora un mese fa non erano in grado di dare direttive chiare sugli asintomatici sulla durata dell'isolamento che deve rispettare chi invece ha avuto sintomi. Non hanno fatto altro che peggiorare la situazione».
E in Italia?
«In Italia Walter Ricciardi si sarebbe dovuto opporre alle direttive dell'OMS, di cui fa parte, e applicare quello che la comunità scientifica stava capendo anche senza i potenti mezzi di Ginevra. In questo il povero Conte non ha responsabilità: ha fatto quello che gli esperti suggerivano. Solo che questi esperti si sono trincerati dietro linee guida che si sono rivelate letali».
Però se oggi si va al supermercato, non c'è una singola persona senza mascherina, anche del tipo fatto in casa.
«Per fortuna gli italiani sono più saggi e più previdenti di chi li governa».
Da liberoquotiano.it il 7 aprile 2020. Dopo le accuse pesantissime del Wall Street Journal, la fiducia nell’Oms vacilla più che mai. I rapporti poco chiari con la Cina e l’esplosione dell’epidemia da coronavirus anche in Europa e negli Stati Uniti hanno messo in discussione il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità. “Sempre più deludente”, così Roberto Burioni ha commentato il nuovo documento ufficiale sull’utilizzo delle mascherine, che ignora il tasso di trasmissione del coronavirus dagli asintomatici e non prevede le mascherine per tutti in pubblico. A chi sostiene che le critiche all’Oms non sono opportune in un momento del genere, il noto virologo marchigiano risponde: “Mi spiace, ma qui non siamo in Cina e io critico anche WHO se lo ritengo opportuno. L’Oms è una voce autorevole? L’autorevolezza si guadagna (e si perde) sul campo”.
L'esperto: l'Oms ha sbagliato sulle mascherine e il lockdown è un errore. Marinellys Tremamunno su lanuovabq.it il 02-04-2020. Il consulente di ingegneria del rischio Francisco Lopez pone seri dubbi sui consigli dati dall'Oms a livello mondiale sull'uso delle mascherine. Il personale medico usa le FFP2 e non è protetto dal contagio. Inoltre i governi colpiti non si sono preparati all'epidemia, hanno reagito con il confinamento di massa che è una strategia improduttiva. Alcuni consigli utili su come proteggersi al meglio, igienizzando tutto. Da quando è partita l’emergenza Coronavirus, le mascherine sono state sempre al centro delle polemiche. Inizialmente perché la paura ci ha portato ad una caccia alle mascherine, che sono diventate introvabili e molto costose; in seguito, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha insistito che non dovevano essere utilizzate da tutti per poterle dare in primis al personale sanitario e alle forze dell’ordine. Oggi l’attenzione si concentra sulla polemica tra il governatore lombardo Attilio Fontana e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), per il via libera alla produzione di mascherine a casa. “Non possiamo permetterci di mettere in circolazione strumenti che non hanno le performance per cui sono stati richiesti… dobbiamo rispettare gli standard internazionali”, ha sottolineato il presidente dell’Istituto Silvio Brusaferro. Ma sono affidabili questi standard stabiliti dall’OMS? La risposta è no! Purtroppo, la protezione respiratoria raccomandata dall’OMS per il personale sanitario potrebbe essere la causa del contagio e persino della morte di migliaia di medici e infermieri nel mondo per coronavirus, poiché quelle mascherine da loro consigliate, le N95 conosciute in Europa come FFP2, sembrano adeguate a proteggere dalle infezioni respiratorie che conosciamo comunemente, ma non dal virus Covid-19. E perché la mascherina N95 non protegge contro il Covid-19? L’abbiamo chiesto al consulente di ingegneria del rischio Francisco Lopez: “Ho rilevato che la mascherina N95, come indicato da NIOSH (l'Istituto Nazionale per la sicurezza e la salute sul lavoro degli Stati Uniti) nella sua norma 42 CFR Part 84 Respiratory Protective Devices, non ha un coefficiente di filtrato adatto per prevenire il contagio da Coronavirus”, ha affermato. L’esperto ha comunicato l’errore all’Ufficio dell’OMS a Barcelona lo scorso sabato 28 marzo, ma non ha ricevuto alcuna risposta. “Un laboratorio di New York ha effettuato misurazioni delle particelle virali del Covid-19 e hanno trovato dimensioni di 120 nanometri (0,12 micron)”, mentre la mascherina N92 ha una capacità di filtro da 0,3 micron, secondo la tabella della NIOSH. “Quindi anche le mascherine di specifica P100 o R100 non sarebbero sufficienti, tantomeno le N95. Un altro aspetto aggravante è che la mascherina N95, se non ha una valvola espiratoria, si inumidisce rapidamente al suo interno, consentendo la formazione di un film acquoso interno che faciliterebbe il passaggio delle cellule virali nella maschera con il conseguente contagio”. Francisco López sta sviluppando uno studio esaustivo dei protocolli di protezione emessi dal Ministero della Salute del Regno di Spagna, per cercare di capire perché oltre 12mila membri del personale sanitario di quel Paese sono stati colpiti dalla pandemia. Tutti i protocolli raccomandano l'uso della maschera N95, seguendo le linee guida dell'OMS (vedi documento qui), nonostante non sia efficace nel prevenire l'infezione. Lo stesso accade in Italia: nel punto 1 del documento pubblicato dal Ministero della Salute, “Domande e risposte sulla prevenzione e il controllo delle infezioni per gli operatori sanitari che si occupano di pazienti con sospetto o confermato Covid-19”, si raccomanda l’uso delle mascherine N95. Sono le cosiddette “mascherine con la valvola” che, secondo il discorso governativo, ripetuto in coro dalle testate giornalistiche e dagli scienziati, devono essere indossate dal personale sanitario a rischio. Al tempo stesso continua la strage di medici italiani impegnati a contenere la diffusione: si contano 66 morti e 8.956 operatori sanitari contagiati, secondo la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo). Secondo l'esperto, l’uso scorretto e massiccio della mascherina N95 è il risultato della raccomandazione emessa dall'OMS. “È un chiaro errore moltiplicato su scala mondiale, quindi ho suggerito all’OMS di fare una nuova pubblicazione esplicativa, facendo appello perché si dia al caso l'attenzione che merita”. Così Lopez ha anche scritto alle e-mail ufficiali del Global Service Centre dell’OMS, al manager del programma Environment and health intelligence and forecasting del Centro europeo dell'OMS, alla rappresentanza dell'OMS nell'Unione europea (con sede in Belgio) e all'Ufficio europeo per gli investimenti nella sanità dell’OMS con sede in Italia (Venezia). L'e-mail sono state inviate ben due volte (domenica 29 marzo e lunedì 30 marzo) e ad oggi (giovedì 2 aprile) non è stata ancora ricevuta alcuna risposta. Allora questa è l’OMS di cui dobbiamo fidarci? “Il Covid-19 non doveva creare allarme e nemmeno tutte le conseguenze che stiamo soffrendo, perché non si tratta di un virus con una capacità di contagio vettoriale (non ha la capacità di sopravvivere e trasmettersi attraverso un vettore come la Dengue, lo Zika o la Malaria), si trasmette da persona a persona, per cui poteva essere controllato. Invece non è stato trattato con rigore scientifico e soprattutto con volontà politica. Da quando è arrivato in Occidente tutti siamo vittime delle decisioni improvvisate dei governi”.
Ad esempio? Cosa è mancato? “È mancata una politica dello shock. Si sapeva di questo virus molto prima del suo arrivo, quindi i governi dovevano essere preparati per attivare una politica dello shock, con tamponi a tappeto e confinamento selettivo, per isolare unicamente i gruppi di contagiati e i casi sospetti. Sono mancate una efficiente politica di informazione, educando le persone a proteggersi nel modo giusto, e una politica della punizione per sanzionare penalmente chi potesse mettere a rischio la salute pubblica”.
Invece il Covid-19 ha portato a un confinamento di massa, il mondo intero è confinato…
“Il confinamento di massa è stato un errore! La prima misura doveva essere informare correttamente, la questione dei tamponi a tappeto era fondamentale, ancora di più della protezione respiratoria ed è qualcosa che i governi dovevano adottare dall’inizio perché i dispositivi di protezione individuale non saranno la soluzione, e secondo me il confinamento di massa è stato un errore. È l’evidenza della mancanza di compromesso politico, ma purtroppo la nostra vita è in mano ai politici al potere”.
Allora, visto che non possiamo fidarci delle scelte governative e nemmeno dell’OMS, cosa possiamo fare per proteggerci?
La decontaminazione è essenziale quando si tratta di un’emergenza con materiali pericolosi, in questo caso di tipo biologico. Ad esempio, è stata dimostrata l'efficacia del perossido di idrogeno vaporizzato (l’acqua ossigenata) e dell’ipoclorito di sodio (il cloro); quindi, quando torniamo a casa, dobbiamo pulire le nostre scarpe con una soluzione di ipoclorito di sodio all'10% (per ogni parte di cloro, 10 di acqua). Tutti sono ansiosi di lavarsi le mani o di proteggere il viso, ma non pensiamo che quando ci troviamo per strada camminiamo su tracce di saliva, tracce di fluido, perché una delle superfici più sporche è il pavimento, ma i governi non lo dicono. Le persone entrano in casa con le scarpe infette senza saperlo, si tolgono le scarpe con le mani e dopo, incoscientemente, si toccano il viso e si infettano. Le chiavi, il cellulare, le monete, i soldi, tutto, quando torniamo a casa dobbiamo disinfettare tutto con questa soluzione che possiamo applicare con un flacone spray e, infine, senza toccare nient'altro, dobbiamo lavarci le mani con il sapone liquido. Dobbiamo mettere un contenitore con acqua e cloro all’ingresso degli edifici, in modo che le persone si puliscano le scarpe prima di entrare. Dobbiamo pulire con acqua e cloro le maniglie delle porte, i pulsanti degli ascensori e qualsiasi superficie dove le persone mettono le mani.
E cosa dobbiamo fare con le mascherine, dobbiamo usarle oppure no?
"Sì, ma non di qualsiasi tipo, perché indossando una maschera non adatta, che poi diventa umida con i vapori del respiro, aumenta la probabilità di contagio. Al contrario si deve dire alle persone di indossare le mascherine giuste, le P100. Ciò dovrebbe essere fatto da tutti coloro che sono esposti per strada e che non possono rispettare le misure di allontanamento sociale, come le persone che usano i mezzi pubblici. E il personale sanitario deve utilizzare la P100 accompagnata da uno schermo facciale o da un apparecchio PAPR, per avere filtri adatti al diametro aerodinamico delle particelle di Covid19”.
RITARDI ED ERRORI IL FALLIMENTO DELL'ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ. Gianni Vernetti per “la Stampa” l'8 aprile 2020. Si è fin qui discusso molto delle inefficienze e dei ritardi da parte di molti Stati e governi nella risposta alla pandemia, parole spese dimenticando il clamoroso fallimento dell' organismo mondiale preposto alla "governance" globale della salute: la "World Health Organisation" (Organizzazione Mondiale della Sanità). Dopo l' esplosione dell' epidemia di Sars nel 2002, e in seguito alle molte inefficienze allora rilevate nella gestione della crisi da parte delle autorità di Pechino, vennero ridisegnate le regole internazionali per migliorare il contrasto delle future pandemie. Il primo provvedimento adottato fu la revisione nel 2005 della "International Health Regulations", lo strumento giuridicamente vincolante del diritto internazionale, progettato per sostenere i singoli Stati membri delle Nazioni Unite nella tutela della salute globale. Tale revisione assegnò all' Organizzazione Mondiale della Sanità poteri straordinari per colmare le lacune dei singoli Stati, spesso riluttanti ad adottare provvedimenti radicali di contrasto delle epidemie, molte volte per ragioni politiche ed economiche locali. Un insieme di regole e di nuovi poteri che avrebbero permesso all' Organizzazione Mondiale della Sanità di svolgere non solo un ruolo di leadership nel contrasto della pandemia, ma anche di denunciare e mettere in mora gli Stati che non avessero applicato adeguatamente le direttive internazionali (tracciamento dei contagi, restrizioni negli spostamenti, ecc...). Non solo tutto ciò non è successo, ma l' Organizzazione Mondiale della Sanità ha contribuito direttamente e in modo decisivo a ritardare la risposta globale alla pandemia. E' sufficiente osservare la cronistoria degli eventi chiave della diffusione del coronavirus. Nonostante i primi casi rilevati a Wuhan a dicembre e la denuncia di diversi medici cinesi il 1 gennaio (fra cui Li Wenliang, poi arrestato per aver diffuso «informazioni allarmistiche» e in seguito deceduto per il virus) e nonostante i ripetuti "warning" lanciati dal governo di Taiwan fin dal mese di dicembre, il 14 gennaio il Direttore generale della Oms/Who, l' etiope Tedros Ghebreyesus, ha preferito rilanciare le posizioni "minimizzanti" del governo cinese dichiarando che non vi fossero «prove di trasmissione da uomo a uomo del coronavirus da poco identificato. In più il direttore generale Ghebreyesus ha dichiarato il coronavirus come emergenza sanitaria solo il 30 gennaio, quando il contagio aveva già raggiunto 19 Paesi e infettato oltre 8.000 persone, ed ha atteso fino all' 11 marzo per dichiarare quella del Covid-19 una pandemia globale, quando oramai il contagio aveva raggiunto 114 Paesi. Purtroppo l' eccesso di deferenza nei confronti della Cina da parte dell' Organizzazione Mondiale della Sanità ha rallentato la risposta globale alla pandemia, legittimando in molti Paesi (inclusa l' Italia) quell' insieme di posizioni minimizzanti e persino negazioniste, che hanno fatto perdere settimane preziose nella lotta al virus. Nel mondo dopo il coronavirus cambieranno molte cose, e fra queste andrà ripensata in modo radicale anche la "governance" della salute globale.
Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. C'era grande attesa per il documento dell'Organizzazione mondiale della sanità sulle mascherine che, secondo indiscrezioni, avrebbe potuto esprimersi favorevolmente per un uso allargato alla popolazione. Invece no. L' agenzia sanitaria dell' Onu ha ricalcato le precedenti indicazioni, in linea con la posizione del direttore generale Ghebreyesus: «Sono una delle misure di prevenzione per contenere il contagio di diverse malattie respiratorie virali, compresa Covid-19. Tuttavia, se usate da sole, sono insufficienti a fornire un adeguato livello di protezione. Altre misure dovrebbero essere adottate». Un messaggio contraddittorio rispetto alle iniziali linee guida: «Usarle solo se c' è sospetto di essere stati contagiati e se presenti tosse e starnuti». Giovanni Rezza, direttore malattie infettive dell' Istituto superiore di sanità, riconosce che in altre occasioni l' Oms è stata tempestiva e precisa nelle sue uscite: «Non sempre ci azzecca. A volte si può sottovalutare e poi correggersi. Anche il Comitato tecnico scientifico italiano non ha preso decisioni definitive». Il virologo Roberto Burioni su twitter commenta: «Oms sempre più deludente, mah». Non ci sono prove, dichiara l' agenzia mondiale, che se una persona sana si copre il viso possa prevenire l' infezione di un virus respiratorio. Conclusione, le mascherine andrebbero riservate agli operatori sanitari. Tenuto anche conto che non ce ne sono per tutti. Il pericolo è che la popolazione si lasci prendere «da un falso senso di sicurezza» e trascuri comportamenti ben più importanti. Distanziamento sociale e accurato lavaggio delle mani restano al primo posto, le uniche barriere contro la trasmissione del nuovo coronavirus, il Sars-CoV 2 che ha disorientato i ricercatori presentandosi nel nostro mondo con caratteristiche inattese. Velocità nel passare da un individuo all' altro, capacità di minare la salute dei polmoni, sintomi che si presentano secondo una ampia gamma, da molto lievi a molto severi. Le linee guida dell' Oms sconfessano la scelta di alcune Regioni (come la Lombardia) e Comuni italiani (come Ischia) che hanno obbligato i cittadini a coprire le vie respiratorie quando lasciano la propria abitazione. Non solo mascherine, vanno bene ugualmente sciarpe e fazzoletti. Così anche il governo israeliano che ha cambiato la semplice raccomandazione in obbligo. Il dibattito mascherina sì-no è nato con l' epidemia, a gennaio. Le immagini degli abitanti di Wuhan col viso mezzo coperto hanno fatto subito pensare che fosse quello il modo più sicuro per evitare l' attacco del microrganismo sconosciuto. Per difendersi da un nemico aereo il primo istinto è sbarrargli la strada, quindi chiudere narici e bocca. Però gli esperti hanno sempre ricordato che questi dispositivi non servono a proteggere se stessi dal rischio di goccioline infette, le droplets , emesse con colpi di tosse. Sono invece fondamentali per i malati e, ovviamente gli operatori sanitari che soprattutto nei reparti critici hanno bisogno di filtri facciali (FFP 2 e 3, con due diverse caratteristiche di filtraggio). Rezza si richiama al buon senso: «Se cammino per strada o sul marciapiede in solitudine non la metto, se entro in un negozio dove sono presenti più persone la tiro su. Il miglior sistema è tenersi a distanza dagli altri» .
I TAMPONI.
Tutte le piroette di Oms e Iss su tamponi e mascherine. Carlo Terzano su startmag.it il 5 aprile 2020. Tamponi e mascherine, che fare? Le posizioni cangianti anche di Oms e Iss. Le diversità di vedute tra Regione Lombardia e governo. “Piuttosto che niente, meglio piuttosto”: così questa mattina Attilio Fontana ha spiegato su Radio Padania l’ordinanza della Regione Lombardia che prevede l’obbligo di indossare la mascherina se si esce di casa, o comunque una protezione su bocca e naso, come una sciarpa o un foulard (qui l’ordinanza della Regione datata 4 aprile). “La partita non è ancora vinta. Siamo a metà del secondo tempo e teniamo duro sennò c’è il rischio che ci facciano qualche gol” ha aggiunto rinnovando l’invito a non uscire di casa nonostante la domenica di sole. L’ordinanza della Lombardia non è collimante con quanto si pensa nel governo. “In questo momento certamente non l’abbiamo ancora data come indicazione“, ha detto ieri il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, in conferenza stampa alla Protezione civile sull’emergenza Covid-19 rispondendo a chi gli domandava se il comitato tecnico scientifico abbia in programma di consigliare l’uso obbligatorio di mascherine (o di altri sistemi di copertura di naso e bocca) come dettato da un’ordinanza in Lombardia. “Quello della mascherine – ha spiegato – è un argomento in cui non esistono evidenze fortissime, sappiamo perfettamente che sono utili per prevenire il contagio da parte di un soggetto che alberga Covid-19 considerando anche l’esistenza di una quota di asintomatici infettanti. In questo possono essere di utilità, ma la misura fondamentale rimane quella del rispetto del distanziamento sociale“. Gli ha fatto eco il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli: “Non uso la mascherina rispettando le regole del distanziamento sociale”.
Tamponi e mascherine. E’ stato detto tutto e il suo contrario, provocando presto il dubbio che nemmeno il mondo scientifico abbia risposte certe in merito. Sui tamponi, per esempio, il 16 marzo, mentre il nostro Paese attraversava la fase più acuta della pandemia di Coronavirus, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) twittava all’indirizzo di tutto il mondo: “Test! Test! Test!”. Test a tappeto, insomma. Un modus operandi che viene rigettato ancora oggi da molti virologi italiani.
PIÙ TAMPONI PIÙ PREVENZIONE? COSA DICE PREGLIASCO
La tesi dell’Oms è che più tamponi vengono eseguiti, più si assicura la prevenzione perché gli infetti non vengono lasciati girare. E’ così? Il tampone offre una istantanea, vale a dire una foto di quel preciso istante. Nulla impedisce a una persona che risulta negativa al test alle 10 del mattino di contrarre il coronavirus alle 10:30. Avremmo in circolazione un soggetto sicuro di essere sano. Anche il virologo Fabrizio Pregliasco, 60 anni, ricercatore dell’Università Statale di Milano e direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi, al Corriere della Sera ha spiegato la debolezza di quell’assunto su cui si fonderebbe il motivo per cui il Veneto sarebbe riuscito a contenere l’epidemia, al contrario della Lombardia: «È una falsità. Lo dicono i numeri: il 24 febbraio la Lombardia esegue 3.689 tamponi contro i 2.200 del Veneto; poi 4.658 contro 3.780; poi ancora 5.829 contro 4.900, e via dicendo. Il problema è che lì c’è stato un focolaio, qui un incendio». Il virologo rigetta quindi con forza l’invito dell’Organizzazione mondiale della Sanità e difende il modello lombardo: «Ai sintomatici viene fatto. Per gli altri, allora, ci vorrebbe per tutti il tampone quotidiano. Perché chi oggi non è infetto lo può essere domani». Anche perché, Pregliasco fa notare: «Se il virus si espande su larga scala fare a tutti il tampone è impossibile e inutile: dice solo se in un determinato momento sei positivo, non se lo diventi il giorno dopo».
La confusione della scienza deve fare poi i conti con il pragmatismo della politica e la scarsità delle risorse, che costringe chi si trova a metà del guardo a esibirsi in spericolate capriole. Come è capitato a Walter Ricciardi, docente universitario di Igiene e Medicina preventiva, membro del Comitato esecutivo dell’Oms, nominato presidente dell’Istituto superiore della Sanità nel 2015 (governo Renzi) per poi dimettersi (qui la ricostruzione di Start sulla vicenda e la nomina al suo posto di Silvio Brusaferro) e ora uomo chiave della task force emergenziale voluta dal ministro della Salute Roberto Speranza di cui Ricciardi è consulente (oltre che membro della commissione di esperti per un’app anti Covid-19). Basta fare qualche ricerca su Google per notare come abbia trattato l’argomento con diverse sfumature. Per esempio, il 17 marzo su Quotidiano.net si legge: Coronavirus, Ricciardi rilancia la linea Oms: “Fare più tamponi”. Sempre il 17 marzo, però, Ricciardi appare sulle reti Mediaset, a Mattino Cinque e ammette: “La nostra capacita di analisi è tale che non riusciamo a farli nemmeno ai sintomatici”. E, come se non bastasse, aggiunge che i test non sono nemmeno infallibili: “In Germania è stato scoperto che il 70% erano falsi positivi”. E il 23 marzo all’Ansa afferma: “Andrebbero fatti ai soggetti sintomatici, anche con sintomi lievi e dunque precocemente e ai soggetti guariti clinicamente per avere una conferma”. E aggiunge: “E’ inopportuno fare i tamponi ai soggetti asintomatici, tranne nel caso dei sanitari in prima linea come già previsto dal comitato tecnico scientifico”. La medesima confusione, come si anticipava, si riverbera anche sull’uso delle mascherine. Proprio ieri ha sottolineato la questione al diretto interessato il giornalista Carlo Gubitosa. Rispondendo infatti a un tweet di Ricciardi in cui il professore cinguettava: “Quando la popolazione potrà usare le mascherine chirurgiche,dopo cioè che saranno garantite a tutti gli operatori,vi sarà la più grande campagna altruistica di massa, molti pensando di proteggersi le indosseranno e invece proteggeranno gli altri, bene così”, il collega evidenzia: “Sono confuso. Il sito @WHO dice che le persone sane hanno bisogno di indossare le mascherine solo se hanno tosse o starnuti, o se si prendono cura di persone sospettate positive al covid-19. Analoghe indicazioni sul web di @istsupsan e @minsalute . A chi dobbiamo dar retta?”. E in effetti, come Gubitosa fa notare, quelle sono proprio le istruzioni “ufficiali”, condivise dallo stesso Istituto superiore della Sanità.
Ecco la replica di Ricciardi: “Questa è ciò che deriva da studi dei migliori scienziati del mondo, ma c’è un trend che vuole che le indossiamo tutti, questo ha senso se la circolazione del virus è così intensa che ognuno potrebbe essere in una fase di contagiosità, in ogni caso i sani non vengono protetti”. Insomma, i sani non vengono protetti, ma sarebbe meglio se le indossassero per non fare circolare il virus. Ma come Repubblica ha sottolineato ieri mattina, la questione mascherine si profila assai più complessa. E nonostante sul sito dell’Oms le istruzioni sull’uso delle maschere siano ancora quelle che abbiamo ormai imparato a memoria (utili per chi è contagiato e dunque contagioso, inutili per i sani), proprio il quotidiano di Carlo Verdelli questa mattina titola: “Il virus circola anche nell’aria. L’Oms si prepara a rivedere le norme”.
Una confusione, quella dell’OMS, che non è certo sfuggita all’ISS, che negli ultimi giorni sembra aver fatto una fuga in avanti, come riporta assocarenews.it, decidendo di stralciare le linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità sull’uso delle mascherine chirurgiche (quindi non filtrate) e mandando al contempo nel panico gli operatori sanitari che ora, a maggior ragione, temono per la propria incolumità e non riescono a comprendere se i dispositivi usati siano o meno sufficienti a operare in sicurezza. (qui l’approfondimento di Start con la situazione e le proteste degli addetti ai 118 in materia di dispositivi di protezione).
Su questo però Ricciardi è sempre stato coerente: «Le mascherine Ffp2 e Ffp3 servono effettivamente a proteggere dal virus ma devono essere utilizzate dal personale sanitario che cura i malati contagiosi». Con il paradosso che se l’OMS estendesse davvero a tutta la popolazione mondiale il consiglio di usare le mascherine, tutti coloro che hanno acquistato (magari a prezzo triplicato) le versioni chirurgiche si troverebbero comunque indifesi rispetto alla virulenza del Covid-19 e avrebbero affrontato anche una spesa inutile. Quindi, se solo esistessero scorte a sufficienza, bisognerebbe dotare il mondo di 7 miliardi di mascherine professionali Ffp2 e Ffp3 e relativi filtri? Dato il costo, le passerà il sistema sanitario nazionale? Domande che fanno il paio con quelle che avremmo sui tamponi: a tappeto o solo a chi ha sintomi? E se non sono infallibili, non rischiano di lasciare circolare chi hai il virus? Ma, soprattutto, l’allarme sanitario non starà forse sfociando in isteria collettiva che ha finito col travolgere anche l’OMS?
Devo indossare una mascherina per proteggermi?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di indossare una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo Coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti o se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo Coronavirus. L’uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani. Infatti, è possibile che l’uso delle mascherine possa addirittura aumentare il rischio di infezione a causa di un falso senso di sicurezza e di un maggiore contatto tra mani, bocca e occhi. Non è utile indossare più mascherine sovrapposte. L’uso razionale delle mascherine è importante per evitare inutili sprechi di risorse preziose.
Da adnkronos.com il 28 aprile 2020. "Non ci resta che sperare che il caldo uccida il virus". E' una battuta, ma non troppo, quella di Andrea Crisanti. Per il virologo dell'università di Padova, il modo in cui è stata impostata la fase 2 è "senza criterio scientifico". "Non vedo il razionale - spiega all'Adnkronos Salute -. Basti pensare a un dato: abbiamo chiuso l'Italia con 1.797 casi al giorno e la riapriamo tutta quanta insieme con 2.200. E' una cosa senza metrica". L'epidemia, osserva il responsabile del Laboratorio di microbiologia e virologia dell'Azienda ospedaliera di Padova, "segue le sue dinamiche, ha un sua logica e noi invece mi sembrerebbe di no. Ci si è mossi senza considerare le differenze regionali, senza valutazioni del rischio. E' chiaro che il rischio è diverso tra regione e regione e non è uno dei fattori che viene valutato. In conclusione, nell'equazione che si sta utilizzando non entra la valutazione del rischio". Quale sarebbe stato un modo alternativo di procedere? "Il metodo alternativo - risponde Crisanti - era aprire in un primo gruppo di regioni, con situazioni differenti a livello epidemiologico e sociale e con diverse capacità di risposta, per capire quale dinamica si sarebbe innescata. In questo modo avremmo potuto testare la capacità di reazione, differenziare e gradualmente aprire tutto il resto". Nella regione dove il virologo lavora, il Veneto, "ci si è preparati per la fase 2 - assicura l'esperto -. Il Veneto ha fatto grossi investimenti, ha comprato macchinari e ora è in grado, considerando tutta la rete, di viaggiare al ritmo di 18 mila tamponi al giorno".
Coronavirus, Andrea Crisanti: “Errori di Ricciardi e Oms: perso un mese sugli asintomatici”. Virologo e direttore della Microbiologia dell’Università di Padova - Il “padre” del metodo veneto: “La Cina ha mentito, chi controllava?” Andrea Tornago il 4 aprile 2020 su Il fatto Quotidiano. “A Vo’ abbiamo trovato una percentuale spaventosa di asintomatici, quasi il 50 per cento degli infetti. E la loro carica virale è risultata la stessa dei sintomatici. Se questi soggetti non vengono tracciati e isolati nella popolazione generale, l’epidemia continuerà ad alimentarsi”. Andrea Crisanti è virologo e direttore della Microbiologia dell’Università di Padova.
L'accusa del virologo Crisanti: "Errori di Ricciardi e dell'Oms: perso un mese su asintomatici. Dito puntato anche contro i cinesi: "Hanno mentito al mondo e non hanno comunicato il tema fondamentale della trasmissione". Luca Sablone, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. L'epidemia potrebbe continuare ad alimentarsi se gli asintomatici non vengono tracciati e isolati nella popolazione generale: questo l'avvertimento lanciato da Andrea Crisanti, alla luce della "percentuale spaventosa" trovata a Vo' (quasi il 50% degli infetti). Il virologo non ha utilizzato mezzi termini per parlare di quello che giudica un "atteggiamento irresponsabile" da parte dell'Oms, che continua a dire che la trasmissione avviene da soggetti sintomatici: eppure 30 giorni fa tramite la Regione Veneto questi dati sono stati trasmessi, ma per Walter Ricciardi - consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza - non potevano essere presi in considerazione "senza una pubblicazione scientifica". L'articolo adesso è pronto e si attende la revisione "di una delle più prestigiose riviste del mondo". Non è mancato un monito nei confronti di Roma: "Hanno perso tempo prezioso, non è così che si affronta un'epidemia". Il direttore della Microbiologia dell'Università di Padova non ha voluto attaccare l'operato del governo. Il suo dito è infatti puntato contro l'Oms: "I cinesi hanno mentito al mondo e non hanno comunicato il tema fondamentale della trasmissione del virus da soggetti asintomatici. Ma l'Oms, che è andata in Cina a fare ispezioni con una task force, che controlli ha fatto?".
Tutti gli errori dell'Oms secondo il virologo Walter Pasini: "Non ha una leadership credibile". (PRIMAPRESS 23 Marzo 2020). Non è il momento delle polemiche. Suona come un mantra l’affermazione che viene da più parti per evitare lo scollamento tra le azioni della governance ed il resto del paese durante l’emergenza sanitaria da coronavirus. La pandemia, tuttavia, sta mettendo in rilievo le criticità profonde non non solo del nostro paese ma anche di organizzazioni mondiali che stanno mostrando un deficit di di autorevolezza. A tirare un sasso nello stagno contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) è il virologo Walter Pasini. “Di fronte all’emergenza sanitaria internazionale causata dal COVID-19 sono emerse in tutta la loro evidenza i limiti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità” dichiara Pasini. Un attacco forte ma che in fondo, interpreta quello che in molti abbiamo pensato quando nel giro di pochi giorni l’Oms è passato dal negare l’epidemia alla conferma della pandemia. “La pandemia dovrebbe essere gestita a livello internazionale da una leadership molto più competente, autorevole ed efficiente - sbotta Pasini - Non vi è dubbio che sono stati commessi errori importanti: nella prima riunione dell’OMS sul coronavirus non fu dichiarato lo stato di emergenza sanitaria perché-fu detto- non c’era evidenza di catene di trasmissioni negli altri Stati, posizione corretta di lì a pochi giorni. La definizione di “pandemia” per definire l’emergenza, fu data solo l’11 marzo quando era evidente da molto che l’ondata epidemica interessava tutto il globo”. Anche l’analisi dei tempi in cui l’organizzazione della sanità ha spinto per una più massiccia copertura di test è stata piuttosto tardiva. La posizione iniziale fu quella di raccomandarli solo ai casi sintomatici, per poi correggersi nei giorni scorsi con il richiamo del Direttore generale: Test, test, test! “Questa posizione sbagliata - sostiene ancora Pasini - ha indotto in errore il nostro Comitato tecnico scientifico ed il governo che fino ad ora non ha investito risorse ed uomini nell’effettuare i test diagnostici col tampone a tutto il personale sanitario, ai farmacisti, ai casi sospetti per poi isolare i malati, tracciare i contatti e testarli per ricercare la positività al coronavirus. Questo errore dell’OMS e quindi del nostro Comitato T.S. ha fatto sì che in Italia non si conosca la reale dimensione del contagio, che non si possa stanare il virus e controllare l’epidemia. Il distanziamento sociale - spiega ancora il virologo - senza sorveglianza attiva con i test diagnostici ai casi sospetti ed ai contatti è insufficiente. Per fortuna in questi giorni si cercherà di rimediare a quell’errore seguendo l’esempio coreano”. All’Oms, secondo il medico, deve essere attribuito anche l’errore di disconoscere l’importanza degli asintomatici nelle catene di trasmissione e l’errore di non aver richiamato la necessità di una travel restriction, nei confronti della Cina quando l’epidemia divampava a Wuhan, rimanevano attivi i tre voli settimanali da e per Wuhan con Milano e Roma e si lasciava che cittadini della Cina portassero nel mondo l’infezione. “Vi è dunque la necessità - conclude Walter Pasini - di ripensare e rifondare l’OMS, ridarle peso scientifico, autorevolezza. La mancanza di una leadership credibile in questo momento è drammatica”.
L’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’.
Tamponi e quarantena: nemmeno al personale sanitario, divenuto il principale untore della pandemia.
Paolo Russo per “la Stampa” il 19 maggio 2020. Un rapporto sbagliato dell' Istituto superiore di sanità (Iss) su come eseguire i tamponi, poi corretto, ma che circola ancora nel web. E poi controlli eseguiti prima che il virus sia rilevabile. Sono queste le cause principali dei tanti falsi negativi al Covid, anche con polmoniti conclamate. Un problema denunciato dal Presidente del Sis 118, Mario Balzanelli e dal virologo dell' Università di Milano, Fabrizio Pregliasco. E che i falsi negativi siano più di quanto si immagini lo rivela uno studio della prestigiosa Johns Hopkins School of Public Health, che tra i tamponi eseguiti al quinto giorno dall' infezione ha scoperto ben il 38% di falsi negativi, percentuale che scende al 20% all' ottavo giorno, che è quello consigliato dagli autori dello studio per eseguire il test. Tutto il contrario di quello che raccomanda uno degli indicatori del monitoraggio epidemiologico a cura di Iss e Ministero della salute,che invece punta a un' esecuzione entro tre giorni. Ma il problema non è solo quando ma anche come si fanno. A svelare il giallo dell' errato rapporto dell' Iss, numero 11 del 7 aprile è il Professor Gaetano Libra, otorino laringoiatra con una lunga carriera alle spalle presso l' Ospedale Maggiore di Bologna. «In quel testo -spiega- si indica una posizione verticale obliqua del tampone, anziché orizzontale rivolta in direzione del canale uditivo, come dovrebbe essere. Con il rischio che, eseguito in questo modo, il tampone non raggiunge la zona dove si raccolgono muco e secrezioni nei quali va ricercato il virus. Inoltre in questo modo c' è il serio rischio di lesioni al cervello e al bulbo olftattivo». Gli esperti dell' Iss in effetti se ne accorgono e il 17 aprile pubblicano con lo stesso numero e la sigla Rev il rapporto con le istruzioni corrette. Ma non cancellano il primo, che quando si vanno a ricercare nel web le istruzioni sul test diagnostico compare puntualmente sullo schermo, dove è invece difficile trovare il documento corretto. «Un problema di non esatta esecuzione dei tamponi esiste, anche perché per molti operatori travolti dall' emergenza eseguirli è stata una novità e la confusione sulle linee guida non aiuta di certo», ammette Gianpiero D' Offizi, primario infettivologo dello Spallanzani di Roma. Anche Pregliasco parla di difficoltà nella corretta esecuzione dei tamponi. «A volte vengono eseguiti in modo troppo delicato per paura di far male, ma il problema maggiore sono i falsi negativi che risultano tali perché la carica virale è bassa e non viene rilevata dal test». Un aiuto arriva però da quelli sierologici, che servono a rilevare gli anticorpi, ma che in Lombardia, Toscana, Veneto e Lazio dove è iniziata la campagna di screening hanno permesso di scoprire sul totale della popolazione a rischio sottoposta a controllo un 25-30% di asintomatici, che rappresentano le vere mine biologiche vaganti della fase 2.
Tamponi, guida errata dell'Iss: "Rischio di lesioni al cervello". Il 7 aprile il primo rapporto sul prelievo del test. L'Iss lo modifica 10 giorni dopo, ma è ancora online. "Rischio falsi negativi". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 19/05/2020 su Il Giornale. “È vero: sono stati rilevati casi simil-Covid con tampone negativo e polmonite interstiziale, e questi casi preoccupano perché potrebbero sfuggire”. La conferma era arrivata un paio di giorni fa da parte del virologo dell'Università di Milano Fabrizio Pregliasco. E faceva seguito all’allarme lanciato da Marzio Balzanelli, presidente nazionale della Sis 118. Un problema che in vista della fase 2 rischia di mandare in circolazione tante persone infette, ma non rilevate, e dunque potenzialmente contagiose. Un pericolo che sembra essere alimentato da due fattori: il fatto che l'esame spesso venga realizzato "troppo in anticipo"; oppure la presenza di "falsi negativi". E chissà se i "falsi negativi" non sono provocati anche da quel documento "errato", redatto dall’Istituto Superiore di Sanità, su come eseguire i tamponi. Il rapporto in questione è quello del 7 aprile, il numero 11. Stando a Gaetano Libra, otorino laringoiatra dell’Ospedale Maggiore di Bologna, contiene un errore da matita rossa: "In quel testo - ha spiegato alla Stampa - si indica una posizione verticale obliqua del tampone, anziché orizzontale rivolta in direzione del canale uditivo, come dovrebbe essere. Con il rischio che, eseguito in questo modo, il tampone non raggiunge la zona dove si raccolgono muco e secrezioni nei quali va ricercato il virus. Inoltre in questo modo c'è il serio rischio di lesioni al cervello e al bulbo olftattivo". Il 17 aprile, va detto, l'Istituto guidato da Silvio Brusaferro ha corretto il documento pubblicando la versione corretta. Sorvoliamo sul fatto che prima della modifica sono passati quasi 10 giorni (in cui chissà come sono stati realizzati i test), ma il problema è che ancora oggi quel testo rischia di provocare incomprensioni. Se infatti sui motori di ricerca si inserisce il titolo "Raccomandazioni per il corretto prelievo del tampone", il primo link a comparire rimanda al vecchio rapporto (quello sbagliato) e non alla successiva revisione. Le differenze sono evidenti. Per quanto riguarda l'esame "rino-faringeo" (ovvero dal naso), il 7 aprile l'Iss scriveva che l'operatore sanitario doveva "invitare il paziente ad assumere una posizione eretta con la testa leggermente inclinata all’indietro", "inserire il tampone nella narice e spingerlo lungo la cavità nasale per circa 2,5 cm in modo da raggiungere la parte posteriore della rinofaringe". Poi doveva "ruotarlo delicatamente" e ripetere la manovra nell'altra narice. Il tutto era accompagnato da un disegno eloquente. Molto diversa invece la seconda versione, quella del 17 aprile, dove la testa non è più rivolta all’indietro ma anzi "leggermente inclinata in avanti" (il contrario). L'operatore inoltre non deve più spingere il tampone "lungo la cavità nasale per circa 2,5 cm", ma orientarlo "verso il rinofaringe (che esternamente corrisponde al condotto uditivo esterno) e spingerlo lungo il pavimento nasale per circa 6-8 cm in modo da raggiungere la parte posteriore della rinofaringe". E poi non deve limitarsi a "ruotarlo delicatamente", ma ricordarsi di farlo “in senso orario e/o antiorario". Alcune differenze compaiono anche sull'esecuzione del tampone "oro-faringeo" (cioè in bocca). Se nella prima versione si chiedeva di "strofinare la zona tonsillare", nella revisione è precisato invece che il tampone deve arrivare fino alla "zona retro-tonsillare”. E non sono differenze da poco.
Alberto Zangrillo a Libero, il coronavirus e gli errori di governo ed esperti: "La scienza non dice di restare distanti". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 maggio 2020. Più che di fase 2 bis, da oggi sarebbe il caso di parlare di fase Post. Post come il dopo di una guerra, post come un messaggio virale di speranza da pubblicare online. Ma P.O.S.T. anche come il protocollo messo a punto dal professor Alberto Zangrillo, primario di Terapia intensiva generale e cardiovascolare del San Raffaele di Milano. Un acronimo per avviare la ripartenza, oltreché con la giusta cautela, anche con buon senso e spirito costruttivo. Senza più forme di terrorismo psicologico.
Professor Zangrillo, il Paese è già pronto per la fase 3, cioè per una totale riapertura del sistema produttivo e una ripresa vera della socialità?
«Il paese deve essere pronto per la fase 3. L'osservazione clinica sta producendo tutti gli elementi utili non per fare la scelta coraggiosa, ma quella razionale che avvia la fase della ripresa. Il protocollo è la base scientifica di una corretta ripartenza. Finora abbiamo vissuto di proiezioni statistiche, epidemiologiche, matematiche, ma non di dati clinici. Chi ha conosciuto il virus sul territorio e soprattutto in ospedale non ha avuto la possibilità di essere ascoltato dal Comitato tecnico-scientifico».
La prima lettera del POST è la P di "prudenza". A suo giudizio bisognerebbe essere più prudenti per tutelare gli over 65?
«Le indicazioni del governo riguardano tutti allo stesso modo. Ma, sulla base di un lavoro svolto su più di 4500 pazienti, siamo giunti alla conclusione che esiste una categoria ben precisa di cittadini che possono sviluppare la forma più grave dell'infezione virale. È nei loro confronti che dobbiamo esercitare prudenza, ossia le stesse norme di buon senso che finora hanno saputo manifestare gli italiani. Per capirci: impedire la socializzazione dei ragazzi è un controsenso, se poi non si controlla il giovane adulto di 18-20 anni che va a trovare il nonno. Allo stesso modo: che senso ha distanziare di due metri il nucleo familiare che va al ristorante, se poi quel nucleo è abituato a condividere gli stessi spazi a casa nella sala da pranzo?».
"O" di Organizzazione, "S" di Sorveglianza e "T" di Tempestività. Me le spiega?
«Si tratta di organizzare un sistema triangolare in cui l'istituzione ospedaliera, la sanità regionale e il medico di medicina generale sono in collegamento per sorvegliare i soggetti a rischio. E questo al fine di agire con tempestività. La cura tempestiva a domicilio, se adottata correttamente, è una cura efficace. Anche la tempestività della cura ospedaliera produce effetti positivi che non possiamo raggiungere se il paziente viene portato in ospedale troppo tardi».
Le altre misure volute dal governo sono efficaci? Penso a distanziamento e mascherine.
«Più che del governo, è una competenza del Comitato tecnico-scientifico. E comunque non c'è alcuna evidenza scientifica per cui dobbiamo stare distanti, tanto più se questa misura è basata sulla logica del centimetro. E poi: sette metri quadrati a testa in piscina? Su quale base? Quanto alla mascherina, finché non avremo certezza che i principi suddetti, la protezione degli anziani e il buon senso, vengono applicati, resta una tutela generica. Del resto sulle mascherine si è creata una dialettica che ha rasentato il ridicolo: siamo passati dall'esasperata ricerca della mascherina che rispondesse ai criteri più rigorosi al proporre quella fatta in casa. Eppure il cittadino italiano ha mediamente dimostrato di essere responsabile e disposto a ogni sacrificio. Bisogna parlargli come a un adulto; non come a un bambino che non possiede tutti gli strumenti della comprensione».
L'app Immuni servirà a qualcosa?
«Non sono appassionato al tema, ma credo che abbia l'aspettativa di vita di una farfalla».
Idati clinici invece cosa ci dicono?
«Noi stiamo producendo una serie di ricerche cliniche. Esse prevedono l'arruolamento di pazienti contagiati in forma grave, non necessariamente in terapia intensiva. Ma questi pazienti fortunatamente non li troviamo più al San Raffaele almeno da un mese. Questo non vuol dire necessariamente che il virus sia mutato, ma potrebbe essere mutata l'interazione tra il virus e l'uomo. Se prima il virus dava un certo impatto sui recettori dell'albero respiratorio, scatenando una forte reazione infiammatoria, ora questo non lo osserviamo più. Insomma, ci stiamo abituando a convivere con il virus. Ed è tutto da dimostrare che in autunno il virus tornerà minaccioso. Anche se fosse, non ci troveremmo impreparati, perché ora conosciamo molto più del virus e molto di più delle cure e siamo molto più attrezzati a livello territoriale e ospedaliero».
Per qualsiasi evenienza, è giusto aumentare il numero dei posti di terapia intensiva?
«No, ritengo assolutamente fuori luogo pensare di risolvere il problema investendo su un raddoppiamento delle terapie intensive. Innanzitutto la terapia intensiva non è solo una struttura sanitaria, ma soprattutto un gruppo di lavoro. Per pensare di raddoppiare le terapie intensive bisogna pensare a chi ci va a lavorare. Ci vuole un gruppo di lavoro molto competente e addestrato e anche molto affiatato. Non è come raddoppiare i supermercati, i barbieri o le piscine. In secondo luogo, gli eventuali nuovi posti di terapia intensiva dovrebbero essere creati vicino alla struttura ospedaliera cui fanno riferimento, econ lo stesso gruppo di lavoro che opera nelle terapia intensive dell'ospedale. Ma soprattutto le terapie intensive, che erano il primo problema nella fase 1, adesso devono diventare l'opzione estrema. Dobbiamo fortificare piuttosto la medicina del territorio e la collaborazione tra medico di base e ospedale».
Parlando di terapie, so che al San Raffaele state sperimentando con successo un farmaco contro l'artrite reumatoide.
«In tutta Italia ci sono sperimentazioni cliniche importanti. Noi, in collaborazione con altri centri di ricerca, stiamo avendo evidenze di rilievo nel campo degli antinfiammatori, degli antivirali e dei farmaci immuno-modulanti. Ma ricordiamolo: al momento la cura specifica anti-Covid non esiste».
E che mi dice del plasma iperimmune?
«È un'opzione terapeutica che deve assolutamente essere sperimentata per vedere se è in grado di produrre delle evidenze nella cura del malato. Se è così, è la benvenuta. Il tanto clamore intorno al plasma forse nasce dal fatto che se ne è parlato in termini troppo entusiastici prima ancora dell'ottenimento di un risultato. Ma siamo lontani dal dimostrare che è una cura specifica».
A suo giudizio arriverà prima il farmaco anti-Covid o il vaccino? O magari il virus si estinguerà prima di entrambi?
«Se dovessi fare una scommessa, punterei una fiche su quest' ultima opzione».
Coronavirus e quarantena: “Non bastano 14 giorni, ne servono 28”. L'annuncio della Lombardia. Le Iene News l'11 aprile 2020. Lo ha annunciato l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera: “Molte persone poi sono ancora positive, a garanzia di tutti allunghiamo il periodo. L'idea, poi, è di fissarlo a 28 giorni in via definitiva”. Noi de Le Iene abbiamo sollevato questo tema con il caso del nostro Alessandro Politi. “Non bastano 14 giorni in quarantena per gli infetti da coronavirus, l’idea è portarla fino a 28”. L’annuncio arriva direttamente dall’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera, che ha fatto sapere nella quotidiana conferenza stampa della regione che “sta uscendo una linea guida che prevede che la quarantena duri fino al 3 maggio”. E questo perché sembra proprio che il periodo inizialmente indicato non sia sufficiente. “I 14 giorni servono per vedere se compaiono i sintomi del coronavirus, ma molte persone poi sono ancora positive al tampone quindi a garanzia di tutti allunghiamo il periodo. L'idea, poi, è di fissarlo a 28 giorni in via definitiva". Insomma un cambiamento importantissimo su un tema cruciale, sollevato da noi de Le Iene con il racconto del nostro Alessandro Politi. La Iena è infatti risultata positiva al coronavirus il 7 marzo, ma a distanza di un mese dalla scomparsa dei sintomi il suo tampone purtroppo è ancora positivo. “Saranno sufficienti 14 giorni di quarantena?”, ci eravamo chiesti. A quanto pare no, se la Lombardia sente l’esigenza di raddoppiare questo periodo per i positivi. E proprio del rischio che i 14 giorni fossero insufficienti avevamo parlato anche con il professor Bassetti dell’ospedale San Martino di Genova, che ci aveva confermato come fosse possibile rimanere positivi anche ben oltre quella data: “Noi controlliamo il tampone al 21° giorno: la maggioranza dei casi non si risolve entro i 14 giorni. C’è comunque una percentuale di soggetti che continua a essere positivo in assenza di sintomi anche dopo tre settimane”, ci aveva detto l’infettivologo. E con Greta, una ragazza italiana che vive a Shanghai, vi abbiamo mostrato come la quarantena in Cina per chi rientri dall'estero può durare fino a 28 giorni. Su questo tema era intervenuto anche il Codacons che, dopo l’intervento del nostro Alessandro Politi, aveva sollevato “la necessità di revisione del periodo inerente la misura della quarantena delle persone sospettate di avere contratto il virus”. Necessità che a quanto pare la regione Lombardia adesso ha sentito il dovere di recepire. Resta però ancora aperta la questione di chi non ha potuto ricevere il tampone: anche per loro è necessario allungare il periodo dei 14 giorni? Speriamo che si faccia presto chiarezza anche su questo.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 4 maggio 2020. Il virus è un nemico molto meno temibile. Eppure oggi il nostro Paese riparte col freno a mano tirato, a causa di un governo che manca di coraggio e infonde paura. Per proiettare uno sguardo ottimistico sul domani conviene lasciar perdere i menagramo e sentire le parole di Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive presso l' ospedale San Martino di Genova.
Professor Bassetti, in Italia calano contagi e ricoveri in terapia intensiva. Il virus è diventato più innocuo?
«Sicuramente ha perso velocità di trasmissione. A marzo questo virus, per quantità di contagi e vittime, era uno tsunami. Ora è diventato un' ondina, trasformandosi in quella che in Liguria chiamiamo bulesemme, una brezza movimentata. Dobbiamo capire se abbia perso anche forza: a metà marzo molti contagiati rischiavano di morire già in ambulanza. Ora non più. Forse è perché il virus ha già colpito i soggetti più fragili, facendo una selezione naturale. O forse si è depotenziato. Non ci sono dati scientifici, ma è un' impressione condivisa da molti infettivologi».
L' indice di contagio, l' R0, è già sotto l' 1. Possiamo dirci fuori dall' epidemia?
«È evidente che siamo in una fase di discesa della curva. Tra metà maggio e inizio giugno dovremmo poter considerare concluso questo focolaio epidemico».
Quali fattori hanno consentito tale risultato?
«La cosa che ha influenzato di più è stata il distanziamento sociale. Anche nelle terapie sui pazienti sono stati fatti passi avanti, ma dovremo utilizzare la fase 2 per studiare quali farmaci siano efficaci, facendo una specie di eliminatorie: ossia mettere a confronto due farmaci alla volta e verificare quale funzioni meglio. In ogni caso è fondamentale che venga sentito il parere di chi ha visto il virus in faccia: rianimatori, anestesisti, medici di pronto soccorso. Abbiamo avuto troppi teorici e pochi clinici nelle task force. Sarebbe il momento di cambiare».
Con questa situazione tenere molte attività lavorative chiuse è un errore?
«Se i numeri sono questi, credo che si possa davvero ripartire, valutando la diversità di situazioni tra regione e regione. In più bisognerebbe considerare cosa fanno gli altri Paesi. In Olanda le scuole riaprono l' 11 maggio e molte attività produttive non si sono mai fermate. Lo stesso giorno in Francia riaprirà quasi tutto. Loro ripartono, noi siamo fermi».
Autobus sì, negozi no. Funerali sì, messe no. A livello sanitario e logico le sembrano misure sensate?
«Quando si vuole regolamentare troppo, si rischia di entrare in contraddizione. Bisognerebbe dare delle regole generali, non disciplinare ogni attività. Basterebbe dire: c' è bisogno di un tot di metri di distanza in qualsiasi luogo, che sia una chiesa o un supermercato non importa».
Secondo il comitato tecnico scientifico, riaprendo tutto, a giugno i ricoveri in terapia intensiva potrebbero arrivare a 151mila.
«Mi pare evidente che quei numeri siano troppo grossi, sovrastimati. Sarebbero stati esagerati anche nel periodo iniziale, quello dello tsunami. Ma i modelli matematici sono così. A volte non ci azzeccano».
Così il governo non rischia di fare solo terrorismo psicologico?
«In realtà la popolazione è già terrorizzata e ci vorranno molti anni per uscire dal vicolo cieco della paura. Anche da parte dell' Oms e di altri colleghi c' è stata una gara a dare cattive notizie. Sull' immunità ad esempio si è sottolineato il fatto che non sappiamo quanto duri. E invece si poteva evidenziare il messaggio che ragionevolmente tutti i guariti diventano immuni».
L' app Immuni servirà?
«Sarebbe fantastico avere un' app che tracci i contatti di ogni contagiato. Il problema è che, affinché sia efficace, essa dovrebbe essere obbligatoria e non volontaria. Se io monitoro solo il 60% dei cittadini, è verosimile che in quel 40% mancante ci siano migliaia di contagiati. Così lo sforzo di tracciamento diventa vano».
Giusto invece indossare sempre mascherine?
«Sì, ma solo quando non si può mantenere il distanziamento sociale. Inviterei i cittadini a ricorrere a quelle chirurgiche, in modo da lasciare FFP2 ed FFP3 al personale sanitario. Eviterei invece barriere in plexiglas nei ristoranti. Non mi sembra una misura di buon senso».
Il virus potrà estinguersi prima che venga trovato il vaccino?
«Non credo, dovremo conviverci per anni. In ogni caso, se manteniamo un atteggiamento responsabile, non dovremmo avere altri disastri. Potrebbero sorgere micro-focolai, con poche persone infettate. È vero, il caldo non ammazzerà il virus, ma il contagio in autunno dovrebbe ripresentarsi in versione ridotta».
Che responsabilità ha avuto la comunità scientifica nel creare confusione?
«Tutti noi abbiamo fatto previsioni sbagliate in buona fede. Ma bisogna riconoscere che all' inizio ci siamo basati su dati che arrivavano dall' altra parte del mondo, articoli scientifici cinesi che spesso erano incompleti o non veritieri. Per quanto mi riguarda, ho subito attacchi indecorosi da parte di molti colleghi per aver detto a febbraio che il tasso di letalità del virus era molto basso. Ora dovrebbero darmi ragione: le stime sui contagi reali confermano che questo virus ha un' altissima contagiosità ma una letalità inferiore all' 1%. Inoltre molte vittime positive al tampone sono morte con il coronavirus ma non di coronavirus».
Lei è stato tra i primi a sperimentare in Italia il Remdesivir, il farmaco anti-Ebola, per la lotta al Covid. Uno studio cinese lo ha bocciato, mentre negli Usa sta dando ottimi risultati. Chi ha ragione?
«Negli ultimi due mesi la letteratura scientifica ha prodotto lavori eccezionali ma anche spazzatura. C' era talmente tanta voglia da parte delle riviste di pubblicare un articolo sul Covid che spesso sono stati tirati fuori studi mediocri. Quello cinese è tra questi: hanno provato a dimostrare l' inefficacia del Remdesivir prima di raggiungere il numero di pazienti previsto dallo studio. Viceversa in America Anthony Fauci ha dimostrato, testando il Remdesivir su 1000 pazienti, che questo farmaco riduce mortalità e giornate di ospedalizzazione. Noi al San Martino lo abbiamo utilizzato già a fine febbraio, somministrandolo a 5 persone, tutte guarite. E ora c' è la speranza che l' Aifa e l' azienda che produce il farmaco, la Gilead, inseriscano il nostro tra gli ospedali italiani che possono continuare a sperimentarlo».
Coronavirus, l'infettivologo Bassetti: “Anche danni permanenti per chi è guarito”. Matteo Gamba il 25 aprile 2020 su Le Iene News. L’intervista di Iene.it a Matteo Bassetti che ci parla anche di quanti giorni servono per la quarantena, di mascherine “altruiste” e “egoiste”, della Fase 2 e del perché il Covid-19 si è diffuso così tanto in Italia. “Il coronavirus ha un impatto molto forte sul fisico e potrebbe lasciare danni permanenti in alcuni guariti”. A dirlo a Iene.it è Matteo Bassetti, direttore della clinica malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia anti-infettiva. Che in un’intervista telefonica ci parla anche di quanti giorni servono per la quarantena, di mascherine “altruiste” e “egoiste”, della Fase 2 e del perché il Covid-19 si è diffuso così tanto in Italia.
Professor Bassetti quali sono gli effetti che lascia il coronavirus in chi l’ha superato?
“Qui al San Martino abbiamo già organizzato un’équipe per vedere quali saranno a lungo termine, tra sei mesi, un anno. Per ora li conosciamo solo da 8 settimane. Penso, ma sono solo previsioni mentre stiamo studiando questa malattia, che chi ha avuto sintomi lievi o medi tornerà quello di prima. Magari dopo un po’ di tempo: si registrano a volte per settimane la mancanza di gusto e olfatto o una stanchezza mostruosa, da non farcela ad alzare una gamba o un braccio dal letto. Parliamo infatti di un virus dall’impatto molto forte sul fisico, anche in chi è più giovane. È un po’ come moltiplicare i postumi di un’influenza per due o tre volte”.
Sarà così per tutti?
“No, per alcuni anziani che hanno avuto una polmonite interstiziale e bisogno di aiuto ospedaliero a respirare, le conseguenze potrebbero essere permanenti sull’apparato respiratorio. Più difficile che lo siano su cuore, fegato, reni, sistema nervoso, apparato digerente. Del resto, il 40-50% di questi pazienti è dovuto già restare in ospedale per altre cure dopo che si erano negativizzati”.
Quando fa il tampone per verificare la guarigione?
“21 giorni dopo i primi sintomi, a prescindere da quando è stato fatto il primo tampone in ospedale, in media 10 giorni dopo il manifestarsi della malattia. All’inizio lo facevamo, secondo quanto veniva indicato dall’esperienza cinese, dopo due settimane: abbiamo visto però che c’erano ancora tantissimi positivi”.
La Iena Alessandro Politi è risultato positivo dopo 45 giorni. Basta la quarantena di 14 giorni per chi magari non ha fatto nessun tampone?
“È potenzialmente un rischio. Ci sono grandi variabilità da persona a persona come succede per tutti i virus. Abbiamo verificato che ci sono persone che ‘negativizzano’ anche dopo 45-50 giorni. Se non si può fare un secondo tampone, sicuramente bisogna sempre portare, se si esce, almeno una mascherina. Del tipo giusto però”.
Cioè?
“Quella chirurgica, contenitiva e ‘altruista’, che evita anche di contagiare gli altri. Io per strada non la metto, ma la uso in qualsiasi contesto in cui si può diffondere il virus. Meglio evitare le FFP2 con la valvola per esempio, che sono ‘egoiste’ e magari proteggono solo chi le indossa. E anche tutte le mascherine fai-da-te che vediamo in giro. Le FFP3 lasciamole invece a infermieri e medici, a chi entra in contatto con i malati con rischi alti…”.
Sta per partire la Fase 2. Lei ha detto: “Altro che scuole, bisognava chiudere gli anziani in casa”.
“Non voglio entrare in nuove polemiche: se uno dice il suo parere scientifico sembra che voglia attaccare un politico o un altro. Dico soltanto che quelli che sono stati colpiti dal coronavirus non sono stati i bambini ma gli anziani. È su di loro che bisognerà concentrarsi, con orari differenziati per andare a fare la spesa e per uscire e con ogni misura possibile. Per la Fase 2 bisogna guardare anche a cosa stanno facendo gli altri in Europa”.
Andando in quale direzione?
“Noi italiani siamo stati bravissimi a gestire l’emergenza sanitaria, su questo siamo stati campioni del mondo: tutti i malati in ospedale hanno avuto un posto letto e sono stati assistiti al meglio. Ora la Germania riparte, la Svizzera non si è quasi mai fermata, la Spagna sta riaprendo, la Francia sta per farlo. Quest’epidemia ci ha insegnato come l’Europa debba essere ripensata anche dal punto di vista sanitario, ci vorrebbe una cabina di regia unica su questa Fase 2, mentre all’inizio ogni Paese è andato per la sua strada in maniera scomposta e scoordinata. Meglio ripartire anche noi, insieme e con buon senso”.
Gli italiani hanno dimostrato buon senso?
“Almeno prima della pandemia spesso è mancato. Perché noi abbiamo avuto così tanti casi? Siamo il Paese in cui se uno ha la febbre si vanta di andare al lavoro lo stesso, quando invece bisogna stare a casa con qualsiasi tipo di malattia. Lavarsi le mani? In Italia mancano i distributori di sapone e la carta per asciugarsi in tantissime scuole, stazioni, bagni pubblici. Bisognerebbe ripartire investendo anche su materiali e cultura epidemiologica per abbassare tutti i tipi di contagio. Coronavirus in testa. Dal punto di vista infettivologico siamo molto ineducati”.
Codacons: “Dopo il video della Iena Politi, allungate la quarantena per chi ha sintomi sospetti”. Le Iene News il 10 aprile 2020. Dopo aver preso in considerazione la testimonianza della Iena Alessandro Politi, ancora positivo al coronavirus dopo 30 giorni, il Codacons presenta un’istanza al ministero della Salute. Dopo il video della Iena Alessandro Politi il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori) ha presentato un’istanza al ministero della Salute e al Commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri, per chiedere “la necessità di revisione del periodo inerente la misura della quarantena delle persone sospettate di avere contratto il virus”. La Iena Alessandro Politi, in un video pubblicato il 6 aprile, che potete vedere qui sopra, ha raccontato di essere ancora positivo al coronavirus dopo 30 giorni dal primo test, anche se i sintomi si sono per fortuna risolti quasi subito. Questo gli ha fatto porre una domanda: quante persone con la sua stessa sintomatologia non hanno ricevuto il tampone, e dopo due settimane di isolamento potrebbero essere uscite pur essendo ancora contagiose? “Il 5 marzo mi sono svegliato con un forte mal di testa, febbre alta e un po’ di tosse”, ha raccontato la Iena. “In quel momento non c’erano ancora i decreti di chiusura. Provo in tutti i modi a farmi fare un tampone, anche se non vogliono farmelo perché non ho una sintomatologia così grave. Comunque in ospedale spiego che sono un giornalista e sarei potuto entrare in contatto con tantissime persone". Dopo un po’ di titubanza il personale accetta e l’esito del tampone è chiaro: positivo al COVID-19, l’ormai famoso coronavirus. “La cosa sorprendente è che la sera stessa con una tachipirina la febbre è passata, il giorno successivo avevo meno sintomi e al terzo giorno non avevo più niente. Se non avessi fatto il tampone, avrei pensato di avere un’influenza”. Passato il periodo obbligatorio di quarantena, è il momento di rifare il test: per essere considerati guariti, infatti, servono due tamponi consecutivi negativi. “Io stavo bene, ma dopo 17 giorni ero ancora pienamente positivo. Passano altri dieci giorni e il 3 aprile faccio un altro tampone. Ormai è quasi un mese che sono senza sintomi, ma l’esito è sempre lo stesso: pienamente positivo”. È qui che ad Alessandro Politi sorge un dubbio: “Perché le istituzioni permettono a persone che hanno avuto i miei stessi sintomi di uscire di casa dopo 15 giorni” senza aver ricevuto un tampone? “Quante persone potrebbero essere a lavorare con il rischio di diffondere il virus?”. Eh sì, perché fino a un po’ di tempo fa alle persone con sintomi lievi come il nostro Alessandro Politi il tampone non veniva proprio fatto, ma si doveva 'solo' rispettare la quarantena alla fine della sintomatologia. Presa in considerazione la testimonianza di Alessandro Politi, il Codacons ha presentato istanza formale affinché si verifichi “la necessaria quarantena per i soggetti sospettati di avere contratto il virus senza saperlo, e quindi disporre un periodo di quarantena più lungo di quello attualmente previsto pari ad almeno 40 giorni”. Del caso di Politi abbiamo parlato anche con il professor Matteo Bassetti, il direttore della clinica di malattie infettive di Genova, che ci ha spiegato come quello della Iena non sia un caso isolato. “E’ importante intanto distinguere due cose: un conto è il tempo di incubazione, che può arrivare al massimo a 14 giorni. Su questo dato si era detto inizialmente che la quarantena dovesse durare 14 giorni”, ci spiega il professor Bassetti. “Per quanto riguarda l’evoluzione della malattia, abbiamo scoperto come sia ampiamente variabile: c’è chi ha pochissimi sintomi, tanto che nemmeno si accorge di esser stato malato, e chi invece sviluppa sintomi seri fino alla polmonite che richiede il ricovero. La sintomatologia è così variabile che è difficile tracciare tutti i malati”. Per quanto tempo quindi una persona, magari poco sintomatica, resta positiva? “E’ molto variabile, ma oggi al San Martino noi controlliamo il tampone al 21° giorno: la maggioranza dei casi non si risolve entro i 14 giorni. C’è comunque una percentuale di soggetti che continua a essere positivo in assenza di sintomi anche dopo tre settimane”, ci dice Bassetti. E come ci racconta Greta, italiana in Cina, nella sua provincia la quarantena è di 28 giorni nel caso tu sia stato in un ambiente in cui ci sono stati dei contagi. È il caso quindi di cambiare le linee guida vigenti nel nostro Paese?
Coronavirus. Patto Professione Medica attacca Iss e Protezione civile: “Su Dpi hanno esposto medici e sanitari al contagio con scelte irresponsabili”. Cimo, Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici e Cimop annuciano la volontà di sporgere “denuncia all’Autorità Giudiziaria in merito al comportamento inadeguato e “incivile” della Protezione Civile alla luce del recente gravissimo episodio riguardante la fornitura per uso medico di mascherine FPP2 non idonee ad uso sanitario. Al tempo stesso, chiederà al Ministro della Salute di procedere alla sostituzione dei componenti del Gruppo Tecnico dell’Iss per il lavoro fino ad oggi palesemente inadeguato nei confronti della sicurezza dei medici e degli operatori sanitari”. Da quotidianosanita.it il 3 aprile 2020. Il Patto per la Professione medica, unione di sindacati Cimo, Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici, Cimop lancia una ferma accusa contro le “scelte irresponsabili” di Protezione Civile e Istituto Superiore di Sanità in merito ai Dispositivi di protezione Individuali destinati ai sanitari, le cui “nefaste conseguenze sono tristemente visibili”. E si riserva di presentare specifica denuncia all’Autorità Giudiziaria contro la Protezione Civile e di chiedere l’intervento del Ministro della Sanità sull’ISS. Secondo il Presidente del Patto per la Professione Medica, Guido Quici, “La pandemia che ha colpito il nostro Paese ha svelato la realtà di un servizio sanitario nazionale fragile, frammentato, non adeguatamente attrezzato per la complessa gravità degli eventi ma indubbiamente unico e generoso in termini di impegno professionale e civile dei medici e sanitari. Un impegno professionale – già prima dell’emergenza Covid-19 - fatto di turni massacranti in un contesto di assoluta e grave carenza di risorse umane e strumentali; un impegno civile e deontologico diffuso, dimostrato dagli oltre 18.000 medici e infermieri che hanno risposto all’appello per la richiesta di 800 volontari; un impegno ricco di coraggio, quello di chi è esposto per curare gli altri senza aver ricevuto idonei mezzi di difesa; un impegno fatto di sacrifici che ha coinvolto anche le famiglie e gli affetti di ciascun operatore sanitario”. “Ecco perché – sottolineano gli aderenti al Patto – non possiamo tacere né dimenticare e sentiamo il dovere di denunciare che l’enorme tributo dei medici e sanitari in termini di vite umane e di contagi è legato alla carenza o addirittura alla mancanza di DPI (Dispositivi Individuali di Protezione), ai lunghi tempi di attesa per un tampone, alla confusione organizzativa delle Regioni e della logistica, fino all’eccessiva esposizione al contagio per condizioni di microclima inaccettabili”. “Non è immaginabile – prosegue - che una Nazione avanzata come l’Italia non assuma protocolli così impellenti sugli operatori sanitari e non produca quantità sufficienti di dispositivi individuali di protezione; non è corretto che il Governo attribuisca la responsabilità della pandemia in Italia ad una struttura ospedaliera perché non avrebbe operato “in linea” con i protocolli; non è ammissibile che la Protezione Civile fornisca presidi scadenti e soprattutto non idonei, che espongono i sanitari al contagio ed alle conseguenze tristemente note; è inammissibile che non si possa vigilare, con attenzione e scrupolosa responsabilità, che le norme siano osservate e messe in atto; non è accettabile che, in assenza di adeguati DPI previsti dalle numerose norme e da comprovate evidenze scientifiche, si possa derogare alla sicurezza; soprattutto, è vergognoso che i colleghi dirigenti dell’Istituto Superiore di Sanità, attraverso le proprie linee, abbassino i livelli di protezione individuale sulla base non di evidenze scientifiche ma di esigenze di Governo e successivamente le modifichino repentinamente a causa dei palesi errori che hanno esposto medici e operatori sanitari al contagio”. “L’aver fornito o indicato – rileva la nota - come idonei dispositivi di protezione che non lo sono (dalle mascherine “swiffer” a quelle da muratore, o camici da pittore/pasticciere o simili), non solo espone a inevitabile contagio chi è a contatto diretto con pazienti COVID-19 ma, indirettamente, abbassa la percezione del rischio negli stessi operatori, convinti di essere effettivamente protetti dall’infezione virale”. “Nessuna sorpresa, quindi, per l’elevato numero di contagi e di morti, bilancio che aumenterà nei prossimi giorni quale esito infausto di scelte irresponsabili. Nessuna delle OO.SS. aderenti al Patto per la Professione Medica - CIMO, FESMED, ANPO-ASCOTI-FIALS Medici, CIMOP - può tacere né dimenticare e valuta, pertanto, di presentare specifica denuncia all’Autorità Giudiziaria in merito al comportamento inadeguato e “incivile” della Protezione Civile alla luce del recente gravissimo episodio riguardante la fornitura per uso medico di mascherine FPP2 non idonee ad uso sanitario; al tempo stesso, chiederà al Ministro della Salute di procedere alla sostituzione dei componenti del Gruppo Tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità per il lavoro fino ad oggi palesemente inadeguato nei confronti della sicurezza dei medici e degli operatori sanitari”.
“Fateci vendere i test rapidi per il coronavirus”. Ma per il ministero non sono attendibili. Le Iene News l'8 aprile 2020. Ci ha contattato il direttore di un centro privato che vende test rapidi sierologici per il Covid-19. Ma questi possono davvero dare una mano contro la diffusione del virus? E’ una domanda che ci fate in tanti. Per il ministero della Salute no, non sono ancora affidabili: ecco perché
I test rapidi sierologici per il coronavirus sono davvero alleati affidabili nella battaglia contro la pandemia da Covid-19? Ce lo avete chiesto in tanti, ve ne parliamo mentre si dà il via ufficialmente all’iter per il primo test rapido italiano al 100%, un test molecolare che la DiaSorin ha sperimentato in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. Al momento, in alternativa ai tamponi rino-faringei, ci sono in commercio i cosiddetti test sierologici, ovvero effettuati da un prelievo di sangue, molti dei quali sinora prodotti in Cina. Test che si dividono in due grandi categorie: da un lato quelli che individuano nell’organismo la presenza di eventuali anticorpi, e quindi segnalano che la malattia sarebbe stata contratta e superata e dall’altro quelli che invece attestano la presenza in corso dell’infezione, e cioè la positività del paziente. Un’alternativa dunque al tampone rino-faringeo, quello effettuato finora dalle strutture sanitarie. In queste ultime settimane alcune regioni italiane si sono approvvigionate dei kit sierologici sinora in commercio, in attesa di poterli usare nelle strutture pubbliche su operatori sanitari e potenziali contagiati. Ma questi test sono davvero affidabili per tracciare la presenza attuale del virus nell’organismo o il suo passaggio e quindi l’avvenuta guarigione? Secondo le autorità sanitarie italiane no, o meglio, non ancora. Ma andiamo con ordine: nelle ultime settimane questi test rapidi hanno iniziato a prendere piede nei laboratori privati. Un aspetto, questo, che sta generando una piccola bufera. Noi di Iene.it abbiamo parlato con il direttore di una struttura sanitaria privata del Centro-Nord, che ci racconta il suo punto di vista sulla questione dei test rapidi: “Ho visto il video del vostro collega Alessandro Politi, ancora positivo dopo 30 giorni dalla fine dei sintomi, e sono rimasti di stucco. Significa che, probabilmente, di gente inconsapevole che sta portando il virus in giro ce n’è tanta. Abbiamo acquistato 260 test, che sono andati esauriti in due giorni. Questi test ci dicono chi è entrato in contatto col virus: se avessimo questa informazione, lo Stato potrebbe fare i tamponi in modo mirato, in quella casa, in quel condominio, in quel quartiere. Sarebbe un passo in avanti per combattere la diffusione della pandemia”. L’uomo racconta che in queste settimane molte regioni italiane starebbero limitando l’utilizzo dei test sierologici da parte delle strutture private: “In Umbria la Cgil è riuscita a far impedire ai centri privati la possibilità di eseguire questi test rapidi, penso sia uno scandalo. Anche in Emilia-Romagna, in queste ore, sta accadendo una cosa simile, con il Codacons che chiede alla Regione di diffidare centri e laboratori privati dal fornire i test rapidi, giustificando questa richiesta, e addirittura un esposto in Procura, con le vergognose speculazioni da parte di alcuni”. Ci sono però delle valide ragioni per cui in molte zone del Paese questi test non vengono consentiti: secondo il ministero della Salute infatti non sono attendibili. Il 18 marzo una nota del Comitato tecnico scientifico aveva espresso perplessità sulla loro efficacia. La nota del ministero spiegava che “sino a oggi i test basati sull'identificazione di anticorpi non sono in grado di fornire risultati sufficientemente attendibili e di comprovata utilità per la diagnosi rapida nei pazienti che sviluppano il Covid-19 e non possono sostituire il test classico basato sull'identificazione dell'Rna virale nel materiale ottenuto dal tampone rino-faringeo". Qualche giorno dopo, con la circolare del 3 aprile, ha aggiunto: "Come attualmente anche l'Oms raccomanda, per il loro uso nell'attività diagnostica d’infezione in atto da SARS-CoV-2, necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operativa”. Meglio i classici tamponi rino-faringei dunque, perché i test sierologici rapidi non andrebbero a fare un conteggio approfondito degli anticorpi, rischiando dunque di generare troppi falsi negativi e anche alcuni falsi positivi. “Il rilevamento degli anticorpi potrebbe non essere specifico della infezione da Sars-CoV2”, spiega ancora il ministero. E c’è anche un altro problema: alcuni laboratori avrebbero venduto i test anche a più di 500 euro. Ma sulla questione dei prezzi, il nostro intervistato ci tiene a precisare: ”A noi costano circa 15 euro e li abbiamo venduti a 60. Un ricarico di 45 euro, considerando che devo impiegare almeno 4 infermieri e creare dei percorsi dedicati, per evitare che ci sia contatto tra pazienti COVID e pazienti non COVID, mi sembra davvero ragionevole. Qui nessuno vuole speculare ma solo contribuire a vincere questa battaglia: perché non ce lo lasciano fare? Ne ho acquistati 260, come le dicevo, ma ora però non ne compro più, vista l’aria che tira”. Quando chiediamo se in generale questi test siano davvero alleati utili nella battaglia contro la diffusione del Covid 19, il direttore della struttura privata spiega: ”L’accuratezza si attesta attorno al 95%. In giro c’è davvero di tutto e c’è anche il rischio che alcuni test in commercio, scaldati o sottoposti a un colpo di freddo, possano dare risultati non attendibili”. Nel frattempo intanto, nella disputa tra tamponi e test rapidi, arriva il primo test molecolare tutto italiano, nato al Policlinico San Matteo di Pavia, che sarà disponibile al costo di 5 euro e che dovrebbe dare l'esito in un'ora. Manca però ancora la marchiatura CE, che dovrebbe arrivare nel giro di un paio di settimane.
Anche l'Iss non approva il metodo-Zaia: "Non i test, l'arma decisiva decisiva sono i comportamenti". Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), durante la consueta conferenza stampa dalla Protezione civile, a Roma, su Covid-19. Globalist il 18 marzo 2020. Lo hanno detto e lo hanno ripetuto anche se l'altro giorno il presidente del Veneto Zaia ha ripetuto che lui vuole fare tamponi a tutti e che se ne 'fregava' delle linee-guida dell'Oms: "I test oggi non sono l'arma decisiva, decisivi sono i comportamenti". A sottolinearlo è stato Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), durante la consueta conferenza stampa dalla Protezione civile, a Roma, su Covid-19. "Questa diventa sempre più una battaglia basata sui comportamenti di ognuno", ha detto ai giornalisti. "Un test negativo oggi, domani potrebbe essere positivo. Inoltre si tratta di test nuovi, che devono e verranno validati scientificamente". Per Brusaferro è presto anche per confrontare i diversi approcci con i tamponi fra le Regioni. Quanto alla situazione generale, "sono preoccupato, ma sono impegnato a fare in modo che degli scenari che oggi sono più critici non si verifichino in altre aree del Paese. E sono anche confortato dal fatto che ho l'impressione che il messaggio stia passando''.
Niente più quarantena per i medici. Stop solo a chi è positivo e ha sintomi. La novità arriva nel nuovo decreto sull’emergenza con misure straordinarie per la Sanità e scrive nero su bianco quanto già chiesto dalle Regioni più esposte ai contagi. Marzio Bartoloni su ilsole24ore.com il 7 marzo 2020. Niente più quarantena per medici e infermieri che sono venuti a contatto con persone positive al Coronavirus. Dovranno fermarsi solo nel caso presentino i sintomi o risultino positivi al tampone. La novità di peso arriva nel nuovo decreto sull’emergenza con misure straordinarie per la Sanità e scrive nero su bianco quanto già chiesto dalle Regioni più esposte ai contagi. E cioè non rinunciare ai camici bianchi ora che il Servizio sanitario è più sotto pressione e ha bisogno di tutte le forze in campo.
L’esclusione dall’obbligo di quarantena. Attualmente sono centinaia i medici in quarantena in tutta Italia, 150 solo i medici di famiglia. Da qui l’introduzione di una eccezione di peso per il personale sanitario, come già accaduto in Cina nell’epicentro dell’epidemia, all’obbligo di quarantena che per esempio ha riguardato anche personaggi pubblici come il governatore della Lombardia Attilio Fontana o il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Che dopo essere venuti a contatto con un caso positivo si sono messi in autoquarantena. Una cautela che per i medici e gli altri operatori sanitari ora non sarà più valida, come riporta la bozza del decreto arrivato sul tavolo del consiglio dei ministri. Che prevede appunto che le misure di sorveglianza non si applicano « agli operatori sanitari e a quelli dei servizi pubblici essenziali». Ma i medesimi operatori dovranno però sospendere «l'attività nel caso di sintomatologia respiratoria o esito positivo per COVID19».
Zaia: «Rischio svuotamento della Sanità». Tra i primi a chiedere di escludere il personale sanitario dall’obbligo di quarantena è stato il governatore del Veneto, Luca Zaia: «Abbiamo 450 persone del mondo della sanità che sono in isolamento fiduciario, stanno a casa, non possono lavorare e non sono positivi. Per questi ho chiesto più volte al ministro, al Governo e al presidente del Consiglio la possibilità di riconoscere e dare a loro la possibilità di lavorare. Penso e spero che questo problema si risolva, altrimenti svuotiamo il mondo della sanità dagli operatori». Una richiesta che sembrerebbe ora essere stata accolta dal Governo. «Si dia ai medici la possibilità di poter operare anche se rappresentano dei contatti con persone positive. Non possiamo mettere in isolamento fiduciario - aveva sottolineato ancora Zaia - medici per 14 giorni». Secondo il governatore la quarantena dei medici dovrebbe essere su base «volontaria, garantendo tutta una serie di attività come il tampone quotidiano dei sanitari negativi, ma anche di quelli che hanno avuto l’evenienza o un contatto con un positivo».
Coronavirus, Fontana: "Tamponi a medici e infermieri? Non possiamo, rispettiamo direttive Iss. Da video.ilsecoloxix.it del 2 aprile 2020. A cura di Andrea Lattanzi. Il governatore lombardo traccia il bilancio del dati odierni: "Numeri sono in linea, è un altro giorno positivo". Ai cronisti che gli chiedevano un aggiornamento su tamponi a medici e sanitari, dopo il dato di 10.000 contagiati a livello nazionale nella categoria, Fontana ha riposto: "Rispettiamo tutte le direttive dell'Istituto Superiore di Sanità e li facciamo nel rispetto delle nostre potenzialità". "Fra sanitari e sociosanitari - ha precisato il presidente lombardo - le persone addette sono 500.000. Non si può pensare che da un giorno all'altro si possano fare tutti questi test. Si stanno facendo, nel rispetto delle direttive".
Coronavirus, scontro sui tamponi al personale sanitario. Il sindaco: vanno fatti a tutti. L’assessore Gallera: facciamo quel che ci dice l’Istituto superiore di sanità. Le mascherine? Le produrremo. Giulia Bonezzi su ilgiorno.it il 19 marzo 2020 - C’è una rivolta su mascherine e tamponi che infiamma le trincee sanitarie della guerra al coronavirus; negli ospedali, sulle ambulanze ma anche sul territorio, perché con gli ospedali lombardi stipati da oltre ottomila ricoverati per Covid19 sempre più persone devono essere curate a casa finché è possibile. Ma i medici territoriali sono sul piede di guerra: la Fimmg lombarda, che aveva già diffidato le Ats, la Regione e il Ministero della Salute a consegnare kit di protezione alla categoria, ieri ha visto morire di Covid, a 57 anni, il suo segretario lodigiano, Marcello Natali, medico di famiglia a Codogno. La federazione regionale ha lanciato una raccolta fondi per dotare i medici di base di mascherine Ffp, guanti, camici monouso, copricapo, visiere, insomma dell’equipaggiamento che in ospedale ha il personale che cura direttamente i malati di Covid. E il sindaco Beppe Sala ieri mattina ha lanciato una campagna per i test a tappeto: "Trovo inaccettabile che ai medici, al personale sanitario e ai medici di base non venga fatto il tampone". Sostenuta da una lettera di 52 sindaci di centrosinistra della Città metropolitana che chiedono anche un’estensione dei test agli asintomatici, e la consigliera regionale dem Carmela Rozza li invoca per "tutto il personale sanitario, personale e pazienti delle Rsa, i lavoratori che non possono fare smart working e gli inquilini delle case popolari". L’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera sottolinea che "i medici di medicina generale, come gli ospedalieri che si sono ammalati e a volte sono morti sono i nostri eroi", insieme agli altri operatori sanitari sulla prima linea contro il Covid. "Per noi tutti sono importantissimi e vanno tutelati", per i medici di base "da subito abbiamo costruito un percorso per tutelarli, indicando che i pazienti non dovevano recarsi da loro senza prima un consulto telefonico. Ma è chiaro che parliamo di professionisti che si adoperano in ogni modo per i loro pazienti, fa parte della loro missione. Abbiamo distribuito loro le mascherine che avevamo e speriamo di continuare a farlo di più, stiamo condividendo una nuova linea guida per rafforzare un ruolo di presa in carico a distanza". L’Ats Metropolitana, a quanto risulta a Il Giorno , sta studiando sulla città una rete di assistenza domiciliare basata sulle Usca, "unità speciali di continuità assistenziale" introdotte dal decreto del 9 marzo e composte da infermieri e assistenti sanitari; i medici di base sarebbero chiamati alla sorveglianza telefonica e al monitoraggio dei propri assistiti più fragili. Le mascherine sono il nuovo "oro da dare alla patria", dice l’assessore in diretta Facebook, tanto che si sta organizzando la produzione autarchica di questi e altri dispositivi di protezione, contesi nel mondo con l’emergenza coronavirus, per sfornarne "milioni di pezzi al giorno" e distribuirne anche "agli operatori delle Rsa, ai farmacisti, ai cittadini". E prima ancora "al nostro personale medico, la cui difesa è fondamentale. Abbiamo dovuto dare una priorità perché gli operatori degli ospedali dovevano essere protetti più di altri". E i tamponi? "Qui in Lombardia seguiamo le indicazioni dell’Istituto superiore di sanità. All’inizio abbiamo fatto tamponi a tutti i contatti diretti dei positivi". Oggi invece l’Iss raccomanda i tamponi (48.983 quelli già processati nei laboratori lombardi) "solo ai contatti con problemi polmonari e a chi arriva in pronto soccorso con questi sintomi". Anche in ospedale "gli operatori sanitari il tampone lo fanno solo se sono contatti diretti di un positivo, come gli altri lavoratori dei servizi di pubblica utlilità.
Accuse, dispute e ritardi. L'ombra del grande flop sfiora l'Istituto di sanità. Vacilla il mito scientifico dell'Iss: molti medici imputano errori nella gestione dell'epidemia. Francesca Angeli, Domenica 05/04/2020 su Il Giornale. Medici, infermieri e operatori del soccorso mandati allo sbaraglio. Incertezza e ritardi nel certificare dispositivi sanitari di sicurezza, tamponi e test sierologici ma anche mancanza di una strategia chiara rispetto alle aree del territorio da monitorare, ai tamponi da eseguire, alla gestione dei pazienti con sintomi lievi che non richiedono ricovero. Oltre ai camici bianchi in prima linea ci sono molti autorevoli esponenti del mondo scientifico che in questi giorni hanno messo sotto accusa la gestione della crisi da parte del Comitato Tecnico Scientifico indicato dal governo, ovvero prima di tutto l'Istituto Superiore di Sanità ma anche la Protezione Civile consulenti tecnici sulla gestione della crisi epidemica. Gli attacchi più duri sono arrivati dai medici e operatori sanitari impegnati in prima linea che stanno pagando un prezzo altissimo. A ieri erano 80 i medici morti per coronavirus. Durissimi gli ospedalieri, Anaao Assomed, sulla questione delle mascherine fornite a singhiozzo agli operatori in campo e spesso inadeguate. Ancora il 28 marzo scorso con un'epidemia senza precedenti per diffusione in corso da settimane l' Iss, accusa Anaao, raccomandava «come valido nelle ultime linee guida l'impiego di mascherine chirurgiche per l'assistenza a casi Covid-19 confermati». Una direttiva «inaccettabile» visto che da subito i medici avevano denunciato il rischio di trasformarsi in vettori del virus perché privi degli adeguati strumenti di protezione. Grande rabbia da parte di chi si sacrifica e non viene tutelato. Sulla stessa linea Cimo, Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici, Cimop che parlano di scelte «irresponsabili» della Protezione Civile e Iss in merito ai dispositivi di protezione e si dicono pronti a presentare denuncia contro la Protezione Civile e a chiedere l'intervento del Ministro della Sanità sull'Iss. «Vergognoso che i colleghi dell'Iss, attraverso le proprie linee, abbassino i livelli di protezione individuale sulla base non di evidenze scientifiche ma di esigenze di governo e successivamente le modifichino repentinamente a causa dei palesi errori», accusa il presidente del Patto per la Professione Medica, Guido Quici. Eppure illustri scienziati ed esperti fin dal primo caso accertato di Covid 19 avevano avvisato: occorre tutelare i medici anche perché sono loro la prima linea di difesa se cade quella il virus dilagherà. A dirlo Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia e responsabile del laboratorio che esegue i test per il Covid 19 presso l'Univeristà di Padova. Crisanti aveva ciricato anche la scelta di isolare i malati meno gravi in casa con i familiari: un modo per fare ammalare tutti. Bocciata anche la scelta di testare soltanto i sintomatici. Crisanti chiedeva di partire subito con tamponi a tappeto per isolare i positivi asintomatici ed impedire la diffusione del virus. Una scelta però bocciata dal rappresentante dell'Italia nell'Oms, Walter Ricciardi che aveva definito questa scelta del Veneto «uno sbaglio». Ma oggi tutti ritengono che l'unica scelta possibile sia proprio quella dei tamponi a tappeto. Molto critico anche il virologo Roberto Burioni prima di tutto rispetto al ritardo con il quale è arrivata la scelta di chiudere le scuole ed isolare le aree più esposte. Burioni ha pure definito «una scemenza» dire che un paziente «non è morto per il coronavirus ma con il coronavirus», come appunto fa l'Iss.
La strategia dei tamponi: criteri, ritardi, criticità in Italia e all’estero. Andrea Zitelli su valigiablu.it il 30 Marzo 2020. Il modo più efficace per prevenire le infezioni da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e interrompere la catena di contagio è quello di fare «Test, test, test», perché non si può fermare la pandemia in atto «se non sappiamo chi è infetto». Queste le parole pronunciate da Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), lo scorso 16 marzo, e rilanciate dai media. Cerchiamo quindi di capire perché è importante questa strategia – che deve essere accompagnata da altre misure di contenimento e contrasto –, come funziona, quali sono le indicazioni dell’OMS, come si sono comportati i diversi paesi del mondo e cosa si sta facendo in Italia.
Cos’è un tampone e come funziona un test. Il tampone è un piccolo batuffolo di cotone, come spiega l'epidemiologo Pier Luigi Lopalco, con cui si preleva del muco dal naso e della saliva dalla bocca. Il materiale prelevato viene poi analizzato dai laboratori predisposti per rilevare (in circa 4 o 6 ore, quando non si accumula dell'arretrato per varie criticità) la presenza o meno del virus nelle prime vie respiratorie. In Italia si sta parlando di vari "test rapidi" per aiutare a tracciare con più velocità il contagio in atto, aumentando il numero di tamponi effettuati. Ma il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) – l’organo che ha lo scopo di fornire consulenza a governo e protezione civile sulle misure di prevenzione necessarie a fronteggiare la diffusione del nuovo coronavirus – in una nota del 18 marzo ha comunicato che “l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sta attualmente valutando circa 200 nuovi test rapidi basati su differenti approcci. I risultati relativi a quest’attività di screening saranno disponibili nelle prossime settimane”. In attesa di questi risultati, gli esperti italiani hanno ribadito comunque che al momento “l’approccio diagnostico standard e internazionalmente accettato rimane quello basato sulla ricerca dell’Rna virale nel tampone rino-faringeo”.
Qual è stata la raccomandazione dell'OMS sui test. Nel suo discorso pronunciato durante la conferenza stampa di metà marzo, Ghebreyesus ha spiegato che, oltre alle politiche di distanziamento sociale decise in diversi Stati e alle misure di prevenzione personali, la reale spina dorsale per contrastare la diffusione del virus è effettuare test per capire chi è positivo o meno, isolando poi i contagiati e tracciando i loro contatti fino a 2 giorni prima dall’insorgere dei sintomi della malattia. L'OMS ha dichiarato che «ogni giorno vengono prodotti più test per soddisfare la domanda globale. L'OMS ha spedito quasi 1,5 milioni di test a 120 paesi. Collaboriamo con le aziende per aumentare la disponibilità di test per coloro che ne hanno più bisogno». L’invito a fare test su test da parte del direttore generale dell’OMS non deve essere però confuso con una richiesta di screening di massa a tutta la popolazione di ogni paese colpito da Covid-19 (la malattia provocata dal virus). I test, infatti, ha specificato Ghebreyesus nel suo intervento, devono essere fatti sui "casi sospetti".
L’OMS definisce, ad oggi, “i casi sospetti” in questo modo:
a) Una persona che ha una malattia respiratoria acuta (febbre e almeno un sintomo di malattia respiratoria, ad esempio tosse, mancanza di respiro) e che quattordici giorni prima dei sintomi ha viaggiato o soggiornato in un luogo dove Covid-19 è presente.
b) Una persona con qualsiasi malattia respiratoria acuta e che è stata in contatto con un caso confermato o "probabile" di Covid-19 (cioè un caso sospetto per il quale il test effettuato non è conclusivo o per il quale non è stato possibile eseguire un test) negli ultimi 14 giorni prima dell'insorgere dei sintomi.
c) Una persona con una grave malattia respiratoria acuta e senza una diagnosi alternativa che spieghi completamente la sua situazione clinica.
L’OMS raccomanda comunque che, nel caso in cui ci siano gravi difficoltà nella capacità di effettuare e analizzare i test, i casi sospetti che non presentano rischi per la propria salute devono essere messi in isolamento domiciliare ma non testati. I tamponi, invece, vengono fortemente raccomandati per i casi sospetti che hanno bisogno di essere ospedalizzati o per gli operatori sanitari sintomatici.
Le strategie difformi tra paese e paese. Sulle gestione dello screening dei contagi, sia negli Stati Uniti che in molte parti dell’Europa occidentale, ci sono stati però ritardi e criticità dovuti a cambi di strategie politiche, a errori e carenze, come raccontano Matt Apuzzo e Selam Gebrekidan sul New York Times. La risposta al virus non è stata uniforme e questo, secondo diversi esperti citati dal Financial Times, avrebbe portato a una paralisi nel capire l’effettiva diffusione della malattia e all’opportunità di contenere il virus. Inoltre, la stessa metodologia di raccolta dati sui tamponi cambia da paese a paese e per questo un confronto rischia di diventare fuorviante. Negli Stati Uniti d’America, scrive Nidhi Subbaraman su Nature, gli esperti sanitari hanno denunciato la lenta risposta alla pandemia del governo, “in particolare riguardo alla scarsa disponibilità e velocità dei test”. Un fatto che ha permesso al virus di diffondersi senza essere scoperto e tracciato. Lo scorso 12 marzo, Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, ha dichiarato che il paese stava fallendo nella capacità di testare le persone, specificando che gli USA non erano riusciti a soddisfare la capacità necessaria dei test per il nuovo coronavirus, tra problemi organizzativi, burocratici e tecnici. Successivamente, il presidente americano Donald Trump ha promesso l’arrivo su larga scala dei test. Il 16 marzo, Brett Giroir, vice segretario alla Salute, ha dichiarato che il paese sarebbe stato in grado di elaborare un milione di test entro la fine della settimana, 2 milioni entro quella successiva e 5 milioni nelle prossime. Ad oggi, secondo i dati forniti dal COVID Tracking Project, una collaborazione no profit di funzionari della sanità pubblica e giornalisti che contano i test effettuati negli Stati Uniti, sono stati finora eseguiti oltre 776mila test.
Anche in Europa, i paesi hanno adottato strategie difformi nella risposta alla diffusione del virus, in particolare sui test per capire chi è infetto o meno, anche in relazione alla disponibilità dei propri laboratori. Come riporta il 21 marzo Le Monde, se la Francia “limita l'accesso ai test agli operatori sanitari e ai casi più gravi, (...) l’Austria, con una situazione di pandemia molto paragonabile a quella francese, sta perseguendo una politica di screening più dinamica”. Per poter effettuare un tampone è “sufficiente presentare i sintomi o essere stato in contatto con una persona contaminata, dopo una prescrizione medica”. Il governo di Vienna ha disposto anche la possibilità di poter eseguire test drive-thru come in Corea del Sud.
Altri paesi invece sembrano avere difficoltà a poter effettuare tutti i test necessari, continua il quotidiano francese: “La Slovenia ha deciso di limitare gli esami al personale medico, agli anziani e ai malati con sintomi gravi”. Da parte sua, la Repubblica Ceca riesce ad effettuare i test necessari, dopo una prescrizione medica, e questi vengono “effettuati anche da laboratori privati ad un costo compreso tra i 35 euro e 100 euro”. In Polonia, secondo quando dichiarato dal ministro della Sanità, Lukasz Szumowski, i laboratori hanno effettuato una media di 1.500 test al giorno, anche se la loro capacità può arrivare al doppio. “Le attuali istruzioni delle autorità – spiega Le Monde – lasciano infatti un ampio margine di manovra ai medici per decidere il loro utilizzo, una posizione considerata da parte della popolazione e dai medici stessi non molto rassicurante. L'ordine dei medici ha quindi invitato il ministro ad aumentare la disponibilità di test”.
In Germania, invece, attualmente, gli ospedali e i medici di famiglia decidono chi sarà sottoposto al test, si legge sul sito del Ministero della Salute tedesco, basando la loro decisione sulle raccomandazioni del Robert Koch Institute, cioè l’ente responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive. “Secondo queste raccomandazioni, sintomi come febbre, mal di gola e disturbi respiratori da soli non sono sufficienti. Le persone devono inoltre aver avuto contatti con una persona infetta o aver trascorso del tempo in una regione in cui è stato dimostrato che il virus è presente in ampie aree”. Il Ministero tedesco afferma che testare anche persone sane può mettere a dura prova la capacità di effettuare test nel paese. Secondo Christian Drosten, un virologo tedesco, la Germania, con le proprie reti di laboratori è capace di organizzare in maniera più facile il lavoro: ha infatti implementato il numero di test effettuati ogni settimana, arrivando così a uno screening su larga scala (passando da una capacità di 160mila test a settimana a una stima di 500mila). Un’analisi di Sky News mostra come la Germania sia stata in grado di identificare più rapidamente di altri paesi, fin da subito, i casi di nuovo coronavirus e isolare le persone infettate (uno dei motivi ipotizzati che ha portato il paese ad avere, fino a oggi, un basso tasso di letalità della malattia rispetto agli altri paesi).
Nel Regno Unito, inizialmente venivano testati solo i pazienti gravemente malati in ospedale con sintomi simil-influenzali, riporta la BBC. Nei giorni scorsi, però, dopo le critiche ricevute, è stato annunciato dal governo guidato dal primo ministro Boris Johnson (risultato positivo al nuovo coronavirus) che i test verranno eseguiti anche sul personale del Sistema sanitario nazionale. “Attualmente, circa 6mila persone vengono testate quotidianamente. Ma alla fine di marzo si punta a effettuare 10mila test al giorno, passando a 25mila a metà aprile”.
In Francia si è deciso di testare solo i casi gravi di persone malate con sintomi da Covid-19. Una strategia, scrive Le Monde, “coerente con le limitate capacità di screening disponibili”. Sono emerse infatti diverse complicazioni nella catena logistica, mancanza di preparazione e carenza di prodotti necessari per effettuare questi tamponi. A livello strategico Daniel Lévy-Bruhl, epidemiologo e capo dell'unità per le infezioni respiratorie presso Public Health France, ha affermato di non poter pretendere di identificare tutti i casi: «Non conosco paesi in Europa in grado di identificare tutte le catene di trasmissione. Da quando è iniziata la fase 3 (ndr cioè da quando l'epidemia è ormai presente su tutto il territorio del paese), devi accettare che non puoi più identificare individualmente i casi». Intanto, comunque, i laboratori francesi predisposti per l’analisi dei test sono in continuo aumento. La Francia esegue “più di 5mila test al giorno", secondo quanto riferito dal ministro della Salute, Olivier Véran. Il direttore della Direzione Generale della Sanità, Jérôme Salomon, il 25 marzo ha annunciato che la capacità di fare test sarebbe aumentata a 29mila al giorno entro la fine del mese.
All’inizio di marzo in Spagna, tra i paesi risultati poi più colpiti insieme all’Italia, erano arrivate segnalazioni e denunce da parte dello stesso settore sanitario: il paese stava facendo pochi tamponi (inizialmente alle sole persone con sintomi che erano state in aree a rischio) a causa della mancanza di risorse, personale e materiale. Con il continuo aumento dei contagi, però, la strategia delle persone da testare cambia in alcune parti del paese. Il 15 marzo in Catalogna e a Madrid si smette di testare tutti i casi con sintomi e ci si concentra solo sui pazienti più gravi. Attualmente in Spagna, secondo fonti ufficiali, vengono analizzati circa 15mila – 20mila test al giorno. Numeri ritenuti non sufficienti. Per questo motivo il governo spagnolo punta a raggiungere la cifra di 80mila test diagnostici giornalieri grazie all’acquisto di robot.
Rispetto agli Stati Uniti d'America e parte d'Europa, alcuni paesi asiatici hanno saputo invece organizzarsi meglio, anche per esperienze pregresse, e praticare una risposta mirata. La Corea del Sud quando il virus ha cominciato a diffondersi, combinando vari interventi di contrasto al contagio, ha iniziato una massiccia campagna di test per riuscire a individuare quale fosse il paziente dal quale era partita la catena della trasmissione della malattia. I tamponi sono stati effettuati sin da subito su contatti stretti di casi diagnosticati positivi, operatori sanitari e persone in isolamento potenzialmente guarite. Questi testi sono stati eseguiti in centri in diverse parti del paese o in strutture drive-thru come i parcheggi degli ospedali o altre aree, dove le persone, senza scendere dall’auto, fanno il tampone con operatori sanitari in tuta isolante. Un approccio sistematico facilitato anche dall’esperienza che la Corea del Sud ha acquisito dopo l’epidemia della sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) nel 2015.
Stessa efficienza di misure nell’approccio contro Covid-19 è stata portata avanti a Singapore. Ad esempio, garantendo in tempo la possibilità a tutti gli ospedali pubblici di poter realizzare uno screening avanzato, testando chiunque si recasse in ospedale con una malattia respiratoria e chiunque fosse stato in contatto con un paziente COVID-19, riporta Stephen Khan su The Conversation. Una preparazione acquisita dopo l’epidemia di Sars del 2003 nella città Stato.
Cosa succede in Italia. In Italia, il primo caso di contagio locale da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 è stato comunicato dalla Regione Lombardia nella notte tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio. Da quel giorno, i casi positivi riscontrati sono aumentati quotidianamente, concentrati per la maggior parte in diverse regioni del Nord Italia. Inizialmente, sono stati individuati due focolai: uno in Lombardia, nel lodigiano, e un secondo a Vo' Euganeo, in Veneto. Tra le prime misure di distanziamento sociale del governo c’è stato così il blocco delle entrate e delle uscite in queste due aree, con l’istituzione di due zone rosse che ha coinvolto circa 50mila persone. Dopo la scoperta del primo caso e della diffusione del contagio, Lombardia e Veneto hanno iniziato a fare uno screening massiccio sulle persone sintomatiche e non (ad esempio i contatti dei contagiati). Il 27 febbraio, però, il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, ha comunicato un cambio di strategia. I test in Italia sarebbero stati fatti solo alle persone con sintomi acuti da Covid-19 perché: «La larghissima parte dei tamponi realizzati, diciamo più del 95%, ha dato esito negativo. Il rischio di contagiosità è elevato nei soggetti sintomatici mentre è marcatamente più basso nei soggetti asintomatici. E questo supporta la scelta di riservare l’esecuzione dei tamponi solo ai soggetti sintomatici, anche perché siamo ancora in un periodo di pandemia di altre infezioni virali [come l’influenza] e quindi vanno escluse anche queste, prima di procedere con la realizzazione dei tamponi». Posizione confermata anche da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto Lazzaro Spallanzani: «Tamponi solo a sintomatici. In Italia sono stati fatti test oltre le indicazioni previste dal Centro europeo per il controllo delle malattie (ECDC), per uno scrupolo delle regioni». In un documento elaborato il 26 febbraio dal Consiglio Superiore di Sanità, si legge che l’ECDC aveva modificato la definizione di caso per la sorveglianza nei paesi europei, specificando che i test dovevano essere fatti “ai pazienti con infezione respiratoria acuta che richieda il ricovero o meno, e che nei 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi hanno almeno uno dei seguenti criteri epidemiologici: i) stretto contatto con un caso confermato o probabile di infezione Covid-19 o ii) aver soggiornato in aree con presunta trasmissione comunitaria”. Una decisione presa anche per evitare di pressare oltre le proprie capacità i laboratori di virologia presenti in Italia che, “comunque, devono svolgere normale attività diagnostica per altri tipi di infezioni virali a potenziale impatto negativo sulla salute dei cittadini del nostro paese” (nel frattempo, ad oggi, per potenziare la capacità diagnostica dei tamponi in Italia, i laboratori sono stati aumentati arrivando a 77 su tutto il territorio nazionale). Sentito da Wired, Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali, aveva definito quella scelta «opportuna e adeguata» perché avrebbe dato la possibilità “di mettere in campo tutti gli strumenti per evitare la trasmissione del virus e dunque a contenere l’epidemia”. Questa scelta, però, continuava Andreoni, avrebbe limitato in un certo modo l’analisi dei dati sull’epidemia in atto, come ad esempio il dato della letalità. Quest'ultima, infatti, è il rapporto tra i morti per una malattia e il numero totale di soggetti affetti dalla stessa malattia. Per questo motivo, se il numero delle persone positive individuate è più basso rispetto a quello reale, il dato della letalità tenderà a essere sovrastimato. Come spiega infatti Matteo Villa, esperto di analisi dei dati dell’ISPI, nella difficoltà concreta di testare l’intera popolazione di persone contagiate (ad esempio perché la parte asintomatica non si sottopone ai test perché non sa di essere malata o perché con una forte espansione dell’epidemia risulta molto difficile sottoporre a tampone tutti i sintomatici) esistono due dati che rappresentano la letalità di una malattia: quella apparente (CFR) che si ottiene dividendo il numero di morti confermate per il numero di casi confermati e quella plausibile (IFR) che tenta di stimare anche le dimensioni della “base”, ovvero il numero di contagiati totale, per poi dividere il numero delle morti confermate per l’intera grandezza della piramide.
Attualmente l’Italia ha una letalità (apparente) molto più alta rispetto a quella degli altri paesi. La decisione presa il 27 febbraio dalle autorità sanitarie in Italia di testare solo i sintomatici, continua Villa, avrebbe così avuto effetti sulla letalità perché “nei primi giorni dell’epidemia la letalità italiana si attestava intorno al 3%, e tra il 25 febbraio e il 1° marzo era persino gradualmente scesa fino al 2%. Da quel giorno in avanti, al contrario, la letalità ha invertito la rotta e ha cominciato ad aumentare, gradualmente e linearmente”. Altro effetto c'è stato poi sulla portata reale della diffusione del virus, che secondo l’analista sarebbe dieci volte più alta rispetto ai casi ufficiali. Per quanto riguarda il numero dei tamponi effettuati c'è un ulteriore aspetto da considerare. Come ricostruito da YouTrend il numero dei test eseguiti non corrisponde al numero di persone testate che "potrebbe quindi, nel complesso, essere molto inferiore rispetto a quanto finora pensato". Ad esempio, nei confronti dei "guariti da Covid-19" viene sicuramente effettuato un doppio tampone, come si legge in un documento del Consiglio Superiore della Sanità. Per questo motivo, spiega ancora YouTrend, è impossibile dedurre dal bollettino (fornito quotidianamente dalla Protezione civile, ndr) il numero reale delle persone testate in Italia. La difformità di strategie e interventi per quanto riguarda i tamponi esiste inoltre anche all'interno dello stesso territorio italiano. Il 9 marzo il Ministero della Salute, dopo la diffusione dell’epidemia su tutto il territorio nazionale, ha diffuso una nuova circolare in cui si conferma che a livello nazionale i soggetti da sottoporre al test devono presentare sintomi acuti:
a) Una persona con infezione respiratoria acuta e senza un'altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica e storia di viaggi o residenza in un Paese/area in cui è segnalata trasmissione locale durante i 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi.
b) Una persona con una qualsiasi infezione respiratoria acuta e che è stata a stretto contatto con un caso probabile o confermato di COVID-19 nei 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi.
c) Una persona con infezione respiratoria acuta grave e che richieda il ricovero ospedaliero e senza un'altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica.
Ma, come scrive Luca Misculin su Il Post, “paradossalmente, da allora l’approccio delle autorità locali al test è diventato sempre meno uniforme”: “A seconda del luogo in cui si trovano i sospetti contagiati, (...) il trattamento dei pazienti può essere molto diverso e così il criterio con cui il test viene o non viene fatto. Le linee guida del governo, infatti, devono essere recepite e applicate da ogni regione, che ha la competenza esclusiva sulla sanità, e soprattutto deve gestire situazioni molto diverse fra loro”. Il Veneto, ad esempio, tra le regioni più colpite dal virus, presenta il più alto numero di tamponi effettuati per ogni caso positivo, spiega Riccardo Saporiti su Info Data. Il grafico mostra il rapporto tra i tamponi effettuati e i casi di contagio riscontrati. Più la barra è lunga, maggiore è questo rapporto. Il colore diventa più scuro tanti più sono i tamponi effettuati, mentre la larghezza della barra fa riferimento alle persone positive al coronavirus all’interno del territorio regionale.
Sulla strategia di screening adottata dal Veneto, Andrea Crisanti, direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova e docente di Virologia all’Imperial College di Londra, in un’intervista a Globalist precisa che nella Regione non si sta facendo però uno “screening a tappeto”: «(...) Parte tutto dallo studio di Vo perché abbiamo dimostrato che al momento del primo contagio abbiamo trovato che il 3% della popolazione era positiva. Che è una enormità. Una fetta ampia di queste persone era asintomatica. Non solo. Nel secondo screening abbiamo dimostrato che persone che vivevano con persone positive asintomatiche si sono a loro volta infettati. Quindi gli asintomatici tramettono il virus, non ci sono dubbi. È chiaro che una delle sfide che abbiamo in questo momento è trovare gli asintomatici oltre che preoccuparci e curare i sintomatici. Quindi noi vogliamo rafforzare la sorveglianza sul territorio. E fare quello che finora non si è fatto». «Sorveglianza attiva sul territorio – continua il professore – significa che se una persona chiama e dice io sto male, invece di lasciarla sola a casa senza assistenza, senza niente, noi con l’unità mobile della croce rossa andremo lì, faremo il prelievo alla persona, faremo il tampone ai familiari, faremo il tampone agli amici e al vicinato, perché è là intorno che c’è il portatore sano, è là intorno che ci sono altri infetti». Sempre secondo Crisanti, inoltre, il fatto che in Veneto ci sia il 3% della letalità mentre in Lombardia il 12% si deve al fatto che nella regione lombarda «manca il numero dei casi domiciliari. Questa distanza dà l’idea del crollo del Sistema Sanitario Lombardo a livello locale, territoriale. Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore ma non sono rilevati». Per l’esperto, infatti, «la battaglia si vince sul territorio non negli ospedali», perché «nessuna epidemia si controlla con gli ospedali». Riguardo a questa modalità, Ranieri Guerra, direttore vicario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato però che «l'aggressività (ndr, di screening) dimostrata dal Veneto è su un ambito di popolazione abbastanza ristretto» e che inoltre, in questo momento, la tamponatura generale a sintomatici e asintomatici a livello nazionale come screening generale è infattibile.
La Lombardia presenta un'altra storia. Durante una conferenza stampa dello scorso 26 marzo, il professore Carlo Federico Perno operativo nei laboratori dell’ospedale Niguarda di Milano, ha dichiarato che la Regione «per necessità – e non per scelta propria – ha optato per un tamponamento inizialmente solamente ai sintomatici impegnativi, quelli che dovevano poi essere ricoverati. È chiaro dunque che in queste condizioni è alta la mortalità ed è alto il numero di positivi». Come raccontato infatti su L’Eco di Bergamo a metà marzo “i tamponi vengono eseguiti sui pazienti ricoverati, ma sono tanti anche i malati a casa con sintomi più o meno evidenti di una possibile (ma non accertata da analisi di laboratorio) infezione da coronavirus. Il quotidiano locale continua specificando che "c’è chi come Veila Ardrizzo mette in evidenza la situazione di un componente della famiglia che non abita con lei: «Senza una diagnosi ufficiale, fatta con il tampone, non scatta la quarantena e chi abita con il malato deve andare a lavorare, con il rischio di diffondere il contagio. Al di là del mio caso famigliare, ho sentito che a molte altre persone non è stato fatto il tampone. Come mai non si fanno i tamponi?»”. L’accusa alla Lombardia è infatti quella di non seguire correttamente le raccomandazioni dell’Istituto superiore di Sanità su quali casi andrebbero testati. In un’intervista a Il Messaggero, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ha prima affermato che per «la sanità lombarda è una prova inimmaginabile, innanzitutto per chi sta negli ospedali. Con estrema fatica i presidi reggono», ma poi ha denunciato che «troppe persone arrivano in ospedale tardi e in pessime condizioni, devono essere intubate in terapia intensiva. Molte in ospedale non riescono proprio ad arrivare e muoiono a casa: sono quasi tutti anziani con la polmonite, casi di Covid-19 non censiti, che sfuggono ai radar». Sempre il 26 marzo, però, la Regione ha annunciato un ampliamento dello screening. La criticità, ha sottolineato comunque il presidente Attilio Fontana, non sta nel numero dei tamponi effettuati, ma nel loro processamento da parte dei laboratori regionali. Secondo i dati forniti il 28 marzo dall’assessore al Welfare lombardo, Giulio Gallera, oggi la Lombardia riesce a processare circa 5mila test al giorno: “A inizio emergenza Coronavirus erano 3 i laboratori che potevano processare i tamponi, oggi sono 22 i centri attivi. Per ampliare la sorveglianza è stata avanzata una richiesta ai centri privati che potrebbe alzare la capacità regione a 7-8mila test al giorno”. Un punto sulla difformità dello screening a livello territoriale e regionale è stato fatto da Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità: «I tamponi vanno fatti il prima possibile a persone sintomatiche, perché bisogna fare diagnosi, individuare focolai e, se c'è bisogno, curarle. Se c'è disponibilità i tamponi, possono essere fatti anche a persone con pochissimi sintomi o a contatti di pazienti. Ma qui subentra un problema di fattibilità. In una regione come la Lombardia, dove l'incidenza è molto alta, qualsiasi febbre probabilmente è attribuibile al Sars-CoV-2, perché il rischio è molto alto». Per Rezza così «in una regione a bassa incidenza come Sicilia o Calabria, è bene vedere subito se la persona con sintomi ha un'infezione da nuovo coronavirus o no. Una regione oberata come la Lombardia non potrà mai fare i tamponi ai contatti. Una regione con meno impegno potrà farlo: in Veneto l'hanno fatto e hanno tenuto la situazione sotto controllo a livello territoriale, ma non si trovavano in mano quella bomba biologica come a Lodi e a Bergamo». Ma a più di un mese dalla notizia del primo caso locale, riguardo alle linee guida adottate dalle autorità sanitarie italiane, sono state sollevate criticità. In una lettera inviata al presidente del consiglio Giuseppe Conte e ai governatori delle Regioni, 290 ricercatori italiani – direttori degli Irccs e dei principali istituti di ricerca biomedica, biologi molecolari e biotecnologi – chiedono di fare più tamponi per individuare chi è asintomatico o ha sintomi lievi: «Le attuali strategie di contenimento basate sulla identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida dell'estensione del contagio. (...) Così pagheremo un prezzo altissimo, aumentare i test è critico per interrompere la catena di contagio». Per i firmatari “è possibile mettere in pratica un piano di sorveglianza attiva che preveda di fare ripetuti tamponi rino-faringei per individuare la presenza del virus almeno alle categorie a rischio: medici, infermieri, farmacisti e altro personale sanitario, ma anche forze dell’ordine, personale di tutti i servizi commerciali aperti (forniture alimentari, edicole, poste), autisti di mezzi pubblici e taxi, addetti alle pompe funebri, addetti a filiere produttive essenziali”, riassume Wired.
In risposta a questa lettera, Franco Locatelli, il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, in un’intervista all’Huffington Post, ha dichiarato che ad oggi in Italia si effettuano circa 30mila tamponi al giorno (oltre 450mila in totale, secondo i dati al 29 marzo forniti dalla Protezione Civile), e che, oltre alle raccomandazioni sui soggetti su cui effettuare i test, sono sono state fornite indicazioni «perché si effettuino i tamponi in via prioritaria al personale sanitario, medico e infermieristico, per tutelare la loro salute e contestualmente quella dei pazienti e degli ospiti ricoverati nelle strutture – penso anche alle RSA (le residenze sanitarie assistenziali, ndr) – in cui operano». Locatelli, inoltre, sottolinea un'altra questione: «Nonostante lo sforzo enorme compiuto per aumentare il numero dei laboratori accreditati c’è un problema di queste strutture, che devono far fronte pure a limitate disponibilità del reagente per processare i test, a gestire i campioni». Nel frattempo, anche in Italia, in particolare in Emilia Romagna sono iniziati (come in altre Regioni) i test 'drive thru' che prevedono la possibilità di fare un tampone, previo appuntamento, rimanendo a bordo della propria automobile, in maniera sicura e veloce, racconta Quotidiano Sanità: "Si tratta di una sperimentazione appena avviata e prevede la realizzazione di un vero e proprio tampone rino-faringeo su persone risultate clinicamente guarite (divenute prive dei sintomi dell’infezione) che necessitano di effettuare il tampone due volte – a distanza di almeno 24 ore uno dall’altro – prima di essere dichiarate guarite a tutti gli effetti. Ma un secondo obiettivo è anche quello di aumentare il numero di tamponi da eseguirsi quotidianamente rendendo il sistema più efficiente e accorciando i tempi di accertamento delle guarigioni a tutti gli effetti e non solo clinicamente".
Una cosa certa. In Lombardia va cambiata la strategia sui tamponi. Irene Dominioni il 2 aprile 2020 su linkiesta.it. Razionalizzare i test, farli al personale sanitario e a chi lavora con il pubblico, e coinvolgere altri laboratori per fare più controlli e avere risultati più velocemente. Poche cose sappiamo con certezza. Sappiamo che i casi di Covid sono sicuramente superiori ai numeri ufficiali diffusi dalla protezione civile. Sappiamo che sono già morte, e stanno morendo, un gran numero di persone contagiate prima di aver fatto il tampone e prima di essere arrivate in ospedale. Sappiamo che c’è un sacco di gente a casa che presenta sintomi più o meno evidenti, e che altro non può fare se non aspettare che passi, sperando di non peggiorare. Sappiamo poi che non viene testato nemmeno il personale sanitario, che è a contatto con casi di Covid-19 tutti i giorni, finché non presenta sintomi gravi. Sappiamo di non poter fare tamponi a tutti, perché sarebbe impossibile testare 60 milioni di persone. Ma sappiamo anche che ci sono molte persone positive senza saperlo, che continuano ad andare al supermercato, al lavoro, in farmacia, e vivono a stretto contatto con altri. Sono problemi che valgono per tutto il Paese, ma a maggior ragione per la Lombardia, la regione più colpita dal coronavirus con oltre 44.000 casi. Qualcosa in Lombardia è andato storto, e non perché si tratta della regione che ha fatto più tamponi di tutti (vero in termini assoluti, ma non in rapporto alla popolazione; al 1 aprile i tamponi erano 121mila su 10,4 milioni di abitanti). Secondo i dati elaborati da Gabriele Melino, tesoriere dell’associazione Radicali-Enzo Tortora di Milano, a partire dal 5 marzo e fino al 20 marzo, sempre più tamponi in Lombardia hanno dato un risultato di positività al virus, passando dal 19% al 41%. «Questo significa che sempre più si sta facendo il tampone a coloro che già sappiamo essere quasi sicuramente positivi, per cui non stiamo davvero controllando che il contagio non si propaghi», spiega Michele Usuelli, medico e consigliere regionale lombardo di PiùEuropa-Radicali, a Linkiesta. Fin dall’inizio dell’epidemia, la Lombardia ha testato per il Covid-19 solamente coloro che presentano sintomi di infezione gravi (in parte vero per tutta Italia, ma è un altro discorso). Una scelta che influisce su morti e contagiati. A spiegare il perché è una lettera aperta indirizzata da 290 scienziati ai rappresentanti del governo e delle regioni: «Analisi matematiche dell’andamento dell’epidemia indicano l’esistenza di una percentuale di soggetti asintomatici o pauci-sintomatici con capacità di trasmettere il contagio superiore all’80% del totale degli infetti. Pertanto, i soggetti non sintomatici o lievemente sintomatici di fatto rappresentano la sorgente principale di disseminazione del virus nella popolazione». Per arginare il virus bisognerebbe testare anche e soprattutto coloro che non sanno di esserlo. Piuttosto che testare soltanto coloro che hanno più probabilità di essere positivi, perché hanno sintomi gravi. A maggior ragione posto che negli ospedali ormai sempre più si ricorre allo screening clinico, tramite radiografie e Tac, per individuare i pazienti positivi e trattarli di conseguenza, ancora prima che arrivi il risultato del tampone. Testare tutti coloro che non presentano sintomi o ne hanno di lievi è impossibile, perché significherebbe fare tamponi alla maggior parte della popolazione, però non bisognerebbe nemmeno farsi ingannare dal fatto che in Lombardia (e più in generale in Italia) i numeri ufficiali siano in diminuzione. Perché quei numeri «non rappresentano il reale andamento dell’epidemia. Servono a sapere quante risorse stiamo consumando negli ospedali, per capire dove la sanità è più e meno sotto sforzo. Ma non servono a capire come sta andando l’epidemia», spiega a Linkiesta Enrico Bucci, docente di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia. Soprattutto in Lombardia è ormai troppo tardi per monitorare l’andamento dei contagi dal punto di vista dei grandi numeri, quello epidemiologico. «Siamo già oltre il punto in cui possiamo pensare di identificare gli infetti», dice Bucci. «Per com’è andata, credo che la Lombardia non potesse fare di più. Avrebbe potuto farlo se si fosse identificato il virus allo stesso stadio del Veneto. In realtà è stato identificato almeno un mese e mezzo dopo. Quando si è saputo che in Cina era scoppiata l’epidemia, la Lombardia avrebbe potuto vedere se c’erano picchi di polmoniti anomale anche qui. E forse a quel punto avrebbe potuto attuare con successo la politica veneta, quella dei tamponi a tappeto e della blindatura dei comuni». Ma quando sono partite le misure restrittive, spiega Bucci, «il virus era già abbondantemente diffuso. Adesso lo stiamo inseguendo e paghiamo carenze che dipendono dal fatto che fortunatamente in passato non c’erano state epidemie. Ma ciò significa anche che non c’era stata una cultura di preparazione delle strutture sanitarie». La Lombardia, in altre parole, oggi paga il prezzo di aver inizialmente sottovalutato il problema. Ma è proprio Bucci a spiegare come la prima fase dell’epidemia sia quella più pericolosa: «La Lombardia ha sbagliato inizialmente a dare messaggi contrari all’evidenza scientifica. Quando si sono scoperti i primi casi e si diceva “riapriamo Milano”, “non siamo la Cina”, sono stati messaggi provenienti dalla politica che vedevano il pericolo economico all’orizzonte e sottovalutavano quello sanitario. L’errore è stato limitarsi a bloccare i voli cercando di non spaventare l’opinione pubblica. Il fatto che l’esponenziale sia piatto all’inizio, non fa capire che il problema si manifesterà nel giro di poco con cifre altissime. Anche tra gli esperti bisogna ascoltare il consenso scientifico e non singole voci, ma su questo non c’è nessun esercizio da parte dei politici. Un virus che sorge in un posto può arrivare in qualunque altro punto del mondo. È un problema nuovo con cui dobbiamo fare i conti. Perché di epidemie ce ne saranno altre». Bucci, in qualità di esperto, è stato ascoltato ieri al consiglio regionale della Lombardia. Insieme allo stesso Usuelli e a Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, è firmatario di un testo che indica i passi fondamentali da fare adesso (Linkiesta ne aveva già parlato qui). La strategia è la stessa che anche gli scienziati firmatari della lettera indicano. Per fermare l’epidemia, le prime azioni da intraprendere sono due: da un lato, assicurarsi che gli ospedali non siano luoghi di propagazione del contagio, facendo in modo che il personale sanitario sia testato costantemente per il virus. Dall’altro, razionalizzare la capacità di testing (non incondizionato, ma mirato, appunto) a coloro che sono più esposti e dunque per i quali ha più senso farli, aumentando per quanto possibile il numero di tamponi. Ed estendendo la possibilità di analizzarli anche a tutti i laboratori sul territorio che possono avere la capacità in termini di personale, macchinari e reagenti, per farlo, riducendo così il tempo di risposta dei test. «Le attuali strategie di contenimento basate sulla identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida della estensione del contagio nelle popolazioni affette. D’altra parte, l’estensione a tappeto dei test diagnostici non è una strategia percorribile al momento attuale a causa dell’ampiezza della popolazione interessata, della limitata disponibilità di kit diagnostici prontamente utilizzabili e della limitata disponibilità di laboratori attrezzati per l’esecuzione del test», scrivono gli scienziati nella lettera. «Questo limite ci impone la necessità di mappare laboratori e aziende biotecnologiche adeguatamente attrezzati sul territorio nazionale da coinvolgere da subito per la messa a punto e l’esecuzione dei test sulle categorie ad alto rischio di infezione e alto numero di contatti: tutto il personale sanitario (medici, infermieri, personale di supporto ospedaliero, personale delle ambulanze, farmacisti, addetti alle pompe funebri); tutto il personale con ampia esposizione al pubblico e parte di servizi essenziali (personale di tutti i servizi commerciali aperti quali forniture alimentari, edicole, poste; autisti di mezzi pubblici e taxi; addetti alla pubblica sicurezza e a filiere produttive essenziali). Tecnologie commerciali e non commerciali per l’estensione del numero dei test sono disponibili da poche settimane e possono essere valutate, validate ed implementate su ampia scala in tempi ragionevolmente rapidi. Altre tecnologie possono essere rapidamente messe a punto per le fasi successive dell’epidemia». A oggi, la Regione Lombardia dichiara di fare 5.000 test al giorno, che vengono analizzati in 22 laboratori, i quali lavorano alla loro capacità massima. «Ma i laboratori sono molti di più. Quindi usiamoli», dice Usuelli. Uscito dalla Commissione sanità del consiglio regionale lombardo, Bucci a Linkiesta ha dichiarato di aver riscontrato «interesse e persone preparate già dalle domande che facevano. La commissione sanità della Lombardia sta prendendo il problema dal giusto punto di vista, quello scientifico». Rimane da valutare quanto tempo occorrerà prima di implementare le misure necessarie.
Prima linea. Oggi una storia del Sud. Gianfrancesco Turano l'8 aprile 2020 su L'Espresso. La racconta un medico del 118, A.C., 58 anni, nato in Calabria ma con esperienze di lavoro dalla Val Camonica (Brescia) a Messina, dov'è adesso. Per meglio dire, dov'è tornato da poco. Fino al 4 aprile ha dovuto farsi la quarantena in casa dopo essere venuto a contatto con un positivo al Covid-19.
Il titolo della storia lo dà lui. È “noi non sappiamo copiare”. L'urgentista finisce in quarantena dopo avere risposto a una chiamata che gli prospettava una crisi cardiaca. Arrivato sul posto, viene ricevuto sulle scale da un parente del malato. Il medico gli chiede se il paziente presenta sintomi da Corona virus. Il parente nega. Ma il dottore sa che il negazionismo è un effetto collaterale dell'epidemia. Appena entrato nella stanza del malato, gli misura la febbre: 38,5°. Ausculta: polmone umido. Fa in tempo a buttare fuori il suo equipaggio che lo ha seguito con la barella. Li fa vestire, si veste anche lui e ricovera il paziente che, effettivamente, risulta positivo. Il malato viene avviato al percorso Covid ossia al padiglione H del Policlinico. Dopo questo, medico ed equipaggio finiscono fuori combattimento per 14 giorni e anche l'ambulanza finisce in rimessa per essere sterilizzata. Per rientrare, l'equipaggio e il medico devono risultare negativi a due tamponi. Perché non erano già vestiti? Semplice. Perché non avevano dispositivi a bordo. Hanno dovuto chiamare la centrale 118 e farseli portare. Un dispositivo uguale un intervento perché poi andrebbero cambiati. Risparmiare sulla dotazione è inevitabile, quando le scorte sono insufficienti. «Non eravamo preparati», racconta A.C.. «Per settimane non sono arrivate neanche le mascherine. In Calabria è peggio. Con le aziende sanitarie commissariate, è già un problema avere lo stipendio regolare a fine mese. In otto anni l'azienda di Reggio mi ha fatto due corsi, entrambi inutili. Gli stessi due corsi li ho fatti in due mesi a Messina, uno di questi sulla vestizione Covid. Avremmo dovuto chiudere tutto subito. I contagi sono avvenuti tramite noi, via medici, infermieri, oss. Ecco perché la coda dell'epidemia sarà più lunga. La popolazione è stata informata in modo scorretto. Qui girano tutti con la mascherina ma senza guanti, quando è dimostrato che il Cov-Sars-2 rimane anche per giorni sulle superfici».
Coronavirus, il dramma dei medici infettati: «Tamponi ai calciatori, a noi no». Mauro Evangelisti su ilmessaggero.it Martedì 24 Marzo 2020. Non siamo riusciti a difendere chi ci doveva difendere. Sono oltre 5.000 gli operatori sanitari contagiati, il 9 per cento dei totali dei positivi. Ci sono medici, infermieri, ma anche il resto del personale degli ospedali, dai tecnici delle radiologie a chi fa le pulizie. Il bilancio si aggrava giorno dopo giorno, ci sono già 24 medici morti come racconta il sito della Federazione nazionale degli Ordini, che pubblica una sorta di antologia di Spoon River dei camici bianchi uccisi dal coronavirus. «Elenco dei Medici caduti nel corso dell'epidemia di Covid-19» è il nome che è stato dato alla pagina del sito.
ERRORI. Cosa è stato sbagliato? «C'è il termoscanner nelle stazioni e negli aeroporti e non c'è negli ospedali» ha osservato il presidente dell'Ordine dei medici di Forlì, Michele Gaudio. «Fanno i tamponi ai calciatori ma non ai medici e infermieri» è una delle frasi più ricorrenti tra i camici bianchi. Bisognerà riflettere a lungo sulla scelta iniziale di non sottoporre tempestivamente ai test i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che nelle corsie, ma anche negli studi, sono entrati in contatto con pazienti positivi. I tamponi si facevano solo, nella maggior parte dei casi, ai sintomatici. Per non sguarnire i reparti, chi stava bene continuava a lavorare, ma poiché gli asintomatici trasmettono il virus, negli ospedali della Lombardia prima, poi in quelli di altre regioni, si sono prodotti drammatici effetti moltiplicatori del contagio. Sullo sfondo, certo, c'è stato anche qualche comportamento imprudente, qualche viaggio o qualche brindisi di troppo anche tra la classe medica, ma la maggioranza è rimasta contagiata mentre era in prima linea. Disarmata. Uno degli altri gravi problemi è stata la carenza di dispositivi, dalle mascherine alle tute di protezione. Ora si sta correndo ai ripari: quasi tutte le regioni hanno annunciato che si faranno molti più tamponi a medici, infermieri e operatori sanitari; si stanno rifornendo ospedali e studi con mascherine e dispositivi di protezione, ma rischia di essere tardi. Racconta Antonio Magi, presidente dell'Ordine dei medici di Roma, che parla del Lazio, ma fa un ragionamento che vale per tutto il Paese: «Solo nella Capitale abbiamo 84 medici positivi. Due sono ricoverati in osservazione, gli altri sono in isolamento domiciliare. Per fortuna non sono gravi, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato. C'erano poche mascherine, non sono stati eseguiti sufficienti tamponi. Se non si proteggono gli operatori, non si proteggono neppure i cittadini». L'assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D'Amato, ha confermato: «Stiamo facendo più tamponi a medici, infermieri e operatori. Quando saranno pronti i test rapidi che si stanno sperimentando al Gemelli, sarà ancora più semplice controllare tutti coloro che si trovano nei posti più a rischio». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto «un immediato cambio di strategia nel Lazio per tutelare chi lavora negli ospedali», ma in realtà la situazione è critica in tutte le regioni. Dei 24 medici deceduti e positivi al coronavirus, venti erano della Lombardia, la regione che ha visto un'avanzata incontrollata del contagio anche e soprattutto negli ospedali. A Napoli quattro specializzandi hanno rifiutato l'assunzione, secondo Silvestro Scotti, presidente dell'Ordine dei Medici locale, anche perché i camici bianchi devono operare «a mani nude o con strumenti inadeguati».
CARENZE. Osserva Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, la fondazione che in questi giorni sta raccogliendo i dati sul personale medico e infermieristico contagiato: «A giudicare dalle innumerevoli narrative e dalla mancata esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e gli operatori sanitari, il numero ufficiale fornito dall'Istituto superiore di Sanità è ampiamente sottostimato. Un mese dopo il caso 1 di Codogno, i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell'impreparazione organizzativa e gestionale all'emergenza. Sollecitiamo l'esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e operatori sanitari, nonché l'integrazione delle linee guida Iss per garantire la massima protezione a chi è impegnato in prima linea contro l'emergenza coronavirus». In Lombardia quindici lavoratori positivi hanno denunciato l'Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano per avere tenuto «nascosti casi di lavoratori contagiati e impedito l'uso delle mascherine per non spaventare l'utenza». Replica della direzione: «Notizie false e calunniose, fin dal 24 febbraio abbiamo seguito i protocolli dell'Istituto superiore della Sanità, non c'è stata alcuna inadempienza».
IL COMITATO GOVERNATIVO DEGLI ESPERTI.
DAGOREPORT l'8 aprile 2020. Scontro tra Giuseppe Conte e il comitato scientifico che lo affianca a Palazzo Chigi. “Non posso fare quello che voi dite, l’economia deve ripartire o il paese rischia il fallimento. Dobbiamo essere competitivi con i mercati internazionali”. Ancora: “Non possiamo obbligare troppo a lungo la gente in casa. Ci sono problemi psicologici di cui bisogna tener conto. Non siamo in Cina. Quello è un regime. Un altro modo di pensare. In base al declino dell’emergenza sanitaria, dal 18 aprile ci sarà una ripresa graduale. ” Dal Pd, però, arrivano alcune critiche. Ma sulla comunicazione. “Non possono esserci troppe voci: Arcuri, Borrelli, Ricciardi. Occorre che sia una sola persona che parli alla popolazione”.
Alberto Gentili per “il Messaggero” il 5 marzo 2020. E' un comitato di otto uomini a dettare lo stile di vita degli italiani ai tempi del coronavirus. Si riunisce ogni giorno nella sede della Protezione civile in via Vitorchiano, al Flaminio. E ogni giorno elabora indicazioni per il premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e per il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Oltre a collaborare con Walter Ricciardi, consulente di Speranza e delegato dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). E' da questo comitato tecnico scientifico - diventato operativo con l'ordinanza del 3 febbraio, varata due giorni dopo la dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria nazionale - che è arrivata l'indicazione di istituire le zone rosse in Lombardia e Veneto e poi sono partiti i comandamenti anti-virus per l'Italia intera: il metro di distanza, il divieto di baci, strette di mano e abbracci, le partite a porte chiuse, oltre all'invito agli over 65 di restare a casa, esattamente come a chi ha appena due linee di febbre. E, per tutti, il suggerimento a evitare luoghi affollati. Ma proprio ieri c'è stata la prima frattura tra governo e comitato, con il parere contrario degli esperti alla chiusura delle scuole. Il confronto, a volte, inevitabilmente diventa aspro. L'incarico di coordinatore è affidato ad Agostino Miozzo, della Protezione civile. Il braccio destro di Borrelli ha 67, è veneto, e ha una lunga esperienza cominciata con una laurea in Medicina all'Università di Milano, cui è seguito un corso di perfezionamento in chirurgia ostetricia presso l'università di Harare. Miozzo è soprattutto un uomo macchina, un regista delle misure per fronteggiare le emergenze: da quella dei migranti, alla siccità, ora l'epidemia da Covid-19. Non a caso è stato direttore della Protezione civile europea.
La vera mente scientifica, il membro del Comitato che dice l'ultima parola su contagi e profilassi, è Giuseppe Ippolito, dal 1998 direttore dell'Istituto nazionale delle malattie infettive Spallanzani. Il pane di Ippolito, salernitano, 65 anni, sono da sempre i virus. A cominciare da quello dell'Aids. Con una lunga esperienza nelle istituzioni internazionali, inclusa la lotta contro Ebola. «Quando Ippolito parla, premier e ministro pendono dalle sue labbra», raccontano alla Protezione civile.
Lo stesso vale per Ricciardi, 61 anni, napoletano, rappresentante per l'Italia nell'executive board dell'Oms, consulente personale di Speranza. E per Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore della Sanità, friulano, 59 anni, specializzato in igiene e medicina della sanità pubblica. E co-fondatore e coordinatore dal 2011 del network europeo per la prevenzione delle infezioni.
C'è però chi dice che il più ascoltato, assieme a Ippolito, sia Claudio D'Amario, direttore generale della prevenzione sanitaria presso il ministero della Salute. Nato a Francavilla (Chieti) 61 anni fa, D'Amario è un internista con specializzazione in medicina preventiva. Aveva già accettato l'incarico di capo dipartimento della Salute della Regione Abruzzo, ed era atteso a L'Aquila, quando è stato chiamato a far parte del Comitato. E Marco Marsilio, il governatore abruzzese, ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Il ministro Speranza e Borrelli ci hanno pregato di lasciarlo con loro per altri due mesi. Per noi è un sacrificio, ma siamo orgogliosi di lui».
Altro pezzo da novanta della task force anti-virus è Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute. Di lui, nato ad Amalfi 62 anni fa, dicono che ha una grande esperienza nella «gestione delle emergenze» e che «è uno che sa farsi rispettare».
C'è poi Mauro Dionisio, direttore dell'ufficio di coordinamento della sanità marittima, aerea e di frontiera. Napoletano, 58 anni, medico specializzato in igiene e medicina preventiva, è l'esperto da cui sono arrivate nei primi giorni dell'emergenza le indicazioni per il contenimento dell'epidemia proveniente dall'estero con i presidi in porti e aeroporti.
Settori per i quali il Comitato si avvalso anche dell'esperienza e dei suggerimenti di Francesco Maraglino, direttore della Direzione generale del ministero della Salute per la prevenzione sanitaria delle malattie trasmissibili e la profilassi internazionale. Pugliese, 57 anni, Maraglino sovrintende anche al potenziamento dell'organizzazione ospedaliera.
Nel comitato tecnico scientifico di Conte e Speranza è presente infine Alberto Zoli, direttore generale dell'Azienda regionale lombarda per l'emergenza e l'urgenza, pure lui specializzato in medicina preventiva. E' stato designato dalla Conferenza delle Regioni per svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione tra governo e presidenti regionali. Ruolo non proprio semplicissimo, visti i rapporti tesi tra palazzo Chigi e i governatori leghisti.
Falsi miti. Il modello Italia per affrontare l’emergenza non esiste. Marco Plutino su L’Inkiesta il 6 aprile 2020. L’ininterrotta sequenza di errori diventerà piuttosto un caso da manuale di cosa non fare. Quattordicimila morti dovrebbero far ricredere quelli che negli ultimi anni si sono cullati nell'idea di una nostra eccellenza. Il cosiddetto modello italiano di contrasto al coronavirus non esiste e temo che non sia mai esistito. Diventerà piuttosto un caso da manuale di cosa non fare. Quattordicimila morti dovrebbero consentire di riporre nel cassetto l’idea nella quale molti si sono cullati di una nostra eccellenza. Altro è il nostro di essere del sistema sanitario (che gode di una certa fama nel mondo), altro una prova specifica che richiedeva procedure, servizi e scelte ben precise. Ormai abbiamo elementi a sufficienza per affermare che il “modello Italia” è poco meno che un’ininterrotta sequenza di errori (ogni tanto qualcuna se ne indovina, per la legge dei grandi numeri), a cui si devono – ahinoi – una parte molto significativa dei deceduti. Ciò a causa di un governo di eterogeneo, nato per caso, di scarso profilo e inesperto, a partire dalla sua guida e dal titolare del ministero della Salute, capitato lì per caso per qualche algoritmo del manuale Cencelli 2.0. Sembra un quadro eccessivo? Basti pensare alla improvvida chiusura dei voti diretti dalla Cina, che ha fatto rientrare centinaia di migliaia di persone da altri scali e senza controlli, agli ospedali ridotti a focolai e vettori di contagio; alla percentuale impressionante (circa il 10 per cento dei contagiati ufficiali) di personale medico e paramedico contagiato e quindi fuori gioco a causa dell’assenza o insufficienza di dispositivi sanitari di protezione individuale; alla situazione esplosiva delle case di riposo per anziani per evidente carenza di prevenzione e controlli; al tempo prezioso (almeno un mese intero) perduto alla ricerca non solo nella direzione sbagliata, ma pure pigra, del paziente uno. Anche la serrata degli impianti industriali e produttivi annunciata senza indicazioni operative, tanto è vero che di fatto è stata rinviata di diversi giorni; le fughe di notizie e agli annunci non seguiti da norme con tutte le conseguenze del caso (leggasi fughe di massa verso la Sardegna e il sud Italia); le persone contagiate con sintomi o addirittura morte a casa senza neanche che venisse effettuato il tampone per inefficienze e contraddittorie o illogiche direttive sanitarie e amministrative. Non è neanche tutto, ma già così vi pare poco? Si confronti con la Germania: tantissimi contagiati e pochissimi morti e ciò per quanto la Germania abbia avuto il primo contagiato ufficiale il 27 gennaio, mentre l’Italia l’ha avuto attorno al 22-23 febbraio, perché il paziente uno è stato sciattamente ricercato con criteri erronei dato che si cercava un paziente proveniente dalla Cina. L’Istituto superiore di Sanità solo attorno al 10 marzo, quando già eravamo chiusi in casa, ha ammesso che il contagio non proveniva dalla Cina e il virus circolava da tempo in Italia., come sosteneva intuitivamente da settimane Ilaria Capua. Di conseguenza nel frattempo ci sono stati nella migliore delle ipotesi parecchie centinaia di contagi, mentre in Germania si ricostruivano da settimane nella sobrietà e nell’ordine di un’efficiente macchina ordinaria di gestione dello straordinario le catene del contagio. Questa è la ragione per cui le statistiche in Germania ci sono sembrate a lungo sospette, se non taroccate. Erano troppo divergenti dalle nostre, ma è stato un errore cognitivo ritenere che le nostre fossero giuste perché più gravi (in particolare nel rapporto di letalità) e le loro sbagliate perché più lievi. Differenze statistiche e di contabilità ce ne possono essere e ce ne sono state, ma bastava poco a capire che le statistiche tedesche erano messe su con criteri di maggiore attendibilità. La forchetta enorme tra Germania e Italia dipendeva dalla inattendibilità delle nostre, con un numero di contagiati sotto-riportato (cd. under reporting) e uno effettivo enormemente superiore, come ora emerge anche da studi internazionali. La Germania aveva pensato e realizzato politiche mirate e tamponi su campioni di popolazioni rappresentative o comunque risalendo le catene di contagio. Se il modello Italia si riducesse alla scelta del distanziamento sociale e poi del contenimento a casa, misure prive di alternative in questi casi (almeno la natura fondamentale del virus era nota: nuovo, contagioso, insidioso per la necessità di ricoveri: pertanto la cui circolazione andava limitata assolutamente, come poi ha compreso il premier inglese Boris Johnson), ovviamente tali misure erano già stato adottate in Cina, con le differenze del caso. Gli errori del resto emergeranno ancora più chiaramente nei prossimi mesi. Si è cercato di porre riparo, tralasciando le forme prescelte, con regole ottuse e sanzioni più volte modificate fino a non capirsi più nulla. Sfido chiunque a dire su due piedi cosa gli accade se esce di casa senza giustificato motivo e magari in caso di recidiva. Vorrei pertanto mostrare come anche su questo piano il confronto con i nostri vicini ci faccia uscire male, malissimo. In Italia sono state previste sanzioni penali per il solo fatto di uscire da casa senza giustificato motivo. Il risultato è un incredibile numero di abitanti, 115.138, che in pochi giorni si sono ritrovati denunciati penalmente, con il casellario giudiziario a rischio. Il Governo è stato costretto alla retromarcia, imitando la via perseguita in altri paesi europei. Con il decreto legge del 25 marzo sono state eliminate retroattivamente queste sanzioni e tramutate in illecito amministrativo, punito con il pagamento di una somma da 400 a 3mila euro, che viene incrementata di un terzo se il fatto è commesso con l’uso di un veicolo (in caso di recidiva, cioè se si viene trovati più volte a non rispettare i divieti, l’importo viene raddoppiato). Su anziani, bambini e jogging si è fatta una tremenda confusione, non ancora dissipata. Il modulo dell’autocertificazione, poi, è stato cambiato quattro volte, a fronte di norme grosso modo identiche. Nonostante ciò manca la chiarezza su cosa sia “urgente”, cosa sia una distanza di “prossimità” e altro. Nelle regole di transito tra i comuni si è fatta confusione, con un ginepraio di interpretazioni che permangono tuttora. A proposito delle limitazioni intercomunali, prima ancora di questi divieti l’eliminazione della zona rossa nei dintorni di Codogno ha determinato un vero e proprio disastro in termini epidemiologici. Tra l’altro il governo nei giorni successivi non ha più ammesso di aver allentato le misure per quei territori, è passata la lettura si fosse estesa la “zona rossa” a tutta Italia: fu invece contro ogni logica eliminata la zona rossa, comprendente una serie di comuni, e prevista una “zona arancione” valevole per tutta Italia. I sindaci e i presidenti di regione, giusto o sbagliato, non hanno mai accettato tale impostazione, temendo (giustamente) le conseguenze di un’improvvida apertura del “fronte” più virulento, e hanno iniziato a produrre atti per lo più illegittimi ma non più contestati dai prefetti (dipendenti dal governo). Il governo ha sempre espressamente negato la legittimità di interventi regionali più restrittivi ma alla fine li ha ammessi, palesemente contraddicendosi, visto che non era certo cambiato qualcosa che giustificasse questo cambio di politica. E poi siamo sicuri che secondo la Costituzione spettasse al governo decidere se tali poteri regionali sono esercitabili o meno? Confrontiamo rapidamente questa Babele con le regole adottate in altri paesi comparabili col nostro. In Francia l’Assemblea Nazionale (non il governo) ha previsto e poi aumentato le sanzioni per chi esce senza giustificato motivo: la multa di 135 euro può essere aumentata fino a 1.500 euro in caso di recidiva. A parte le solite ragioni (spesa, urgenze, etc.) si può uscire a fare una passeggiata con i figli o fare esercizio fisico, purché nel raggio di un chilometro da casa (la distanza è indicata con precisione, e si evitano riferimenti a cose dubbie come isolati, vicinati, paraggi, etc.), e viene quantificata nel tempo e nei modi: al massimo per un’ora, da soli e una sola volta al giorno. Tutto da autocertificare previamente sulla modulistica. Vediamo il modello Germania (per la cui ricostruzione ringrazio Edoardo Toniolatti). Uscire all’aperto è consentito rispettando la distanza e fare sport non solo è possibile ma è un’attività incoraggiata. È possibile perfino stare all’aperto in piccoli assembramenti se famiglie o coinquilini, regola di impeccabile logica (in Italia c’è voluta una circolare per chiarire che non bisognava multare i coniugi in auto per il solo fatto di essere in due, o imporre loro di sedere su file diverse!). Non sono previste sanzioni né la presentazione di documenti che mostrino la necessità di lasciare il proprio domicilio. Va detto che alcuni Länder potevano adottare e hanno adottato misure più restrittive. Altro che modello. Se non ci fosse da piangere, potremmo affermando scherzosamente che siamo una Francia che non ce l’ha fatta, restando inviluppati in tutti i bizantinismi e le confusioni del caso. La Germania poi è un altro pianeta. In definitiva: abbiamo copiato dalla Francia gli illeciti amministrativi e dalla Germania il trattamento dei coniugi, senza arrivare a riconoscere in modo chiaro diritti come quello a uscire con il solo rispetto delle distanze sociali (Germania); o almeno alla passeggiata (Francia); a fare sport solitario (Francia e Germania); a poter essere e permanere in strada insieme a conviventi, familiari e non (Germania). Il capolavoro è stato il presidente del Consiglio Conte che in conferenza stampa spiegava come i bambini possono uscire solo al seguito dei genitori per fare la spesa. Non sia mai detto che i nostri bimbi prendano un’ora d’aria e i loro genitori tornino a casa a mani vuote. Forse basta una caramella?
L’AIFA.
Coronavirus, l'Agenzia del farmaco boccia il Tocilizumab, l'antireumatoide non porta benefici. Il Quotidiano del Sud il 17 giugno 2020. Si è concluso anticipatamente e con esito negativo il percorso di studio sull’efficacia del Tocilizumab, farmaco antireumatoide, nella cura del coronavirus Covid-19, quanto meno nei pazienti in una fase intermedia del decorso della malattia. Lo studio era stato effettuato con l’arruolamento di 126 pazienti (un terzo della casistica prevista) per valutare l’efficacia del medicinale somministrato in fase precoce, nei confronti della terapia standard in pazienti affetti da polmonite da Covid-19 di recente insorgenza che richiedevano assistenza ospedaliera, ma senza procedure di ventilazione meccanica invasiva o semi-invasiva. Lo studio è stato promosso dall’Azienda Unità Sanitaria Locale-IRCCS di Reggio Emilia (Principal Investigators i professori Carlo Salvarani e Massimo Costantini) ed è stato condotto con la collaborazione di 24 centri. Si tratta del primo studio randomizzato concluso a livello internazionale su tocilizumab, interamente realizzato in Italia. «Lo studio – spiega l’Aifa in una nota – non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per quanto riguarda la sopravvivenza. In questa popolazione di pazienti in una fase meno avanzata di malattia lo studio può considerarsi importante e conclusivo, mentre in pazienti di maggiore gravità si attendono i risultati di altri studi tuttora in corso». Dei 126 pazienti randomizzati, tre sono stati esclusi dalle analisi perché hanno ritirato il consenso, nei restanti 123 pazienti è stata evidenziata una percentuale simile di aggravamenti nelle prime due settimane nei pazienti randomizzati a ricevere tocilizumab e nei pazienti randomizzati a ricevere la terapia standard (28.3% vs. 27.0%). Nessuna differenza significativa è stata osservata nel numero totale di accessi alla Terapia Intensiva (10.0% verso il 7.9%) e nella mortalità a 30 giorni (3.3% vs. 3.2%). In sostanza, quindi, che si usasse il Tocilizumab o meno il decorso della malattia non ha manifestato scostamenti degni di nota. In conclusione, per l’Agenzia del Farmaco «l’uso del Tocilizumab deve essere limitato esclusivamente nell’ambito di studi clinici randomizzati».
Tocilizumab promosso dall’agenzia del farmaco spagnolo, la "rivincita" di Ascierto dopo il caso Aifa. Redazione su Il Riformista il 21 Giugno 2020. La Boe, acronimo di Official State Gazette, l’agenzia del farmaco spagnola, riconosce come farmaco essenziale per il trattamento del coronavirus il Tocilizumab, farmaco utilizzato in processi anti-infiammatori come l’artrite reumatoide e per la prima volta sperimentato per fermare la tempesta citochinica da Covid 19 dall’oncologo del Pascale Paolo Ascierto. A confermarlo è il quotidiano spagnolo Publico. A convincere la Boe a promuovere il Tocilizumab gli effetti significativi che il farmaco avrebbe avuto sui pazienti più gravi collegati a ventilatori meccanici o che hanno bisogno di ossigeno. Nei giorni scorsi si era creata una polemica tra l’oncologo e l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che aveva spiegato in una nota come il farmaco “non porta alcun beneficio ai pazienti affetti da Covid-19. Uno studio randomizzato su 126 pazienti coordinato da Reggio Emilia, concluso anticipatamente, aveva evidenziato come il farmaco “non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per la sopravvivenza”. “Tocilizumab – scrive l’Aifa – si deve considerare come un farmaco sperimentale”. Per Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di oncologia melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, la nota dell’Aifa va presa però con le molle. “Sarei cauto nell’affermare che questo farmaco non funziona, a causa di una serie di limitazioni che riguardano lo studio in questione, che è giunto a conclusioni già note, su pazienti non gravi. Nei pazienti con forma più severa, il tocilizumab funziona e noi lo stiamo dimostrando”, ha spiegato Ascierto all’Adnkronos.
Pasticcio Aifa, caos sullo studio sul Tocilizumab. Ascierto: “Su pazienti gravi funziona”. Redazione su Il Riformista il 18 Giugno 2020. L’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha spiegato in una nota che il farmaco per l’artrite reumatoide Tocilizumab non porta alcun beneficio ai pazienti affetti da Covid-19. Uno studio randomizzato su 126 pazienti coordinato da Reggio Emilia, concluso anticipatamente, ha evidenziato come “non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per la sopravvivenza”. “Tocilizumab – scrive l’Aifa – si deve considerare come un farmaco sperimentale”. Per Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di oncologia melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, la nota dell’Aifa va presa però con le molle. “Sarei cauto nell’affermare che questo farmaco non funziona, a causa di una serie di limitazioni che riguardano lo studio in questione, che è giunto a conclusioni già note, su pazienti non gravi. Nei pazienti con forma più severa, il tocilizumab funziona e noi lo stiamo dimostrando”, ha spiegato Ascierto all’Adnkronos. Nella nota diffusa dall’Aifa si legge infatti che “lo studio non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva) né per quanto riguarda la sopravvivenza. In questa popolazione di pazienti in una fase meno avanzata di malattia lo studio può considerarsi importante e conclusivo, mentre in pazienti di maggiore gravità si attendono i risultati di altri studi tuttora in corso. Dei 126 pazienti randomizzati, tre sono stati esclusi dalle analisi perché hanno ritirato il consenso. L’analisi dei 123 pazienti rimanenti ha evidenziato una percentuale simile di aggravamenti nelle prime due settimane nei pazienti randomizzati a ricevere tocilizumab e nei pazienti randomizzati a ricevere la terapia standard (28.3% vs. 27.0%). Nessuna differenza significativa è stata osservata nel numero totale di accessi alla Terapia Intensiva (10.0% verso il 7.9%) e nella mortalità a 30 giorni (3.3% vs. 3.2%)”. L’oncologo per primo ha utilizzato per primo il ‘Toci’ nel trattamento della polmonite interstiziale da Covid-19 e rivendica i risultati ottenuti a Napoli: “I dati che vengono fuori dallo studio emiliano – evidenzia il medico all’Adnkronos – non fanno altro che confermare risultati già noti. E c’è una serie di punti da notare: innanzitutto parliamo di due studi, il nostro ‘Tocivid-19’ e quest’ultimo, che arruolano due categorie di pazienti diversi. Nel trial emiliano i pazienti vengono trattati in una fase precoce e in una situazione più lieve, rispetto allo studio Tocivid-19. Ancora, nello studio emiliano per definire la risposta infiammatoria il paziente doveva corrispondere a una sola di queste tre situazioni: una misurazione della febbre al di sopra di 38° C negli ultimi 2 giorni, l’incremento della Pcr di almeno due volte il valore basale, oppure una Pcr sierica maggiore o uguale a 10 mg/dl. In pratica il paziente poteva anche solo avere avuto la febbre. Infine, i risultati riguardano 123 pazienti (anzi, la metà sono quelli effettivamente trattati essendo uno studio randomizzato): una coorte di sicuro piccola rispetto al Tocivid-19, che viene condotto su 330 pazienti, ma con una coorte osservazionale di oltre 2.500 pazienti”. Ascierto ricorda quindi come nello studio napoletano “a un mese è stato ottenuto un tasso di letalità del 22,4%, quindi un risultato superiore del 10% rispetto a quanto prospettato. A 30 giorni l’impatto del tocilizumab c’è, e un altro piccolo studio retrospettivo dell’università del Michigan su pazienti gravi dimostra esattamente quello che abbiamo visto noi. Detto questo, il dato negativo su pazienti lievi già era stato evidenziato da uno studio di Sanofi Regeneron reso noto il 27 aprile: era stato affermato che il sarilumab, un analogo del tocilizumab, non funziona nelle fasi precoci, ma funziona in pazienti più seri. Tra l’altro la mortalità osservata in questo studio a 30 giorni è stata del 3% circa, indicando che si tratta di una popolazione selezionata a prognosi più favorevole”.
Parla il professore Pierluigi Lopalco. “Il Tocilizumab è efficace contro il Covid-19”, ennesima approvazione per la Cura Ascierto. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. “I risultati” di uno studio “sono confortanti e confermano quanto osservato precedentemente: il Tocilizumab presenta una certa efficacia nel prevenire il ricorso alla ventilazione meccanica e riduce la probabilità di morte se combinato con il trattamento standard”. E’ quanto scrive sui social il professore Pierluigi Lopalco, epidemiologo a capo della task force pugliese per l’emergenza Coronavirus, riprendendo una ricerca pubblicata su Lancet Reumathology sull’efficacia del farmaco anti-artrite prodotto da La Roche e sperimentato contro il Covid-19 per la prima volta a Napoli su intuizioni del professor Paolo Ascierto, direttore del Dipartimento Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto dei tumori partenopeo. “L’effetto positivo del Tocilizumab – spiega Lopalco – era stato ipotizzato da osservazioni cliniche preliminari in Cina, quindi confermato da osservazioni aneddotiche anche in importanti centri clinici italiani. Solo ora, dopo tre mesi di osservazioni e studi, viene pubblicato un bello studio su Lancet Reumathology a firma di cari amici e colleghi fra Bologna, Modena e Reggio Emilia. Ma quello che è più importante ai fini di questa riflessione sono le conclusioni degli autori che, dopo mesi di lavoro e dopo aver spaccato il capello ai dati raccolti da 1.351 cartelle cliniche, concludono: “Sebbene questi risultati siano incoraggianti, dovranno essere confermati da studi randomizzati come quelli attualmente in corso”.
Parla Paolo Ascierto: «La mia cura è efficace e vi spiego il perché». La terapia di Tocilizumab, un farmaco anti-artrite, è discussa ma ha già curato 330 pazienti. Federico Cenci il 26 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. A Solopaca, località del Sannio di cui è originario, gli hanno dedicato un gusto di gelato. Il prof. Paolo Ascierto, del resto, è un compaesano di cui andare fieri. Oncologo che dirige l’unità di Melanoma, Immunoterapia oncologica e Terapie innovative del Pascale di Napoli, a lui si deve l’intuizione dell’efficacia della terapia di Tocilizumab, un farmaco anti-artrite, per curare il Covid-19. Terapia su cui però l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) si è espressa affermando che «non ha mostrato alcun beneficio nei pazienti trattati» (Diverso il parere della BOE, l’agenzia del farmaco spagnola, che pochi giorni fa ha riconosciuto la “cura Ascierto” come essenziale per il trattamento del coronavirus.
Professore, per lei si tratta di un riscatto dopo il parere dell’AIFA?
«Non parlerei di riscatto, il mio non è un voler dimostrare per forza che la terapia con il Tocilizumab è efficace. Se avessi avuto la percezione, dai dati scientifici, che il farmaco non funzionava, sarei stato il primo a renderlo pubblico. La BOE ha semplicemente riconosciuto che alla base della polmonite da coronavirus vi è una intensa liberazione di citochine, osservando come, i pazienti più gravi collegati a ventilatori meccanici o che necessitano di ossigeno, traggono dei notevoli benefici dalla somministrazione del farmaco».
Che idea si è fatto delle conclusioni cui è giunta l’Aifa?
«L’AIFA ha semplicemente confermato ciò che già si sapeva, ovvero che il farmaco non dà alcun beneficio nei pazienti che si trovano in una fase meno avanzata, precisando inoltre che per i pazienti che si trovano in una condizione clinica più grave, bisogna attendere i risultati di studi in corso, prima di giungere a conclusioni. Lo studio emiliano ha coinvolto un gruppo di pazienti nei confronti del quale già si sapeva che il farmaco probabilmente non avrebbe dato alcun risultato, in particolare sono stati selezionati pazienti con sintomi lievi in cui per definire la risposta infiammatoria il paziente doveva rispettare almeno uno dei tre criteri: una misurazione della febbre al di sopra di 38° C negli ultimi 2 giorni, l’incremento della Pcr di almeno due volte il valore basale, oppure una Pcr sierica maggiore o uguale a 10 mg/dl. I risultati riguardano circa 60 pazienti, una coorte più piccola rispetto al Tocivid-19, che invece è stato condotto su 330 pazienti, con una coorte osservazionale di oltre 2.500 pazienti. Inoltre il dato negativo su pazienti lievi già era stato evidenziato da uno studio di Sanofi Regeneron reso noto il 27 aprile in cui era stato affermato che il Sarilumab, un analogo del Tocilizumab, non funziona nelle fasi precoci, ma in pazienti più gravi. Tra l’altro la mortalità osservata in questo studio a 30 giorni è stata del 3% circa, indicando che si tratta di una popolazione selezionata a prognosi già più favorevole».
Quanti pazienti avete curato finora con il Tocilizumab?
«Circa 330. Con questo studio abbiamo dimostrato che nei pazienti gravi che rispettavano alcuni criteri, il tasso di letalità a 30 giorni è stato ridotto di più del 10%. Inoltre, nello studio osservazionale dell’AIFA, sono stati trattati più di 2mila pazienti. I dati che verranno dall’analisi di quest’ultima coorte, contribuiranno a chiarire ulteriormente il ruolo del tocilizumab nella cura del distress respiratorio da Covid-19».
Ci sarà o no una seconda ondata in autunno?
«Sappiamo ancora troppo poco di questo virus per poter avanzare ipotesi di certezza. La probabilità di una seconda ondata c’è, in autunno come ora. Poi, se non dovesse accadere, saremmo tutti più contenti. In poche parole, come affermava Manzoni «meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore», e purtroppo all’inizio di questa pandemia abbiamo più che riposato nell’errore. Detto questo, al momento i numeri ci rincuorano, ma proprio per questo è molto importante non abbassare la guardia».
Maria Sorbi per “il Giornale” il 10 aprile 2020. Da un mese a questa parte, la lotta al virus si declina in singole battaglie contro «mancanze». Prima mancano i posti letto, poi mancano le mascherine, poi l' ossigeno per rifornire le bombole. Poi ancora il personale sanitario. Ora cominciano a mancare anche i farmaci. Quelli dai nomi impronunciabili che però ci sono diventati familiari, a cominciare dall' antivirale Remdesivir e dall' immunosoppressore Tocilizumab. Farmaci nati per altro - per l' artrite reumatoide, la malaria, l' Ebola, l' Hiv - ma utili a tamponare il progredire della malattia che assale i polmoni. Tuttavia le scorte nelle farmacie degli ospedali scarseggiano e a farne le spese non sono solo i malati Covid ma anche i pazienti degli altri reparti in cui questi medicinali vengono utilizzati abitualmente. A lanciare l' allarme scorte è la Sifo, società italiana di farmacia ospedaliera, che ha aperto una pagina web per condividere le segnalazioni da parte dei farmacisti ospedalieri e dei servizi farmaceutici territoriali di tutta Italia, che quotidianamente sono chiamati a rispondere alle richieste dei pazienti, delle aziende sanitarie e delle cabine di regia regionali e che quindi hanno il polso della situazione. «I primi dati raccolti, esprimono carenze che permettono di intuire la difficoltà con cui oggi ci troviamo a gestire sia i pazienti Covid-19 sia i pazienti con altre patologie che in questo momento subiscono, loro malgrado, una contrazione di disponibilità di farmaci - spiega Simona Serao Creazzola, presidente Sifo -. L' emergenza si sta abbattendo dal sistema di approvvigionamento di farmaci al letto del paziente». «Il problema - spiegano i farmacisti ospedalieri - è che i farmaci sono gli stessi in ogni zona d' Italia, ma le realtà epidemiologiche, così come quelle logistiche dell' assistenza sanitaria, sono diverse». Di fatto le regioni più colpite sottraggono le disponibilità di farmaci alle regioni dove al momento l' emergenza è meno grave. Per cercare di tamponare l' sos medicinali e non lasciare a secco i magazzini, l' Aifa (agenzia del farmaco) ha autorizzato le aziende produttrici all' importazione dall' estero della quasi totalità dei farmaci carenti. Sono diverse le aziende che si stanno organizzando, consapevoli del fatto che tutto il mondo ormai richieda gli stessi prodotti per superare l' empasse creato dall' epidemia. Ma il rischio è che la coperta sia troppo corta per coprire le richieste a valanga di ogni Paese. Oltre agli antivirali, le carenze più gravi si registrano per farmaci che non servono solo contro il Covid. Tra questi i miorilassanti muscolari (Cisatracurio, Rocuronio, Atracurio), gli anestetici (Propofol, Remifentanil), gli antibiotici (Piperacillina/Tazobactam; Azitromicina), gli antibatterici (Claritromicina), gli antitrombotici (Eparina Sodica), gli antimalarici, gli antiemorragici (Acido Tranexamico) e l' immunodepressore Tocilizumab, al centro di vari studi come strumento tampona-virus in attesa di un vaccino. Il monitoraggio avviato dalla società Sifo ha anche messo in evidenza altre carenze che riguardano materiale medico e dispositivi ospedalieri necessari all' assistenza dei malati. Oltre ai dispositivi di protezione individuale, sulle cui forniture sono in corso polemiche (e inchieste), i reparti segnalano la mancanza di caschi per la ventilazione non invasiva, tanto che in alcuni ospedali è stato autorizzato l' utilizzo della maschere da snorkeling della Decathlon, riadattate con i tubi per l' ossigenazione. Mancano i tamponi faringei necessari alle diagnosi (al momento l' unico strumento ufficiale per determinare la presenza del virus), mancano le apparecchiature per alti flussi. E ancora, mancano i materiali per la ventilazione meccanica a pressione positiva continua (i caschetti CPAP): tubi, maschera, fasce elastiche. E l' elenco della «spesa farmacologica» si chiude con i disinfettanti, introvabili non solo nelle comuni farmacie ma vitali all' interno di un ospedale. Tanto che le farmacie ospedaliere stanno provvedendo in proprio con la produzione continua in loco, nonostante la difficoltà di reperimento di alcool.
Coronavirus, ai malati il farmaco killer. Franco Bechis l'1 aprile 2020 su Il Tempo. Per una settimana ai malati di coronavirus è stato dato un farmaco dal servizio sanitario nazionale (SSN) italiano che si è rivelato “incompatibile” con il loro stato di salute e che potrebbe anche avere causato danni non lievi al gruppo di pazienti a cui è stato somministrato. Il farmaco è l'interferone beta 1, a cui ha avuto accesso un numero misterioso di malati di Covid 19 in quel breve periodo. In commercio sul mercato italiano esiste con il nome di Avonex, utilizzato fin qui nella cura della sclerosi a placche. Come è chiaro dalle istruzioni la sua somministrazione in quelle cure doveva avvenire attraverso iniezione intramuscolo o al limite sotto pelle. L'Aifa - l'agenzia del farmaco italiano - ha invece autorizzato il suo utilizzo nella lotta al coronavirus per via endovenosa. Il risultato secondo le avvertenze del farmaco è un sostanziale sovradosaggio dovuto all'assorbimento più rapido. E gli effetti già testati in questo caso sono fra l'altro: «svenimento,. Convulsioni, disturbi depressivi, anche gravi con ideazione suicidaria, aritmie, angina, ipertensione arteriosa, insufficienza cardiaca e addirittura difficoltà respiratorie». Non conosciamo cosa sia accaduto a quei malati, ma è certo che dopo 7 giorni di somministrazione quella autorizzazione all'utilizzo dell'interferone beta 1 è stata improvvisamente revocata dalla stessa Aifa. L'autorizzazione e la revoca sono atti pubblici, entrambi pubblicati sulla Gazzetta ufficiale come determine dell'Agenzia del farmaco. La prima è del 17 marzo e stabilisce che l'interferone beta 1 «è erogabile a totale carico del Servizio sanitario nazionale come terapia di supporto dei pazienti affetti da infezione da Sars-CoV2 (COVID-19), nel rispetto delle condizioni per esso indicate nell'allegato 1 che fa parte integrante della presente determina». L'allegato a cui si fa riferimento spiegava che il farmaco era controindicato ovviamente per chi aveva ipersensibilità all'interferone beta 1, a chi stava seguendo altra «terapia corticosteroidea» e per le donne in gravidanza o in allattamento. Stabiliva anche che la cura sarebbe stata a carico del SSN per tre mesi, e il piano terapeutico: «dosaggio 10 mg al giorno in bolo endovenoso per un massimo di 6 giorni consecutivi». Infine i parametri indicati per il monitoraggio clinico: «Nel corso del trattamento con il medicinale devono essere monitorati i tempi di estubazione e la mortalità». Otto giorni dopo - il 25 marzo - sulla Gazzetta Ufficiale è stata pubblicata una nuova determina Aifa che revocava la decisione precedente che sarebbe dovuta durare tre mesi spiegando solo che la commissione tecnico scientifica dell'Agenzia del farmaco in una sua riunione tenutasi il 24 marzo «ha ritenuto opportuno revocare tale inserimento per problemi di incompatibilità della formulazione disponibile rispetto all'uso proposto». Quando ho letto entrambe le gazzette ufficiali ho fatto un salto sulla sedia: «Cosa è successo per consentire ai malati di coronavirus l'utilizzo di un farmaco che dopo soli sette giorni viene ritirato? È stato usato su qualche paziente? Con quali effetti? Ha migliorato la sua situazione o l'ha aggravata, visto il ritiro?». Tutte domande che dovrebbero avere risposta nel verbale di quella commissione tecnica dell'Aifa, che però non è pubblicato né pubblico. Ho provato ad avere notizie dall'interno dell'Agenzia come già avevo fatto in passato, ma ho trovato un riserbo che mai mi era stato frapposto. Insistendo l'unica cosa che ho saputo è che il farmaco era già stato sperimentato prima della sua autorizzazione su circa 300 pazienti, con qualche successo. E con questo avevo chiaro il motivo della prima delibera Aifa, che lo inseriva fra le cure ufficiali al coronavirus a carico del sistema sanitario pubblico. Ma perché poi è stato ritirato? Un giallo. Così ho inviato le due gazzette ufficiali al viceministro della Salute, Pier Paolo Sileri, che è saltato sulla sedia appena lette esattamente come era capitato a me: «Mi informo». Sileri è sempre molto gentile e ci tiene alla trasparenza, ma in questo caso aveva una sensibilità in più: nel tunnel di quella brutta malattia è passato anche lui in prima persona, ed è appena uscito. Il viceministro ha provato per le vie brevi e informali ad avere chiarimenti dall'Aifa, nella speranza di potere fornire una risposta rapida e tranquillizzante. Ma il tentativo non è riuscito. Così ha chiesto chiarimenti ufficiali inviando una lettera all'Aifa nella sua funzione di ministro controllante. A quel punto zitti non potevano stare. Lì ha chiesto i motivi dell'autorizzazione e quelli della revoca nonché il numero di malati Covid 19 eventualmente trattati in quella settimana di autorizzazione del farmaco e con quale risultato. Ha ricevuto la risposta ufficiale a 36 ore dalle sue domande, solo ieri in tarda serata. E me l'ha girata. Eccola: «Per quanto riguarda eventuali pazienti trattati con IFN-beta1a dal 17 al 25 marzo, tale dato non è ancora a disposizione di AIFA, essendo in corso di pubblicazione in questi giorni la piattaforma per l'inserimento dei dati da parte dei clinici. Inoltre, in questo momento di emergenza i centri ospedalieri non hanno facilità ad inviare i dati e quindi li verificheremo appena possibile. Lo studio di riferimento per l'iniziale inserimento prevedeva un trattamento per via endovenosa. Purtroppo le formulazioni disponibili in Italia non sono autorizzate per l’uso endovena e quindi la CTS, nell'ambito del processo di rivalutazione continua delle evidenze in materia di farmaci per il trattamento del COVID-19 ha ritenuto opportuno revocare l'inserimento nelle liste ai sensi della legge 648/96, per i menzionati problemi di incompatibilità della formulazione disponibile rispetto all'uso proposto». Purtroppo la risposta chiarisce poco. Conferma quello che avevamo scoperto da soli: era stata data autorizzazione all'utilizzo di un farmaco per via endovenosa che però sul mercato esiste solo per la somministrazione per via intramuscolare. E già questo è un errore clamoroso: perché essendo l'Aifa l'agenzia che autorizza in Italia la commercializzazione dei farmaci, è il solo soggetto che dovrebbe conoscerne le caratteristiche. Ma è la prima parte della risposta che inquieta non poco. L'Agenzia avrebbe potuto rispondere: «Ovviamente il farmaco non disponibile per quello che pensavamo non è stato somministrato nemmeno a un paziente». Purtroppo non dice questo, anzi. Dice semplicemente che non è in grado di saperlo in questo momento, dovendo attendere i dati che man mano arriveranno dagli ospedali italiani. L'unica è sperare che questo incredibile infortunio dell'agenzia non abbia indotto in analogo errore qualche ospedale o medico che si fosse fidato dell'Aifa seguendo le istruzioni fornite. Dio non voglia che il nostra sistema sanitario abbia somministrato ai malati di questa brutta bestia quel che poteva provocare anche senza il virus una insufficienza respiratoria.
IL CER.
Dagospia l'8 aprile 2020. Roberto Burioni. Ho cancellato un tweet perché ho sbagliato a scrivere un nome non lo posso correggere e non ho tempo di riscriverlo. Scusate. Il tweet cancellato di Burioni: Martire [Carlo] Ferrari un bel niente. I martiri siamo noi cittadini, vittime di questa ottusa burocrazia comunitaria che comincia a stancare anche gli ultra-europeisti come me. Sarà meglio che vi diate una sveglia a Bruxelles. Molto presto.
(ANSA l'8 aprile 2020) - Le dimissioni di Mauro Ferrari dalla presidenza del Consiglio europeo della ricerca sono conseguenza "di un voto di sfiducia unanime" nei suoi confronti del 27 marzo da parte dei "membri del Consiglio scientifico del Cer" a causa anche dei numerosi impegni di Ferrari "incompatibili con il mandato di presidente del consiglio scientifico". Lo si legge in una nota del Cer, che "prende atto con rammarico" delle dichiarazioni rilasciate dallo scienziato italiano, "che, nella migliore delle ipotesi, non dicono tutta la verità". Sul punto sollevato da Ferrari circa il fatto che il Consiglio scientifico non ha appoggiato la sua richiesta di finanziare un'iniziativa speciale incentrata sul virus Covid-19, il Cer ricorda che "non abbiamo sostenuto un'iniziativa speciale perché non è di nostra competenza e la direzione generale della Ricerca e innovazione della Commissione, con la quale siamo collegati, era già molto attiva nello sviluppo di nuovi programmi per sostenere questo tipo di ricerca attraverso i canali appropriati". La richiesta di dimissioni del 27 marzo si basava, spiega la nota, su "una totale mancanza di apprezzamento per la raison-d'être del Cer" da parte di Ferrari, e sulla "mancanza di impegno" mostrata dallo scienziato, che nei tre mesi in cui è stato presidente del Cer "non è riuscito a partecipare a molti incontri importanti, trascorrendo molto tempo negli Stati Uniti e non difendendo il programma e la missione del Cer". La nota prosegue accusando Ferrari di aver intrapreso "iniziative personali con la Commissione senza consultare" il Consiglio scientifico, e "usando invece la sua posizione per promuovere le proprie idee". Infine, il professor Ferrari "è stato coinvolto in diverse imprese esterne", "apparse in diverse occasioni avere la precedenza sul suo impegno nel Cer" con un "carico di lavoro associato a queste attività" che "si è rivelato incompatibile con il mandato di presidente del consiglio scientifico".
Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 9 aprile 2020. Quando ieri Mauro Ferrari si è svegliato in America, dove vive dall' 8 marzo, il mondo stava reagendo al suo annuncio da ore. Sul Corriere , Ferrari martedì notte ha annunciato le dimissioni dal ruolo di presidente del Consiglio europeo della ricerca dopo appena tre mesi. Motivazione: a Bruxelles, le sue iniziative di contrasto a Covid-19 erano state insabbiate. Ma poche ore dopo la Commissione e il consiglio scientifico dell' ente, che gestisce più di due miliardi l' anno in fondi per la ricerca, hanno fatto sapere che il consiglio stesso gli aveva chiesto di dimettersi il 27 marzo.
È così, professore?
«Ho ricevuto solo telefonate di alcuni componenti del consiglio, mai documenti. Non so esattamente su cosa hanno votato: il consiglio scientifico non ha autorità di porre termine al mio contratto. Certo, quando mi sono dimesso sapevo che c' era scontentezza, lo ricordo nel mio intervento sul Corriere . È una delle ragioni per cui lascio. Il mio interesse a un programma mirato su Covid-19 non è condiviso».
Le rimproverano di non essersi presentato a vari incontri importanti.
«Non è vero, e comunque non è ciò che mi hanno detto in quelle telefonate. A me hanno detto che c' era scontento che avessi assunto l' iniziativa di incoraggiare la ricerca sul Covid-19, e le iniziative che avevo intrapreso su richiesta diretta della presidente Ursula von der Leyen».
Dicono che lei ha mantenuto varie attività negli Stati Uniti. È vero?
«Le mie attività negli Stati Uniti sono tutte precisamente elencate nel mio contratto, che è pubblico e concordato con il commissario Ue dell' epoca, Günther Oettinger. Ho fatto solo ciò che la Commissione stessa aveva già approvato nel conferirmi il mandato. E sono stato remunerato solo per i giorni in cui ho lavorato per il Cer: ogni mese ho mandato un resoconto soggetto ad approvazione. I membri del consiglio scientifico sanno tutto questo fin dall' inizio».
Ma fanno capire che lei comunque era assente.
«Non dicono che sono bloccato negli Stati Uniti dagli inizi di marzo. Prima mi hanno tenuto in quarantena in Colorado. Quando poi sono stato lasciato andare, ormai l' Europa aveva bloccato i voli dagli Stati Uniti. Ho una figlia a Houston e sono venuto qui, dove vivo in un Airbnb in condizioni di lockdown . Ho sempre aggiornato il Cer ed è vergognoso che ora si dica una cosa del genere. Del resto la richiesta della Commissione a tutti è di lavorare in teleconferenza e da un mese mi alzo alle due di notte per tenere orari europei lavorando con il personale del Cer. Non capisco in cosa lo smart working dal Texas sarebbe diverso da quello dal soggiorno di casa a Bruxelles».
Allora perché il consiglio scientifico del Cer voleva farla dimettere?
«Il contratto del presidente Cer è con la Commissione, come Special Advisor. Non c' è un rapporto diretto di lavoro con il Cer. Ci sono state negli anni molte tensioni fra la Commissione e quel consiglio, che afferma la propria indipendenza. Loro vogliono un approccio bottom up , con proposte di ricerca dal basso. Io ho cercato di salvare vite nella tragedia dell' epidemia, avviando un programma di ricerca che integrasse bottom-up e top-down, per arrivare prima in clinica».
Dicono che quell' attività di ricerca è già finanziata.
«Ci sono degli studi finanziati dal Cer da anni, di grande importanze scientifica, ma sono ricerche teoriche, a 15-20 anni di distanza dall' applicazione pratica. Insieme a quelli ci vogliono anche programmi di ricerca per salvare la vita a chi la rischia nell' immediato futuro».
La accusano anche di "iniziative personali nella Commissione". Cosa?
«Ho ricevuto una richiesta personale, diretta e scritta da Ursula von der Leyen di proporre un piano di intervento sul Covid-19. Ci ho lavorato a lungo, anche replicando ad alcune sue domande specifiche. Infine von der Leyen mi ha chiesto di presentarlo a un suo team, nella versione finale del 22 marzo. E con questo ho fatto una lunga teleconferenza. Mi hanno fatto i complimenti, scritti, poi non ne ho saputo più nulla».
Chi ha il documento?
«Von der Leyen. Se vuole, solo lei può renderlo noto».
Testo di Mauro Ferrari pubblicato da corriere.it l'8 aprile 2020. Intervista a Mauro Ferrari. Perdonatemi, ma io credo che la priorità adesso sia fermare la pandemia e cercare di salvare milioni di vite. Questo ha precedenza sulle carriere, sulla politica e anche sulla bellezza di un certo tipo di scienza. Perdonatemi, ma io credo che la scienza debba essere al servizio della comunità, specialmente nei momenti di emergenza. E questo lo è, perché solo attraverso la scienza si potranno sconfiggere Covid-19 e i suoi successori. Il mio incarico come Presidente del Consiglio Europeo della Ricerca (Cer) è giunto al termine. Ho appena presentatole mie dimissioni alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. La mia nomina era stata annunciata nel maggio 2019, quindi ho preso servizio il primo gennaio del 2020. Nei sette mesi precedenti a questa data ho lavorato come volontario per il Cer, motivato dall’ammirazione dall’entusiasmo per questa rispettata agenzia di finanziamento, dalla mia dedizione verso gli ideali di una Europa unita, e dal mio desiderio di essere al servizio delle necessità del mondo, attraverso la migliore scienza. Queste motivazioni idealistiche si sono scontrate con una realtà ben diversa, nei tre mesi a partire dall’ inizio della mia presidenza. Segnali inquietanti che avevo raccolto già dai primi momenti si sono rapidamente trasformati in raggelanti certezze di un mondo completamente diverso da quanto avevo immaginato. La pandemia Covid-19 ha spietatamente messo a nudo gli errori di valutazione che avevo compiuto. Nei momenti di emergenza le persone, e le istituzioni, mostrano la loro natura più profonda e il loro vero carattere (qui l'intervista rilasciata al Corriere nel maggio del 2019: «All’università ero un po’ scarso. Sono insonne e studio tanto»). Già dall’inizio della pandemia si era reso evidente the questa sarebbe stata probabilmente una tragedia senza precedenti, per il suo carico di morte, sofferenza, trasformazione della società e devastazione economica, e che a soffrirne di più sarebbero stati i più deboli e meno fortunati della società. Su queste basi ho subito presentato una mozione per il lancio di un programma scientifico speciale, direttamente focalizzato su Covid-19. In momenti così tragici, ho creduto necessario fornire ai migliori scienziati gli strumenti e le risorse per combattere questa pandemia con nuovi farmaci, nuovi vaccini, nuovi metodi diagnostici e nuove teorie scientificamente solide sulle dinamiche di comportamento sociale, a supporto delle strategie di contenimento pandemico, che per ora si basano intuizioni spesso solo istintive delle autorità competenti. L’ente di governo del Cer ha però votato contro la mia proposta, in maniera unanime e inappellabile, senza neppure accettare di discutere o sviluppare insieme un programma anti-Covid. Lo ha fatto con tale veemenza da opporsi alla mia presidenza in toto da quel momento in poi. Il voto contrario alla mia mozione è stato basato sul fatto che il Cer finanzia progetti basati sul principio di spontaneità scientifica (il cosiddetto “bottom-up”) ovvero senza privilegiare aree di priorità di ricerca. È vero che la Commissione europea possiede anche altri programmi che sono invece “top-down”, e che diversi di questi sono stati in parte diretti su iniziative collegate alla pandemia. Purtroppo però questi formano un insieme di attività senza una vera cabina di regia, e con una componente limitata di scienza di frontiera. È pur vero che il Cer giustamente si vanta di essere l’ente che finanzia l’élite delle eccellenze scientifiche europee, basate sulle scelte programmatiche presentate dai ricercatori stessi con le loro richieste di finanziamento, e senza che considerazioni di beneficio sociale (“impact”) siano considerate un criterio per la selezione dei progetti. Ma nelle mie fantasie idealistiche ho creduto che in circostanze così tragiche fosse dovere etico anche, e forse particolarmente, dei migliori combattenti di imbracciare le armi migliori e dirigersi senza esitazioni al fronte, alla frontiera, per sconfiggere questo nemico formidabile. Ho creduto ingenuamente che questi non fossero momenti per la governance scientifica di disquisire sulle sottigliezze metodologiche di “bottom-up” piuttosto che “top-down”, o per preoccuparsi di misurare se tutti i raggruppamenti disciplinari avrebbero beneficiato in maniera paragonabile da un’ iniziativa a largo spettro su Covid-19. E sono rimasto esterrefatto, profondamente deluso dal voto unanime contro la mia mozione. Un sollievo parziale a questa delusione è stato portato dalla presidente von der Leyen, che personalmente mi ha chiesto di proporre considerazioni su come l’ Europa dovrebbe ora affrontare la pandemia. Nei giorni successivi alla nostra prima comunicazione ho sviluppato il piano richiestomi, con diverse iterazioni, in risposta alle direttive e domande della presidente. Il solo fatto che io abbia lavorato direttamente con lei ha scatenato ulteriori terremoti interni al sistema Europa. Lei ha comunque trasferito la mia proposta a diversi livelli amministrativi, dove credo si sia disintegrata senza indugio. Può ancora essere che alcuni dei miei suggerimenti entrino in futuro a fare parte in qualche modo del piano d’intervento europeo. Devo però dire che finora sono rimasto estremamente deluso dall’ approccio anti-pandemia del sistema Europa. Lo sono dal punto di vista dell’assenza di coordinamento sanitario tra gli Stati membri, da quello dell’opposizione reiterata a programmi di solidarietà nei riguardi dei Paesi più colpiti, delle politiche unilaterali riguardo alle frontiere e per la mancanza di programmi scientifici sinergici e a largo raggio. A questo punto credo di aver visto abbastanza sia del governo scientifico, che delle operazioni politiche dell’Unione europea. La divergenza tra la mie priorità e la visione della struttura di governo scientifico del Cer è molto chiara. In questi tre lunghi mesi a Bruxelles, ho certamente incontrato non poche persone di notevole talento e dedizione. Ma purtroppo dovuto constatare le paralizzanti inefficienze dell’ Unione europea, esse stesse in contraddizione con gli alti ideali sui quali l’organizzazione era stata fondata. In questi momenti c’è bisogno di azioni decise, finalizzate, efficaci – su queste si concretizzano le responsabilità e si manifestano gli ideali di chi desidera rendersi utile nel contrasto a questa devastante tragedia. Ringrazio quindi con umile e sincera gratitudine chi mi ha offerto l’ opportunità di essere al servizio dell’ alto ideale europeo per questo periodo, allo stesso tempo troppo breve, e troppo lungo. Ma ora per me è arrivato il momento di tornare al fronte, alla frontiera della lotta contro la pandemia Covid-19, con risorse e responsabilità reali, lontano dagli uffici di Bruxelles, e al servizio di chi ha bisogno di nuove medicine e vaccini. Finora il mio ruolo europeo, nonostante il titolo altisonante, è stato di consigliere. E in futuro sarò sinceramente lieto ed onorato di continuare a fornire consigli, secondo coscienza, in maniera pubblica, trasparente, gratuita, e senza bisogno di fuorvianti titoli di alta fanfara, se l’Europa o chiunque altro me ne volesse chiedere.
«Covid- 19, la corsa della ricerca è rallentata da troppi ostacoli». Valentina Stella su Il Dubbio l'8 aprile 2020. Intervista a Giuliano Grignaschi, responsabile benessere animale dell’Università di Milano. Giuliano Grignaschi è responsabile del Benessere Animale presso l’Università degli Studi di Milano, e segretario generale di Research4Life, piattaforma che riunisce enti di ricerca, ospedali, organizzazioni non profit, università, industrie tra cui il Mario Negri, Farmindustria, Telethon, Ospedale San Raffaele, allo scopo di dar voce a protagonisti della ricerca biomedica italiana.
La European Animal Research Association ha elaborato, anche grazie ai dati dell’Oms, una mappa interattiva per visualizzare la ricerca biomedica in corso nel mondo per trovare una cura per il coronavirus. L’uso di animali è fondamentale.
«In questo caso la ricerca di base ci ha permesso di capire quali fossero i bersagli principali del virus ( cellule del cuore e dei polmoni) e attraverso quali meccanismi fosse in grado di attaccarli. Solo grazie a queste informazioni saremo in grado di individuare farmaci attivi nel bloccare questi meccanismi e quindi inibire l’azione del virus. Una volta individuati i farmaci però dovremo anche assicurarci che non abbiano effetti indesiderati ( tossici) importanti prima di somministrarli ai pazienti, già molto provati dalla malattia. Discorso simile vale anche per i diversi vaccini che si stanno studiando: è solo grazie a test negli animali che potremo arrivare all’uomo con un buon grado di sicurezza da non indurre effetti collaterali peggiori della malattia stessa. È difficile dire quanto tempo ci vorrà per avere farmaci in grado di bloccare lo sviluppo della patologia o vaccini in grado di prevenirla ma, ragionevolmente, nel giro di 6 mesi possiamo pensare di avere le prime terapie».
Su Nature, il Jackson Laboratory si sta affrettando a produrre scorte di un topo transgenico che gli scienziati sperano possa aiutarli a capire il virus. Che ne pensa?
«Penso che, ancora una volta, i ricercatori che lavorano negli Usa hanno un grande vantaggio perché possono contare su modelli rapidamente disponibili; questo è il frutto di una grande considerazione dell’importanza della ricerca che purtroppo in Italia non abbiamo. Il topo non possiede il recettore che permette al virus l’ingresso nelle cellule quindi è stato necessario modificare il suo genoma per mimare la situazione che abbiamo nell’uomo ma ora questo modello è di fondamentale importanza per tutti i ricercatori del mondo».
Ad un certo punto nell’articolo si legge:” But no animal model is perfect”. Come risponde?
«Nessun modello è perfetto e per questo motivo dobbiamo affiancarne molti ed essere capaci di considerarli “complementari” uno all’altro. Una specie animale può essere più utile per valutare i danni al cuore e un’altra può essere utile per valutare i danni al polmone e ancora un’altra può essere utile per la messa a punto di un vaccino sicuro. Questa è l’attività della ricerca: raccogliere tutti i dati necessari ad arrivare a una terapia che presenti il minor livello di rischio possibile in tempi brevi. Non è da dimenticare inoltre che gli animali stessi possono essere affetti da questo virus, quindi la ricerca potrà portare benefici anche a loro».
Infatti una tigre è stata trovata positiva al Covid- 19 in uno zoo del Bronx.
«Al momento sappiamo davvero poco di questo nuovo virus ma dati preliminari indicherebbero la suscettibilità di gatti, furetti e, in misura minore, dei cani all’infezione da Sars- CoV- 2. Non esiste tuttavia nessuna evidenza che gli animali domestici giochino un ruolo nella diffusione del virus che sembra avvenire principalmente per contagio interumano. In sostanza quindi dobbiamo preoccuparci di non contagiarli quando siamo ammalati e di usare tutte quelle norme igienico sanitarie ( lavarsi le mani dopo averli accarezzati etc) per evitare che possano fungere da veicolo del virus nei nostri confronti esattamente come potrebbe fare qualsiasi superficie contaminata».
Trovare un vaccino per il coronavirus non sarebbe solo un prestigio scientifico ma avrebbe risvolti anche economici. In questa corsa l’Italia come si sta posizionando?
«L’Italia ha gruppi di ricerca molto competitivi che stanno portando avanti sperimentazioni già molto avanzate ma, purtroppo, a causa dei molti vincoli burocratici presenti nel nostro Paese le ultime fasi di sperimentazione nei modelli animali dovranno essere fatte all’estero. Purtroppo da anni denunciamo la situazione di svantaggio dei nostri ricercatori rispetto ai colleghi di tutto il resto del mondo e oggi ne paghiamo le conseguenze in modo vistoso».
In generale la ricerca è penalizzata nel nostro Paese.
«La ricerca biomedica in Italia è da anni relegata tra gli ultimi posti nella graduatoria degli interessi della classe politica; la percentuale del Pil investito nella ricerca in Italia è tra le più basse in Europa. Se non usciremo da questa tragedia con la consapevolezza che solo la ricerca può prevenire drammi di questa portata ed è quindi necessario tornare ad investire in ricerca e sviluppo, saremo destinati a subirne altri in futuro».
Lei è stato protagonista di un articolo di Nature, che si è occupato di come state fronteggiando l’emergenza nei vostri laboratori.
«Il benessere degli animali è assolutamente garantito poiché noi non abbiamo mai smesso di accudirli ma, purtroppo, la maggior parte dei ricercatori ha dovuto sospendere gli esperimenti a causa del lockdown. Per garantire un utilizzo etico degli animali abbiamo fin da subito chiesto che fossero portati a termine i test già avviati ma che non ne fossero iniziati di nuovi fino a quando l’emergenza sanitaria non sarà terminata. Molti progetti quindi sono in stand by e stiamo lavorando con il ministero della Salute per avere una proroga delle scadenze delle autorizzazioni».
· Giri e Giravolte della Scienza.
Dagospia il 14 aprile 2020. TWEET DI PIERLUIGI BATTISTA. Ecco, come anticipato con troppo facile previsione, l’avvicinarsi del quesito: sono pericolosi gli impianti di aria condizionata? Precise e puntuali, come sempre, le risposte della scienza, le stesse fornite su tamponi e mascherine: boh, non si può escludere, può essere, nì.
"Hanno confuso gli italiani...". Ecco tutte le colpe dei virologi. Le posizioni che polarizzano di più sui social sono anche quelle che generano maggiore preoccupazione. E così tra gli italiani monta la paura. Andrea Indini, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Si sono accapigliati sin dall'inizio. L'uno contro l'altro. E pure contro se stessi. Dieci mesi di dichiarazioni, smentite, retromarcia, zuffe. E loro, quegli uomini di scienza che si sono trovati faccia a faccia con il virus, sono diventati "prime donne" corteggiate dai media, seguiti da decine di migliaia di follower sui social e onnipresenti su radio, televisioni e quotidiani fino via via a polarizzarsi in uno scontro che troppo sbrigativamente è stato descritto tra "catastrofisti", che spingono per misure liberticide, e "negazionisti" che invece chiedono una narrazione diversa della pandemia e misure più adeguate a quanto sta realmente accadendo. Sul web stanno avendo la meglio i primi. Tanto che, come rilevato da Spin Factor, che per ilGiornale.it ha realizzato in esclusiva un'analisi sul sentiment degli italiani, nella wordcloud delle 50 parole più ricorrenti nelle conversazioni sul coronavirus accanto a Covid spicca paura.
Lo scontro costante tra scienziati. "La scienza ha bisogno di un confronto sereno e di ricercatori che hanno la modestia di poter cambiare opinione - spiegava tempo fa al Giornale.it Maria Rita Gismondo, direttrice responsabile di Microbiologia Clinica Virologia e Diagnostica dell'ospedale Luigi Sacco di Milano - chi ha usato la scena con insulti si è, di fatto, autoescluso dal dialogo scientifico". Il punto è che da quando in Italia è esplosa l'epidemia non abbiamo mai assistito a un "confronto sereno". Si è subito saliti sul ring. C'è un'intervista da cui partire e l'ha rilasciata Andrea Crisanti il 24 febbraio. Come ripercorso ne Il libro nero del coronavirus (clicca qui), che all'argomento dedica un capitolo sui "cattivi maestri", è da poco atterrato a Melbourne per partecipare a un congresso, ma di lì a poco tornerà al laboratorio dell’ospedale di Padova, centro di riferimento regionale per i test di individuazione del coronavirus. "Questo coronavirus è altamente infettivo – spiega – una sola persona ne contagia almeno altre quattro, forse pure cinque. Per altri virus è inferiore: uno, al massimo due". Rilette oggi queste dichiarazioni non fanno né caldo né freddo. Suonano come ovvietà. Ma in quei giorni, quando cioè il virus ha appena iniziato a colpire il Nord Italia mettendo in ginocchio il Lodigiano e la provincia di Padova, in ambienti accademici il mood è minimizzare il più possibile.
Una popolazione senza consapevolezza. "Nel corso di questi mesi abbiamo assistito ad una fortissima presenza mediatica da parte di virologi, esperti, responsabili di grandi strutture ospedaliere, che spesso hanno espresso opinioni contrastanti", spiega al Giornale.it Tiberio Brunetti, fondatore e amministratore di Spin Factor. "Questo - continua - non ha aiutato, soprattutto nella fase precedente la prima fase, a generare nella popolazione una consapevolezza esatta di quanto stava per accadere". Il paradosso tocca il suo apice nella scelta del governo di non inserire nemmeno un virologo nella folta schiera di tecnici che gli siedono accanto al premier Giuseppe Conte a gestire l'emergenza sanitaria. Anziché vederli in giro per le tivù, forse sarebbe stato meglio arruolarli nella task force del governo. E forse sarebbe stato anche meglio definire "virologo" chi virologo non è. "Voi giornalisti avete definito virologi tutti gli esperti intervistati, anche professionisti che nulla hanno a che vedere con la virologia", spiega Giorgio Palù, professore emerito dell'Università di Padova. "Questa non è stata una corretta informazione per la popolazione che incolpa proprio questi virologi di idee contraddittorie e di battibecchi sui media che confondono e disorientano".
La confusione alleato del virus. Purtroppo il risultato di questi continui scontri tra uomini di scienza ha contribuito a sollevare un una polverone mediatico ingenerando tra gli italiani una forte confusione. E "la confusione - ci spiega Brunetti - è il principale alleato del virus". Per capire meglio l'impatto dei "virologi" sull'opinione pubblica, Spin Factor ha scandagliato i social network analizzando post e commenti. Sono state messe sotto la lente di ingrandimento oltre 400mila occorrenze dalle quali sono state estrapolate le opinioni in forma di sentiment positivo, neutro e negativo ed è stata stilata una sorta di classifica dei volti che impattano maggiormente sui social. Sul podio troviamo Andrea Crisanti col 38,1% di sentiment positivo, Pier Luigi Lopalco (36,5%) e Silvio Brusaferro (33,2%). In coda Fabrizio Pregliasco (27,8%), Roberto Burioni (27,3%) e Matteo Bassetti (24,8%). Ma attenzione a leggere queste percentuali. Perché, come spiega Brunetti, "non si tratta ovviamente di una classifica sull'affidabilità dei vari esperti, ma su quale percezione generano sugli utenti della rete". Chi crea maggiore ingaggio e quindi polarizza di più, è anche "chi genera più preoccupazione". Non a caso accanto a Covid, nella wordcloud delle 50 parole più riccorrenti, troviamo termini come paura, tamponi, casi, morti, emergenza, ospedali, decessi e così via.
Un campanello d'allarme per Conte. "A maggio in poi, dopo una prima fase in cui le persone erano polarizzate sull'emergenza sanitaria, le persone si sono concentrate sull'emergenza economica", spiega Brunetti illustrando l'analisi condotta da Spin Factor. Con l'avvento della seconda ondata, gli italiani hanno ripreso a preoccuparsi per l'emergenza sanitaria. A breve, però, torneranno a guardare con preoccupazione alla crisi economica che sta divorando il sistema Italia. "E quello sarà il vero campanello d'allarme per la tenuta del Paese". Quanto rilevato sui virologi, si rflette anche sulla popolarità di Conte. Durante la fase 1, quando usava dichiarazioni molto più nette, il presidente del Consiglio aveva sfondato la soglia del 40%. Ora che la situazione è molto più complessa, con l'Italia colorata di rosso, arancione e giallo, il sentiment positivo nei suoi confronti è crollato. Un altro campanello d'allarme che dovrebbe mettere in guardia Palazzo Chigi.
Virus, la "guerra" degli esperti che ha stravolto le nostre vite. Da quando veniva definito simile all'influenza, fino alla dichiarazione di pandemia dell'Oms. Le tappe del nuovo coronavirus in Italia. Francesca Bernasconi, Sabato 25/04/2020 su Il Giornale. "Il primo consiglio fondamentale è non essere preoccupati". Parole rassicuranti, che arrivavano dagli esperti quando, a fine gennaio, il nuovo coronavirus stava mettendo in ginocchio la Cina. Ma in Italia, l'arrivo della pandemia sembrava un'evento improbabile. Con il passare dei giorni, però, anche il nostro Paese ha sperimentato la vulnerabilità al Sars-CoV-2 e l'aggravarsi della situazione è andato di pari passo con il cambiamento dei toni degli esperti.
L'epidemia in Cina. "È un evento fondamentalmente centrato in Cina", diceva il presidente dell'istituto superiore della Sanità (Iss), Silvio Brusaferro, lo scorso 31 gennaio, spiegando come in quella fase bastasse prestare "attenzione all'igiene personale, le stesse misure per evitare l'influenza". L'epidemia da nuovo coronavirus, infatti, era ancora confinata alla Cina e i pochi casi verificatisi in altri Paesi erano tutti riconducibili ai dintorni di Wuhan, epicentro del contagio. Inoltre, il blocco dei voli messo in atto dall'Italia faceva pensare a una diminuzione della "probabilità di arrivo di pazienti infetti". A inizio febbraio, Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell'Iss, spiegava che "la diminuzione del volume di passeggeri in arrivo da zone a rischio riduce la probabilità di introduzione dell'infezione attualmente, ma ciò non vuol dire che il peggio sia passato in quanto bisogna tenere altissima l'attenzione finché i focolai cinesi particolarmente attivi non saranno posti sotto controllo". Inoltre, l'esperto aggiungeva come "non essendoci attualmente circolazione del nuovo coronavirus in Italia, la stragrande maggioranza delle febbri rilevate in questo momento sono attribuibili al virus influenzale". Niente che lasciasse presagire l'arrivo del Sars-CoV-2 in Italia. Parole rassicuranti arrivavano anche dalla virologa Ilaria Capua che, ospite di In mezz'ora in più su Rai3 il 9 febbraio, spiegava: "Fuori dalla Cina, solo uno o due decessi, e non forme gravi, mi sento di rassicurare italiani ed europei. La Cina con la propria quarantena sta rallentando l'uscita dell'infezione permettendo agli altri Paesi di organizzarsi". Il 13 febbraio, Giovanni Rezza, sosteneva che febbre e tosse fossero da attribuire all'influenza: "In questo periodo in cui il nuovo coronavirus non è ancora presente in Italia, i sintomi nella stragrande maggioranza dei casi sono attribuibili all’influenza". Il giorno dopo, la virologa Capua aveva avvisato che il coronavirus sarebbe arrivato in italia. E infatti, il 21 febbraio 2020, è stato registrato a Codogno il primo italiano contagiato.
"Nessuna epidemia in Italia". Il 22 febbraio, però, c'era chi parlava di "eccessivo allarmismo", ricordando che "19 casi su una popolazione di 60 milioni di abitanti rendono comunque il rischio di infezione molto basso". A sostenerlo era Giovanni Maga, direttore Cnr-Igm, Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche. Secondo l'esperto, al di fuori delle zone del focolaio "la situazione rimane come nelle scorse settimane". E precisava: "Non serve correre al pronto soccorso nè chiudersi in casa. Ricordiamo che al momento parliamo di un gruppo (cluster) di pochi casi localizzati e i cui contatti sono tracciati attivamente". Nulla faceva pensare che la situazione si sarebbe aggravata. "Non c'è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia", affermava Maga. Allo stesso tempo, però, prendeva in considerazione anche la possibilità di un cambiamento della situazione. Parlava di "altri piccoli focolai come quello attuale". Per questo aveva ribadito: "Al di fuori dell’area limitata in cui si sono verificati i casi, il cittadino può continuare a condurre una vita assolutamente normale. Seguendo le elementari norme di igiene, soprattutto levandosi le mani se ha frequentato luoghi affollati, ed evitando di portarsi alla bocca o agli occhi le mani non lavate".
"È come l'influenza". La lite Gismondo-Burioni. "Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale. Non è così", sosteneva il 23 febbraio Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di analisi dell'ospedale Sacco di Milano, convinta che intorno al Covid-19 si fosse creato un eccessivo allarmismo, tanto da lanciare un appello per chiedere di "abbassare i toni". Una dichiarazione che aveva trovato in disaccordo il virologo Roberto Burioni: "Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal coronavirus sarebbe poco più di un’influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero- scriveva su Medical Facts- In questo momento in Italia sono segnalati 132 casi confermati e 26 di questi sono in rianimazione (circa il 20%). Sono numeri che non hanno niente a che vedere con l’influenza (i casi gravi finora registrati sono circa lo 0,003% del totale). Questo ci impone di non omettere nessuno sforzo per tentare di contenere il contagio. Niente panico, ma niente bugie". Nel "dibattito" tra i due esperti si era inserita anche la virologa Capua che, in un'intervista al Corriere Adriatico aveva dichiarato: "Bisogna comportarsi come se fosse in arrivo una brutta influenza". Per questo, aveva aggiunto, "credo che ci sia un allarme mediatico non giustificato dal comportamento reale dell'infezione".
L'epidemia in Italia. Diverso, invece, il parere dell'epidemiologo Pierluigi Lopalco, che tuonava: "Basta paragonare influenza e Covid-19. Una sciocchezza infinita! I virus influenzali li incontriamo ogni anno, siamo abituati alla loro presenza. Il coronavirus SarsCoV2 è un perfetto sconosciuto per il nostro sistema immune. Il servizio sanitario nazionale deve prepararsi a ricevere l'impatto di un'onda anomala". La situazione in Italia stava iniziando ad aggravarsi, lasciando presagire un'evoluzione negativa dell'epidemia. E, infatti, all'inizio di marzo, Silvio Brusaferro aveva spiegato: "La situazione è in rapida evoluzione, va monitorata costantemente per eventualmente rafforzare le misure da adottare". Pochi giorni dopo, nel corso della conferenza stampa della protezione civile, aveva aggiunto: "È importante che nessuno si senta immune e ognuno si senta coinvolto nell'adottare misure che aiutino a contenere i contagi. Bisogna adottare queste misure come standard. L'attenzione verso queste misure è molto importante". Nello stesso periodo, il virologo Burioni scriveva sui social, tradendo preoccupazione, di avere "la sensazione che molta, troppa gente non abbia capito con che cosa abbiamo a che fare. Forse alcuni messaggi troppo tranquillizzanti hanno causato un gravissimo danno inducendo tanti cittadini a sottovalutare il problema". Ed era tornato sul dibattito virus-influenza, sottolineando: "Questo virus non è un’influenza, ora è sotto gli occhi di tutti, centinaia di morti, rianimazioni strapiene". "Bisogna prendere misure su tutto il territorio nazionale, fare due mesi di sacrifici per contenere questo virus che non è un'influenza", aveva precisato Giovanni Rezza il 9 marzo, il giorno in cui il governo ha deciso di mettere l'italia in lockdown.
Verso la pandemia. "Ora che il coronavirus ha messo piede in così tanti Paesi, la minaccia di una pandemia è diventata molto reale". Così il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva descritto la situazione globale legata al nuovo coronavirus nei primi giorni di marzo. Ma, aveva aggiunto, "sarebbe la prima pandemia nella storia a essere controllabile". Per questo, nonostante le pressioni da parte di diversi Paesi, l'Oms non aveva dichiarato la pandemia, lasciando il coronavirus al livello di una "epidemia irregolare a livello globale" e ricordando la linea di fondo: "Non siamo in balia di questo virus". Ma due giorni dopo, l'11 marzo 2020, l'Oms ha dichiarato la pandemia. "Nelle ultime due settimane, il numero di casi di Covid-19 al di fuori della Cina è aumentato di 13 volte e il numero di paesi colpiti è triplicato", aveva annunciato il direttore generale, specificando come questa non sia "solo una crisi di salute pubblica, ma una crisi che toccherà tutti i settori". "Per noi cambia poco", aveva commentato Roberto Burioni, dopo la decisione dell'Oms, invitando i cittadini a rimanere a casa, seguendo le indicazione che il governo aveva già diffuso a inizio marzo. E aveva ribadito: "Basta minimizzare, non siamo bambini di 5 anni. Il virus non è un'influenza, non muoiono solo i vecchi e i malati. Ormai direi che questo è chiaro a tutti". Dello stesso avviso anche Giovanni Rezza: "La dichiarazione di pandemia a noi non aggiunge molto. Ci colpisce poco che l’Oms dichiari la pandemia, noi abbiamo un’epidemia dentro casa".
LE VERITA' CONFUSE DEGLI ESPERTI SUL CORONAVIRUS. Luca Sciortino il 20 aprile 2020 su Panorama. Se c'è una cosa che queste difficili settimane di epidemia ci hanno insegnato è lo scetticismo nei confronti delle dichiarazioni di esperti e politici. E' una reazione naturale e del tutto fondata, dovuta al susseguirsi delle contraddittorie affermazioni sul virus Covid-19, i suoi meccanismi di azione e le possibili cure.
Tutto e poi il contrario di tutto. Esempi: Il Coronavirus? Un'influenza. L'affermazione che passerà alla storia, è quella di esperti come Maria Rita Gismondo che il 13 Marzo affermava che il Covid-19 era assimilabile a un'influenza stagionale. E va aggiunta una nota: che non esperti in materia, per esempio il critico d'arte Vittorio Sgarbi e il filosofo Giorgio Agamben sminuivano la gravità dell'epidemia, con tutte le conseguenze. Addirittura quest'ultimo, in un articolo su La Stampa parlava dell'epidemia come di una costruzione sociale o un'invenzione della politica per limitare le libertà personali.
Distanza di sicurezza. Il 28 Febbraio l'infettivologo Massimo Galli affermava testualmente che «per questi virus la distanza di sicurezza è 1 metro e 82 cm affinché le particelle emesse da colpi di tosse e starnuti non possano raggiungere l'altro». La previsione al centimetro avrà stupito soprattutto i fisici, notoriamente educati al buon senso delle approssimazioni, ma per fortuna a fare una stima grossolana ci ha poi pensato il consiglio dei Ministri: con un decreto del primo Marzo stabiliva come un metro la distanza di sicurezza.
Coronavirus e pm10. Non sappiamo esattamente il perché della stima per difetto, ma quel che è certo è che le ricerche successive sulle correlazioni tra corona-virus e polveri sottili imponevano maggiore cautela. E allora un'altra serie di dichiarazioni contraddittorie. Un "position paper" del 16 Marzo di quattro università italiane segnalava il possibile ruolo del particolato nel favorire la diffusione del virus. Pochi giorni dopo il movimento "Biologi per la scienza" rispondeva che non c'erano prove empiriche e Pierluigi Lopalco, coordinatore della task force scientifica della Regione Puglia per l'emergenza coronavirus affermava: «L'inquinamento fa male, ma con Covid-19 ho paura che c'entri poco. Il virus corre con le nostre gambe, non con i PM10». Articoli su Nature e Science nei giorni successivi smentivano Lopalco; ma poi arrivava uno studio dell'università di Harvard che mostrava forti correlazioni tra polveri sottili e coronavirus. Infine arrivavano studi sulla causa-effetto, per esempio quello del New England of Medicine o quelli dei ricercatori cinesi effettuati negli ospedali di Wuhan. Sulla spinta di queste ulteriori ricerche si comprendeva che almeno negli spazi chiusi e in presenza di polveri sottili la trasmissione è favorita e così la distanza di un metro, indicata dalla legge, risultava da rivedere. Arrivava quindi il contrordine parte dell'Organizzazione mondiale della sanità appena dopo la notizia che il Mit aveva osservato con telecamere e sensori che un colpo di tosse diffondeva particelle infette oltre sei mesi di stanza. Non a caso negli Usa si raccomandava l'uso di mascherine in pubblico.
Mascherine. E proprio su questo un'altra lista di affermazioni contraddittorie e quindi di caos. Evitando, per carità di patria, di citare le dichiarazioni iniziali degli esperti contro l'uso delle mascherine, ancora il 2 Aprile sul sito del Ministero della Salute, rifacendosi a un comunicato dell'Oms, affermava che «la mascherina non è necessaria per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie». Giovanni Rezza, aggiungeva in un'intervista al Corriere: «Non c'è ragione di usare le mascherine, per prendere l'infezione è necessario un contatto molto stretto con un paziente in luoghi chiusi». Pochi giorni dopo divenivano obbligatorie in molte regioni italiane e, in Lombardia, perfino nei luoghi all'aperto.
Vaccino. Sul vaccino, una volta chiarito che era la nostra ultima ancora di salvezza, giorno dopo giorno gli esperti si sono dati i turni in tv per stabilire la data in cui sarebbe stato pronto. Chi diceva un anno, chi un anno e mezzo chi due e chi perfino che sarebbe stato pronto già a settembre. E le cause farmaceutiche hanno fatto la loro parte rilasciando comunicati stampa in una gara a chi arrivava prima. Peccato che la strada per il vaccino è irta di imprevisti e difficoltà. L'11 Febbraio Gianni Rezza, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell'ISS, affermava che entro due o tre mesi sarebbe stato possibile avere candidati vaccini pronti per i primi test sull'uomo, e indicava quella di un anno come la data dell'impiego sul campo. Il 25 Marzo Andrea Carfi, a capo del team di ricerca sulle malattie infettive di Moderna, dichiarava che un vaccino sarebbe stato pronto in autunno. Il 13 Aprile Burioni spiegava che la sperimentazione su pazienti volontari avrebbe accelerato notevolmente la disponibilità del vaccino così da averlo «da un anno, questa è l'ipotesi, a pochi mesi». Ma ora Sergio Abrignani, immunologo, afferma che per avere un vaccino efficace «serviranno due o tre anni».
Tamponi. Sui tamponi Walter Ricciardi sosteneva che andassero fatti solo a chi aveva sintomi quando Massimo Galli affermava a febbraio che andassero fatti anche agli asintomatici. I test sierologici vedevano poi due fazioni opposte: quelli che volevano isolavano e sequenziare il virus e quelli che puntavano sul tampone naso-faringeo.
Test Sierologici. Anche sul test si è sentito tutto ed il contrario di tutto. Per alcuni è assolutamente da fare (per molte aziende addirittura obbligatorio per tornare al lavoro) tanto da parlare di patentino di immunità. Il 31 marzo però Ranieri Guerra, membro dell'OMS, ha dichiarato che «i test sierologia non sono affidabili. Meglio quelli a sangue venoso, di certo non lo sono quelli su sangue periferico».
La lista potrebbe andare altre ma è meglio fermarci e riflettere. La scienza ha un carattere congetturale. E' un processo continuo che porta a modificare, talvolta in profondità, il nostro modo di riconcettualizzare il mondo. Un processo che ci costringe a mettere sempre in discussione le nostre ipotesi, sostituendole con altre migliori, anch'esse talvolta solo provvisorie. Proprio da chi è impegnato in questo processo la società si aspetta una modestia socratica, quella di chi è cosciente della provvisorietà delle nostre conoscenze. Abbiamo invece assistito ad affermazioni dogmatiche e a pochissime ammissioni di ignoranza. Se gli scienziati sono chiamati ad ammettere che le loro sono ancora solo e soltanto ipotesi, la politica è chiamata a decidere. Nell'incertezza.
Burioni e Galli dicevano di stare tranquilli, ecco gli “esperti del giorno dopo” sul coronavirus. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. In polemica con gli scienziati, accusati di aver sottovalutato il virus nelle prime settimane del contagio, Vittorio Sgarbi ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un video in cui ha raccolto alcune dichiarazioni di virologi oggi compromettenti. Nelle immagini si vedono alcuni tra i più importanti esperti sul tema, diventati in questo momento punto di riferimento per l’opinione pubblica minimizzare la portata del coronavirus: da Roberto Burioni a Fabrizio Pregliasco, da Ilaria Capua a Maria Rita Gismondo. Del resto, lo stesso direttore responsabile del reparto malattie infettive del Sacco di Milano, Massimo Galli, a inizio febbraio aveva dichiarato che il virus era stato contenuto. “Sì, ascoltiamo la scienza, giusto – scrive il parlamentare di Forza Italia -. Ma la scienza che ascoltiamo, non lo dobbiamo dimenticare, è quella che a gennaio e a febbraio diceva queste cose. Si può, dunque, ragionevolmente dire che non sempre la scienza “ci azzecca”? Perché a fare gli esperti del giorno dopo sono tutti bravi”. Tanti i commenti sotto il suo post. “Non solo la scienza non sempre ci azzecca, ma cosa ancor più grave è che sulla stessa problematica di pandemia, scienziati e virologi hanno pensieri discordanti tra loro”, si legge. Ma c’è anche chi prende le difese dei virologi: “Sono d’accordo che la scienza spesso commetta degli errori e un bravo scienziato è consapevole dei limiti della scienza”. Lo stesso virologo Massimo Galli, infettivologo e primario dell’ospedale Sacco di Milano, ha ammesso nelle scorse settimane a Radio 1 di aver in parte sottovalutato l’emergenza Coronavirus in Italia: “Siamo stati presi alle spalle. Io per primo il 20 febbraio mi stavo convincendo che l’avessimo scampata – ha detto l’esperto – ma non è stato così, perché in realtà attorno al 25 di gennaio, dai calcoli che abbiamo fatto, il virus è entrato dalla Germania del tutto inavvertitamente nella zona del Lodigiano e ha potuto fare quello che ha voluto per almeno quattro settimane, spargendosi ovunque in quella zona, ma anche in Veneto e in altre aree della Lombardia, creando l’epidemia così che conosciamo. E quello che vediamo ancora oggi, vi ricordo, cioè la maggior parte dei casi che vengono registrati, tutti in persone con una sintomatologia significativa, è il risultato di un qualcosa che avvenuto prima delle misure restrittive. Il risultato di queste ultime ci metterà ancora del tempo per essere evidente”.
Coronavirus. “Non arriverà mai in Italia”: errori e bufale di esperti e istituzioni che hanno sottovalutato il problema. Fabio Bonasera il 4 marzo 2020 su lecodelsud.it. Lo scorso 5 gennaio si parlava di una misteriosa polmonite. Il 13 gli infettivologhi della Società italiana di malattie infettive e tropicali escludevano che l’epidemia potesse mai arrivare in Italia. Il 22 gli scienziati cinesi ipotizzavano che a diffondere la malattia fossero i serpenti. Ma c’era anche chi diceva che il focolaio fosse il mercato degli animali macellati vivi. Il 23 l’Organizzazione mondiale della sanità escludeva categoricamente che ci fossero gli estremi di un’emergenza mondiale, salvo smentirsi appena una settimana dopo. Il 27 l’Istituto nazionale francese di sanità e ricerca medica rendeva noto che, in Europa, Regno Unito, Germania e la stessa Francia fossero più esposte dello Stivale che, oggi, è il terzo Paese al mondo per contagi. E’ questa una piccola ricostruzione capace di rendere ancora una volta l’idea dell’approssimazione con cui l’emergenza Coronavirus sia stata affrontata da coloro che, per competenze, conoscenze, studi e blasone, avrebbero dovuto capire più e prima di ogni altro il potenziale della patologia. Come è stato possibile che, in piena globalizzazione, con i mezzi di trasporto che consentono di raggiungere ogni angolo del mondo in tempi più che celeri e le relazioni tra privati cittadini, oltre che tra i governi, intense come mai prima, si potesse pensare che un virus non potesse lasciare i confini della CIna per propagarsi ovunque? Come lo hanno potuto pensare medici, scienziati, capi di Stato? Il 5 gennaio, praticamente all’inizio del 2020, Brahim Maarad scrive sul sito online dell’agenzia giornalistica Agi di un’allerta in Cina “a causa di una misteriosa polmonite virale che finora ha già contagiato 44 persone, di cui 11 versano in gravi condizioni. Gli aeroporti hanno preso le precauzioni per segnalare i possibili casi sospetti e limitare i contagi, con il terrore di un ritorno del virus della Sars che uccise migliaia di persone tra il 2002 e il 2003. L’infezione è stata segnalata per la prima volta il 24 dicembre scorso a Wuhan, città della Cina centrale con una popolazione di oltre 11 milioni”. Ancora non si pronuncia l’espressione “nuovo Coronavirus”. E chi ha, o dovrebbe avere, gli strumenti per prevedere l’attuale pandemia gioca, invece, al pompiere. Come la Smit, Società italiana di malattie infettive e tropicali che, come racconta un articolo di Paolo Giorgi, pubblicato il 13 gennaio sempre dall’Agi, dopo la notizia del primo decesso, esclude la presenza di rischi prevedibili per l’Italia. Marcello Tavio, presidente della Smit, pur garantendo la sorveglianza del fenomeno, dichiara che “non abbiamo elementi per pensare che questo nuovo virus possa significativamente coinvolgerci, il mantenimento di una rete di specialisti è importante come strumento di protezione per la popolazione tutta”. “Le informazioni disponibili sono ancora limitate – spiega poi il professor Massimo Galli, past president Simit – tuttavia, dagli elementi raccolti si desume che l’area interessata sia quella di Wuhan, una città della Cina centrale; che i casi diagnosticati sarebbero, al 10 gennaio, almeno 59, di cui 15 confermati in laboratorio; che la maggior parte dei pazienti avrebbe frequentato mercati in cui erano in vendita animali vivi, selvatici e domestici; che la trasmissione interumana – cioè da persona a persona – del virus sarebbe scarsa o comunque non ancora ben definita”. Addirittura, il 22 gennaio viene fuori che, secondo un team di scienziati cinesi (Wei Ji, Wei Wang, Xiaofang Zhao, Junjie Zai, Xingguang Li), all’origine del misterioso Coronavirus, che al momento ha mietuto già 17 vittime nella provincia cinese dell’Hubei, potrebbero esserci i serpenti. Lo studio viene pubblicato su Journal of Medical Virology: “Le nostre ricerche suggeriscono che il serpente è il più probabile serbatoio di animali selvatici del virus 2019nCoV”. Niente pauro, in ogni caso. Tanto che, il 23 gennaio, secondo l’Oms il Coronavirus “è un’emergenza sanitaria in Cina ma è ancora presto per dichiararla emergenza globale”. Appena una settimana dopo, l’Organizzazione mondiale della sanità si smentisce e proclama l’emergenza mondiale. Ma perché non intervenire prima? Sempre il 23 gennaio, Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di analisi del Sacco di Milano, punto di riferimento per il Nord Italia per effettuare gli esami dei tamponi che rilevano la positività al Coronavirus, su Facebook, esordisce così: “Una follia, scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale”. Curiosa la notizia diffusa il 27 gennaio dall’Istituto nazionale francese di sanità e ricerca medica, secondo il quale Il rischio di importazione del virus è più elevato nel Regno Unito (25%) e Germania (16%). La Francia è data al 13%, l’Italia all’11%. Così, mentre tutti sottovalutano la questione e predicano sogni tranquilli, l’Italia si trova catapultata improvvisamente in un’emegenza senza precedenti. Con il governo pronto a chiudere tutte le scuole e non solo. E qualcuno inizia a manifestare seria preoccupazione: “Se una malattia ha il 3% di mortalità ed è molto diffusa è una catastrofe“, avvisa il virologo Roberto Burioni, il 29 gennaio. E oggi, in Italia, la mortalità è al 3%.
Coronavirus, Enrico Bucci contro il governo: "Decisioni prese sulla base di studi scientifici spazzatura". Libero Quotidiano il 06 aprile 2020. Il governo di Giuseppe Conte sarebbe "influenzato da studi scientifici spazzatura" sul coronavirus. L'accusa, pesantissima, è dell'epidemiologo Enrico Bucci, membro dell'Associazione Luca Coscioni e Adjunct Professor alla Temple University di Philadelphia. Il sospetto, insomma, è che nelle misure di risposta all'epidemia l'Italia abbia sempre sbagliato tutto. Sono molti, spiega il professore, "gli studi di cattiva qualità basati su un insufficiente potere statistico" eppure "usati dalle autorità che supportano uso di soluzioni come la clorochina". Il caso in questione è quello americano, ma in Italia "c'è il caso Avigan, bufala inventata da uno youtuber, che ha portato a sperimentazioni e alla contemporanea richiesta di autorizzazione all'Aifa, l'Agenzia del Farmaco, senza supporto di evidenze solide sull'efficacia contro il virus, se non uno studio cinese prima ritrattato e poi sospeso". Tante notizie sarebbero frutti di editoriali e lettere, non da articoli scientifici classici: "Si parla di veicolazione in aria del virus, di propagazione negli animali domestici, su assunti che non hanno evidenza scientifica". Molte delle cose che leggiamo (e che sono spesso alla base dei decreti governativi) sarebbero dunque false o pesantemente inesatte. Ad esempio, sulle mascherine sfata un luogo comune fatto proprio addirittura dal capo della Protezione civile Angelo Borrelli: "Si dice che sono necessarie soltanto per i soggetti infetti. Ma se la maggioranza dei contagiati non è riconoscibile perché non ha sintomi è evidente che le dobbiamo indossare tutti per proteggere gli altri: potremmo essere positivi senza saperlo". E sulla fase 2, con graduale riapertura, Bucci è cauto: sulla base di Cina e Corea, i primi paesi colpiti dal virus, bisogna considerare un tempo minimo di due mesi, "quindi per noi il punto di inizio per una fase 2 si collocherebbe a metà maggio. Ma attenzione ci sono molte incognite. Il contagio zero non esiste dunque si potrà parlare di metà maggio prima di tutto se non si accenderanno nuovi focolai in altre regioni e con il supporto di trattamenti testati ed approvati".
Coronavirus, il dottor Bruno a Marattin: “Politici stiano zitti”. Ma pochi giorni fa minimizzava…Redazione de Il Riformista il 16 Marzo 2020. Che una delle principali falle nella strategia di contrasto alla diffusione del Coronavirus sia stata la sottovalutazione iniziale del problema, è ormai un dato di fatto. Per settimane, dopo i primi casi registrati nel lodigiano, sindaci, scienziati e cittadini tout court, hanno derubricato la questione a “poco più di un’influenza” che, come tale, poteva essere tenuta sotto controllo. Tra questi c’era anche il professor Raffaele Bruno, protagonista, qualche giorno fa all’Aria che tira su La7, di un duro scontro con il deputato di Italia Viva Luigi Marattin. Il primario del reparto malattie infettive dell’ospedale “San Matteo” di Pavia aveva duramente ammonito il parlamentare che poco prima aveva annunciato, in collegamento, di avere poco tempo a disposizione perché atteso di lì a poco in un impegno istituzionale in videoconferenza. Il medico puntando il dito contro Marattin ha attaccato tutto la classe politica: “Non ho tempo per guardare la televisione, però sentire che i politici ancora parlano di queste cose -sbotta il primario – mentre dovrebbero stare tutti quanti zitti e dire alla gente di stare a casa”. E ha aggiunto, contro il deputato di Iv: “Stai zitto e vieni in reparto ad aiutare”. Eppure lui stesso, che ha seguito da vicino il paziente 1, qualche settimana fa parlava del Covid-19 come di una semplice influenza, pienamente sotto controllo. “Nell’80% dei casi – spiegava il medico alla fine di febbraio – i sintomi sono poco più gravi di un raffreddore. In questo momento c’è troppa preoccupazione, stiamo tranquilli”.
Striscia la Notizia, il disastro del professor Massimo Galli: coronavirus, cosa gli era uscito di bocca. Libero Quotidiano il 24 marzo 2020. Va detto, in molti avevano sbagliato previsioni e percezione circa l'emergenza coronavirus. Fa più specie, però, quando a farlo è uno come Massimo Galli, il direttore responsabile del reparto malattie infettive del Sacco di Milano, uno che in questi giorni drammatici abbiamo iniziato a conoscere molto bene. E contro di lui punta i riflettori Striscia la Notizia, con un servizio trasmessa nell'edizione del tg satirico di lunedì 23 marzo, in onda su Canale 5. Viene infatti mostrato un filmato di Galli che risale allo scorso 10 febbraio, in cui di fatto minimizzava il rischio-contagio in Italia. Come sia poi andata a finire, è sotto agli occhi di tutti. "Diversi utenti ci hanno segnalato un'intervista del professor Galli che in data 10 febbraio aveva sbagliato le previsioni sulla diffusione del coronavirus in Italia", sottolinea Striscia rilanciando il video.
Coronavirus, polemiche web sul “rischio zero” annunciato da Burioni il 2 febbraio. Le Iene News il 27 marzo 2020. Rimbalza sui social una puntata di Che tempo che fa di Fabio Fazio del 2 febbraio scorso. “In Italia in questo momento il rischio di contrarre il coronavirus è zero”, dice il virologo Roberto Burioni. “Le scelte che stiamo facendo possono rassicurare il nostro paese”, dichiara il ministro della Salute Roberto Speranza. Purtroppo dal 21 febbraio le cose sono andate in maniera tragicamente diversa. “In Italia in questo momento il rischio di contrarre il coronavirus è zero”. Era il 2 febbraio scorso e il famoso virologo Roberto Burioni lo annunciava in tv, in prima serata, in studio durante la trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio. Meno di venti giorni dopo l’epidemia scoppiava nel nostro paese, che oggi conta oltre 80mila contagi e più di 8.000 morti. Quella frase rimbalza oggi sinistra su molti social. In quel momento non si poteva prevedere certo quello che sarebbe successo poco dopo. La domanda che alcuni si fanno sul web e non solo, alla luce di queste frasi e della pandemia successiva, è però questa: non è che l’Italia e il suo governo sono stati colti alla sprovvista o quanto meno non preparatissimi, nella convinzione di aver già preso tutte le precauzioni necessarie? Quel 2 febbraio è intervenuto in tv in collegamento anche il ministro della Salute, Roberto Speranza, che sosteneva: “Le scelte che stiamo facendo possono rassicurare il nostro paese, non bisogna avere paura, gli allarmismi sono sbagliati”. Ma cos'altro dicevano Burioni e Speranza quel giorno? Burioni, che lodava le misure prese dal ministro e dal governo, riassumeva così la situazione: “Ci sono stati due casi ma siamo stati in grado di contenerli (quelli dei due turisti cinesi a Roma del 30 gennaio, ndr), gli italiani stanno ritornando in sicurezza. La difesa che noi abbiamo contro questa malattia è tenerla lontana, sperando che l’epidemia si esaurisca o anche che il virus diventi più buono perché i virus col tempo hanno la tendenza in generale a diventare meno aggressivi. Speriamo che questo accada in modo da dimenticare questa brutta cosa quanto prima”. Un messaggio molto rassicurante insomma. “Tutto quello che stiamo facendo sta tenendo lontano il virus, ministro?”, chiede Fazio. “Stiamo facendo tutto quello che è possibile”, sostiene Speranza elencando le misure prese con maggiori precauzioni degli altri paesi. “In questo momento la possibilità di contrarre il coronavirus è zero”, insisteva appunto Burioni. E tutta questa gente con le mascherine? “Sarà per l’inquinamento… Il virus in Italia non sta circolando. Ci si può preoccupare dei fulmini, delle alluvioni, non di quel virus in questo momento no”. “Siamo pronti anche a scenari che possono avvenire ma che noi escludiamo totalmente”, dichiara il ministro Speranza. “Il nostro paese è pronto”. “Lavarsi le mani serve per prevenire, ma non per prevenire il coronavirus che in Italia non c’è”, conclude Burioni. Purtroppo poco dopo le cose sono andate in maniera tragicamente diversa.
Gismondo: "Mia frase? Altri virologi hanno detto la stessa cosa". La virologa si è detta amareggiata e disorientata dalla diffida a lei rivolta dal Pts. Ha poi sostenuto che altri virologi avevano detto la stessa cosa. Valentina Dardari, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. Maria Rita Gismondo ha replicato alla lettera di diffida legale inviatale dal Patto trasversale per la scienza, Pts. La direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano, ha sottolineato di avere la coscienza a posto e che chi l’ha attaccata è pietoso. Inoltre ha detto: “Non torno indietro sulle mie dichiarazioni. Invece di perdere tempo in queste cose, perché non si uniscono al mio appello a lavorare tutti insieme? Diamo spazio alla scienza". La misura nei suoi confronti era stata presa a seguito delle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Gismondo che sono state volte a minimizzare la gravità della situazione e comunque non sono basate su evidenze scientifiche. Pts aveva quindi chiesto alla virologa di tornare sui suoi passi e rettificare alcune sue esternazioni che potevano creare problemi alla salute pubblica. Molti italiani, dopo averla ascoltata, avrebbero potuto violare le ordinanze governative sottovalutando la reale emergenza in atto. Diversi gli scontri avvenuti tra Gismondo e Burioni nel corso delle ultime settimane.
Anche altri avevano detto le stesse cose. “Se chiedono a me di fare un passo indietro sulle mie dichiarazioni, devono farlo anche per quelle del virologo Pregliasco, di Ilaria Capua e del direttore dell'Oms. Non devo dimostrare nulla perché quello che ho detto è pubblicato ovunque. La Capua, ad esempio, ha detto che questo virus diventerà come un raffreddore”. La direttrice ha inoltre precisato di non essere mai stata a un tavolo governativo e quindi di non aver potuto in nessun modo aver influenzato nelle decisioni prese. La Gismondo ha detto di aver solo espresso un proprio parere, spiegando che Covid-19 è un virus ancora sconosciuto che potrebbe rivelarsi positivo o negativo. Ma questo ancora non si sa, dipenderà dalla sua evoluzione.
La Gismondo si è detta amareggiata. "Sono piuttosto amareggiata e disorientata dalla diffida, se ne stanno interessando i miei legali" ha concluso la virologa. Gli altri scienziati avevano contestato alla direttrice alcune affermazioni come quella del 23 febbraio dove aveva detto che l’emergenza era una follia e che un’infezione appena più seria di un’influenza era stata scambiata per una pandemia letale. O ancora: “Non voglio sminuire il coronavirus, ma la sua problematica rimane appena superiore all’influenza stagionale (1 marzo). Tra poco il 60-70% della popolazione sarà positivo, ma non dobbiamo preoccuparci (13 marzo). L’epidemia potrebbe esser mutata, sta succedendo qualcosa di strano (21 marzo)". Frasi che possono far minimizzare la situazione o anche creare il panico nella popolazione. La Gismondo, proprio in seguito a queste dichiarazioni pubbliche, era stata invitata a evitare di diffondere notizie senza che queste fossero supportate da evidenze scientifiche. La virologa ha infine dichiarato di non aver "nessuna voglia, né intenzione di replicare al mittente. Solo tristezza per la perdita di tempo e per l'immagine di divisione che si dà alla gente che oggi vorrebbe vedere i ricercatori uniti a cercare di risolvere l'emergenza che stiamo vivendo”.
Coronavirus, l'infettivologo: “Italia non a rischio, sono altre le nostre emergenze sanitarie”. Alessandro Barcella su Le Iene News il 06 febbraio 2020. Tra livelli di mortalità e rischi reali, Matteo Bassetti, presidente della Società di terapia anti-infettiva, ridimensiona l’allarme coronavirus: “Abbiamo molte altre emergenze infettive, la colpa è degli italiani”. Iene.it sta seguendo fin dall’inizio tutte le notizie sul virus cinese che finora ha provocato oltre 560 morti “Le mascherine date in dotazione ai vigili urbani? Buone per il Carnevale: qui si prende in giro la gente!”. Una battuta amara, quella di Matteo Bassetti, Direttore della clinica malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia anti-infettiva. Intervistato da Iene.it, l’infettivologo vuole restituire la giusta dimensione all’emergenza da coronavirus cinese, che da giorni sconvolge l’intero pianeta. Mentre le ultimissime notizie parlano di un possibile contagio tra i 56 italiani appena tornati da Wuhan, di cui vi abbiamo parlato raccogliendo la testimonianza di Paolo, uno di loro. Matteo Bassetti però sposta con decisione il focus dell’emergenza dal virus cinese: “Mi pare evidente che stiamo esagerando. Credo che quello che è successo in Italia non sia successo in nessun altro paese del mondo al di fuori della Cina: un’infezione che sta a diecimila chilometri di distanza è considerata un’emergenza nazionale, posta addirittura sotto il controllo della Protezione Civile. Il coronavirus in questo momento, evidentemente, è un’emergenza per la provincia cinese dell’Hubei, dove si registra il 95% dei decessi. Facciamo però alcuni conti. Ai 25mila casi accertati a oggi, bisogna aggiungerne almeno altri 75mila, che sono i casi lievi, le persone magari rimaste isolate nella propria abitazione, i casi non visitati negli ospedali. Arriveremo dunque a circa 100mila casi accertati di coronavirus. Ebbene, una mortalità di 450-500 casi, a oggi, significa un tasso di morte attorno allo 0,5%. Se lo paragoniamo a quello della Sars e del coronavirus dei cammelli, il Mers CoV, vediamo che la Sars aveva una mortalità al 10% e l’altra epidemia addirittura al 35%”. Dati che sembrano restituire le dimensioni di un fenomeno anche quando paragoniamo il coronavirus cinese alla classica influenza stagionale. “La forbice di mortalità dell’influenza stagionale va dallo 0,1 allo 0,5%, con punte dell’1% in zone in cui si registrano situazioni di inadeguatezza del sistema sanitario. In una stagione influenzale come quella di quest’anno, in cui abbiamo avuto 4 milioni di casi di influenza, i morti si contano a decine di migliaia! Fuori dalla Cina quanti casi ci sono stati di coronavirus? L’Oms ieri sera diceva 150. E quanti morti nei paesi altamente sviluppati come il nostro? Zero. È evidente che questo virus è decisamente meno aggressivo di Sars e Mers CoV. Che noi infettivologi parliamo di questo virus e ne leggiamo sulle riviste è normale, ma che tutti in Italia , tutti i giorni, ne parlino, mi sembra francamente esagerato. Ripeto: è un problema per il 99,9% esclusivamente cinese. La probabilità di essere contagiati oggi dal coronavirus in Italia? È vicina allo zero! Ci saranno magari sicuramente altri casi sporadici, ma come ha detto anche lo Spallanzani, credo che il peggio sia passato”. Ma allora quali sono le vere emergenze italiane? Matteo Bassetti non ha dubbi:” Abbiamo tanti problemi in Italia dal punto di vista infettivo. Siamo un paese in cui l’esitazione vaccinale ha portato a dover fare una legge, la legge Lorenzin, che obbliga a vaccinare i bambini. Siamo un paese in cui per l’influenza si vaccina un italiano su 5 e, nelle categorie a rischio per cui il vaccino è somministrato gratuitamente, il 50%. Siamo al primo posto in Europa per i batteri resistenti, fondamentalmente secondi solo a Romania e Grecia, perché usiamo male gli antibiotici. Abbiamo tante epidemie in corso tra cui il morbillo nel Salento e il meningococco in Lombardia. Davvero il problema più grande in Italia è il coronavirus? Si sta parlando da giorni di due signori cinesi ricoverati per il coronavirus, ma vogliamo ricordare quanti italiani in questo momento sono ricoverati nelle terapie intensive per polmoniti batteriche, fungine, virali o infezioni, pazienti con bronchite cronica, con fibrosi cistica? Questi sono i problemi: si parla solo di coronavirus, ma gli altri malati chi li cura nel frattempo?”. La critica, ci tiene a sottolineare l’infettivologo, non è alla politica ma agli italiani. “Gli stessi che oggi vanno a comprare le mascherine, si chiudono in casa e non vanno nei ristoranti cinesi sono quelli che poi non si vaccinano, sono gli stessi che prendono gli antibiotici quando non dovrebbero prenderli o che non vaccinano i bambini per l’influenza. Il nostro, su questo argomento, è un paese profondamente immaturo”. Alla fine, una stoccata al sensazionalismo che è seguito all’annuncio della scoperta dello Spallanzani, che ha isolato il nuovo coronavirus: “C’è un documento datato 17 gennaio che attesta che ricercatori cinesi e anche di vari paesi europei avevano pubblicato le regole per poter isolare il virus. L’annuncio dello Spallanzani mi è sembrato un po’ trionfalistico: era una cosa già stata fatta, non abbiamo scoperto niente di nuovo! Hanno lavorato sicuramente bene, ma non si può dire che siano stati i primi”. Iene.it continua a seguire in tempo reale l'evolversi dell'emergenza coronavirus, che dalla Cina si sta diffondendo nel resto del mondo. Al momento si contano 565 morti, 1363 ricoverati e oltre 28.300 contagiati.
Nella prima puntata della nostra inchiesta abbiamo raccolto la testimonianza da Pechino di Nicoletta e Francesca, mamma e figlia trevigiane che da 20 anni vivono nella capitale cinese. “La zona di Sanlitun, il distretto dei ristoranti di lusso, degli uffici e della vita notturna, è incredibilmente deserta. I marciapiedi e i lunghi viali di solito trafficatissimi sono vuoti: la città è spettrale. Le pochissime persone che si incrociano per strada indossano tutte le mascherine di protezione. Le farmacie di Pechino e i negozi hanno terminato le scorte di disinfettanti”, racconta mamma Nicoletta.
Nella seconda puntata della nostra inchiesta, abbiamo mostrato gli incredibili dati di un rapporto, l'indice di sicurezza sanitaria globale 2019, che risponde a questa delicatissima domanda: l'Italia è davvero in grado di affrontare l'epidemia da coronavirus? E quello che emerge dal rapporto è sconsolante : il nostro punteggio complessivo è di 56,2 punti e ci colloca diciottesimi in Europa (su 28 membri) e 31esimi nel mondo (su un totale di 195 paesi monitorati).
Nella terza puntata abbiamo appunto mostrato l'appello di Paolo, uno degli italiani bloccati a Wuhan, la cui situazione è appena sbloccata con il ritorno in patria (ritorno che vi abbiamo mostrato poi in questo altro video).
Nella quarta puntata abbiamo raccontato tutte le notizie false e le assurdità che stanno circolando in rete in questo momento di grande panico per la diffusione del coronavirus: dalla polizia di Wuhan che "spara a chi tenta di scappare" a Bill Gates, fino alle “montagne di cadaveri nascoste negli ospedali cinesi” e all'esperimento “sfuggito di mano”. Tra tutte queste teorie complottiste è anche comparso un audio delirante su WhatsApp.
Dopo avervi raccontato dell’allarme hacker lanciato da una società specializzata nella sicurezza informatica, abbiamo poi raccolto l’appello della Caritas di Hong Kong, “Ci servono le mascherine, vi prego, aiutateci a combattere il coronavirus!”. La situazione nella metropoli cinese è drammatica: mascherine introvabili nelle farmacie, rubate, vendute al mercato nero, dove chi specula triplica i prezzi. Mentre tantissime persone prive di mascherina sono costrette a rimanere chiuse in casa. A parlarci della situazione è Cherry Lee Tai Ying, membro della Caritas Youth and Community di Hong Kong. Iene.it rivolge un appello a chi ci segue: aiutiamo i cittadini di Hong Kong a dotarsi delle necessarie mascherine per evitare il contagio dal coronavirus? Come fare? Acquistando le mascherine modello EN14683, dotati di livello ASTM 2 o 3 e spedendole poi a questo indirizzo: Caritas Jockey club Integrated Service for Young People Tuen Mun. 1/F, Siu Hei Shopping Centre, Siu Hei Court, Tuen Mun, N.T., Hong Kong. Il risk manager Vincenzo Puro dell’Istituto nazionale per le Malattie Infettive "L. Spallanzani" (quello dove sono ricoverati i due primi casi di contagio da coronavirus in Italia, due turisti cinesi che oggi si sono aggravati) ci ha confermato l’efficacia di queste mascherine: “Questo modello di dispositivi è in grado di proteggere le persone, è una ‘barriera’ sia per la persona contagiata che per quella a rischio di contagio. Bisogna inoltre cambiare la mascherina ogni 8 ore. Nei posti con altissimi livelli di umidità va cambiata più spesso”. Abbiamo infine raccontato il ritorno a casa di Andrea Rinaldi, un ragazzo siciliano che viveva a Shanghai da nove anni e che ha documentato per iene.it il suo viaggio dalla metropoli cinese a Catania, un viaggio tra paura di amici e parenti e nessun controllo negli aeroporti. E poi il suo sfogo: “Non sono malato, ma sono costretto a nascondermi”.
D'Anna ritira le dimissioni da presidente dei biologi. Saviano: "Lui è la prova che certa scienza è dominata dalla politica". L'ex senatore ieri ha lasciato l'incarico all'ordine. Oggi ci ripensa. Lo scrittore attacca: "Offriva pacchetti di voti in stile feudale". Nelle ultime settimane si era fatto notare per dichiarazioni controverse sul coronavirus. La Repubblica il 15 marzo 2020. Contrordine. Vincenzo D'Anna - presidente dell'Ordine dei biologi, nonché ex senatore di Forza Italia e di Ala - si è dimesso, ieri, dopo una serie di dichiarazioni controverse sul coronavirus. Oggi però ci ha ripensato. Dice di averlo fatto dopo "petizioni plurime di colleghi biologi". D'Anna però è noto anche per mosse discusse nella carriera politica. Ed è soprattutto a questo che fa riferimento Roberto Saviano in un post su Fb in cui attacca: "Che una tal figura sia stata Presidente dell'ordine dei biologi genera disgusto. Dimostra lo stato in cui versa certa scienza nel nostro Paese, dominata più dal gioco politico che dal talento e dalle competenze". E ricorda: "D'Anna ha una lunga carriera politica da democristiano, entra poi in Forza Italia come fedelissimo di Nicola Cosentino". Ma ci sono altre "uscite" su cui Saviano sceglie di tornare: "Di lui rimarranno orride boutade, come quando disse: 'La donna porta con sé l'idea del corpo, l'idea della preda'. Offriva pubblicamente - in perfetto stile feudale - pacchetti di voti come se vendesse foglie di tabacco: 'Posso offrire almeno centomila voti al PD'". Un post, quello di Saviano, scritto prima della clamorosa retromarcia. Nell'iniziale lettera di dimissioni - indirizzata al consiglio direttivo dell'ordine dei biologi - D'Anna parlava di "divergenze sulla linea politica dell'ente". Ma a inizio marzo aveva pubblicato sulla sua pagina Fb un testo che fece molto scalpore. Aveva scritto, tra l'altro: "Ecco arrivare il colpo di teatro. Nella civilissima ed efficientissima Lodi, proprio lì, nel cuore della terra del condottiero padano, si materializza, a sorpresa, il primo caso italiano d’infezione da Covid-19! Un secondo caso compare poi in Veneto ed un altro ancora a Torino. Insomma: tutti nel profondo Nord, altro che untori africani!! Una sorta di “paradosso virale” che sembra quasi accanirsi con le regioni identitarie della Lega". Aveva accreditato l'ipotesi di un virus domestico "esistente nelle terre ultraconcimate con fanghi industriali del Nord". E l'aveva declassato a poco più che un'influenza. Abbastanza per dimettersi? Evidentemente no, dal punto di vista di D'Anna.
Perché le dimissioni (ritirate) del presidente dei Biologi erano una buona notizia per la scienza. Dai vaccini al coronavirus, tutte le controversie su Vincenzo D'Anna, che lascia la guida dell'ordine dei biologi. Enrico Cicchetti su Il Foglio il 15 Marzo 2020. Vincenzo D’Anna ha annunciato ieri sera con una lettera di avere ritirato le sue dimissioni da presidente dell’ordine dei biologi. “In esito ad un approfondimento sull’art. 39 della legge 396/1967, cioé la norma che disciplina le modalità di nomina delle varie cariche in seno al Consiglio dell’Ordine mi è stato fatto rilevare che la legge non prevede alcun meccanismo di sostituzione del Presidente se non per assenza o impedimento, il che fa anche dubitare della stessa ammissibilità delle dimissioni da tale carica slegate dalla contestuale rinuncia anche a quella di consigliere. [...] al fine di non provocare disorientamento nella comunità dei biologi, comunico di ritirare formalmente le mie dimissioni così come presentate in data 14 marzo 2020, confermando in toto quanto reso noto nella lettera inviata in pari data al componenti del Consiglio dell’Ordine dei biologi”. Il politico e biologo Vincenzo D’Anna, che aveva diffuso notizie false sul coronavirus, si è dimesso dalla carica di presidente dell’ordine nazionale dei biologi, che ricopriva dall'autunno 2017. Il sito dell'ordine però non lo cita e segnala invece “divergenze sulla linea politica, con particolare riguardo al ruolo ed alla funzione che l’Ente deve svolgere in relazione agli eventi di particolare rilevanza scientifica e sociale". "Il casus belli", riporta Quotidiano sanità "è il tema del momento: il coronavirus. Sulla questione era infatti in cantiere un numero della rivista ufficiale dell’Onb. Ma sui contenuti del numero non c'è stato accordo con i membri del Consiglio Direttivo che hanno scritto a D’Anna per chiedergli di 'interrompere l'edizione di un numero speciale sul Coronavirus... e ciò per evitare di comunicare in modo conflittuale con le comunicazioni degli organi governativi e scientifici accreditati, nel rispetto della dipendenza di Onb dal ministero della Salute”. D'Anna, ex deputato e senatore, aveva pubblicato a fine febbraio sul suo sito e sulla sua pagina Facebook un messaggio in cui sosteneva che i ricercatori avessero scoperto un nuovo ceppo del Covid-19 detto “italiano”. Il ceppo, secondo lui, domestico non avrebbe "cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli. Un virus padano, per dirla tutta, esistente negli animali allevati nelle terre ultra concimate con fanghi industriali del Nord!!". Una fake news: l’Ospedale Sacco di Milano ha infatti isolato i ceppi in circolazione in Italia ma non significa che il virus abbia avuto origine qui, come sostiene D’Anna, bensì è una delle tante varianti del virus identificato a Wuhan. Secondo D'Anna il ceppo "italiano" sarebbe "poco più che un virus para-influenzale, di nessuna nocività mortale se non per la solita parte a rischio della popolazione". Un'altra affermazione pericolosa (perché nel sottovalutare i rischi induce le persone a non prendere le dovute precauzioni) e priva di riscontri clinici. E Ancora, per l'ex presidente dei biologi, "la stessa Oms ridimensiona il tiro e declassa il virus a poco più che un’influenza, batte in ritirata anche Burioni che si scusa". Due falsità in una frase. L'Organizzazione mondiale della sanità non ha mai ridimensionato la minaccia e in realtà ha da poco dichiarato la pandemia. E il virologo Burioni non ha certo smesso di mettere all'erta la cittadinanza sui rischi di questa nuova forma virale. D’Anna, in un’intervista al programma “I Lunatici“, in onda su Rai Radio 2, ha sostenuto che il coronavirus è "un virus influenzale e poco più" con "se vogliamo una mortalità ancora più bassa dell'influenza". Una ulteriore falsità, smentita da tanti importanti e autorevoli medici e ricercatori, tra gli altri anche il consulente del ministero della Salute, il dottor Walter Ricciardi che ha precisato che Covid-19 "non è come una normale influenza, ha un tasso di letalità più alto. E soprattutto, se non la fermiamo rapidamente, rischia di richiedere un numero di posti di terapia intensiva superiore a quelli che ci sono nei nostri ospedali" pure suggerendo di "ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, solo il 5 per cento muore". Nel febbraio 2019, i docenti dell’università di Pavia hanno bloccato gli esami di stato per i biologi per protesta contro le posizioni sui vaccini espresse dall’Ordine nazionale e dal suo presidente. D’Anna aveva infatti deciso di donare diecimila euro all’associazione “free-vax” Corvelva per finanziare non meglio precisate ricerche sui vaccini. L'allora presidente ha in un primo momento difeso la decisione di finanziare l'associazione, che ha definito “un’associazione meritoria”, e annunciato di volere fare causa per diffamazione contro l'università. Salvo, pochi giorni dopo, ritrattare: ha dichiarato infatti di aver tolto i fondi a Corvelva. Non perché finanziare gli antivaccinisti sia sbagliato, ma perché l'associazione aveva anticipato i risultati dei suoi studi al Tempo. La stessa Corvelva, per altro, il giorno prima aveva già deciso di restituire la donazione dell’Ordine dei Biologi, e l'aveva comunicato su Facebook. Ancora: D’Anna, in diverse occasioni (anche sul Foglio), ha rilasciato dichiarazioni sulla presenza di “metalli pesanti” all’interno dei vaccini. A marzo 2018 ha organizzato il convegno "Nuove frontiere della biologia" al quale partecipavano alcuni dei guru dei no-vax e al quale venne dedicato un articolo sul British Medical Journal. Nel gennaio 2019, ne ha organizzato un altro, "Vaccinare in sicurezza", con altri idoli del mondo free vax.
· Giri e Giravolte della Politica.
"Chiudere tutto, anzi no". Salvini e il Covid 19, la confusione del leader leghista sulla gestione dell'epidemia. Dal 27 febbraio ad oggi i continui cambi di rotta del leader di destra. A un certo punto l'ammissione: "Ho sbagliato". Ma subito dopo una nuova giravolta. Laura Mari il 16 aprile 2020 su La Repubblica. Aprire, chiudere. Preservare la salute degli italiani con il distanziamento sociale o riprendere le attività e la vita pre-coronavirus? Il leader della Lega,Matteo Salvini, ci ha abituati a continui cambi di rotta sulle misure che il governo dovrebbe adottare per l'Italia ai tempi del Covid 19. Oggi preme decisamente sull'acceleratore della riapertura. In linea con i governatori leghisti Fontana e Zaia. "Chiedere la riapertura da parte della Lombardia è un grande segnale di concretezza e di speranza, spero che il governo ne tenga conto", ha dichiarato questa mattina Salvini. E ancora: "Altri Paesi riaprono, non possiamo rimanere indietro". Spingendosi a parlare della scuola e di un ritorno dei figli sui banchi. "Se riaprisse l'11 maggio, i miei figli li manderei a scuola, purché siano garantiti sanificazione, distanze e dispositivi di protezione". Solo l'ultimo evoluzione di un percorso molto tortuoso. Ecco, data per data, le dichiarazioni del leader leghista.
21 febbraio: "Chiudere l'Italia". In occasione dei primi contagi, in Italia, da Covid 19, Matteo Salvini, non aveva dubbi: "Bisogna chiudere tutto". Alle domande dei giornalisti sulle misure da adottare per scongiurare l'inizio dell'emergenza, il leader leghista il 21 febbraio scorso dichiarava: "Davvero non vorrei polemiche, non penso solo ai barconi e ai barchini. Penso ai controlli di chiunque entra in Italia ed esce dall'Italia: evidentemente, qualcosa non funziona. Il Governo? Non do colpe a Tizio e a Caio: è fondamentale, se non l'hanno fatto da ieri, che da oggi - scandiva Salvini- chiunque entri in Italia con qualunque mezzo di trasporto, dalla zattera all'aeroplano, venga controllato".
27 febbraio: "Tornare alla normalità". Il leader leghista il 27 febbraio, a soli 6 giorni di distanza dalle sue prime dichiarazioni sull'emergenza Covid-19, sembra entrare in confusione e cambia rotta. Dal "controllare tutti", Salvini passa al "tornare alla normalità". Attaccando l'Europa e il governo Conte, il leghista, dopo essere salito al Colle per un colloquio co il Capo dello Stato, Sergio Matterella, all'uscita dal Quirinale dice ai cronisti che lo attendono: "Il Paese affonda, con i governatori leghisti concordiamo che occorre riaprire tutte le attività e ritornare alla normalità".
10 marzo: "Fermare tutto". Nuova retromarcia di Salvini. Con l'Italia piegata da un numero impressionante di contagiati e di vittime e Salvini è costretto a cambiare registro. "Fermiamo tutto per i giorni necessari. Mettiamo in sicurezza la salute di tutta Italia. Chiudere prima che sia tardi". E poi, il giorno seguente, l'11 marzo, alza il tiro: "Chiudere tutta l'Europa. Tutto il continente - ha sostenuto Salvini - deve diventare zona rossa, per evitare guerre commerciali. Prima si chiude Schengen, meglio è".
26 marzo: "Riaprire tutto? Ho sbagliato". Messo alle strette dalle trasmissione televisiva Piazzapulita su La7, Salvini è costretto ad ammettere l'errore sull'appello a riaprire. "Era evidentemente una valutazione scientificamente sbagliata", dice, ma aggiunge: "Come era sbagliata quella del presidente del Consiglio che diceva che era tutto sotto controllo".
4 aprile: "Riaprire le chiese per Pasqua". Ammettere l'errore non esclude una nuova giravolta. Con la Pasqua alle porte cosa fare con le messe e i riti nelle chiese? Salvini torna sul tema dello spalancare le porte, questa volta ai fedeli. Ospite in una trasmissione di SkyTg24 dice la sua: "Aprire le chiese ai fedeli, magari con ingressi contingentati". E spiega meglio: "Il mio è un appello a poter permettere a chi crede di andare a messa. Si può andare dal tabaccaio, allora perchè non si può curare l'anima. Si può entrare contingentati al supermercato e allora perché no in chiesa?". Ma la sua proposta resterà isolata. Respinta sia dagli alleati del centrodestra che dalla Chiesa.
14 aprile: "Chi può riapra il prima possibile". Dopo il sì alle riaperture e poi il no, Salvini il 14 aprile passa al "ni". Aprire tutto, dal 4 maggio, sarebbe rischioso. Quindi, la ricetta per la fase 2 secondo l'esponente del Carroccio sarebbe: "Riaprire in sicurezza chi può il prima possibile perché stare chiusi altre settimane e mesi porterà al disastro economico".
16 aprile: "Riaprire la Lombardia". L'ultimo slalom di Salvini sulla ripartenza ha la data di oggi. Basta distanziamento sociale, stop allo stare a casa, adesso per l'Italia, sostiene il leghista, c'è bisogno di una accelerazione verso la normalità. Quindi, anche regioni tra le più colpite dalla pandemia, come la Lombardia, dal 4 maggio dovranno registrare la svolta. "Chiedere la riapertura da parte della Lombardia - ha dichiarato sostenendo le richieste del governatore Attilio Fontana - è un grande segnale di concretezza e di speranza, spero che il governo ne tenga conto". Il governo, il bersaglio di sempre.
Coronavirus, Fontana attacca Conte: “Disse che non c’era emergenza”. Annalibera Di Martino il 31/03/2020 su Notizie.it. Fontana in Consiglio regionale punta il dito contro Conte e l'ISS: "Conte diceva nessuna emergenza coronavirus. Sanità troppo lenta". Il governatore Attilio Fontana si scaglia contro il governo Conte criticando i modi e le tempistiche della gestione dell’emergenza coronavirus. “Attaccate me ma qualcuno in aula ha urlato ‘Vergogna’ quando chiedevo i controlli sui cittadini che tornavano della Cina” ha sottolineato il presidente della Regione Lombardia in Consiglio regionale. Il governatore leghista Attilio Fontana durante la conferenza in Consiglio regionale si è scagliato contro il governo e contro le accuse che gli erano state rivolte in aula, ma anche per le replicare alle sollecitazioni giunte dai comuni dove primeggia la sinistra. E ancora, ha menzionato il presidente del Consiglio, rispetto alle dichiarazioni di un “sistema pronto a fronteggiare l’emergenza“. Quando l’Italia sembra in ginocchio, Fontana incalza e ricorda che “a febbraio Conte disse nessuna emergenza”. “Il vostro presidente del Consiglio, il 3 febbraio, disse in maniera pubblica: ‘Non preoccupatevi, non dovete prevedere nessuna pandemia perché il nostro sistema è pronto ad affrontare qualunque tipo di emergenza” – spiega Attilio Fontana- . Mi stupisco che voi accusiate me di avere sottovalutato il problema – ha aggiunto Fontana, mentre qualcuno in aula ha urlato: ‘Vergogna’ -. Questo mi offende umanamente, eravate quelli che mi dicevano che ero razzista quando chiedevo controlli su tutti i cittadini che tornavano dalla Cina. Mi accusate di aver sottovalutato il problema quando sono stato l’unico ad essere sbeffeggiato con parole insolenti”– e ancora – “mi è stato detto che ero la causa della perdita di credibilità dell’Italia di fronte al mondo perché ho cercato di avvisare che si dovevano rispettare le regole rigorosamente perché altrimenti si sarebbe finiti in una situazione drammatica”. Non solo il governo ed il premier Conte. Fontana, che è stato attaccato anche da esponenti del giornalismo come Marco Travaglio, punta il dito anche contro l’Istituto Superiore della Sanità. In particolare il Governatore ha sottolineato i tempi d’attesa, quelli che servono per ottenere una certificazione per un’azienda lombarda a produrre 900 mascherine al giorno. “Purtroppo l’Istituto superiore di sanità ha detto che la prima riunione per valutare questa mascherina è stata rinviata alla settimana ventura. Da lì inizia questo iter che mi auguro possa essere reso rapido. Io credo che non si debba dire: ‘Diamo una risposta tra qualche settimana’ pensando di farci un piacere, ma che si dovrebbe dire: ‘Vi diamo una risposta tra qualche ora’“- spiega Fontana- . “A meno che non si siano ancora resi conto che siamo in un periodo di emergenza, visto che comunque le mascherine nessuno ce le dà. Almeno ci diano l’autorizzazione a produrle. Noi abbiamo coinvolto il Politecnico che ha dato la certificazione sui tessuti”.
Da Tutto Travaglio. CITAZIONI: "Riaprire! L’inversione a U di Fontana in due giorni". PAROLA PER PAROLA - UN MESE DI DICHIARAZIONI DEL PRESIDENTE LOMBARDO, CHE CAMBIA IDEA QUANDO LO FA SALVINI E PERÒ DICE: “NO, LUI NON C’ENTRA ASSOLUTAMENTE”. Ma. Pa. su Il Fatto Quotidiano il 17 aprile 2020.
L’interessato dice: “Assolutamente no”. Vogliamo fidarci di Attilio Fontana quando esclude categoricamente che Matteo Salvini abbia fatto pressioni su di lui per spingerlo ad abbracciare la narrativa della “fase 2”: cancelliamo dunque dai nostri appunti quanto sostengono fonti interne alla stessa Giunta lombarda, che descrivono l’avvocato varesino troppo prono, a differenza del collega veneto Luca Zaia, alle esigenze politiche del leader del suo partito. Tutta acqua della Fontana, insomma. Solo che il “governatore”, se la giravolta è tutta sua, dovrebbe spiegarla bene ai suoi concittadini: qualche giorno fa non si potevano aprire neanche le librerie, oggi tana libera tutti, salvo poi dire che sì, certo, con calma, adelante ma con juicio. Il breve regesto delle prese di posizione di Fontana lungo un mese spiega meglio di mille parole cosa va chiarito.
Eurochiusura. “È il momento che l’Europa dichiari la chiusura di tutta la parte produttiva” (16 marzo).
Ora basta. “Le nostre autorità sanitarie ci impongono di agire nel minor tempo possibile. La situazione non migliora anzi, continua a peggiorare”. Ne seguì la mitica ordinanza arrivata un paio d’ore prima del Dpcm del governo per chiudere cantieri, uffici pubblici, etc., ma non le aziende (21 marzo)
Vi vedo. “Oggi, non so se è una mia impressione, c’è troppa gente in giro” (30 marzo)
Nein! “Folle, insensata e irresponsabile”. Giulio Gallera, dopo una telefonata di Fontana alla ministra Luciana Lamorgese, contro la circolare del Viminale che predicava un po’ di tolleranza per chi portava fuori i figli piccoli vicino casa (1 aprile)
Guai a voi. “Bastano due giorni di notizie positive e provvedimenti che sembrano in senso più aperto e la gente pensa subito che sia finito tutto. Invece non è finito niente” (3 aprile)
Obbligo di sciarpa. In Lombardia è introdotto “anche l’obbligo per chi esce dalla propria abitazione di proteggere se stessi e gli altri coprendosi naso e bocca con mascherine o anche attraverso foulard e sciarpe” (ordinanza del 4 aprile)
Librerie. Il governo ha autorizzato l’apertura di librerie, cartolerie e alcune (poche) tipologie di aziende per martedì 14 aprile. La Lombardia, però, non ci sta e le richiude: “Sarà possibile acquistare articoli di cartoleria, di fiori e piante all’interno degli esercizi commerciali… già aperti” (ordinanza dell’11 aprile)
Contagio. “La libreria purtroppo uno la frequenta per sfogliare i libri, toccarli e poi rimetterli al proprio posto e questo può essere motivo di contagio” (12 aprile)
Milanesi nel mirino. “Ho sentito anche sui social la giusta rabbia di qualcuno che dice: a Milano c’è ancora troppa gente che si muove” (Giulio Gallera, 12 aprile)
Giù la cler. “Abbiamo chiesto insistentemente di poter tenere chiuso il maggior numero di negozi possibile” (13 aprile)
Peccato. “Aspetteremo quello che ci dicono i nostri esperti per capire: la curva sta rallentando, ma molto molto adagio. Io ero convinto che rallentasse più velocemente” (13 aprile)
Tutti dentro. “In Lombardia i numeri sono sempre costanti: non salgono ma non scendono. Siamo vicini all’inizio della discesa, se manterremo comportamenti virtuosi e rigorosi” (13 aprile)
La svolta/1. “Leggo ‘tutti fermi a casa fino a maggio’ e non è più sopportabile a lungo dal mio punto di vista” (Matteo Salvini, 14 aprile)
La svolta/2. “La Lombardia guarda avanti e progetta la nuova normalità. Dal 4 maggio la Regione chiederà al governo di dare il via libera alle attività produttive” (15 aprile)
Viva il caldo. “Lo dico senza valenza scientifica ma spero di non sbagliare: il caldo rallenterà il contagio e renderà il virus meno aggressivo. Mi auguro che il 4 maggio si possa cominciare una ripresa graduale com’è stato detto” (16 aprile)
N. B. Fontana è membro del Comitato per la fase 2 del governo che mira a riaprire gradualmente dal 4 maggio: quindi che vuole la Lombardia?
Il governatore umarell di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano il 23 marzo 2020 – Più passano i giorni, più vien da domandarsi come abbia potuto la regione più prospera d’Europa mettersi nelle mani di un Attilio Fontana. Bravo travet, per carità, ma totalmente inadeguato a compiti che non siano quello degli umarell in visita ai cantieri. Nulla di paragonabile al leghista veneto Luca Zaia che, anche quando dice o fa fesserie, dimostra di avere la situazione sotto controllo. Infatti, nella lotta al virus, ha sfoderato una strategia, giusta o sbagliata: tamponi a tappeto per censire tutti i positivi, i quali sono infinitamente più di quelli ufficiali perché includono gli asintomatici che, proprio perché asintomatici, sono più pericolosi dei sintomatici perché contagiano gli altri senza saperlo. In Lombardia, invece, il tampone non lo fanno neppure ai sintomatici. Ma non per scelta, che sarebbe almeno degna di valutazione: perché sono nel marasma totale e non sanno che pesci pigliare. Il che ci fa benedire una volta di più Salvini per l’unica cosa buona fatta in vita sua: rovesciare il Salvimaio e levarsi dai piedi, sennò oggi avremmo una Lombardia ancor più autonoma di quanto già non sia, cioè libera di fare ancor più cazzate di quante già non ne faccia. Dopo aver detto tutto e il contrario di tutto, a rimorchio del presunto leader nazionale, sabato sera Fontana ha partorito un’ordinanza che doveva “chiudere tutto”. Ma in realtà, ancora una volta, non chiude quasi nulla: non per esempio le fabbriche, che a parole (sui media, ma mai con atti ufficiali) lo sgovernatore pretendeva fossero chiuse dal governo (pur avendo tutti i poteri per chiuderle lui) perché non voleva contrariare Confindustria. In compenso chiudeva gli studi professionali, compresi quelli legali, che un avvocato come lui dovrebbe sapere di non poter chiudere: la giustizia non è stata ancora abolita e i processi più urgenti (per direttissima e con imputati detenuti, anche per i divieti di passeggiata e corsetta da lui introdotti) si continuano a fare. E, siccome non è stata ancora abolita neppure la Costituzione, chi viene arrestato o processato in Lombardia necessita di un difensore: ma dove lo trova se tutti gli studi legali della Lombardia sono chiusi? Va a cercarselo in Puglia, sperando che lì il governatore sia un po’ più lucido del suo? Nessuno lo sa perché nessuno lo dice, ma lo scaricabarile di Fontana&C. ha creato il grosso del casino di sabato. Siccome Fontana fingeva di chiedere ciò che non chiedeva, l’odiato governo di Roma ha dovuto provvedere, previa trattativa Skype fra premier, ministri, Confindustria e sindacati su quali filiere produttive chiudere e quali tener aperte. Distinzione piuttosto ardua, con buona pace di chi pensa che i decreti siano fiaschi che si abboffano e che, per chiudere tutto, basti scrivere “chiudiamo tutto” e annunciarlo in conferenza stampa all’ora del tè (se no Renzi, Salvini, Meloni e il giro Berlusconi-Stampubblica se ne ha a male). Infatti tutte le filiere produttive sono intrecciate: se lasci aperta l’ortofrutta, ma chiudi chi produce imballaggi, etichette e pellicole di cellophane, la frutta e la verdura non partono e non arrivano più a destinazione. Di questo si è discusso per tutto sabato pomeriggio. Poi Conte ha dovuto informare i 20 presidenti di Regione, ciascuno con le sue pretese confliggenti con quelle degli altri 19. Così l’appuntamento fra lui e Fontana, in videoconferenza, fissato per le 19.30, è slittato alle 20.15. Ma cinque minuti prima, alle 20.10, il governatore umarell se n’è uscito con la sua ordinanziella Chiudo-Nonchiudo senz’avvertire nessuno. E in aperto contrasto con le regole del decreto che lui sapeva essere in arrivo da Roma per tutta Italia (Lombardia inclusa). Come se fosse il dittatore dello Stato libero di Bananas. E ora, dopo avere scatenato questo casino, Fontana fa pure l’offeso sui giornali amici (tutti) perché il dpcm “è un po’ riduttivo rispetto alle misure che avevamo predisposto noi” e “non ha il nostro consenso”. Cioè crede che il governo debba prendere ordini da un “governatore” che fra l’altro non sa neppure quali ordini impartire, visto che da giorni chiede per finta ad altri di fare ciò che potrebbe fare lui, e poi lo fa (malissimo) cinque minuti prima che il premier gli dica cos’ha deciso il governo. E intanto continua a non far nulla per le migliaia di sintomatici con tosse e febbre, contagiosissimi per i familiari e i passanti, scaricati dalla “sanità modello” che non dice loro null’altro che “prendi un’aspirina”. Dopodiché, mentre i media raccontano di centinaia di anziani infetti che muoiono soli come cani, abbandonati nelle case, negli ospizi e nelle cliniche private (pagate da noi) dalla sanità lombarda al collasso, mente spudoratamente al Corriere : “Noi curiamo tutti e non lasceremo mai indietro nessuno” (resta da spiegare perché in Lombardia 9 morti su 10 col coronavirus non abbiano mai visto un ospedale). E ri-mente sul Bertolaso Hospital in Fiera, che “servirà a tutta l’Italia”, quando sa benissimo che i 300 posti letto si riempiranno in mezz’ora, e di pazienti lombardi. Ma, curiosamente, chi crocifigge Conte anche quando non sbaglia tace sugli errori di Fontana che ne infila almeno due al giorno. A riprova del fatto che, per quante disgrazie si abbattano sull’Italia, la peggiore resterà sempre la cosiddetta informazione. A proposito. Casomai qualcuno volesse la verità sulla scandalosa “diretta Facebook di Conte” sabato, quella non era una diretta Facebook. Il discorso del premier è stato diffuso, come quelli di tutti gli altri premier in passato, dal segnale audio-video della sala-regìa della Presidenza del Consiglio, a cui si sono connesse le tv che volevano trasmetterlo, il canale YouTube di Palazzo Chigi e la pagina Fb di Conte. Cioè: sono due giorni che si parla del nulla.
Che tempo che fa, Beppe Sala fa mea culpa: "Milano non si ferma? Forse ho sbagliato". Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. Già, "Milano non si ferma". Un slogan che ora, per Beppe Sala, avrà assunto i contorni dell'incubo. Erano i primi giorni dell'emergenza coronavirus, quando il primo cittadino ha fatto leva sull'orgoglio meneghino, attaccando in controluce i primi decreti restrittivi del governo. Aveva torto, clamorosamente: lo sviluppo dei fatti sta lì a dimostrarlo e non c'è neppure bisogno di ricordarlo. E Beppe Sala, ospite in collegamento a Che tempo che fa di Fabio Fazio su Rai 2, nella puntata d domenica 22 marzo, fa mea culpa: "Il 27 febbraio in rete circolava il video Milano non si ferma. Forse ho sbagliato a rilanciarlo, ma in quel momento nessuno aveva compreso la veemenza del virus. Accetto le critiche, ma non tollero che qualcuno possa marciarci su per scopi politici", conclude Beppe Sala.
Da ilfattoquotidiano.it il 23 marzo 2020. Dal 27 febbraio al 23 marzo, da #milanononsiferma e #restateacasa: dopo 26 giorni, il sindaco Beppe Sala ha ammesso che il suo racconto dell’emergenza Covid-19 è stato macchiato da un errore di comunicazione. Il primo cittadino di Milano ha fatto mea culpa sui social, lì dove si è consumata ‘l’inversione a u’ della sua narrazione: “Il 27 febbraio in rete circolava il video #milanononsiferma: forse ho sbagliato a rilanciarlo, ma in quel momento nessuno aveva compreso la veemenza del virus”. E poi una polemica: “Accetto le critiche, ma non tollero che qualcuno possa ancora marciarci su per scopi politici“. Sala non fa nomi, ma quando si riferisce a “qualcuno che ci marcia su per scopi politici” si riferisce al governatore lombardo Attilio Fontana e soprattutto all’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, che a più riprese hanno criticato le uscite del sindaco. Solo venerdì scorso, ad esempio, tra Gallera e Sala è stata polemica sulla possibile chiusura dei trasporti pubblici locali, con il braccio destro di Fontana a chiedere lo stop immediato dopo gli errori dei giorni precedenti e il primo cittadino a rispondergli a tono, accusandolo di demagogia. Proprio sul tema di fermare bus e metro, tuttavia, è stato lo stesso Sala ad ammettere di aver sbagliato strategia: “Noi abbiamo ridotto la frequenza del trasporto pubblico i primi due giorni, non abbiamo dato un servizio eccellente e poi abbiamo messo a posto” ha detto Sala il 20 marzo. Nel tweet odierno, però, per motivare la propria sottovalutazione dell’epidemia il sindaco ha anche sottolineato che il 27 febbraio “nessuno aveva compreso la veemenza del virus”. Falso. E il sindaco lo sa bene. Lo dicono i fatti. Era stato proprio lui, del resto, a chiedere la chiusura di tutte le scuole e le università di Milano dal 23 febbraio (dopo la scoperta del focolaio del Lodigiano), quindi 4 giorni prima del video #milanononsiferma. “Scopo precauzionale” disse allora: ma sul fatto che si trattasse di un provvedimento emergenziale non c’erano dubbi. Quindi c’era già contezza della “veemenza del virus”. Non solo. Due giorni dopo, il 25 febbraio, arrivò la notizia del rinvio del Salone del Mobile, uno degli eventi clou della stagione milanese. In quelle ore, tuttavia, il primo cittadino era ancora convinto che per arginare il diffondersi del coronavirus non fosse necessario fermarsi del tutto: “In questo momento Milano non può fermarsi – disse durante una diretta su Facebook – Dobbiamo lavorare affinché questo virus non si diffonda ma non si deve nemmeno diffondere il virus della sfiducia: Milano deve andare avanti“. Una convinzione che Sala ha continuato a manifestare anche nei giorni successivi, fino al ‘fatidico’ 27 febbraio, quando ha condiviso il video #milanononsiferma e si è fatto ritrarre con Alessandro Cattelan durante un aperitivo: foto sulla sua pagina Instagram accompagnata dalla scritta “un’altra dura giornata di lavoro” e gli hashtag #forzamilano e #finalmenteaperitivo. Ai primi di marzo, però, la situazione peggiora sensibilmente e la comunicazione di Beppe Sala cambia verso. L’esempio lampante arriva il 5 marzo, con una doppia intervista a Corriere della Sera e Repubblica. Il primo cittadino parla di ripresa economica dopo l’emergenza e dice che serviranno almeno due mesi, come accaduto in Cina: “Potrebbe essere così anche per noi. Questo ci fa capire quanto sia necessario adesso cambiare il nostro modo di vivere per contenere il contagio“. Quindi #restateacasa. Refrain ripetuto come un mantra anche successivamente. L’8 marzo scrive sulla sua pagina Facebook: “Il mio invito, semplicemente, è di stare in casa il più possibile. Diamo una dimostrazione di realismo e di buon senso”. Poi la spiegazione: “Dobbiamo cambiare le nostre abitudini di vita, dobbiamo evitare il più possibile contatti non strettamente necessari. E ve lo dice uno che in queste settimane ha sempre sostenuto che le regole vanno applicate e non discusse, ma che ha anche cercato di mantenere alta la speranza e la volontà di non fermarsi di fronte alle difficoltà“. Oggi il tweet che ha chiuso il cerchio, con l’ammissione dell’errore.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 28 febbraio 2020. La disposizione del ministero della Salute è perentoria, ma sembra difficile che possa essere rispettata dalle Regioni. Perché impone che la comunicazione del numero dei contagiati da coronavirus sia affidata esclusivamente all' Iss, l' Istituto superiore di sanità e non - come accade adesso - alla Protezione civile che raccoglie i dati provenienti da tutta Italia. E tanto basta per scatenare una guerra tra istituzioni, ma anche a generare caos in una materia tanto delicata come quella relativa al numero di malati, deceduti e guariti. Soprattutto in un momento di grande preoccupazione per quanto sta accadendo nel nostro Paese ormai arrivato a 650 persone positive al test, 17 vittime e 45 pazienti guariti. Con il paradosso che gli stessi esperti del dicastero si contraddicono tra loro e forniscono cifre diverse persino sul bollettino ufficiale quotidiano. Nel documento firmato da Roberto Speranza il 25 febbraio scorso viene evidenziato che «la procedura prevista per la definitiva conferma del caso è affidata all' Istituto superiore di sanità. Pertanto, un caso non può definirsi confermato senza la suddetta validazione del laboratorio Iss. Per tale ragione si sottolinea la necessità di inviare sempre e tempestivamente idonei campioni al predetto Iss». Nelle riunioni successive si discute su come comportarsi nella comunicazione finora affidata alla Protezione civile, che raccoglie i dati provenienti da tutte le Regioni e due volte al giorno - alle 12 e alle 18 - rende noto il bilancio. Quale sia il problema lo spiega il presidente dell' Iss Silvio Brusaferro: «Abbiamo una rete di centri di riferimento regionali che fanno un primo accertamento diagnostico sulla presenza di coronavirus. Qualora il campione risulti positivo, il dato viene comunicato alla stampa e contestualmente il campione viene inviato all' Iss di Roma per confermare o meno il risultato. Solo dopo il risultato dell' Iss, possiamo considerare confermato il caso e dunque dire che una persona è positiva». Le sue parole scatenano però la polemica tra chi ritiene che mettano in dubbio la professionalità dei laboratori di Regioni e Comuni e chi accusa il governo di voler nascondere le cifre reali. Brusaferro si affretta dunque a confermare l' attendibilità delle analisi svolte: «Finora abbiamo ricevuto 282 campioni e il numero dei test confermati coincide». Lascia così intendere che in realtà è soltanto una questione legata ai tempi per lo svolgimento del test, inevitabilmente ritardati visto che l' Iss riceve provette da tutta Italia. Del resto se ne è avuta prova ieri quando Walter Ricciardi, componente dell' Oms e consulente del ministro della Salute, aveva sottolineato come «i casi positivi al coronavirus si possono definire solo dopo la conferma dell' Iss» fermandosi però a «190 contagiati», vale a dire il dato «confermato» due giorni fa e ampiamente superato. Una confusione che in serata convince Brusaferro a precisare: «Sono in corso incontri operativi con le organizzazioni internazionali per ottimizzare il flusso di dati». Nell' attesa la Protezione civile continuerà a emettere il doppio bollettino quotidiano con la situazione aggiornata.
I tecnici alla Regione Lombardia: «Ecco perché servono le misure restrittive» In arrivo la decisione sulle scuole Simona Ravizza. Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 da Corriere.it. Vertice in Regione Lombardia alle 15.30 con i big dell’Infettivologia. Il governatore Attilio Fontana discuterà con la comunità scientifica i dati che ha sul tavolo: in base ai casi accertati la diffusione del virus è ancora circoscritta e l’incidenza è alta in alcune aree pari a circa al 4% della popolazione regionale. Il Coronavirus per il 90% dei pazienti è facilmente risolvibile, ma — si legge nel dossier dei tecnici lombardi — nel restante 10% dei casi, soprattutto se anziani o con un quadro clinico compromesso, richiede il passaggio in Terapia intensiva. Nelle zone ad alta incidenza gli ospedali (Codogno, Lodi, Cremona, Alzano) hanno dovuto affrontare situazioni emergenziali sia per l’elevato numero di casi, sia perché l’11% delle positività riguarda operatori sanitari — ricorda il documento —. Fino ad oggi il resto della rete ospedaliera è ancora in grado di dare risposta, ma se la situazione dovesse allargarsi il rischio è di default del sistema ospedaliero. Se la diffusione si estende, gli ospedali andranno in grave crisi non solo per i ricoveri da Coronavirus ma per tutti i pazienti, come già sta succedendo all’ospedale di Cremona. Infatti, sono numerose le patologie che richiedono il ricorso alle cure intensive — viene rimarcato nel report —, ma i posti disponibili sono limitati. È il motivo per cui il governatore Fontana e l’assessore alla sanità Giulio Gallera stanno valutando molto attentamente l’idea di chiedere una proroga delle misure sulla chiusura delle scuole e sul contenimento delle aggregazioni sociali nonostante le pressioni in senso contrario: una proroga permetterebbe di raggiungere i 14 giorni considerati fondamentali perché corrispondono al tempo di incubazione del virus. «Le malattie che richiedono un ricovero in Terapia intensiva — spiega Regione Lombardia — sono molteplici e possono verificarsi in tutte le età; possono interessare i neonati, i pazienti malati da molto tempo o persone che poco prima stavano bene, come i soggetti traumatizzati o quelli sottoposti ad interventi chirurgici difficili ed impegnativi. Per questo è stato necessario adottare le misure restrittive previste dal DPCM del 25 febbraio che, alla luce dei dati ad oggi disponibili, si sono rivelate corrette in quanto consentono di contenere, o perlomeno rallentare, la diffusione del virus».
Coronavirus, la Lombardia chiede nuovi stop «Scuole chiuse per altri 7 giorni». Gli esperti: anche in Veneto ed Emilia. Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Gianna Fregonara e Giampiero Rossi. Sono oltre 800 i contagiati: per la precisione erano 821 ieri sera alle 18 quando il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli ha fatto il punto giornaliero sull’emergenza coronavirus. L’aumento delle persone che hanno contratto il virus oscilla ancora tra le 100 e le 200 al giorno: un dato che comunque non allarma gli esperti perché finora per la metà dei casi - 412 - si tratta di pazienti, positivi al Codiv19 ma asintomatici o con un semplice raffreddore: per questo non devono essere ricoverate ma possono restare a casa, in isolamento «domiciliare» senza prendere farmaci. Sono persone che, essendo state nelle zone dei focolai oppure in contatto con altri malati, sono state sottoposte al tampone. Degli altri contagiati, 345 sono ricoverati nelle strutture pubbliche e 64 sono in cura in terapia intensiva; 46 sono guariti e 21 sono deceduti. «Per quanto riguarda le morti, si tratta di persone di età elevata e che hanno una serie di patologie pregresse, quindi il coronavirus è intervenuto in un quadro clinico complicato — ha chiarito Borrelli —. Ora si tratta di fare indagini, e le farà l’Istituto superiore di Sanità, per capire se la causa della morte è il coronavirus o un’altra». Intanto il virus è arrivato alle porte di Roma: una donna di Fiumicino, che era stata nella «zona rossa» è risultata positiva al test: ora ricoverata allo Spallanzani, mentre i medici stanno cercando di ricostruire l’elenco delle persone con cui è stata in contatto. La decisione ufficiale sulla riapertura o meno delle scuole nel Nord Italia sarà presa nella giornata di oggi. Ma secondo gli esperti dell’Istituto superiore di Sanità, chiamati dal premier Giuseppe Conte su richiesta dei governatori delle regioni del Nord ad esprimersi sull’opportunità o meno di riaprire le scuole, è meglio prolungare di una settimana la chiusura nelle Regioni con i focolai, cioè in Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. Si tratterà probabilmente di una sospensione e non di chiusura vera e propria, perché così si potranno svolgere attività di didattica a distanza. Potrebbero invece riaprire le altre regioni che la settimana scorsa avevano deciso la chiusura preventiva: Piemonte e Liguria. Sembra dunque segnata la strada per le ordinanze che Conte ieri pomeriggio aveva rinviato a oggi: «Ci sarà un aggiornamento fino a domani, il Comitato tecnico scientifico lavora fino all’ultimo. Per quanto riguarda il Dpcm sarà emesso domani». Si fa marcia indietro rispetto all’idea di riaprire almeno nelle province del Veneto che non sono toccate dal virus (Rovigo, Belluno e Verona). Per quanto riguarda il Piemonte il presidente Alberto Cirio propone di riaprire le scuole lunedì per una pulizia straordinaria e di riaccogliere gli studenti a metà settimana. Il governatore della Liguria Giovanni Toti è pronto a riaprire ma solo se ci saranno le condizioni e la copertura del ministero della Salute. Sicuramente invece torneranno in classe gli studenti del Trentino Alto Adige. Sono finite anche le pulizie straordinarie a Napoli e a Palermo dove le scuole dovrebbero riprendere la normale attività. Il decreto legge approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri introduce una norma del ministero dell’istruzione che deroga al limite dei 200 giorni minimi per la validità dell’anno scolastico nelle scuole chiuse per il coronavirus. Era stata la Regione Lombardia, ieri pomeriggio a chiedere al governo centrale una proroga delle misure varate in emergenza una settimana fa, nonostante dal territorio milanese e lombardo arrivassero crescenti appelli, pressioni e proteste da parte di chi voleva una ripresa delle attività. La priorità resta quella di «contenere» il più possibile i rischi di contagio e, per dirla con il governatore Attilio Fontana, non è il momento di «abbassare la guardia». Ieri non era alla conferenza stampa perché è al secondo giorno di autoisolamento dopo che una sua collaboratrice è stata trovata positiva al tampone. Interviene per un saluto e per sottolineare la necessità di «sgombrare il campo da troppo chiacchiericcio», alludendo al dibattito partito ventiquattr’ore prima sulla necessità di far «ripartire» Milano. Quindi è lo stuolo di primari convocati a Palazzo Lombardia a costruire la premessa scientifica alla scelta politica di continuare sulla strada dei «sacrifici». «Certamente non è una situazione facile e scordiamoci che possa essere rapidamente risolta. Parole che possono essere scarsamente popolari ma è un dato di fatto». Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, fa capire subito l’approccio nella battaglia contro il coronavirus: «Abbiamo un numero di infezioni che si sono verificate localmente decisamente alto - spiega – e questo è avvenuto in larga misura prima dell’arrivo del paziente 1 a Codogno. Noi dobbiamo riuscire a ridurre la diffusione in modo da passare da 2-2,5 casi per ogni persona infettata a meno di 1». Quindi chiosa: «Questa cosa non si fa da sola». Uno dei rischi, che più spaventano e che bisogna allontanare, riguarda proprio la tenuta del sistema sanitario lombardo: «Già adesso, per un’epidemia di questa scala, l’organizzazione di risposta che poteva essere messa in campo da parte della Regione Lombardia è ai limiti di tenuta, soprattutto per la gestione dei pazienti di maggiore gravità», sottolinea ancora Galli, anche perché l’emergenza «si sovrappone a una routine che è decisamente messa in crisi da una realtà di questo genere. Alcuni ospedali sono veramente in grave crisi, come quelli di Lodi e Cremona che sono sovraccarichi di pazienti». Non si tratta di una questione che possa essere circoscritta alla sola zona rossa: «L’azione deve articolarsi su alcune misure che portino l’intera grande area metropolitana a rimanere il più possibile fuori dai guai. E’ una medicina abbastanza amara da inghiottire, ma personalmente non credo che abbia alternative». «Non è la peste, non è una banale influenza», riassume Antonio Pesenti del Policlinico di Milano, per ribadire che comunque l’unica strategia è «contenere». Tocca quindi all’assessore regionale al Bilancio, Davide Caparini indicare le scelte politiche fondate su queste premesse scientifiche: «Abbiamo chiesto di continuare la sospensione delle lezioni delle scuole di ogni ordine e grado. La richiesta deve essere accolta dal consiglio dei ministri. Al momento non abbiamo una risposta, ma è importante per la salute pubblica». Sospensione, quindi, non chiusura, sottolinea accanto a lui il vicepresidente della giunta Fabrizio Sala: significa, quindi, che i ragazzi resteranno ancora a casa ma dirigenti e docenti potranno andare a scuola e da lì organizzarsi per forme alternative di attività didattica online o a distanza. Per questo anche il ministero dell’Istruzione sta preparando materiali e una piattaforma per le scuole. Le università lombarde, nel frattempo, come avevano fatto domenica scorsa, non attendono le indicazioni del governo ma confermano la chiusura prorogata fino al 7 marzo. Seguite in serata da alcuni Atenei del Veneto, a partire da Ca’Foscari. Un possibile allentamento delle misure potrebbe riguardare i musei lombardi, che potrebbero riaprire ma facendo rispettare un contingentamento degli ingressi: piccoli gruppi per evitare affollamenti. Così come sarebbe confermata l’apertura dei bar in orari serali, ma sempre con l’obbligo di limitarsi al servizio ai tavoli. «Dobbiamo assolutamente rallentare, fermare questa epidemia, quindi servono ancora sacrifici». Ma Caparini tiene a precisare: «Non dovremo farli soltanto noi, chiederemo l’accesso ai fondi dell’Unione europea per le calamità naturali». I vescovi lombardi invece chiedono alla Regione di poter «riaprire» le chiese: vogliono poter celebrare le messe e anche matrimoni e funerali nei giorni infrasettimanali, rimanendo dunque esclusi dalla nuova ordinanza regionale che dovrà essere preparata entro domani. Per quanto riguarda le gite scolastiche, sospese fino al 15 marzo, la ministra Azzolina si augura che «dal 16 si possa tornare a partire per i viaggi di istruzione», Intanto nelle misure in discussione preparate dal governo è stato previsto un «voucher» per risarcire le agenzie di viaggio che hanno dovuto restituire i soldi delle gite alle scuole e al le famiglie e hanno sostenuto comunque spese per biglietti e prenotazioni. Intanto la Protezione Civile ha predisposto con un’ordinanza firmata ieri dal commissario straordinario Angelo Borrelli che gli ospedali delle zone coinvolte ricevano mascherine, guanti, tute e altro materiale di protezione per acquistare il quale sono stati stanziati 207 mila euro. Sono potenziati negli ospedali anche i dispositivi di «ventilazione invasiva e non invasiva».
Dagoreport il 19 marzo 2020. In Gianrico, caro figlio, l’animo dello scrittore aperto e solidale, quell’animo un po’ éngagé che guarda agli ultimi – siano i migranti sui barconi o i cinesi ingiustamente accusati di spandere il Coronavirus – convive con il rigore del magistrato, del duro uomo di legge. Sì, quell’animo che combatte la “percezione della paura” che Salvini mette in giro, che combatte l’isteria collettiva degli ignoranti che temono pandemie e cose simili, convive con chi è pronto a sanzionare chiunque trasgredisca alla legge: dura lex sed lex. Se non così come, altrimenti, potremmo comprendere l’animo di questo candidato al Premio Strega leggendo, uno dietro l’altro, i suoi due tweet sul Coronavirs? Già gli intellettuali, gli scrittori, quelli che vedono prima il futuro, magari Cassandre, ma lo intuiscono mentre noi, zotici, non diamo loro ascolto e andiamo al Luna Park! Se tutti gli ignoranti, salviniani, zotici che già reclamavano le chiusure delle frontiere quasi un mesetto fa avessero ascoltato il caro figlio, se… se….Eccolo il suo tweet del 26 febbraio: “Contro l’isteria collettiva oggi: 1) ho viaggiato in aereo e senza mascherine; 2) sono andato in metropolitana e tutti erano tranquilli; 3) ho preso parte a una tranquilla e affollata presentazione di un libro. Ci tenevo (ndr ci teneva, allora) a farvelo sapere”. Poi è arrivato il decreto del presidente del Consiglio. E leggiamo anche il tweet di ieri, allora: “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità competente e finalizzato a contrastare la diffusione delle epidemie è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione da 2 a 6 anni”. Ma come? Tre settimane fa questo spirito preveggente, questo re del thriller, questo scrittore di magistrati che intuiscono il futuro ci invitava ad andare a riunioni affollate e, passate tre settimane, ora invita l’autorità giudiziaria ad arrestarci se siamo in due a portar fuori il cane? Ah! Gli scrittori, loro sì che hanno la vista lungo. Non è questa la loro funzione nella società?
Dall’account facebook di Paolo Franchi il 19 marzo 2020. Dall’account facebook di Giorgio Gori del 26 febbraio 2020 alle ore 20:47. Bergamo non ti fermare! Questi giorni ci hanno messo a dura prova. Le notizie sulla diffusione del virus e le prescrizioni che a partire da domenica hanno limitato tanti aspetti della nostra vita hanno generato un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario. E’ come se il nostro spirito attivo e positivo fosse improvvisamente spento e intimidito. La città sembra sospesa. Io credo sia giusto seguire le indicazioni, ma al tempo stesso dobbiamo andare avanti con intelligenza e buon senso, senza allarmismi. Sono convinto che un virus non fermerà Bergamo, né oggi né in futuro, e noi che amiamo questa città dobbiamo ridarle presto coraggio e vivacità. Con questo spirito stasera ho proposto a mia moglie Cristina di venire a cena da Mimmo (un classico per noi bergamaschi): per passare una bella sera insieme e dare un piccolo segnale: per dire a noi stessi, e per dire a tutti, FORZA BERGAMO!
Fontana: "Il coronavirus è poco più di una normale influenza". Il presidente della Regione Lombardia ad alcuni Paesi europei: "Forse dovrebbero un po' rivedere la loro appartenenza all'Unione". Poi ringrazia medici e infermieri: "Persone eroiche". Francesca Bernasconi, Martedì 25/02/2020, su Il Giornale. Alcuni Paesi dell'Europa "forse dovrebbero un po' rivedere la loro appartenenza all'Unione, dopo che si inizia a fare discriminazioni nei nostri confronti". A pensare è il governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana, riferendo al Consiglio regionale sull'emergenza coronavirus. Una discriminazione dovuta al virus che sarebbe, a detta del governatore, "poco più di una normale influenza". Il presidente della Regione Lombardia cerca di "sdrammatizzare", nel tentativo, forse, di placare gli animi dei cittadini: "Questa è una situazione senza dubbio difficile- specifica-ma non così tanto pericolosa". Infatti, Fontana spiega come il virus sia aggressivo e rapido nella sua diffusione, ma "molto meno nelle conseguenze": "È poco più di una normale influenza", riferisce, precisando di aver usato le parole dei "tecnici". Inoltre, Fontana ricorda che "le persone decedute sono o molto anziane o con una compromissione derivante da patologie importanti". "C'è qualcuno che crede in questo Paese- ha aggiunto- e che vuole che questo Paese superi le difficoltà". Ma ora, secondo Fontana, le difficoltà non sarebbero solamente quelle dovute direttamente alla diffusione del Covid-19 in Italia, ma anche quelle derivanti dai comportamenti di alcune altre nazioni europee. Un aiuto concreto, invece, sarebbe arrivato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarela, che "ci è stato molto vicino e mi ha incaricato di estendere il ringraziamento a tutto comparto della sanità e non solo". Il capo dello Stato, riferisce Fontana, "si sente molto vicino a noi che stiamo combattendo questa battaglia per la salute dei cittadini. Il sostegno del presidente della Repubblica ci fa sentire un pò più forti e ci fa sentire che c'è una parte buona della politica che crede ancora in questo Paese. Grazie al presidente della Repubblica che ci è vicino". In merito alla diffusione del coronavirus, Fontana riferiche: "Questa settimana probabilmente il contagio continuerà ad aumentare e soltanto alla fine di questa settimana potremmo avere notizie più precise". Sembra che il contagio "sia partito dall'area dei 10 comuni nella 'zona rossa'" e i dati vanni in quella direzione: "I contagiati di altre parti della Lombardia che avevano avuto relazioni con quel territorio o con cittadini di quel territorio sono circa 85-90% dei contagi registrati nella nostra regione". E sul record europeo di contagi in Italia, il presidente Fontana dice:"Il numero è alto anche perchè la nostra Regione ha deciso di iniziare un'attenta valutazione delle persone che hanno le condizioni per essere ritenute affette da questo virus a allora abbiamo fatto tanti tamponi e tanti esami". Sarebbe questa, quindi, una delle motivazioni che hanno fatto scoppiare i casi italiani di malati: "Chiaro che facendo tanti esami abbiamo trovato tanti che erano stati colpiti da questa infezione". Il governatore della Regione Lombardia spiega anche le conseguenze del virus sull'economia, definendo l'arrivo del Covid-19 "un'ulteriore botta": "Al Governo abbiamo chiesto di intervenire e di aiutare gli imprenditori grandi, piccoli e medi, gli esercizi commerciali e quelle attività imprenditoriali che comunque subiranno un grave danno da questa situazione e il governo si è impegnato- spiega- Oggi a Roma con Patuanelli ci sarà un incontro". E sulle misure messe in atto nel tentativo di limitare la diffusione del virus, dice: "Abbiamo preso provvedimenti che non avremmo voluto prendere, perchè incidono sulla libertà dei nostri cittadini e sulla situazione economica della Regione". Infine, Attilio Fontana ha voluto ringraziare "il nostro sistema sanitario fatto da medici, infermieri, ma anche da gente che magari non si vede neanche e che lavora nell'ombra. Ci sono persone che sono da considerare eroiche, gente che non guarda l'orario di lavoro, gente che non torna a casa, medici che per paura di infettare la loro famiglia hanno deciso di vivere in ospedale per continuare a lavorare. A loro si deve dire grazie e questa è la dimostrazione che il sistema Lombardia funziona e che la nostra è una vera comunità".
ABBIAMO SCHERZATO? L’Inkiesta il 26 febbraio 2020. Coronavirus, dopo il Grande Allarme ecco il Grande Ridimensionamento. Siamo entrati in una nuova fase in cui i politici e gli esperti ci rassicurano. Addirittura il governatore della Lombardia Attilio Fontana qualche giorno fa paragonava la sua regione a Wuhan e ora dice che siamo «poco più che davanti a una normale influenza». Troppo o troppo poco? Scatta l’operazione del Grande Ridimensionamento, dopo quella del Grande Allarme. La situazione è quella che è, e come fai sbagli, mentre il rischio è che nella guerra psicologica contro un nemico senza volto e senza casa passino messaggi contraddittori. È come nel film in cui Nanni Moretti diceva alla pianta: «Hai troppo sole, poco sole, vuoi più acqua, meno acqua?» Qui diciamo: poco allarme, troppo allarme? Di certo siamo già entrati in una fase diversa da quelle dei primissimi giorni nei quali la linea dura aveva il “volto politico” di Giuseppe Conte e il “volto scientifico” di Roberto Burioni. Ora, passati anche in mezzo a un’inutile serie di polemiche fra Roma e la Regione Lombardia, è Walter Ricciardi, altro illustre scienziato, a guidare l’operazione-Ridimensionamento. In questo assurdo parlamento dei virologi, Ricciardi appare più in sintonia con la dottoressa Gismondo, la prima a sminuire la gravità della situazione (beccandosi un duro tweet del “duro” Burioni), mentre Ilaria Capua sembra disporsi su una posizione equilibratissima, “centrista”. Un “pluralismo scientifico” che crea qualche disorientamento, visto che alla fin fine questa guerra è diretta dagli scienziati. Tornando seri, vale la pena di riportare anche qui parole di Ricciardi: «Su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore». Numeri che hanno fatto dire a mezza Italia - e le ha ripetute lo stesso Governatore Fontana che qualche giorno fa paragonava la sua regione a Wuhan - che siamo di fronte «poco più che davanti a una normale influenza». Il punto è proprio quel «poco più». È sufficiente per giustificare l’ambaradan che si è messo in piedi? Lo dirà la Storia. Ma quello che forse non si è ben capito è che le misure che si stanno prendendo servono intanto a non intasare gli ospedali, giacché stando ai dati di Ricciardi se 5 milioni di persone venisse colpito dal coronavirus (cioè come una normale influenza), il 20%, cioè 1 milione di persone dovrebbe finire in ospedale. Come sarebbe possibile? E soprattutto bisogna chiedersi onestamente: se lo Stato non avesse fatto tutto ciò che ha fatto e sta facendo, cosa avrebbe detto gli italiani di fronte al primo, al secondo, al terzo, al quarto, al quinto, al sesto, al settimo morto? Già, perché nell’operazione-Ridimensionamento si annidano strani virus, li scorgiamo in tanti tweet di persone serissime, in vari articoli di colleghi stimati, che portano a descrivere con grande fastidio la situazione di obiettivo panico che si è generato, come fosse un intralcio a pensieri, abitudini e piaceri consolidati - «ma che è quest’isteria, e basta!». Forse hanno ragione e tuttavia ripetere come un disco rotto che in fondo sono morti dei vecchi per di più molto malati suona come una inconsapevole bestemmia sul valore per la vita in quanto tale, anzi forse ancora maggiore trattandosi di ammalati in lotta contro la morte, lotta che poi hanno perso proprio a causa del coronavirus. Dall’altra parte ci sono i monatti 2.0 alla caccia degli untori politici, col consueto codazzo urlante di giornalisti (per fortuna ancora in minoranza nella categoria), tutta gente che ha trovato un asso nella manica per vendere qualche copia in più, come il povero Kirk Douglas nel film di Billy Wilder “L'asso nella manica” e che non si fa problema a alimentare psicosi e paure. La crisi di questi giorni, che rischia di diventare insopportabile, è dunque generale: sanitaria, economica, sociale, morale. Contagia praticamente tutti proprio a causa della sua multiformità e molecolarità, sviluppa l’isteria di massa che porta all’assalto dei supermercati (i “forni” del Seicento) e accentua le movenze indolenti, egoiste e snobistiche di una certa borghesia urbana acculturata e tendenzialmente Ztl. Un calderone ribollente su cui è giusto gettare acqua fredda. I governanti lavorano sodo, ed è quanto ci si aspetta dinanzi a una vicenda che potrebbe avere ripercussioni persino storiche su un’intera classe dirigente che in ogni caso non dovrà abbassare la guardia come se fin qui si fosse scherzato.
Coronavirus, tutte le giravolte dei politici italiani da “emergenza totale” a “basta allarmismi”. Da Conte a Salvini, dalla coppia Zaia-Fontana a Matteo Renzi, non c’è politico italiano che non abbia detto tutto e il contrario di tutto sul Coronavirus e su come gestire l’emergenza sanitaria di questi giorni. Su una cosa però sono tutti d’accordo: che la colpa è di televisioni e giornali. Ovviamente. Francesco Cancellato su Fan Page il 28 febbraio 2020. “È il momento di abbassare i toni, dobbiamo fermare il panico”, dice il presidente del consiglio Giuseppe Conte, addì 27 febbraio 2020. E non pago, fa filtrare via Rocco Casalino pure l’indiscrezione di aver fatto pure una telefonata alla Rai – “Basta allarmismi!”, il monito – giusto per ricordare al mondo che la colpa del panico è dei media – e chi se no? Già. Peccato non sia passata che una settimana scarsa dal consiglio dei ministri e dalla conferenza stampa nella sede della Protezione Civile, roba da invasione aliena. Allora, Giuseppe Conte Bis era in modalità pieni poteri, come si usa nelle emergenze assolute: “Servono misure impositive ai fini del contenimento del contagio – spiegava -il dibattito politico ci solleciterà con domande sulle scelte prese ma le nostre decisioni sono fatte sulla base di considerazioni del comitato tecnico scientifico”. Capito opposizioni? Se siete contro di noi siete contro la scienza. Ce l’aveva con Salvini, Conte, con la sua incoerenza. E se non fosse che suona un po’ come il bue che da del cornuto all’asino sarebbe pure da dargli ragione, a Giuseppi: “Oggi ci viene proposto di aprire tutto ma questi stessi che ce lo dicono, ieri ci dicevano di chiudere tutto, ci è stato proposto anche di chiudere Schengen…”, scandisce a margine del meeting italo-francese a Napoli, e il pensiero corre alle parole del leader leghista, che poche ore prima in una diretta Facebook dall’aeroporto di Fiumicino aveva rimarcato di aver trovato “nel presidente della Repubblica un interlocutore attento sul fatto che l'Italia debba riaprire tutto il possibile al più presto possibile". E in effetti, le parole “aprire” e “Salvini” nella stessa frase sono già da corto circuito, un po’ come Padania e “prima gli italiani”, “Siamo stati accusati di razzismo perché chiedevamo controlli e quarantene. Parlare di quarantena sembrava una parolaccia a gennaio, adesso a detta di tutti i medici e virologi è l'unico modo per circoscrivere il problema", aveva detto il Capitano solo pochi giorni fa, parlando da Genova. Tutto torna in realtà: quarantena è una parolaccia quando a subirla sono gli italiani, uno zuccherino sul palato quando tocca al signor Wu e al signor Wang. Un po' come la differenza che passa tra chiudere l’Africa e chiudere Codogno. Forse Salvini, già che c'è, dovrebbe spiegarlo pure ai suoi governatori principi di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia, visto che sono loro ad aver ordinato tamponi per chiunque, anche per soggetti sani e asintomatici (Zaia) e ad aver fatto dirette surreali con un’inutile mascherina protettiva da chirurgo, che non servirebbe a nulla se Fontana fosse infetto, e serve ancora meno per proteggersi dall'infezione, ma serve tantissimo a guadagnarsi prime pagine sui giornali. Diavolo di un Fontana, forse ce l'hai fatta a guadarti il tuo quarto d’ora di celebrità. Evidentemente, l’incoerenza virus ha una particolare predilezione per i maschi adulti, specie se all’anagrafe fanno Matteo. Al leader di Italia Viva Matteo Renzi, buon ultimo, spetta infatti il caso di contagio più clamoroso, visto che l’ha portato a contraddirsi non nel giro di una settimana, né di un solo giorno, ma addirittura nello stesso comunicato stampa, che lui chiama eNews, perché nel 2005 faceva più giovane: “Innanzitutto zero polemiche tra rappresentanti delle Istituzioni. Assurdo litigare in momenti del genere”, esordisce. Ma poche righe dopo ricorda che “Non basterà un’aspirina” per far ripartire l’Italia, ma “occorreranno misure fortissime perché gli errori di comunicazione hanno prodotto un danno enorme all’estero, oltre che in Italia”. Opplà, una bella stoccata al governo. Non male, nei giorni in cui si parla di un nuovo esecutivo di unità nazionale con Matteo Salvini. “In emergenza ci si aiuta, non ci si fa la guerra”. Chissà se voleva fare la guerra. Ma non finisce qua. Perché solo pochi giorni prima di aver stigmatizzato l’eccessivo allarmismo del governo Conte, l’ottimo Renzi aveva deciso di tributare un plauso all’immunologo Roberto Burioni che “in questa drammatica vicenda (…) non ha sbagliato un colpo”. “La serietà di uno come Burioni fa sperare in un futuro di cultura e ricerca e non di populismo e ignoranza”, aveva concluso Renzi. Forse dimenticando che Burioni è quello che continua a ripetere, ogni volta (tante) in cui apre bocca che il “coronavirus non è come una semplice influenza”, e che “l’unica cosa importante è la quarantena”, “senza eccezioni”. “Spero che i politici lo capiscano perché le conseguenze di un errore sarebbero irreparabili”, conclude pacatissimo Burioni. Ma se gli italiani non ci capiscono più nulla è sicuramente colpa dei media.
GIRI E GIRAVOLTE. Coronavirus Covid 19. Il consiglio de' decurioni e il rischio della pubblica follia. Il commento del direttore: sì, perché delle due, una: o eravamo esagerati solo pochi giorni fa o siamo faciloni oggi. Francesco Zanotti il 28/02/2020 su corrierecesenate.it. Mi viene in mente il consiglio de’ decurioni. Qualcuno penserà che stia impazzendo. No, vi rassicuro: non è così. Mi son preso la briga, in questi giorni di panico diffuso, di rileggere i capitoli XXXI e XXXII di quello che io considero uno straordinario romanzo: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Sì, perché un conto è citarli. Un altro è rileggere proprio quei passaggi così attuali quasi fossero stati scritti oggi, per me, per noi, per tutti. Sì, perché delle due, una: o eravamo esagerati solo pochi giorni fa o siamo faciloni oggi. O ci hanno raccontato fandonie sull’espandersi dell’epidemia tale da poter mettere in crisi la struttura sanitaria dell’intero Paese oppure resta vero quello che anche noi abbiamo scritto e riportato da luminari della scienza che mettevano in guardia, non secoli fa ma lunedì e martedì scorsi, sul possibile e probabile espandersi a macchia d’olio del Coronavirus. O eravamo disfattisti all’inizio della settimana o siamo pressapochisti oggi. Non è possibile che nel breve volgere di soli quattro giorni il Coronavirus-Covid 19 non faccia più timore e tutto possa tornare alla normalità. Come se le draconiane misure adottate solo pochissime ore fa fossero state uno scherzo e magari si potevano anche evitare. Siamo dinanzi al consiglio dei decurioni?, mi domando alquanto sbalordito. E’ evidente come il Manzoni abbia ricamato su questi soloni di allora che pensavano di saperne ben più di altri e sottovalutarono il contagio pensando solo di andare in cerca degli untori, invece di evitare la trasmissione da persona a persona. “Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodare con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia”. Queste righe tratte dal capitolo XXXII sono illuminanti, a parer mio. A volte ho l’impressione di essere travolto da questa pubblica follia da cui mette in guardia il Manzoni. Ciascuno dice la sua, in perfetta libertà. Oggi il pericolo contagio per tutti e l’isolamento come unica arma da mettere in campo in questa guerra senza quartiere. Domani l’esatto contrario, tanto abbiamo fatto troppi tamponi, i bambini non si ammalano, i più guariscono, i più sono contagiati senza sintomi. Allora, suggerirei: diteci la verità. Abbiamo davvero il pericolo che il nostro sistema sanitario possa rischiare il collasso con un’espansione del virus (se i contagiati diventassero un milione sarebbero davvero necessari centomila posti, che non abbiamo, in terapia intensiva come è stato paventato?) oppure abbiamo tutti esagerato, scienziati in primis, e ora dobbiamo tornare a darci una calmata? Quali reali pericoli corriamo per la salute? E quali per l’economia? Quali sono più importanti? E perché ora gli altri Paesi rifiutano i nostri connazionali che lì vorrebbero recarsi? Perché il Giappone ha chiuso le scuole per due settimane e noi dopo una sola le vogliamo riaprire? Una sola settimana è stata sufficiente per realizzare cosa? Cosa è cambiato rispetto a lunedì scorso se i contagiati sono aumentati, i morti pure e stiamo portando il Coronavirus in tutto il mondo? Questo ci deve spiegare chi ci governa. Sia a Roma, sia a Bologna sia nelle nostre città. Chi ha l’onore, e l'onere, di guidarci deve rispondere a queste domande. Semplici e banali. Ma a queste deve dare risposte per essere credibile. E chiedere scusa se nei giorni scorsi si sono presi abbagli, oppure confermare i provvedimenti se quanto detto corrisponde ancora al vero. In questo “celebre delirio” (capitolo XXXI) i nostri rappresentanti rischiano di passare alla storia peggio di quelli del consiglio de’ decurioni, “perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatto, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrare nelle menti, e dominarle”.
Dagospia il 28 febbraio 2020. VIDEO-FLASH! SALVINI HA POCHE IDEE MA CONFUSE: IL 21 FEBBRAIO SI ACCODAVA AL PANICO DA CORONAVIRUS CON FRASI DEL TIPO "BLINDIAMO, SIGILLIAMO I NOSTRI CONFINI. NE VA DELLA SALUTE DI DECINE DI MILIONI DI PERSONE", MENTRE IERI INVITAVA IL GOVERNO A "RIAPRIRE TUTTO. DOBBBIAMO TORNARE A CORRERE E LAVORARE".
C’È UN VIRUS BANDERUOLA NEL GOVERNO. Mauro Mellini il 28 febbraio 2020 su L'Opinione. Nel giro di quarantotto ore, dalle preoccupazioni perché sembrava che governanti e governati non prendessero abbastanza sul serio il Coronavirus, si è passati da uno stato di allarme, non tanto per quel virus ed il morbo, quanto per il fatto che la gente, governanti e governati, pare prenda troppo sul serio l’epidemia, il virus, gli appestati, i portatori della peste. Virus banderuola? Macché! Banderuole sono i governanti i quali, dopo aver accolto il Coronavirus come la manna dal cielo, che li salva miracolosamente dai grandi calci in quel posto di elettori ed anche di eletti, si sono accorti che governando un Paese colpito da un’epidemia non è, poi, come pare fosse loro sembrato, tanto facile e sicuro. Il dato obiettivo, quello che risulta dagli studi e dalle rilevazioni di qualcuno che non sia preso solo dalla preoccupazione di salvare la poltrona, ci dirà che siamo volati rapidamente ad una situazione in cui le misure antivirus hanno fatto già più danni (e più paura) della malattia (con santa pace per chi ci ha rimesso la pelle). Giuseppe Conte, i vari ministri, presidenti, sindaci, non fanno, si direbbe, che gridare le parole che mormorava il Governatore di Milano di manzoniana memoria: “adelante Pedro…con juicio!”. Oggi vedo che la stampa, che si direbbe abbia una cabina di guida, è preoccupata soprattutto di trasmettere l’ammonimento ad usare “juicio”, a non esagerare. Le statistiche della constatazione della malattia si intrecciano con quelle in maledetto calo del turismo che ora evita l’Italia, Venezia, Milano. Alberghi che ricevono solo disdette, bar vuoti, ristoranti pure. Sembra dunque che qualcuno dovrà pure accorgersi che se una buona epidemia al momento giusto può salvare un Governo di babbei da una caduta rovinosa, essa non salva le nostre vite, le nostre tasche, la nostra vita sociale. Avevo da tempo, io che sono superstizioso solo assai moderatamente, avuto la sensazione che una sciagura fosse sempre pronta a deviare l’attenzione per il Governo ogni volta che si avvicinasse troppo all’orlo del precipizio. Pare che questa volta abbia funzionato anche troppo bene. Ma funziona benissimo la fantasia politico-iettatoria di giornalisti, finanziatori, affaristi. E cominciano a circolare sulle pagine dei giornali e sugli schermi della tv nuove specialità di Governo. Dell’emergenza, oppure di lotta al virus, e pure Governo antivirus. E, intanto, una gran mascherina si fissa sulla bocca degli italiani ad tappare o rendere non avvertibili i giudizi che tutte queste ipotesi avanzate per inchiodarsi alle poltrone meriterebbero senz’altro. Vedremo quante giravolte faranno le banderuole. Purtroppo, qualcosa di serio c’è. Non è il Governo, non sono le misure antivirus: è l’epidemia, è la pelle di chi ce la sta perdendo. E nessuno mi dica che, in fondo pochi sono i casi di mortalità.
Coronavirus, il ruolo della politica: governatori in prima linea, sindaci in ritirata. Paolo Macry il 10 Marzo 2020 su Il Riformista. Un giorno, dati alla mano, capiremo chi si è comportato bene e chi male nelle drammatiche settimane italiane del coronavirus. Ma già adesso, rompendo l’ipocrisia dell’Union sacrée, una graduatoria salta agli occhi. I buoni sono i governatori. I cattivi, i sindaci delle grandi città. A mezza strada, il potere centrale. Da subito i governatori del Nord si erano assunti l’onere dell’allarme, chiedendo di controllare nelle scuole i ragazzi di provenienza cinese. Salvo essere additati dai giallorossi e dalla stampa di regime come razzisti e xenofobi. Un paio di giorni dopo, però, ci aveva pensato il ministro Speranza a bloccare i voli diretti fra Pechino, Shangai e l’Italia (ma non gli ingressi indiretti dall’Oriente). Xenofobo pure Speranza? Nel frattempo anche il governatore delle Marche finiva nel mirino giallorosso, avendo preteso la chiusura preventiva delle scuole nella regione. Conte reagiva indignato, era inutile allarmismo. Salvo, pochi giorni dopo, inserire metà delle Marche nella “zona rossa”. E così si arriva alla “stretta” di sabato scorso. Il governo fa tutto da solo, i presidenti del nord protestano (anche Bonaccini), i giornali pubblicano una bozza del decreto, la gente fa le valigie in fretta e furia e prende il primo treno verso le terre del sole. Un esodo che ricorda il settembre 1943, quando lo Stato si sfascia e gli italiani tornano “a casa” in massa. Con ogni evidenza, Conte non ha previsto il dettaglio. E così il decreto, che voleva chiudere il settentrione infetto ed evitare una propagazione del virus, sortisce l’effetto opposto: molto probabilmente l’esodo finirà per contagiare l’intero paese. A questo punto i governatori meridionali, che sono stati tagliati fuori, reagiscono. A modo loro, con toni più o meno roboanti. Ma il messaggio è lo stesso. Emiliano, De Luca e Santelli chiedono di interrompere il flusso e prendono autonomamente misure sanitarie per controllarlo. Cosa assai difficile, visto che intanto i buoi sono scappati. Per giunta, nel teatrino del politicamente corretto, non manca chi deplora l’egoismo dei meridionali. E neppure manca, nel teatrino del borbonismo, chi denuncia come una volta ancora il Regno di Napoli paghi le malattie dei “piemontesi” (sic). Certo è che, all’indomani del decreto, anche palazzo Chigi si muove, istituendo controlli di polizia su chi entra ed esce dalla “zona rossa”. Con quanta efficacia è facile immaginare, visto che basta un’autodichiarazione (su modulo prestampato) per andare dove si vuole. Eppure, si dice, un’emergenza straordinaria come questa va gestita da un potere centrale forte, consapevole ed efficiente. Ed è vero. Il problema è che in Italia il potere centrale non è forte, non è adeguatamente consapevole (malgrado la quantità di tecnici e scienziati di cui Conte si è circondato) e, come può facilmente vedersi fin da ora, non è per nulla efficiente. Gli italiani sembrano capirlo. Ne basta l’endorsement del Colle per frenare la caduta di credibilità di palazzo Chigi.
Restano i sindaci. Ma è difficile parlarne, perché in queste settimane, mentre nuvole nere si addensavano sulle grandi città, loro sono letteralmente scomparsi dalla scena, hanno taciuto per tutto il tempo, hanno rinunciato a svolgere una funzione che pure sarebbe stata essenziale di guida politica e morale delle proprie comunità. L’unico che ha parlato è stato Beppe Sala, e mal gliene incolse. Con straordinaria ingenuità, Sala ha dapprima promosso un “corto” dedicato all’hashtag #milanononsiferma, dove la capitale del Nord appariva indaffarata, affollata e gaia, salvo due giorni dopo riconvertirsi pubblicamente all’hashtag opposto: #stateacasa! Ma Sala ha avuto almeno il coraggio di metterci la faccia. E gli altri? Qualcuno ha visto Virginia Raggi uscire dal suo guscio in Campidoglio e convincere i romani a comportamenti più morigerati, più solitari, più civici? Qualcuno ha visto Luigi de Magistris mettersi alla guida di Napoli e del suo spirito pubblico? Qualcuno lo ha visto intervenire sulla sconcertante irresponsabilità della borghesia dei baretti? Impedire ai ragazzi che non vanno a scuola di riprodurre altrove la perduta socialità? Rendere consapevole una popolazione caratterialmente svagata che il pericolo esiste, è grande ed è imminente? Domande retoriche. I sindaci delle metropoli, i mitizzati sindaci ad elezione diretta, coloro che un tempo politici di ben altra taglia vagheggiarono addirittura come “la repubblica delle città”, sembrano aver miseramente fallito. Poveri di staff competenti, di idee, di coraggio, di saggezza comunicativa. Poveri di quel carisma che un giorno lontano li aveva portati alle loro prestigiose poltrone e che nel frattempo si è liquefatto come neve al sole. Quando la grande crisi sarà superata, questo paese sarà probabilmente assai diverso da oggi, dovrà per certi versi ricominciare da capo, avrà molto da costruire e ricostruire. E tra le cose da ricostruire, al primo posto, ci saranno le funzioni e gli equilibri tra centro e periferia, cioè tra Stato, Regioni ed enti locali. Ricordando quel che successe nel fatale 2020.
Coronavirus, Travaglio: “Abbiamo visto virologi litigare e dire tutto e il contrario di tutto. Questo ha seminato il panico nella gente”. Il Fatto Quotidiano il 5 marzo 2020. “Il decreto del governo sull’emergenza coronavirus? Se uno ha soluzioni diverse dalla chiusura delle scuole, le dica. Io personalmente non lo so se funzionerà o meno, ma a naso credo che in Giappone, dove l’hanno adottata prima di noi, non siano tutti coglioni”. Così, a “Otto e mezzo”, su La7, il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, risponde alle critiche pronunciate dal direttore di Radio Capital, Massimo Giannini, e dal giornalista di Libero, Stefano Zurlo, sull’operato del governo Conte Due nell’affrontare l’allarme coroavirus. “Immagino che il tentativo messo in atto dal governo – continua Travaglio – sia quello di fare in modo che circoli meno gente possibile per le prossime due settimane per vedere se si riesce a frenare il contagio. Dopodiché sulla comunicazione uno può dire quello che vuole, ma l’importante è non dire tutto e il contrario di tutto, perché rimproverare a un premier di essere andato troppo in tv la domenica del primo decreto e poi improvvisamente chiedergli di fare un messaggio a reti unificate mi sembra vagamente incoerente e lievemente prevenuta come critica“. E chiosa: “Non mi va di litigare. In questo momento già abbiamo i virologi che litigano tra di loro, figuriamoci se litighiamo anche noi su questioni che neppure capiamo. Abbiamo visto che esiste una virologia ‘A’ e una virologi "contraria di A". E credo che sia stato questo a seminare il panico, molto più della comunicazione forse altalenante e singhiozzante del governo in questi giorni. Quando vedi gli esperti che dicono tutto e il contrario di tutto, allora dici: "Beh, se non capiscono neanche loro niente in questa fase, allora raccomandiamo l’anima al Signore”.
Coronavirus, Travaglio: “Confusione è stata fatta anche da Sala e Boccia di Confindustria, come se Pil fosse più importante del diritto alla salute”. Il Fatto Quotidiano il 5 marzo 2020. Botta e risposta serrato a “Otto e mezzo”, su La7, tra il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, e Massimo Giannini, giornalista di Repubblica e direttore di Radio Capital. La firma di Repubblica critica severamente il governo Conte Due, e in particolare il presidente del Consiglio, nella gestione dell’emergenza sul coronavirus: “Improvvisamente la domenica del 23 febbraio c’è stata una drammatizzazione improvvisa e Conte è stato in tv 7 ore consecutive. Ho notato alcune incoerenze: prima sembrava tutto sotto controllo e improvvisamente la domenica è parso che il controllo sfuggisse”.
Giannini continua: “Nei due giorni successivi si è fermata l’economia e il 25 febbraio è scattata la grande retromarcia. Adesso purtroppo il dramma c’è. Quando si chiudono le scuole, è chiaro che l’emergenza sia totale“. Il direttore del Fatto osserva: “Sarebbe bello se la situazione attuale permettesse al governo di dire la stessa cosa dal 20 febbraio ai primi di marzo. Il problema è che qui si naviga a vista. La drammatizzazione di cui parla Massimo non è consistita nel fatto che una domenica si è svegliato Conte ed è andato dalla D’Urso e in altri 15 programmi. E’ successo che il sabato è improvvisamente esploso il caso di Codogno“.
“Hai ragione – ribatte Giannini – ma converrai sul fatto che il mercoledì dopo non si è capito perché invece dovevamo fermare la macchina? Ed è arrivata addirittura l’indicazione da Palazzo Chigi alla Rai perché moderasse i toni? Questo ha disorientato un po’ l’opinione pubblica”.
Travaglio risponde: “Veramente il fermare la macchina è stato deciso dal sindaco di Milano Sala, con un’intervista a Repubblica in cui diceva inopinatamente di riaprire Milano, come se fosse finito tutto, e dal presidente della Confindustria Vincenzo Boccia in una intervista al Corriere della Sera. Boccia, fottendosene allegramente del fatto che non sapesse niente di questo contagio, aveva deciso che il Pil fosse più importante del diritto alla salute. E il rischio è stato che, anziché fare una recessione controllata e pilotata come quella che stiamo facendo adesso, si preparava il terreno a una catastrofe anche economica che poteva durare molti più mesi”.
“Sono d’accordo – replica Giannini – C’è stata una cacofonia complessiva”.
Tutte le vergognose giravolte di Salvini sul Coronavirus. Giovanni Drogo l'11 Marzo 2020 su nextquotidiano.it. Come fai a dire qualcosa di sbagliato se dici tutto e il contrario di tutto? Statisticamente è assai probabile che qualcosa di giusto lo dici, basta avere il corretto tempismo. È il caso del leader della Lega Matteo Salvini che sul Coronavirus SARS-COV-2 e su COVID-19 e sulle misure da adottare ha dato il meglio di sé sempre riuscendo a dare la colpa agli altri. Poco importa che fossero di volta in volta i migranti, le persone di ritorno dalla Cina e ovviamente il Governo.
Quando Salvini voleva chiudere tutto (prima del coronavirus). Ad esempio il 21 febbraio Salvini invitava ad ascoltare medici e scienziati che a suo dire avvertivano del pericolo imminente dell’arrivo di Covid-19 in Italia sui barconi. Ragion per cui il capo del Carroccio chiese di chiudere, sigillare i confini facendo “controlli ferrei” su quelli che entravano nel nostro Paese. Pochi giorni dopo sarebbero stati individuati in primi casi di trasmissione locale di coronavirus. Non nei centri di accoglienza dei migranti ma in Lombardia. Ma ancora il 24 febbraio Salvini scriveva su Twitter: «non è il momento delle mezze misure: servono provvedimenti radicali, serve l’ascolto dei virologi e degli scienziati, servono trasparenza, verità e un’informazione corretta, servono controlli ferrei ai confini su chi entra nel nostro Paese». Peccato che i virologi chiedessero altro: isolamento volontario e un invito ai cittadini italiani (non ai migranti) di evitare assembramenti e limitare i contatti sociali.
Quando Salvini voleva riaprire tutto (dopo il coronavirus). È durata poco la ferrea fermezza della Lega. Il 27 febbraio Salvini annunciava durante una diretta Facebook: «l’Italia riparte. Alla faccia di chi se la prende con medici, infermieri, governatori e sindaci, saranno ancora una volta cittadini, famiglie e imprese a salvare questo splendido Paese». Niente blocchi, chiusure o zone rosse. Per il senatore leghista le proposte da fare e le misure da adottare erano altre: «chiediamo al governo di accelerare, riaprire, aiutare, sostenere. La Lega ha presentato decine di proposte. Accelerare, riaprire, ripartire». Questo in barba a quello che dicevano medici e scienziati, che Salvini ascolta solo quando dicono qualcosa che gli può essere utile politicamente. Sempre il 27 febbraio Salvini invitava a comprare italiano e a «stare in vacanza in Italia». Un appello rivolto non solo agli italiani ma anche ai turisti stranieri. Quello che voleva chiudere e sigillare i confini diventa così un moderno emulo di Rutelli nel suo famoso spot please visit Italy: «l’Italia è il paese più bello del mondo, veniteci. E poi andiamo a ricordare che venire a fare turismo in Italia è bello, sano e sicuro. Per responsabilità di qualcuno sembra che fare la settimana bianca in Trentino in Piemonte in Val d’Aosta, andare a visitare la splendida Venezia, venire a visitare i bronzi di Riace, andare in terra di Sicilia o in terra di Sardegna sia pericoloso, no no no». Insomma Salvini non solo invitava gli italiani ad andarsene in giro in vacanza ma diceva che era perfettamente sicuro e sano farlo anche per gli stranieri e che non c’era alcun pericolo. E se i turisti potevano magari pensare che c’era un problema di salute pubblica o un’epidemia in corso così era per colpa “di qualcuno” (il governo? i virologi?) che lasciava intendere il contrario. «Vorremmo che riaprissero musei, negozi, discoteche e bar» concludeva Salvini. Un concetto ribadito anche il 29 febbraio durante un’intervista mandata in onda da Porta a Porta dove Salvini disse: «il mondo deve sapere che venire in Italia è sicuro, perché siamo un Paese bello, sano e accogliente, altro che “lazzaretto d’Europa”, come qualcuno sta cercando di farci passare». Oggi i casi di persone positive al coronavirus in Italia sono 8.514. I decessi 631. Ma Salvini non ce l’ha mica solo con i turisti. In un altro tweet se la prende con la proposta di rinviare Juventus-Inter a maggio. Che senso ha?? si chiede, «porte aperte o porte chiuse, per me si doveva giocare e offrire agli italiani qualche ora di serenità e al mondo un’immagine di tranquillità». La stessa che non offriva lui nell’intervista a El Pais.
Sorpresa: Salvini ha cambiato idea di nuovo. Ad un certo punto però cambia tutto. Il numero di casi positivi, di ricoverati e di decessi continua a salire. Il Governo istituisce prima una “zona arancione” in tre regioni del Nord Italia e successivamente tutta l’Italia diventa “zona protetta”. Salvini fiuta il vento e propone misure ancora più radicali. Dopo l’incontro con il Governo annuncia dispiaciuto: «Amici, esco preoccupato dall’incontro col governo. Abbiamo chiesto misure forti, drastiche, subito: chiudere tutto adesso per ripartire sani. Fermi tutti! Per i giorni necessari, mettiamo in sicurezza la salute di 60 milioni di italiani. Chiudere, prima che sia tardi». Qualcuno a questo punto potrebbe sospettare che il vocabolario di Salvini contenga unicamente due parole “chiudere” e “riaprire” da usare alla bisogna. Eppure il confronto di meno di poco più di 15 giorni di dichiarazioni sul coronavirus mette in luce come anche sapendo due sole parole il fatto di usarle a caso non produce risultati credibili. Anche perché lo steso Salvini che invita a chiudere tutto prima che sia troppo tardi è lo stesso che continua a dire che mai come in questi giorni bisogna mangiare italiano «viaggiare italiano, turismo italiano». Il che è abbastanza curioso se pensate che già ora il Governo ha invitato tutti gli italiani ad evitare tutti gli spostamenti non necessari, che le località sciistiche hanno già chiuso gli impianti e che lui stesso chiede di “chiudere tutto” o di chiudersi in casa. Ma il nostro guarda già avanti, non si ferma perché ora è il momento di rilanciare. In un’intervista al Corriere della Sera chiede addirittura di fare di tutta l’Europa una zona rossa. Non tanto per impedire la circolazione del coronavirus quanto per scongiurare quella che secondo lui è una guerra commerciale nei confronti dell’Italia. A questo punto il dubbio è legittimo: cosa ha capito Salvini del coronavirus e delle misure di contenimento dell’epidemia?
Zaia uno e trino: prima rosso, poi no, ora rossissimo. Ecco le diverse posizioni del governatore del Veneto nel giro di 48 ore: carta canta. Alessio Mannino su Vvox il 10 Marzo 2020.
Luca Zaia, 5 marzo, Il Gazzettino: «Non me ne voglia Vo’, che deve avere la priorità nelle linee di finanziamento, ma anche Rocca Pietore ha disdette, quindi per noi la zona rossa si chiama Veneto».
Luca Zaia, 8 marzo, lettera al «pregiatissimo professor avvocato Giuseppe Conte»: la situazione «è al momento sotto controllo» e che il decreto che oltre alla Lombardia e fra le le Province in “zona rossa” include quelle di Venezia, Padova e Treviso «va riscritto stralciando le province venete» (Corriere della Sera, 9 marzo).
Luca Zaia, 8 marzo, Rtl 102.5: «Noi continuiamo a dire che vogliamo che le nostre tre province escano da questa idea di zona rossa, rispettiamo le regole però non vogliamo avere tre province dentro sulla base di quella classificazione. Ricordo che il Veneto ha 658 persone positive, molte delle quali asintomatiche, 47 persone in terapia intensiva, non abbiamo le caratteristiche per essere zona rossa. Non lo dico per un fatto di vanto ma perché i dati ci dicono che la provincia di Treviso ha un cluster tutto ospedaliero, cioè una signora, per altro deceduta, ha contagiato un reparto con degli ospedalieri che sono stati velocemente isolati. Molti sono asintomatici, passeranno la quarantena dei 15 giorni e finisce lì».
Luca Zaia, 9 marzo, Ansa, sul decreto della serata di ieri che estende al territorio nazionale le misure varate la notte del giorno prima: «Ben venga questa misura del governo, che ho sempre auspicato in tempi non sospetti. Il criterio di lotta ad un virus sarebbe insostenibile con restrizioni a macchia di leopardo, coma fatto finora. I virus non conoscono confini territoriali e abbiamo l’obbligo di difendere la salute dei cittadini».
Luca Zaia, 9 marzo, Il Mattino: «Il caso non si è mai aperto né chiuso. Ho detto solo che il Dpmc prevede il parere delle Regioni e sabato notte non c’è stato il tempo per una consultazione dettagliata. Il collegamento con Palazzo Chigi è durato fino alle 2 di notte e in mezz’ora siamo stati messi di fronte al fatto compiuto. Ho solo voluto sapere su quale base scientifica è stata firmata l’ordinanza restrittiva per la Lombardia e le altre 14 province. Ho chiesto di valutare bene i tre cluster di Padova, Venezia e Treviso perché i nostri consulenti scientifici dicono che la situazione è sotto controllo. Siamo stati i primi a creare l’isolamento fiduciario e tutti hanno seguito lo stesso iter. Io vivo nel Trevigiano, nella zona arancione, e i bar hanno chiuso alle 6 del pomeriggio, con il massimo rispetto dell’ordinanza. I veneti sono gente seria, che rispetta le leggi».
Luca Zaia, 10 marzo, conferenza stampa odierna: «Piuttosto che protrarre un’agonia che dura mesi, credo sia meglio arrivare a una chiusura totale, così da bloccare definitivamente il contagio. E’ una linea di pensiero che sta girando e penso che se ne parlerà anche oggi, perchè è fondamentale isolare il virus, e più rallentiamo la velocità di contagio e più respiro diamo alle nostre strutture sanitarie».
Se non siamo diventati tutti deficienti tranne l’autore di queste dichiarazioni, il presidente leghista della Regione Veneto nell’arco di soli due giorni, complice l’accelerazione di Palazzo Chigi, ha cambiato idea tre volte: lo Zaia di sabato notte chiedeva lo stralcio delle tre Province incluse nel decreto dell’8 marzo, giustamente protestando per le modalità ma avendo torto marcio nel disorientare i cittadini scontrandosi con il governo centrale in queste ore drammatiche, ben sapendo che Conte non poteva far marcia indietro; lo Zaia del lunedì nega l’evidenza, rifacendosi allo Zaia del 5 marzo che voleva l’intero Veneto in “rosso”, ma scavalcato nel frattempo in rigore draconiano dal leader del suo partito, Matteo Salvini, e anche dal collega governatore del Friuli, Massimiliano Fedriga, che l’hanno battuto sul tempo chiedendo l’estensione a tutto il Paese. Oggi sembra voler recuperare il terreno e si accoda all’omologo lombardo, l’altrettanto leghista Attilio Fontana che al contrario suo aveva giudicato il decreto governativo ancora troppo blando. Sarà bene che i cittadini mantengano la calma. Perchè ai vertici delle istituzioni, a Roma ma anche in Veneto, non pare essercene molta.
Coronavirus, Fontana: dalle critiche alla zona rossa al «chiudiamo tutto». In una prima fase il presidente della Regione era a favore di misure meno stringenti, ma negli ultimi giorni, anche con l’aggravarsi della situazione, ha messo in evidenza la necessità di adottare soluzioni più dure. An.C. il 10 marzo 2020 su Il Sole 24ore. Una girandola di dichiarazioni che hanno preceduto e accompagnato la decisione del Governo di fare dell’Italia un’unica zona rossa per arginare la diffusione. Toni che sono passati dalla richiesta di non mettere in campo soluzioni drastiche che potessero mettere in ginocchio le aziende, già di per sé alle prese con un calo degli ordinativi, a quella di ricorrere a misure ancora più rigide. È il quadro che emerge ripercorrendo le dichiarazioni e gli interventi del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Una volta appurato che una sua collaboratrice era risultata positiva ai controlli, e nonostante si fosse sottoposto al tampone con esito negativo, il Governatore leghista si è posto in auto-isolamento.
Fontana: chiudere negozi, uffici e trasporti. Tutti i «12 sindaci della Lombardia - ha detto il Governatore in un’intervista a SkyTg24 - mi hanno incaricato di rivolgermi al governo per chiedere un ulteriore irrigidimento delle misure». Secondo Fontana, in particolare, si dovrebbero «chiudere le attività commerciali» non essenziali e «il trasporto pubblico locale e quelle attività imprenditoriali che possono essere chiuse». Soluzioni molto stringenti che possono essere giustificate dal fatto che la sanità lombarda si sta attrezzando per nuovi letti di terapia intensiva ma «stiamo arrivando ai limiti massimi».
Il Coronavirus è poco più di una banale influenza. La posizione di Fontana è cambiata nella sostanza, anche in relazione all’aggravarsi della situazione che con il passare dei giorni ha avuto un impatto via via più duro sul sistema sanitario. Il 24 febbraio il Governatore spiegava che «l’allargamento della zona rossa per il momento non viene preso in considerazione, non penso ci siano le condizioni». «Cerchiamo di sdrammatizzare - affermava il giorno successivo in un intervento al Consiglio regionale - è una situazione senz’altro difficile, ma non così tanto pericolosa: il virus è molto aggressivo nella diffusione ma molto meno nelle conseguenze. È poco più di una normale influenza e questo lo dicono i tecnici». «Bisogna far capire ai cittadini - aggiungeva davanti alle telecamere di Porta a Porta - che si può continuare a vivere, nonostante il Coronavirus, anche se con delle cautele e qualche piccola rinuncia». Ma con l’aggravarsi della situazione la linea è cambiata, come dimostrano le ultime dichiarazioni. Anche perché oggi non è solo la Lombardia a dover fronteggiare una situazione di emergenza, ma l’Italia tutta.
Coronavirus: dal "Milano non si ferma" al "rimanete a casa". Ora Sala taccia. Gianni De Felice su Affari Italiani Lunedì, 9 marzo 2020. L'appello di Sala arriva dopo l'atteggiamento, forse troppo incauto delle settimane precedenti, è polemica. Dalla maglietta "Milano non si ferma" alla richiesta di modificare gli stili di vita, l'appello del sindaco Sala, muove diverse polemiche. Egregio signor sindaco Sala, Le confesso il mio rammarico di dover indirizzarLe queste poche righe, perché Lei in fondo è una persona gentile. Ma, per rispetto dei cittadini milanesi, qualcuno deve pur farlo. Lei stamane si è lasciato intervistare da un ottimo cronista specializzato sul giornale ormai quasi di famiglia, il Corriere della Sera. La redazione ha titolato così la Sua intervista su 9 colonne di apertura a pagina 5: “L’appello di Sala scuote i milanesi: ‘ Rimanete in casa il più possibile’”. Purtroppo, il suo non è un appello ma al massimo un invito: inutile, ovvio, ripetutissimo, dunque tardivo. In ogni caso le sue parole in merito alla epidemia dilagante non “scuotono” proprio nessuno. Anzi, non possono essere nemmeno credibili a causa di un atteggiamento ondivago a contraddittorio, frutto del Suo ambizioso pragmatismo manifestato tanto nella vita pubblica, quanto in quella privata. Lei, signor sindaco, è andato a mangiare nei ristoranti cinesi di via Paolo Sarpi per dimostrare che il virus che faceva morti a Wuhan era una bufala razzista e xenòfoba, montata per insidiare gli interessi dell’antica e operosa comunità orientale di Milano. Dopo qualche settimana, quando il coronavirus si è presentato all’uscio di casa di centinaia di milanesi e ai cancelli dell’ospedale anti-infettivo Sacco, Lei ha nutrito la presuntuosa illusione di contrapporgli le foto del Suo torace con la T-shirt “Milano non si ferma”. Una follìa, in stile Ventennio, non concessa a chi ha responsabilità di primo cittadino. Una porta sbattuta in faccia agli scienziati che avevano già chiaro lo scenario che stava per spalancarsi davanti. Ora, con migliaia di cittadini che scappano nottetempo dalla città che Lei amministra, se ne esce con un improbabile contrordine: “Rimanete in casa il più possibile”. E il Corriere della Sera, fedele e ossequioso foglio quasi di famiglia, pensa davvero che questa ennesima disinvolta piroetta “scuota” i milanesi? Signor sindaco Sala, dopo così clamorosi e fuorvianti scivoloni, cominciati con “mangiamo cinese”, proseguiti con “Milano non si ferma” e finiti con la bandiera bianca del “rimanete a casa”, qualcuno deve pur suggerirLe pubblicamente di tacere e scendere dalla scena dell’epidemia. Ha già generato troppa pericolosa confusione. Mi perdoni la franchezza, che per un giornalista indipendente è sempre il principale e più utile ferro del mestiere.
· Giri e Giravolte della stampa.
Da liberoquotidiano.it il 26 marzo 2020. Andrea Scanzi, nonostante i numeri elevati di decessi, ha anche il coraggio di dire: "Questa non è una malattia mortale, porca di una puttana, troia ladra". Un esordio, quello della firma del Fatto Quotidiano, che fa indignare e non poco. "Cosa state a casa? Pensate che si va in guerra? Con il coronavirus non succede una sega nel 99,7 o 8 per cento". E ancora, Scanzi paragona il tasso di letalità della nuova epidemia a una banale influenza: "Perché vi viene un piccolo cazzo di raffreddore vi preoccupate? Avete bisogno della Nutella per sopravvivere alla quarantena". Ma le imbarazzanti parole del giornalista proseguono come un fiume in piena: "Sono incazzato nero con la deficienza dei giornalisti che vanno in giro con amuchina e mascherina. Non è una pandemia. Mi sono visto annullare tutte le date a teatro". Poi la conclusione, uno schiaffo alle molte vittime: "Continuate a uscire, a scopare, a venire a teatro".
Scanzi diceva: “Siete deficienti: il coronavirus è innocuo”. Oggi pontifica in tv. Marta Lima de Il Secolo d'Italia giovedì 26 marzo 2020. Guardate questo video. E’ del 25 febbraio scorso. Un “Fonzie” col giubbotto nero di pelle, dal nome Andrea Scanzi, se ne va in giro in moto per le campagne a pontificare sul coronavirus. Negando che esista, definendo deficienti quelli che si preoccupano, insultando i giornalisti che lanciano l’allarme, lodando Conte per la sua calma. E dipingendo come “ridicoli” quelli che indossano la mascherina. “E’ una normale influenza, non uccide più di una influenza”. Un video che oggi, a guardarlo, fa venire i brividi. In effetti, il giornalista del Fatto Quotidiano, si era sbagliato, e di grosso. Come tanta altra gente. Ma lui, ancora oggi, impazza in tv, pontifica, fa il fenomeno, sfotte chi sottovalutava il problema, chi si permette di criticare gli scienziati e il governo. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Incredibile, ma vero. Andrea Scanzi oggi parla di sottovalutazione del fenomeno coronavirus. “Torneremo alla realtà quando potremo andare di nuovo ad eventi di massa. E non sarà a giugno, è stato annullato il concerto di Nick Mason del 26 giugno a Lucca. Scellerato far giocare Atalanta Valencia”. Poi critica Sgarbi, che come lui negava il fenomeno durante una lite col virologo Fabrizio Pregliasco a “Non è l’arena” o con Burioni.
Da Scanzi critiche ma non autocritiche. “Ormai siamo al rovesciamento di ruoli. Abbiamo anche Salvini che fa post cannoneggianti, dove dice: ‘Finalmente ci hanno dato retta’. In realtà, nessuno ha dato retta a Salvini, anche perché lui il 27 febbraio diceva di riaprire tutto. Salvini è uno che dice tutto e l’esatto contrario. Questo, invece, è il momento in cui tutto il Paese, ma anche tutta la politica, dovrebbe fare squadra una diavolo di volta. Non lo sta facendo. E non mi sembra che il responsabile sia Giuseppe Conte. Mi sembra invece che i responsabili siano, da una parte, quelli dell’opposizione, che continuano a tirare pesci in faccia a Conte, e dall’altra parte, sebbene mi dolga dirlo, anche parte degli italiani”. Lui no, Andrea Scanzi aveva capito tutto: “Siete deficienti…”. E’ la stampa italiana, bellezza.
Dagospia il 27 marzo 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Andrea Scanzi: Caro Dago, Mi fa molto ridere (sì, ridere) che negli ultimi giorni la destra più sottosviluppata, quel che resta del tragicomico renzismo e i “giornalisti” più dissestati abbiano ritirato fuori la mia diretta del 25 febbraio, di cui già tante volte avevo parlato e per la quale miliardi di volte ho già chiesto scusa (per le parti sbagliate o decisamente poco profetiche). Oltretutto sta girando un video tagliato in maniera criminale, e i titoli che lo accompagnano sono comicamente diffamanti e falsi. Poraccitudine allo stato brado. La verità é che nessuno oggi potrebbe attaccarmi, perché tutti (o quasi) a febbraio dicevano e pensavano quelle cose lì. A partire da Salvini (il 27 febbraio, due giorni dopo il mio video), e il fatto che ora gli ultrà Salviniani mi insultino con toni da minorati eunuchi dimostra che per essere salviniani non serve essere idioti, ma per essere ultrà salviniani è proprio un requisito basilare. Non possono attaccarmi (e infatti non lo fanno) Sala, Zingaretti, Gori, Zaia, Fontana, Gismondo, Carofiglio, Crepet, Cacciari, Giletti, Cecchi Paone, Galli, Trump, Johnson (ops), Macron, Bolsonaro. Eccetera eccetera eccetera. Ci siamo cascati tutti. Soprattutto: fare polemiche sulla sottovalutazione (di tutti), oggi, a che serve? Immagino solo a vendicarsi di un avversario. Che dire? Beati coloro che, di questi tempi, trovano la voglia di impegnarsi in simili attività malamente masturbatorie. Confesso però di essere sollevato: se gli attacchi arrivano dall’uomo che sussurrava al mononeurone e dice cose giuste solo quando lo imita Marcoré (gasparri), l’ape regina che non ce l’ha fatta (tal sardone), lo sciacallo démodé pettinato coi petardi che insultava Nadia Toffa perché osava parlare di cancro (filippofacci) e l’omofobo quasi-squadrista che definiva i meno abbienti “stock di poveri” (pelattin), direi che mi è andata bene. Anzi benissimo. Se gli attacchi arrivano da gente così, mi viene quasi voglia di rivalutare quel mio video del 25 febbraio, così pieno di speranze frustrate (purtroppo) e cazzate inaudite (innegabilmente). Vorrà dire che, con certi giuggioloni di quarta fila, d’ora in poi sarò ancora più duro. Per capire il clima di febbraio e avere un minimo di onestà intellettuale, basterebbe risentire cosa dicevano all’epoca il ministro della Salute (peraltro bravo) Speranza e l’intoccabile Burioni. Sì: Burioni. Quello che oggi dicono: “Eh, lui sì che aveva previsto tutto!”. Ma col cazzo, Dago. Col cazzo. A febbraio Burioni andò da Fazio e disse: “Rischi per l’Italia? ZERO”. E poi su Twitter: “Preoccupatevi più del meteorite che del virus”. Io ho creduto a esperti così, come immagino tutti. E ho fatto male. I primi a non capirci nulla sono stati proprio loro. PURTROPPO abbiamo sbagliato quasi tutti. Io di sicuro. E mi spiace tanto che sia accaduto: non per le critiche ricevute (stica), ma perché un incubo così era difficile da immaginare. Così come da vivere. Alla prossima. Andrea Scanzi